CAPITOLO 6 L’EUROPA ALLE SOGLIE DELL’ANNO MILLE 1. IL SACRO ROMANO IMPERO GERMANICO 1.1 Una fase di transizione La difficile fine del millennio Negli ultimi due secoli del primo millennio l’Europa visse momenti tragici. Alla crisi politica dell’impero si aggiunsero nuove sanguinose incursioni di popoli barbari e guerre intestine, associate a un regresso economico e sociale generalizzato. Fu un periodo di cambiamento che solo dopo l’anno Mille cominciò a dare frutti positivi, con l’avvio di quello che viene definito Basso Medioevo: la fine delle incursioni, una ripresa dei commerci, un nuovo sviluppo urbano, una maggiore stabilità sociale avviarono il continente verso nuove forma di civiltà. Il regno dei franchi occidentali (Francia) In Francia, dopo la morte di Carlo il Calvo (877) la dinastia carolingia resistette ancora un secolo fino alla morte dell’ultimo re (Luigi l’Ignavo), nel 987. Il regno si estendeva ai territori tra la Senna e la Loira, intorno a Parigi e a Orléans e poco più, mentre nel resto dell’antica Gallia dominavano potentati locali. A prendere il potere fu proprio uno dei conti di Parigi, la città che aveva ormai assunto il ruolo di capitale del regno. Ugo Capeto, che, alla fine del X secolo, diede origine alla dinastia dei Capetingi destinata a restare al potere in Francia fino alla Rivoluzione Francese e oltre. Il regno d’Italia La situazione della penisola italiana era sempre complessa e instabile. A proclamare il regno d’Italia era stato Ludovico il Pio. Il suo territorio era esteso dalle Alpi ai confini col ducato longobardo di Benevento, oltre il quale fino alla Sicilia l’Italia era invece dominio bizantino ed era insidiato dagli arabi. Nel nord Italia intanto si andava formando un tessuto di città più vitale e ampio che in altre parti d’Europa e proprio lo sviluppo urbano limitò la diffusione del sistema feudale, anche se alcune grandi famiglie di feudatari riuscirono comunque ad emergere e a contendersi il titolo regio. Alla metà del X secolo le lotte per il potere si inasprirono. Dopo l’abdicazione di Carlo il Grosso, il regno d’Italia passò prima a Berengario del Friuli, poi a Berengario II d’Ivrea, che fu spodestato nel 961 dal nuovo imperatore Ottone I di Sassonia: da quel momento le sorti del regno d’Italia furono legate a quelle della Germania. Il regno dei franchi orientali (Germania) Il regno dei franchi orientali era diviso in quattro ducati corrispondenti ai quattro popoli principali che lo abitavano: i frànconi vicini al Reno, gli svevo-alemanni a sud-ovest (attuale Svizzera), i bàvari a sud est e i sassoni a nord est; a questi si aggiunse il ducato della Lotaringia (la futura Lorena). Era una zona soggetta a incursioni da nord e da est e ancora dominata dalla foresta, scarsamente popolata, priva di città, con scarsi castelli e tanti villaggi di capanne. La dinastia carolingia di Germania si estinse nel 911 e da allora furono i quattro duchi a eleggere uno di loro al trono del regno. Nel 919 fu eletto Enrico I di Sassonia che riuscì a raggiungere una effettiva posizione di primato sugli altri duchi, avviò una riforma amministrativa e militare, ottenne un’importante vittoria contro gli ungari e acquistò tale autorevolezza che alla sua morte nel 936 i duchi affidarono la corona al figlio appena ventiquattrenne Ottone I, poi detto il Grande. Egli dovette affrontare i tre gravi problemi che affliggevano il regno: le incursioni degli ungari, i rapporti con l’aristocrazia e quelli col papato. Ottone, gli ungari e i vassalli Il problema più urgente era quello di rafforzare i confini orientali, minacciati dagli ungari. In un’epica battaglia a Lechfeld, letteralmente “campo di Lech”, un fiume nei pressi di Augusta in Baviera, che gli ungari avevano posto sotto assedio, nel 955 Ottone sconfisse gli ungari con un esercito di soli 10.000 soldati contro i 50.000 nemici. A garantirgli la vittoria fu una tattica militare eccellente, la cavalleria pesante in grado di resistere alle frecce degli abilissimi arcieri ungari e una notevole astuzia. Per rafforzare i confini orientali, il re provvide anche a estendere il regno verso est, fino all’Elba, con la creazione di due marche: la Moravia (corrispondente all’attuale Repubblica ceca) e la Marca orientale (Ostmark, che diventerà l’Austria), già creata da Carlo ma ora fortificata. L’altro problema era quello di consolidare l’autorità regale rispetto ai duchi di Germania. Ottone ridusse drasticamente i benefici concessi ai vassalli e, per aggirare l’ereditarietà dei grandi feudi stabilita dal capitolare di Quierzy, preferì assegnare contee e funzioni amministrative ai vescovi. I feudi concessi ai vescovi-conti, infatti, da un lato indebolivano il potere dell’aristocrazia, dall’altro garantivano il sovrano: egli poteva scegliere uomini di sua fiducia e, alla loro morte senza eredi legittimi, perché i vescovi non potevano contrarre matrimonio, riotteneva i benefici concessi, che poteva elargire ad altri vescovi fidati. La nascita del Sacro romano impero germanico L’intento principale di Ottone I era quello di ottenere il titolo imperiale. Così nel 961 scese in Italia per: consolidare i confini orientali nel Friuli, esposti alle incursioni, con l’edificazione di una serie di castelli; costringere i grandi feudatari dell’Italia centro settentrionale a giurargli fedeltà; assumere il titolo di re d’Italia sottraendolo a Berengario del Friuli; farsi incoronare imperatore dal papa, dopo che il trono imperiale era rimasto vacante per 38 anni. Ottone cercava così di realizzare lo stesso sogno di Carlo Magno: una renovatio imperii, una rinascita dell’antico impero romano, ricostituendo l’unità imperiale in un rinnovato Sacro romano impero, che gli studiosi definiscono germanico, per sottolinearne la differenza con quello carolingio. I confini del nuovo impero erano, infatti, assai più ridotti e un altro era l’asse portante: quello carolingio ruotava intorno al Reno, tra Francia e Germania, quello di Ottone tra Germania e Italia. Il Sacro romano impero germanico rimase in vita fino al 1806, quando si disgregò per opera di Napoleone. Il progetto politico del Privilegium Othonis Ottone aveva però anche un intento politico più ampio, quello di imporre il proprio controllo sulla Chiesa, uno dei poteri più forti in Occidente. Il soglio pontificio era conteso tra le diverse famiglie aristocratiche romane, quasi fosse una loro proprietà privata. Ottone riuscì a imporre un papa di suo gradimento, scelto per la sua moralità al di fuori della cerchia romana, e nel 962 emanò il Privilegium Othonis, il “Privilegio di Ottone”, con cui da un lato confermò le donazioni territoriali dei Carolingi al papato, dall’altro stabilì che l’elezione del pontefice dovesse avvenire con l’approvazione dell’imperatore e alla presenza dei suoi rappresentanti. Era un colpo inferto all’aristocrazia romana, ma anche all’autonomia e al potere papale. Un solo decennio per Ottone II (973-983) Ai successi militari e politici, Ottone I aggiunse la sottomissione dei duchi longobardi nell’Italia meridionale e il riconoscimento da parte dell’imperatore bizantino che concesse in sposa a suo figlio Ottone II la propria figlia Teofano. La principessa portò in dote i territori dell’Italia meridionale ancora in mano bizantina. I due imperatori collaborarono anche per cacciare i saraceni che si erano impossessati della Sicilia, senza tuttavia riuscirvi. Morto il padre, Ottone II (973-983), salito al trono a soli 18 anni, subì la rivolta sia dei feudatari italiani mentre era in Germania, sia dei duchi tedeschi, quando si trovava in Italia; non riuscì a ottenere effettivamente i territori bizantini nel Meridione d’Italia e subì una terribile sconfitta in Calabria da parte dei musulmani di Sicilia. Morì a soli ventotto anni di malaria, lasciando il regno al figlio di appena tre anni. La fine della dinastia di Sassonia (983-1024) Per il bambino ressero il regno la madre Teofane e poi la nonna paterna Adelaide (vedova di Ottone I), che dovettero contrastare le mire del cugino dell’imperatore, Enrico di Baviera. Ottone III (9831002) prese il potere a sedici anni nel 996. Era stato educato da un grande intellettuale dell’epoca, Gerberto d’Aurillac, ed era impregnato di cultura classica: sognava di far rivivere all’impero la grandezza dell’epoca di Costantino e mostrava, forse influenzato dall’educazione materna, un atteggiamento molto vicino al cesaropapismo bizantino. Impose, infatti, sfruttando il Privilegium Othonis, l’elezione al pontificato del suo precettore, col nome di Silvestro II, in ricordo di quel Silvestro I che, secondo la leggenda, aveva battezzato l’imperatore romano e a cui la tradizione attribuiva la (falsa) donazione di Costantino. Trasferita la capitale a Roma, dove ormai viveva trascurando gli affari di Germania, Ottone III tentò di imporre l’uso del greco e del latino come lingue ufficiali dell’impero, nel vano tentativo di far rivivere la civiltà classica. A indebolire il suo potere, però, era la necessità di tenere costantemente sotto controllo sia l’aristocrazia tedesca, scontenta della preferenza da lui accordata all’Italia e sempre pronta a ribellarsi, sia quella romana, insofferente dell’intrusione dell’imperatore nell’elezione del papa. E fu proprio un’insurrezione popolare manovrata dall’aristocrazia romana che lo costrinse a fuggire da Roma. Morì nel 1002 a soli 22 anni e l’anno dopo morì anche Silvestro II. Dopo un periodo in cui la corona di re d’Italia passò a un marchese italiano (Arduino d’Ivrea), l’ultimo discendente della dinastia sassone, Enrico II, figlio di quell’Enrico che aveva tentato di usurpare il trono a Ottone III, eletto imperatore di Germania, scese in Italia per essere incoronato dal papa solo nel 1014. La dinastia si estinse con lui nel 1024. Fu sostituita dalla dinastia di Franconia. Memo Silvestro I, il cui lungo pontificato (314-335) coincise con l’impero di Costantino (312-337), non fu una figura di grande rilievo, ma col tempo sorsero su di lui molte leggende, tra cui quella che avrebbe battezzato Costantino. In realtà non è neppure certo che l’imperatore sia mai stato battezzato. Più famosa e storicamente determinante fu la falsa donazione di Costantino a Silvestro, elaborata nell’VIII secolo. Con essa l’imperatore romano avrebbe donato al papa la sovranità dell’Occidente, il possesso di Roma e delle regioni limitrofe. 1.2 La Chiesa a una svolta Corruzione e vario malcostume Il coinvolgimento sempre più ampio degli ecclesiastici nella sfera del potere laico determinò un dilagante malcostume, una sfrenata sete di potere e interessi terreni], lontani dalla funzione spirituale del clero, che si manifestavano in tre fenomeni molto diffusi: simonia, concubinato e nicolaismo. La simonia deve il suo nome a Simon Mago, che, come raccontano gli Atti degli Apostoli (8,19), offrì denaro agli apostoli Pietro e Giovanni per ottenerne il potere di trasmettere lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani. Indica quindi la compravendita illecita di cariche e beni ecclesiastici. Il concubinato (che deriva da “concubina”, dal latino cum e cubo, “giacere insieme”) indica l’abitudine di un sacerdote o di un diacono di convivere con una donna, trasgredendo l’osservanza della castità a cui erano tenuti. Il nicolaismo che deriva da Nicola di Antiochia, uno dei primi diaconi consacrati dagli Apostoli, contrario al celibato, cioè al divieto di contrarre matrimonio per gli appartenenti agli ordini maggiori (vescovi e sacerdoti, e non chierici e diaconi). Nel X secolo il nicolaismo si associò al nepotismo, cioè all’abitudine di assegnare cariche e beni ecclesiastici, persino chiese, a parenti e a figli nati da legami illeciti. La diffusione di chiese private, edificate da signori di banno e indipendenti dalla diocesi, affidate a sacerdoti scelti dal feudatario, magari tra i propri parenti, e sottoposti alla sua autorità, non favoriva certamente la moralità del clero. Persino l’immagine del papa era decaduta: le lotte tra le famiglie aristocratiche romane determinarono l’ascesa al soglio di Pietro di personaggi indegni della carica, coinvolti in episodi di corruzione e di immoralità, e l’avvicendamento in un secolo di più di venti papi, quasi tutti assassinati dagli avversari. Anche per questo Ottone I volle arrogarsi il diritto di scegliere il papa. Il monastero di Cluny per riformare la Chiesa La riforma della Chiesa era ormai invocata da più parti, in particolare dai ceti più umili tartassati dalle angherie di ecclesiastici che, interessati più a questioni e beni terreni che al bene dei fedeli, vessavano la povera gente e depredavano le ricchezze di chiese e monasteri. Ad avviare la riforma fu il duca Guglielmo d’Aquitania che nel 910 fondò nel paese di Cluny in Borgogna, un monastero benedettino, che pose sotto la diretta autorità del papa. I monaci conducevano una vita nel rigoroso rispetto della purezza monastica, e attribuivano grandissimo valore alla preghiera e allo studio, più che al lavoro manuale previsto dalla Regola di san Benedetto, che essi preferirono affidare a contadini e servi. Attenti all’amministrazione delle ricchezze ecclesiastiche e gelosi della propria indipendenza, i monaci di Cluny divennero un ordine molto potente e ricchissimo. All’abate, che era direttamente responsabile della moralità dei monaci, furono subordinati anche altri monasteri che via via sorsero da più parti e che costituirono una vera e propria rete, un’arma decisiva nelle mani dei pontefici quando vollero restaurare l’autorità della Chiesa. Per altro, proprio da Cluny provennero molti pontefici. 2. GLI ULTIMI INVASORI 2.1 Gli uomini del nord Dalle incursioni … Il clima di caos e di lotte tra poteri, la debolezza dell’impero, le guerre che funestarono l’Europa tra il IX e il X secolo furono contemporaneamente causa e conseguenza di nuovi massicci spostamenti di popoli che strinsero in una morsa micidiale l’intero continente da nord (normanni), da est (ungari), da ovest e da sud (arabi e saraceni). Erano popoli diversi per etnia, cultura e provenienza, assai diversi quindi dai popoli, tutti germani, che avevano invaso l’impero romano. Inizialmente, peraltro, non vi furono migrazioni di grandi masse in cerca di nuove sedi dove stanziarsi, come erano state le invasioni che avevano determinato il crollo dell’impero romano d’Occidente, ma incursioni finalizzate al saccheggio e alle razzie, perciò anche più violente e devastanti. Se furono possibili fu perché l’impero carolingio, come un tempo quello romano, si andava indebolendo a causa delle lotte dinastiche e della nascita dei grandi feudi. L’impero era, per di più, una potenza militare sulla terraferma, ma priva di una flotta in grado di difendere le coste. D’altro canto, proprio l’incapacità del potere centrale di far fronte alle incursioni spinse i signori locali a creare opere di difesa, come i castelli, a rendersi autonomi e persino a contrastare, come abbiamo visto, il potere degli imperatori e dei re, indebolendone il potere. Si creò insomma un circolo vizioso che diede la possibilità a popoli diversi ancora arretrati e particolarmente aggressivi di dilagare nel continente e di depredarlo. … alle invasioni Solo in un secondo momento e per diverse circostanze questi popoli si stabilirono in nuove sedi in varie regioni europee, persero il loro carattere distruttivo e finirono col dare un nuovo volto all’Europa. Le ricchezze depredate a città e abbazie permisero loro di costruire nuovi villaggi e nuove città in zone ancora arretrate, di insediarvisi e sviluppare nuovi flussi commerciali. Così, alla fine del lungo periodo di terrore e di violenze inaudite, sorsero nuovi regni e dall’XI secolo in poi non furono più le invasioni a cambiare il destino del nostro continente. Gli spostamenti di altri popoli, come quello turco, ad esempio, sfioreranno soltanto, infatti, i confini europei. Dal nord con furore Nelle estreme regioni settentrionali dell’Europa, che greci e romani chiamavano “l’Estrema Thule” e immaginavano come un luogo nebbioso, freddo, invivibile per esseri umani e abitato quindi solo da mostri, erano da tempo stanziati popoli di origine germanica e religione pagana, molto arretrati, con un’economia legata alla caccia e alla pesca e un’organizzazione sociale semplicissima, basata su piccoli regni dominati da un’aristocrazia guerriera. Ma erano abilissimi naviganti con una tradizione di commerci marittimi, che tra l’VIII e il IX secolo si era trasformata in pirateria. Si spostavano con navi da guerra (chiamate drakkar dal drago scolpito sulle loro prore), leggere, affusolate, velocissime, lunghe una ventina di metri, dotate di remi e di un’unica vela quadrata, che consentiva una notevole agilità di manovra, e una chiglia poco sviluppata, quindi con un pescaggio ridotto, in grado di navigare agilmente in mare, ma anche in acque poco profonde come quelle dei fiumi. La doppia prua e due timoni laterali, poi, permettevano al momento della fuga una rapida inversione di rotta anche su uno stretto corso d’acqua: bastava una semplice inversione dei rematori sui loro banchi. Erano abilissimi combattenti a cavallo: una volta sbarcati si servivano dei cavalli trasportati sulle navi (che potevano contenere un centinaio di uomini) o se ne procuravano sul luogo, per penetrare profondamente nell’interno e raggiungere città distanti dai corsi d’acqua. Normanni, vichinghi, varieghi o rus? Probabilmente a causa di un cambiamento climatico e di un incremento demografico nel IX secolo questi popoli dell’estremo nord cominciarono a spostarsi dalle loro sedi in Svezia, Norvegia e Danimarca, poco fertili e insufficienti a sfamare una popolazione in crescita. Si chiamavano vichinghi, da vik, che nella loro lingua indicava le insenature e i fiordi che caratterizzano la penisola scandinava. Ma gli abitanti d’Europa che li vedevano calare da nord, li definirono normanni (da nord e dal tedesco mann, “uomo”), “uomini del nord”. Furono invece gli slavi a chiamarli rus (da cui deriva il termine “russi”) e i bizantini varieghi, “mercenari”. Le loro incursioni si diressero verso nord-ovest, verso sud e verso est. Dida Delle navi vichinghe possiamo avere un’idea precisa perché vennero utilizzate come bare dai re nel IX secolo e sotterrate sotto grandi tumuli che ne hanno permesso la conservazione. Potevano navigare anche in pieno oceano, perché il loro fasciame era composto da strisce di legno sovrapposte e non giustapposte come nelle navi che nel Mediterraneo era costrette a navigare sottocosta perché non resistevano all’urto delle onde in mare aperto. Non si spiega invece come facessero i vichinghi a orientarsi senza punti di riferimento in caso di nebbia, piuttosto frequente nei mari del nord. Direzione nord-ovest Un gruppo di vichinghi norvegesi, con una lunga tradizione marinara alle spalle, si diresse verso l’Irlanda e l’Inghilterra dove, nel 793, con il feroce saccheggio del monastero di Lindisfarne, un’isoletta sulla costa nord-orientale, avviarono l’attacco all’Europa cristiana. Dopo aver colpito le isole a nord della Gran Bretagna, nell’870 i vichinghi raggiunsero l’Islanda, allora del tutto disabitata, ma con un clima più mite di oggi, e cominciarono a praticarvi l’agricoltura e l’allevamento, oltre alle loro abituali attività di caccia e pesca. Poi, alla fine del X secolo, un grande navigatore, un personaggio semileggendario, Erik il Rosso, esiliato per tre anni dall’Islanda, riuscì a raggiungere una terra sconosciuta che chiamò Groenlandia, cioè “Terra verde”, nome che lascia supporre non fosse ancora la desolata terra coperta dai ghiacci di oggi. Tornato in Islanda, con un gruppo di coloni nel 996 rientrò in Groenlandia per fondarvi alcune colonie. Suo figlio Leif, secondo la leggenda, dalla Groenlandia raggiunse casualmente il Canada, che chiamò Vinland, “Terra del vino”: anche lì, evidentemente il clima era allora meno rigido e permetteva la crescita di uva selvatica. Esistono molti dubbi sulla veridicità della notizia, ma anche se fosse vera, i vichinghi non si sarebbero comunque resi conto di avere scoperto un nuovo continente, che, per altro, ben presto dovettero abbandonare, sia perché era difficile da raggiungere, sia, forse, in seguito ad un peggioramento del clima oppure per la reazione ostile dei nativi americani. In Groenlandia invece le colonie norvegesi resistettero ancora quattro o cinque secoli. Direzione sud I normanni originari della Danimarca si diressero verso le coste settentrionali della Francia e poi, costeggiando la penisola iberica, entrarono attraverso lo stretto di Gibilterra nel Mediterraneo, dove raggiunsero l’Italia. Non si stabilirono in nessuna delle zone che avevano raggiunto, si limitavano a saccheggiarne le città costiere e, risalendo con le loro leggere imbarcazioni i fiumi, si infiltravano nell’interno, prendendo di mira soprattutto i monasteri, ricchi, isolati e pochissimo difesi. Poi raggiungevano città anche lontane dal mare, le coglievano di sorpresa e le mettevano a ferro e fuoco. La loro ferocia era inaudita e divenne proverbiale: oltre a saccheggiare, distruggere e incendiare, si impossessavano di uomini e donne da ridurre in schiavitù. In Francia penetrarono in profondità risalendo la Senna, la Loira e la Schelda, e riuscirono a porre sotto assedio Parigi, sia sotto Carlo il Calvo (metà del IX secolo), sia sotto Carlo il Grosso (nell’anno 885-886): in entrambi i casi l’assedio costò ai sovrani il pagamento di un ricco riscatto. Il re Carlo il Semplice (893-929) adottò invece un’altra strategia: preferì trattare con il loro capo Rollone e, in cambio del suo aiuto per fermare le scorrerie normanne, cedergli un feudo alla foce della Senna, sulla costa settentrionale che da loro prese il nome di Normandia. Dopo che Rollone ricevette il battesimo e divenne signore del feudo e vassallo del re nel 911, i normanni si stanziarono nella regione e in breve tempo assimilarono usi, costumi e lingua dei franchi. Dalla Normandia i normanni partirono per numerose spedizioni tra cui quella di Guglielmo il Conquistatore, che nel 1066 conquistò l’Inghilterra degli anglosassoni, e quella che tra il 1060 e il 1091 portò gli Altavilla a strappare la Sicilia e il Meridione d’Italia ai bizantini, agli arabi e ai longobardi del ducato di Benevento. Dida Commerci preziosi I vichinghi avevano una lunga tradizione commerciale: vendevano soprattutto pellicce e ambra, la preziosissima resina fossile che abbondava in Scandinavia ed era molto ricercata non solo per la sua bellezza, ma anche per le virtù magiche che le si attribuivano. Direzione sud-est Verso est i vichinghi originari della Svezia, che avevano una lunga tradizione mercantile, raggiunsero le foci dei fiumi che sfociano nel mar Baltico e da lì navigarono fino al mar Nero, ai confini dell’impero bizantino, e al mar Caspio, ai confini con il califfato arabo di Baghdad. Stabilirono intensi traffici commerciali lungo i fiumi delle steppe asiatiche. Portavano verso Costantinopoli legno, cera, miele, ambra e una grande quantità di schiavi razziati nel corso delle loro incursioni; ne ricavavano beni di lusso, spezie e pietre preziose. Ma non furono sempre scambi pacifici. Per ottenere condizioni economiche più vantaggiose, i vichinghi attaccarono più volte Costantinopoli e furono talvolta sul punto di conquistarla, ma le mura della città risultarono inespugnabili. Molti di loro finirono allora con l’arruolarsi come mercenari nell’esercito bizantino e divennero la guardia imperiale: da qui il loro nome di varieghi, “mercenari” appunto. Nelle stazioni commerciali vichinghe lungo i fiumi si svilupparono centri come Novgorod e Kiev e lentamente i varieghi si fusero con le popolazioni slave che vi abitavano. Fu il principato di Kiev fondato dal re Oleg nell’882 a prendere il nome di regno di Rus, da cui deriva il nome di Russia. Per influsso della cultura bizantina, i principi slavo-scandinavi si convertirono al cristianesimo di rito greco: nel 988 Vladimiro il Grande, che aveva unificato i principati di Novgorod e Kiev, ne fece la religione ufficiale, inserendo così a pieno titolo la Russia entro i confini dell’Europa. Dida per img di Santa Sofia a Kiev Un’altra Santa Sofia La splendida chiesa di Santa Sofia a Kiev, con le sue tredici cupole, ricorda la basilica bizantina dedicata da Giustiniano alla stessa santa a Costantinopoli. Vladimiro, che per primo tra i rus si convertì al cristianesimo, fu dalla chiesa ortodossa proclamato santo e paragonato a Costantino, il primo imperatore romano a convertirsi. 2.2 L’ultimo popolo delle steppe: gli ungari Dall’Asia centrale all’Europa Stanziati nelle steppe dell’Asia centrale, eccellenti cavalieri e arcieri di origine ugro-finnica, imparentati con gli unni, gli ungari, che chiamavano se stessi magiari, “abitanti delle praterie”, furono l’ultimo popolo delle steppe a premere ai confini orientali dell’Europa. A facilitare il loro percorso fu l’eliminazione degli avari dalla Pannonia, compiuta da Carlo Magno, che aveva lasciato un vuoto ai confini orientali. Gli ungari lo riempirono, occuparono la Pannonia, distrussero il regno di Moravia, travolsero Polonia e Boemia, si incunearono tra i popoli slavi dividendoli in due tronconi a nord e a sud e a partire dall’899 organizzarono una serie di scorrerie in Provenza, in Germania, in Spagna, contro Costantinopoli e persino in Italia, dove saccheggiarono la capitale del regno longobardo Pavia. Non erano però in grado di porre sotto assedio città fortificate, così anch’essi, come i normanni, preferirono attaccare luoghi isolati, abbazie, villaggi rurali e periferie urbane fuori dalla cinta muraria. Attaccavano in primavera: partivano in 5-6000 guerrieri a cavallo, viaggiavano rapidi, poi si dividevano in bande che razziavano accuratamente il territorio per tutta l’estate, finché trovavano biada per i loro cavalli, poi si ritiravano in autunno a svernare in qualche località lungo il loro percorso, continuando a minacciare le popolazioni locali. Qualche volta erano chiamati dagli stessi feudatari per devastare terre dei loro avversari. dida Da ungaro a orco Del terrore suscitato dagli ungari è rimasto ricordo nelle fiabe tradizionali. Il termine “orco”, in francese ogre, è una deformazione del termine ungaro. Nelle fiabe l’orco infesta i boschi e rappresenta un pericolo per i bambini e per i viandanti che si allontanino dai centri abitati per avventurarsi nelle foreste. La conversione Dopo la pesante sconfitta a Lechfeld ad opera di Ottone I nel 955, gli ungari si stanziarono definitivamente nell’antica Pannonia che da loro prese il nome di Ungheria. Anche in questo caso, come abbiamo visto per il regno dei Merovingi, con la conversione al cristianesimo del loro capo Vajk, incoronato re di Ungheria dal papa Silvestro II (Gerberto d’Aurillac) nell’anno 1000 col nome di Stefano I (dal greco “incoronato”), l’intero popolo degli ungari divenne cristiano. Erano gli stessi anni della conversione di Vladimiro il Grande e del popolo russo. Anche i confini orientali dell’Europa erano ormai assicurati al cristianesimo. Con la successiva formazione di stati indipendenti anche in Polonia, Croazia, Bulgaria, Romania, tutti cristianizzati secondo il rito bizantino, alla fine del I millennio il quadro dell’Europa era completo. Esclusa ne restava solo la Spagna ancora musulmana. 2.3 Arabi e saraceni Lo splendore di Cordova (750-1089) Nel Mediterraneo i normanni trovarono concorrenti formidabili. Da un lato la potente flotta bizantina verso Oriente, dall’altro gli arabi che dominavano il Mediterraneo occidentale. A metà dell’VIII secolo un principe omayyade, Abd ar-Rahman, con un esercito di arabi siriani e berberi si era rifugiato nella regione già islamica dell’Andalusia e aveva costituito uno stato indipendente nella città di Cordova, basato su un commercio molto fiorente, l’industria tessile e la cultura. Tra l’VIII e il IX secolo si resero autonomi anche gli stati del Maghreb, l’Egitto e la Siria. Altri regni si formeranno nei secoli successivi. Il califfato di Cordova raggiunse livelli di grande splendore. Dominava su quasi tutta la penisola iberica, ad esclusione della zona dei Pirenei, inaccessibile alla sua cavalleria, dov’erano stanziati i baschi, e la marca ispanica creata da Carlo Magno. Dopo che l’espansione araba era stata bloccata da Carlo Martello nel 732 a Poitiers, le incursioni nel Mediterraneo non erano mai cessate. Le potentissime flotte arabe giunsero fino a Creta e si impadronirono delle Baleari (902). Solo alla fine dell’XI secolo il califfato di Cordova si frammentò e l’Andalusia fu conquistata da una dinastia berbera del Marocco. La Sicilia araba Con l’indebolimento dell’impero carolingio, le incursioni arabe si erano fatte più sistematiche e diffuse. A partire dall’827, dall’emirato ormai autonomo della Tunisia gli arabi intrapresero la conquista della Sicilia, ove era in corso un conflitto tra gli aristocratici bizantini che governavano l’isola. Vi accorsero richiamati da un generale bizantino ribelle, sbarcarono facilmente a Mazara del Vallo, ma dovettero affrontare una tenace resistenza. Fu una conquista difficile, combattuta villaggio per villaggio: Siracusa, la capitale bizantina dell’isola, dopo un lungo assedio cadde in mani arabe solo mezzo secolo dopo, nell’878, e Taormina, l’ultima roccaforte, nel 902. Ma neppure allora la conquista fu completa, perché rimasero sacche di resistenza bizantina per altri cinquant’anni: con la perdita della Sicilia, conquistata a suo tempo da Giustiniano, l’impero si vedeva estromesso sempre più dall’Occidente, mentre gli arabi si avvicinavano al cuore della cristianità. La Sicilia salvata dagli arabi Ma la conquista araba fu una fortuna per la Sicilia. I bizantini l’avevano depredata a suon di tasse e balzelli che arricchivano le casse dell’impero e svuotavano quelle dell’isola, rendendo l’economia povera e stagnante. Gli arabi invece frazionarono i latifondi, migliorarono il sistema di irrigazione dei campi, introdussero colture come il gelso, la canna da zucchero, il cotone, il papiro, le melanzane, e soprattutto aranci e limoni (narang e limun in arabo), che, favoriti dal clima, sono ancora oggi l’emblema dell’economia siciliana. La Sicilia divenne anche un importante centro di produzione di tessuti e i commerci ripresero favoriti dalla posizione dell’isola, al centro del mondo arabo, che ne favoriva il ruolo di mediazione tra domini arabi e cristiani. L’isola poté rivaleggiare con l’Andalusia araba per arte e cultura. Nel 1038 i bizantini tentarono di riconquistare la Sicilia, ma invano. Solo che nel loro esercito militavano guerrieri normanni i quali, affascinati dalle meraviglie dell’isola, suggerirono coi loro racconti la spedizione normanna degli Altavilla del 1061. Anche la Sicilia divenne quindi normanna e acquistò ulteriore prestigio e splendore. Le due culture convissero e diedero vita agli splendidi monumenti che adornano Palermo. Storia di parole Parole arabe in Sicilia e altrove Il dialetto siciliano mantiene moltissimi vocaboli di origine araba, soprattutto nella toponomastica: i nomi di città come Caltanissetta e Calatafimi derivano dall’arabo qal’at, “castello”, e Mongibello, un altro modo per chiamare l’Etna (nome latino), fonde il mons latino con l’arabo gebel, entrambi col significato di “monte”. Dal termine arabo gebel derivano anche Gibellina e Gibilmanna, mentre Marsala deriva da marsa,“porto”, e Mazzara da mi’sara, “pressatoio di legno”. La famosa cassata siciliana trae il suo nome dall’arabo qashata, che a sua volta deriva dal latino caseata, “fatta di formaggio”. Ma anche l’italiano zafferano corrisponde all’arabo aza’faràn e moltissimi altri termini della nostra alimentazione sono di origine araba (carciofo, albicocca, marzapane) o di oggetti (caraffa, tazza, giara, zerbino). Tra storia e letteratura Palermo capitale per sempre Palermo, conquistata dagli arabi nell’831, divenne una splendida capitale, un centro di arte e cultura, ricco di palazzi, terme, monumenti, moschee. Il mercante e geografo del X secolo Ibn Hawqal nel suo Viaggio in Sicilia parla di Palermo come della “città dalle trecento moschee” e ne descrive i cinque quartieri principali, due dei quali erano quasi due città, circondati da proprie mura: al-Qasr (oggi il Càssaro), “il castello”, che era la città vecchia, sede dei mercanti e dei nobili arabi; e al-Khalisa (oggi la Kalsa), “l’eletta”, che costituiva la città nuova, la cittadella fortificata, sede degli emiri e dei suoi ministri, del tribunale, degli uffici e dei bagni pubblici. Il porto era nel quartiere degli Schiavoni, a nord del Cassaro: vi arrivava il commercio degli schiavi slavi e vi risiedevano i mercanti stranieri, genovesi, pisani e amalfitani. Nel Quartiere nuovo e in quello della moschea principale si ammassavano arabi, berberi, siciliani, greci, ebrei, soldati e schiavi e vi fervevano le attività del commercio al minuto. La popolazione, secondo i dati forniti dal geografo, doveva raggiungere almeno i 150.000 abitanti. Nel palazzo oggi detto dei Normanni, ma di origine araba, risiedeva l’emiro, capo dell’esercito, dell’amministrazione, della giustizia, che poteva anche battere moneta: aveva quindi larga autonomia di governo sull’isola. La scelta degli arabi di spostare da Siracusa a Palermo la capitale dell’Emirato fece della città una metropoli moderna e tecnologicamente avanzata, come dimostra la fitta rete di cunicoli creata per assicurare la distribuzione dell’acqua raccolta dalle campagne e convogliata in città. Dalla dominazione araba in poi Palermo rimase la principale città della Sicilia e in alcuni momenti storici una delle più importanti d’Italia. Dida Il palazzo arabo dei normanni Il palazzo dei Normanni, che oggi ospita l’Assemblea regionale siciliana, nel IX secolo era un fortilizio arabo sede dell’emiro, di cui si conserva solo la parte inferiore e il sontuoso soffitto a volta in legno suddiviso in nicchie, mentre quella superiore fu costruita dai normanni nel 1130, e ospita la splendida Cappella palatina. Il palazzo è uno dei capolavori dell’architettura arabo-normanna ed è tra i monumenti più belli di Palermo. Dida San Giovanni degli Eremiti img Da moschea a chiesa La chiesa di San Giovanni degli Eremiti a Palermo pare sia frutto della ristrutturazione di un’antica moschea, una delle tante che arricchivano la città, di cui mantiene il carattere arabo nelle cupole emisferiche che poggiano su un blocco compatto e ricordano le moschee, mentre l’annesso chiostro presenta archi acuti poggiati su colonnine di stile normanno. Pirati saraceni Dalle nuove basi in Sicilia, come da quelle tunisine e spagnole, dove fioriva il califfato musulmano di Cordova, nel IX secolo gruppi misti di arabi ispanici, berberi islamizzati provenienti dal Maghreb, e baschi di Spagna cominciarono a dilagare nel Mediterraneo. Erano pirati saraceni, che già da tempo compivano razzie, ma ora cercavano zone strategiche in cui insediarsi. Costruirono la prima piazzaforte nei pressi dell’odierna Saint Tropez, a Freinet, “il Frassineto” così chiamato per la sua vegetazione lussureggiante, alla foce del Rodano, da cui i pirati risalivano il fiume per raggiungere i passi alpini, la Svizzera (dove devastarono il monastero di San Gallo) e il Piemonte. Il Frassineto sorgeva in un luogo impervio, protetto da un fittissima selva di spine acutissime che impedivano di penetrarvi: il luogo risultava così imprendibile per via di terra. Un altro campo fortificato era alla foce del Garigliano in Campania da cui i saraceni partirono per saccheggiare la basilica di San Pietro (846) e distruggere l’abbazia benedettina di Montecassino (883). Ad impossessarsi invece di Taranto e Bari furono gruppi provenienti dalla Tunisia che ne fecero due emirati arabi, da cui i pirati partivano per incursioni nell’interno fino a Matera e Benevento. Altri si insediarono in Sardegna, Corsica e Baleari. Lo scopo prevalente delle razzie saracene era la cattura di schiavi, in realtà spesso procurati dalle stesse popolazioni cristiane che li vendevano ai pirati saraceni perché gli arabi ormai preferivano utilizzare gli schiavi come soldati. Persino il papa Adriano fu accusato da Carlo Magno di essere implicato nella tratta degli schiavi. I saraceni alla fine vennero sconfitti in Provenza da feudatari coalizzati che si impossessarono del Frassineto. In Italia ad averne la meglio furono i normanni e le città costiere di Genova, Pisa, Salerno, Amalfi e Venezia che cominciavano a diventare potenti. Memo Saraceni Il termine deriva da sarakenói il nome che i greci davano ad alcune tribù arabe del Sinai. Gli arabi trasformarono il termine in sarqui, col significato di orientali. Il ruolo degli arabi nella cultura L’atteggiamento di apertura e di tolleranza degli arabi verso tutte le culture permise loro di svolgere un ruolo di tramite tra Oriente e Occidente e di sviluppo culturale tra i popoli con cui entravano in contatto. Favoriti dal loro alto grado di alfabetizzazione, gli arabi fecero progressi notevolissimi in tutti i campi. Fondata su una cultura ampia e diversificata, che nasceva da un sincretismo culturale originale, e indirizzata alla ricerca, all’innovazione in tutti campi del sapere, dalla filosofia alla tecnologia, dalla medicina alla matematica all’ingegneria all’arte, la civiltà araba fu di stimolo anche l’Occidente economicamente e culturalmente assai più arretrato. Le capitali dell’antico sapere I due poli della diffusione culturale araba furono a est Baghdad, dove il califfo Harun al-Rashid arricchì il suo palazzo con la Casa della Sapienza in cui si traducevano e si conservavano testi antichi, greci e persiani, che attiravano intellettuali da tutto il mondo, ospitati e finanziati dal califfo; e Cordova a ovest, dove la biblioteca conservava 500.000 volumi. Gli arabi mostrarono una grande passione per la cultura greca: mentre Giustiniano aveva mandato al rogo i libri pagani e nel 529 aveva chiuso la gloriosa Accademia di Atene e gli ultimi filosofi pagani si erano dovuti rifugiare in Persia, portando con sé le opere dei grandi maestri greci, come Platone e Aristotele, gli arabi, conquistata la regione, cominciarono a raccogliere testi che altrimenti sarebbero andati perduti, li tradussero, li interpretarono, fecero delle conoscenze matematiche, geografiche, mediche – dei greci, come di altri antichi popoli, persiani, indiani, cinesi –, la base di nuove elaborazioni. I progressi scientifici Mentre negli stessi secoli in Occidente la Chiesa insegnava il disprezzo del corpo, gli arabi continuavano la tradizione di bagni pubblici (hammam) e terme, acquedotti e fognature. Infatti, ossessionati dalla scarsità d’acqua delle loro regioni di origine, gli arabi misero sempre l’acqua al centro dei loro interessi, tanto che immaginavano un paradiso solcato di fiumi e verdeggiante di giardini. Della grande cura che gli arabi dedicavano alla pulizia del corpo si avvantaggiò in particolare la medicina, che si sviluppò enormemente anche per i progressi dell’anatomia: i medici arabi infatti non erano frenati dai divieti relativi alla dissezione dei cadaveri che bloccavano le ricerche dei cristiani. Il filosofo e medico Avicenna (980-1037) scrisse un trattato, il Canone della medicina, basato sulla tradizione medica greca di Ippocrate e Galeno, indiana e persiana. Il Canone fu studiato nelle università europee fino al XVII secolo. Harun al-Rashid fondò anche il primo ospedale pubblico a Baghdad e poi ne sorsero una trentina nelle principali città arabe, in cui si svolgevano ricerche e si curavano malati di qualunque condizione sociale. Anche l’alchimia, l’antenata della moderna chimica, deve la sua nascita e il suo nome (al-kimiya, “pietra filosofale”) agli arabi, come i termini amalgama, elisir, sciroppo, alambicco, di cui l’alchimia si serviva. Dida Bagni come segno di civiltà Le città arabe erano costellate di bagni pubblici, considerati come a Roma indispensabili alla vita cittadina, ma ormai in disuso nel mondo cristiano: a Cordova se ne contavano più di mille e a Baghdad uno in ogni strada importante. Erano forniti di acqua corrente calda e fredda e potevano accedervi tutti, uomini e donne, di qualsiasi estrazione sociale. I musulmani che visitavano le città europee restavano stupiti dalla sporcizia di cose e persone, mentre erano affascinati da Costantinopoli. La passione per la matematica Fu nella matematica che gli arabi apportarono un’innovazione rivoluzionaria: alle cifre, che noi oggi chiamiamo numeri arabi e che essi avevano apprese dal mondo indiano e, attraverso la Spagna musulmana, portarono in Europa, dove ancora si usava la numerazione romana, aggiunsero lo zero. Nacque così il sistema decimale che semplificò i calcoli e diede il via all’algebra di cui AlKwarizmi (780-850) fu uno dei principali studiosi: a lui dobbiamo l’algoritmo, che proprio da lui deriva il suo nome. I progressi tecnologici Abili navigatori, gli arabi importarono dalla Cina la bussola, che permetteva di orientarsi senza altri punti di riferimento. E furono loro a dare un nome allo zenit e al nadir, i due punti opposti della volta celeste, ai magazzini, alla darsena e all’arsenale, in cui si costruiscono e si riparano le navi. L’osservazione del cielo, di cui gli arabi erano specialisti, nasceva anche dalla necessità di conoscere l’esatta direzione verso cui indirizzare la preghiera. Ne nacque un particolare interesse per l’astronomia, stimolato dallo studio di trattati geografici e astronomici greci, persiani e indiani. L’Almagesto (al-Magiste, dal greco méghistos, “il più grande”), il massimo trattato arabo di astronomia, era la traduzione delle opere del geografo greco Tolomeo (II secolo d.C.), a cui gli studiosi arabi apportarono correzioni e modifiche sulla base di nuove osservazioni celesti. Il persiano Al-Baruni (973-1048) scrisse trattati sull’astrolabio (uno strumento utile per calcolare l’altezza del Sole sull’orizzonte) e suppose che la Terra ruotasse su se stessa e intorno al Sole. Dida Magica bussola La bussola è costituita da un ago magnetico collocato su una base metallica sulla quale sono indicati i punti cardinali. La inventarono i cinesi alla fine del I millennio, all’epoca della nuova dinastia Song, che avviò una specie di rinascimento cinese, dando nuovo impulso alla ricerca. Sempre i cinesi scoprirono una miscela esplosiva, alla base della polvere da sparo, inventarono i primi caratteri a stampa e incrementarono la produzione di carta, da loro già inventata partendo dalla lavorazione della canapa più di mille anni prima, sotto la dinastia Han (206 a.C.- 9 d.C.). Furono tutte invenzioni che arrivarono in Occidente grazie all’intermediazione araba.