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Anno 1 numero 1
Iscritto al Registro della stampa
del tribunale di Lecce il
15.01.2004 al n. 844
Direttore responsabile
Dario Quarta
Collettivo redazionale
Osvaldo Piliego, Dario
Goffredo e Pierpaolo Lala
Progetto grafico e
impaginazione
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Associazione Culturale
CoolClub
Redazione Via De Jacobis 42
73100 Lecce
telefono: 0832 303707
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Copertino
Cercando casa
Fra destra e sinistra delle colonne del giornale, gialle le pagine, come di ogni elenco che si
rispetti, corre l’occhio ormai esperto, pronto e sveglio a cogliere l’annuncio che è proprio
quello che stavi aspettando. Il telefono bolle e assai caro rischia di essere il conto se non sei
fortunato. Almeno tre settimane, ma cercando davvero, con impegno come fosse un lavoro,
ti dice l’amico che anche lui ha cercato casa poco tempo fa. Fortunato, l’amico, lui ha
trovato proprio quello che cercava, due stanze più cucina, un piccolo gioiellino nel centro
pieno. Ma, a ben guardare dice l’amico, in fondo cercando un po’ meglio forse di meglio
trovavo. Ma accontentarsi è importante. E cerchi cerchi. Vedi le case.
La prima è da scartare quasi sempre, se non sei Gastone Paperone, il cugino dello sfortunato
Paperino. La prima è un due stanze ricavate in un sottoscala, gialli i muri per l’umido, e quel
quadro che ricorda, ma solo per vaga tristezza las meninas. La cucina è in corridoio e affaccia
sulla camera da letto. Come non detto niente da fare. Neanche il prezzo è davvero notevole.
E dopo che ridi un pochino e un pochino bestemmi, di nuovo sei pronto a sfogliare l’elenco
di case in affitto. Una la scarti perché troppo grande, un’altra perché troppo cara, quella
carina ma fuori mano, se proprio non trovi di meglio.E poi d’improvviso sembra che tutti
abbiano una casa giusta per te. E cominci a girare. Domenica mattina alle 9 da un lato alle
9 e 30 dall’altro della città. Rincorri padroni tra tappeti consunti e poltrone improbabili.
Entri straniero nelle vite di giovani coppie senza figli – così ti presenti anche tu per fare colpo
– giovani, non sposati, entrambi impiegati, ben referenziati, nessuno ti dice di no. E già questa
è una bella fortuna.
Cercare casa, alle volte è un poco spiazzante. Cambiare abitudini, lasciare gli amici con cui
da anni vivevi. E come quando il tuo quotidiano rischia di chiudere perché non c’ha soldi e
vorresti davvero dare una mano di più. Quotidiano comunista ma ancora per poco quotidiano.
Cercare casa è come attraversare un ponte a occhi chiusi e soffri pure vertigini. Cercare casa
è come una canzone che non ti aspettavi: un poco ti piace un poco ti annoia, ma alla fine,
chissà, magari è bella davvero.
Una è carina davvero, accettabile il prezzo, onesto, quattro vani più accessori dice l’annuncio,
e c’è pure il camino per le, rare, sere di neve. Ma è il padrone stavolta ad essere strano sul
serio. Lasci perdere ormai convinto che non molto può mancare.
E quando la vedi sai già che è quella di certo. Per le case, peccato, non c’è periodo di prova,
non è come al lavoro, non torni indietro: è quella e te la tieni. E quando decidi di prenderla
devi essere serio e convinto. Indietro non torni. Ma quando la vedi sai già che è quella di
certo. Non sbaglio ti dici se la prendo subito. E subito la prendi. Ottima scelta ti dici. Piccola
ma ben organizzata, stavolta va bene.
E cambi casa. Cambiare casa è decisamente spiazzante. Ti si apre davanti un nuovo orizzonte.
La casa in fondo è la vita.
Il dubbio rimane ma forse per poco, pensi a quello che avevi e quello che avrai. Sistemi gli
oggetti, i libri per primi, poi tazze e piattini. Inviti gli amici a cenare: oggi la pizza ancora è un
casino scusate.
Ed ecco che piano ma non troppo la casa prende i tuoi odori, i tuoi tempi, i tuoi ritmi. Sistemi
le luci, fai i primi lavori: roba da poco ma meglio di niente.
Cambiare casa non è male. Guardo te che subito rassetti appena mangiato, dai rimani con
me ti dico, ma dopo rispondi correndo e dicendo la casa è sporca bisogna pulirla.
Accendo il pc, accendo la musica, continuo a guardarti e ti scrivo che sì.
dario goffredo
CoolClub.it
Anche questo mese esce Coolclub.it, ma questo è un mese speciale, dopo quasi un anno quello che era nato
come un flyer gigante, un semplice contenitore di eventi e deliri autoreferenziali, diventa un giornale a tutti gli
effetti. Quello che era nato come un foglio di sole quattro pagine oggi ne ha sedici, quello che era un veicolo
per pochi incoscienti oggi è uno spazio dove sempre più persone trovano un posto. Da oggi Coolclub.it ha un
editore, un direttore e i suoi collaboratori. E c’è entusiasmo a dare voce a quello di cui solitamente non si parla
o poco. Con l’imperativo costante di non prendersi mai sul serio abbiamo cercato e cercheremo di parlare di
un altro Salento e in modo diverso di dischi, libri, cinema e altro. Da questo mese un altro giornale si unisce alle
tante pubblicazioni, da questo mese c’è un nuovo giornale. Ma c’è anche un giornale che non c’è più, un
giornale sparito nel silenzio. Se oggi esiste Coolclub.it il merito o la colpa è anche di alcune persone, poche in
realtà, che mi hanno fatto amare questo lavoro o meglio mi hanno fatto capire e imparare tante cose. Persone
che ho amato e a volte odiato come dei genitori, uomini e ragazzi che mi hanno fatto assaporare il piacere e
l’amarezza che si nasconde dietro le passioni. Un microcosmo che mi ha illuminato sui meccanismi a volte crudeli
della realtà più grande e sulle grandi e piccole soddisfazioni che lo scrivere può dare. Grazie a loro ho capito
di essere un sognatore con un cassetto grande grande e ho capito anche come il potere logora le cose sincere
e belle che ci sono, perché dietro a una penna o una tastiera c’è sempre una persona e dietro una persona
idee e valori. Chi come me scrive in queste pagine non ha nessuna pretesa, non vuole fare politica, non vuole
imporre i suoi gusti o quelli di qualcuno, non vuole altro che esercitare quello che anche se è un diritto a volte
viene accantonato per lasciare spazio ad altro. Parlo della libertà di poter scrivere di ciò che si ama e si odia e
di volerlo far leggere agli altri. Coolclub.it nasce con il desiderio di crescere e di arrivare a più persone possibili,
come un giornale gratuito perché non vuole fare commercio ma informazione e anche perché probabilmente
non lo comprerebbe nessuno. Questo mese mi sono imposto di essere professionale e quindi concludo con i
ringraziamenti di rito. Grazie a Dario e non solo per quello che mi ha dato in queste pagine, grazie a Paola senza
il cui magico aiuto tutto questo non sarebbe così bello e perché ha reso felice una persona speciale. E poi grazie
al presidente Cicci e alla sua lisergica lucidità che fa sembrare tutto divertente e serio come una partita a Risiko,
grazie a Pierpaolo e alla sua ventata di allegria, instancabile dedizione e logorrea, a Vale e alla sua amorevole
assistenza e al suo grande cuore, a tutti quelli che ogni giorno si aggirano tra le scrivanie di Coolclub, a tutti quelli
che hanno scritto e scriveranno in queste pagine, grazie ad Adolfo per tutto quello che ha provato a insegnarmi,
a Gigi perché è sempre e comunque doveroso. E grazie a chi ci legge e ci ha fatto credere che tutto questo
in qualche modo ha un senso.
Osvaldo
Un giornale coi baffi
“In India, i poliziotti che si
lasceranno crescere i baffi
riceveranno un extra di 56
centesimi nello stipendio mensile.
Secondo il responsabile della
polizia dello stato di Madhya
Pradesh, i baffi conferiscono
autorità agli agenti che vengono
presi in maggior considerazione”.
Accolta con stupore questa
notizia pescata da qualche
parte nell’etere, ho purtroppo
dovuto constatare, pensando di
metterla in pratica, che al “mio”
collettivo di redazione le usanze
indiane,a meno che non
riguardino altro tipo di... pratiche,
non interessano assolutamente.
Al mio nuovo incarico e alla mia
carica di Primo Direttore
dell’Ufficialmente Registrato
CoolClub.it, ho infatti cercato di
abbinare l’autorità conferitami
dai miei mustacchi, se non per
ottenere i 56 centesimi di euro al
mese, almeno per riuscire a
scrivere un editoriale degno e
autorevole; cosa invece
tassativamente, benché
simpaticamente, vietatami sia dalla proprietà del giornale che dall’intero collettivo (tutti senza baffi).
Così, un po’ mesto ma orgoglioso, con gillette e schiuma da barba in mano, mi limito, dopo proficue preghiere e suppliche
nei confronti del benevolo nucleo redazionale, ad accontentarmi e (quindi) a godere del mio piccolo spazio in pagina,
per dare un breve e discreto saluto ai lettori e alle lettrici (a voi, pure, i miei... abbracci). Con un po’ di rammarico però,
per non aver potuto raccontare le emozioni di una mattinata in tribunale, della cartellina (vuota) in pelle di Osvaldo utilizzata
per l’occasione, delle tenere esternazioni di affetto manifestate da Pierpaolo all’uscita prima su un succo di frutta e poi su
un copioso aperitivo. Saluti, baci e quant’altro.
Firmato:
Primo Direttore di CoolClub.it ufficialmente registrato.
Dario Quarta
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Caffé Letterario
mercoledì 4 dicembre
Pleo
- Lecce
Serata speciale al Caffè Letterario con sound
& vision for the club, questa settimana ospite
d’eccezione Pleo, al secolo Pierpaolo Leo.
Pierpaolo Leo comincia la sua attività di
musicista elettronico nel ’97 con il gruppo di
rock-avanguardia Les Enfantes Rouges creando
sonorità granulari e aritmiche per i loro live-set.
Nell'anno successivo concretizza il primo lavoro
solista, "Dyn-Aphonic", ispirato alle esperienze
canadesi sulle mappature sonore.
Dopo una serie fitta di collaborazioni realizza
nel 2001 l’album Before Breakin' pubblicato
dalla fiorentina Audioglobe Records in mp3.
Sempre con l'Enfance Rouge registra nello
stesso periodo il loro nuovo disco "RostockNamur", curando in particolare le tracce di
musica concreta.
Oggi è uno dei nomi più importanti della “nuova
elettronica” in Italia, conosciuto anche per i
concerti nei quali vi è l’interazione tra suono e
immagine.
In quest’occasione Pleo selezionerà per voi la
sua musica ma anche i suoi ascolti in un
susseguirsi di sperimentazione e ascolto più
easy...una serata da non perdere.
venerdì 6 febbraio
Piaccainocchio
Cinema Elio - Calimera
Primo appuntamento per la sezione Prova
D’Autore della rassegna teatrale Meta-Scena
del Nuovo Cinema Elio di Calimera. Sul palco
Roberto Corradino presenta il suo sventramento
scenico dal titolo impronunciabile
“Piaccainocchio”. Una “cosa di teatro” - concerto
mentale, monologo o flusso di ipercoscienza pensata e costruita, prima che Collodi scrivesse
il suo libretto di disinformazione pedagogica, o
dopo che Collodi/Lorenzini lo scrivesse,
abbandonando all’adultità-carne-ragazzo il
burattino-guaio. Una rilettura del famoso libro in
cui Il problema di Piaccainocchio è Dio.
Ingresso 7 euro.
Info www.coopkama.com
telefono 0832875283
mercoledì 11 febbraio
Sonic the tonic
Caffé Letterario - Lecce
Il nuovo appuntamento con la musica
dei dj di Cool Club, un’ altro mercoledì in
musica con le selezioni di Sonic the Tonic.
I generi selezionati saranno il soul, il r&b,
i classici degli anni 60, le tappe
fondamentali della storia del rock e le
nuove uscite discografiche. Il dj che ha
fatto ballare il Salento con la sua mitica
Ska in town sceglie di suonare per voi i
suoi dischi preferiti, i suoi amori musicali
di ieri e di oggi, se non vuoi ascoltare la
solita musica, scegli il Caffè Letterario,
scegli sound & vision for the club. Start
ore: 22:00 (ingresso libero)
12-13-14-15 febbraio
Emergenza
Istanbul Cafè - Squinzano
EMERGENZA è il più grande contest musicale
europeo. Un festival al quale possono
partecipare gruppi di ogni genere e
tendenza. Il festival permette alle bands che
non hanno ancora trovato un canale
promozionale di conquistare uno spazio nel
panorama europeo attraverso le produzioni
discografiche e la realizzazione di concerti
dal vivo sui più importanti palchi internazionali.
In 12 PAESI EUROPEI, negli U.S.A ed in CANADA
oltre 4000 BANDS avranno la possibilità di
salire sui palchi dei clubs più famosi per esibirsi
dal vivo. I migliori 24 GRUPPI parteciperanno
alla FINALE EUROPEA DI ROTHENBURG in
Germania. Quattro giorni per la seconda fase
delle selezioni all’Istanbul Cafè per il Salento.
venerdì 6 febbraio
Oisin
giovedì 5 febbraio
Le Loup Garou
Mata Hari - Cutrofiano
Tornano nel Salento Le Loup Garou, il gruppo che si è messo
sempre in mostra per la sua originalità artistica. La stampa
li descrive come un miracolo. I quattro musicisti provenienti
da mezza Europa danno vita ad uno show emozionante e
drammatico, irrazionale e coinvolgete, un antico rito tribale
nello spirito del lupo. La lingua dei testi spazia dal francese
allo spagnolo, dall’inglese al tedesco, dal finlandese
all’italiano e al latino. Con un cammino artistico alle spalle
che ha inizio nel lontano 1986, dopo varie vicissitudini, e
sconfinamenti in progetti musicali e teatrali , Le Loup Garou
tornano in studio nel 2003 per realizzare il loro nuovo lavoro
uscito in ottobre che vede la collaborazione di artisti del
calibro di Roy Paci e Cristiano della Monica. Inizio ore 22.00,
ingresso libero.
Istanbul Cafè - Squinzano
sabato 7 febbraio
Il febbraio dell’Istanbul Cafè si apre con le sonorità pop-rock ed elettroniche dei brindisini
Oisin. Chitarre sempre in evidenza, un gradevole uso delle doppie voci ed ipnotici groove
ritmici: una sintesi che il gruppo porta in giro sin dal 1991. Recentemente hanno pubblicato
un mini cd “Gracile”. Gli Oisin si sono fatti apprezzare in giro per l’Italia partecipando a vari
festival tra cui Alterfesta 1996, Rock Targato Italia ’97 e ’99 e Arezzo Wave ’99 e 2001.
Candle - Lecce
sabato 7 febbraio
Coolnite
Dj war
Istanbul Cafè - Squinzano
Dj War. Nel Salento il reggae è
una realtà radicata sul territorio
e le Dance Hall sono grandi
momenti di aggregazione e
divertimento. Con più di 20 anni
di attività, dj War è da
considerare sicuramente tra i
padri fondatori dell’attuale
scena musicale (REGGAE - HIP
HOP E JUNGLE/DRUM’BASS ) e
della Cultura del SOUND
SYSTEM in ITALIA, una figura
importantissima per chi si
avvicina a questo mondo, uno
di quelli che ha cambiato le
cose perché le ha fatte.
L’uomo che ha reso il reggae
la colonna sonora della nostre
estati in spiaggia, delle nostre
serate tra amici, una vera e
propria parte della cultura
giovanile salentina.
Chlorò - Calimera
Non vi accalcate in attesa di belle
ragazze semi (o totalmente) nude. Il nome
potrebbe trarre in inganno. Le Pornoriviste
nascono nel 1994 e suonano un punk rock
molto aggressivo, ma sono formate da
ragazzi, tenete a mente, solo ragazzi. Il
nome è nato per caso in un autogrill forse
nel corso di un brainstorming alla ricerca
del colpo ad effetto. Dopo alcuni demo
e quattro cd nel 2003 è uscito il loro ultimo
lavoro “Tensione 16”, pubblicato con la
Tube Records, che segna la definita
maturazione artistica del quartetto.
L’appuntamento con il gruppo dal nome
indimenticabile è al Chlorò di Calimera.
Inizio ore 22.30.
Pornoriviste
venerdì 13 febbraio
Sabato è una grande festa per Coolclub.
Sabato coolclub presenta ufficialmente
questa zine. E come tutte le nascite va
festeggiata. Triplo concerto e doppia
presentazione. Oltre alla zine sarà presentato
il neonato booking di Coolclub con tre delle
sue proposte. Sul Palco del Candle
StudioDavoli, Psychosun e Insintesi live. E poi
ancora musica con i Dj di Coolclub
Da non perdere.
giovedì 12 febbraio
Ratti della Sabina
Mata Hari - Cutrofiano
Ballate e divertitevi con l'accattivante
ritmo dei “Ratti della Sabina”, il gruppo
rock-folk laziale. Otto musicisti che si
scateneranno sul palco del Mata Hari. I
Ratti della Sabina sono nati nell’Ottobre
del 1996, con l’intento di unire i colori della
musica folk alle sonorità della musica rock.
I ritmi sfrenati sono impreziositi da
interessanti testi. Il gruppo presenterà le
canzoni del nuovo album “Circobirò”. Nel
loro secondo lavoro, giunto dopo
Cantiecontrocantiincantina, partecipano
anche di Cisco dei Modena City Ramblers
e Marino Severini dei Gang. Le danze si
aprono alle 22.00, l'ingresso ovviamente
è libero.
C’è chi lo scrive e c’è chi lo vende. Ma chi lo legge?
Ode al giornalaio aggiornato
A quindici-sedici anni ogni lunedì mattina entravo in classe con l’Unità
sotto il braccio. Il segretario del Pds (nato da circa due anni) era ancora
Achille Occhetto e io non ero né comunista né di sinistra. Anzi ero ancora
un cattolico praticante e osservante di rigide leggi da concilio ma andavo
fiero di quel rosso sotto l’ascella (e non era infiammata). In realtà il giornale
quasi non lo leggevo (mi sa che vedevo la cultura – ché c’era l’Unità2 –
e lo sport), Berlusconi non era ancora sceso in campo ma aveva regalato
molte vittorie ad una squadra di calcio. Premesse reazionarie a parte, il
direttore Ualter Ueltroni mi stava facendo un grande regalo. Con quel
giornale usciva la raccolta completa degli album Panini. Le figurine, per
chi era un cannibale del calcio giocato, erano un must. Stop.
Quello fu il mio primo approccio con i regali pagati dei giornali. Dopo il
furore di metà anni ’90, la calma dei seguenti, la riflessione sul calo delle
vendite, le poppute copertine patinate, i direttori sono tornati alla carica.
Per tentare di coprire l’uniformità scadente della media dei contenuti (e
il calo vertiginoso delle pubblicità), gli editori pensano bene di darci
qualcosa ogni giorno, così per non perdere l’abitudine. In principio furono
i piccoli libri, i fascicoli, i supplementi (che sono talmente doppi che non
hai abbastanza saliva per sfogliarli interamente), le cassette, le videocassette,
i cd, i cd-rom poi i dvd. Poi si passò a cose ben più sostanziose profumi,
sedie, magliette, cappellini, bandierine, passate di pomodoro, scatolette
di tonno, orologi, macchinine, tazzine, sottobicchieri. Tutto ciò che vi viene
in mente è stato incellofanato e venduto. Quei santi martiri che si chiamano
giornalai ogni mattina ti devono aggiornare e presentare la merce giacché
per noi umani consumatori di carta stampata è complicato stare dietro
alle novità e non beccare doppioni. Come per le figurine, di fronte alle
leccornie di carta e inchiostro (con relativi regali) bisogna stare attenti.
Celò, celò, mimanca. Ad esempio i libri (800-900, i classici, gli erotici, i
fumetti) che messi in pila dai nostri amici quotidiani sembrano trincee. Con
tutti i volumi che ci cuzzettano potremmo costruire case, ponti, sedie,
mobili. E poi dicono che grazie a queste iniziative gli italiani leggono di più.
Attenzione, comprano più libri ma siamo sicuri che leggano di più? Non
è un male avere in casa molti libri ma non si riesce materialmente a stare
dietro alle uscite. Tutti si ritrovano gli angoli delle librerie perfettamente
uguali. I rischi di “finta omologazione” sono dietro l’angolo. I direttori e gli
editori (e i loro consulenti) ci dicono cosa leggere e cosa no? Un po’ come
a scuola il docente impone le proprie letture? Ma quando i ragazzi
scopriranno il piacere di passeggiare per gli scaffali della libreria e cercare,
annusare, sfogliare, rubare frasi o capitoli interi, e tornare con la faccia
furtiva per ripescare quel libro e continuare la lettura senza la necessità di
comprarlo? È bello entrare in libreria ed essere salutati, è bello entrare in
libreria è sentirsi a casa. È bello chiedere, confrontarsi, tentare un autore
e sbagliare e dare la colpa solo al proprio intuito. Ma, se è fatto con la
necessaria consapevolezza, è bello entrare anche in edicola e chiacchierare
con il paziente Andrea o il mitico Maurizio e chiedergli che c’è oggi e
comprare giornali e riviste per quello che i giornalisti e i commentatori
hanno scritto e i fotografi immortalato e non per l’impermeabile o i guanti
che oggi ci offrono. E va be’ che quello che scrivono i giornali va preso
con i guanti. Ma non esageriamo.
Pierpaolo Lala
Le ricette di Silvana
“Panzerotti” (per gli italianisti: crocchette di patate)
Mi hanno chiesto: -cosa vuoi dalla vita?–
-che fosse…Cosa si può volere dalla vita se non che sia vita?
Vita, fatta di cose semplici, di affetti, di un gatto nero, di un gatto bianco.
Vita fatta degli scodinzolii dei cani che hai svezzato, curato. Cani che ti hanno addestrato alla passeggiata quotidiana, all’ossessivo abbaiare, alla
fossa scavata in giardino, sotto la pianta di rosa preferita.
Vita fatta di una pianta di rosa rossa vellutata e profumata di infinito gusto arcano, come se emanasse odore di vita, di fecondità, di sesso.
A chi volesse fare l’amore tutto il giorno consiglierei di coltivare in camera da letto una rosa rossa di una varietà che, a casa mia, chiamano “Papa
Giovanni”. Figuratevi che cosa direbbe un Papa a sapere quali pensieri peccaminosi vengono alla mente e al corpo annusando un fiore a lui
dedicato dalla solita donna grassoccia di sessanta anni…
Vita fatta di nomi strani attribuiti alle cose più improbabili. Prendiamo ad esempio il termine panzerotto.
Noi, in un microscopico paese alle soglie del nulla [giusto per citare un noto poeta locale: Bodini (saranno soddisfatti gli intellettuali salentini che si
gloriano di una letteratura inesistente e di pubblicazioni ridicole in una terra che offre solo a chi ha già) (comunque Bodini è sicuramente il massimo
descrittore di quello che è il Salento, luogo assolato e umido, gente assolata e umida…)]…
Stavo parlando di altro, prima di perdermi in matematiche parentesi critico/letterarie.
Noi, bodiniani salentini di Soleto, noi, a casa mia, chiamiamo panzerotti due cose diversissime tra loro, per natura e senso.
Panzerotto è un tizio, di quelli con un po’ di ciccia qua e là, di quelli che ridacchiano risate “guttu-nasali” simili al verso delle foche… la cosa buffa
è che ridono, succulenti ammassi di grasso, di qualsiasi cosa e si fanno presentare l’immaginaria fidanzata dallo zio ballerino di tango…
Panzerotto è: un tizio grassoccio, a volte tonto.
Panzerotto è: quello che ogni patata, destinata al piatto, vorrebbe essere.
La patatina bollita viene passata da ruvide mani che brandiscono il passatutto come un’arma di distruzione.
Morbida pasta gialla, si modella in una forma affusolata (altro che panzerotto!).
Si rotola nell’uovo, nel pane grattato.
Così si sentì Dio quando creò Adamo dalla terra?
Si sporcano le mani, gode l’animo pensando al risultato…
L’essenza è il peperoncino, sostituto eccellente del prezzemolo in ogni pietanza.
Nell’olio a friggere per qualche minuto.
Croccante doratura.
Mi hanno chiesto: - cosa vuoi dalla vita?
Che sia come un panzerotto.
Lunga quanto basta.
Croccante.
Piccante.
Stuzzicante.
Ma, soprattutto, semplice da cucinare.
E, come un panzerotto, vorrei che desse una certa gioia infantile quando è a tavola.
Silvana la cuoca stanca
cinema
Lost in Traslation
Sophia Coppola
È figlia di papà, è affascinante, è vissuta in 3 continenti e lo dice con la
leggerezza con cui voi raccontate l’ubriacatura della sera prima. E riesce a
costruire un film delizioso. Possibile? Si, possibile.
Il film di Sofia Coppola si fa amare dal primo fotogramma: Ben Murray
appoggiato al finestrino con l’espressione svuotata di desideri va incontro ad
un destino ridanciano nella Tokio da caroselli pubblicitari. E già lo capisci che
mai prima della Coppola era stato così bravo.
La sceneggiatura, di cui la Coppola è anche autrice, è minima. Lui è un attore
stanco, in Giappone per girare 1 spot pubblicitario, lei sposina saccente è al
seguito del marito fotografo che sembra perennemente tirato di coca. Prigionieri
di un mondo che non capiscono, passano i giorni in albergo tra bar e piscina
con sauna imperiale, annoiandosi mortalmente, mentre noi ce la spassiamo
per le facce attonite di un divertentissimo Murray.
Finchè si guardano e si riconoscono. Senza forzature. E iniziano a giocare in
una terra di nessuno in cui il Sol levante entra di soppiatto e ti rapisce comunque.
In notti insonni da jet lag Ben Murray, che ti da l’impressione di recitare se
stesso, e Scarlett Johannson, pannosamente seducente, si raccontano a
braccetto in un universo di parrucche fucsia.
Forse si innamorano. Forse solo si piacciono. Forse succede che a volte le
solitudini si incontrino per non esserlo più.
Solo per una settimana. Quando la settimana finisce, se ne tornano nelle loro
case. E noi nelle nostre pensando: ma che brava questa Sofia. E poi: ma chi
è l’idiota che è stato capace di tradurre lost in translation con “L’amore
tradotto”?
Stupenda la scena dello Spot. Di lui nella stanza di lei. Di loro in ascensore.
Della casa dell’amico...ok basta, smetto, giuro, smetto...se voi mi giurate che
lo andate a vedere. Per imparare ad amare. E per ridersela un po’.
Maurizia Calò
Lo strano mondo di Josè Mojica Marins (in arte Zè do Caixao)
Nel 1963 come un fulmine a ciel sereno il cinema brasiliano viene sconvolto dal folle stile di un giovane regista che
risponde al nome di Josè Mojica Marins e dalla sua terribile creatura Zè do Caixao. Ma facciamo un passo indietro.
Marins, classe ’29, già attivissimo fin da età adolescente nella direzione di filmetti in 16mm, aveva diretto precedentemente
tre film di cui un western tacciato di blasfemia e un riparatore film neorealista finanziato dal clero, ma i suoi frequenti
incubi popolati da una figura nerovestita recante il suo volto, gli dà la giusta ispirazione per un horror (il primo in
Brasile). Nasce così “A meia noite levarei sua alma” ( A mezzanotte ti porterò via l’anima) (portato a termine a fatica:
leggenda vuole che Marins finiti i soldi costrinse , pistola alla mano, attori e manovalanze che già smontavano
baracca e burattini a finire di girare. E questo per farvi capire il suo caratterino!) Il primo film del regista che vede
come protagonista Zè do Caixao, personaggio destinato a giocare un ruolo preponderante nella vita del regista.
Zè vestito di nero, con un lungo cilindro, barba, uniciglio e lunghissime unghie, è il becchino di un villaggio. Ateo, non
curante delle tradizioni religiose, violento e maldisposto verso i suoi compaesani è temuto e odiato da questi per le
sue amene caratteristiche. Quello che cerca Zè, come un novello Nietzche, è una donna virtuosa che gli doni il figlio
perfetto e per raggiungere il suo scopo, uccide e tortura tutte le donne che gli si parano davanti fino a scovare la
perfetta genitrice. La dottrina di Zè è infatti infarcita di teorie pseudo nitzchiane che tendono alla spasmodica ricerca
del superuomo incarnato in un fanciullo. Tanto odia gli uomini, infatti, tanto il nostro è affascinato dai bambini quali
depositari della purezza e della verità. Particolarissimo per le sue trovate e per la visionarietà con cui condisce il tutto
Marins è così destinato a lasciare un’impronta indelebile nel cinema horror mondiale grazie anche alla popolarità
del suo personaggio che diventerà completamente il suo alter ego. Anche nella vita Marins veste di nero e conserva
gelosamente le lunghe unghie alle mani (“Voglio dimostrare che la natura è sbagliata: le unghie crescono naturalmente
ma non tagliandole puntualmente vado incontro ad artrosi e problemi !), fino alla totale sovrapposizione delle due
personalità. Altra caratteristica per cui Marins si è reso famoso è l’enorme quantità di rettili e insetti che assalgono
le sue attrici. La cosa sconcertante è che non vi è nessun artifizio! Le attrici durante i provini erano, infatti, sottoposte
a estenuanti “contatti” con ogni genere di animale. A distanza di tre anni la figura di Zè ritorna nel seguito “Esta noite
encarnarei en tu cadaver” (Questa notte mi incarnerò nel tuo cadavere) continuazione delle terribili gesta del
becchino folle che questa volta finirà anche all’inferno. L’idea originaria del progetto (poi mai realizzata) vedeva
Zè attraversare in 6 lungometraggi, anche Limbo, Purgatorio e Paradiso in una sorta di viaggio dantesco. Da qui Zè
do caixao non sarà più protagonista dei film del regista brasiliano ma farà sporadiche apparizioni in altri film come
fantasma, presenza diabolica, ossessione dei protagonisti (citiamo Esorcismo Negro, Delirios de um anormal, O
estranho mundo de Zè do Caixao, O despartar a besta). In seguito è doveroso segnalare sul versante horror “O
estranho mundo de Zè do Caixao” trilogia di racconti che sebbene mantengano vive le caratteristiche del cinema
di Marins, strizzano l’occhio alle coeve produzioni anglosassoni; “O despartar a besta” è invece un trip allucinatorio
dove degli studiosi, Marins compreso, analizzano gli effetti del fenomeno droga dando vita così a un quadro
assolutamente visionario e bizzarro, indice dello stile naif e interessante dell’autore che si conquista anche le simpatie
di esponenti del cinema colto brasiliano come Glauber Rocha. Negli anni ’70 Marins dà vita a un nuovo personaggio
esatto contrario di Zè: Finis Hominis predicatore, trascinatore di masse, messia dei giorni nostri, protagonista di due
film, “Finis Hominis-O fim do Homen” e “Quando o deuses adormecem” destinato però a non essere creduto e
confinato in manicomio. È l’ultimo spunto del regista che girerà nel corso degli anni ’70 delle operette morali (per
quanto condite sempre da sesso e violenza) e horror senza nerbo. E anche lui cade seppure per poco nel vortice
del porno, girando un paio di film con la promessa di finanziamenti da parte del produttore per un successivo progetto.
Il suo tentativo era però quello di deridere il genere, girando con attrici bruttissime e persino animali. Ma invece: “Mi
resi conto che erano tutti dei maniaci tarati. Per un anno la gente fece la coda dove si proiettava quel film. Sono
molte di più le persone con tare mentali che quelle normali”. I titoli? “24 horas do sexo ardente” e “48 horas do sexo
allucinante”….Ora Marins si gode un po’ del frutto del suo successo grazie alla figura ancora viva nel popolo brasiliano
di Zè do Caixao (dopo essere stata sfruttata da spietati produttori), oggetto di gadgets, merchandising di ogni genere,
fumetti, libri, trasmissioni tv e programmi per bambini. Ma un ultimo desiderio lo pervade ancora, quello di girare il
terzo capitolo della saga di Zè. E noi altro non chiediamo che essere ancora una volta assaliti dagli incubi del truce
becchino.
Gianpiero (sonique)
sabato 14 febbraio dopo le 24
Montecarlo night
Istanbul Cafè - Squinzano
Torna nella tana del lupo, torna nella
sua usuale location e situascion.
Tobia Lamare, idolo delle folle di
teenager con il ciuffo ribelle e di
attempati ballerini dai pochi capelli,
gigante nella sua consolle, il
giocoliere del vinile, un ragazzo di
strada dagli occhi come fari
abbaglianti, entusiasmerà la platea
di uomini e donne salentini cone le
sue eccezionali evoluzioni ai piatti.
Chi ha visto il miracolo non lo
dimentica: Montecarlonight è
musica che fa crescere le basette
e scampanare i pantaloni. È un tuffo
in un martini vodka con pinne fucile
ed occhiali. Montecarlonigth è una
corsa in lambretta attraverso i mitici
anni 60. Un cocktail esplosivo di
lounge, beat, soul, funky che fa
fumare le suole ai mocassini e rizzare
le frangette.
18-19-20 febbraio
Selezioni provinciali Arezzo Wave 2004
venerdì 20 febbraio
Dj Punch
Istanbul Cafè - Squinzano
Serata con ospite ormai
consolidato dell’Istanbul cafè di
Squinzano. In consolle Dj Punch.
La sua musica attinge ai suoni
"urbani", i breakbeats, l’hiphopstyle e la drumnbass più oscura
per poi aprirsi ad atmosfere più
"solari" come il dub e il reggae,
alle ipnotizzanti ritmiche delle
tablas e dei sitar della musica
bhangra, il tutto però rivisto in
chiave moderna, con abbondanti
dosi di drumnbass e breaks. Un a
nuova serata per ballare insieme
ai Dj dell’Istanbul Cafè di
Squinzano nei pressi della stazione.
Chlorò - Calimera
Loma
Mata Hari - Cutrofiano
giovedì 26 febbraio
Un martedì grasso indimenticabile al Candle
di Lecce con la musica dei Folkabbestia e
le selezioni dei dj di CoolClub. Chiudi il tuo
carnevale in compagnia dello scatenato
gruppo barese e dei ritmi ska, rock, soul,
bossa nova, brigitte bardot per scatenarvi
in trenini mascherati che vi terranno svegli
fino alle ceneri.
Folkabbestia
Candle - Lecce
martedì 24 febbraio
Cinema Elio - Calimera
venerdì 20 febbraio
Sete
Meta-Scena, la stagione teatrale del
Nuovo Cinema Elio di Calimera, ospita
Sete di Teatro Blitz-Fondo Verri. Lo
spettacolo di Giovanni Piero Rapanà,
tratto da quattro opere teatrali di Albert
Camus, è interpretato dallo steso autore
e da Piero Olla, Meri Gigante, Fabio
Colonna, Sara De Giorgi, Stefania Valletta
e Marta Vedruccio. Sete è un invocazione
esasperata, delirante e necessaria contro
“l’inganno della menzogna”. Uno
spettacolo scarno di orpelli, una scena
essenziale, un trono piramide per un
grottesco Governatore, e la parola
delirante , rivelatrice di verità nascoste e
di presenti menzogne. Dalla mancanza
di informazione di un tempo si è passati
alle forme di comunicazione a volte
eccessive che scatenano il dramma
amletico dei nostri giorni: chi ha torto, chi
ha ragione?. “Il desiderio di verità non è
promosso solo dal “desiderio di sapere”,
ma soprattutto dal desiderio di “incontrare
se stessi”, affinché la vita che ci è data
non sia vissuta a nostra insaputa”
sottolinea Rapanà.
Ingresso 7 euro.
Info www.coopkama.com
telefono 0832 875283
Torna anche quest’anno come le buone tradizioni Arezzo Wave, il più famoso dei concorsi dedicato a band emergenti. Quest’anno
più che mai il festival è cresciuto: sono ben 1700 le iscrizioni all’edizione del 2004, una sfida all’ultima nota che vede anche le band
pugliesi e salentine in concorso. Nato nel 1987 come uno dei primi appuntamenti musicali dedicato alle nuove bands italiane, il festival
è diventato nel tempo un punto di riferimento fisso, costante, di conseguenza, anche il più grande concorso per gruppi emergenti
italiani. In 18 anni, sono state circa 17.000 le bands che si sono iscritte gratuitamente al concorso. Tra queste, anche bands che
successivamente sono riuscite ad emergere e ad imporsi tra le realtà più significative nel panorama musicale italiano: Mau Mau, Marlene
Kuntz, Negrita, Ritmo Tribale, Lou Dalfin, Scisma, Agricantus, Almamegretta, Reggae National Tickets, Quintorigo e tanti altri...
Sono 110 le serate di selezione live in svolgimento in tutta Italia tra gennaio e marzo 2004 in cui si esibiranno le migliori bands iscritte al
bando di concorso; saranno infine 25 i nuovi della musica giovanile italiana che avranno la possibilità di esibirsi sui palchi di Arezzo Wave
Love Festival 2004 insieme ad artisti di fama nazionale ed internazionale.
Arezzo Wave Love Festival, per la sua continua ricerca e la costante qualità della proposta artistica, si afferma sia come il più autorevole
osservatorio delle nuove tendenze musicali che come punto di riferimento importante per tutte le realtà musicali del panorama
emergente italiano. Parte anche per il Salento la prima fase del concorso: le selezioni provinciali. Dodici le band selezionate quest’anno
per tre giorni di live che si svolgeranno al Chlorò di Calimera il 18, il 19 e il 20 febbraio.
Mercoledì 19 febbraio si esibiranno: Ushuaia, giovane band che suona un rock italiano dalle venature hard, Blekaut e la loro trascinante
carica di patchanka salentina, Lingerie e il suo indie grunge tra rabbia e melodia, Therese e Isabelle e la loro musica ai margini della
psichedelia e del postrock. Giovedì è il turno dei Cosmica e il loro nuovo rock italiano dai mille colori, i vento di fronda e il loro ska e
una nuova veste, i Superpartner giovane band che suona un pop tra sSereolab e Cardigans e infine i Bizzarro nuova band garage dalle
ammiccanti sonorità sixties.
Venerdì serata finale delle selezioni provinciali con Homer, una miscela di hardcore, noise, postrock, i Cucuwawa e la loro solare
contaminazione tra ska, rock e reggae, gli Helvetica rock italiano accattivante e melodico e Cantina Sociale Band, un incrocio rock
italiano e musica d’autore.
sabato 21 febbraio
Daddy Freddy
Don Rico e Terron Fabio
Candle - Lecce
Un appuntamento da non perdere al
Candle di Lecce con una dance hall che
vedrà impegnati due salentini doc come
Don Rico e Terron Fabio e uno dei re del
raggamuffin internazionale Daddy Freddy.
I due Sud Sound System non hanno
bisogno di presentazioni: veri padri della
dancehall italiana, in 10 anni di carriera
sono diventati un punto di riferimento per
la scena reggae nazionale. Daddy Freddy
è il campione del ragamuffin più veloce
del mondo, ma è anche uno fra i più
versatili dj di sempre, formatosi nelle
infuocate dances del Youth Promotion
Sound nella Giamaica primi anni ‘80,
capace di cavalcare in scioltezza i ritmi
più assurdi e inconsueti. Per gli amanti del
genere un’occasione imperdibile.
L’ultimo appuntamento live di febbraio del
Mata Hari di Cutrofiano è con i Loma. Si tratta
del nuovo progetto musicale e discografico
di Massimo Ferrarotto e Paola Maugeri, il
celebre volto di Mtv e in passato di numerose
trasmissioni Rai e Mediaset. Il loro primo cd è
composto da otto canzoni registrate a
Catania con la produzione artistica di Cesare
Basile e gli arrangiamenti d’archi di John
Bonnar. Appuntamento per le ore 22.00,
ingresso libero.
venerdì 27 febbraio
Appaloosa
Istanbul Cafè - Squinzano
Il venerdì live dell’Istanbul Café di Squinzano
concede agli intenditori della musica
strumentale un gruppo che proviene dalla
fucina inesauribile di Arezzo Wave. Gli
Appaloosa sono stati finalisti nel 2002. Il loro
disco è stato prodotto dall’etichetta del
Festival Onda Anomala. Propongono un rock
sperimentale, a tratti fusion, a tratti jazz condito
da sano noise rock, suonato dai tre ventenni
in maniera molto convincente.
sabato 28 febbraio
Insintesi
Istanbul Cafè - Squinzano
Insintesi è la scena elettronica salentina. Oltre a una
delle band più sperimentali della scena Insintesi
porta avanti, da tempo ormai, un progetto parallelo
di Dj set. Insintesi è un progetto di musica elettronica
nato nel '98, partendo dal "drum'n'bass", dal"dub"
ed il "trip-hop" ha rielaborato questi generi dando
una propria chiave di lettura. Le nuove produzioni
si muovono sulle ritmiche del dub elettronico con
innesti di voci e suoni di chitarre dilatati, creando
sonorità sospese ed ipnotiche ed utilizzando testi sia
in italiano che in inglese. Insintesi si è avvalso di varie
collaborazioni, sia nelle registrazioni che nei live con
circa 100 date all’attivo tra live e dj set.
Il pianto e il rimpianto
sabato 28 febbraio
...a Fabrizio De Andrè
Cinema Elio - Calimera
La quinta edizione della serata in
ricordo di Fabrizio De Andrè,
organizzata dall’associazione “Amo
per Amo”, in collaborazione con Arci
Novoli, quest’anno si sposa con l’idea
del comune di Calimera di intitolare
al cantautore genovese il foyer del
Nuovo Cinema Elio. La giornata
prevede alle 16 un incontro con Dori
Ghezzi, Piero Milesi e altri ospiti per
ricordare Fabrizio a cinque anni dalla
scomparsa, alle 17 verrà inaugurata
la mostra “De Andrè e io” di Mariano
Brustio (visitabile sino al 6 marzo).
Subito dopo si terrà la cerimonia di
intitolazione della saletta. Alle 19 sarà
proiettato il video “Faber” con
seguente dibattito. Mentre alle 22.00
prenderà il via lo spettacolo con
musica e performance teatrali di artisti
salentini che reinterpreteranno alcune
canzoni di De Andrè.
Ho un grande rimpianto nella mia vita. Non ho mai visto un concerto di Fabrizio De Andrè. La malattia lo ha portato via prima che mi potessi
accomodare su una poltrona a sentire la sua musica e le sue parole. L’ultima occasione nei paraggi, se la memoria non m’inganna, la ebbi nel
1997. Ma il biglietto costava troppo per le mie allora scassatissime tasche e decisi di abbandonare l’ardua impresa di reperire i fondi necessari. Un
errore di cui ancora oggi mi pento.
La notizia della morte mi lasciò molto deluso per quella mia mancanza e mi lasciò ancora più deluso per la mia mancata competenza nei confronti
dell’autore. Non conoscevo tutto di lui perché le mie piste cantautorali seguivano e avevano seguito altre tracce. A cinque anni di distanza dalla
scomparsa sarebbe troppo facile fare commenti e ricordare canzoni. Qui mi limito a sottolineare due cose della straordinaria carriera di Fabrizio. Il
fatto di aver introdotto in Italia, non so se per primo ma sicuramente con metodo e continuità, il concept album: il disco tematico nel quale tutte
le canzoni vengono tenute insieme da un filo conduttore. Una cosa non semplice che De Andrè ha invece fatto in più occasioni e con grandi
risultati. La seconda cosa importante, che secondo me in un certo senso esplicita l’umiltà e l’intelligenza dell’uomo, è stata la capacità di collaborare
con colleghi vicini e lontani musicalmente, trasformando con il passare degli anni la propria scrittura (testuale e musicale), affiancando semplicità
compositiva e ampollosità degli arrangiamenti in una corsa alla perfezione (che forse non era sua ma è solo una mia impressione) tra parole e
musica. Una sottile alchimia che percorre tutte le canzoni di Fabrizio.
Sono passati cinque anni e ancora mi dolgo della mia assenza nei teatri e in tutti i luoghi nei quali ha suonato.
Spero prima o poi di incontrarlo.
Pierpaolo Lala
giovedì 4 marzo
Vallanzaska
Mata Hari - Cutrofiano
In pista da più da più di dieci anni,
i Vallanzaska sono un mix di ska
rocksteady, pop, reggae, punk e
rock. Autori dell’indimenticabile
refrain “Vorrei vedere la piramide
di Cheope/ ma sono miope”, da
alcuni definiti demenziali, i
Vallanzaska uniscono l’allegria
della loro musica all’ironia dei testi.
Con una line up di sette elementi
invaderanno il palco del Mata Hari
di Cutrofiano con un live graffiante
che gioca con la musica italiana
(tra i brani anche una cover di
Vasco Rossi) e cita in maniera
rocambolesca autori come Battisti
e Paolo Conte.
Ingresso libero.
C’È POSTA PER TRE?
Problemi di cool? di drink? di link? di funk?
Il nostro trittico di specialisti risolve i vostri drammi,
chiarisce i vostri dubbi,
fornisce i vostri alibi.
Il collettivo redazionale di Coolclub.it risponde alle vostre lettere inviate
all’indirizzo [email protected].
Potete scrivere quello che volete, potete inviarci proposte di collaborazione,
complimenti gratuiti, insulti, inviti per passare insieme una serata. Potete farci
domande sulla musica, sui libri, sui film, potete commentare tutto quello volete
raccontarci quello che vi piace, quello che non vi piace, qualcosa di
strano o di bello o di brutto che vi è successo. Potete confidarci i vostri
sogni, i vostri vizi, potete lamentarvi. Insomma scrivete scrivete scrivete.
Italian Sud Est
Fluid video Crew
Denis Arcand
Dario Fo e Franca Rame
«Mi spiace deluderti ma volevo proprio parlar male di Berlusconi» è stata la risposta
secca di Dario Fo, durante l’incontro del 16 ottobre 2003, organizzato dal Corriere
della Sera in occasione della messa in scena dell’ultimo spettacolo del premio Nobel.
Il giovane giornalista, al quale Fo rispondeva, stava supponendo che lo spettacolo
in questione non intendesse ‘semplicisticamente’ ricordare ancora una volta vizi e
virtù del nostro spettacoloso premier bensì L’ anomalo bicefalo poteva finalmente
essere la fine sintesi delle denunce nei riguardi di un sistema interplanetario di
scelleratezze, ovviamente attraverso l’allegorico racconto dell’ascesa al potere della
creatura che a tal proposito sarebbe la più rappresentativa.
Pazienza! Non è così. D’altra parte Fo è soltanto un giullare. Lui scherza! Vorrà dire
che ci terremo anche questa volta ‘solo’ una irriverente affabulazione dettagliata sui
trascorsi del protagonista indiscusso della nostra storia politico-sociale contemporanea.
E c’è davvero tutta - la sua storia intendo - da Del Lutri al suo cavallaro – come suol
dire Veronica-Franca - dai rapporti con Putin a quelli con i figli più piccoli. Raccontata
da Veronica Lario su richiesta di suo marito redento, smarrito di sapersi così, nano
malcomplessato con le gambe di braccia di Fo e con le braccia di mani di un altro
(stesso faticoso espediente del nano de Il Fanfani rapito).
Sulla scena Dario Fo e Franca Rame e basta. A settantasei anni l’uno e poco meno
l’altra. Accompagnati da un giovane mimo che fa le braccia, quando Dario veste i
panni di Silvio, e pochi altri attori che occorrono soprattutto da collante fra una scena
e l’altra, fra una fuoriuscita di ruolo ed un rientro in un altro ruolo dei due istrioni. Per
non parlare della necessità di modificare a scena aperta il marchingegno scenico
che hanno costruito tutti assieme ridefinendolo fino all’ultima prova del 20 novembre
a Milano, in via Bordighera 2. Franca Rame interpreta contemporaneamente i ruoli
di un’attricetta del cinema Anastasia e della firstlady Veronica; Dario Fo quelli di un
regista, del fatidico presidente del consiglio, del suo dottore, di un suo amico e chi
più ne ha si sbizzarrisca a mettercene. Tanto lui Dario, non si è risparmiato fino a sei
giorni dalla prima di Bagnacavallo, quando ancora era lì a rimaneggiare il copione.
E scommetto che lo ha fatto ancora in questi giorni e lo rifarà in quelli avvenire. Ma
la vera doppiezza non sta nel vestire i panni di più personaggi. La vera doppiezza è
nel tono in cui Dario-Berlusca si rammarica di sé. Impressionato e inorridito dal suo
operato, a tratti ci scherza su divertito adducendo le motivazioni più bislacche per
spiegare le sue scelte. Tutto da vedere ed ascoltare. Inutile stare qui a soffermarsi
oltre. Altre due parole assolutamente per dire del linguaggio dello spettacolo - come
al solito di Fo - è plastilina. Prende suoni diversi e forme nei gesti degli attori che fanno
capo ad un automatismo geniale, istintuale e sempre ancora assolutamente di portata
sperimentale.
Ho avuto la fortuna di assistere e partecipare attivamente alle prove milanesi de
L’anomalo bicefalo. Quando sono cominciate credevo, ed in verità non solo io, che
Dario e Franca non sarebbero arrivati in fondo. Sono cresciuti man mano che cresceva
lo spettacolo. Non lo scrivo per scrivere ma credo che coloro che vedranno l’ultima
data saranno i più fortunati.
Viviana, la nostra inviata da Milano
L’ anomalo bicefalo
Prendi un brillante Don Giovanni con un passato fatto di parole che finiscono con –ismo, prendi
la sua vivace cerchia di amici, affiatati e divertiti dalla vita, dai loro in pasto ad un regista
canadese con già delle glorie alle spalle, Arcand, quello del “Declinio dell’impero americano”,
e ne verrà fuori un film denso, con molti livelli di lettura, non tutti pienamente sviscerati. Alcune
le date chiave che inseriscono il film in una cornice temporale che aiuta a capire: il 1966 data
in cui a Montreal le chiese iniziarono a svuotarsi, 11 settembre 2001 giorno in cui ebbero inizio le
nuove invasioni Barbariche. Molto forte il primo tempo in cui la figura del figlio neobarbaro
arroccato nel suo capitalismo puritano rifiuta il modo del padre irresponsabilmente goliardico
anche in punto di morte. Bello lo spirito che ne viene fuori, in cui l’invecchiamento viene presentato
come un divenire della vita naturale e sereno. Ma nella seconda parte la tessitura inizia ad
apparire forzata, con figure inutilmente poetiche. Le spacconerie del figlio quasi routinarie. Su
tutto restano le dissacranti battute della cricca di amici, qualche chicca da cinefilo, e la chiosa
sulla situazione italiana. Da cineforum.
Maurizia Calò
Le invasioni barbariche
Sulle orbite del Salento
Opinioni sul Salento a parte, una domanda mi ha arrovellato per un bel po’ al termine del film: “quali sono le stazioni
di partenza e arrivo delle Ferrovie del sud est?, quale il tracciato dei binari sul territorio? Insomma da dove e per
dove portano i treni?”. Ripercorrendo nella memoria il lungometraggio, nessuna immagine ha risolto il mio quesito,
finché ho capito che la mia domanda era insinuosa e ansiosa. In effetti credo che mi abbia condotta fuori strada,
nel senso di esternamente al centro, al nocciolo della questione, e piuttosto dentro la traiettoria circolare delle
orbite che attorno a quel centro ruotano se c’è moto; ed è così girando e rigirando in tondo che ho potuto
ricostruire nella mente il film.
Dentro un luogo astratto le cui coordinate spazio temporali non sono svelate allo spettatore, Fluid Video Crew ci
racconta di abitanti e pianeti della galassia Salento: come orbite attorno ad un pianeta le rotaie delle ferrovie del
sud est si srotolano su una traiettoria che non è percorso o tragitto, binari e trenini galleggiano senza gravità tra
ulivi e cieli mobili; piuttosto che partire per andare, quello che posso fare è affacciarmi come da una giostra e
lasciarmi circolare.
Allo stesso modo personaggi, storie e storia roteano attorno al nostro mondo ordinario che mai toccano. Se non
fosse per le storie che ci raccontano dalla telecamera, penseremmo che questi personaggi dalle sembianze umane
siano effettivamente ominidi, ma le loro storie, incredibili, li rendono come extraterrestri, extraordinari.
Insomma orbitano attorno alla nostra normalità di città e strade velocemente trafficate, lenti trenini, calessi,
pagghiare, menhir, villaggi deserti, feste magiche e paesaggi lunari; almeno così a me sembra racconti Fluid Video
Crew, eppure, ciò che c’è tra noi e l’altro mondo è solo un passaggio a livello, oppure il mare tra la terra e un’isola,
l’esterno tra l’interno di una pagghiara, una stradina sterrata tra la nostra diritta carreggiata e la campagna, una
porta tra il carcere o la stazione e la città.
I due mondi convivono ma a quanto pare non si intersecano e nemmeno l’ospitalità di Re Vincent che apre le
porte del suo Regno a noi esseri umani ci convince di questo. Eppure stanno seduti accanto sui treni delle sud est
gli extraterrestri e gli studenti, gli operai, i turisti d’estate e chiunque altro decida di raggiungere un posto del Salento
con il treno, questa normalità nel film non compare, Caterina inizia a raccontarla ma si perde nella galassia.
La frase di Carmelo Bene che nel girare a vuoto racchiude l’immagine orbitale del film, credo spieghi, il mio
desiderio di ricostruzione di uno spazio aperto di tracciati e linee di comunicazione che mettono in relazione
persone, cose, azioni e costruiscono in parte desideri e aspettative di una comunità che su quelle brevi rotte tra
Otranto e Maglie, o tra Gallipoli e Leuca percorre tragitti oltre che orbitare.
Certo è che una sferzata del moto di Fluid Video Crew bisognerebbe darla alle Ferrovie del Sud Est.
Rita MIglietta
L'ultimo episodio della saga (finalmente), di
gran lunga superiore ai precedenti, l'ultimo
capitolo del "Signore degli anelli" è un film
tecnicamente perfetto. Altissimo livello
stilistico, meravigliosi gli effetti speciali,
splendida scenografia e i paesaggi
neozelandesi che parlano e trasmettono
molto più degli attori, nella loro “Tolkieniana”
essenza. Una fotografia impeccabile che
rende merito e risalto a tutto questo. Sempre
più intenso e avvincente nelle scene d’azione,
sopratutto rispetto ai precedenti, e più fedele
al romanzo da cui è stato tratto, è una
perfetta fusione di magia, azione, fantasia.
Una convivenza stretta e forzata, però, con
la lotta tra il bene e il male negli animi e nelle
storie dei personaggi, in una narrazione un
po’ piatta, a volte melensa.
Continua la corsa dei giovani Hobbit verso il
Monte Fato per distruggere il famigerato
anello forgiato dal malvagio Saruman.
Frodo, a cui non giova l'efebica faccia e
l’interpretazione di E. Wood, alla fine, come
in ogni bella favola dal finale "... e vissero tutti
felici e contenti!", riesce nell'intento, riportando
a casa tutti gli amici superstiti, ai quali
aspetterà una vita di soddisfazione e pace.
Della serie eravamo stupidi hobbit bassi brutti
e pelosi, torniamo a farlo, e addio vita
avventurosa. Solo nell'animo del protagonista
qualche ferita resta aperta e abbandona
l'amato (non si capisce bene quanto) amico
Sam per andar per mari con gli elfi e il mago
Gandalf. Insomma, ingredienti un po' tossici
e diabetogeni per chi ha più di nove anni.
Ma tutto questo passa in secondo piano;
quello che veramente inchioda alla poltrona
è la spettacolarità dell'azione. Cinetosiche
battaglie, di durata che potrebbe essere
micidiale (quasi metà del film è incentrata
sui combattimenti), e che invece emozionano
e coinvolgono; l'estrema ricchezza di dettagli,
un pizzico di crudeltà e splatter, il fascino del
coraggio e del valore guerriero. In definitiva
il film rende vive le pagine del libro che più
volentieri si avrebbe avuto voglia di saltare,
e annienta i sentimenti, i dialoghi e le emozioni
più intime dei personaggi.
D'altronde un romanzo resta un romanzo, e
mai potrà essere sostituito da un film, sebbene
alcuni veri stimatori di Tolkien salvino la
produzione cinematografica. In poche parole
un film, e una saga, da molti brividi lungo la
schiena e qualche sbadiglio.
Stefano Toma
Peter Jackson
Il ritorno del re
Il signore degli anelli III
cinema
Scusate se ho quindici anni
Zoe Trope/Einaudi 2003
Valentina Cataldo
C’era una volta…una casa editrice con un progetto ambizioso.
Scovare le 20 supreme menti “scriventi” inglesi sotto i 40 anni scegliendole
secondo un politicamente corretto che dalle nostre parti non sappiamo
più che voglia dire. Metterle a scrivere i racconti della buona notte. O del
buon quello che ve pare. E pubblicare il risultato finale per conclamare
la loro bravura davanti alla città e al mondo.
La formula già sperimentata 20 e 10 anni prima ha lo scopo di promuovere
il gusto molto british di essere e stare. Come da titolo.
E infatti ci sono alcuni buoni racconti. C’e’ quella Zadie Smith che in Denti
bianchi, suo libro di esordio, ci era si, piaciuta ma già ci aveva fatto un
po’ mal di pancia, c’è un meltin pot di razze e lingue che è poi l’Inghilterra
di questo secolo già iniziato. A dimostrazione del fatto che le differenze
arricchiscono e che l’incastro di mondi ne crea uno più colorato. E più
vero.
Qualche spunto interessante ma un senso di fatica. Che è poi la solita che
si avverte quando forzatamente inviti le persone a lavorare su un progetto,
senza linee guida, senza un tema comune, ma in “andate e fate” per il
solo gusto di andare e fare.
C’è in quasi tutti i racconti un’aria generale di buonismo rarefatto. Come
se le emozioni fossero trattenute in una rete fitta da cui è vietato uscire.
Vietato dissacrare, mai osare.
Solo un racconto tra tutti riesce ad uscire dal prefissato schema di siamo
bravini ma con moderazione. E riesce a farci sorridere in un modo nuovo.
Alla fine la parte più bella del libro resta la prefazione. Un po’ poco per un
progetto collaudato che si vanta di aver scoperto Mc Ewan. Inutile con
una stellina.
Maurizia Calò
Minimum Fax
New British Blend
Dopo Marco Buratti l’Alligatore, dopo Sandrone Dazieri il Gorilla, dopo l’ispettore Sarti, per citarne
solo alcuni, ecco un nuovo squinternato personaggio che si affaccia sull’ormai vasto palcoscenico
del noir italiano: il suo nome è Caino Lanferti e nasce dalla giovane penna di Clemente Tafuri,
genovese, classe ’74.
Dopo ore di anticamera, dopo interminabili viaggi, dopo mesi di attesa davanti al telefono ce
l'ha fatta a pubblicare le avventure del suo protagonista.
Marsiglia 1974: un investigatore privato si muove tra le strade della città, lasciandosi dietro “una
striscia di sangue come la bava delle lumache”, è Caino, un uomo disilluso e violento che non
riesce ad instaurare rapporti decenti con le donne, che beve troppo e fuma di più. Per indifferenza
nei confronti della sua vita e stretto dal bisogno di denaro, si lascia coinvolgere nel traffico di
una nuova droga, dal nome improbabile, prodotta da un gruppo di hippy che vogliono
destabilizzare il sistema capitalista. Entra in scena un gruppo di mafiosi italo-francesi, alla cui testa
c’è il boss goloso di dolci italiani, che, tra un omicidio e un altro, vuole appropriarsi della formula
di questa sostanza; circondato da uomini e donne persi, senza speranza, che tradiscono, e che
uccidono senza rimorsi Caino si difende. Magari a volte esagera con omicidi che sembrano
esecuzioni. È la cattiveria a travolgerlo. Molto spesso la cattiveria di un mondo in subbuglio.
Caino reagisce e uccide.
In un crescendo di sesso, bugie, tradimenti e violenza il nostro investigatore privato si smonta
pagina dopo pagina, perde pezzi, ma nessuno riesce a fermarlo fino al capitolo finale.
Interessante, anche se un po’ troppo cruenta, opera prima di un giovane scrittore che si propone
di occupare un posto di rilievo accanto a nomi ormai cult del noir nostrano quali Macchiavelli,
Lucarelli, Carlotto Baldini, ecc. Da seguire attentamente.
Daniele
Clemente Tafuri/Einaudi
Caino Lanferti. Una storia di Marsiglia
Con il titolo originale di “Please Don’t kill the Freshman” (Per favore non uccidete la liceale del primo anno ndr)
esce il primo lavoro della giovanissima di Portland (USA) che si firma col nome di Zoe Trope, ma la cui identità ed
età restano ignote. Un diario pieno di tutti quei pensieri che riempiono la testa quando si ha quindici anni, di tutti
quei problemi esistenziali e sentimentali e sessuali che appaiono insormontabili solo a quella età, e forse non solo,
che paiono incomprensibili e irrisolvibili. E un po’ incomprensibile risulta in diversi momenti anche il suo stile, non a
caso definito più volte dalla critica Bukowskiano. Sai quando vuoi buttar fuori tutto quello che hai dentro ma c’è
un tale casino nella tua testa che non riesci a capirti neanche da solo? Ecco, adesso pensate quanto sia difficile
capire i pensieri incasinati di qualcun altro. È un po’ quello che succede nella lettura di questo libro. Che però, se
ti impegni e ti lasci coinvolgere, alla fine un po’ ci entri pure nella sua testa, e va a finire che ti piace. Ti piacciono
i personaggi che le girano intorno, tutti molto particolari a dir la verità, ti piace il suo modo, riflessivo e profondo,
di vedere le cose. Ti piace la maniera in cui si sente estremamente inadeguata, ti piacciono i baci che dispensa
con generosità al suo amico del cuore gay e alla sua Scully, la skater punk in giubbotto di pelle che le ha rubato
il cuore e la mente e che diventando maschio l’ha trasformata in etero. Ti piace la poeticità che emerge tra l’ironia,
la delusione e la spontaneità che riempiono le pagine. Perché in fondo anche dietro la voglia di ribellione e
l’atteggiamento scanzonato di tutti gli adolescenti si nasconde un modo poetico di vedere e vivere la vita. Dietro
i Doctor Martens e il collarino al collo, dietro le bugie e i refusi da cui si sente oppressa, dietro il linguaggio volgare
e sin troppo diretto si nasconde l’indecisione di chi si chiede “Non sono Zoe Trope. Sono Zoe Trope. Sono Zoe. Chi
Sono?” e la dolcezza di chi ammette “Voglio troppo bene agli altri e per questo sarò sempre sola”. Soprattutto si
nasconde una quindicenne che, nonostante tutto, nonostante la tragedia dell’11 settembre per cui ha pianto,
“il giorno dopo, però”, nonostante quello che i suoi occhi vedono, nel liceo che è il suo mondo e in ogni cosa
intorno a lei, nonostante questo, lei è ancora convinta che tutto è “solo amore”. In una delle tante lettere dirette
a chissà chi, a lui o a lei, scrive: “È uguale se ci baciamo alla stessa ora in posti diversi? Ci possiamo baciare da
così lontano se ci pensiamo alla stessa ora e chiudiamo gli occhi e muoviamo le labbra? È amore diviso dagli spazi
se crediamo che gli spazi che dividono possono riunirci e che in due posti diversi vedremo la stessa cosa in modo
diverso? Vorrei che fossi qui”.
In un diario dai mille frammenti, in una mente quindicenne confusa, quello che trionfa è sempre comunque l’amore.
Scusate se è poco.
"Per ogni agire ci vuole oblio" scrive Nietzsche.
L'agire di Fabio Rossi, giornalista trentenne,
ha inizio da un black-out di memoria di 50
giorni. Dopo il risveglio nel letto di una clinica,
il protagonista di Un amico perfetto ricorda
solo i fatti precedenti un misterioso incidente,
ma soprattutto ricorda ciò che era allora. E
forse è questa l'intuizione più felice di un
romanzo che cede con troppa facilità a un
epilogo giallistico. La mia storia coincide con
la mia memoria? è costretto a chiedersi Rossi,
constatando come i suoi ricordi vengano
smentiti pagina dopo pagina dalla realtà.
Dubbi dell'esistenza. Ma presto l'interrogativo
che avrebbe collocato Suter tra i narratori
alti viene sostituito da più facili: cosa mi è
successo? Perché ho lasciato Nerina, che so
di amare? Qual era il grosso scoop che avevo
tra le mani e di cui non ho conservato alcuna
traccia? Suter sceglie così di dipanare una
storia à rebours cedendo alla fin troppo facile
tentazione del giallo. Ne viene fuori una trama
vagamente consolatoria e stucchevole che
non incuriosisce, in una realtà dove,
parafrasando Gadda, è già la vita a essere
un giallo.
Suter è un ottimo dilettante della narrazione.
La sua scrittura è fluida, piana, senza sorprese
oltre qualche ardito tentativo di metafora (le
lunette delle unghie affilate come "lametta
da barba" di pagina 140 o due lacrime che
scivolano lungo il collo e si fermano "nelle
fossette della clavicola che sembravano fatte
apposta per quello" di pagina 159). I suoi
dialoghi scorrono, forse con un'eccessiva
attenzione alle "chiuse" a effetto. L'Italia che
disegna è immaginifica e un po' stereotipa,
come lo è il giornalista-protagonista.
Antonio
Martin Suter/Feltrinelli 2003
Un amico perfetto
libri
Jonny Greenwood
Bodysong
EMI (2003)
d i
m u s i c a
c o n t e m p o r a n e a
Il mistero delle meccaniche della vita nella trasformazione del corpo umano dalla
nascita alla morte può essere pensato come un continuo scaturire di suoni che
muta e si evolve in eufonia con le diverse fasi dell’esistenza. Da questa idea Jonny
Greenwood, chitarrista e polistrumentista dei Radiohead, ha composto la colonna
sonora del film-documentario del regista inglese Simon Pummell, un collage di
immagini e riprese degli ultimi cento anni messe assieme per raccontare la storia
del corpo umano. Pur ricorrendo ampiamente al vasto spettro di suoni elettronici
marchiati Radiohead, Greenwood riesce a dosare sapientemente suggestioni
classiche, da Debussy alla musica da camera di Satie, e forti influenze jazzistiche,
Mingus e Davis su tutti, raggiungendo risultati assai eterogenei, sempre
deliziosamente evocatori, a tratti ultra cervellotici, in ogni caso dominati da un
gusto sopraffino. Strumenti acustici ed elettrici si rincorrono in sofisticati intrecci di
sobria eleganza classica, intramezzati da vaneggianti improvvisazioni jazz (“splitter”)
e concitati sussulti elettronici (“trgnch”). L’ouverture “moon trills”, sognante avanzare
di pianoforte su un tappeto di violini, riverbera lo stupore per l’inizio della vita e
genera la parabola dell’esistenza che, dopo aver toccato la trepidazione di “iron
swallow” e l’energia di “24 hour charleston” (ospite il fratello Colin Greenwood),
culmina nella grave sezione d’archi di “tehellet”. Bodysong, lavoro concepito e
cucito in empatia col divenire delle immagini del film, paga in una certa
frammentarietà lo scotto della subordinazione alla pellicola, ma la qualità del
progetto e l’acme di alcuni episodi preludiano comunque a brillanti future
produzioni, probabilmente in era post-radiohead.
Marco Leone
s p a z i
Twinkle
Echo
Owen Ashworth, ovvero CASIOTONE FOR THE PAINFULLY ALONE, questo è il terzo album per lui e forse
quello riuscito meglio, di una semplicità elementare quasi disarmante come uno degli strumenti che
usa…una tastiera casio a pile, di quelle che un po' tutti abbiamo avuto da piccoli.
Come se non bastasse poche note suonate in loop e il gioco è fatto, forse basta questo per non essere
uno dei tanti gruppi di sinth-Pop presenti oggi sulla scena. Ma la parte che forse colpisce di più di
questo album è la voce, rauca confusa e a tratti malinconica che sembra quasi messa a caso su una
base che però la fa sembrare perfetta visto il prodotto finale.
Come un po' tutta la musica elettronica anche questa rievoca i suoni degli anni ottanta, ma non
aspettatevi niente di già sentito altrove; le quattordici tracce dell’album scivolano via veloci, piacevoli
senza quasi voler essere di disturbo, si dissolvono con la stessa semplicità con cui sono state fatte.
La caratteristica della semplicità arriva al paradosso se poi parliamo della qualità del suono infatti
quello che ascolterete è di una qualità che dire a tratti bassa è poco, ma tutto poi coincide alla
perfezione, tutto quadra nella mente di Owen Ashworth.
Un disco davvero particolare, direi quasi soft nonostante la voce cruda e diretta che lo contraddistingue.
Augusto
Tomlab
Casiotone For The Painfully Alone (CFTPA)
Avete trascorso un buon fine d’Anno? Spero proprio di sì…
Adesso Extranet ha tante novità da proporvi. Come al solito i cd in uscita sono davvero
troppi… è risulta sempre più articolato selezionare quello che di interessante propone il
mercato della musica “indipendente”….
Da qualche tempo nei nostri incontri serali su Reporter (www.radioreporter.net) ho lanciato
un idea quella di dare a voi la possibilità di suonare il vostro set musicale. Siete degli amanti
delle sperimentazioni ? Bene inviatemi una mail ([email protected]) con una breve
descrizione di quello che suonate…. Chissà che il prossimo spazio di Extranet non abbia
come sonorizzazione il vostro set. Questo mese volevo porre alla vostra attenzione.
SUN KIL MOON - FIREWATER
Due ottime uscite per l’etichetta americana JetSet.
La prima è l’attesissimo debutto dei Sun Kil Moon, nuova creatura nata dalla mente di Mark
Kozelek dei Red House Painters. Ghosts of the Great Highway è un capolavoro che supera in
bellezza le produzioni del gruppo d’origine, unendo alle indubbie capacità liriche di Kozelek una
rinnovata energia strumentale ed una sensibilità quasi orchestrale.
Registrato con i batteristi Anthony Koutsos (Red House Painters) e Tim Mooney (American Music
Club), il bassista Geoff Sanfield e un trio d’archi del Conservatorio di San Francisco, l’album vedrà
la luce all’inizio di marzo.
Cameron Crowe (che ha diretto Mark Kozelek in camei nei film Almost Famous e Vanilla Sky) ha
pubblicato sulla propria etichetta la traccia Duk Koo Kim come 12” che, uscito in un’edizione
limitata a 2000 copie, è andato presto esaurito.
Inoltre, JetSet pubblicherà due lavori per i Firewater, The Man On The Burning Tightrope e Songs
We Should Have Written, rispettivamente alla fine di gennaio e all’inizio di marzo.
I Firewater sono nati per mano di Tod A nel 1996 dalle ceneri dei Cop Shoot Cop e in The Man...
continuano il percorso dei tre precedenti album, fondendo in modo originale e potente soluzioni
eccentriche con una idiosincratica visione del mondo. In questo nuovo album nacchere, organi,
flauti, fisarmoniche e altre percussioni aggiungono colore al film noir creato dai Firewater,
permettendo all’album di spaziare dal rock a quello che potremmo definire “punk gitano”.
Songs We Should Have Written è invece un disco di cover, nel quale i Firewater decostruiscono
e riassemblano in modo inimitabile classici di Johnny Cash, Rolling Stones, Tom Waits, Beatles e
molti altri. Britta Phillips (Luna, Dean and Britta) duetta con Tod A nei pezzi di Sonny & Cher (The
Beat Goes On) e Lee Hazlewood & Nancy Sinatra (Some Velvet Morning).
Devendra Banhart
Oh me, oh my…
The black babies
Tutti i dischi usciti negli ultimi tempi (tempi di
“nuova rivoluzione rockettara”) hanno in
comune una durata molto ridotta,
solitamente compresa tra i trenta e i
quaranta minuti. Ma il proprio verbo sonoro
lo si può declinare in un lasso di tempo
ancora più breve: agli americani Thermals
bastano ventotto minuti per sciorinare il
proprio manifesto musicale in questo
entusiasmante disco di debutto intitolato
“More Parts Per Million” (uscito per la SubPop,
e già questo è un piccolo “certificato di
garanzia”). Il gruppo di Portland si fa alfiere
di un indie-rock dall'esplosiva carica
punkeggiante, condito da un’attitudine
marcatamente lo-fi. La voce di Hutch Harris
è un guaito lancinante e spesso sopra le
righe (e fuori le note), ma è proprio questa
“bellezza dell’imperfezione” che rende
ancora più fascinoso questo dischetto. Ogni
canzone mette in mostra delle melodie
incantevoli, perfette, dalle linee
assolutamente pop. Su tutte, citerei “No
Culture Icons”, “I Know The Pattern” e quella
magica “Time To Lose” in cui l’effetto
filtratissimo della voce sembra riportare in
vita il fantasma di John Lennon del ‘67 (ma
anche il Liam Gallagher del ’94 e, ahimè,
sempre di fantasma si tratta…). Mia madre
direbbe che in questo album “le canzoni
sono tutte uguali”, e forse questo è uno dei
pochi casi in cui potrei anche darle ragione:
indubbiamente le strutture delle canzoni, a
cominciare dai pattern di batteria e dal
grattugiare ferroso delle chitarre, si
assomigliano parecchio, ma cosa importa?
Cosa importa la somiglianza quando
possiamo ascoltare brani come questi? Brani
irriverenti, fulminanti, sguaiati, incendiari. Non
abbiamo bisogno delle accademie:
preferiamo le bombe! E i Thermals sono una
vera bomba. Astenersi giovani-indie
cardiopatici. Tutti gli altri, invece, potranno
goderne in maniera belluina.
Gianpiero (sonique)
“More Parts Per Million”
SubPop © 2003
The Thermals
Avvolto nel suo cappotto e nella lunga
sciarpa variopinta: un vero dandy che sembra
uscito dalle pagine di Uomo Vogue. A vederlo
si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un
nuovo Vincent Gallo che gioca a fare il
folksinger. E lui folksinger lo è davvero, di quelli
che attingono alle radici americane e le
rielaborano secondo il proprio stile; ma è un
folksinger da cameretta, di quelli che scrivono
le canzoni per uso personale, registrate su
chissà quale aborto di registratore. Eccolo
dunque macinare arpeggi ed accordi con
un cantato, spesso a due voci, ora intenso
ora talmente spiritato da immaginarlo a
cantare con gli occhi sbarrati rapito da una
qualche crisi mistica. E ancora chitarra
percossa, falsetti, ululati e grida ma mai per
un istante viene tradita la tradizione rurale
del folk. E non si sarà sbagliato Michael Gira
(Swans, The Angel of the light) se ha deciso
di pubblicare questi due lavori sulla sua Young
Gods Rec. Non si sarà sbagliato se si è accorto
di questo ragazzo belloccio che non possiede
una tecnica eccelsa, non si cura della
bellezza del suono e che scrive rime stranite
In una parola: un genio!
Gianpiero (sonique)
Young Gods rec
musica
Sophia
People are like season
(city slang)
musica
Rage Against the Machine
Ancora un bel lavoro per la tedesca MORR
MUSIC che produce i TIED & TICKLED TRIO al
loro terzo disco. L’impronta è di quelle davvero
alternative perché non si parla della solita
musica elettronica, ma di una vera ricerca di
sonorità fondamentalmente elettro-jazz.
Per la band o meglio il duo formato dai fratelli
Micha e Markus Acher il jazz è una questione
di famiglia, in quanto la loro musica è quasi un
tributo al padre jazzista.
Nelle quindici tracce del disco all’elettronica
viene lasciato quanto basta per non essere
definiti propriamente una jazz-band, anche se
avrebbero tutte le carte in regola per esserlo.
Forse ai più ci vorrà qualche ascolto in più per
apprezzare davvero l’essenza di questo album,
ma difficilmente si potrà non avere un giudizio
positivo per l’ennesimo centro fatto dalla MORR
MUSIC.
I due fratelli tedeschi hanno saputo miscelare
le tracce di elettronica e quelle jazz a dovere,
alternando queste ultime con intermezzi di
elettronica quasi minimale che sembra vadano
a completare le raffinate performance jazz.
Sicuramente i TIED & TICKLED TRIO ora in tour in
Stati Uniti e Canada, saranno apprezzati a
dovere, e per gli amanti del genere potrà essere
un piacevole ascolto.
Augusto
Tied & Tickled trio
Observing Systems
Questo live dei Rage è come una bomba
innescata tre anni fa, che solo oggi
esplode con un fragore sonoro della durata
di 70 minuti. Personalmente non amo gli
album "post-mortem", perché cavalcano la
scia e hanno il malinconico sapore del
passato. Ma i RATM non sono il passato, né
tanto meno delle meteore, hanno segnato
gli anni '90 col loro inconfondibile crossover,
una miscela corrosiva di funky, metal e hiphop; questo li rende attualissimi (Audioslave
a parte). Ed allora il "Live At The Grand
Olympic Auditorium" va preso per quello che
è: l'ultima esibizione di una band che, oltre
ad aver fatto della buona musica, ha cercato
di smuovere le coscienze del grande pubblico
a colpi di rime baciate e riff pesanti,
nell'illusione di calpestare il sogno americano.
Ideali politici e commerciali slogan a parte,
nell'album si ritrovano i pezzi classici, da
Bombtrack a Guerrilla Radio, passando per
una rabbiosa cover di Kick Out The Jams degli
MC5, ispiratori degli stessi Rage; forse
all'appello mancano un paio di canzoni
"storiche", ma la scaletta è astutamente
costruita. Tom Morello anche sul palco si rivela
essere un campionatore umano che alterna
dissonanze acute a poderosi riff heavy metal,
scandendo una guerriglia sonora fatta di
fischi, spari, sirene e quant'altro esca dalla
sua chitarra, mentre Zack De la Rocha si lascia
andare ai soliti scioglilingua.
La formula proposta, insomma, è sempre la
stessa e può intendersi come un contentino
atteso da molti per elaborare il lutto, per
rendersi conto che simili esperienze, se non
ci si vuole calare in scenari underground,
sono irripetibili.
Amedeo Savino
Live at the Grand Olympic Auditorium
Per quanto riguarda il sottoscritto gli unici due lp dei God Machine stanno al rock degli anni ’90 come “Unknown Pleasures” e “Closer”
dei Joy Division a quello degli anni ’80. Due disperati capolavori attraversati dal senso di morte imminente. Per quanto concerne le
musiche direi che nessuno aveva suonato negli anni ’90 (e nessuno ci sarebbe più riuscito) così epico e scarno al contempo (nei Joy
Division invece la faccenda riguardava di più basso e batteria, e l’influenza di un gruppo come i Buzzcocks, anch’essi di Manchester,
che fu determinante). I God Machine si sciolsero da veri signori: Jimmy Fernandez, il bassista, muore per un tumore al cervello a soli 28
anni. Via! Kaput! Perché vivere la musica è vivere un sogno e una dimensione morale al contempo. Si sciolgono, beninteso, consci di
essere a un passo dal successo massiccio, consci di essere incensati dalle colonne di testate di ogni tipo di tendenza musicale. È il 1994
e un uomo cambia definitivamente il mio modo di percepire la musica (e un sacco di altre cose). Robin Proper Shepard, l’Autore, si
rannicchia nel suo intenso dolore personale, e dopo un po’ forma questi Sophia. God Machine parte seconda? Neanche a parlarne.
Gli album dei Sophia contengono quasi esclusivamente ballate sospese fra radici folk roots americane e delicatezze di matrice
britannica, pregne di un dolore insostenibile. Un’estemporanea “emo” a titolo May Queens (altro grandissimo disco di canzoni) e poi
ritorna con i suoi Sophia. Agisce nell’underground con la sua Flower Shop Records, e influenza i musicisti che voi, poveri bagonghi
ammantati di alternative e di post-cazzi, non direste mai (una su tutte: andate a rintracciare il suo nome fra i ringraziamenti di quel best
seller “alternative” che è “Come On Die Young”, non a caso, dei Mogwai).
Il nuovo dei Sophia, il quarto, rischia di essere da subito il capolavoro del 2004 (sempre per chi mastica musica, e non mode e tendenze).
E la gamma di suggestioni, dopo tre dischi di puro spleen cantautorale, chiama in causa, in alcuni dei suoi episodi, a distanza di dieci
anni il frastuono divino (solo per pochi attimi, solo sullo sfondo) dei God Machine. Rimane un disco unico, come sempre.
Faccio mente locale su alcuni brani:
“Oh my love” è una spedita ballata: mi fa pensare a dei cupissimi R.E.M. (quelli che in pratica vorremmo sentire nei nostri sogni,
ma che non sentiremo mai) che suonano con la disperazione (e con le chitarre) dei Cure di “Pornography”. Una cosa inaudita
ed è solo la prima canzone.
“Desert song n.2”, programmaticamente titolata in questa maniera, riscopre il dolore lancinante per la perdita dell’amico scomparso: si
apre lunare come poche ballate nell’abbecedario universale dei soffi al cuore e tira allo spasimo, fino a coprirci, finalmente, nuovamente,
di quelle stesse leggendarie chitarre, che fecero a pezzi la meteora shoegazer con uno spessore completamente diverso, come se fossero
davvero la trascinante macchina di Dio (altro che Sigur Ros, maledetta stampa inglese).
Arriva “Darkness” e suona come la migliore jam session potreste mai immaginare, poveri bambacioni orfani del grunge, fra un allucinato
Perry Farrel e dei ritrovati Alice in Chains, traghettati dal feedback dei Jesus and Mary Chain.
Segue “If A Change Is Gonna Come” (it will be rock..aggiungerei), che come e più del brano precedente, piacerà tanto ai rockers vestiti
dal sarto di Lou Reed e che ascoltano BRMC a oltranza: prendete un qualsiasi brano degli Stooges (No fun?), piazzatevi Dave Gahan
davanti, metteteglielo in culo (attenti a non beccarvi l’AIDS..) mentre Martin L. Gore assiste compiaciuto al festino chitarra in mano.
Devo parlarvi della qualità delle ballate? Volete farmi scrivere un intero romanzo? L’unico avvertimento è quello di tenervi alla
larga da qualunque forma vivente mentre le gustate; sarebbero capaci di farvi innamorare del vostro cane e…non fatemi
pensare! Gli ingredienti sono gli stessi dei precedenti dischi dei Sophia, ovvero abbracciare 60 anni di canzoni senza tempo (frullate
solo le migliori) col tocco e la leggerezza dei grandi. Adesso raggiungete il più vicino negozio di dischi e compratevi dieci copie
di questo lp, recitate dieci Ave Maria, quattro Padre Nostro e scrivete una lettera a Robin per ringraziarlo di esistere. Non ne riceve
così tante a quanto pare. O forse solo quelle.
Piggy
AA.VV.
A Tribute to Pavement
Homesleep Rec.
Tempo di tributi e questa volta i prescelti sono
i reucci dell’indie a stelle e strisce, i Pavement
di Stephen Malkmus. A testimonianza
dell’importanza musicale che il gruppo ha
avuto su un’intera generazione di musicisti,
c’è il gran numero di adesioni al tributo dato
da nomi illustri della musica mondiale.
Abbiamo così i coevi e altrettanto altisonanti
Trumans Water tra chitarre dissonanti ed
elettronica sporca, i Bardo Pond con una
versione sonica di “Home” (tanto da
assomigliare curiosamente ai Yo La Tengo),
Appendix Out con la loro chitarra rurale, Solex
e il loro pop sgangherato, Thinderstick con
una versione di “Here” (il pezzo più gettonato
della compilation) al solito ammantata di
raffinato cantautorato, Yuppie Flu che
confermano di essere uno dei migliori gruppi
italiani, gli altrettanto acclamati Julie’s Haircut
e i sempre nostrani astri nascenti Perturbazione
con la bella versione acustica di “We Dance”.
E tutt’intorno una pletora di band emergenti
che danno il loro contributo a volte originale
o efficace (Spearmint e la loro pop-dance,
C-Kid con una versione virata in suoni Morr),
spesso invece si limitano alla ripetizione
pedissequa dell’originale o tentano una
trasmutazione in qualcosa d’altro (i Kicker
che condiscono i Pavement in salsa Cure, gli
Sparesnare che ripropongono le ripetute
menate del finalmente morto post rock ma
che si salvano in maniera degna sia per la
scrittura elevata del pezzo originario sia per
la bella voce profonda del cantante). Ma in
tutto questo qualcuno si farà sentire alla lunga
distanza. Due nomi: i Number One Cup con
la bellissima versione folk di “Here” e i Tiger
Wood con l’acustica “Elevate Me Later”.
Piacevole nel complesso.
Gianpiero (sonique)
Cinematerapia
Nancy Peske, Beverly West/Feltrinelli 2003
libri
Se inizierete a leggere questo libro, difficilmente riuscirete a fermarvi
prima della fine cantata a più voci. Grossman ti cattura e ti trasporta
nel fantastico mondo di Nono che sta per uscire dallo scomparto
dell’infanzia troppo solitaria con il dito conficcato nella scalfitura nel
muro per non piangere, ed entrare nello scomparto di una adolescenza
più consapevole. Nono è nel corridoio del treno e da subito fai il tifo
per lui per I suoi occhi distanti e questo suo farsi leggere dentro, bambino
guerriero, matador improvvisato con attorno il suo coro di banderillos.
Nono é un bambino di 13 meno 5 giorni ed è ebreo. Questo implica
che il giorno del suo 13esimo compleanno farà il barmitza, la maturità
religiosa che per la comunità ebraica nel mondo equivale entrare nel
mondo degli adulti.
Ma come, così presto? Si perché 13 anni non è poi presto (ultimi orrori
letterari ci raccontano che a 16 puoi fare la battona in scioltezza).
Capisci quello che ti accade attorno, inizi ad avere consapevolezza
della tua immagine fuori e dentro, fai capolino dal mondo immaginifico
di mostri e fate e poi ci ritorni per troppa paura.
Nono è un bambino a zigzag. Ci sono quelli tondi, ci sono quelli ad
angolo acuto e Almond, Nono, Nonik, il bambino no.
Il padre investigatore e la donna che gli ha fatto da madre, l’immensa
Gabi che ha protetto la natura del bimbo zizagante come fosse una
rarità, gli regalano un viaggio da Gerusalemme a Haifa per andare a
trovare lo zio studioso che ha il compito di indicargli il cammino per
diventare un bravo adulto ebreo. Ma il viaggio esce fuori dalla rotta
prestabilita. Nono incontra i suoi eroi di bambino che ha bisogno dei
sogni per volare: Felix il ladro che fa librare in aria una spiga d’oro a
sigla di ogni colpo di successo, e Lola Ciperola, la divina dallo scialle
viola. E scopre quanto siano connessi alla sua vita. Nono ferma un treno
in corsa e regala il mare alla sua nonna ritrovata. Nono incontra il
fantasma della madre mai conosciuta e si fa cullare. E finalmente
capisce chi é, perché ha quella forma. E noi capiamo con lui che
bisogna guardare in faccia I propri fantasmi se vogliamo smettere di
avere paura. E poi che sempre bisogna continuare ad osare. Con un
linguaggio ricco di allegorie, Grossman fa tuffare il lettore in un mondo
da Calvin & Hobbes. Il ritmo di un fumetto in un romanzo che colpisce
al cuore.
Maurizia Calò
David Grossman/Feltrinelli, 1996
Ci sono Bambini a ZigZag
Una sex comedy che parla di virtù. Così Adam Thirwell, la nuova promessa della letteratura
anglosassone definisce il suo romanzo di esordio Politcs. Quasi a dire che il sesso, i rapporti
di coppia e lo stesso mènage a trois non sono altro che scelte politiche, opzioni dove
tendenzialmente si cerca sempre di prevedere la mossa dell’altro e compiacerlo.
Moshe e Nana sono due giovani fidanzati nella Londra di oggi: elegante e distaccata,
dolce e protettiva lei, goffo e insicuro lui. Si incontrano, si piacciono, forse si amano, ma
nonostante ciò il sesso è l’unica vera ossessione irrisolta di entrambi. Entrare nella loro
camera da letto e seguirli nei dettagli della loro, francamente problematica, vita sessuale
è per il giovane Thirwell un gioco spassoso e allo stesso tempo il pretesto per un’ampia,
letteraria e ottocentesca disquisizione sulla psicologia della coppia, la generosità, l’altruismo.
Si tratta di un pamphlet letterario dai risvolti poco ortodossi: un modo per mettere a
confronto grandi temi filosofici e ambientazioni pornografiche, tra le teorie sul totalitarismo
di Gramsci e i dettagli anatomici di un rapporto anale. Ciò che sorprende è che Thirwell
ci riesce in maniera chirurgica, essenziale, un po’ malevola.
Tutto quello che nessuno vorrebbe sentirsi dire è scritto nero su bianco e ad addolcire la
pillola solo un po’ di ironia e compassione. Perché in fondo è capitato a tutti, narratore
compreso: di trovarsi in situazioni incresciose col partner, di vergognarsi del proprio corpo,
di ammettere che in certe inibizioni non c’è nulla di male. Una voce fuori campo, quindi,
che è spettatore, telecronista da documentario ma anche bonario moralista. La sintesi
è che un buon sano egoismo renderebbe le cose molto più semplici e il gusto perverso
e masochista di compiacere l’altro non fa altro che distruggere, come ci dice sul finale
l’angelico “papi” di Nana, anche le storie d’amore più belle.
Politics è un buon libro per chi vuol ridere del sesso, per chi vuol piangersi addosso, per
chi ha voglia di prendere tra le mani l’esordio di un autore brillante e spregiudicato e
magari illudersi di uscirne arricchito.
Elisa de Portu
Adam Thirwell/Edizioni Guanda
Politics
Se siete alla ricerca di un regalo per qualche amica o per la fidanzatina amante del cinema e non
volete la solita videocassetta (o dvd) o il mattoncino (sempre utile) Morandini o Mereghetti, vi consiglio
questo volumetto uscito da poco in Italia ma affermatosi negli Stati Uniti dal 1999. Le due autrici Nancy
Peske e Beverly West in “Cinematerapia”, sottotitolo “C’è un film per ogni stato d’animo”, raccomandano
una serie di pellicole divise per capitoli tematici (film da sindrome premestruale, film sui rapporti madrefiglia, film per lavoratrici stressate, film per donne appena scaricate e assetate di sangue, film per una
serata tra sole donne). Una carrellata di trame, raccontate in maniera veramente bizzarra, avvertenze,
citazioni e perle di saggezza dedicate alle donne ma dalle quali noi uomini possiamo attingere interessanti
notiziole sul comportamento del gentil sesso. Un agile libricino da consultare prima di andare ad affittare
qualcosa per passare la serata (tentando di carpire l’umore della propria lei), ma anche divertente da
leggere in compagnia per assaporare l’ironia delle autrici e le battute tratte dai film che di tanto in
tanto fanno capolino. Basti pensare alle “peggiori battute per rimorchiare” tra cui spicca quella di Clark
Gable a Carol Lombard in “Nessuno le appartiene”: Cosa ci fai con tutti i cuori che spezzi? Vorremmo
saperlo tutti. Semplicemente geniale!
Ma come hai ridotto questo paese?
Michael Moore/Strade Blu-Mondadori
Michael Moore aveva promesso che “a meno
di un tremendo successo” il suo ultimo libro
sarebbe stato davvero il suo ultimo libro, ma
sfortunatamente ha avuto quel tremendo
successo che voleva evitare e si è visto costretto
a scrivere questo libro (cit. Pag. 263). Chissà se
George W. Bush si prenderà la briga di rispondere
almeno ad una delle domande dello scrittore e
regista americano sulla guerra, il terrorismo, la
politica degli Stati Uniti...
Nel dubbio, Michael Moore, ha raccolto un po'
di informazioni per conto suo, le ha messe insieme
e si è dato delle risposte, che per quanto
sbalorditive, non sono del tutto nuove.
Niente che non fosse stato detto fino ad ora:
interviste, opinioni, analisi di esperti, ricerche che
però non hanno trovato quasi nessuno spazio sui
grandi mass-media americani e che il l'autore di
Stupid White Men ha riportato passo passo.
Il tutto condito con una serie di “palle” raccontate
dall'amministrazione Bush all'America e ai suoi
alleati, che Michael Moore puntualmente
smentisce, fornendo dati e precisazioni.
Poi nel libro ci sono anche i preziosi suggerimenti
per parlare, al pranzo del ringraziamento, con il
proprio cognato conservatore e per mandare
definitivamente a casa il presidente Bush.
Oltre all'utilità di sfruttare in chiave nostrana i
consigli dell'autore, il libro offre una lettura
alternativa della situazione americana, ad opera
di un americano (il che è già una buona notizia),
ma non risulta mai pesante.
Anzi, l'abilità dell'autore dei documentari Roger
ed io e Bowling a Colombine riesce a esprimersi
anche attraverso la scrittura dando al libro una
forma scorrevole e spezzata, piena di gag e
battute al limite del paradossale (ma non vi
aspettate di trovare le barzellette di Totti).
Michael Moore riesce a scherzare sulle questioni
internazionali più scottanti del momento e in
qualche modo ci aiuta a comprenderle meglio.
Semmai il rischio è che qualcuno non lo prenda
troppo sul serio... invece pare proprio che sia
tutto vero.
Fulvio Totaro
Rêveries
libri d’altri tempi
Buongiorno signor Potter, lei è un mago, giusto?
Sì, decisamente sì.
Mi fa molto piacere che lei abbia accettato di rispondere alle mie domande, ma come mai le è stato concesso di
svelarsi al mondo dei Babbani?
Vede, ne ho parlato molto con i miei amici e con i miei insegnanti e soprattutto con i signori Weasley, i genitori di Ron,
il mio migliore amico. Visto quello che sta succedendo dopo il ritorno di Voldemort, eravamo tutti d’accordo nell’avvisare
i Babbani, cioè voi, dei pericoli che potete correre. Il signor Weasley lavora al Ministero della Magia, e da quando i
rapporti con il ministro Caramell sono migliorati non gli è stato difficile convincerlo che è una cosa opportuna da farsi.
Comunque, in quanto minorenne, non posso fare uso della magia davanti a lei.
Questo mi dispiace. Mi sarebbe molto piaciuto vederla all’opera, lei è una leggenda anche da noi e le sue avventure
sono note ormai a tutti. Dunque, Harry – diamoci del tu - qual è il tuo incantesimo preferito?
Vedi, Dario, l’incantesimo per cui sono diventato forse più famoso, perché è un incantesimo molto difficile, soprattutto
per un ragazzo della mia età è l’incantesimo Patronus che serve a difendersi dai terribili Dissennatori. L’ho già usato
più di una volta e mi ha salvato la vita in diverse occasioni.
La tua fama si estende in ogni parte del nostro mondo e la tua immagine è oggetto vero e proprio di culto. La tua
faccia compare su magliette, spilline, figurine, calendari, e su ogni altro oggetto immaginabile. Cosa ne pensi?
Guarda mi hanno detto che nel mondo dei Babbani queste cose si usano molto. Mi hanno parlato di un altro signore
che è diventato l’eroe per molti ragazzi. A quello che mi hanno raccontato doveva essere un tipo molto in gamba,
anche se non credo che si sia mai trovato ad affrontare gli stessi pericoli che ho dovuto affrontare io. Comunque mi
piacerebbe conoscere colui che condivide con me gli scaffali delle edicole.
Quale pensi che sarà il tuo destino?
A me piacerebbe intraprendere la carriera di Auror, che sono quelli che combattono contro le forze del male. Una
specie di corpi speciali della vostra polizia. Però sono buoni davvero. E molto in gamba. È difficile diventare Auror,
però, bisogna studiare molto e molto duramente. Ma so che ce la posso fare. Poi, per il resto, so che prima o poi mi
toccherà di affrontare definitivamente Voldemort. Spero sinceramente di riuscire a fermarlo una volta per tutte.
Spesso da noi succedono cose strane, come black out improvvisi, oppure semplicemente elettrodomestici che smettono
di funzionare, o piccoli oggetti che sembrano sparire nel nulla. Secondo te questo può essere dovuto a interferenze
del mondo della magia?
Di questo bisognerebbe parlarne con il signor Weasley, che si occupa dell’uso improprio dei manufatti babbani.
Comunque penso di poter rispondere affermativamente. Credo che si tratti proprio di questo. Mi hanno anche detto
che voi attribuite a delle creature magiche, i folletti molte di queste cose, come la sparizione dei piccoli oggetti, oppure
le trecce dei cavalli legate, o il mal di stomaco mentre dormite. Hagrid, il professore di Cura delle creature magiche
ad Hogwarts, la Scuola di magia, vi direbbe che questo non è sempre vero. I folletti sono delle creature simpatiche
anche se un po’ dispettose e in realtà non fanno del male a nessuno. Per quanto riguarda la sparizione degli oggetti
spesso sono proprio i maghi a rubarli. Molte case di maghi infatti sno piene dei vostri oggetti. E al Ministero della magia
ci sono interi magazzini pieni di queste cose che vengono stuidate dagli esperti come il signor Weasley.
E per quanto riguarda catastrofi più grosse?
Questo è proprio il motivo per cui sono venuto a parlare con te. Dovete stare attenti. Voldemort è tornato ed è molto
potente. Molti Mangiamorte si sono già uniti a lui e sta iniziando una nuova guerra nel mondo dei maghi. I pericoli che
corrette voi sono grandissimi. Un black out è il minore dei mali. Voldemort non ha scrupoli e non esiterebbe a uccidere
anche degli innocenti pur di conquistare il potere!
Grazie signor Potter, basta così adesso non vorrei spaventare troppo i lettori.
Bobby Conn
The Homeland
Glamorous piggy
Bobby Conn viene dagli ambienti del post rock americano, amichetto qual è di Jim O’ Rurco
e John Mc Intairrr, nomi che faranno sbavare i seguaci del genere, gli stessi che probabilmente
vomiteranno all’ascolto di questo suo quarto capitolo denominato “The Homeland”. Essì.
Perché questo dischetto è un dischetto glam a tutti gli effetti. Suona come il Lou Reed di
“Transformer” che fraseggia con i Beatles a merenda, c’è tantissimo Bowie, c’è tantissimo
Marc Bolan, vi è persino qualche apertura disco e funk, alcuni dei luoghi sonori perennemente
abusati al tempo (gli anni ’70, Santiddio!) dai lungocriniti musicisti che vestivano i colorati
stracci del mercato. Unica nota dolente, e come non potrebbe esserelo, da pirla
pseudoinellettuale quale probabilmente fu, il bravo Conn commette due, dico due errori
imperdonabili (almeno per me): il primo è quello di tralasciare completamente la parte
sozzona e americana del Glam, quella che flirtava con l’hard rock e il punk di seconda mano,
quella fatta di Kiss, Dictators, Stooges, New York Dolls e tanti altri (band forse fin troppo vere
in fin dei conti per cotanta boria di paraculo). Il secondo è quello di cercare di metterci
mano nell’ultimo brano del disco, “My special friend”, con esiti veramente orripilanti:
immaginatevi Chris Cornell e i suoi riff muscolari alle prese con un David Bowie affamato di
nerchia. Va bene la spazzatura, però...
Non solo, si mette a straparlare di Alice Cooper dalle colonne di un importante rivista musicale
italiana (non dico quale). Cito testualmente: “Mi piace molto l’imitazione, penso che uno
che tenta disperatamente di essere Alice Cooper sia molto più affascinante di Alice Cooper,
che ci sia più passione e drammaticità lontano da sfarzosi apparati pop”. Una cazzata che
neanche il Brett Anderson più sfondato (non scrivo dove). Che forse il buon Alice non tentasse
di imitare Alice Cooper stesso’ ma dico, siamo impazziti! Questo era alla base della
fenomenologia pop degli anni dai quali scopiazza il bravo Conn, ma sembra non averne
capito praticamente nulla. E di certo il sottoscritto me medesimo non risultava decisamente
più affascinante del caro Alice pur cercando disperatamente di imitarlo secoli e secoli or
sono, ma anche oggi, sissì…
D’altro canto chissenefrega se Bobby ci regala dischi come questo. E andiamo a scoprirne
di più, vivvaddio!
A partire dalla prima traccia, “We Come In Peace”, che ci regala un bignami fresco e frizzante
di Velvet trascinati dal battito alla Moe Tucker ibridati con romantiche melodie beatlesiane;
“We’re Taking Over The World” rinnova il concetto “quanto ci piace quel Lou prodotto da
Bowie” con esiti più che soddisfacenti; la title track è una delle migliori del lotto, un sabbathiano
riff sul quale si adagiano straniate voci su melodiche sequenze che profumano di “China
Girl” (penso abbiate compreso che Davidino è un riferimento costante..), così come “Relax”,
primo brano del dischetto a omaggiare il funk in odore di glam ma con una approccio
moderno (pensate ai Daft punk). “The Style I Need” puzza di Ray Manzarek lontano un miglio
e “Bus no.243” è un po’ la loro “Ballroom Blitz”. Divertimento assicurato dunque, ma preferisco
i Turbonegro e i Toilet Boys a questo revival coooosì “english”.
musica
Baustelle
La moda del lento
Venus/Mimo
Non posso parlare del loro secondo lavoro prescindendo totalmente dal primo. Perché il
Sussidiario mi aveva colpita al cuore. L’ironia delle storie, la sensualità delle voci, i coretti, gli
orgasmi simulati, il pop melodico intrecciato a mille sonorità diverse, la droga e il sesso e
l’amore e la malinconia e i ricordi nei testi. “Ruvido e postmoderno” lo aveva definito
Francesco, voce della band. Un cd che mettevo in loop e non me ne stancavo mai e
cantavo e ballicchiavo e urlavo e sospiravo e quando finiva ricominciavo.
Con le migliori aspettative ascolto il loro secondo lavoro, uscito dopo quasi tre anni - questo
perché i nuovi talenti non vengono mai valorizzati abbastanza - un’attesa infinita per quelli,
e sono tanti, che hanno scoperto e amato i Baustelle sin dal primo momento. Lo ascolto e
penso che è diverso dal primo, anche se - nonostante i cambiamenti di line up, di etichetta
e di vite - loro sono sempre loro. Sinceri e diretti. Sessanta minuti circa di elettronica, di
pianoforte, di sinth, di chitarre, di orchestrazioni, sessanta minuti di brividi, soprattutto. Il dolore
agrodolce che percepisci dalle parole, la necessità di buttar fuori le emozioni nascoste
dentro, la forza di dire ciò che di solito si preferisce tacere. “Se il Sussidiario era un quadro
fatto di frammenti, a cavallo fra spunti di vita citati ironicamente, la Moda è più personale,
è più lineare, più deluso” mi spiega Fabrizio, tastierista e programmer del gruppo. Un intreccio
di sofferenze e gioie vissute realmente, e poi trascritte, con immagini letterarie complesse,
mai banali. Eleganti come due figure esili che si intrecciano (vd copertina cd ndr), malinconici
come il passato che non ritorna, poetici come la forza delle parole, “dannosi” come il fumo
di tremila sigarette (vd Reclame). Evocativi come l’immagine di un film, intimi come le pagine
di un diario, profondi come qualcosa che è lontano e non ci arrivi, preziosi come ciò che hai
perso per sempre. Dalle prime note del pianoforte, da i per sempre e i ma delle prime parole,
dalla splendida ghost track, dalle voci di Rachele e Francesco che cantano e dalla voce
di Fabrizio che mi parla al telefono nel pomeriggio della Vigilia di Natale, da ciò che
nascondono nelle loro vite, da tutto quello che appartiene ai Baustelle capisci che la musica
è vera e fa male, capisci che la vita non è una barzelletta, capisci che col tempo si cresce
e si matura e si cambia e si migliora. E loro sono cresciuti e maturati, grazie anche a quelle
persone che hanno incontrato nel percorso
e che hanno creduto in loro, da sempre,
dall’inizio. Penso ad Amerigo Verardi,
produttore del loro primo lavoro, e coproduttore, insieme agli stessi Baustelle, di
questo secondo. “Nel Sussidiario eravamo
ancora un po’ acerbi, e Amerigo ci ha
portati per mano - mi dice Fabrizio - in questo
disco il suo apporto è stato diverso, si è
creato un rapporto umano ottimo fra noi”.
In attesa del secondo video in uscita a
Gennaio (probabilmente si tratterà del video
di Arriva lo ye ye) e in attesa di intensificare
l’attività live, i Baustelle continuano a colpire
e affascinare. Un intero pomeriggio tu e
questo cd, ad ascoltare la vita che ti
raccontano in note, ad ascoltare il loro
cuore, e il tuo.
Valentina Cataldo
Sleepy Jacksons
Virgin/emi
Lovers
Se questo disco fosse un tavolo
da biliardo, Luke Steele sarebbe
un pallino impazzito che
fregandosene delle regole manda
in buca le altre palle. E se le altre
palle
fossero
canzoni
rappresenterebbero benissimo
questo cd: tutte diverse, colorate,
tutte o più o meno spinte in
direzioni differenti. È come un
gioco questo disco, un
divertissement con una vittima e
un carnefice: da una parte il pop,
dall’altra Luke Steele e i suoi Sleepy
Jackson. Un personaggio a cui
sarebbe interessante fare tante
domande, giusto per capire se si
diverte a prendere in giro la gente
o se il suo è un progetto di tipo
enciclopedico, una sorta di
censimento di tutto quello che
una chitarra può fare per essere
easy. Al primo ascolto sembra una
compilation, un'apertura con
chitarre slide e coretti in falsetto,
lascia spazio a un rock & roll di
professione ortodossa, e poi il pop,
tanto pop fatto di schitarrate
acustiche tastiere e voce in stile
dark anni 80. Poi sembra di
ascoltare Badly Drawn Boy più
ubriaco del solito. Piano piano
cominci a capire il gioco, capisci
che le canzoni in fondo non sono
male, capisci che in realtà questo
appena 23enne australiano ha
studiato bene, e che in fondo non
è neanche un disco tanto
semplice e banale. Della tanta
carne al fuoco ce n’è da fare uno
spuntino di quelli però che ti
lasciano quella sensazione che
non è proprio fame ma più voglia
di qualcosa di buono. Ma non ci
pensi e canticchi na na na na,
oppure improvvisi una quadriglia
in stanza con uno dei ruspanti
brani country-folk che questo
disco ha in serbo. C’è pure un
bimbo che canta a un certo
punto, un po' di elettronica, e una
bella ballatona a chiudere il tutto.
Una cosa è sicura, almeno un
brano vi piacerà.
Osvaldo
Outkast
Speakerboxx/The Love Below
Arista (2003)
Quando si parla degli Air una delle prime parole che mi passa per la testa
è coerenza, ogni volta che metto su un loro nuovo disco so cosa aspettarmi
ma so anche che ne rimarrò stupito. Questo Talkie Walkie vede gli Air più
duo che mai, tutto è suonato e cantato da loro in un lavoro che sembra
staccarsi dal precedente 10.000 Hz Legend, in cui la band aveva intrapreso
percorsi poco digeribili per gli amanti della loro vena squisitamente e
dolcemente pop, per riscoprire le proprie origini, quelle dell’indimenticabile
e inimitabile Moon Safari. Ancora belle collaborazioni che impreziosiscono
il loro lavoro che ormai non sembra limitarsi alla sola musica. Si consolida
la loro amicizia artistica con Sophia Coppola per cui avevano scritto lo
splendido The Vergin Suicide colonna sonora di un bel film che è anche
un bel libro scritto da Jeffrey Eugenides, questa volta hanno scritto per lei
il brano Alone in Kioto inserito nella sound track del suo ultimo film Lost in
Traslation. E poi c’è anche il piccolo mago dei controlli Nigel Godrich come
produttore e un certo Michel Colombier (accanto a Serge Gainsbourg in
alcune dei suoi lavori) che ha curato gli arrangiamenti orchestrali. Il ricordo
di cose bellissime a volte ti impedisce di apprezzare le cose che vengono
dopo, questo succede spesso nella vita, e forse mi è successo anche con
gli Air. Credo che questo sia un bel disco, ma è come se mi mettesse
nostalgia del tipo...quasi quasi metto su Premier simptome (loro primo
lavoro). Il disco nel complesso è veramente bello, il lavoro del produttore
ha svecchiato senza snaturare la loro attitudine per i suoni analogici, le
canzoni ci sono, le melodie riescono come sempre a evocare immagini
e colori come nella perfetta tradizione psichedelica a cui rimangono
comunque legati, tutto è come deve essere, ci sono anche quelle sorpresine
che spezzano piacevolmente il ritmo dell’ascolto ma manca qualcosa...non
so. Forse manca quella sensazione che ho sempre avuto ascoltandoli, la
sensazione di vivere ogni disco come un bel concept, come un discorso
aperto con la prima canzone e chiuso con l’ultima. Comunque lo metto
nella mia personale top five perché Talkie Walkie è un bel viaggio, un
tassello nel mosaico di questo gruppo che continua a dare ogni volta una
lezione d’eleganza, a creare atmosfere sognanti e piccole e stranianti
suggestioni lisergiche che tanto mi piacciono.
Osvaldo
Talkie Walkie
Virgin 2004
Air
Ancora una volta il proteiforme talento degli Outkast riesce a spiazzare. Il duo di Atlanta dà
degno seguito all’acclamato Stankonia in trentanove pezzi, due ore e un quarto di puro
delirio sonoro, ripartite in un doppio cd (Speakerboxx realizzato da Big Boi e The Love Below
realizzato da Andre 3000). La decisione di dar vita a due lavori separati è chiaro indizio delle
diverse direzioni musicali che i due hanno intrapreso ed il possibile preludio di un definitivo
scioglimento. Speakerboxx rimane infatti più fedele alle sonorità storiche del gruppo,
sostanzialmente in linea con il movimento del dirty south georgiano, alternando episodi di
hip hop più ortodosso a maestose esplosioni di creatività, tra fiati funkeggianti, bassi imponenti,
ritmi impossibili e liriche molto politicizzate. Tra gli episodi più felici la spumeggiante “Ghetto
Musick”, frenetica esibizione di stili in continuo cambio di direzione e “Bowtie”, puro New
Orleans sound del terzo millennio. Speakerboxx è un’ulteriore importante contributo all’eclettica
produzione dirty south ma non ne rappresenta né l’evoluzione né il superamento, costituendo
ciò il grosso limite dell’album. Assolutamente da 5 stelle è invece The Love Below, opera di
quel folle personaggio che è Andre 3000, la cui audacia nel comporre è pari solo a quella
nel vestire. Il funk di George Clinton, la psichedelica anni ’60, il Motown sound, si fondono
in un ricco compendio di decenni di black music, in cui risuonano magnifici gli echi delle
chitarre parlanti di Hendrix e dei falsetti maliziosi di Prince. Ormai fuori da ogni confine di
genere e decisamente proiettato verso la sperimentazione, Andre 3000 si rivela un’artista
completo, il cui estro atipico si consacra luminoso faro di questi anni bui di hip hop.
Marco Leone
Dream theater
Train of trough
Elektra
È facile giustificare un passo falso di questo gruppo ricordandosi che sono passati più di dieci
anni sia dalla sua costituzione che dall’uscita del disco che ne ha costituito la consacrazione
(mi riferisco all’album “Images And Words”, che ha creato un vero e proprio esercito di band
che continuano a cercare di riproporre quel tipo di sonorità), ma è meno semplice invece
comprendere il tutto se si considera che sono passati solo due anni dal capolavoro “Metropolis
Pt.2: Scenes From A Memory”, concept-album di incredibile fascino non solo musicale.
Per afferrare il senso di un disco così autoavvilente come “Train Of Thought” è necessario
fare delle considerazioni di carattere economico, ove solo in virtù del tentativo di cavalcare
l’onda del successo (i Dream Theater sono una delle metal band che vende di più nel mondo)
il gruppo ha sfornato un breve e confusionario agglomerato di tentativi di aggrapparsi a vari
trend musicali; in ogni brano si possono scorgere sfacciate parodie dei Metallica, dei Pantera,
di tutta l’ondata “nu metal” e di certi facili ritornelli da classifica, ma non si riesce a trovare
neanche col massimo impegno nessuno degli elementi caratterizzanti (in positivo) la band:
nessuna limpida e toccante interpretazione vocale di James LaBrie (a più di qualcuno è
venuto il sospetto che addirittura non fosse più lui il vocalist del gruppo..), nessuna impennata
strumentale (sembra quasi che abbiano tutti volutamente innescato il freno a mano), nessuno
sprazzo di originalità e neanche un briciolo di sentimento.
Forse il fatto di far uscire così tanti dischi nel giro di poco tempo ha un po’ mandato in tilt la
vena compositiva del quintetto americano, ma a mio modesto avviso si tratta più di un
maldestro tentativo (ancor più del già criticabile “Falling Into Infinity”) di piacere ai ragazzini
(e ancor più alle ragazzine) dell’area metal, che costringe i veri fans a ripescare (comunque
con piacere) le vecchie pagine di musica scritte da questo gruppo.
Marcello
(X)-VERSIONI SESSUALI: ad ognuno la sua!
Ovvero: 100 colpi di giradischi prima di andare a dormire!
Premessa: La presente raccolta (per nulla esaustiva, quanto non mai limitata alle conoscenze TEORICHE, ahimè?, del sottoscritto)
nasce con il solo scopo ludico-informativo (ah!), partendo dal presupposto dell’esistenza del massimo rispetto e tolleranza per ogni
essere vivente. Ogni “variante” presume la totale reciproca volontà da parte delle persone coinvolte negando fin d’ora qualsiasi forma
di obbligo (non voluto) o violenza mentale fra i soggetti coinvolti.
Si tratta di un testo ad alto contenuto erotico (Yuh-Uh!), rivolto a persone adulte e che non si scandalizzano o si offendono leggendo
quanto scritto; se ciò fosse, leggete pure qualcos'altro.
Istruzioni per l’uso: nella trattazione delle tematiche seguenti, non si è minimamente posto il problema del genere sessuale delle persone,
unica ipotesi due (o tre o quattro o ...che caspita ne so!) persone che amoreggiano (con le dovute precauzioni!).
Buon ascolto:
musica
ANAL SEX, ovvero trarre piacere nel potere della dominazione (ottenuta o subita), il gusto di una parte del corpo
strettamente legata al “controllo”: quale colonna potrebbe esaudire tal desiderio? Io consiglierei: Ben Harper o i Primal
Scream.
ANIMAL SEX... mah! Penso alla mia povera gatta e non mi viene nessuna canzone, aiuto! Forse qualche campionamento
di suoni (:-@), una scanzonata “Wordy Pappinghood” delle Chicks On Speed o una bella versione di Heidi(?).
BONDAGE: ovvero il piacere della costrizione e dei “legami”, della punizione. Beh! qua dipende dai gusti, se proprio
volete punirvi potete scegliere tra il repertorio completo di Eros Ramazzotti e dei Blink 182 spaziando con qualche
canzonetta di Marilyn Manson. Se vogliamo rimanere sul classico: gli Alice in Chains
CAPELLI (CHIOME o BIONDE o BRUNE) – HAIRYsex: folte chiome iridescenti vi stimolano più di qualsiasi altra cosa? Allora
qualcosa stile Pure Rock oppure Heavy Metal da classifica anni ’80 potrebbe esser congeniale, ma se non rientra nel
vostro stile allora dateci pure sotto con un bel po di Boogie Woogie!
CHEER GIRL (BOY?): il/la ragazza/o della porta accanto vi rende pruriginosi/e, spaziate l’aere con i Pizzicato Five, una
bella compilation della Rettore, magari riciclando il Boogie Woogie di prima (soprattutto se il/la vostro/a vicino/a è un
ottimo/a casalingo/a)
DONNE IN CINTA: oh mio dio! Perché no? Se a qualcuno piace in cinta...mettete pure sullo stereo una collezione di
pubblicità Milupa, Plasmon, etc etc.... magari ascoltando The Child di Alex Gopher (??!!) o una trilogia di Raymond
Scott.
ESIBIZIONISMO: perchè è bello solo se lo si fa in pubblico! (V. anche “Voyeur”).. magari in
luoghi affollati, in mezzo alla gente; “spazzolatevi” una bella raccolta di successi di Madonna.
Magari si potrebbe finire in un guazzabuglio di corpi a suon di “erotica” o “music” o
canticchiando per strada quel pezzo di qualche gruppo italiano che ripeteva “Ma come
è bello andare in giro con la vespa...etc...etc” (ahimè non ricordo i nomi!)
FETISH-leather: l’oggetto, l’indumento, l’idolatria della cosa in pelle nera o in lucido latex;
direi un po’ di suoni di Golden Boy, qualche vecchia canzone di Grace Jones o delle
Bananarama... e Britney Spears, no?
FISTING, (fist=pugno): in pratica l’uso di arti superiori al posto dei consueti “attrezzi” riproduttivi come oggetto sessuale
sfonda-sfintère; forse potrebbe andar bene l’ultimo album dei Massive Attack, dopo aver ascoltato un’intera compilation
di Claudio Simonetti!
GANG-BANG: in pratica un’orgia dove un’unica persona (generalmente femminile) “compete” con un gruppo di
persone dell’altro sesso (generalmente maschile). Dipende da quanto pock (pop-rock) siete, si può spaziare dai Blink
182 ai Kiss, passando attraverso le musiche dei Rockets e arrivare ai Prodigy o ChemicaBrothers.
INTERRACIAL SEX, una miscellanea di razze speziate dalle musiche di Missy Elliot oppure Dizzy Rascal (@L@!!!) o anche
qualche pezzo di Alka Yagnik.
MILITARY, la passione per la divisa? Direi che una compilation riassuntiva dei Frankie Goes To Hollywood possa andar
bene!... o se preferite il classic rock (?) un po di Queen!... e se vi sentite elettronici, allora meglio andare sui suoni targati
Mouse On Mars!... se, invece, siete dei tipi umoristici allora sparatevi la “marcia delle sturmtruppen”.
MISURE ESTREME: la passione per le misure eccessive; si va dai BIG COCKS alle BIG TITS O VICEVERSA....non saprei; mi
vengono in mente solo lavori di Aphex Twin. Se invece le misure riguardano il gusto per la carne “tanta”, (FATlady o
FATman) un bel pezzo come “nessuno mi può giudicare” o “il mondo”?
OLDER: il piacere della maturità (si spera non troppo stagionata!) e vai con una compilation di musica italiana degli anni
‘40/’50, oppure un bel Frank Sinatra con un leggero condimento di musica classica (magari qualche concerto per
pianoforte)
ORAL SEX: diciamo una pratica di “incorporazione” orale dell’altro/a/i/e. Credo che Tipsy, Mùm o una canzone (video
incluso) come “All is full of love” (Bjork) possano andar bene.
PISSING: c’è a chi piacciono calde deiezioni corporee, allora cosa ascoltare? “Drops” di Cornelius? O “Sweet Harmony”
dei TheBeloved.....
SM (Sadomaso – Slave/Master): nei limiti del lecito, si tratta del piacere nella sopraffazione e “umiliazione” del partner
o, viceversa, della sottomissione al partner. Qui siamo veramente nel soggettivo, si potrebbe apprezzare un mix tra
Golden Boy e Grace Jones, magari, paradossalmente, conditi con Dot Allison.
SPANKING (ovvero il piacere nel ricevere o dare SCULACCIATE!) o viceversa RAMMING (invece di sculacciare, si degusta!):
Peaches e electroclash a go-go!
STRAP-ON SEX (donne “attrezzate” per sodomizzare l’uomo) e qui si potrebbe andare a suon di Marlene Dietrich o P.J.
Harvey o, perchè no, Grace Jones..... o i Cramps!!!
TOYsex (come trovar piacere nell’uso di MACCHINE): uso gaudente di oggetti simil-fallici o orifizi meccanici; quale
colonna sonora si potrebbe consigliare nella pratica di questa (per)versione? Die ensturzende neubaten, “Pluto” di
Bjork(!!?!!) o magari qualcosina dei KraftWerk o degli UnderWorld
TRANS-GENDER, uomini che adorano sembrar donna (drag-queen) o donne che vorrebbero esser uomo (drag-king),
qui si può veramente spaziare con tutto il mondo musicale: Glam-Rock, Classic Rock, Pop-Rock, i Village People,
Elettronica commerciale, Folk, Acid-House..... tutto può andar bene! Ad ognuno il suo...non esistono confini musicali al
genere!
VOYEUR: in linea generale si potrebbe sintetizzare come il piacere nell’uso dell’occhio, guardare e farsi guardare
attraverso spazi nascosti-sprivatizzati; con quali musiche? I Talking Heads, per esempio, ma son sicuramente di buona
compagnia anche un bel po di pezzi dei Tortoise....e una bella compilation di soundtrack HITCHCOCKiane?
P.S.: ovviamente ognuno può avere gusti differenti (musicali e non) e magari avere qualche perversione non contemplata.
Son ben disposto ad acculturarmi!
Maniaco della porta accanto