“INTRODUZIONE ALLA FEDE” – W.Kasper (ed. Queriniana Brescia, 1973) Questo testo rappresenta una raccolta di dieci lezioni tenute dal prof. Kasper, tra il 1970 ed il 1971, a studenti della Facoltà di Teologia Cattolica di Munster e Tubingen che, per suo specifico desiderio, erano rappresentati in questa specifica occasione da categorie piuttosto eterogenee: sacerdoti, catechisti ed insegnanti di religione, grazie alle cui domande l’autore ha realizzato questo testo, scorrevole ed interessante, che interroga la fede nei suoi fondamenti e nelle sue possibilità di attualizzazione nella società moderna. Si tratta di un’opera che non acconsente al silenzio pur di mantenere il quieto vivere nella Chiesa, ma che non esita a sollevare la discussione su temi attuali per l’epoca ma, sorprendentemente, anche oggi vivi e non ancora risolti: dieci capitoli, ciascuno articolato in tre sezioni, che sviluppano la riflessione su specifiche problematiche di concretizzazione dello studio della teologia, senza dimenticare di contestualizzare dal punto di vista storico e ideologico le radici dell’attuale mancanza di stimoli e di senso che la società sperimenta in materia di teologia. Secondo Kasper, il presupposto da cui occorre partire è che il credere va messo al centro dello studio teologico, per poter “fronteggiare le esigenze della vita moderna”, al fine dell’aggiornamento della chiesa; due sono gli obiettivi: chiarire la responsabilità sociale della teologia come “comprensione viva della fede”, permetterà di agire contro la mancanza di fiducia nella chiesa che può vivere chi è interno alla chiesa stessa, a causa della poca sicurezza sulla validità della propria missione, motivo per cui è portato a convincere gli altri di qualcosa in cui per primo non crede. Questo tipo d’impostazione porterà così a rimuovere la confusione che si attribuisce tradizionalmente alla discussione teologica, per incoraggiare piuttosto la “speranza della fede”. Il primo capitolo, “LA SITUAZIONE DELLA FEDE”, è un paradigma storico che contestualizza la crisi della teologia nell’età moderna a fronte dei cambiamenti che il pensiero filosofico e sociale hanno subito: i principi della fede “non corrispondono più a nessuna questione e per questo non sono più sentiti come istanze”, per questo non agiscono più come propellente alla vita ed alla storia; in altre parole, “non solo Dio, ma anche la questione su Dio è morta”. Il vuoto di richieste da parte della società ha tuttavia lasciato spazio nella chiesa per la riflessione teologica ed a confronto con i principi della modernità, consentendo così una pluralità di opinioni che non è però possibile comprendere nè conoscere appieno, nè sintetizzare, perchè i punti di partenza, le categorie di riferimento ed il contesto culturale sono troppo diversi. Ciò ha portato al rischio della frammentazione e della riduzione della forza della testimonianza della chiesa, proprio perchè coloro che sono i principali fautori di queste critiche sono anche i primi a non aver fiducia nella chiesa, sottraendosi così “alla discussione ed all’impegno di cambiare la benché minima cosa nella chiesa”, che invece nel corso della storia “su ogni errore trionfa [come segno] di speranza escatologica, (...) motivo di speranza e di fiducia”. Questa situazione è sicuramente segno di crisi ma è anche kairòs, per riuscire a rispondere con nuove parole ed articolando diversamente i problemi alla domanda di senso che viene dalla società. È infatti possibile, secondo Kasper, leggere nella società moderna i segni del compimento e del superamento dell’Illuminismo, come processo dinamico che “solo oggi ci ha pienamente raggiunto”: l’uomo, oggi più che mai, è in cammino verso sè stesso e cerca in sè stesso la misura ed il criterio della propria libertà, diventa “punto di riferimento della realtà” ed instaura con gli altri uomini rapporti di parità, che mettono in crisi il principio di autorità, in favore di relazioni tra “uguali e liberi”. Si accentua così progressivamente il processo di secolarizzazione che significa che “l’uomo si svincola dai campioni di comportamento e dalle categorie di pensiero metafisiche e si abitua ad orientarsi secondo le norme proprie ed immanenti dei diversi ambiti della realtà”; l’uomo perde i propri riferimenti e cade nel nichilismo, per dirla con Nietzsche ma, poichè “la libertà umana è possibile solo storicamente e socialmente, non può mai essere autonoma in senso assoluto”, si rende necessario disporre di un’autorità che continui ad attrarre ed impartire una direzione all’agire ed al pensiero (cfr. istituzione del dogma dell’infallibilità del papa); tuttavia a noi uomini moderni “è possibile solo un rapporto critico, cioè negativo, con l’autorità”, per questo il Concilio Vaticano II ha creduto di doversi aprire completamente e consapevolmente alle istanze della modernità, pur se questo avrebbe potuto portare ad una crisi. Sollevare dunque i nuovi problemi della vita moderna comporta una novità nel campo della riflessione teologica, con il rischio che “i risultati delle moderne scienze sociali e umane” possono coprire la “forza critico-liberatrice dell’evangelo”; questo è il rischio della “teologia della mediazione” che, per armonizzare il pensiero scientifico con la fede, sminuisce entrambi delle proprie peculiarità, annacquandoli. È accaduto infatti alla teologia liberale che, piuttosto che sanare il divario tra la fede e l’esperienza umana, l’abbia approfondito, a causa del fatto che le sue istanze sono state messe a tacere per il rischio di cui sopra. Kasper si chiede perciò come sia possibile recuperare queste giuste istanze; come sia possibile ottenere una corretta “mediazione critica” tra fede e pensiero, tra chiesa e società. La crisi della teologia va di pari passo con il declino della vita intellettuale che, al pari dell’altra, non è attualmente in grado di fornire risposte e prospettive per il futuro, per cui procede in maniera improvvisata e senza slanci. Conseguenza di ciò è quello che Kasper chiama “secondo Illuminismo”, cioè l’illuminismo che ragiona su sè stesso, perchè ha sperimentato la fallibilità e la finitezza dei propri schemi di pensiero e dunque, piuttosto che occuparsi di grandi interrogativi che appaiono senza soluzione, sceglie di considerare questioni comuni e relativamente risolvibili: “la fede idealistica nella razionalità totale e nelle idee che tutto dominano è completamente tramontata”. Questa debolezza del pensiero umano riporta così all’esigenza della tensione verso la trascendenza, come reazione alla debolezza strutturale della condizione umana che ancora fortemente l’uomo alla propria realtà: la riflessione teologica è perciò spinta in avanti, per cercare di restituire all’uomo la speranza in sè stesso e per illustrare come l’uomo non possa risolversi solo in sè stesso, ma come sia sempre “una questione aperta”. Kasper è profondamente consapevole del fatto che “ciò che si attende dalla teologia raramente è stato così grande come oggi. Per questo la delusione è anche più amara se diamo pietre al posto di pane”. Il secondo capitolo, “IL LUOGO DELLA FEDE”, tratta di come la fede abbia perso il suo carattere d’indispensabilità per molti che “anche senza fede in Dio si sentono uomini completi e felici”. La fede è dono, secondo Kasper, è un cammino che non può essere autonomamente intrapreso dall’uomo partendo da sè stesso, altrimenti sarebbe umanamente dimostrabile, “non sarebbe più una fede”; tuttavia l’adesione alla fede non può essere altro che un atto “pienamente e totalmente” umano, che presuppone un criterio di sensatezza, onestà intellettuale e responsabilità da parte dell’uomo che liberamente sceglie di accogliere questo dono, perchè sollecitato dai problemi concreti che la fede stessa pone, o dovrebbe porre: “la teologia e la predicazione devono essere missionarie (...), devono dischiudere le formule della fede, così da renderle comprensibili nelle concrete situazioni umane e farle diventare genuine interpellazioni all’uomo e sollecitazione di una decisione”. Il fine di questa ricerca non dovrebbe dunque essere altro che “trovare Dio in tutte le cose”. La degenerazione di questo pensiero potrebbe tuttavia consistere nel posizionare Dio irrimediabilmente al di là della realtà quotidiana, salvo poi invocarlo come “tappabuchi” per “spiegare i contenuti non ancora resi comprensibili”, degradandolo “a semplice mezzo per il dominio della realtà sul piano della conoscenza”. La riflessione su Dio dovrebbe piuttosto essere finalizzata alla ricerca di senso, dove “senso chiamiamo la salvezza e la completezza dell’uomo nel suo mondo e con il suo mondo”, speculazione indispensabile ed inevitabile che “differenzia l’uomo dalla bestia”, perchè perdere la dimensione della ricerca di senso equivarrebbe alla perdita dell’”umanità dell’uomo”; infatti non ci si riferisce solo al senso che individualmente ciascun uomo attribuisce alla propria vita, ma anche al senso dell’uomo nella storia, questione che, secondo Kasper, non è stata ancora sufficientemente affrontata dalla teologia moderna. La ricerca di senso è strettamente correlata alla ricerca di un mondo, di un contesto in cui vivere questo senso ritrovato, che attualmente sfugge all’uomo perchè “nel presente l’uomo non incontra nessun mondo con il quale possa identificarsi. Un mondo dotato di senso, giusto, umano lo può attendere solo dal futuro”, grazie agli strumenti che provengono dal metodo scientifico ma anche dalle cosiddette “scienze dello spirito”, che offrono la possibilità di “pianificare” il futuro secondo le aspirazioni personali di ciascuno. La proiezione verso il futuro, “verso l’avanti” non deve tuttavia nascondere quella verso la trascendenza, cioè “verso l’alto”, che consente di continuare a sperare nella grazia, cioè sperare contro ogni speranza, poichè “toglie ciò che di inclemente vi è nella nostra pianificazione del futuro orientata alla prestazione”, nonostante permangano come obiezioni al credere in un Dio la sofferenza e l’ingiustizia, molto più forti che quelle di natura puramente intellettuale. Contro il male che ci chiama in causa personalmente non possiamo agire da soli ma dobbiamo compiere “un salto qualitativo (...) che in nessun modo è deducibile dalle condizioni della storia presente” e che rappresenta una via d’accesso per Dio verso l‘uomo, che da Lui viene incoraggiato a sperare ma anche ad agire ed impegnarsi nella storia, in maniera sensata. La finitezza dell’uomo davanti alla morte, altra obiezione fondamentale alla fede in un Dio, situazione davanti alla quale le “utopie intrastoriche del futuro falliscono”, interroga su quale sia il valore dell’agire umano, di fronte al rischio che tutto vada perso, che vada a finire nel nulla: secondo l’autore, è proprio per la presenza della minaccia del limite e del nulla che dobbiamo “sempre di nuovo impegnarci nella vita”, confortati dalla presenza di “ore belle e buoni incontri” che ci dicono che “ne vale la pena”; in altre parole, “proprio per il fatto che la felicità non è ovvia, possiamo sperimentare la felicità come felicità”, senza contare che Dio, che può “accordare futuro anche oltre la morte” e “superare l’alienazione implicata dalla finitezza” , può costituire la garanzia che il nostro agire non va perso ma che “entra a far parte dello stato definitivo della realtà”. Si capisce così che Dio non può essere considerato come il “tappabuchi” di una situazione contingente ma la “risposta alla situazione fondamentale dell’uomo”, che non sminuisce l’impegno dell’uomo stesso nella conoscenza o nell’azione, che “non invidia o amareggia la felicità umana” ma “liberandoci dall’angoscia dell’esistenza, ci fa liberi per impegnarci per gli altri”. Il terzo capitolo, “GESU’ CRISTO: IL TESTIMONE DELLA FEDE”, è poi una disamina cristologica della fede, che indaga sulla storicità della figura di Gesù, dal quale “deve partire ogni fondazione della fede”. La storicizzazione era stata invocata come stratagemma per rendere più modernamente comprensibile ed accettabile la figura di Gesù rispetto all’interpretazione dogmatica “delle due nature”; tuttavia così come non si può modernizzare tout court questo personaggio, perchè troppo “estraneo al nostro mondo”, non si può di certo continuare a credere che si tratti di un puro mito, come si diceva nei “vecchi libri scolastici comunisti”. La vera portata del messaggio di Cristo è rivelata dai Vangeli, “sia pure in maniera diversa dalle cronache e dalle descrizioni storiche”; “il compito teologico pertanto è di cercare nel kérygma dei vangeli la storia, ma anche in questa storia il kérygma”. Gesù è inoltre considerato “prima e sopra” la Chiesa, in modo che la Sua parola non possa essere identificata con la parola della Chiesa, ma che sia “inizio, fondamento perenne e norma” della Chiesa, sulla base del messaggio da Lui trasmesso, che è ben più rivoluzionario di come comunemente si possa intendere, perchè “non risponde a nessuno dei modelli conosciuti” ed “esige un cambiamento” al fine del conseguimento della libertà, che Egli “annunciava come l’avvento del Regno di Dio”, che toglie fondamento alle pretese di potenza umane, riservando l’esercizio del dominio solo a Dio che, proprio per questa sua signoria sul mondo e sull’uomo, “fa sì che il Suo affare sia affare dell’uomo e l’affare dell’uomo sia il Suo affare”. Dio richiede all’uomo solo la conversione, un atto volontario, non la fede, perchè “la fede non è una prestazione ma la rinuncia a prestazioni, l’essere totalmente vuoti per Dio per essere totalmente riempiti da Lui. (...)E’ il modo concreto dell’esserci del Regno di Dio nell’uomo ”. Analogamente, i miracoli “sono i segni dell’avvento del Regno di Dio, (...) in cui si fa presente provvisoriamente e rende manifesto che il Regno di Dio porta tutto l’uomo alla salvezza ed alla completezza”. Cristo è inoltre figlio di Dio, nel senso che con la sua “libera obbedienza umana” è completamente disponibile per l’agire di Dio nella storia: la sua persona e la sua funzione sono sovrapponibili, “Egli è ciò che significa”; perciò credere, per l’uomo, è “immedesimarsi nel più interiore atteggiamento di Gesù” che è, per questo, “segno e testimone della fede”. Il dubbio legittimamente umano sulla fondatezza dell’agire di Gesù non può tuttavia essere risolto scientificamente, ma in modo indiretto; si può infatti credere che “Gesù ha ragione”, perchè il suo messaggio trova conferma nei fenomeni umani, si contestualizza “nella grandezza e nella miseria dell’uomo”: Egli riconosce la grandezza dell’uomo mostrandogli la sua vocazione e la sua missione, ma non ne nasconde la miseria di chi è incapace di corrispondere alla sua grandezza e riconoscendo la sua miseria e, così facendo, “lo preserva dall’orgoglio”. Il quarto capitolo, “LA VERITA’ DELLA FEDE”, inizia con il chiedere quale sia il “vero motivo” per cui credere, a fronte del fatto che la figura di Gesù possa essere piuttosto considerata come un pretesto “per credere nell’assurdità, piuttosto che ad un senso ultimo”. Il pericolo che con la morte di Gesù potesse finire anche ila validità del suo messaggio è stato scongiurato dalla Sua resurrezione, infatti S. Paolo dice che “se Cristo non fosse resuscitato, vana sarebbe la nostra fede”. Questo evento tuttavia è troppo straordinario perchè la mente umana possa comprenderlo: si tratta più dell’ “inizio di una nuova vita” che del “ritorno alla vecchia vita” ma le caratteristiche di questa nuova vita sfuggono alla nostra esperienza, motivo per cui non possiamo che esprimerle con il linguaggio figurato della fede, che non le descrive mai pienamente ma è solo “anticipazione (...) della visione escatologica delle condizioni dell’attuale situazione del mondo”. La credibilità della fede è supportata da miracoli e profezie in primo luogo; dalla corrispondenza tra la fede e i bisogni soggettivi dell’uomo, cioè la capacità di “dare una risposta ai problemi sociali dell’uomo” in secondo luogo; dall’esistenza della chiesa caratterizzata dalla sua “mirabile diffusione”, “dalla sua santità esimia”, “dalla fecondità nelle opere buone” e dalla “sua cattolica unità ed invitta stabilità”. Inoltre, poichè la fede deve esprimersi “all’interno dell’esperienza attuale”, non vi è altra modalità che l’amore per praticarla: questo è “il segno e il miracolo che rende la fede concretamente credibile”. In questo senso è fondamentale il ruolo del singolo cristiano e delle singole comunità di cristiani, che con tutta la loro vita testimoniano la fede, perchè parlarne in astratto non può essere sufficiente, anzi è controproducente; Kasper a questo riguardo si esprime molto chiaramente, sostenendo che “è inutile proclamare astrattamente che la fede è al servizio dell’uomo, quando nello stesso si pratica nella chiesa un sistema di non libertà e di paura, quando tutti gli impulsi di una vita libera vengono sorvegliati con sospetto e vengono repressi” e che l’unico fondamento vero della fede è “l’autorità di Dio rivelante (...) che non può nè ingannare nè ingannarsi”, cioè la verità di Dio. “La fede- continua Kasper- sta o cade a seconda che uno sia disposto o no ad affidarsi a Dio come fondamento e fine della sua esistenza (...) E’ Dio che si crede, non tanto la chiesa, (...) per questo dobbiamo distinguere tra il fondamento della fede e le rappresentazioni e gli enunciati, che risultano sempre condizionati storicamente”. L’uomo può conoscere Dio, come si diceva nei capitoli precedenti, solo se Dio concede le condizioni “poste le quali, egli possa coglierlo”: la “grazia della fede (...) riguarda la possibilità della fede”. Credere in una verità assoluta è però difficile per l’uomo moderno, contrario al pensiero autoritario, radicato nel “fallibilismo” e portato al dialogo; per questo gli è possibile conoscere Dio attraverso ciò che non è piuttosto che ciò che è, dunque chi crede in Dio deve sempre “rimanere aperto a nuove esperienze e nuove conoscenze”. “La fede del credente è sempre in gioco”, appartiene al futuro e deve essere ispirazione al cercare ed al domandare: “non deve essere solo un asilo di sicurezza ma anche una casa di santa irrequietezza”. La fede è desiderabile per l’uomo perchè “solo se il fine dell’uomo si fonda sull’assolutamente gratuito, l’uomo può sfuggire alla minaccia di essere subordinato ad altri fini (...) così è incoraggiamento per l’uomo”. Nel quinto capitolo, “L’ATTO DELLA FEDE”, l’autore mette in evidenza il fondamentale ruolo umano dell’adesione alla fede come dono di Dio: il credere è in genere rapportato ad una persona piuttosto che a motivi oggettivi, “è un atto personale di fiducia e crea un legame reciproco tra persone. (...) Abbraccia ragione e volontà”. Nel caso della fede però la dimensione di fiducia personale non è sufficiente: è richiesta una dimensione di fiducia universale, per evitare che ciascun uomo abbia difficoltà nel dare risposta a chiunque chieda ragione della speranza che è il lui. Sul piano personale ed intimo però, “dove sono in gioco le questioni fondamentali della vita (...) cessa il sapere di informazione e ciascuno crede a suo modo. (...) Anche l’incredulo crede, anche la sua incredulità è una decisione fondamentale che, come quella della fede, può appellarsi a talune tracce che, come quelle della fede, non possono essere dimostrate”. Alla luce della Bibbia, nell’antico testamento credere è “dire AMEN a Dio”, che è il solo degno di fiducia e che garantisce una base solida e fedeltà eterna; nei sinottici, invece, credere è piuttosto “partecipare all’onnipotenza di Dio, (...) lasciare agire Lui, permettendogli di entrare in azione”. La fede, in conclusione, non è pari alla speranza ed alla carità, secondo Kasper ma “abbraccia la speranza e l’amore come due modi della sua realizzazione”, per cui la santità, “che oggi sentiamo così lontana”, è la capacità di credere pienamente e fermamente: “se vogliamo sapere in concreto cosa significa credere, dobbiamo andare alla scuola dei grandi santi”. Altro approfondimento necessario nella riflessione sulla fede è poi il discorso sulla preghiera. Kasper cita D.Solle che ritiene che “la preghiera devota, genuina sotto il profilo soggettivo, è un alibi per chi si dispensa dall’agire”, per dimostrare che invece “non deve essere riservata per i casi estremi di necessità e rimandata alle situazioni limite, (...)ma abbraccia tutti gli ambiti, veglia e sonno, lavoro e gioco, produzione e consumo”.Così, “pregare per un altro significa mettere in contatto sè stesso e l’altro col fondamento comune del nostro essere, (...) considerare il proprio interesse per l’altro come (...) ultimo e assoluto e introdurre Dio nel rapporto” ( da J.A.T.Robinson). “Dio è così il mezzo (...) nel quale l’altro mi riguarda assolutamente e mi interessa incondizionatamente. (...) Pregare significa riconoscere l’altro in Dio e Dio nell’altro, sperimentare la vita quotidiana nella sua profondità”. L’agire umano, nella prospettiva della fede, si conferma dunque come capacità di “riconoscere i limiti dati con lo stesso essere uomo” senza smettere di credere nelle possibilità dell’uomo stesso. Solo così, nella libertà di Dio di cui si era già detto, “nonostante ogni impegno e in ogni impegno vi è un sentirsi calmi e un sentirsi liberi. (...) Vi è pace e gioia, (...) un essere uomo veramente umano”. Avere fede significa ancora una volta “abbandonare altri ideali e progetti di esistenza” se non in Dio, “rinunciare ad assicurare e fondare la propria vita” nel senso più comune del termine e “la penitenza è la sua forza critica nei confronti dei vecchi e nuovi idoli, (...) di tutte le pretese di assolutezza di sistemi ideologici e politici”. Tale forza critica è indispensabile per dare sapore e vigore alla fede stessa, per impedire che il rinnovamento della fede avvenga “attraverso la conservazione di una mentalità precritica nè correndo dietro acriticamente a tutte le novità” ma solo con il “rinnovamento che parte dallo spirito della preghiera e della penitenza”. Il sesto capitolo, “IL CONTENUTO DELLA FEDE”, prende in esame le obiezioni che vengono mosse alla fede in forza dei suoi contenuti, che non vengono considerati credibili, a volte, neppure dagli stessi membri della chiesa, più convinti del fatto che l’importante sia credere ed operare nella vita sociale e privata, piuttosto che concentrarsi su specifici contenuti. Ciò che invece emerge dalle concezioni storico-salvifiche della fede, già dall’antico testamento è che il contenuto della fede “non sono proposizioni astratte ma confessioni storiche dell’agire potente e fedele di Dio nella storia (...) il Dio che nella storia e nella sorte di Gesù Cristo ha parlato ed agito. Il contenuto della fede è dunque una persona, la sua opera e la sua sorte ”, infatti “anche il demonio può citare formule ortodosse di fede. Ciò che importa è una fede viva” . Nel corso delle epoche storiche, man mano che sorgeva la necessità di difendere la fede dalle eresie, si svilupparono “folti alberi dogmatici”, con il rischio che non si vedesse più “il bosco della fede”. Nell’epoca moderna si procede invece a ritroso, cercando di riportare la fede ai propri contenuti essenziali, ma nasce il problema di rifiutare o salvare in toto le verità teologiche. Soluzione a questa problematica sembra essere la “concentrazione” delle verità di fede, piuttosto che la “riduzione” o “l’eliminazione” di esse, cioè rendere di nuovo “trasparente l’unica fede attraverso i molti articoli di fede e di comprendere di nuovo ciò che è periferico partendo da ciò che è essenziale”, perchè esiste una gerarchia tra le verità della dottrina cattolica, per il loro diverso “nesso con il fondamento della fede cristiana” (da Unitatis Redintegratio, Decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II). L’unico fondamento cui riferire le verità della fede è dunque la cristologia, solo così “gli enunciati di fede sono teologicamente corretti e legittimi”, solo così “nelle molte parole” sarà possibile “ascoltare e percepire l’unica parola di Dio” . Da ciò deriva che i mezzi di salvezza, cioè la chiesa, i sacramenti e gli uffici, sono da intendere solo come “mezzi di mediazione” tra l’uomo e Dio e come tali “devono essere criticati se in concreto non rendono più questo servizio” e devono essere “creduti in modo diverso da come si crede Dio”. La confessione cristologica nella sua essenza può essere esplicitata sia negativamente sia positivamente con significato equivalente, motivo per cui non si può negare la versione positiva senza negare contestualmente anche quella negativa, ad esempio nel caso del peccato originale: se solo in Dio è la salvezza, in assenza di Dio, cioè nel peccato, è la perdizione; non credere nel peccato originale significa mettere in dubbio anche che l’unica via di salvezza è in Dio. Altro esempio è rappresentato dai dogmi mariani che sono pienamente cristologici perchè ci dicono “come in un’immagine che cosa Dio tiene in serbo per l’uomo e cosa fa dell’uomo”. In conclusione, chi crede fermamente che “Dio è salvezza, speranza e pace per tutti gli uomini e si impegna a diventare figura di speranza (...) crede tutta la fede, perchè la fede (...) non è una somma di proposizioni ma la totalità di una figura: Gesù Cristo” ed attraverso Cristo si giunge a Dio. La fede deve mantenersi cristiana e deve fare “apprendere da Cristo il modo giusto di parlare cristianamente di Dio e dell’uomo”. Il settimo capitolo, “IL SIGNIFICATO SALVIFICO DELLA FEDE”, tratta della salvezza, chiedendosi se possa ancora rappresentare un concetto desiderabile per l’uomo moderno, abituato a provvedere da sè stesso alla risoluzione dei propri problemi; se nella società attuale vi sia ancora spazio per la grazia. Obiezioni come queste minano il senso ultimo e più profondo della fede, che già dall’antico testamento è da intendersi come promessa di salvezza: la Scrittura descrive situazioni concrete in cui l’uomo ha avuto bisogno di Dio per salvarsi da un punto di vista molto materiale di guerre, carestie, malattie che affliggevano il suo mondo. Man mano che la storia ed il progresso avanzavano, tuttavia, il ruolo che le scienze naturali hanno assunto, per spiegare e decifrare queste situazioni di sofferenza, ha relegato la teologia ad un ruolo marginale, all’analisi del soprannaturale. Questo dualismo è stato poi progressivamente superato, facendo in modo da rapportare “l’ordine della salvezza”, cioè il campo d’indagine della teologia, all’“ordine della creazione”, cioè l’ambito di riferimento delle scienze naturali, confermando così l’“universalità della redenzione”. Per comprendere inoltre come la salvezza provenga dall’alto ma mai senza una corrispondenza dal basso, è richiesta un’interpretazione “secolare”, nel contesto della teologia politica, che non è “teologia che fa politica” ma che mira a “riconsiderare gli enunciati teologici nella loro rilevanza sociale”. I presupposti su cui si basa questa specifica branca della teologia sono: la certezza che la chiesa prima di prendere posizione sulle questioni strettamente politiche, ha già una intrinseca posizione politica che deve esprimere, come “riflessione critica sulle implicazioni politiche di tutti i suoi enunciati” e che non può negare a meno di non “mascherare posizioni (...) di potere e di dominio”; l’identità della società sulla quale debba essere calibrato il messaggio di fede, società caratterizzata da “lavoro, civilizzazione e tecnica”. Alla luce di queste considerazioni, risulta evidente che la fede “deve essere pratica per mordere la realtà” e che ciò che nella chiesa non ha una dimensione sociale non è di facile comprensione per il mondo moderno. Il problema più rilevante per la società, dunque per la chiesa, risulta attualmente essere la libertà, che è possibile, secondo Kasper, solo in un contesto di altre persone, solo se ha “presupposti sociali”; ciò non significa che la libertà è prodotta dalla società ma che questa ha il dovere di proteggerla, perchè viene dopo la libertà stessa e deve tutelare “il privato, l’intimo, il personale”. Per lo stesso motivo, alcune realtà che coinvolgono il singolo, come la malattia, la morte, il dolore, non possono essere semplicemente eliminate con un pronunciamento sociale nè con lo sforzo sociale e tutte le situazioni in cui l’uomo ha tentato di controllare tutto, intervenendo con autorità, hanno portato ad episodi di vero e proprio totalitarismo e violenza. Queste questioni vanno invece trattate in una prospettiva trascendente, soprannaturale, perchè non attengono unicamente alla dimensione fisica e materiale dell’uomo, che “è nostalgia naturale del soprannaturale”. Solo riuscendo a parlarne in questi termini, “abbiamo raggiunto la realtà dell’uomo e parlato in modo secolare di Dio e della sua grazia. In ogni altro caso abbiamo battuto l’aria. ” La salvezza in questa prospettiva non è assolutamente soprannaturale, anzi, è “libertà della nostra libertà”, condizione che ne permette la realizzazione, “la condizione della possibilità che la libertà raggiunga il suo senso e il suo scopo”. Secondo Kasper, “la chiesa ha sempre avuto paura della libertà, per questo l’ha presa in custodia fin troppo volentieri (...), onde distribuirla (...) dove appariva necessaria e desiderabile”; dobbiamo invece convincerci che “credere in Dio e optare perchè la libertà sia il valore supremo nella realtà, è la stessa cosa”. Essere libero, tuttavia, non è di certo fare ciò che si vuole, perchè in tal modo si diventa schiavi del proprio arbitrio, della propria istintività; ma anche l’uomo che è libero da costrizioni esterne e che può disporre di sè stesso è in realtà schiavo dell’angoscia e preoccupazione di dover controllare sè stesso e la propria realtà, il che è un’espressione del peccato, da intendersi come “limite alla propria libertà”, come “incapacità d’amore”, come “contrario della salvezza”, contro cui l’uomo deve scontrarsi per procedere nella propria esistenza. In questo contesto, solo l’incontro tra due persone libere può garantire la vera salvezza, dunque è per questo che l’incontro con Cristo può considerarsi fondamento della salvezza, perchè Lui è espressione di libertà suprema; proprio per questo le autorità costituite lo hanno così duramente avversato, fino ad ucciderlo, illudendosi che in tal modo l’ordine sarebbe stato ripristinato. Invece, la resurrezione ha nuovamente infranto la stabilità che i potenti auspicavano. Il dono di Dio all’uomo, mediante Gesù Cristo, rende possibile la conversione dell’uomo a Dio ed all’uomo stesso, condizione che rappresenta pienamente il significato della fede, più che la mera ripetizione di formule o “l’assenso a determinate verità”. L’atteggiamento del cristiano è dunque “da folli”, secondo la mentalità corrente, mentre dovrebbe manifestarsi nella gioia, “segno anticipatore della realtà escatologica di salvezza”: l’umorismo “permette all’uomo di essere uomo completo e solo uomo, perchè solo a Dio permette di essere Dio e consegna al riso tutte le altre pretese di dignità e riconoscimenti”. “La giusta distinzione tra Dio e l’uomo (...) fonda la salvezza dell’uomo”. L’ottavo capitolo, “L’ECCLESIASTICITA’ DELLA FEDE”, è poi un’appassionata discussione sul ruolo istituzionale della chiesa nell’edificazione e nel mantenimento della fede, argomento che la chiesa stessa affronta chiaramente solo a partire dal tardo medioevo, con la nascita dell’ecclesiologia. Molte sono le critiche che è possibile muovere a questo organismo: l’intolleranza dogmatica; la tendenza a dare scandali che mascherino l’unico, vero e ineliminabile scandalo della fede, la crocifissione di Gesù; la scarsa capacità di declinare nella concretezza valori sempre troppo astratti come “la libertà, la dignità umana, la solidarietà e la fraternità”. Il fatto che, nel corso dei tempi, i valori fondamentali del cristianesimo siano diventati parte strutturale della società anche in realtà in cui la chiesa non è presente, significa che “i confini del cristianesimo in molti punti sono di gran lunga più vasti dei confini della chiesa”. Ciò non significa, peraltro, che sia possibile o desiderabile la sopravvivenza dei valori cristiani senza un contesto ecclesiale, sia perchè non sopravviverebbero se non nel ricordo, solo per poche generazioni, sia perchè non potrebbero affermarsi in un mondo così fortemente avverso al cristianesimo quale quello odierno, sia perchè non sarebbero in grado di rapportarsi ad una rete di istituzioni fondate sul potere e sul denaro, se non con una struttura anch’essa istituzionale. Riflettere sulla funzione e l’utilità della chiesa per la fede può però portare allo stravolgimento della tradizione, oltre che dell’impostazione cristocentrica della fede cristiana, in cui la chiesa è solo “il luogo concreto”, in senso figurato, “dov’è attualizzata l’opera salvifica di Dio (...) per il tramite dello Spirito Santo”. E’ in primo luogo “un avvenimento” della “realtà di Gesù”. Ogni volta che la chiesa travalica questo confine, rischia di diventare una struttura politica o di potere, perchè perde il confronto con ciò che può avere verso di lei “funzione critica”, ovvero Cristo. “La chiesa dunque è sempre entrambe le cose: istituzione ed evento”. È anche opportuno che la chiesa sia regolata dal basso, cioè dal popolo dei battezzati, che ne fanno parte a seguito dell’aver ricevuto lo Spirito Santo mediante il battesimo e che esercitano il sacerdozio comune: i laici, che per troppo tempo sono stati esclusi dalla partecipazione attiva alla vita della chiesa, perchè non erano ritenuti portatori di alcuna saggezza ed esperienza che potesse supportare l’opera della gerarchia. Kasper a questo riguardo si esprime in modo molto chiaro e soprattutto molto attuale, affermando che “l’ecclesiasticità non si esprime in prima linea annuendo e ingoiando ma mediante il mutuo ascolto e la reciproca comprensione. Ciascuno deve portare l’altro nella fede, stimolarlo e, se occorre, criticarlo, (...) ascoltarlo, (...) apprendere dall’altro”, perchè “l’obbedienza nella chiesa non può mai essere descritta a senso unico” ma deve essere reciproca. Il dialogo all’interno della chiesa non è affatto di semplice attuazione, così come l’unità fra le diverse idee e posizioni, ma questa condizione non può essere risolta mediante un pronunciamento ufficiale ed autoritario del magistero, bensì con un approccio che tenga conto di alcuni criteri, fissati dalla Costituzione sulla chiesa (n.12): poichè tutti coloro che hanno ricevuto lo Spirito Santo mediante il battesimo appartengono alla chiesa, l’unità di fede si può ottenere solo mediante processi spirituali, di messa in comune della verità, perchè sia considerata sicura; le verità della fede sono da mettere in relazione con ciò che è stato tramandato “una volta per tutte”, cioè la parola e l’opera di Cristo, che devono essere insegnate, come “informazione teologica”, che devono essere credute, per poter dire di appartenere alla chiesa e che stanno sopra la chiesa, per cui devono essere protette tanto dalle mode passeggere quanto dalle “idee preferite” sempre identiche a sè stesse; l’obbedienza al magistero, che tuttavia non può essere cieca per non persistere in un errore che storicamente la chiesa sta commettendo nell’epoca moderna, ovvero il considerare le verità magisteriali come unico strumento di comunicazione ad intra ed ad extra, come se ci si trovasse perennemente in uno stato di necessità in cui nessun’altra strategia è utilizzabile ed è invece necessario che la voce autoritaria della chiesa si esprima su questioni fondamentali. Questo problema, molto concreto ai giorni nostri, secondo l’autore è legato al fatto che, mancando opportunità di serio confronto sulle decisioni da prendere per il bene della chiesa, cioè mancando le “forme normali del rinvenimento collettivo della verità”, il magistero deve fungere da “rappresentante della fede della chiesa”. L’approccio corretto, in questo contesto, sarebbe secondo Kasper quello di considerarsi parte della chiesa “fino a quando si è disposti a conservare un rapporto di dialogo con la comunità ecclesiastica, fino a quando si riconosce ai suoi enunciati un valore vincolante (...) anche se non si possono fare propri tutti gli enunciati emessi dalla chiesa”, perchè non è condivisibile “un radicalismo selvaggio che protesta la propria onestà intellettuale e che in nome della coscienza moderna della fede getta semplicemente a mare formule impraticabili” ed è proprio di chi vuol essere intellettualmente onesto “prendere atto della finitezza del proprio punto di vista ed avere il coraggio di lasciarsi convincere dagli altri”. Il nono capitolo, “LA STORICITA’ DELLA FEDE”, prende in esame la questione della storicizzazione che è in corso in tutti i settori della realtà e dunque anche nella fede: da un lato è certo problematico il fatto che anche nella chiesa vi sia una messa in discussione totale, dall’altro però è vero che “l’uomo nelle situazione decisive della sua vita (...) è profondamente storico” ed è dunque inevitabile che questo processo porti ad una “rivisitazione dell’argomento dell’autorità (...) e la validità di alcuni testi sacri”, oltre che le strutture con cui, a seconda dei diversi periodi storici, la chiesa si è articolata ed ha sviluppato il magistero. La fede cristiana, secondo il suo contenuto, non può che essere una fede storica, contrariamente a quanto riguarda la mitologia, che narra di fatti che “avvengono sempre e non sono mai avvenuti”, motivo per cui non si può sottrarre dall’analizzare problemi che oggi la storia pone: “se la fede diventa senza storia, la storia non diventerà senza fede?”, si chiede Kasper. “Solo dove l’agire di Dio nella storia è come tale assunto e riconosciuto nella fede dell’uomo, raggiungendo così il suo scopo, lì esso produce salvezza, lì la storia diventa storia della salvezza”. Purtroppo è possibile, di fatto anche frequente, che la chiamata che Dio rivolge all’uomo nella storia rimanga inascoltato e divenga “invece che salvezza, giudizio”; il fatto che Gesù Cristo sia l’inizio della storia della salvezza ed al tempo stesso il suo compimento significa che la storia della salvezza si trova tesa tra il già e il non ancora, non essendo ancora giunto il tempo della salvezza, che va cercata “con pazienza e coraggio nei segni dei tempi” da parte della chiesa, che non possiede la verità ma deve cercarla, per poter “promettere ed assegnare all’uomo un senso definitivo. Una chiesa che non avesse più il coraggio di fare questo, ben si meriterebbe che più nessuno si interessasse alla sua predicazione degenerata ormai a chiacchiera”. In questo contesto va posizionata la questione dell’infallibilità, che “non esclude ogni forma di difetto e macchia” ma è da considerare, in materia di emissione di dogmi, come un’altra delle concretizzazioni storiche della chiesa; infatti “i dogmi pagano il lloro tributo alla storicità (...) e sono concretamente veri solo in riferimento al loro contesto particolare. Per questo devono essere continuamente interpretati e tradotti nel contesto di nuove situazioni. (...) Dogmi infallibili non escludono correzioni” ma necessariamente “devono essere interpretati all’interno della testimonianza globale della Scrittura e della Tradizione”. Riguardo la figura del papa e dei vescovi, Kasper ritiene che siano “solo portavoce e rappresentanti della fede della chiesa”, per cui, qualora dovessero mostrare di essere motivo di scandalo e di eresia dovrebbero per prima cosa essere corretti dagli altri carismi presenti nella chiesa e, se dovessero persistere nell’errore, sarebbero automaticamente estromessi dalla chiesa e dal loro ufficio, secondo la tradizione; in questo senso “l’infallibilità magisteriale rimane dunque legata all’infallibilità della chiesa in generale”, che è radicata “nell’infallibilità della fedeltà di Dio in Gesù Cristo”. “se l’infallibilità è intesa i questo senso di infallibilità della speranza allora essa è verità evangelica nel senso migliore della parola”, anche se Kasper per primo riconosce che “talune dichiarazioni della chiesa dovrebbero assumere altra forma ed avere il timbro della gioia e della speranza”. Il decimo capitolo, “IL FUTURO DELLA FEDE”, si interroga sulle opportunità che la fede ha di sopravvivere in questi tempi difficili, in cui l’illusione di poter pianificare tutto sta portando alla distruzione del futuro, che invece presenta una componente di sorpresa e di novità non altrimenti prevedibile, come è anche nella fede cristiana. In questo contesto la chiesa troverà notevoli difficoltà nell’esistere, in termini quantitativi e qualitativi, se non viene impartita un’inversione di tendenza che le restituisca uno sguardo diretto al futuro, perchè altrimenti sarebbe “impraticabile per l’uomo che si trova impegnato per il futuro”. In particolare, Kasper afferma che “se la chiesa diventa l’asilo di quanti cercano riposo e riparo nel passato, non deve meravigliarsi se i giovani le voltano le spalle e cercano il futuro presso ideologie e utopie di salvezza, che promettono di riempire il vuoto che la paura della chiesa ha lasciato libero”; la teologia dovrebbe infatti tornare ad occuparsi dell’escatologia, che è il vero orizzonte della fede cristiana, anche se “la tentazione di aggrapparsi all’apparente sicurezza del presente e all’apparente garanzia del passato è in ogni tempo grande”; il cristianesimo è una vera e propria religione del futuro, che permette un nuovo inizio in vista del futuro grazie “al messaggio fuori moda del perdono dei peccati”, che permette di aprirsi al futuro con maggiore libertà. Il futuro è l’eschaton per la fede, che può però essere interpretato secondo tre vie, non equivalenti dal punto di vista valoriale: il modello apocalittico, che dipinge la fine dei tempi con toni foschi e catastrofici in cui l’unico attore è Dio; il modello teleologico, che interpreta la fine dei tempi come compimento della storia, confidando nel progresso e che tuttavia è parziale, perchè non considera la valenza separatrice del giudizio divino che avverrà alla fine dei tempi; il modello profetico, che è il più condivisibile perchè si basa sulla condivisione dell’azione tra Dio e l’uomo, pur se con gradi di libertà diversi e non paragonabili. In questa prospettiva, “l’eternità non è uno spazio già pronto fin dall’origine dei tempi e che alla fine (...) accoglierà tutti i redenti (...) ma inizia già da ora”, perchè è completamente sotto la promessa di Dio ma è soprattutto affidata totalmente alla libera scelta dell’uomo, quindi prepara già dal presente il futuro, mentre le “moderne utopie ed ideologie del futuro (...) spostano l’attesa della salvezza ad un futuro che sciopera nel tempo (...) e costringono sempre la generazione presente a sacrificarsi per un futuro utopico”, cioè che non avrà mai luogo. La prospettiva escatologica permetterà al cristianesimo di sopravvivere nel futuro perchè insegna che non è possibile accontentarsi di “progetti intrastorici per il futuro”, che sono offerti da ogni tipo di ideologia, ma bisogna tendere a “possibilità sempre più grandi”, senza però credere nell’autosufficienza umana, peccando di hybris. Non ci è dato di conoscere già da ora le caratteristiche che la fede avrà nel futuro, possiamo però credere che continuerà a sussistere, in virtù del suo messaggio insostituibile e del suo carattere escatologico; non sarà di certo contestualizzabile nell’“ecclesia triumphans”, ma “benché smarrita, non sarà disperata, benché tribolata, non sarà schiacciata”; sarà “più consapevole, più decisa, più essenziale”, proprio perchè sarà meno “universalmente riconosciuta ed (...) ovvia”; dovrà impegnarsi nel sociale in maniera critica, cioè penitente, nell’agire pratico: “ovunque là dove il cristianesimo si è trovato all’altezza della sua testimonianza di fede, si è espresso criticamente. (...) Solo criticamente l’impulso dell’evangelo può diventare una forza che infrange l’ordine che impone ciò che sembra ovvio e crea così spazio per una maggior libertà e per una maggior umanità”. Tuttavia questa critica dovrà essere esercitata alla luce del messaggio evangelico, che è l’unico ad essere sopra la chiesa e non sarà “distanziata e fatta con aria di superiorità, ma (...) appassionatamente impegnata; include quegli stesso che fa la critica; (...) è appassionata e sofferta”, senza altro scopo che “mettere in evidenza l’elemento cristiano, differenziante e decisivo, perchè sia di provocazione nella chiesa”. La chiesa del futuro sarà universale e cattolica e ciò impegnerà sempre più i cristiani ad esserlo “a dimensione mondiale”, non più legati solo al contesto europeo e capaci di confrontarsi con l’altra seria ideologia di salvezza che Kasper individua nel marxismo, dimostrando che solo nel cristianesimo risiedono le “soluzioni veramente umane dei problemi attuali dell’umanità” e che l’unico “valore supremo” è “l’essere per gli altri dell’amore”; queste caratteristiche di santità non sono però ancora disponibili appieno per la chiesa, forse perchè, secondo l’autore, “questa nuova forma di santità non le è ancora stata donata”; dunque, in attesa di questo compimento, la chiesa e la fede dovranno combattere, dovranno semplificarsi nelle apparenze, più che nella sostanza. E’ infatti improponibile che la fede si privi, per andare incontro ai tempi che cambiano, di parte dei suoi dogmi, anche se non rispondono più a domande concrete dell’uomo di oggi, piuttosto sarebbe opportuno “crescere di più in profondità” per recuperare il significato di queste questioni, che ne rappresentano il centro e la radice del senso, che è “il messaggio dell’essere Dio di Dio, che rende possibile l’essere uomo dell’uomo”, così chiunque “crede che in Gesù Cristo è dischiusa la salvezza a noi e a tutti gli uomini e si impegna concretamente ad essere figura di salvezza per gli altri, questi è un cristiano”.