Paolo Garonna – Intervento al seminario di previsione Centro Studi Confindustria
Lo scenario in cui si collocano tanto l’analisi delle politiche di sviluppo industriale in Europa, che è la
parte strutturale del rapporto, quanto i consueti esercizi di previsione per l’economa italiana che il
Centro Studi di Confindustria tradizionalmente presenta a fine anno, mostra una situazione economica
in grande, tumultuoso cambiamento. Un cambiamento che rimette in discussione equilibri consolidati e
rapporti di forza, in cui la tecnologia e la globalizzazione stanno creando straordinarie nuove
opportunità, ma la concorrenza non dà tregua, impone aggiustamenti continui, costosi, difficili.
Irrompono, sulla scena dell’economia internazionale, nuovi paesi, nuovi protagonisti. I paesi
Ocse, i paesi ricchi, il Nord America, l’Europa, il Giappone, perdono posizioni relative rispetto ai paesi
emergenti. Soprattutto in Asia, la Cina, l’India. Dalla metà degli anni ’80 ad oggi, la quota del
commercio mondiale dei paesi emergenti dell’Asia, la Cina, l’India, le tigri asiatiche, si è raddoppiata, è
passata dal 12 al 24% e al tempo si è ridotta la quota di commercio mondiale dei paesi ricchi (fig. 1).
Questo crea certamente nuove opportunità, ma anche tensioni e squilibri che non è facile governare
con gli strumenti disponibili. Tanto a livello nazionale che a livello internazionale.
Rispetto al precedente periodo di previsione la situazione economica presenta, secondo noi, un
forte cambiamento, un forte aumento dell’incertezza. Un forte aumento dei rischi di rottura di quegli
equilibri che avevano finora assicurato una crescita importante dell’economia mondiale, che ancora
l’assicurano.
Alla base di questo aumento di incertezza e di vulnerabilità di fondo dell’economia, ci sono
essenzialmente tre fattori.
•
Le tensioni sui prezzi petroliferi.
•
L’esigenza di riequilibrio degli squilibri strutturali dell’economia americana, i deficit gemelli, i deficit
delle partite correnti, il disavanzo pubblico americano.
•
L’impatto sulla crescita della svalutazione del dollaro.
Sono, intendiamoci, dei fenomeni ampiamente noti e non recenti. Noi credevamo, fino a poco
tempo fa, che potessero essere riassorbiti senza troppe scosse in quell’ipotesi consolidata e che
ancora oggi prevale, di atterraggio morbido dell’economia mondiale verso nuovi equilibri.
Oggi invece questi squilibri e queste tendenze appaiono un dato più permanente e quindi più
preoccupante, che condiziona negativamente lo scenario, imponendo una correzione del tasso di
crescita al ribasso, a partire dal quadro dell’economia mondiale.
Prendiamo la questione del prezzo del petrolio.
Noi prevediamo che avremo quotazioni elevate anche nei prossimi anni, al disopra dei 35 dollari
al barile (fig. 2) e che quindi questo scenario di prezzi petroliferi alti, finirà per incidere sulla crescita
dell’economia mondiale e ancor di più in Europa ed in Italia. Le nostre stime sono di un aumento di
dieci dollari al barile che si protrae per i prossimi due anni, traducendosi in una contrazione di mezzo
punto percentuale di crescita del Pil a livello tanto di economia mondiale che a livello dell’economia
italiana. Mezzo punto di Pil per un’economia che già cresce poco, come quella italiana, è un dato
importante, quantitativamente e qualitativamente importante.
Anche la debolezza del dollaro avrà grandi ripercussioni sulla competitività e la crescita in
Europa. C’è stata una perdita di competitività (fig. 3) misurata in base al tasso di cambio effettivo reale
deflazionato con il costo del lavoro unitario. Negli ultimi due anni abbiamo avuto una perdita importante
di competitività in Europa e corrispondentemente un recupero di competitività degli Stati Uniti.
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La svalutazione del dollaro pone dei problemi soprattutto per il fatto che la debolezza del dollaro
si scarica tutta sull’euro, viste le rigidità nella gestione dei cambi in Asia, in Cina, in particolare.
D’altronde la correzione del cambio è necessaria per affrontare quegli squilibri dell’economia
americana che si trova alle prese con un problema sempre più grave di carenza di risparmio, non
soltanto il ben noto risparmio negativo del settore pubblico in America, ma quello che preoccupa è il
disavanzo del bilancio pubblico e anche la caduta progressiva del risparmio delle famiglie in
percentuale al reddito disponibile (fig. 4) che inizia a partire dagli anni ’80. Un divario rispetto al livello di
indebitamento, che aumenta sempre di più.
La carenza del risparmio nel settore delle famiglie, anche in quello delle imprese e, soprattutto,
nel settore pubblico, è una fonte di squilibri non soltanto per l’economia americana, ma si trasferisce
anche sull’economia mondiale.
Per questo complesso di ragioni lo scenario di previsione che noi prospettiamo è quello di una
minore crescita del Pil e del commercio mondiale (fig. 5 che passa dal 4,6 al 4%, anche se resta
comunque ad un buon livello. Ma, soprattutto, noi prospettiamo un scenario in cui aumenta fortemente
l’incertezza e aumentano i rischi che questo scenario ,in qualche modo possa, essere rimesso in
discussione da qualche shock che al momento non è possibile prevedere. Quindi c’è una
preoccupazione sull’ipotesi dell’atterraggio morbido. Non si possono escludere ipotesi diverse. È con
questa preoccupazione che noi dobbiamo convivere.
L’Europa viene investita pesantemente da questo cambiamento. La ripresa, che è già debole,
anche se quest’anno ha avuto una progressione significativa, resterà più o meno sui livelli attuali. Noi
prevediamo una crescita dell’economia dell’area dell’euro intorno all’1,6% nel 2005, 1,9% nel 2006.
Quindi, ad un livello che resta in qualche modo al disotto del potenziale e certamente al disotto del
necessario.
A farne le spese sono, soprattutto, gli investimenti che restano deboli e condizionati dalle
scarse prospettive di domanda (fig. 6), dalla capacità produttiva utilizzata che resta bassa e dallo
schiacciamento dei profitti a cui contribuisce, in modo forte, anche la rivalutazione dell’euro.
Ma la variabile chiave per capire i problemi dell’Europa, gli ostacoli alla crescita, è l’andamento
della produttività. Se noi guardiamo anche soltanto per l’ultimo periodo, negli anni ’90, il trend di
crescita della produttività è relativamente piatto, che contrasta in modo significativo con quello degli
Stati Uniti. (fig. 7)
L’Italia, oltre a risentire inevitabilmente dei riflessi dello scenario europeo, dell’economia
mondiale, deve fare i conti poi con i suoi propri specifici vincoli ed ostacoli alla crescita.
La nostra previsione è che dopo che la ripresa dalla stagnazione degli ultimi due anni,
continuerà sicuramente nel corso di quest’anno; la crescita tuttavia non riuscirà ad andare oltre quei
ritmi modesti e precari che ha finora raggiunto. Nel 2003 la stagnazione portava la crescita del Pil in
Italia allo 0,3%. Nel 2004 avremo un rimbalzo importante, dovremmo chiudere all’1,4%, nel 2005
dovrebbe restare sul livello dell’1,4% e nel 2006 più o meno allo stesso livello, 1,5% (fig. 8) .
In qualche modo, dopo aver con grande fatica risollevato il capo, l’economia italiana si trova a
urtare contro questo tetto di bassa crescita che la vincola, in qualche modo, anche per i prossimi due
anni.
Quello che preoccupa sono anche le componenti della crescita. I consumi hanno tenuto e
tengono in relazione al prodotto, garantendo in qualche modo un pavimento alla crescita della
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domanda. Noi prevediamo la crescita dei consumi nel 2004 dello 0,8%, poi 1,1% negli anni successivi
(fig.9).
A sostenere i consumi, d’altronde, contribuisce l’effetto positivo della rivalutazione del cambio.
Un effetto che spesso si trascura: la rivalutazione dell’euro ha un immediato riscontro in termini di
aumento del reddito disponibile delle famiglie in un’economia fortemente aperta come quella italiana.
Contribuiranno anche le misure di politica economica adottate dal governo a sostegno dei consumi e la
riduzione del carico fiscale sulle famiglie.
Un altro effetto di cui tener conto, che incide positivamente sui consumi, è l’attenuarsi del gap
tra inflazione percepita e inflazione effettiva (fig. 10). Un gap che si era aperto più o meno in
corrispondenza dell’entrata in funzione dell’euro, e che si va man mano riducendo. Quindi i consumi,
anche se con un andamento certamente insoddisfacente e modesto, continueranno, comunque, a
tenere.
I problemi sono sugli investimenti e sulle esportazioni nette su cui invece la nostra previsione è
molto più pessimista. Gli investimenti per l’anno in corso sono in progressione dello 0,5%, quindi quasi
una stagnazione e proseguiranno su questo livello nei due anni successivi. Le esportazioni vengono ad
essere fortemente colpite dalla rivalutazione del cambio, quindi noi ci attendiamo esportazioni nette
negative nel 2005 e 2006.
Indicazioni simili possiamo averle guardando ai finanziamenti al settore privato, quindi ai prestiti
al settore privato (fig.11).
Pur avendo una situazione in cui, nel complesso i prestiti tengono, nell’ultimo periodo noi
abbiamo però un aumento dei finanziamenti alle famiglie al consumo, mentre invece si riducono quelli
alle piccole imprese e alle imprese medio grandi e specialmente i prestiti al settore manifatturiero.
Quindi sono proprio i settori più esposti alla concorrenza quelli che più risentono dei problemi di
competitività e di schiacciamento dei profitti.
L’impatto sui costi e sui profitti dell’industria è molto evidente. Se noi guardiamo all’andamento
del deflettore dell’input, come incidono i prezzi delle materie prime - del petrolio in primis - sui conti
delle imprese, vediamo che c’è stata una progressione molto forte (fig. 12). Un’analoga importante
progressione c’è stata, per quel che riguarda i costi del lavoro per unità di prodotto. Costi dominati
dall’andamento della produttività che è stata molto debole, anzi è stata cedente sino a poco tempo fa, e
che comunque non prevediamo debba riprendersi a tassi significativi. E su questo poi il cambio incide
pesantemente e quindi lo schiacciamento dei profitti, la riduzione del markup è molto pronunciata. Tutto
ciò pesa sul settore dell’industria che, ripeto, è quello più esposto ai venti e le turbolenze della
concorrenza nazionale e internazionale.
Questa diversa esposizione alla concorrenza, quindi questa diversa pressione competitiva,
possiamo anche vederla dai diversi andamenti dei prezzi al consumo, dei prezzi alla produzione dei
beni di consumo (fig. 13). C’è una forbice che si è aperta intorno al 2000-2001, e che non accenna a
diminuire. Anzi, tende ad ampliarsi, anche per effetto del cambio e per effetto delle tensioni
concorrenziali che si scaricano tutte sui settori esposti e che si avvertono invece molto meno nei settori
relativamente protetti del terziario e della distribuzione.
Non sorprende quindi che il clima di fiducia resti relativamente piatto, condizionando le
aspettative di domanda e di investimenti. (fig. 14).
Un problema particolare in questa fase di ripresa in Italia è l’andamento della produzione
industriale. Il presidente Pininfarina ne ricordava i dati di ieri, che d’altronde fanno seguito ad un
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andamento molto preoccupante.
Quello che caratterizza questa fase ciclica, diversamente dalle precedenti in cui la produzione
industriale aveva in qualche modo sostenuto la ripresa, è che questa è una ripresa con poca
produzione industriale.Si noti che questo problema è particolarmente accentuato in Italia (fig. 15).
Perché invece nel resto dell’Europa la produzione industriale progredisce anche in Germania, un
paese che ha grossi problemi di crescita, la ripresa è stata tirata anche da industria e da esportazioni.
Ecco qui la necessità di portare attenzione non soltanto ai problemi di breve termine, ma anche
a quelli di medio e lungo termine. E quindi i problemi del ciclo si intrecciano strettamente con quelli
strutturali. Da qui l’attenzione che noi dedichiamo nel rapporto alle questioni dello sviluppo industriale in
Europa. In Europa perché, il problema non è soltanto italiano ma è problema europeo .Ma anche
perché l’Europa ci prospetta una ricca gamma di esperienze, di lezioni utili, per di più maturate in un
contesto vicino a noi dal punto di vista non soltanto geografico, ma culturale ed economico e che quindi
è particolarmente significativo.
La quota dell’industria sul valore aggiunto, la quota anche dell'occupazione dell’industria
sull’occupazione complessiva, si riduce in Europa. Si riduce, per la verità, in tutti i paesi industrializzati,
anche negli Stati Uniti e questa riduzione è particolarmente forte in alcuni paesi come in Gran
Bretagna.
Però se noi prendiamo gli ultimi dati del 2003, vediamo che l’industria resta in molti paesi
europei una quota importante dell’output, come in Germania, in Italia; meno importante in Francia e nel
Regno Unito. (fig. 16).
Come si spiega questa relativa tenuta dell’industria in Europa? E come, per differenza,
possiamo interpretare le difficoltà, o le anomalie della situazione italiana?
Nello studio che presentiamo oggi, per riassumerlo sinteticamente, io porrei l’accento su due
aspetti. Anzitutto la rigidità in Italia del modello di specializzazione. Negli altri paesi i modelli di
specializzazione hanno una loro evoluzione, che segue ovviamente le spinte della tecnologia, dei
mercati. Da noi in qualche modo il modello è restato, per varie ragioni, stabile e relativamente rigido;
continuiamo a far bene le stesse cose, anzi, in alcuni casi le facciamo ancora meglio, ma facciamo
fatica a fare cose diverse, ad imparare a fare cose diverse. Tra il ’90 e il 2000 noi ci siamo concentrati
nella produzione nei settori in cui già siamo forti, che sono i settori classici poi del made in Italy (fig. 17).
Mentre invece in altri paesi europei, pur essendoci talora la concentrazione in alcuni settori di forza,
hanno poi anche il cambiamento della specializzazione. Pensiamo a come cambia la specializzazione
in Germania, o in Finlandia, o in altri paesi, grandi o piccoli.
L’altro elemento di differenza “di anomalia italiana” è la perdita di competitività. In Italia il costo
del lavoro per unità di prodotto, che è condizionato non soltanto dagli andamenti retributivi, ma anche
da quelli della produttività, cresce in media annua, al di sopra del 2%, nel periodo che va dal ’96 ad
oggi. Anche negli Stati Uniti il costo del lavoro cresce, ma in un contesto in cui c’è una forte crescita
dell’economia.
Invece in Finlandia, in Francia e in Irlanda c’è una forte capacità di tenere questo indicatore
sotto controllo non soltanto con la moderazione salariale, ma anche con una forte spinta alla crescita
della produttività (fig. 18).
Di qui l’interesse a guardare alle politiche di taluni paesi europei, paesi con cui ci confrontiamo
e con cui competiamo sui mercati europei e internazionali.
Prendiamo la Germania (fig. 19), che ha come noi problemi di bassa crescita, ma riesce a
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contenere la perdita di quote sui mercati mondiali, anzi nell’ultimo periodo la Germania è diventato il più
grande esportatore mondiale, supera persino gli Stati Uniti. Le esportazioni tedesche rappresentano
circa il 24% delle esportazioni dell’area dell’euro e sono pari circa al 36% del Pil tedesco. La Germania
è un paese che è sempre più aperto all’economia internazionale.
Quali sono gli assi portanti nell’approccio tedesco allo sviluppo dell’industria?
Fondamentalmente tre. Anzitutto la spinta all’internazionalizzazione soprattutto delle parti laborintensive della catena produttiva, verso i paesi emergenti specialmente nell’Europa dell’est. E questo è
un qualcosa a cui ovviamente la Germania è abituata, spinta dal cambio e dall’abitudine in qualche
modo a gestire spinte da costi che derivano anche dalla sua rivalutazione. È stato stimato che il
risparmio sui costi di un’impresa tedesca, che rilocalizza alcune fasi produttive nei paesi dell’est, può
arrivare a oltre il 70%.
Secondo aspetto è la riduzione dei costi. Puntare molto sulla loro riduzione attraverso la
moderazione del salario orario e quindi aumenti di orario a parità di salario. L’uso della contrattazione
decentrata a livello aziendale, o addirittura di stabilimento.
Un terzo aspetto: l’attenzione all’innovazione, soprattutto nei settori legati alle esportazioni. La
quota di Pil spesa in ricerca e sviluppo si mantiene in Germania a dei livelli buoni, anzi ottimi, circa il
2,5% del Pil.
Prendiamo la Svezia (fig. 20), altro paese molto diverso che punta su una strategia che
sintetizzerei in quattro punti.
Anzitutto la riduzione del carico fiscale sulle imprese. Un’ampia serie di deduzioni per le
imprese che investono, che assumono personale, che ha portato a ridurre l’aliquota media dell’imposta
sui profitti dal 28 al 14%, quindi della metà.
In secondo luogo grandi riforme del settore pubblico, la riduzione della spesa pubblica. Le
riforme del welfare in cui la Svezia è fortemente impegnata. Pensiamo alla riforma pensionistica che
quel paese ha adottato e contestualmente un forte aumento del sostegno pubblico all’attività di ricerca
e sviluppo. In Svezia la ricerca e sviluppo raggiunge il 4,5% del Pil. Livelli che rispetto ai nostri
sembrano quasi inconcepibili.
Un terzo aspetto sono le politiche attive del lavoro tradotte in investimenti in formazione, di
politiche di apprendimento che durano tutto l’arco della vita, a sostegno della ristrutturazione delle
imprese.
Infine la moderazione salariale. Nel periodo dal ’96 al 2003 il costo del lavoro per unità di
prodotto si riduce mediamente del 2,9% all’anno in Svezia.
In questo modo la Svezia riesce ad essere un paese che ha una forte capacità di attrarre
investimenti dall’estero. Specialmente quegli investimenti in alta tecnologia ad elevata intensità
tecnologica che possono fungere da traino per il sistema di innovazione del paese.
La Finlandia (fig. 21), che ha invece puntato su una forte specializzazione nelle produzione higttech. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono passati dall1,5% del Pil degli anni ’80, a oltre il 3,5%
negli anni 2000. La Finlandia è un paese leader nella costruzione di un sistema nazionale per
l’innovazione. La capacità di far sistema per l’innovazione, quindi orientando all’innovazione le politiche
economiche, le politiche sociali, in tutti i settori: dall’istruzione alla scienza, alla concorrenza, al settore
finanziario con una logica veramente sistemica.
La Finlandia ha avuto la capacità di fare questo tipo di politica industriale in modo selettivo a
sostegno di filiere specifiche, quelle in cui ovviamente questo paese è forte: la carta, la lavorazione dei
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metalli, le costruzioni, l’alimentare.
L’Irlanda (fig. 22) punta sulla riduzione dei costi di localizzazione per incoraggiare gli
investimenti esteri. In modo selettivo, tra l’altro, gli investimenti nei settori hi-tech. Tra il ’98 e il 2003 i
flussi di investimenti diretti esteri in entrata in Irlanda aumentano mediamente del 24% all’anno.
La moderazione salariale, anche qui è una componente importante in molti contesti, anche
diversi, di strategia. Il costo del lavoro per unità di prodotto si riduce mediamente del 3,8% all’anno nel
periodo dal ’96 al 2003.
L’integrazione europea. Un paese che punta tutto sull’integrazione europea e beneficia molto
dei cospicui trasferimenti dai fondi comunitari. Tra l’altro consegue uno tra i più elevati tassi di
realizzazione dei contributi comunitari. Quindi sa ben spendere anche i fondi che gli arrivano
dall’Europa.
Per concludere, questo è un quadro ricco di esperienze diverse, di lezioni che richiederebbe
molto tempo assimilare Ma l’insegnamento fondamentale che vorrei comunicarvi che ci viene
dall’Europa, è che a certe condizioni è possibile mettere lo sviluppo industriale al centro di un processo
di crescita economica e di un processo di accumulazione.
In qualche modo come ci sta riuscendo
l’Europa, ce la possiamo fare anche noi.
L’insegnamento che ci viene dai nostri vicini europei è un insegnamento, in fondo, di fiducia, un invito al
coraggio, perché fare sviluppo industriale è possibile; fare sviluppo industriale è realistico, è concreto. E
l’insegnamento ci viene non soltanto dai sacri testi, più o meno accademici, ma anche dalla vita vissuta
in paesi molto vicini a noi.
Il benchmarking ci fa capire anche quali sono le condizioni a cui è possibile trasformare una
strategia di sviluppo industriale in performance. Se si vogliono rilanciare gli investimenti e le
esportazioni nette occorre puntare ad una forte integrazione internazionale dei processi produttivi,
come hanno fatto in Germania o in Irlanda. Non basta migliorare la competitività e cercare di esportare i
prodotti. Occorre internazionalizzare i processi produttivi, insediarsi sui mercati di sbocco, attrarre
investimenti diretti dall’estero.
Se ci si vuole riposizionare strategicamente su settori ed ambiti produttivi più avanzati, più di
qualità, occorre puntare su ricerca e innovazione, tecnologie, facendo poi sistema con strategie
comuni, come nel caso del sistema nazionale di innovazione della Finlandia, o anche della Francia.
Con politiche di alleggerimento del carico fiscale e degli adempimenti burocratici sulle imprese, come in
Germania e in Svezia. Con politiche avanzate di education e di apprendimento nell’intero arco della
vita, come in Svezia e in Finlandia.
Se si vogliono evitare le delocalizzazione, la perdita di posti di lavoro industriale, l’emorragia
quindi di cultura industriale, occorre puntare sulla moderazione salariale, sulla flessibilità, sulle
ristrutturazioni produttive che consentano di mantenere la produttività ai costi unitari entro limiti
compatibili con la concorrenza internazionale. Questo l'hanno fatto molti paesi, dalla Germania alla
Francia, all’Irlanda e alla Svezia.
Se infine si vuole dare un’iniezione di fiducia che stimola gli investimenti produttivi e che tiene
elevata anche la propensione al consumo, occorre fare sistema mobilitando il complesso delle forze
sociali, le imprese, le forze politiche, le banche. Ciascuno per la sua parte, e tutti insieme in quanto
classe dirigente del paese.
Questo è un esempio concreto che ci viene dalla Svezia, dall’Irlanda. In modo diverso ma in
modo ugualmente efficace dalla Finlandia.
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Per concludere quando parliamo di queste esperienze straniere, in realtà stiamo parlando della
nostra esperienza di sviluppo industriale. E questa riflessione sull’Europa ci consente in fondo di
riassumere e ribadire le indicazioni e le proposte che sono state avanzate da Confindustria in questi
mesi nei diversi settori. Dalla ricerca all’innovazione, al Mezzogiorno, alle infrastrutture, all’education.
Il nostro contributo, se volete, di valore aggiunto a queste proposte e a quella strategia, è
proprio di inserirle in un quadro analitico organico e di riferirle, col benchmarking che tradizionalmente
facciamo, a esperienze europee, esperienze concrete di politica vissuta.
A questo punto non manca che passare dall’analisi all’azione.
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