ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.) con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo e lo Sport Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali QUADERNI DELL’I.R.TE.M. 26 SERIE 3: ATTI N. 12: MODI DI RIPRODUZIONE IN TELEVISIONE DELL’OPERA LIRICA: PROBLEMI TEATRALI, PROBLEMI MUSICALI ROMA, 29 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 1999 ROMA 2003 ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.) con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo e lo Sport Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali QUADERNI DELL’I.R.TE.M. 26 SERIE 3: ATTI N. 12: MODI DI RIPRODUZIONE IN TELEVISIONE DELL’OPERA LIRICA: PROBLEMI TEATRALI, PROBLEMI MUSICALI partecipano CARREIRA - DI CAPUA - DÖHRING - ERBEN FAWKES - HEISTER - JUNG - LANDINI - MICELI PATAY - SEGALINI - SMITH ROMA 2003 © Copyright 2003 by I.R.TE.M. Grafica Cristal s.r.l. Via Raffaele Paolucci, 12/14 - 00152 Roma CARREIRA - DI CAPUA - DÖHRING - ERBEN FAWKES - HEISTER - JUNG - LANDINI - MICELI PATAY - SEGALINI - SMITH MODI DI RIPRODUZIONE IN TELEVISIONE DELL’OPERA LIRICA: PROBLEMI TEATRALI, PROBLEMI MUSICALI ROMA, 29 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 1999 redazione a cura di LAURA NICOLETTA COLABIANCHI VERA ALCALAY p. 4 8 14 29 35 41 57 Indice ILIO CATANI Alcune realizzazioni televisive significative della RAI nell’opera lirica: quarant’anni di esperienze GIANNI DI CAPUA Regia televisiva di Guerra e pace di Prokof’ev (Spoleto 1999) FRANZ PATAY Relations between Opera Houses, TV Channels, Distribution, Producers and Record Companies (I rapporti fra enti lirici, reti televisive, distribuzione, produttori e case fonografiche) GIANCARLO LANDINI Il barbiere di Siviglia di Rossini in video XOÁN M. CARREIRA La produzione televisiva di zarzuela nel periodo tardo franchista RICHARD FAWKES The Influence of Film Opera on the Recording of Live Opera on Television (Come l’opera in film ha influenzato la riproduzione dal vivo dell’opera in televisione) PATRICK J. SMITH The Problem of Double Approach to Directing Opera on Television (Il problema del duplice approccio alla regia d’opera in televisione) V 68 88 94 110 120 124 169 SERGIO SEGALINI Opera e video. Il rêve impossibile SIEGHART DÖHRING Regia visiva di Christoph Colomb di Milhaud (Greenaway, Berlin 1998) SUSAN ERBEN Problems and Opportunities of Getting Opera Shown in the Various Television, Home Video, Internet Markets, and Future Implications of New Technology (Problemi e possibilità di far trasmettere l’opera lirica sui mercati della televisione, dello home video e di Internet, e implicazioni future delle nuove tecnologie) SERGIO MICELI Dissociazioni – Contaminazioni – Espedienti – Mistificazioni HANNS-WERNER HEISTER Dall’Opus perfectum et absolutum al Work in Progress dell’opera in televisione JEAN-FRANÇOIS JUNG La Scène d’Illusion teatrale e l’Espace d’Illusion dello schermo ELENCO ALFABETICO DEI NOMI DI PERSONA CITATI VI lunedì 29 novembre 1999 ore 15 Circolo RAI viale di Tor di Quinto 64 Sala conferenze presiede Carlo Marinelli Non è stato possibile trascrivere l’intervento introduttivo di Carlo Marinelli per gravi difetti della registrazione. N.d.R. 3 ILIO CATANI Alcune realizzazioni televisive significative della RAI nell’opera lirica: quarant’anni di esperienze (esempio audiovisivo) Mi dispiace sospendere questa interessante visione. Pregherei di riaccendere le luci. Consentitemi una sola brevissima osservazione: credo che sia uno dei più lunghi piani sequenza della storia della televisione, che tuttavia non crea alcun fastidio perché la narrazione è talmente ben condotta che sembra che la camera segua naturalmente l’oggetto dell’attenzione. Ho visto qualcosa di analogo tanti anni fa, in una produzione della Beta Film di Monaco, il Giro di vite di Britten, credo credo fosse stato registrato al Covent Garden di Londra. Si trattava di un intero duetto di dieci minuti inquadrato da una camera fissa, mentre in questo caso c’è almeno movimento. Bisogna però dire che questi sono i vantaggi che la regia unica comporta: Franco Enriquez è infatti autore sia della «messa in studio» – non possiamo parlare di messa in scena – sia della versione televisiva e pertanto ha potuto distribuire lo spazio in modo tale da inserire nell’inquadratura Rosina, il sedicente Maestro di musica e Don Bartolo, tutti organizzati in modo chiaro e definito e con gli spazi giusti. È invece probabile che in una ripresa teatrale tutto questo non sia possibile. Una curiosità riferita a questa registrazione: l’Orchestra della RAI di Milano era diretta da un Carlo Maria Giulini non ancora quarantenne. Nel 1954, anno di registrazione di quest’opera, non era ancora molto conosciuto come direttore. Altra curiosità. Tra le prime edizioni televisive di quegli anni c’è una Vedova allegra, realizzata a mo’ di musical a Milano con l’orchestra diretta da Bruno Maderna e non molto rispettosa della partitura di Lehár. Queste curiosità ci dicono qualcosa di molto interessante anche da un punto di vista umano e professionale: come questi grandi maestri – è proprio il caso di definirli tali – abbiano fatto quella che in Italia viene definita «gavetta», come abbiano fatto il normale apprendistato anche in ambiti lontani da quelli più corrispondenti ai loro reali interessi. Evidentemente, per raggiungere certi traguardi è necessario percorrere anche sentieri poco praticabili... Il barbiere di Siviglia che abbiamo visto fu diretto da Franco Enriquez, regista teatrale che ha avuto una brillantissima carriera e che ha diretto in quel periodo tante altre opere liriche. Questa produzione è realizzata in studio e, pertanto, è particolarmente laboriosa: la lavorazione è durata circa cinque settimane perché richiedeva innazitutto la registrazione della colonna sonora, quindi la lettura al pianoforte, le prove con l’orchestra, la registrazione, la messa a punto e solo dopo tutto ciò si andava in studio. A questo punto erano già stati acquisiti anche altri settori della produzione, le scenografie e i costumi erano a posto e, infatti, sono visibilmente molto curati. Il fatto di dover realizzare una certa gamma cromatica attraverso il solo bianco e nero ci fa capire quanta bravura e quanta maestria ci fosse anche nei maestri che disegnavano e realizzavano i costumi, attraverso l’impiego di stoffe che fossero in grado di dare il senso della lucentezza ma anche della consistenza del costume. Questa, come tante altre, è una produzione interamente realizzata dalla RAI e nel vederla con attenzione ci rendiamo conto della complessità del lavoro svolto ma anche della straordinaria capacità dei tecnici dei vari settori, ad esempio la scenografia e la sartoria. I cantanti eseguono in playback, con risultati non sempre felici perché i cantanti lirici erano allora poco avvezzi a questa tecnica; oggi lo sono sicuramente di 4 più. In ogni caso, un risultato come questo, ottenuto quarantacinque anni fa, mi sembra veramente apprezzabile. In quegli anni la tecnologia televisiva era agli inizi, il che condizionava pesantemente le modalità di ripresa: la telecamera era nata da pochi anni e non aveva ancora acquisito un’autonomia di linguaggio sua propria; veniva vista come una cinepresa accessoriata – ricorderete la torretta con i tre obiettivi – e usata come una cinepresa. Questo risulta chiaramente dal frammento del Barbiere che abbiamo visto: carrelli, piani sequenza e controcampi fanno parte di una sintassi che è ancora alla ricerca di una propria emancipazione. Malgrado ciò, come abbiamo potuto vedere, il risultato è notevole. In quei primi anni la RAI produce una serie di opere, molte delle quali purtroppo andate perdute, attingendo ovviamente al repertorio italiano. Tra le produzioni più interessanti vorrei mostrarvi ora l’inizio dell’Otello di Verdi con la regia, anche in questo caso, di Franco Enriquez e con la partecipazione di uno dei più grandi interpreti di Otello della storia della lirica, Mario Del Monaco. Si tratta di una produzione del 1958. Personalmente trovo straordinaria la soluzione adottata dal regista per la breve introduzione strumentale e il passaggio all’«Esultate». Vediamolo. (esempio audiovisivo) Dalla visione si è potuto anche apprezzare il significato di quell’annotazione che ho fatto in precedenza: la soluzione della breve introduzione strumentale con il coro, le dissolvenze e tutto il resto. Accennavo anche all’arretratezza della tecnologia dei primi anni Cinquanta e ai problemi che essa poneva. Tra questi, quelli più gravosi riguardavano la registrazione dei programmi e l’ingombro stesso delle apparecchiature. Prima dell’introduzione della registrazione videomagnetica si usava registrare in pellicola. In pratica si filmava il video e, infatti, questi esempi sono dei «vidigrafi», come allora si chiamavano. La macchina da presa stessa veniva posta davanti al monitor e registrava quello che avveniva, e così è stato per buona parte dei primi anni Cinquanta. L’altro inconveniente, quello dell’ingombro dei mezzi di ripresa, per ovvie ragioni è stato il primo ostacolo alla ripresa in teatro. C’è infatti uno sfasamento temporale tra l’inizio delle produzioni in studio e quelle in teatro poiché è dovuto trascorrere del tempo per l’adeguamento tecnico. Di questo periodo esistono realizzazioni interessantissime che mi piacerebbe farvi vedere ma che porterebbero via troppo tempo, quindi mi limiterò a citarne qualcuna, come per esempio La vedova allegra diretta da Maderna per la regia di Gino Landi, il quale adattò anche il libretto alle esigenze tipiche dello spettacolo. Qualche anno dopo appare una Lucia di Lammermoor di Donizetti messa in scena da Mario Lanfranchi, con una straordinaria partecipazione emotiva di Anna Moffo nel ruolo della protagonista, particolarmente nella scena della pazzia. Se domani avremo ve ne sarà il tempo, durante gli intervalli chi lo voglia potrà prendere visione di questo materiale. Abbiamo inoltre diverse realizzazioni di Traviata, di Tosca, insomma dei titoli più amati dal pubblico. D’altra parte, è con il pubblico che una televisione deve fare i conti, sia pure in regime di monopolio come era la nostra di tanti anni fa. Con la nascita delle squadre esterne di ripresa decisamente «si cambia musica», perché la possibilità di fare riprese in teatro porta a una diminuzione proporzionale delle produzioni in studio. Allo stesso tempo la televisione stessa è in crescita, i canali sono saliti a due, il colore è stato introdotto, le trasmissioni coprono larga parte del giorno e sono state acquisite fette di pubblico sempre più diversificate. Il pluralismo culturale finisce per collocare la musica in posizioni sempre più marginali: la musica in prima serata diventa sempre più rara e, con il tempo, finisce per scomparire del tutto. Le statistiche RAI riportano che 5 la musica classica assorbe una percentuale tutt’altro che trascurabile dell’intera programmazione ma tuttavia tralasciano il fatto che tale musica la si trova prima delle ore nove del mattino oppure dopo le undici della sera. La acquisita capacità tecnico-organizzativa di effettuare riprese di avvenimenti esterni, nel nostro caso nei teatri, schiude nuovi orizzonti alla musica e apre nello stesso tempo una serie di problematiche. Il contatto con la realtà e l’attualità della vita musicale, che per molti è una vera scoperta, l’ampliamento del repertorio, che si arricchisce di nuovi titoli, e le novità degli allestimenti, spesso decisamente anti-tradizionali e trasgressivi, sono i dati di fatto più significativi. A ciò si aggiunge l’instaurarsi di un rapporto di forza tra i vari teatri e la RAI per ottenere, da una parte, l’interesse verso le proprie produzioni e, quindi, una presenza che si traduca in promozione ma anche in denaro e, dall’altra parte, le migliori condizioni operative, indispensabili a una buona ripresa ma anche ampi diritti di sfruttamento del prodotto. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, assisteremo nel tempo a una graduale riduzione della disponibilità degli enti lirici a concedere diritti che non siano i soliti tre passaggi televisivi in un arco di tempo piuttosto limitato. Questo spiega il divario tra il numero di produzioni realizzate dalla RAI, le centinaia alle quali accennavo all’inizio, e quelle oggi effettivamente disponibili in archivio per la messa in onda. Ciò nonostante, la collaborazione con gli enti lirici e i teatri di tradizione, che continua da oltre quarant’anni, ha consentito realizzazioni memorabili: la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, la Fenice di Venezia, l’Arena di Verona, i teatri di Firenze e di Bari sono entrati nelle case degli italiani – perdonate la retorica – insieme ai nomi più importanti della lirica, da Abbado a Strehler, da Ruggero Raimondi a Pavarotti, da Luca Ronconi a Ken Russell. Vorrei sottolineare una particolare attenzione rivolta dalla RAI a spettacoli fuori dall’ordinario, che si caratterizzano per la rarità dell’offerta musicale, l’allestimento innovativo o cast di eccezionale rilievo artistico. Tutte queste componenti le ritroviamo in un’opera di Rossini allestita nell’agosto del 1984 a Pesaro, Il viaggio a Reims. Si tratta della prima assoluta di una partitura rossiniana nata come cantata scenica e che, invece, viene messa in scena come una vera opera lirica per la regia di Luca Ronconi. Questi è riuscito a rendere teatrale un’opera che non è nata per il teatro, in una collocazione che non è un teatro vero e proprio ma il palcoscenico della sala dei concerti del Conservatorio Pedrotti di Pesaro. Il cast è a dir poco formidabile, con molti solisti di canto: tre soprani, tre mezzosoprani, quattro tenori e quattro bassi, cui si aggiungono i ruoli da comprimario; vi figurano i più bei nomi di quello che il mondo della lirica poteva offrire nel 1984, con una folta rappresentanza di artisti italiani, come la Ricciarelli, la Gasdia, la Valentini Terrani, Ruggero Raimondi, un giovane Matteuzzi, Dara, Claudio Abbado, Gae Aulenti e Luca Ronconi. Questa produzione ha creato notevoli difficoltà a chi ha dovuto riprenderla per la televisione. Ha infatti comportato molti problemi da risolvere, legati principalmente alla spazio esiguo della sala del Conservatorio, che non è un teatro e non è quindi dotata di «livelli» diversi, quali la platea, gli ordini dei palchi, la struttura circolare. La sala era affollatissima perché l’allestimento aveva richiamato i melomani da ogni parte del mondo; e non poteva che essere così, visto che si trattava di una novità assoluta, con un livello di esecuzione eccezionale e una messa in scena particolarissima: le regie di Luca Ronconi, come sa bene chi lo conosce, non sono mai «normali» e quel Viaggio a Reims non faceva eccezione, era uno spettacolo nello spettacolo. Dello spettacolo facevano parte le torrette con le telecamere e il carrello col binario che attraversava il palcoscenico da una parte all’altra: tutto doveva essere visto, secondo una commistione dei due elementi, la maniera «classica» di rappresentare la partitura con gli abiti dell’Ottocento e la contaminazione col moderno della ripresa, delle telecamere, del mi6 crofonista con la cuffia che si avvicina alla Ricciarelli durante i suoi interventi. Naturalmente tutto questo comportava grandi difficoltà. Vorrei mostrarvi un breve frammento di questo Viaggio a Reims del 1984, la conclusione dell’opera, dove c’è una lunga romanza della Gasdia e il finale a sorpresa. Prima di farlo, vorrei sottolineare un’altra particolarità di quest’opera, che consiste nel fatto che essa si svolge su due piani paralleli. All’interno del teatro c’è la rappresentazione dell’opera che, come sapete, ruota intorno alla preparazione del viaggio a Reims di una comitiva assortita in occasione dell’incoronazione di Carlo X di Francia. Vi accorrono anche i rappresentanti di molti stati europei che partecipano di diritto alla cerimonia ma alcuni contrattempi, come la rottura della carrozza o la perdita dei cappellini di una certa nobildonna, impediscono alla comitiva di procedere verso Reims. Nel frattempo la corte regale viaggia concretamente attraverso le vie di Pesaro per arrivare in teatro. L’opera, infatti, si conclude con l’arrivo del corteo proprio sul finale. Questo ha rappresentato un’ulteriore complicazione, in quanto la produzione è stata messa in piedi in pochissimo tempo e in pieno clima ferragostano, per cui è stato arduo trovare quattro operatori disponibili, laddove uno simile spettacolo ne avrebbe richiesti almeno il doppio per la sua complessa articolazione. (esempio audiovisivo) Per quanto riguarda invece lavori più recenti, nel filone di quelli che possono essere identificati come «ponti portanti», lascerei a questo punto la parola a Gianni Di Capua, il quale ci parlerà di uno degli ultimi lavori realizzati dalla RAI, Guerra e pace di Prokof’ev, andato da poco in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Vi ringrazio per l’attenzione ma vi annuncio – non vuole essere una minaccia – che ritorneremo su parte di questi argomenti nel corso dei prossimi giorni. CARLO MARINELLI Chi è stato con noi lo scorso anno ricorderà certamente la sensazione suscitata da Gianni Di Capua quando presentò, sia pure solo in parte (personalmente ho avuto il privilegio di vederla per intero), A floresta é jovem e cheja de vida (1966) di Nono. Di Capua insegna Storia e tecnica del documentario artistico all’Università di Venezia. Tengo a sottolineare questo suo carattere: nel programma del Convegno, accanto al suo nome non è scritto «regista teatrale e televisivo», non certo per una dimenticanza ma volutamente. Quel che a me interessa sottolineare è soprattutto la sua esperienza viva, che è vastissima, non solo in televisione ma anche in teatro e il suo curriculum, di straordinario rispetto per una persona così giovane, lo testimoniama. Oltre a questo background pratico egli ha un notevole bagaglio teorico, e la compresenza in lui di entrambi gli elementi a mio parere va messa in grande evidenza. Scusatemi una notazione autobiografica. Nel mio corso di Discografia e videografia musicale dell’Università di Bologna ho fatto del suo lavoro A floresta é jovem e cheja de vida oggetto di particolare attenzione, ottenendo presso gli studenti un successo straordinario. È l’ora di cedere a lui la parola per questo suo nuovo lavoro del 1999. 7 GIANNI DI CAPUA Regia televisiva di Guerra e pace di Prokof’ev (Spoleto 1999) Ringrazio per questo nuovo invito e ringrazio anche chi ha reso possibile la realizzazione di questa mia regia televisiva a Spoleto. Mi sono trovato di fronte a un’opera immane, della durata di quattro ore e mezzo circa. Avevo solo una o due settimane di tempo per svolgere il mio lavoro, per cui ho colto l’occasione di sperimentarmi. Mi sono concentrato su due scene che sono legate tra loro e che ripropongono la questione dell’atteggiamento del regista televisivo di fronte a un’opera ossia di quel processo di sottrazione che il regista opera nell’atto di mediare un’opera dal vivo: il regista necessariamente opera una sottrazione dalla realtà perché ne propone una porzione. È ovvio che non si intende sostituire la sala da concerto con il televisore ma credo che la televisione dia un’opportunità in più all’opera stessa. Il mio intervento sarà breve ed è incentrato sui due frammenti cui ho accennato. Il primo riguarda la seconda scena, che prevede una settantina di persone sul palco. Cosa fare in un caso del genere? Bisogna mostrare dei totali? Assolutamente no. Mi sono rifiutato di farlo, anche perché, come Ilio Catani insegna, la regia di un concerto è diversa da quella di un’opera lirica. Forse la ripresa di un concerto deve rivelare una struttura, almeno nelle intenzioni. Nel caso di quest’opera, invece, mi sembrava preferibile rivelare e seguire il racconto, la struttura teatrale, la drammaturgia, l’idea e il pensiero del regista. In questo caso erano due, Giancarlo Menotti e Roman Hurko. Per la regia d’insieme fu chiamato Gillo Pontecorvo ma di lui appare soltanto il nome perché nella pratica non ha fatto nulla: è stato un omaggio che Menotti ha voluto fare a un suo amico. Evitando tutti i totali, noterete che vi è una somma di particolari, di punti di vista diversi. Vi mostro come erano sistemate le telecamere. (esempio audiovisivo) Non mi è stato concesso di accedere al palco reale, quindi ho posizionato una telecamera nella prima loggia a sinistra e a destra del palco reale e, sullo stesso livello, nella seconda e terza loggia. Avevo poi una telecamera piazzata in «piccionaia», con un operatore a cui chiedevo di effettuare le zoomate ma che non era in grado di farlo. Dico questo perché è importante distribuire gli operatori secondo un proprio progetto registico, a seconda delle capacità e dei talenti di ciascuno: qualcuno ha una mano straordinaria per le panoramiche, mentre altri sono affetti da quello che in gergo viene definito «morbo di Parkinson». Per i dettagli disponevamo di una telecamera che montava un obiettivo da 55 millimetri, un’altra montava invece un obiettivo da 18 millimetri, mentre da 15 millimetri erano gli obiettivi di altre due. Una ulteriore telecamera credo non sia mai stata usata, perché penso avesse un difetto. Una camera era infine posizionata nel golfo mistico per inquadrare il direttore d’orchestra. Per quanto detto, nella pratica disponevo di due telecamere che mi garantivano, nel caso qualcosa fosse andato storto, una ripresa generale e una del direttore. Vorrei spiegare perché abbia deciso di collocare le telecamere alla stessa altezza e non ad altezze variabili. In precedenza avevo visto dei bei piani sequenza e anche noi abbiamo tentato di farne qualcuno; in effetti, ci siamo anche riusciti ma poi ci abbiamo rinunciato perché, per quanto riguarda le riprese, lo studio offre vantaggi che il teatro non consente. Poiché a me non interessava fare una ripresa «da studio», per me era interessante moltiplicare l’occhio dello 8 spettatore teatrale dal punto di vista più privilegiato, quello della loggia e della platea. Vi dico queste cose in modo che, vedendo scorrere le immagini, sappiate quali sono i punti di vista da cui sono state riprese. Naturalmente, eliminando i totali (il boccascena si vede soltanto una volta, all’inizio), entrando all’interno del racconto teatrale, ci siamo imbattuti nei movimenti del coro e dei vari cantanti. Come spesso accade, i movimenti previsti dalla regia teatrale sono sempre codificati con un margine di errore piuttosto ampio ed è accaduto che nella ripresa «buona» aspettavamo che entrassero dei personaggi e invece ne sono entrati altri, per cui abbiamo dovuto far ricorso al materiale registrato il giorno prima. Detto questo, se non c’è il totale cosa rimane? Il primo piano; se tuttavia dispongo di operatori con determinate caratteristiche non posso fare affidamento sul primo piano, dunque non mi resta che giocare con la figura intera. Il pavimento non mi piaceva, mentre trovavo splendide e molto curate le luci realizzate da David Hersey, lo stesso lighting designer del musical Cats. Cosa pensavamo di catturare? Le dinamiche. Come vedrete, la scena è ricca di dinamica, è ricca dei movimenti degli autori di una coreografia che non investe solamente il corpo di ballo o il coro ma anche l’orchestra nella buca, un coro sulla scena e diversi ruoli secondari che, anche per un solo istante, diventano essenziali in una scena. Come individuare tali personaggi? Che rilevanza dare loro quando entrano nel nostro schermo? Quella che vedremo è una scena estremamente importante anche dal punto di vista librettistico: dopo la prima scena, dove vengono introdotti il principe Andrej e Nataša, che vivono una storia d’amore mai consumata, vengono introdotti tutti gli altri personaggi dell’opera, il che rende questo secondo atto estremamente importante proprio ai fini della comprensione drammaturgica e dello svolgimento della storia. Direi di vederlo, perché è inutile che vi dica quello che avrei voluto realizzare, perché credo di averlo fatto. L’altra scena è diversa e complementare, perché se nella prima abbiamo ricostruito la realtà, secondo un processo di sottrazione, nella scena successiva, la dodicesima, abbiamo fatto l’operazione inversa, mettendo in atto un processo di dilatazione della realtà. (esempio audiovisivo) Dovrei fare a questo punto una osservazione che ritengo importante. Nel lavorare sulla struttura drammaturgica, se la ripresa televisiva che ha la capacità di esasperare le cose, di ampliarle, così come di amplificare il movimento, è in grado di amplificare la validità della dinamica di un progetto registico, per converso può anche rivelarne i difetti e l’inconsistenza. Senza entrare nel merito di quali siano e perché si verifichino determinate contraddizioni, vorrei portare alla vostra attenzione quel punto del libretto che recita: «Denisov balla la mazurka». Ebbene, voi non avete visto nulla di tutto questo, non certo perché ci siamo distratti ma perché Denisov e la signora non ballavano semplicemente perché non erano in scena. Altro esempio: «Entra in scena Pierre»; il libretto ne dà una connotazione dettagliata, descrivendolo come «grasso», «unto» ecc, ma abbiamo visto che nel nostro caso egli è tutto fuorché grasso e unto. Ci siamo presi la libertà di smussare questa incongruenza, riprendendolo di spalle oppure aggiungendo un nuovo elemento visivo che distraesse l’attenzione dalla necessità di vedere quanto il testo recita in quel momento: una regia televisiva è fatta anche di queste cose! Passiamo alla dodicesima scena, che è l’esatto contrario di quel che abbiamo visto finora. Le telecamere rimangono le stesse ma in scena vi è una situazione estremamente imbarazzante dal punto di vista televisivo. La scena è la seguente: c’è il boccascena, un tulle nero calato che lo ricopre interamente e una zona illuminata. Ovviamente la regia teatrale e lo scenografo hanno la ne9 cessità di occultare alla vista del pubblico il successivo cambio di scena; non a caso sentirete anche dei rumori provocati dal lavoro degli attrezzisti. Sul palcoscenico vi sono solo due elementi, due personaggi: il principe Andrej moribondo, disteso su un lettino, e Nataša che entra in un secondo momento; la scena dura sedici minuti, una vera e propria agonia in tempo reale, improponibile in televisione! Il principe delira. È a questo punto che il linguaggio televisivo si fa interessante, perché la televisione consente di rivelare la realtà drammatica, il progetto scenico per porzioni, lentamente, adoperando tutti i mezzi di cui si dispone. CARLO MARINELLI Con la relazione di Gianni Di Capua si conclude questa prima sessione di lavoro. L’appuntamento è per domattina alle 9.30 in punto. Buona serata a tutti. 10 martedì 30 novembre 1999 ore 9.30 Circolo RAI viale di Tor di Quinto 64 Sala conferenze presiede Ilio Catani ILIO CATANI Buon giorno e benvenuti. Sarete sorpresi di trovare me al posto della presidenza ma purtroppo una brutta influenza ha impedito al professor Marinelli di partecipare ai lavori del Seminario. Cercherò di prenderne il posto senza avere la presunzione di sostituirlo. Prima di cominciare i nostri lavori devo fare due raccomandazioni. La prima riguarda l’uso dei telefoni cellulari, che provocano interferenze con gli apparecchi di riproduzione. Pregherei di tenerli spenti a meno che non se ne abbia assoluta necessità. La seconda avvertenza è di carattere operativo: i signori che desiderano intervenire sono pregati di aspettare che gli assistenti di sala portino loro il microfono, il cosiddetto «gelato», perché in caso contrario l’intervento non potrà essere registrato per gli atti. Detto questo, invito Franz Patay a tenere la sua relazione, anche se con anticipo rispetto al calendario dovuto al ritardo di Giancarlo Landini. Il lato positivo è che avremo più tempo per la discussione e anche la possibilità di inserire ulteriori elementi alla nostra giornata. 13 FRANZ PATAY Relations between Opera Houses, TV Channels, Distributors, Producers, and Record Companies Good morning, ladies and gentlemen. I will speak in English, because my Italian is very limited. First of all, I want to apologize for not bringing any tapes this year, with excerpts of productions on video. The reason is that the IMZ did not have any opera activity, therefore we had no new programs we could show you. Next year, in May, we will have a video festival and competition in Vienna which is dedicated to opera, and hopefully in the year 2000 we will have new programs and new videos to present. My position at the IMZ gives me the opportunity and the chance to watch our members’ activities like a spider in the net: I can see and observe what is happening, and what I’m going to tell you now is just my observations concerning opera in the field of media in the last years. I will speak a little about the radio, about records, and then about TV and video. As far as the situation with radio is concerned, in Europe we have a rather privileged partnership with the public radio stations, the opera houses, and even the concert organizers; because public radios broadcast a lot, there are a lot of partnerships between opera houses, festivals, and the public radio, and we have come to realize that there is a boom in classical music and opera on the radio. Since the mid Eighties there are some private radios in Europe as well, but these channels do not broadcast opera, they just focus on highlights: one aria, one well-known part of a concert piece, and in-between they talk, like in a pop music channel. In the United States, just to touch upon this matter, though I think Susan Erben will talk about it in more detail, as far as I know the radio does not give any money to the opera houses, and opera houses are even asked to find sponsorship and money to pay for the artist rights in order to bring their productions on air. In Europe there is another speciality, which is IBU, which everybody here probably knows: this is a program exchange going on where every channel has to deliver a certain number of programs to this program pool, and has to deliver the European rights, and then all the other channels can choose out of that. Radio has the advantage of being a cheap medium, compared to television; it’s easier to clear the copyright, and basically the world repertoire is always available. Everything you can buy in a CD shop you can transmit immediately without having wild negotiations with the publishers or with the artists, because the author societies have the repertoire for radio, and you just deliver the royalties to them. The record companies are facing big changes since the beginning of the Nineties; when the CD was first released, there was a real «Gold Rush», because everybody was enthusiastic about this new technology as it was easy to store, and everybody bought everything. Thus the record companies thought that the «high» would never end, but since 1995 consumers haven’t been buying as many CDs, and record companies are now forced to change their policy. The number of productions has gone down, and only very seldom the big repertoire is produced again. Record companies have basically stopped recording operas because most consumers have the entire repertoire on their shelves at home, and if I already own a Tosca featuring Maria Callas, another 14 featuring Mirella Freni, why should I buy a third one? If I want to listen to it, I can go to the opera, or listen to the radio, but it is not something people are willing to buy any longer. Record companies are reorganizing their strategies, and the focus now is on marketing, not on production. Orchestras, theaters, and opera houses had to realize that the variable costs – meaning the artists’ and the publishers’ rights – are too expensive to recoup money, therefore everybody is now re-thinking their policy, and now the tendency is to try to move the economic risk more to the publishers and the artists, in asking them not to get a down-payment immediately but to participate in the economic risk by accepting royalties. The market for classical music records in 1985 was 14% and in 1990, five years later, it was only 6-8%; the expectations of the big record companies are that it will go down to 2.5% of the whole market share. On the other hand, big names like Herbert Von Karajan are still selling; for instance, Deutsche Grammophon is still making 25% of its profit with the conductor’s productions, ten years after his death. This shows how difficult the situation is for record companies: on the one hand they have big archives, and consumers already own this archive (and are still buying this archive, as the Karajan example goes to show), and on the other hand they have new artists, and these artists and their managements ask for records, and want these records to be marketed, but the audience is not willing to buy the CDs! So, one major strategy now is to record and distribute for niche markets; either you’re a small record company, dedicated to specific Baroque music, or music performed on original instruments, then you will find a market and be able to sell your product, or you are a big company like Sony, for instance, who are now trying to produce experimental music, or else music which is rarely heard in concerts, so they try to find combinations of singers and instruments which are unknown to the public. There was a record published last year featuring José Carreras singing the solo part of well-known orchestra pieces, for instance the Mozart clarinet concerto, where Carreras sang the clarinet part with an invented text. So record companies are trying to find a new repertoire, new activities in order to attract public. The TV and video situation, for opera especially, is a very sad one. We have realized that slots for opera on TV have decreased, and some TV stations have stopped broadcasting opera altogether. For instance, in Austria eight years ago every Sunday at prime time there was an opera on TV, and now we have four opera slots a year, and this naturally affects the number of recordings being made. We must realize that the generalists, like the public broadcasters, remain the only real partners of opera and music in the audiovisual media, and this is because these stations are financed by public money and thus they are forced to fulfill their cultural «mission». On the other hand, we realize there are special theme channels which have a strong need for programs, especially opera, because they have to broadcast 24 hours a day, but they have small budgets and cannot finance big productions on their own, so they are forced to exploit the archives of the already-recorded programs. We have the private producers and distributors, who are becoming increasingly important in the making of programs, because public broadcasters are forced to find partners to finance productions, but the interest of private producers is basically documentary, not so much the recording of opera itself, because documentaries sell better, they travel better, and it’s easier to schedule a TV slot, which must not necessarily dedicated to music. The economic situation of private productions depends basically on the acquisition of the copyright, because – considering that the cost of technical equipment is fixed – copyright and artist fees can be negotiated, so this is where the focus is now. A lot of IMZ members are now trying to negotiate with 15 publishing houses in order to change the copyright situation, especially concerning the so-called «synch-rights». The goal is to motivate the music publishers to participate in the economic risk of a production. As it is now, the private producer has to pay the synch rights at the beginning, so the music publisher gets his money, and to his it makes no difference whether the production ever goes on the air or not. Private producers are less and less willing to pay the publishers without having any guarantee that they will recoup their money. The home-video market is currently of no economic importance. VHS tapes do not sell very well, as far as I understand. Most of these tapes are sold in opera house shops, but the general public does not buy as many of these VHS tapes as the industry estimated before. What we see now is a strong demand for DVD. Distributors, producers, and copyright holders are very positive about this new format. On one hand a DVD is not as bulky as a VHS tape, so you can store them easily at home; the expectations are that they cannot be destroyed as easily as a VHS tape. Sometimes tapes get caught in the recorder, which is something that cannot happen to a DVD. A DVD also contains additional information about the opera, the libretto, the biography of the composer, the artists’ curricula, there can be various language versions, and the public is buying DVD now like books for a library. It means that they’re not necessarily going to watch these DVDs, but it’s like having the complete works of Dante, Schiller or Goethe at home in your library. Likewise, you must have, La bohème, Tosca, and the major opera works to consult if you wish: this is now the expectation on the part of the industry, and all distributors are looking for DVD rights. It’s very difficult for me to describe the audiovisual market in a very structured way, because it is not structured, it’s very segmented, and it varies from territory to territory, from language area to language area. There are many ways to distribute opera programs: they can be braodcast on terrestrial TV, satellite, cable, digital, and analogue. This also involves different types of copyrights, different prices, and the participants don’t necessarily disclose the correct information, because often it is a «business secret». As far as production is concerned, opera producers can be public TV stations, private TV stations, sometimes opera houses (as is the case with the Metropolitan, and sometimes the Opéra de Lyon); this means that opera houses very seldom accept to look after logistics, finances, management of the production, etc. The major problem with producing opera for video or television is, as always, the financing. TV stations are increasingly unwilling to produce everything themselves, which means they hold the copyright and distribute the program. They increasingly look to co-productions, and keep certain copyrights to themselves while they give away others to private distributors. Very seldom does a TV accept to participate in a co-production by accepting a pre sale, which means they agree to buy the programs even before the production has begun. Private producers, like Rainer Mortiz or NVC, invest money and look for partners, and then try to recoup their money by distributing the program internationally. I would now like to give a you a short overview of the market and the people who participate in it. In the first place, we have generalistic TV stations, basically public broadcasters, who are (or have been for a long time) the only producers of opera for television, but in the past ten years a strong change in the landscape of media took place. Private TV became an economical factor for the public broadcasters, because a lot of public broadcasters are not 100% financed by license fees or taxes, most of them are financed up to 50% by advertisement, so they are in competition with the private TV channels for 16 advertising money. The advertising industry asks for audiences, rates and shares: this is the reason why art programs get less and less, and when they are broadcast at midnight, it is only to fulfill their «mission to educate». The IBU is trying to create something like an opera pool for opera programs or art programs, like there is in radio. The chairman who is running this project has failed, until now, because it is so difficult to clear copyrights in order to make a program pool; for instance, if the Austrian Broadcasting Corporation makes a program from Salzburg, they only buy the copyright for Austria, not for all of Europe, because it would be too expensive for them. These would be required in order to give this program to the European program pool, so that the Irish or the Hungarian TV could watch the program for free, and in exchange they would get something from them. Another problem is that they only have four slots for opera per year, so it makes no sense make a program pool (as it is in the radio), because for these four slots they are forced by the public opinion, and by politicians I would add: one from Salzburg, one from the Wiener Stadtsoper, and one from the Vienna festival, so there’s only one left for an international co-production. It’s the same with Great Britain or other countries: you have to cover your local opera first, and then you can look for international co-productions. It Italy I think you have a contract with La Scala di Milano, therefore your focus is one the Scala, not on the Viennese State Opera. If you have only four slots for opera, you will have Milano and other things which are of greater interest for the Italian public than Vienna or Salzburg. Just to show you how opera slots were cut down in the past years I want to give you the example of the Danmarks Radio, the Danish Television and Radio. Until 1995, The Danish TV had eight opera slots a year, and 50-60 hours of classical music per year; now, they have only 4 operas a year, and 20 hours of music. The person who was in charge of buying music programs for Danmarks Radio, Mr. Friedman, is only working part-time, and word has it that he was here in Rome last summer, working as a tour guide, because he is no longer needed in his TV station. Swedish TV, for instance, still has 100-150 hours of classical music per year, of which 60% is in-house production and 40% is bought from the international market. They have a deal with Drottningholm, and they produce one of their operas per year. This costs them approximately 3,000,000 Austrian shillings, which is 270,000 US dollars; every five years, Swedish TV makes a studio production of an opera, the last one was The Rake’s Progress. Since 1993 they no longer have a deal with Rainer Moritz, therefore there are no more international sales. Swiss TV, in the French part, has about 50 concerts or ballets a year, and only 1 opera per year, which is broadcast from Geneva. They have a very interesting deal with the opera house in Geneva: the musicians and the cast participate in the revenue of the distribution sales, therefore they can produce quite cheaply, and they sell a lot to South America and Turkey, for instance. The Swiss Italian TV channel had, until last year, 15 operas a year which is quite a number, on the Second channel, starting at 8.30 P.M. on Sundays. I don’t know whether this is still going on. Now we have thematic channels which are on the rise. As I just said, generalist public channels have drastically reduced classical music; however private entrepreneurs think there is a market out there for classical music lovers, and they believe these opera and music lovers are willing to pay a subscription fee to a thematic channel to watch operas they no longer get on free TV, so the public broadcasters are in a quandary: on one hand, they are losing market shares to the private general TVs, with game shows and the rest, 17 and on the other hand they lose public from the viewpoint of quality as well, because thematic channels are out to capture the quality public. Here in Italy there is a situation whereby the RAI-SAT is a thematic channel, and it is also a public broadcaster; it is one of the only cases I know of where this is happening. There is also a private channel for classical music. In Germany there is a classical channel, in France there are two classical music channels, there is «Ovation» in the United States and «TV Theater» in Japan, and there are lots more arising. Just an example of how «Musik» works – which is in my opinion the most successful thematic channel as far as viewers are concerned; the figures I get are that they have 1,000,000 subscribers for their channel, which is quite a lot. They buy about 80% of their programs and produce the remaining 20%. As I said before, they only produce «cheap» chamber music, because they don’t have the means to produce opera. Their program budget per year is 40,000,000 Austrian shilling, which is about 600,000,000 Italian lire. They buy programs which cost between 1,000 and 2,000 US dollars per hour, so it’s not very interesting for copyright holders to sell to a thematic channel, because if you compare that to the costs you have when you produce opera... It costs at least 1,500,000 million US dollars to produce its, and if you sell it for 1,000 or 2,000 US dollars per hour you never recoup production money. So why do distributors sell to these thematic channels? These channels buy huge amounts of programs (at least 500 hours at a time), and they don’t only take the highlights, they take chamber music, documentaries, etc. For instance, Musik needs 1,000 hours of programs per year; they have a schedule whereby every day they have four hours of new programs, it works so that you have 20 hours of programs divided into five blocks; every day they add four hours and shift the whole program, so if you watch this channel every day at the same time, you get to see something different. Only by adding 4 hours a day, they need 1,000 hours per year. The big discussion now is what will these thematic channels do when all the archives have been broadcast: even those who have immense archives will come to the end, and when the public has been shown everything, what will happen? How will they solve this problem? Thematic channels don’t have the money to produce, but they need a lot of programs. As far as I see the situation now, most of these channels cannot recoup enough money out of subscriptions to pay for new programs. It’s a dilemma, and there are a lot of discussions going on about how to reduce programs costs. Once again, copyright, grand rights, synch rights, artist fees, and there is also a discussion about reducing technical costs, by using the mini TV cameras, by reducing the costs for the technical staff. The future will show whether the public is willing to accept this, because opera lovers want to have high quality; they are addicted to music, but the market also shows that they are addicted to new technology as well. If new technical devices come out, the first things that sell are pornography and then music... Maybe a brief glance at independent producers: most of them are addicted to producing music and art programs. As the situation is now, most of them will not get rich by making music, or opera, programs, because it’s so difficult to find slots on the international televisions. Therefore, most of the time if an independent producer takes on a co-production on a private initiative, 80% of the cost are covered by public broadcasters, and 20% will be financed subsequently, by running the program for thematic channels, or by selling it as home-video. If it’s not possible to obtain 80% of the production costs, there are basically no independent producers who want to run the risk. 18 I see five big enterprises doing that, and they chose this market as a strong concentration: one is Rainer Moritz, located in München and London; this company has no preferences as far a territory or language. They produce with Sydney Opera, Opéra de Lyon, Savonlinna, Salzburg, etc. Others, like Unitel in München, have territorial and language preferences: they only do Austrian and German productions. Another big one is Euroarts in Stuttgart; in the past years, they’ve made a lot of documentaries but no more opera, and now they’re going into feature films well. Then there’s BBC, of course; they’re getting more and more involved in music by releasing CDs and exploiting their archive. NVC is a daughter enterprise of Warner Music, and they also stopped making opera productions because they can’t recoup their money, and like the others they are not willing to run the risk of producing an opera. As far as I know, they only take 10% of the risk. Maybe a few words about the Opéra de Lyon; it is one of the few opera houses that has become an «entrepreneur» in that they produce opera themselves. The opera house was closed for a few years, I think from 1987 to 1993, in order to be completely reconstructed; only the outer walls were left, and the inside was completely renewed. During this time, the managers had enough leisure to think about a marketing strategy, so they negotiated a contract with the musicians’ and the stagehands’ union, and they developed a policy for their audiovisual productions. After 1993, when the opera house was reopened, they hosted IMZ events, Opera Screen and Dance Screen, and had the opportunity to make close contacts with the world of TV distribution, independent production, and record companies. So they started to produce up to seven operas as record and video production every year, by choosing not the great repertoire, but operas that were less well-known. They did quite well, reaching break-even point, by developing a very intelligent policy in this field, but in 1996 it was stopped by a lawsuit, where the union (as far as I know) accused the management that they were cheated in the contract, and were not making enough money. The management has now changed, and it’s a pity that this initiative came to an end so abruptly. I’d like to ask my colleague Ilio Catani a question, a matter of personal interest. I mentioned earlier that RAI-SAT has a special interest channel for music, and you have a private competitor, which is Deplus Classica; I’d like you to estimate the situation between you and this private channel, because I’m not sure whether there is enough space for two channels in this very competitive field. How do you see the future? I rapporti fra enti lirici, reti televisive, distribuzione, produttori e case fonografiche [Buon giorno, signore e signori. Sono costretto a parlare in inglese perché il mio italiano è assai limitato. Prima di tutto voglio scusarmi di non avere portato estratti di produzioni su supporto audiovisivo quest’anno; ciò è dovuto al fatto che l’IMZ non ha svolto attività in materia di opera lirica quindi non avevo novità da potervi mostrare. Nel maggio del prossimo anno si terranno a Vienna un festival e un concorso video dedicati all’opera lirica, quindi nel 2000 ci auguriamo di avere programmi e video nuovi da presentare. Dall’osservatorio privilegiato dell’IMZ ho modo di vedere l’attività dei nostri membri come un ragno osserva la tela: posso osservare ciò che accade, e ciò che vi riferirò sono semplicemente le mie considerazioni in materia di opera nei media nel corso degli ultimi anni. Parlerò un po’ della radio e dei dischi e successivamente di televisione e video. 19 Per quanto riguarda la situazione della radio, in Europa abbiamo una collaborazione privilegiata con le radio pubbliche, i teatri lirici e persino gli organizzatori di concerti, giacché le radio pubbliche trasmettono molte produzioni, vi sono molte collaborazioni fra enti lirici e festival con le emittenti pubbliche, e siamo giunti alla constatazione che è in atto un vero boom della musica classica e lirica in radio. Dalla metà degli anni Ottanta in Europa ci sono anche alcune radio private ma queste emittenti non trasmettono opere, concentrandosi esclusivamente sui brani celebri: un’aria o un movimento famoso tratto da un brano sinfonico, inframmezzati da «chiacchere», come in un canale di musica leggera. Negli Stati Uniti – solo per sfiorare un argomento che credo Susan Erben tratterà in maggior dettaglio – per quanto io sappia la radio non dà denaro agli enti lirici, i quali sono addirittura costretti a trovare gli sponsor per poter pagare agli artisti i diritti di messa in onda. In Europa c’è un’altra particolarità, l’IBU, che tutti i presenti probabilmente conoscono: si tratta di uno scambio di programmi laddove ogni emittente deve consegnare un certo numero di trasmissioni a un «archivio comune», cedendone anche i diritti europei, quindi tutte le altre emittenti possono usufruirne. La radio offre il vantaggio di essere un medium economico rispetto alla televisione; è più facile ottenere i diritti e in tal modo il repertorio mondiale è sempre a disposizione. Tutto ciò che si può acquistare in un negozio di CD può essere mandato in onda senza dover sottostare a stressanti negoziati con editori e artisti, perché e sufficiente versare i diritti alle società degli autori. Dall’inizio degli anni Novanta le case discografiche hanno dovuto affrontare enormi cambiamenti. Quando venne messo in vendita il primo CD si scatenò una vera e propria «febbre dell’oro»: tutti erano entusiasti della nuova tecnologia perché era facile da conservare, quindi tutti compravano tutto. Le case discografiche furono portate a credere che il «picco di vendite» non si sarebbe mai esaurito ma, sin dal 1995, i consumatori non acquistano più tanti CD, costringendo quindi le case discografiche a rivedere le loro politiche. È diminuito il numero di nuove produzioni, e solo di rado il grande repertorio viene prodotto una seconda volta; inoltre è quasi smessa la produzione di opere liriche poiché la maggior parte dei consumatori ha già l’intero repertorio sui propri scaffali a casa: se ho già una Tosca con Maria Callas e un’altra con Mirella Freni, perché comprarne una terza? Se vogliono ascoltarne altre versioni, i consumatori possono anche andare all’opera o sentire la radio e quindi sono sempre meno disposti ad acquistarne i CD. Le case discografiche stanno riorganizzando le loro strategie e ora si concentrano più sul marketing che sulle produzioni. Orchestre, teatri ed enti lirici hanno capito che i cosiddetti «costi variabili» – i diritti dovuti ad artisti ed editori – sono troppo alti per poter recuperare i costi, quindi tutti stanno cambiando strategia. Ora la tendenza è quella di condividere il rischio economico con editori e artisti, chiedendo loro di non prendere un cachet ma di partecipare agli utili. Nel 1985 la quota di mercato della musica classica era del 14% ma nel 1990, soltanto cinque anni dopo, era scesa al 6-8%. Le previsioni delle grandi case discografiche sono che scenderà al 2,5% dell’intero mercato. Per contro i grandi nomi, come Herbert Von Karajan, vendono ancora, infatti la Deutsche Grammophon trae tuttora il 25% dei propri profitti dalle vendite di produzioni realizzate dal direttore, a dieci anni dalla sua morte. Ciò dimostra quanto sia difficile la situazione delle grandi case discografiche: da una parte possiedono archivi immensi (che tuttavia i consumatori già possiedono, sebbene lo continuino ad acquistare, come il caso di Von Karajan dimostra) e dall’altra hanno i nuovi artisti che, insieme ai loro agenti, reclamano nuovi dischi da immettere nel mercato. Ma il pubblico non è disposto ad acquistare nuovi CD! Una delle strategie che viene quindi adottata 20 è quella di produrre e distribuire per i mercati di nicchia: le piccole case discografiche che si dedicano esclusivamente alla musica barocca eseguita su strumenti originali possono trovare un pubblico a cui vendere i propri prodotti, oppure le grandi compagnie, quale la Sony, possono dedicarsi a produrre musica sperimentale o musica di raro ascolto, quindi cercano combinazioni di cantanti e strumentisti sconosciute al vasto pubblico. L’anno scorso è uscito un disco in cui José Carreras cantava la parte solistica di brani orchestrali famosi, come il Concerto per clarinetto e orchestra di Mozart, in cui Carreras cantava la parte del clarinetto su un testo inventato. Le case discografiche stanno quindi cercando un repertorio inedito per riuscire ad attirare il pubblico. La situazione di televisioni e video è assai triste. Abbiamo preso atto del fatto che gli spazi dedicati all’opera in televisione sono diminuiti, e che alcune emittenti televisive hanno smesso del tutto di trasmettere opera lirica. Per fare un esempio, otto anni fa in Austria ogni domenica in prima serata veniva trasmessa un’opera in televisione, contro le quattro opere l’anno trasmesse attualmente; gli effetti di questo naturalmente si ripercuotono sul numero di nuove registrazioni che viene effettuato. Dobbiamo prendere atto del fatto che i cosiddetti «generalisti» sono gli unici possibili partner di opera e musica sui mezzi audiovisivi perché vengono finanziati con denaro pubblico e devono quindi assolvere la loro «missione» culturale. D’altra parte dobbiamo renderci conto che esistono i canali tematici che hanno un grande bisogno di programmi, specie di opera lirica, perché devono andare in onda ventiquattr’ore su ventiquattro ma, con gli scarsi mezzi di cui dispongono, non possono sostenere grandi produzioni in proprio e sono costretti ad attingere agli archivi già registrati. Vi sono inoltre produttori e distributori privati la cui importanza in materia di produzione di programmi sta crescendo, poiché le emittenti pubbliche sono costrette a cercare collaborazioni per finanziare le proprie produzioni, mentre l’interesse dei private risiede fondamentalmente nella documentazione. Infatti, i documentari si vendono meglio, sono più facilmente esportabili ed è più facile farli rientrare in una programmazione che non deve essere necessariamente dedicata alla musica. La situazione economica delle produzioni private dipende sostanzialmente dall’acquisizione dei diritti perché – visto che i costi dell’apparecchiatura tecnica sono fissi – questi possono essere negoziati, quindi è su questo che ci si sta concentrando ora. Molti membri dell’IMZ stanno cercando di negoziare con le case editrici in modo tale da modificare la situazione dei diritti, specie per quanto riguarda i cosiddetti «diritti di sincronizazzione». L’obiettivo è quello di invogliare gli editori a partecipare al rischio d’impresa delle produzioni. Attualmente un produttore privato deve pagare i diritti di sincronizzazione subito, quindi l’editore percepisce il proprio profitto e non fa alcuna differenza se la produzione va in onda o meno. I produttori privati sono sempre meno disposti a pagare gli editori senza avere alcuna garanzia di recuperare il loro investimento. Allo stato attuale il mercato dello home video non è di alcun rilievo: le videocassette VHS, per quanto ne so, non si vendono molto bene. La maggior parte di questi nastri viene venduta nei negozi annessi ai teatri lirici ma il pubblico non le acquista nelle quantità che erano state previste dall’industria. Ora assistiamo a una grande richiesta di DVD. Distributori, produttori e detentori di diritti sono assai favorevoli al nuovo supporto; da una parte il DVD non ingombra quanto la videocassetta, quindi può essere conservato facilmente e inoltre le aspettative di durevolezza sono maggiori rispetto al VHS. A volte, le videocassette rimangono impigliate nel registatore, cosa che non può accadere con un DVD; per di più quest’ultimo contiene informazioni aggiuntive sull’opera, il libretto, la biografia del compositore, i curricula degli arti21 sti, varie possibili versioni in diverse lingue, quindi ora il pubblico acquista DVD come fossero libri da conservare nella propria biblioteca. Non è detto che li guardino, piuttosto è paragonabile all’avere in casa l’opera omnia di Dante, Schiller o Goethe; parimenti si devono avere La bohème, Tosca e altre grandi opere da consultare se si desidera. Queste sono le attuali aspettative da parte dell’industria, quindi tutti i distributori sono a caccia di diritti per produrre DVD. Mi risulta difficile descrivere il mercato dell’audiovisivo in maniera strutturata perché esso è assai poco strutturato, al contrario è segmentato e varia da un territorio a un altro, da un’area linguistica a un’altra. Ci sono molti modi per distribuire programmi operistici: possono essere trasmessi su televisioni terrestri, su satellite, via cavo, con segnale digitale o analogico. Tutto ciò comporta diverse tipologie di diritti, prezzi differenti, e i diversi partecipanti non sempre rivelano le informazioni correttamente perché queste sono coperte da «segreto aziendale». Per quanto concerne la produzione, i produttori di opere possono essere reti televisive pubbliche o private, talvolta teatri lirici (come nel caso del Metropolitan e dell’Opéra de Lyon); questo significa che i teatri d’opera raramente accettano di farsi carico di problemi logistici, finanziari, di gestione della produzione, ecc. Il maggior ostacolo nel produrre opera per il video o per la televisione è, come sempre, il finanziamento. Le reti televisive sono sempre meno disposte a farsi carico della produzione in toto, limitandosi a detenere i diritti e incaricarsi della distribuzione. C’è una crescente ricerca di coproduzioni, in cui le reti televisive trattengono alcuni diritti e ne cedono altri ai distributori privati. Succede di rado che una rete televisiva accetti una coproduzione in cui sia costretta ad acquistare un programma prima ancora che la produzione cominci. I produttori privati, quali Rainer Moritz o NVC, investono denaro e cercano soci, quindi cercano di recuperare l’investimento distribuendo il programma a livello internazionale. Ora vi farò una breve descrizione riassuntiva del mercato e delle persone che vi partecipano. In primo luogo abbiamo le TV generaliste, soprattutto le reti pubbliche, che sono state per lungo tempo le uniche a produrre opera per la televisione ma nell’ultimo decennio il panorama del mondo dei media è cambiato enormemente. Le reti private sono diventate un fattore economico rilevante per le emittenti pubbliche perché molte di queste ultime non traggono la totalità dei loro introiti da tasse o abbonamenti ma vengono finanziate per il 50% dalla pubblicità, mettendosi dunque in competizione con le reti private. L’industria pubblicitaria richiede ascolti elevati, e grandi share di pubblico; questo spiega perché i programmi dedicati alle arti ottengono spazi sempre più ristretti, e quando alfine vengono trasmessi intorno a mezzanotte, è solo per «assolvere al compito educativo» della televisione. L’IBU sta cercando di creare qualcosa di simile a un pool per quanto riguarda programmi operistici e d’arte, come accade alla radio. Il presidente in carica del progetto ha finora fallito a causa delle difficoltà legate all’acquisizione dei diritti; per fare un esempio, se la Radiotelevisione austriaca realizza un programma a Salisburgo, acquista soltanto i diritti per l’Austria e non per tutta Europa perché i costi sarebbero troppo elevati. I diritti sono indispensabili per poter cedere il programma al pool europeo, di modo da permettere alle televisioni irlandese o ungherese di trasmetterlo gratuitamente, in cambio di una loro produzione. Un altro problema è che vi sono soltanto quattro spazi dedicati all’opera annualmente, quindi in realtà non ha molto senso creare una cooperativa di programmi poiché i contenuti degli spazi destinati all’opera vengono stabiliti dal pubblico e dai politici: Salisburgo, la Wiener Stadtsoper, il Festival di Vienna e rimane un solo spazio per una coproduzione inter22 nazionale. Lo stesso accade in Gran Bretagna e in altri paesi: prima bisogna coprire le produzioni locali e in seguito si possono cercare coproduzioni internazionali. In Italia credo che abbiate un contratto con La Scala di Milano, quindi metterete l’accento sulla Scala, non sull’Opera di Stato di Vienna. Avendo soli quattro spazi a disposizione annualmente, trasmetterete opere da Milano e altre che interessino il pubblico italiano più delle produzioni di Vienna o Salisburgo. Per dimostrarvi quanto siano stati ridotti negli ultimi anni gli spazi televisivi dedicati all’opera prenderò in esame la Danmarks Radio, l’ente radiotelevisivo danese. Fino al 1995 era prevista la messa in onda di otto opere e cinquanta ore di musica classica l’anno, che sono state ridotte a quattro opere e venti ore di musica classica. La persona preposta all’acquisto di programmi musicali per conto della Danmarks Radio, il signor Friedman, lavora part time, e si vocifera che abbia trascorso l’estate a Roma lavorando come guida turistica perché la sua rete televisiva di appartenenza non ha più bisogno di lui. La televisione svedese, per esempio, ha mantenuto cento-centocinquanta ore di musica classica l’anno, delle quali il sessanta per cento di produzione proprie e il quaranta di materiale acquistato sul mercato internazionale. Hanno stretto un accordo con Drottningholm in base al quale producono un’opera del loro cartellone ogni anno; tale produzione ha un costo approssimativo di 3.000.000 di scellini austriaci, che corrispondono a 270.000 dollari statunitensi; ogni cinque anni la televisione svedese produce un’opera registrata in studio, l’ultima delle quali è stata The Rake’s Progress. Dal 1993 hanno interrotto il loro contratto con Rainer Moritz, quindi non effettuano vendite a livello internazionale. La Radiotelevisione svizzera, nel cantone francese, ha una cinquantina di concerti o balletti ogni anno, ma soltanto un’opera che viene trasmessa da Ginevra. Hanno stipulato un accordo molto interessante con il Teatro dell’Opera di Ginevra in base al quale anche i musicisti e il cast partecipano agli utili derivati dalle vendite. Sono quindi in grado di produrre a buon prezzo e vendono molto in America Latina e Turchia, per esempio. Fino all’anno scorso la radiotelevisione della Svizzera italiana trasmetteva quindici opere ogni anno, la domenica sera alle 20.30 sul Secondo canale ma non so se sia ancora così. Attualmente sono in ascesa i canali tematici. Come ho appena detto, i canali pubblici generalisti hanno ridotto drasticamente gli spazi dedicati alla musica classica, tuttavia gli imprenditori privati sostengono che esista un mercato di musicofili disposti ad abbonarsi a un canale tematico pur di poter vedere opere che non vengono più trasmesse dalla televisione gratuita. I dirigenti delle televisioni pubbliche attraversano un momento difficile: da un lato perdono quote di mercato rispetto alle televisioni private generaliste a causa delle trasmissioni incentrate su giochi televisivi e altro, e dall’altra perdono spettatori «di qualità», che sono il pubblico ideale per i canali tematici. In Italia vi è una situazione per cui RAI-SAT è un canale tematico ed è al tempo stesso un’emittente pubblica, ed è uno degli unici casi del suo genere. Vi è anche un canale privato dedicato alla musica classica. In Germania c’è un canale di musica classica, in Francia ce ne sono due, negli Stati Uniti c’è «Ovation» e in Giappone «TV Theater», e molti altri stanno nascendo. Prendiamo per esempio il modo in cui opera «Musik», che secondo me è il canale tematico di maggior successo per quanto riguarda gli ascolti; secondo i dati in mio possesso hanno circa un milione di abbonati, che è una cifra elevata. Acquistano circa l’ottanta per cento della programmazione e producono il rimanente venti per cento. Come ho detto prima, producono soltanto musica cameristica che risulta più economica, perché non diposngono di mezzi suffi23 cienti per produrre opere. Il loro budget per i programmi è di 40.000.000 di scellini austriaci l’anno, che corrispondono a 600.000.000 di Lire italiane. Acquistano programmi che costano circa mille-duemila Dollari statunitensi l’ora, quindi i detentori dei diritti non hanno molto interesse a vendere ai canali tematici, perché se rapportiamo queste cifre ai costi della produzione di un’opera... Produrre un’opera costa circa un milione e mezzo di Dollari statunitensi, e se la si vende a mille-duemila Dollari l’ora non si recuperano i costi di produzione. Quindi perché i distributori vendono ai canali tematici? Perché questi canali acquistano i programmi in grandi quantità (circa cinquecento ore per volta), e non prendono soltanto programmi di richiamo ma acquistano anche la musica da camera, i documentari, ecc. Ad esempio, Musik ha bisogno di mille ore di programmazione l’anno; hanno una programmazione di venti ore divise in cinque blocchi; ogni giorno aggiungono quattro ore di nuova programmazione, quindi se si guarda questo canale ogni giorno alla stessa ora si possono vedere programmi diversi. Aggiungendo soltanto quattro ore al giorno, si ha bisogno di mille ore l’anno. Attualmente si discute molto sul problema che dovranno affrontare i canali tematici quando avranno finito di trasmettere tutto il materiale d’archivio. Una volta trasmesso tutto cosa succederà? I canali tematici non hanno il denaro necessario per produrre ma hanno bisogno di molti programmi; allo stato attuale la maggior parte di questi canali non può recuperare i costi di nuove produzioni con gli abbonamenti. È un bel problema e si discute molto sui modi per ridurre i costi dei programmi. E si torna a parlare di diritti d’autore, diritti di sincronizzazione, cachet degli artisti; si discute inoltre di ridurre i costi tecnici mediante l’uso di mini telecamere che consentono un abbattimento dei costi per lo staff. In futuro si vedrà quale accoglienza verrà riservata a tali programmi, poiché gli amanti dell’opera esigono la qualità. Sono musicofili ma le ricerche di mercato mostrano che sono anche appassionati di nuove tecnologie. Se viene lanciata una nuova attrezzatura tecnica, le prime cose a essere vendute sono la pornografia e la musica... Possiamo dare uno sguardo veloce ai produttori indipendenti: in gran parte sono appassionati produttori di programmi dedicati all’arte e alla musica. Allo stato attuale la maggior parte di loro non si arricchirà producendo programmi musicali o d’opera perché è così difficile trovare spazi sulle reti internazionali. Se un produttore indipendente intraprende una coproduzione su iniziativa privata, l’ottanta per cento dei costi viene coperto dalle reti pubbliche e il restante venti per cento viene finanziato in un secondo momento, col ricavato della messa in onda sui canali tematici o vendendo il prodotto in home video. Se non è possibile ottenere il finanziamento dell’ottanta per cento dei costi di produzione nessun produttore indipendente vorrebbe correre rischi. Vi sono cinque grandi società di produzione che scelgono questa strada. Rainer Moritz, con sede a Monaco di Baviera e a Londra, non ha preferenze di territorio o lingua; produce programmi della Sydney Opera, Opéra de Lyon, Savonlinna, Salzburg, ecc. Altre, come la Unitel di Monaco di Baviera, hanno preferenze territoriali e di lingua: si occupano perciò soltanto di produzioni tedesche o austriache. Un’altra grande società è la Euroarts di Stoccarda; negli ultimi anni ha fatto molti documentari ma nessuna opera e ora sta cominciando a interessarsi anche ai film. Abbiamo poi la BBC, naturalmente; il suo crescente impegno in campo musicale è dimostrato dalla produzione di CD che attingono ai suoi archivi. NVC è una costola della Warner Music, e anche essa ha smesso di produrre opere perché non riesce a recuperare i costi di produzione. Come le altre società, la NVC è disposta a rischiare solo per il dieci per cento. 24 Poche parole riguardo l’Opéra de Lyon; è uno dei pochi teatri d’opera diventato «imprenditoriale» in quanto producono opera loro stessi. Il teatro è stato chiuso per qualche anno, credo dal 1987 al 1993, per una ristrutturazione completa; sono rimaste soltanto le mura esterne mentre gli interni sono stati completamente rinnovati. In questo periodo i dirigenti hanno avuto modo di elaborare una strategia di marketing; hanno negoziato un contratto con i sindacati di musicisti e tecnici e hanno sviluppato una politica per le loro produzioni audiovisive. Dopo il 1993, quando il teatro è stato riaperto, ha ospitato eventi dell’IMZ (Opera Screen e Dance Screen) e hanno così avuto occasione di prendere contatto con il mondo della distribuzione televisiva, i produttori indipendenti e le case discografiche. Hanno quindi cominciato a produrre fino a sette opere l’anno in forma di disco e video, scegliendo non il grande repertorio ma le opere meno conosciute. È andata abbastanza bene, sono riusciti a pareggiare i costi ma nel 1996 hanno ricevuto una denuncia da parte del sindacato (per quanto ne so) che accusava i dirigenti di averli raggirati in sede contrattuale. Ora i dirigenti sono cambiati ma è un peccato che l’iniziativa sia finita così. Vorrei fare una domanda al collega Ilio Catani, per mia curiosità. Prima ho detto dell’interesse particolare che RAI-SAT mostra nei confronti della musica, e voi avete un concorrente in ambito privato, la Deplus Classica. Vorrei che esprimessi la tua valutazione della situazione fra voi e l’emittente privata perché non sono sicuro che vi sia sufficiente pubblico per entrambi in questo campo così concorrenziale. Come vedete il futuro?] ILIO CATANI Io sono stato a RAI-SAT per circa due anni e non ho vissuto proprio appieno le vicende del canale, comunque ho potuto rendermi conto di alcune cose: la situazione di RAI-SAT come canale tematico è ancora particolare, nel senso che è un canale tematico ma non privato, si vede in chiaro, cosa che significa che non c’è bisogno di abbonarsi per ricevere i programmi di RAI-SAT, è sufficiente installare una parabola e munirsi di un decoder, a differenza di CD Classic, un canale tematico a tutti gli effetti, laddove per ricevere i programmi bisogna sottoscrivere un abbonamento con la società. Vi chiederete come venga finanziato il canale tematico di RAI-SAT. Finora con un budget RAI, perché RAI-SAT era un vero e proprio settore della RAI. Dal 1° luglio di quest’anno c’è stata una scissione dal punto di vista burocratico-contrattuale, per la quale RAI-SAT si è staccata dalla RAI, diventando una società per azioni in cui la maggioranza del capitale è detenuto dalla RAI, che quindi continua a finanziare una buona parte dell’attività di RAI-SAT. Se c’è la possibilità di due canali tematici in Italia? Finora la convivenza è stata possibile, forse grazie al fatto che non c’è concorrenza sul piano della sottoscizione degli abbonamenti. Inoltre, uno spazio ci potrebbe essere nel senso della differenziazione delle proposte di programma. Durante la mia permanenza a RAI-SAT sono state prodotte quattro opere liriche, che erano l’Orfeo di Monteverdi al Teatro Comunale di Firenze per la regia di Ronconi e la direzione musicale di René Jacobs; La serva padrona di Pergolesi in un allestimento molto particolare e divertente; Orione, di cui abbiamo visto un frammento ieri; l’ultima e la più recente Una cosa rara di Martín y Soler. Quindi, la differenziazione sta nella proposta musicale; quattro opere in un anno non è poco, se confrontate anche con la capacità produttiva delle altre reti RAI. La prima rete notoriamente si sofferma solo sui grandissimi avvenimenti: l’apertura della Scala e altri eventi di una certa rinomanza e, se vogliamo, anche di una certa ridondanza; RAI 2 ha fatto l’apertura dell’Arena di Verona; RAI 3 25 ha fatto altre opere che non ricordo, e ha tutto un suo settore dedicato all’opera lirica che non è quello tradizionale, come vedremo in seguito perché vorrei che ci fosse una nostra collega che illustra un suo programma. Apro una parentesi e aggiungo qualche osservazione a quanto diceva prima l’amico Patay. A differenza delle altre reti televisive europee, la RAI non ha degli spazi fissi predestinati in maniera rigida alla musica (4 o 5 opere l’anno, per esempio) ma il palinsensto è piuttosto aperto, per cui può capitare che in un anno vengano trasmesse molte opere e in un altro meno. Dipende anche da quel che offre il mercato, parlando prevalentemente di produzioni di teatri italiani. Oltre l’opera c’è poi la musica strumentale. Per quanto riguarda l’attività di RAI Sat, anche in questo caso c’è stata una scelta molto particolare ed elitaria. Tra le produzioni strumentali di RAI Sat ci sono A Floresta di Nono, per esempio, o i frammenti del Prometeo, sempre di Nono, entrambe produzioni del Teatro «La Fenice» di Venezia; c’è ancora i Salmi davidici di Benedetto Marcello, anche in questo caso visti in maniera tutta particolare, con un’intepretazione visiva che non si limitava semplicemente alla ripresa del coro, il che sarebbe stato molto riduttivo. Anche una versione-visione fantastica dei Carmina burana di Orff, a metà tra la ripresa del concerto e un video vero e proprio; e poi, per quel che riguarda la produzione, anche qualce concerto tradizionale. In gran parte il palinsesto di RAI-SAT è stato alimentato dal magazzino RAI, quello che sappiamo sia disponibile sia per la lirica sia per la musica strumentale e poi una gran mole di programmi d’acquisto. Partecipai a un incontro in cui c’erano anche rappresentanti di Canale Classica, i quali facevano presenti le difficoltà di budget per l’acquisto di programmi che non fossero ormai già ammortizzati sotto il profilo della spesa, dunque programmi che non costituiscono in alcun modo una novità per lo spettatore. Le cose nuove si pagano, ovviamente, mentre le cose vecchie, una volta coperte le spese, possono essere vendute anche a pochi milioni di lire all’ora. Certo, oggi realizzare e acquisire i diritti, specialmente i diritti mondo, per un’opera costa in Italia non meno di un miliardo, che è tanto, e giustamente la capacità di acquisto secondo una giusta tabella di ripartizione che era stata fatta in sede di Eurovisione, tiene conto anche della forza delle singole televisioni. Ovviamente non si può fare una ripartizione divisa in maniera matematica per il numero delle televisioni poiché, con tutto il rispetto, la televisione rumena non spenderebbe certo cifre astronomiche per avere un’opera di repertorio della Scala o dello Staatsoper. Lo stesso discorso vale per i canali tematici. Il concetto per il quale il canale tematico paga poco è che finora il canale tematico ha un numero di utenti limitato. È un po’ quello che accade per la pubblicità, sapete tutti come viene pagata: uno spazio pubblicitario in prima serata, prima del telegiornale, costa mille, mentre uno spazio pubblicitario alle mezzanotte costa cinquanta, perché è proporzionale al numero degli spettatori, di coloro che sono in grado di recepire quel messaggio. Purtroppo, anche in questo caso, è un «bieco» interesse economico che muove queste pedine. RAI-SAT aveva poche decine di migliaia di utenti, conteggiati solo in base al numero dei decoder acquistati, con un calcolo molto approssimativo, e questo serviva anche come oggetto di persuasione nei riguardi dei venditori del mercato per dire, ci rivolgiamo a una massa non ancora considerevole, dunque non possiamo spendere più di tanto. Vuole aggiungere qualcosa, signor Patay? FRANZ PATAY I think that everyone here will agree that we hope for a future in which there will be more opera on television, and more opera being produced, because there are still many works still waiting to go on the air. Thank you. 26 [Credo che siamo tutti concordi nell’esprimere la speranza che in futuro vengano trasmesse più opere in televisione e che ne venga prodotto un maggior numero, perché ci sono ancora molti lavori che non sono mai stati teletrasmessi. Grazie]. ILIO CATANI Ringrazio il signor Patay per la sua interessante ed esauriente esposizione. La parola a Gianni Di Capua per un breve intervento. GIANNI DI CAPUA Franz Patay poneva l’interessante questione se ci sia o meno conflittualità fra la rete tematica Classica e RAI-SAT Show. Non c’è alcuna conflittualità, sono due entità diverse, anche se ora RAI-SAT Show produce una gamma di programmi molto differenziata, che riguarda lo spettacolo in generale: opera lirica, teatro, jazz, danza, balletto, ecc. Classica, come dice lo stesso logo, intende produrre solamente musica classica, ed è interessante perché già questa rete tematica, che viene offerta dal buquet Tele+, però si devono pagare 10.000 lire in più. RAI-SAT viene inclusa nel buquet di Tele+, nel senso che bisogna pagare 27.000 lire al mese per vederne i programmi, mentre pervedere Classica bisogna pagare 27.000, e in più 10.000 lire, con un’ulteriore selezione del pubblico. La cosa interessante è che questa rete tematica sta configurando una crisi dell’Archivio che tu avevi prima espresso. Quando dicevi che a questo punto le reti tematiche, quando hanno dato fondo ai loro archivi cosa faranno? La rete tematica Classica è appunto «arrivata alla frutta», e questo è molto interessante. I segnali sono evidenti, e sono grosso modo due. Innanzitutto la rete tematica Classica viene offerta in «offerta lancio», non sono più richieste le 10.000 lire ma vien regalata in visione, c’è insomma una forma di promozione in atto; in secondo luogo, stranamente iniziano ad apparire programmi di rap: cosa abbia a che fare il rap con la classica proprio non saprei dire! Esiste allora una evidente crisi di progettualità all’interno della rete, quindi si parla di uomini, di direzione artistica, ecc. RAI-SAT Show, per arginare questa crisi dell’archivio che si avvicina inesorabilmente, ha individuato nel «one-man-camera», cioè il film-maker a tutto tondo, che col digitale può fare anche il montaggio a casa. Ma questo vale per i documentari di classica, che hanno una grossa domanda e godono di ampia distribuzione. La direzione verso cui RAI-SAT sta andando è proprio questa. Naturalmente accanto ci sono le grandi produzioni che vengono realizzate in coproduzione: Guerra e pace è una coproduzione di RAI-SAT, al 20%, RAI 3 e il Festival di Spoleto. Proprio il fatto che i programmi vengano pagati a ore spiega l’appetibilità di Guerra e pace da questo punto di vista, perché dura quattro ore. Pensate che i mezzi e il tempo impiegati per la produzione di quest’opera sono equivalenti a quelli impiegati per un’opera di un’oraun’ora e mezza. Credo che la crisi degli archivi dal punto di vista sia della ripresa televisiva di un’opera lirica sia dal punto di vista del documentario può essere contenuta, arginata dal perfezionamento del suo racconto: noi professionisti della ripresa dobbiamo diventare ancor più bravi a raccontare televisivamente l’opera, sicuramente non possiamo più improvvisare, non possiamo più usare una cultura pressapochista rispetto al linguaggio televisivo, che va assolutamente assunto attraverso tutto il suo vocabolario, vanno create delle professionalità specifiche che siano in grado di interpretare e tradurre l’opera lirica attraverso la televisione. Perché dovrei vedere un’opera lirica in televisione. Me lo dovete spiegare, devo capire! Credo che questo sia un punto molto importante. Sicuramente la crisi degli archivi produrrà un livellamento verso il 27 basso – il tramonto dell’Occidente è iniziato da molto – ma non perdiamo d’occhio la necessità della creazione, dell’educazione e della formazione delle professionalità. FRANZ PATAY Just want to add something on that. Yesterday, in the booklet that was distributed in our briefcases, I read a statement I made last year, which was that people don’t watch opera on TV because it’s boring, and the reason for this is because story-telling and film-maker skills are not a priority in TV opera productions; the accent is on «transmission of the art-work». This is the reason why in the festival that will be held in Vienna we want film-makers to be part of the jury, to evaluate opera productions and judge if the story was presented in the best of manners. This is the direction in which we think productions should go in the future. [Vorrei soltanto aggiungere un commento. Ieri, nel libretto che è stato distribuito all’interno delle nostre cartelle, ho letto un’affermazione che feci l’anno scorso, cioè che il pubblico non guarda l’opera in televisione perché è noiosa. Questo è dovuto al fatto che né lo svolgimento della trama e né l’uso di appropriate tecniche cinematografiche rientrano fra le priorità nelle produzioni operistiche per la televisione, mentre si pone l’accento sulla «diffusione dell’opera d’arte». È per questo che al nostro prossimo festival che si terrà a Vienna ci saranno registi cinematografici in giuria, per valutare le produzioni operistiche sotto il profilo narrativo e stabilire se la storia sia stata presentata nella maniera più avvincente possibile. Credo che questa sia la direzione in cui dovrebbero orientarsi le produzioni in futuro]. ILIO CATANI Ancora grazie a Franz Patay ma vorrei ringraziare anche Di Capua per il suo intervento che ci ha lentamente portato al cuore del problema. Sono le 11.00 circa ed è giugnto il momento della pausa caffè. Ci rivedremo tra una decina di minuti per l’intervento di Grancarlo Landini, che saluto. (pausa caffè) Riprendiamo i lavori con la relazione di Landini, Il barbiere di Siviglia di Rossini in video. Seguiranno l’intervento di Carreira e una breve discussione che precederà la pausa pranzo. 28 GIANCARLO LANDINI Il barbiere di Siviglia di Rossini in video Mi scuso con tutti per il ritardo ma questa mattina sono arrivato che il pulmino era già pieno e non ho voluto affliggere i viaggiatori con la mia mole, che avrebbe senz’altro ingolfato ulteriormente la situazione. In primo luogo, vorrei spiegare il senso, il motivo e l’obiettivo che mi propongo con questa relazione all’interno di un convegno di questo genere, tra l’altro non il primo organizzato dall’I.R.TE.M. Il barbiere di Siviglia è stato scelto con uno scopo meramente esemplificativo: si sceglie un titolo non soltanto di repertorio ma popolare nel senso più ampio del termine e si intende affrontare brevemente, nello spazio dei quaranta minuti concessi e con l’ausilio di alcuni video (di cui saranno proiettati alcuni spezzoni) alcuni aspetti del problema in discussione. Il primo aspetto da valutare è come sia cambiata la testimonianza in video di un’opera (in questo caso di un’opera popolare di Rossini) dalla sua prima edizione filmografica di cui ho notizia (un’edizione del 1946) fino a quelle più recenti: l’ultimo video che vi mostrerò risale al 1992 e riguarda la ripresa RAI di un allestimento filmato da Carlo Verdone. Altro elemento che si tenta di proporre alla vostra attenzione è cosa questi filmati conservano, raccontano e permettono di archiviare della fruizione di un capolavoro e di un’opera popolare come Il barbiere di Siviglia. Premetto che le mie competenze sono quelle di un critico musicale che si occupa di dischi e, in particolare, di vocalità e non sono certo quelle di un regista o di un esperto di riprese. Nel proporre i video, pertanto, vorrei fornire materiale di discussione anche ai competenti di questo aspetto presenti in sala, i quali potranno senza alcun dubbio aiutarci a leggere queste testimonianze. Dopo questi preliminari, vorrei fare una prima osservazione relativa alle cronologie delle edizioni. La filmografia, per ovvi motivi, parte dal secondo Dopoguerra mentre la discografia parte dal 1918 perché Il barbiere di Siviglia è una delle prime opere a essere testimoniata in disco, sebbene limitatamente alle edizioni che circolavano all’epoca, senza alcuna pretesa filologica. Tuttavia, anche quando la filmografia comincia a interessarsi al Barbiere di Siviglia non riesce a tenere il passo della discografia. Se assumiamo come termini di confronto l’edizione in film del 1946 già citata e l’edizione discografica della Cetra del 1950, da un lato, e dall’altro l’edizione discografica Deutsche Grammophon con Abbado e i Complessi scaligeri e l’edizione in film di Ponnelle (peraltro un’edizione importante nella storia interpretativa del Barbiere di Siviglia) noteremo che sostanzialmente fra il primo video e quello di Ponnelle-Abbado ci sono pochissimi titoli, due o tre tra quelli da me censiti e conosciuti, mentre abbiamo ben 29 edizioni discografiche. Ci troviamo in un periodo «paleo» per quanto riguarda la filmografia, non ancora interessata a conservare documentazioni particolari, mentre la discografia ci inonda di tutta una serie di edizioni che, tra l’altro, sono quasi sempre dettate dalla presenza di interpreti famosi; sul piano dei materiali, dell’acquisizione di una maggior filologia, di una maggiore proprietà esecutiva, ecc. in questi anni e in queste 29 edizioni tutto è molto discutibile, ma c’è comunque la possibilità di ascoltare alcuni grandi interpreti in parecchie edizioni, molte captate dal vivo, altre in studio. Bisogna anche notare che le edizioni filmografiche comprese tra il 1946 e il 1972 (il film di cui vedremo un frammento e l’edizione di Abbado) inducono a trarre la conclusione fondata e condivisibile che nel ventennio 1950-1970 non 29 v’era una curiosità particolare da parte dell’industria discografica a produrre filmati di edizioni teatrali di queste opere ma piuttosto la tendenza delle televisioni a filmare direttamente alcuni allestimenti oppure, negli anni Quaranta e Cinquanta, a produrre film, tentando la strada – e qui ci si ricollega a quanto diceva Gianni Di Capua – di una trasposizione dell’opera in un linguaggio diverso. Tale tentativo potrebbe essere giudicato maldestro e opinabile ma risulta per certi versi interessante perché evidenzia come forse la strada da percorrere sia quella di inventare (il «come» dovranno deciderlo gli esperti) un linguaggio televisivo alternativo, capace di recepire l’opera e di riprodurla. Le prime due edizioni filmiche del Barbiere di Siviglia, una produzione della Titanus del 1946 e una produzione del 1955 conservata nell’archivio RAI e realizzata per la parte operistica dall’Opera di Roma e per la parte sinfonica dall’Orchestra RAI di Roma diretta dal maestro Franco Ferrara, scelgono due strade diverse. Nella prima a recitare e a cantare in prima persona sono gli stessi cantanti mentre per quanto riguarda la seconda i cantanti sono sostituiti da attori, peraltro per l’epoca di chiara fama: nella parte del Conte d’Almaviva, accanto all’esecuzione di Nicola Monti, tenore che all’epoca andava per la maggiore, troviamo l’Almaviva di Armando Francioli, accanto all’esecuzione di Giulietta Simionato troviamo la Rosina di Irene Gemma e, cosa più interessante, accanto all’esecuzione di Vito De Taranto troviamo il Bartolo di Cesco Baseggio. L’interesse viene da questo motivo: per chi abbia visto il film, la scelta di Cesco Baseggio nella parte di Bartolo riconduce questa esecuzione teatrale all’interno di un cliché da commedia goldoniana settecentesca, impostata secondo una regia tradizionale che coopta all’interno di queste scelte interpretative anche Il barbiere di Siviglia, omologandolo. La regia del film è di Camillo Mastrocinque mentre la regia del film Titanus è di Mario Costa. Di questo vedremo adesso un frammento che rappresenta l’entrata di Figaro, il «Largo al factotum», eseguita da Tito Gobbi. Spenderemo poi qualche parola su questa lettura. (esempio audiovisivo) Dalla ripresa si possono ricavare alcuni elementi di riflessione. In questa scena il regista si colloca sostanzialmente all’interno della tradizione operistica; gli interpreti si muovono con una maggior disinvoltura consentita dal fatto che non stanno compiendo lo sforzo di cantare. In sostanza, ci troviamo all’interno di un teatro di posa con una impostazione di tipo tradizionale, e tuttavia questa scena propone una novità interessante, che consiste negli interventi e nei primi piani sul Conte d’Almaviva che occhieggia Figaro, ne osserva il carattere e, nel frattempo, progetta già di servirsene in qualche modo. Detto questo, la ripresa televisiva permette in questo caso al protagonista, Figaro, una grande esuberanza ma, tutto sommato, non si tenta alcun tipo di lettura diversa e neanche di uscire da alcun cliché: lo stesso costume di Figaro è nella forma più tradizionale, c’è questo girare simpaticamente per la piazzettina e mostrare l’esuberanza del personaggio, peraltro mediante una recitazione molto semplice. L’altra soluzione che vorrei mostrarvi, con un salto cronologico piuttosto ardito, ci porta al 1986. Questo salto è dovuto al fatto che si tratta della seconda edizione filmica che propongo in questa sede mentre le altre sono solo riprese di spettacoli teatrali che, in quanto tali, comportano un altro tipo di problematica. Si tratta tra l’altro di una ripresa filmica che ha visto la cooperazione della RAI, della Tristar Film TV, della Bibo TV e della TVP 2 e che è stata realizzata in un paese dell’Est, con l’Orchestra Sinfonica e il Coro di Varsavia diretti da Gabriele Ferro, la regia di Frank Eriquel con l’aiuto e i costumi di Salvatore Russo; questo per quanto riguarda la parte filmica. Vi cantano William Matteuzzi, Francesca Franci, Leo Nucci, Alfredo Mariotti. Nel brano che vedremo 30 e poi commenteremo brevemente vediamo Matteuzzi e Nucci nel duetto «All’idea di quel metallo» dal primo atto. (esempio audiovisivo) In questo film le scelte sono a mio avviso giudicate sotto il profilo puramente estetico, nel senso che la situazione è nettamente peggiorata rispetto al 1946: se questa è la strada scelta per far circolare un capolavoro come quello rossiniano in film si può capire perché il pubblico non si affezioni all’opera filmata! Ci sono errori clamorosi, primo fra tutti quello di tentare un realismo assolutamente improbabile contro quella che è la natura stessa del linguaggio e della drammaturgia operistica. Da qui la scelta, per esempio, di ambientare l’inizio del duetto in esterno, facendo passeggiare per i giardini di Siviglia i due protagonisti. Il problema più grande di fronte al quale si trova un regista d’opera, un regista televisivo o un regista cinematografico credo sia quello di movimentare la scena, ma il fatto è che i tempi dell’opera non sono veloci e sono fatalmente legati alla sua struttura a numeri che ha delle costrizioni formali ben precise – uso il termine costrizioni non in senso negativo –, per cui un duetto si sviluppa in un tempo di attacco, in un tempo di mezzo, in una stretta che deve essere necessariamente ripetuta. In tal senso, questo duetto facilita il lavoro di un regista, poiché quello che è il tempo di mezzo in realtà è estremamente movimentato, con il numero quindici a mano manca, non è il solito tempo lento o adagio, con l’aumento della fiorettatura dei cantanti. C’è quindi un notevole movimento dovuto al fatto che siamo in un’opera buffa, eppure lo horror vacui, il terrore del vuoto televisivo, qui si mostra appieno e viene riempito con una serie di «trovate», come quella di passare improvvisamente e senza una spiegazione logica da un ambiente all’altro, dall’esterno all’interno. All’interno la strada del realismo diventa assai più impraticabile. Se all’esterno c’è almeno il contrasto tra i due personaggi che circolano cantando, con un fondale vero, l’interno è costituito da una improbabile taverna gitana, sivigliana, dove si vedono avventori che bevono e dove, a un certo punto, compare anche una ballerina di flamenco che, in qualche modo, cerca di «buttarla» sulla Spagna. Sempre per quanto riguarda il campo visivo, devo dire che lo horror vacui prende moltissimi registi che lavorano al Barbiere di Siviglia. A mo’ di esempio, cito l’edizione scaligera di quest’anno, con la regia di Alfredo Arias, il quale, per movimentare questo duetto, su un palcoscenico vastissimo utilizzato in tutta la sua grandezza, spropositata per questa commedia, fa una serie di scelte che per la loro demenzialità riescono anche a far ridere: «All’idea di quel metallo / … / un vulcano la mia mente», ed ecco apparire un piccolo vulcano semovente che spara lapilli! O, addirittura, quando Figaro parla dei pettini e delle forbici scende dall’alto del palcoscenico un gigantesco pettine e delle gigantesche forbici. Un altro elemento che contrasta con l’idea filmica è la recitazione dei due personaggi, assolutamente improponibile sebbene potrebbe anche tenere su un palcoscenico d’opera. Nucci opta per il cliché di un Figaro «simpaticone», con uno «smile» a 360° per tutto il tempo della ripresa. C’è anche un altro elemento che agisce e che già era stato suggerito da Confalonieri, quando, nel 19491950, recensiva le recite dell’As.Li.Co., che si svolgevano nel piccolo Teatro Nuovo a Milano dove il palcoscenico è talmente vicino alla platea che gli spettatori finiscono per essere seduti in mezzo a Rigoletto e a Gilda. Secondo Confalonieri con queste distanze ravvicinate il meccanismo non funziona più e sarebbe necessario cominciare a ripensare qualcosa. In una ripresa filmica di questo genere, non solo siamo vicini ma siamo «dentro», nel senso che abbiamo Figaro e Almaviva a portata di mano; il che risulta ulteriormente imbarazzante per lo spettatore che assiste, perché tutte le magagne di una recitazione da attore di spettacolo lirico, lo stesso trucco, gli stessi costumi (qui non lussuosi) 31 finiscono per produrre un’impressione davvero deleteria e a non sortire il risultato che probabilmente il film si propone. Se passiamo invece alle riprese di allestimenti teatrali, il video Deutsche Grammophon di Jean-Pierre Ponnelle deve essere considerato a suo modo storico, prima di tutto perché traspone in versione filmica l’edizione critica del Barbiere di Siviglia curata da Alberto Zedda e già conosciuta attraverso le rappresentazioni salisburghesi e poi scaligere. In secondo luogo, è un tentativo autorevole di portare alla conoscenza di un pubblico più vasto le regie di JeanPierre Ponnelle, che col trittico rossiniano, Il barbiere di Siviglia, Cenerentola e L’italiana in Algeri, ha contribuito in maniera definitiva a riportare il treno delle regie rossiniane su una rotta precisa attraverso la stilizzazione. Ma chi ha avuto modo di vedere queste regie prima in teatro e poi in film ha purtroppo constatato come questo passaggio (il caso di questo video non è quello di una ripresa live) abbia provocato un fenomeno di «imbalsamazione» delle regie stesse: la stilizzata ironia, il garbo, il modo graffiante di osservare Rossini, il rispetto verso il teatro rossiniano nel rivisitare il concetto di «buffo» attraverso una lettura più rispondente all’esigenza del gusto moderno; ecco, tutto questo nella trasposizione filmica finisce per essere più imbalsamato, meno vivo e meno interessante di quanto potesse risultare in teatro. Di questo famosissimo video vi offro il finale del primo atto, «Mi par d’esser con la testa», dove chiaramente il montaggio registico è determinante. (esempio audiovisivo) Questa sequenza pone con estrema chiarezza una serie di questioni, a mio avviso non risolte. Ponnelle deve trasporre in film la stretta di un concertato. Il primo problema che gli si pone è che la visione dell’opera in teatro è frontale, il che in televisione risulterebbe assolutamente soporifero. Da qui l’idea di spostare la macchina in modo da inquadrare i personaggi principali, minori e il coro da diverse angolazioni. Questa scelta è abbastanza frequente presso i registi: nella Tosca del Covent Garden con Cornell MacNeil ci sono magnifici effetti di riprese dall’alto che, ad esempio nella scena del Te Deum, danno un’idea di grandiosità e di movimento. Nel nostro caso, tuttavia, poiché la telecamera viene collocata proprio al centro della scena e fa primi e primissimi piani dei personaggi, a Ponnelle si pone un ulteriore problema: come costringere i cantanti a eseguire un brano che esige una posizione frontale e un movimento limitato di recitazione, perché tutti devono mantenere la nota, la sequenza della musica, ecc.? Il risultato è che in taluni passaggi il testo musicale viene ridotto a mera colonna sonora: noi ascoltiamo le voci che cantano ma i personaggi sono impegnati a fare tutt’altro, il che produce un gravissimo scollamento tra il ritmo musicale e la scelta del regista, il quale, per ottenere un effetto, privilegia la ripresa filmica e fa diventare la musica, appunto, colonna sonora; ma lo scollamento più grave è soprattutto di carattere drammaturgico, perché uno degli elementi più interessanti di questa stretta è il modo in cui Gioachino Rossini riesce a trasformare la perfetta costruzione musicale in un evento non solamente teatrale ma drammatico, che poi si universalizza nel concetto della «follia» rossiniana. Questo concetto, che passa attraverso una struttura musicale, qui diventa una baraonda, una rissa da film, peraltro organizzata con poca vivacità, con trovate non sempre perfettamente riuscite, con inserimenti dove, oltretutto, il carattere dei personaggi, che in questa stretta risulta perfettamente, nonché il rapporto tra i personaggi e la loro vocalità, che in Rossini è sempre costante, qui si dilatano in una scena che, tutto sommato, risulta meno movimentata di quel che si possa credere. Adesso prenderemo in esame un altro esempio di regia, che può essere considerata fra le più interessanti e curiose degli anni Novanta, quella di Dario 32 Fo realizzata in Olanda. Ne vediamo assieme un frammento che riguarda un altro momento «scatenato» della commedia, in cui la regia interviene in modo determinante. Siamo nel secondo atto, al concertato che segue l’entrata di Don Basilio. (esempio audiovisivo) Non entriamo nel merito della valutazione della regia di Fo ma in quello del modo in cui essa viene ripresa. Il regista televisivo opta per una lettura che chiarisca i vari interventi dei personaggi, per cui tendenzialmente, almeno nella prima parte, la telecamera si sposta permettendo allo spettatore di seguirli. Quando però interviene Don Basilio, il regista sceglie di puntare tutto su questo personaggio, il che produce un altro scollamento tra ripresa e sequenza musicale. Alcuni passaggi del Conte d’Almaviva sono, ad esempio, molto importanti dal punto di vista musicale ma qui non vengono ripresi. Noi sentiamo una voce che fa da ritornello ma naturalmente perdiamo un elemento fondamentale per la definizione del personaggio, perché in questo momento il canto di coloratura, il canto fiorito ne esprime lo status e ne sottolinea l’importanza dell’intervento. La scelta di seguire Don Basilio continua per il resto della scena, per cui soltanto all’arrivo della bara ci viene chiarito che questa scelta tipica del teatro di regia vuole dare l’effetto dell’aspetto cadaverico che gli altri personaggi vogliono suggerire a Basilio dicendogli che è giallo come un morto. Anche l’entrata delle donne vestite a lutto, degli sbandieratori con i drappi luttuosi, e anche la prima entrata della bara non sono seguiti con sufficiente chiarezza dal regista, il quale punta sempre sulla faccia di Don Basilio. Nonostante tutto, rispetto a tante altre, questa lettura si pone almeno il problema di far entrare all’interno del mezzo filmico la drammaturgia di Rossini e di cercare di rendere il passo teatrale della regia di Dario Fo col passo della regia televisiva. L’ultimo esempio è un rapidissimo frammento. Lo commenteremo dopo averlo visto. (esempio audiovisivo) Anche in questo caso, non giudichiamo la regia di Verdone che fu molto discussa e criticata. Le attese del pubblico tradizionale e della stampa specializzata andarono ampiamente deluse. È una regia che funziona sia a livello teatrale sia a livello televisivo, almeno fino a quando, nella fascia del recitativo secco, c’è da narrare un elemento di commedia. Ma quando si trova di fronte allo scoglio di un momento musicale ben preciso sia il regista teatrale sia quello televisivo non riescono più a «raccontare». Questo momento è il «Cessa di più resistere». In questa edizione è stato riaperto il taglio del rondò del Conte d’Almaviva, per cui Verdone si trova a dover gestire un blocco che cala come un macigno sul finale, che è fondamentale nella drammaturgia operistica ma che diventa un elemento spiazzante in una ripresa e in una regia teatrale che denunciavano un forte horror vacui e, per questo motivo, erano impegnate a muovere la scena con tante piccole trovate. Mi rendo conto di aver superato di molto il tempo a mia disposizione, dunque arrivo alla morale della favola. Non ho conclusioni da trarre e lascio aperto il discorso. Ho però una mia convinzione: tutti i filmati che vi ho mostrato nonché gli altri che ho visionato mi spingono a dire innanzitutto che la filmografia ha il merito di testimoniare le tappe fondamentali degli allestimenti del Barbiere nel corso di questi cinquant’anni e, sotto il profilo dell’archiviazione, è senz’altro benemerita. Sotto l’altro aspetto, alla possibilità di mettere l’opera in video, stando al Barbiere di Siviglia e anche ad altre esperienze di spettatore, devo dire che non credo: non si può, non ci sta, e questo per un motivo molto semplice. La drammaturgia del teatro d’opera viaggia su binari che non stanno 33 all’interno del ritmo del mezzo televisivo e del mezzo filmico e scegliere soluzioni alternative che sono ovviamente necessarie penalizza la fruizione da parte del pubblico di quella drammaturgia; drammaturgia che, peraltro, la Bel Canto Renaissance ha scoperto, per cui oggi possiamo ascoltare Il barbiere di Siviglia nella versione filologica e con la riacquisizione di questi pezzi, come il «Cessa di più resistere», che normalmente vengono tagliati. Non possiamo più accettare una esecuzione che faccia piazza pulita di questi elementi fondamentali, per rendere un’opera una agevole commedia alla quale, peraltro, la televisione e il film sembra fatichino a star dietro. Concludo con una provocazione. Se dovessi mettere un’opera in film sceglierei uno spezzone del Romeo e Giulietta recitato da Di Caprio, con un movimento e un’azione dinamicissimi, veramente filmici; e, quando Di Caprio-Romeo si trova di fronte a Giulietta, farei ascoltare come colonna sonora, cercando di sincronizzarla, il «Deh! tu, bell’anima» di Bellini. Probabilmente i due mezzi, combinati in maniera assolutamente improponibile, potrebbero ricordare al mondo che esistono i Capuleti e i Montecchi e spingere qualcuno ad andare a vederli in teatro, senza avvilirli attraverso un mezzo che è nato per altri motivi. ILIO CATANI Dopo aver ringraziato Landini, aprirei molto volentieri una discussione ma non voglio sacrificare il nostro amico Carreira, al quale cedo subito la parola per la sua relazione. Mettiamo in memoria tutte le nostre osservazioni: ne faremo oggetto di uno spazio nella seconda parte della giornata, perché indubbiamente le varie provocazioni di Landini sono molto interessanti per tutti noi. Ne riparleremo. 34 XOÁN M. CARREIRA La produzione televisiva di zarzuela nel periodo tardo franchista La mia esposizione prevede la proiezione di molti video. La zarzuela è il corrispettivo spagnolo dell’operetta. In quanto genere nazionale tradizionale, «zarzuela» sostituisce il termine «operetta» che in Spagna non è usato, sebbene si tratti di due generi diversi. La zarzuela comprende parola, musica, canto e danza. La produzione filmica di zarzuela è molto antica perché la diffusione popolare della filmografia spagnola, a partire dal cinema muto, attinge al repertorio della zarzuela come rappresentazione teatrale del libretto accompagnato dalla musica. All’epoca del cinema muto, la proiezione sullo schermo della zarzuela è accompagnata da un’orchestra che nella fossa esegue l’intera partitura. Negli anni Trenta vi sono rappresentazioni drammaturgiche del libretto. Questa scuola permane negli anni Quaranta, come testimoniano le molte produzioni ispirate soprattutto alla storia nazionale. Esponente fondamentale della filmografia spagnola fin dagli anni Trenta è il regista Florián Rey, specialista di cinema popolare, il cui linguaggio è molto influenzato dalla cinematografia sovietica. Vediamo una scena tratta dalla Dolores, un’opera del 1940 di Florián Rey, che ne fa un film naturalista, con una interessante agilità nell’uso della camera. La scena mostra l’innamoramento dei due protagonisti. (esempio audiovisivo) Florián Rey è un bravissimo regista di cinema popolare che, tuttavia, non ha avuto alcuna fortuna durante il Franchismo: tutte le innovazioni da lui introdotte in questo campo non hanno incontrato alcun favore ed egli muore nell’isolamento più assoluto. La zarzuela, come genere musicale spagnolo, appartiene ai primi anni Quaranta ma nel corso della Seconda Guerra Mondiale cessa di essere prodotta e viene sostituita da un nuovo genere, una sorta di musical zigano e andaluso. È solo negli anni Sessanta, quando la televisione spagnola inaugura la prima produzione di stato, che la zarzuela viene recuperata con un progetto che comprende la produzione di tredici lavori, dei quali solo sette verranno realizzate. Per girarle viene scelto Juan de Orduña, un regista specializzato nel melodramma storico. Il linguaggio del cinema storico di Orduña è fondamentale per la lettura della sua produzione zarzuelistica. Vediamo la scena di un suo film sulla scoperta dell’America da parte di Colombo, scena che mostra l’arrivo di Isabella di Castiglia all’accampamento di Ferdinando d’Aragona, suo marito. (esempio audiovisivo) Juan de Orduña realizza alcuni film musicali, il più importante dei quali è El último cuplé girato nel 1953. Molto interessante, come film, è Un caballero de Barcelona uno spettacolo ipotetico, perché questo tipo di rappresentazione è impensabile durante il Franchismo, poiché imita lo spettacolo musicale americano dell’epoca. La protagonista è la grande Sara Montiel in una delle sue prime pellicole. (esempio audiovisivo) Nel 1954, le conclusioni di un congresso molto importante sul cinema spagnolo tenutosi a Salamanca sono spaventose. Nella sua relazione conclusiva, 35 Juan Antonio Bardem scrive: «Il cinema spagnolo attuale è politicamente inefficace, socialmente falso, intellettualmente infimo, esteticamente nullo, industrialmente rachitico». Queste conclusioni sono molto importanti, perché negli anni Sessanta il Franchismo promuove una politica di apertura al turismo, il che dà una sensazione di apparente libertà creativa e intellettuale. Alcuni amministratori della cultura sono uomini onesti che credono a questa apertura. Il direttore della filmografia dell’epoca ha partecipato al congresso di Salamanca e crede nella possibilità di far emergere un nuovo cinema spagnolo. D’altra parte, il nuovo direttore promuove un tipo cinematografia basata sul Neorealismo italiano e ripone speranze sul nuovo cinema spagnolo ma la grave crisi economica del 1967 fa venir meno i finanziamenti a questo settore. Rimasto senza lavoro, il direttore fa molti film di scarsa importanza e si occupa di pubblicità. Juan de Orduña ha invece l’opportunità di girare per la televisione questa serie di zarzuele tra il 1967 e il 1973. Negli anni Sessanta il musical americano ha un successo enorme in tutta la Spagna. I musical sono integralmente tradotti e le parti cantate vengono riscritte in spagnolo, con testi non sempre fedeli all’originale. Hallo, Dolly! e My Fair Lady sono i titoli di maggior successo. Juan de Orduña subisce molto l’influenza dell’immaginario minnelliano, soprattutto della concezione del colore in Minnelli ma, nonostante l’evidente citazione del musical americano, egli agisce secondo un chiaro programma politico teso ad esaltare l’immaginario del popolo spagnolo, felice e sano. La sua Revoltosa è la rappresentazione del popolo spagnolo secondo il Franchismo. Ne vedremo uno spezzone che riguarda l’Ouverture (peraltro un magnifico spartito): una visione ottimista della Spagna e di Madrid, una Madrid inventata, popolare, lirica e senza problemi. La promozione di questa serie è sempre accompagnata da un discorso sulla superiorità della zarzuela rispetto al musical americano, perché parla della vita e della realtà spagnole, non di storie inventate. (esempio audiovisivo) Una curiosità: La revoltosa è l’unica zarzuela di ambiente popolare mentre tutte le altre della serie sono di ambiente rurale o borghese. Su questo tema la personalità di Juan de Orduña agisce in misura fondamentale perché egli non è un regista di commedia. Vediamo adesso da El huésped del sevillano, opera ambientata al tempo di Filippo II, l’aria di uno spagnolo d’onore. (esempio audiovisivo) L’uomo è onorabile ed eroico e sua moglie è pura e vergine, una pastorella. Vediamo un’aria da Maruxa di Amadeo Vives, secondo una lettura che a quel tempo ha suscitato un certo scalpore. Siamo all’epoca dell’emigrazione di massa dei contadini spagnoli verso la Svizzera, la Germania e la Francia. Questo è il mondo rurale secondo la televisione spagnola. (esempio audiovisivo) È il mondo della Spagna nell’epoca aurea, quando tutti gli uomini spagnoli cantavano la spada; un mondo rurale, ideale, pastorale. È anche il mondo della Napoli spagnola. Orduña interpreta un duetto vocale nella Canción del olvido, una zarzuela storica, con una storia d’amore ambientata appunto nella Napoli della dominazione spagnola. (esempio audiovisivo) Vediamo un esempio del film d’arte di Juan de Orduña attraverso due coreografie. La prima riguarda Bohemios, una zarzuela tratta molto liberamente La bohème. Nell’Ouverture il regista, mediante un motivo, identifica il protagonista, 36 un poeta miserabile che aspira alla creazione di un’opera d’arte. Il riferimento al musical americano e all’alta società di Hallo, Dolly! e My Fair Lady è manifesto. Penso sia un buon esempio dell’influenza diretta della «propaganda del nemico», un nemico che è presente nella produzione ed è presente come citazione. Ricordate il ballo corale di Mary Poppins nella scena in piazza? Vediamo il ballo di Bohemios e ascoltiamo il motivo caratterizzante il poeta bohèmien. (esempio audiovisivo) Il balletto classico nel periodo franchista è sinonimo di alta cultura ma esso dipendeva dal Ministero del Lavoro e non dal Ministero della Cultura: è a tutti gli effetti una divisione del lavoro, come la corrida e il circo. Le ballerine erano funzionarie della Scuola di balletto del Ministero del Lavoro. Bohemios è una produzione del 1968 ed è la prima di Juan de Orduña. L’idea originale era quella di realizzare una produzione di alta qualità estetica ma la propaganda vuole zarzuele di ambiente rurale. In ogni caso, la grande passione di Juan de Orduña è questo tipo di spettacolo. A una concezione sperimentale è ispirata una zarzuela molto interessante di Gregorio Martínez Sierra, Las Golondrinas, libera interpretazione di Pagliacci. La scena che vedremo riguarda la pantomima prevista nell’originale, che fece riscuotere un grande successo al gruppo di attori. Il libretto esige uno spettacolo di qualità. Per l’occasione Orduña contatta il balletto del Teatro del Liceu e il suo coreografo Juan Magriñá. La pretesa di Magriñá è quella di fare uno spettacolo à la page con il Balletto di Marsiglia, ma la visione del Balletto di Marsiglia si ispira al famoso film Un americano a Parigi. Il risultato è una sovrapposizione di visioni cinematografiche: per Magriñá è la coreografia di Un americano a Parigi, per Orduña è il colore di Minnelli. Il risultato è quel che segue. (esempio audiovisivo) Questo film ha avuto grande successo ed è tuttora presente in video sul mercato. Il problema è che esso è l’unica esperienza fatta dalla televisione spagnola nel campo della produzione di teatro lirico. La rappresentazione in video girata durante uno spettacolo del Teatro Real non ha una regia propriamente televisiva ma è una semplice captazione dell’allestimento teatrale. La televisione spagnola, infatti, non ha esperienza nel campo della produzione di spettacoli e questo ha influenzato fortemente il mercato spagnolo dell’opera e dell’operetta. La condizione della televisione spagnola è quella della storia di un ideale produttivo che non ha trovato continuità. Questa è la storia di un’esperienza che voleva essere Roland Petit e Vincent Minnelli ma che è morta sul nascere. Grazie ILIO CATANI Ringrazio Carreira per aver aperto a molti di noi una finestra su un panorama completamente sconosciuto. Sapevamo che esiste la zarzuela ma personalmente non ne avevo mai visto alcun frammento. Ho conosciuto la zarzuela soltanto attraverso i dischi: ricordo che nell’Archivio discografico della RAI sono custodite molte produzioni di questo genere, che è parte integrante della cultura spagnola. Siamo arrivati alle ore 13.00 e non v’è spazio per la discussione. Questo mi dà l’occasione di raccomandare ai colleghi e agli amici che interverranno di attenersi quanto più possibile ai tempi loro assegnati in modo da lasaciare più ampio spazio alla discussione, che mi è sembrata, anche dagli stimoli ricevuti questa mattina, assolutamente interessante. Buon pranzo a tutti. L’appuntamento è per questo pomeriggio. Raccomando anche la puntualità! (pausa pranzo) 37 martedì 30 novembre 1999 ore 14.30 Circolo RAI viale di Tor di Quinto 64 Sala conferenze presiede Ilio Catani RICHARD FAWKES The Influence of Film Opera on the Recording of Live Opera on Television Good afternoon. I am sorry I have to speak in English. In English there is a four-lettered word beginning with «f» which many people use far to often when they shouldn’t, and that is «film». People talk about film when they mean video. People talk about a film of a production from La Scala or from the Met when, actually, it has been electronically recorded. I make this distinction not to be pedantic, but because they are different mediums. And when I talk this afternoon about film I mean something that has sprocket holes, when I say television I mean something that is electronic or recorded on magnetic tape. I’d like to start by going back to November 1936. At Covent Garden, in that month that year, a new opera was given its premiere: Pickwick, based on The Pickwick Papers by Charles Dickens. It was composed by Albert Coates. Now it may well have gone the way of his eight other operas had it not been for something that happened the week before it opened: the entire cast went off to a building in North London and performed twenty five minutes of the opera live on television, and it became the very first opera ever to be seen on television anywhere. At that time the BBC, which had only been transmitting for eleven days, was on the air for one hour in the afternoon, one hour in the evening, and not all on Sunday because in England we don’t do anything on Sundays. Not a lot of people saw it, as only four hundred television sets had been sold, it was only shown in the London area, and a television set cost one hundred pounds, which in those days would have sufficed to buy a car. We also don’t know what it was like because there was no means of recording it: it came and it went. But the BBC, along with other broadcasters when they opened up, established that opera and classical music were going to be part of what was shown on television, whether the audience liked it or not. And there is considerable evidence that, in England, the audience didn’t like it: they didn’t want their time taken up with opera or classical music. However, in the first three years of the BBC, thirty operas – or parts of thirty operas, because there wasn’t the time to show a complete opera – were shown. It’s quite interesting that the operas that were shown initially were the sort of opera that wouldn’t be shown or even be considered today. There was Venus and Adonis by John Blow, Thomas and Sally by Thomas Arne, Lionel and Clarissa by Charles Dibdin, John Gay’s The Beggar’s Opera, which was considered popular and was therefore given 45 minutes, and the follow up Polly. It wasn’t until 1937 that Act III of Charles Gounod’s Faust was shown, and also Act III of La traviata. Just as a matter of interest, in July 1937 no operas were shown because the entire BBC closed down to repair the equipment. In September it reopened with Giovanni Battista Pergolesi’s La serva padrona, the first complete opera ever to be shown on television anywhere. In those early days, it was very difficult to put on not just an opera, but any form of drama. There were four cameras, linked to a control room: two cameras had wheels, two cameras were on tracks – they could be pushed forward and pulled back, and it had to be done obviously out of shot of the 41 others. There was very powerful lighting, which made it very, very hot for everybody in the studio. Those of you who work in television know that it wasn’t until 1950 that the first cameras were introduced with turret lenses, and also separate dollies, wheels cameras that move around. There is a famous story that not long after television had started, when all transmissions were live, two of the cameras went down and the engineers went out during the transmission to repair them, and they had to disconnect the cables from the cameras. They repaired whatever was wrong, they put the cables back on the cameras but they were to different monitors in the gallery: very small point but if you are going out live, frightening. So of course if there were repeats, in those early days the entire cast, the orchestra, everybody else had to be brought back and they would run through the opera again. The techniques that were used in those early days were very static but they obviously came from film, in that a master-shot would be done and then closeups, back to a master shot, back to close-ups. There wasn’t an awful lot of room, yet singers had to see the conductor. In the early days of the BBC, they were unable to link studios, so the orchestra was in the same studio as everyone else. The singers couldn’t see the conductor so there had to be an assistant who would watch the conductor, and try to both match the beat and anticipate it. If there was a chorus they had to stand absolutely still, not make a noise until they were due to come in. Something similar was still going on in the early Seventies when they recorded Owen Wingrave, a Benjamin Britten opera. Stewart Bedford, who was the assistant – Britten actually conducted the orchestra himself – had to sit up in the gantry to conduct the singers. So there was one scene where the singers were all rolling their eyes heavenward. They thought they looked dramatic but, actually it was so they could see the beat. After eighteen months, technicians at the BBC discovered how to put the orchestra into a separate studio and link it to the main studio, and the first opera to be done this way was put on the air at Christmas, and it was Hansel and Gretel (by Engelbert Humperdinck, n.d.t.). It was repeated the following day. What was interesting about that was that it was decided, even at that stage, that the audience would not accept singers who did not look right for the part. Therefore, Hansel and Gretel was done as a mime with the singers in the studio together with the orchestra, while the actual action was being done by a young boy and a young girl. Similar things were happening elsewhere: one of the earliest station to go on air after the BBC was in Berlin: between 1938 and 1940, they showed a film of Mozart’s The Impresario nine times. They also did a studio production of Bastien and Bastienne in which Elizabeth Schwarzkopf sang Bastienne. NBC, in 1940, in New York, did the first American opera which was a shortened version of Pagliacci. Then when World War II came, the BBC and most televisions went off the air. When it came back on 1945 it was actually not welcomed by the film industry. Audiences for the film industry everywhere had gone down, and television was considered to be the threat. Cinema didn’t like it, sports didn’t like it, entertainment generally didn’t like it. Theatres refused to allow live relays of plays or operas, athletic meetings were not allowed, football matches were not allowed, the derby, which is an horse race in England, was not allowed, all the studios refused to let television have any old film because they were the rival. Variety artists who worked on television were blackballed, and told they couldn’t work in the theatres. So the relationship between film and television was one of total mistrust. I intend to show that the two came together, and to do that we need to talk about what state the film industry was in at that stage. Again, I need to go back 42 very quickly to 1895, the official date that is given for the start of the cinema, because that is when the Lumière brothers gave their first public showing in Paris. In 1896, one year later, the first operatic arias were filmed, and what is remarkable about that is that they were filmed with sound on a wax cylinder. Unfortunately the sound has been lost; the film still exists, and we have no idea of what the opera was. In 1900, Victor Maurel, who had created the role of Falstaff and had been the first Jago, made a three-minute-long film singing arias from those two operas, with a wax cylinder. The reason this was done was because of the way the cinema had started. Cinema came not because people sat down and thought: «We want to show pictures». That was part of it, but it was developed by people who were basically sound technicians. Thomas Edison had invented the phonograph, which became the gramophone, and he wanted to put pictures to his sound. It wasn’t the other way round. He didn’t say: «Here are pictures, wouldn’t it be nice to have sound!». They had sound and they wanted pictures to go with it. So, all this early pioneers of cinema were trying to put sound onto the pictures. They had two massive problems. The first was one of amplification. There were no means, at the turn of the century, of putting sound into a large room. It just couldn’t be done. Edison had invented a little box that you could hear sounds with, and you had a thing rather like a stethoscope. Only one person at a time could listen to the sound that went with the film. So it wasn’t much good when cinema started to expand and there were two hundred people, if only one person could actually hear what was going on. The other major problem was one of synchronization. The pioneers were, as I said, inventors, therefore they were trying to merge wax cylinders with the film image. The very first cameras had electric motors. They were massive, they couldn’t be moved. So very quickly they came down to hand-cranked motors, so they could move the cameras. The cameraman would crank and the popular tune to hum was the Blue Danube, to get the right speed. They then relied on the projectionist singing the Blue Danube with the same speed to get the picture and the sound in synchronization. It very rarely happened. However, there was a fascination with opera, and another reason why opera was chosen in the early days for early films on far more occasions than people realise, was because there were – the gramophone had started 1903 – sound recordings available. So film-makers could match images to a sound which was already recorded. There was also a fascination with opera because it told good stories. Most operas were taken from plays or books, and both the composer and the librettist had done the work of the film-maker. They had filleted the story, they had cut it down to its bare bones. It could be shown so the audience would understand the narrative with the minimum of intertitles (little words in between). If you then played some opera, immediately people knew the music, they were put in the right mood. It all helped to build up those early experiments of opera on film. Before 1912, in Germany alone there were over 1500 sound films of operatic arias made, some of which still exist. However, because of the problem of amplification, these experiments were put to one side. Mainstream filming became what we call «silent» though, of course, films were anything but silent: they almost invariably had musical accompaniment, which originally served to cover the sound of the projector, but then, because film-makers realised music could alter mood, music was especially written or adapted to go with films. If you were in a big city you would have an orchestra, if you were in slightly smaller place you would have a quartet, if you were out in the fields, you would have a pianist. It’s interesting to note that two very famous singers 43 actually started their careers this way: when they were students, they both played piano for cinema. They were Richard Talbot and Rosa Ponsell. By the 1920’s film had moved from the fairground into the main street. There was a grammar of film making which film-makers were using very well: things like master-shot, close-up, rhythm of cutting, tracking (because there were no zoom-lenses in those days), panning, dissolving, film making as we understand it today. One of the most significant early films was made in 1915, and it was made by Cecil Blount De Mille: Carmen. I am going to show you a clip from this. What it isn’t, it isn’t the opera with the sound turned off. It is made as a film. The reason it was made was because Jessy Lasky and Sam Goldwyn had formed the company called «Famous Players» in order to buy Broadway plays to make films. They had no problems with buying the rights. What they did have an immense problem with was persuading the stars to appear because stars didn’t think that film was a very good medium. It was jerky, they thought it would ruin their careers. So they decided that the best way of showing how good film was, was to get the biggest star around, and the biggest star in the States at that time was Geraldine Farrar, the reigning queen of the Met. When Goldwyn first announced that he intended to sign up Farrar, someone said that it would be easier to get the Statue of Liberty to walk on water. But, in fact, she was intrigued by the idea of filming, and the idea of appearing in Carmen without having to sing, so she agreed to go to Hollywood. This film both made her name (she became one of the first stars of the silver screen), and it also made Cecil B. De Mille’s name as director. At that time, it was claimed that this production had absolutely nothing to do with Bizet’s opera; the reason for that was because the Bizet estate wanted a great deal of money. We know from what Franz [Patay, N.d.R.] was saying this morning about the problem with rights, and this was going on even then. Geraldine Farrar insisted – she was one of the first people to do this – that when she was filming, she wanted an orchestra on stage playing music from Carmen and De Mille said «No way, if the estate finds out about this, we have had it». So the orchestra had to play something else. However, when the film was given its premiere in Boston, the entire score was taken from Carmen, as you will hear, and at three moments the singers sang, in this instance, the Habanera. So who is telling the truth whether had anything to do or not with Bizet? Could we see the first clip, please? An apology: this has a time code on it. If anybody thinks critics are always sent better copies of anything than anybody else, it isn’t true. I once said to someone who distributes homevideo why is the sound so awful on this and he said «Well, we don’t sell enough to do quality control. We expect the public to do it for us». (audiovisual example: Carmen, «Habanera», by Georges Bizet, directed by Cecil B. De Mille) Thank you. There were slight changes made, for instance that Carmen had actually met Don José before the fight in the factory. Another very important operatic film made in the silent era was in 1926, Der Rosenkavalier. Hugo von Hofmannsthal had actually written scripts for films, and he convinced Strauss that it could be a very good idea to make a film of the opera. It wasn’t the opera. They changed it and Strauss wrote some extra music, including a march. They changed the end totally. They did away with the end scene. But although he didn’t arrange it himself, he obviously approved of it because he conducted the premieres in Dresden in London. What they didn’t know in 1926 was they were the last of a line because the film industry was about to undergo a massive change: the introduction of sound. The «talkies» or «talkers», as they were first called, were about to start and opera 44 played a very major part in the introduction of sound to the cinema. Warner Brothers produced the first sound film. Now, it didn’t have sound dialogue. What it did have was a soundtrack that was played by an orchestra – instead of having an orchestra alive in the cinema – and it had synchronized sound effects. It was Don Juan and it was shown on the 6th of August, 1926. The audience didn’t think much of it because the live orchestra was much better than this soundtrack. You know, hearing someone dropping a glass and it going «crash», so what? What did astonish people was the shorts that had been shown before, which were designed to show that sound and image could be put together. They showed seven altogether: three of them contained opera singers. Warner Brothers – remembering the way that Sam Goldwyn and Jesse Lasky had gone for Geraldine Farrar because they wanted a bit of class – Warner Brothers had gone to the Met. They had done a deal so they could negotiate with top singers to make films, and there was Marianne Talley and, singing «Vesti la giubba», and Giovanni Martinelli, who was the tenor of the time. That was the film that grabbed everybody: it lasted about seven minutes, and the sound was so lifelike that a lady waited outside for Martinelli to come out, because she was convinced he was actually standing behind the screen singing. He was in the cinema at the time but he wasn’t singing. This occurred over twelve months before The Jazz Singer, which everybody says is the start of sound. Martinelli was the first person to show what an impact sound and image could have together, and unfortunately I haven’t got that particular tape but what I’d like to show you is a clip from a film made shortly afterwards as one of the Vitaphone shorts: Beniamino Gigli and Giuseppe De Luca singing a duet from the Pearlfishers. Before we watch it I just want to say something about the problems of sound: no one had done it before, therefore there were no sound stages. They tried putting carpeting on the walls which didn’t work terribly well. Jack Warner then moved into Oscar Hammerstein’s opera house because the little studio he was filming in was right by an intersection on the road and there was too much noise. They found they couldn’t film there because of the noise; they had to film at night, and it was only later that they discovered the subway was been built underneath, which was why there was so much noise during the day. The microphones had to be placed, the singers could not turn them off, the cameras of course were not blimped because no one had ever needed a blimped camera, so they built little glass boxes they put the cameraman, and with the lights these became very, very hot and there are many accounts of cameramen coming out at the end of the take and just falling, having fainted. Very uncomfortable. The other thing is that they had to do each take as a thousand feet of film because there was no means of editing. The Vitaphone system involved recording through a series of levers onto a disc which was recorded from the inside to the out (not the way we used to play LPs but going the other way) and that was what they believed would keep it in synch and never did. This is why this system only lasted a couple of years and was then taken over by sound on film. But they had to do these thousand-foot takes with this incredible heat, and the singers were not allowed to move out of the line of the camera and the microphone. A lot of people have said that Gigli couldn’t act, and have used as evidence what I am about to show you. I think that is very unfair because no one, under those circumstances, could act. Could we see this little piece of film, please? (audiovisual example: Beniamino Gigli and Giuseppe De Luca sing «Del tempio al limitar» from Les pêcheurs de perles by Georges Bizet) Thank you. I think we get the point: not a lot of movement in that. Not everybody welcomed the arrival of sound. A lot of people said it would never catch on: Charlie Chaplin was one who said he could see no future 45 for it whatsoever. Once it had been accepted Hollywood, by which I mean the American film industry, turned its back totally on opera, and went for musicals and operettas. As a matter of interest, the first person to sing an operatic aria in a Hollywood movie was Ramón Novarro in Call of the Flesh (1930). He sang «Vesti la giubba» and an aria from Manon, neither of them very well. What Hollywood did do was they went for opera singers to appear in operettas and musicals. So there were a lot of people like Lawrence Tibbet, Grace Moore, Alice Gentle, Everett Marshall, Lily Pons, John McCormack, who went off to Hollywood to make films but these were not operas. The only opera at this stage that was filmed in the States was made in 1932: it was a film of Pagliacci, a production by a company called «The San Carlo Touring Company» which has nothing to do with the company in Naples, it was a bunch of American-Italians who went to places where no other opera went to. It was run by a man called Fortunio Gallo, and he made a film of his production of Pagliacci. It was a film of the stage production, it was not an attempt to make a film: it was simply cameras pointed at the artists singing. He claimed it was the first film of an opera ever made with sound, and he was wrong because two years earlier the first film to be made with sound was made here in Italy and it was Auber’s Fra Diavolo, starring a Croatian tenor called Tino Patiera, of whom I have never heard – I don’t know if anybody else has ever heard of him. That was the first sound opera. It was Europe that began to develop opera on film. Max Ophüls in Germany made a wonderful Bartered Bride (by Bedřich Smetana, N.d.R.), which is still available, with Jarmila Novotna (1932). What these people in Europe were doing was they were making films: they were not pointing cameras at the stage. They were going out on locations. They were pacing the film with the music and if necessary they stopped the music, they had a bit of action and they started the music again. They edited the music in order to make a film. There was also the «parallel» film, which was particularly popular with possibly the greatest operatic film director ever, who seems never to get mentioned these days and that is Carmine Gallone, who made more films than any other person. He wasn’t the first. The first was Alexander Korda (1922), who made a parallel film, silent film, in which a singer singing in Samson et Dalila (by Camille Saint-Saëns, N.d.R.) paralleled with the biblical story. The music from the opera was used as the soundtrack. This is what happened until the war: there was an occasional opera being filmed as a film, arias being used in different films. After the war, a series of very important films were made in Italy. These were initially based on stage productions, and we have seen a clip. In fact, I want to show a clip of The Barber of Seville, but for a different reason. There was a surge of film making in Italy and there were probably three reasons for this. One is that, after having gone through the war, everybody was looking back to a past that was certain, that had standards that people could believe in: they wanted something they could cling onto. Opera was acceptable. Also, the allies who occupied Rome had very strict censorship of the Italian film industry: they would not allow anything to be filmed unless it had been passed. The Americans actually attempted to stop the Italian film industry being reformed, because they couldn’t see any point in having a film industry. Opera was safe: it was acceptable. The other reason was that at that time there were a lot of very good young singers who were photogenic, like Tito Gobbi. I want to show you a clip from the Barber of Seville filmed in the traditional way to playback, but what I think this shows is one of the principal problems with filming to playback, and that is the problem of lip-synch, 46 making sure that the lips actually coincide with the sound you are hearing. And is not just that: in this particular clip it’s a problem of performance. The sound is far greater than the performance you are seeing. The performance is right for the screen, for the intimacy of the camera but is not right for the sound. (audiovisual example: The Barber of Seville) All those Italian films started in the studio. This was partly for economic reasons, because film-makers weren’t allowed out, but as soon as they could get out, they went on location and made films. It is perhaps ironic that it was the arrival of television after the war to lead to an awful lot of films being made simply because, as we have heard many times and just to remind you, there was no means of pre-recording during the Fifties. So if a production was not to go out live, it had to be filmed. And this led, all over Europe, to a lot of very interesting films being made, but also a lot of stage productions, particularly in Germany by Rolf Liebermann, were taken into the studio and filmed on 35 mm. film. One person who jumped very much onto this band wagon, believe it or not, was Herbert von Karajan: he was the first conductor to realise the value of film and of self-publicity through television, so he formed a company to film just about everything that he did. Also, being Karajan, he insisted on doing everything himself including directing the films, and one thing these films show is that he couldn’t direct. I am going to show you a clip from Carmen: this is a 35 mm, film but it looks like a studio electronic camera production. Except for the fact that the tape didn’t exist at the time, it would have been done as a tape production. What it does show is that Karajan, by using a single camera film technique, didn’t know when to cut, didn’t know how to cut, had no sense – believe it or not – of when the music requires him to cut. It also had the most abysmal background acting I have ever seen, I think. Can we see the next clip, please? (audiovisual example: Carmen) Thank you. I hope you get the point. When tape did arrive, it was used principally by radio broadcasters, not for the TV audience because there was no video recording then. It meant that someone could go into an the opera house, record a production, and show it the following Sunday, in three weeks’ time, a year later. And electronic recording became the means of showing, then preserving, stage productions. Actually, because of there being a facility of doing things electronically, people started to ask composers to write specifically for television. This had an important effect on film because it freed film to do what film does best which is to take you into a world that is totally created by the filmmaker, and one of the great drawbacks for any television director is that of having to reinterpret someone else’s interpretation, with which they may not necessarily agree; they have to try to both be faithful to a stage production and also to put their own creative gloss onto it. I was going to show you a clip from Losey’s Don Giovanni to show how a film-maker has wonderful visual images but still has problems with synch, and this difficulty very nearly sunk that film as it has sunk many other films: Trevor Nunn’s Porgy and Bess, recently, made to a five-year-old recording. You are aware that the artists are not singing at the same time as the video recording is taking place. One film-maker who attempted to get around some of these problems was Paul Czinner, a Hungarian who ended up working in London. He decided – in two productions he directed, Don Giovanni and Der Rosenkavalier – that he would put three film cameras running simultaneously onto a production, exactly the same as one does with electronic cameras. And 47 to get around the idea of having to use a pre-recorded track, he actually got the singers to post-sing, so they recorded to the picture; however, to me it still doesn’t work. (audiovisual example: Richard Strauss, Der Rosenkavalier, directed by Paul Czinner) I have got quite a lot more I would like to say but I am running out of time so I am going to skip over a couple of things. To me, one of the basic problems with putting opera onto video or film is the style of singing: in an MGM musical, we accept – because it comes naturally out of conversation that someone bursts into song – that perhaps the synchronization is not quite right. We know it is recorded at a different time. We are reluctant to accept this in opera, I think, because no matter how intimate a scene is, the composer has written it for that voice to be heard at the back of a theatre, and you can never get away from that. Whatever you do with the camera, that sound is going to be fighting the picture. Some film directors have taken this idea of never being able to sing properly to its logical conclusion, and this has being going on for a long time, of actually having actors playing the parts, so you don’t bother to see the singers at all. I was going to show a clip from Peter Weigl’s A Village Romeo and Juliet to demonstrate this, but I won’t because of time. The television Tosca filmed on location was not a new idea, it had been done by Carmine Gallone before, who shot on the actual locations. Domingo himself was in a film earlier, shot on the actual locations, although they weren’t allowed into Palazzo Farnese because the French would not let them in since they use it as their embassy. Wide screen, that we were talking about, was done on film, cinemascope was introduced in order to combat television, in order to show that the big screen was big and the television was not. What I’d like to finish by saying is that there is something about opera that attracts film-makers: it has – as I hope I have shown – since the last century, and I am sure it will into the next century. Film-makers and television directors will go on trying to find the perfect way to put opera on video. Thank you. Come l’opera in film ha influenzato la riproduzione dal vivo dell’opera in televisione [Buona sera. Mi dispiace ma sono costretto a parlare in inglese. Esiste una parola inglese di quattro lettere che comincia per «f» e che molte persone usano fin troppo spesso: «film». A volte si dice «film» quando in realtà si intende «video». Per esempio, si parla del film di una produzione del Teatro alla Scala o del Metropolitan quando in realtà si tratta di una registrazione elettronica. Faccio questa distinzione non per essere pedante ma perché effettivamente si tratta di mezzi diversi. Oggi pomeriggio, quindi, col termine «film» mi riferisco a una pellicola con perforazioni laterali, mentre «televisione» significa qualcosa di elettronico o di registrato su nastro magnetico. Vorrei partire dal novembre del 1936, quando al Covent Garden venne allestita la prima di una nuova opera: Pickwick, tratta dai Pickwick Papers di Charles Dickens, con musica composta da Albert Coates. Probabilmente tutto si sarebbe svolto come per le altre otto opere del compositore, non fosse stato per il fatto che, la settimana precedente la sera della prima, l’intero cast si trasferì in un edificio a Londra Nord dove vennero rappresentati e trasmessi dal vivo, in televisione, 25 minuti dell’opera che divenne, dunque, la prima opera al mondo a essere teletrasmessa. La BBC aveva iniziato a trasmettere da soli 48 undici giorni, andando in onda per un’ora nel pomeriggio, un’ora la sera e facendo pausa la domenica: in effetti noi inglesi non facciamo mai nulla di domenica. Comunque, non molte persone videro quell’opera in televisione se pensiamo che, fino a quel momento, erano stati venduti soltanto quattrocento apparecchi televisivi e la trasmissione copriva la sola zona di Londra. Inoltre, un televisore costava cento sterline, cifra a quell’epoca sufficiente per acquistare un’automobile. Purtroppo, non sappiamo come sia andata la rappresentazione perché, in mancanza di apparecchi di registrazione, venne mandata in onda e sparì nell’etere. La BBC, come anche altre emittenti via via che cominciarono a trasmettere, stabilì che l’opera e la musica classica dovessero far parte della programmazione televisiva, che al pubblico piacesse o meno. E, in realtà, ci sono numerose testimonianze del fatto che gli inglesi non gradirono minimamente: non volevano che il loro tempo venisse occupato da opera e musica classica. Ciò nonostante, nei primi tre anni, la BBC mandò in onda trenta opere o, per meglio dire, parti di trenta opere, perché non vi era tempo sufficiente per trasmetterle per intero. È interessante notare che le prime opere trasmesse erano titoli che oggi non verrebbero nemmeno presi in considerazione: Venus and Adonis di John Blow, Thomas and Sally di Thomas Arne, Lionel and Clarissa di Charles Dibdin, The Beggar’s Opera di John Gay (a cui furono accordati 45 minuti perché veniva considerata popolare) e il suo seguito Polly. Bisognerà attendere il 1937 per vedere opere quali Faust di Charles Gounod o La traviata, delle quali venne trasmesso l’atto terzo. Può essere interessante sapere che nel mese di luglio dello stesso anno nessuna opera venne mandata in onda perché l’intera BBC dovette chiudere per riparare le attrezzature. Si ripartì a settembre con La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, la prima opera trasmessa per intero in televisione. In quei primi anni, mettere in scena un’opera o qualsiasi forma di rappresentazione era veramente difficile. Si disponeva di quattro telecamere collegate a una sala di regia: due telecamere erano montate su ruote e le altre due potevano essere spostate avanti e indietro su rotaie; evidentemente tali spostamenti dovevano avvenire senza che una telecamera entrasse nell’inquadratura dell’altra. Le luci erano fortissime e negli studi tutti soffrivano il caldo. Chi lavora in televisione certo saprà che fu solo nel 1950 che vennero introdotte le torrette porta-obiettivi e i dolly, il cui carrello permette alla telecamera di spostarsi all’interno del set. C’è un aneddoto che è diventato famoso: poco dopo l’inizio della televisione, quando tutti i programmi andavano in onda in diretta, durante una trasmissione si ruppero due telecamere. Vennero inviati dei tecnici in studio per ripararle; dovettero staccare i cavi dalle telecamere e riparareo il guasto ma invertirono i collegamenti dei cavi ai due monitor in galleria: un problema non grave ma se avviene in diretta provoca ansia. A quell’epoca, se bisognava ripetere una scena tutto il cast, l’orchestra e gli altri dovevano tornare in studio ed eseguire il pezzo daccapo. Le tecniche di ripresa usate dalla televisione degli esordi erano molto statiche ma evidentemente traevano origine dal cinema, nel senso che si passava dall’inquadratura a tutto campo al primo piano e viceversa. Inoltre, non c’era molto spazio, eppure i cantanti dovevano essere messi in condizione di vedere il direttore d’orchestra. Alla BBC, inizialmente non era possibile collegare diversi studio tra loro quindi l’orchestra veniva sistemata insieme a tutti gli altri. I cantanti non riuscivano a vedere il direttore d’orchestra, quindi era necessaria la presenza di un assistente incaricato di guardare il direttore e tentare non solo di riprodurne la scansione del tempo ma addirittura di anticiparla. Se 49 c’era un coro, i componenti dovevano rimanere immobili e mantenere un silenzio assoluto fino alla loro entrata. Situazioni simili si verificavano ancora nei primi anni Settanta, quando venne registrata Owen Wingrave di Benjamin Britten. Mentre Britten in persona dirigeva l’orchestra, il suo assistente Steward Bedford dovette sedersi sul ponte delle luci per poter dirigere i cantanti. Vi è, infatti, una scena in cui tutti i cantanti hanno lo sguardo rivolto verso il cielo: probabilmente speravano che ciò conferisse loro un aspetto molto drammatico ma in realtà era l’unico modo per poter seguire il tempo. Dopo diciotto mesi, i tecnici della BBC scoprirono come poter collocare l’orchestra in uno studio separato, collegato a quello principale. La prima opera trasmessa in questo modo fu Hansel and Gretel (di Engelbert Humperdinck, N.d.T.), andata in onda il giorno di Natale e ripetuta anche il giorno successivo. Il dato interessante è che già a quell’epoca si stabilì che il pubblico non avrebbe accettato cantanti dall’aspetto non adatto alla parte. Pertanto Hansel and Gretel venne realizzato in playback: i cantanti si trovavano nello studio con l’orchestra mentre due giovani attori mimavano l’azione. Un comportamento simile veniva adottato anche altrove: una delle prime stazioni televisive ad andare in onda dopo la BBC fu quella berlinese, tra il 1938 e il 1940, con nove repliche dello Schauspieldirektor di Mozart. Venne anche trasmessa l’opera Bastien und Bastienne, con Elizabeth Schwarzkopf nella parte di Bastienne. Nel 1940 la NBC di New York trasmise un’opera per la prima volta negli Stati Uniti: si trattava di una versione abbreviata di Pagliacci. Durante la Seconda Guerra Mondiale la BBC, come la maggior parte delle altre stazioni televisive, interruppe le proprie trasmissioni. Quando riaprì nel 1945, non fu bene accolta dall’industria cinematografica, perché il pubblico del cinema era diminuito e la televisione veniva considerata una minaccia. Non solo il cinema, ma anche il mondo sportivo e quello dell’intrattenimento in genere non gradirono la ripresa delle trasmissioni. I teatri negavano il permesso di trasmettere spettacoli teatrali e opere in diretta, non era consentito trasmettere incontri sportivi (nemmeno il derby, la celebre corsa di cavalli), le case cinematografiche vietavano la messa in onda di film, sia pure datati, perché veniva considerata concorrenza. Gli artisti di varietà che lavoravano in televisione venivano ostracizzati ed estromessi dai teatri. Il rapporto fra cinema e televisione era di assoluta diffidenza. Per arrivare a dimostrare che i due mezzi trovarono un punto d’incontro, come intendo fare, dobbiamo capire in che stato fosse l’industria cinematografica dell’epoca. Sono nuovamente costretto a tornare al 1895, data ufficiale della nascita del cinema, perché fu allora che i fratelli Lumière fecero la prima proiezione pubblica a Parigi. Nel 1896, un anno dopo, vennero filmate le prime arie d’opera; il dato sorprendente è che vennero registrate complete di sonoro, su cilindri di cera. Purtroppo l’audio si è perso ma il film esiste ancora e non abbiamo idea di quale opera si trattasse. Nel 1900 Victor Maurel, primo interprete del ruolo di Falstaff e ancor prima di Jago, girò un filmato di tre minuti in cui cantava arie da entrambe le opere su cilindro di cera. La ragione di tutto ciò è da ricercarsi nelle origini del cinema. L’avvento del cinema non ebbe luogo perché qualcuno pensò: «Voglio mostrare immagini». Questo era vero solo in parte ma, in realtà, il cinema venne sviluppato da tecnici del suono. Thomas Edison aveva inventato il fonografo, che successivamente divenne il grammofono, e voleva aggiungere immagini ai suoni, e non viceversa. Edison non disse: «Ecco le immagini, che bello sarebbe metterci anche il sonoro!». Il suono c’era e l’aspirazione era quella di abbinarci le immagini. Quindi tutti i pionieri del cinema tentarono di mettere insieme suoni e immagini. Si scontrarono con due enormi problemi, di 50 cui il primo era l’amplificazione: alla fine del sec. XIX non esistevano mezzi in grado di trasmettere suoni in un ambiente di grandi dimensioni. Non si poteva fare. Edison aveva inventato una piccola scatola per ascoltare i suoni, piuttosto simile a uno stetoscopio. Una persona alla volta poteva sentire i suoni abbinati al filmato, cosa che non serviva a molto quando centinaia di persone cominciarono ad affollare i cinematografi. Il secondo grande problema era quello della sincronizzazione. I pionieri erano, come ho già detto, inventori quindi tentarono di fondere i cilindri di cera con le immagini filmate. Le primissime telecamere avevano motori elettrici, erano massicce e non potevano essere spostate. Si passò molto rapidamente, quindi, a telecamere il cui motore veniva azionato manualmente, a manovella, di modo da potere essere spostate. Il cameraman girava la manovella canticchiando Il bel Danubio blu per ottenere la velocità giusta. Bisognava quindi sperare che il proiezionista a sua volta cantasse Il bel Danubio blu alla stessa velocità del cameraman per fare sì che immagini e suoni fossero ben sincronizzati, cosa che accadeva raramente. Nonostante tutto, il fascino esercitato dall’opera lirica era forte, e una delle ragioni per le quali sin dagli esordi del cinema vennero realizzate molte più opere di quante si pensi è proprio perché molte registrazioni erano già disponibili, dato che il grammofono esisteva dal 1903. I cineasti potevano quindi creare immagini da sovrapporre a suoni già registrati. Il fascino dell’opera lirica era dovuto anche al fatto che narrava storie avvincenti. La maggior parte delle opere era tratta da romanzi o commedie teatrali, e sia il compositore sia il librettista avevano fatto il lavoro dello sceneggiatore, riducendo la storia all’osso. Poteva essere rappresentata in maniera che il pubblico seguisse il racconto con un minimo utilizzo di intertitoli didascalici. Se poi si faceva ascoltare un po’ di musica operistica che il pubblico potesse riconoscere, lo si predisponeva emotivamente a partecipare alle vicende narrate. Ogni elemento contribuiva allo sviluppo dei primi esperimenti di opera in film. Prima del 1912 nella sola Germania vennero girati più di millecinquecento filmati di arie d’opera, alcuni dei quali esistono ancora. Tuttavia, a causa dei problemi legati all’amplificazione, tali esperimenti vennero accantonati. La maggior parte delle pellicole apparteneva al genere che definiamo «cinema muto», anche se naturalmente erano tutt’altro che mute: erano, infatti, quasi invariabilmente dotate di un accompagnamento musicale che in origine serviva a coprire il rumore del proiettore ma che successivamente, quando i cineasti si resero conto del potere evocativo della musica, veniva composto o adattato specificamente per un determinato film. Nelle grandi città l’accompagnamento veniva eseguito da orchestre, in provincia da quartetti d’archi e, nei villaggi, da un pianista. È interessante ricordare che due celebri cantanti hanno mosso i primi passi della carriera, quando erano studenti, in veste di pianisti da cinema: si tratta di Richard Talbot e Rosa Ponsell. Negli anni Venti il cinema aveva già raggiunto un certo grado di sofisticazione e i cineasti dell’epoca utilizzavano la grammatica e la sintassi della cinematografia con competenza: master-shot (inquadratura che comprende tutta la scena, N.d.T.), primo piano, montaggio, carrellate (poiché non esistevano ancora lenti dotate di zoom), panoramiche, dissolvenze, insomma, le tecniche cinematografiche che utilizziamo anche oggi. Uno dei più significativi fra i primi film venne realizzato nel 1915 da Cecil Blount De Mille: Carmen, di cui vi farò vedere una scena. Si tratta non già della rappresentazione dell’opera senza il sonoro ma di un vero e proprio film. Venne realizzato da Jessy Lasky e Sam Goldwyn, che avevano fondato la compagnia «Famous Players» al fine di acquistare i diritti sulle commedie in scena a Broadway onde trarne dei film. Non incontrarono ostacoli nell’acquisizione dei diritti ma ebbero, invece, grandi 51 difficoltà nel cercare di persuadere i divi del varietà a partecipare perché le star non credevano che il film fosse un buon medium: non era scorrevole e gli attori ritenevano che avrebbe rovinato loro la carriera. Quindi Lasky e Goldwyn decisero che il miglior modo per dimostrare le potenzialità del mezzo fosse quello di ingaggiare la diva più famosa in circolazione, che a quell’epoca negli Stati Uniti era Geraldine Farrar, sovrana del Metropolitan. Quando Goldwyn annunciò per la prima volta che intendeva scritturare la Farrar, qualcuno gli rispose che sarebbe stato più facile convincere la Statua della Libertà a camminare sull’acqua. Di fatto, la diva si incuriosì all’idea di venire filmata e di apparire in Carmen senza dover cantare, quindi acconsentì ad andare a Hollywood. La pellicola rese famosa la Farrar – che divenne una stella di prima grandezza nel firmamento cinematografico – così come anche Cecil B. De Mille, che divenne un regista celebre. All’epoca si diceva che la produzione non avesse alcuna parentela con l’opera di Bizet, perché gli eredi del compositore pretendevano di incassare cifre astronomiche per i diritti. Da ciò che ci ha spiegato Franz Patay stamattina, sappiamo qualcosa riguardo le problematiche legate ai diritti d’autore, che già all’epoca creavano difficoltà. Durante la lavorazione Geraldine Farrar – una delle prime ad avanzare questa richiesta – pretese di avere in scena un’orchestra che suonasse musiche tratte dalla Carmen mentre lei girava le riprese. De Mille le rispose che non era possibile perché qualora gli eredi di Bizet fossero venuti a conoscenza del fatto, ci sarebbero stati guai. Quindi l’orchestra dovette eseguire altre musiche. In ogni caso, l’intera partitura eseguita alla prima del film a Boston era tratta da Carmen, come sentirete, e in tre occasioni i cantanti eseguirono la Habanera. Quindi chi dice la verità riguardo il nesso con l’opera di Bizet? Possiamo vedere il primo esempio video, per favore? Devo farvi le mie scuse perché nel filmato appare una didascalia che scandisce i minuti trascorsi. Se qualcuno immagina che ai critici vengano mandate copie migliori che a tutti gli altri, sbaglia: una volta ho chiesto a un distributore di homevideo perché il suono fosse così gracchiante e mi rispose che non si vendevano sufficienti copie per fare un adeguato controllo di qualità, quindi stava al pubblico farlo al posto loro. (esempio audiovisivo: Carmen, «Habanera», di Georges Bizet, regia di Cecil B. De Mille) Grazie. Vennero modificati alcuni particolari della narrazione, per esempio il fatto che Carmen in realtà avesse già conosciuto Don José prima ancora della lite in fabbrica. Un’altra importante pellicola operistica dell’epoca del muto venne realizzata nel 1926; si tratta del Rosenkavalier. Hugo von Hofmannsthal aveva esperienza di sceneggiature cinematografiche e convinse Strauss che sarebbe stata una buona idea realizzare un film tratto dall’opera. Non si tratta, tuttavia, dell’opera come la conosciamo poiché venne rimaneggiata e Strauss compose musiche apposite, compresa una marcia. Il finale venne completamente cambiato mediante l’eliminazione dell’ultima scena. Sebbene non avesse curato personalmente gli arrangiamenti, Strauss evidentemente approvò il risultato perché diresse l’orchestra nelle prime rappresentazioni di Dresda e Londra. Ciò che nel 1926 non si sapeva ancora, era che si trattava della fine di un’epoca perché di lì a poco l’industria cinematografica avrebbe subito una svolta epocale dovuta all’avvento del sonoro. Stava cominciando l’era dei cossiddetti talkies o talkers (film parlati, N.d.T.), e l’opera ebbe un ruolo di primaria importanza nell’introduzione del sonoro nel cinema. La Warner Brothers produsse la prima pellicola col sonoro. Intendiamoci, non c’erano dialoghi sonori ma semplicemente una colonna musicale eseguita da un’orchestra – in sostituzione dell’orchestra in carne e ossa presente in sala – ed effetti sonori sin52 cronizzati. Si trattava del Don Juan, che venne proiettato il 6 agosto 1926; il pubblico non rimase particolarmente colpito perché riteneva che l’orchestra dal vivo fosse molto meglio di una registrazione. Il fatto che, quando a qualcuno cadeva un bicchiere, si udisse «crash» non suscitò particolare entusiasmo. Ciò che realmente colpì il pubblico furono i cortometraggi proiettati prima della pellicola, pensati appositamente per mostrare al meglio ciò che si può ottenere mediante l’unione di immagini e suoni. Ne vennero proiettati complessivamente sette, di cui tre incentrati su cantanti d’opera. Memori del fatto che Sam Goldwyn e Jesse Lasky avevano scritturato Geraldine Farrar per aggiungere un «tocco di classe» alle loro produzioni, i fratelli Warner si rivolsero al Met. Si prodigarono in modo da ingaggiare cantanti di punta per le loro pellicole: Marianne Talley eseguì «Vesti la giubba» e apparve anche Giovanni Martinelli, il tenore del momento. Fu questo il filmato che fece breccia nel cuore del pubblico: della durata di sette minuti circa, aveva un sonoro così simile al vero che una signora aspettò invano il tenore fuori dal cinema, convinta che Martinelli si fosse nascosto dietro lo schermo a cantare. In realtà, egli era in sala durante la proiezione ma non aveva cantato dal vivo. Tutto ciò accadeva dodici mesi prima dell’uscita di The Jazz Singer, universalmente noto come il primo film sonoro. Martinelli fu il primo a dimostrare quale impatto potessero avere i suoni uniti alle immagini. Purtroppo non possiedo quella particolare registrazione ma quello che vi mostrerò è l’estratto di un film di poco successivo, un cortometraggio della Vitaphone, in cui Beniamino Gigli e Giuseppe De Luca cantano un duetto tratto dai Pescatori di perle. Prima della visione vorrei sottolineare alcuni dei problemi posti dal sonoro: non era mai stato usato prima, quindi non esistevano set insonorizzati. Vennero fatti alcuni tentativi, foderando le pareti di tessuto, ma il risultato fu ben lungi dall’essere ottimale. Successivamente Jack Warner si trasferì nel teatro d’opera di Oscar Hammerstein perché il piccolo studio in cui girava le riprese si trovava vicino a un trafficato incrocio stradale ed era eccessivamente rumoroso. Warner si vide costretto a girare le riprese di notte a causa del rumore diurno e solo successivamente scoprì che si trattava dei lavori per la costruzione della metropolitana. Utilizzavano microfoni fissi che non si potevano spegnere, le telecamere non erano «mdp», ovvero autoblimpate (telecamere silenziose, N.d.T.) perché non ce n’era mai stato bisognoprima di allora, quindi vennero costruiti appositi gabbiotti di vetro per i cameramen. Con le luci, i gabbiotti diventavano caldissimi e vi sono molti aneddoti di cameramen che, una volta usciti al termine di una ripresa, cadevano a terra svenuti. Decisamente scomodo. Un altro aspetto è che ogni ripresa doveva essere costituita di un migliaio di piedi di pellicola perché non esistevano mezzi per fare i montaggi. Il sistema Vitaphone prevedeva che la registrazione venisse effettuata, mediante una serie di leve, su un disco che veniva inciso dal centro verso l’esterno, all’inverso rispetto al funzionamento degli LP. Si riteneva che in questo modo il sincrono sarebbe stato garantito ma in realtà non era così. È questa la ragione per la quale il sistema durò solo pochi anni e venne sostituito dal sonoro su pellicola. In sintesi, dovevano fare riprese lunghe mille piedi con un caldo insopportabile e ai cantanti non era permesso muoversi fuori dal raggio di telecamere e microfoni. Molti sostengono che Gigli non sapesse recitare, usando come dimostrazione il video che stiamo per vedere. Credo che sia un giudizio ingeneroso perché, in quelle condizioni, non era possibile recitare bene. Possiamo vedere questo estratto, per favore? (esempio audiovisivo: Beniamino Gigli e Giuseppe De Luca eseguono «Del tempio al limitar» da Les pêcheurs de perles di Georges Bizet) Grazie. Credo che si noti la staticità degli attori-cantanti. 53 Non tutti apprezzarono l’avvento del sonoro. Molti affermarono che non avrebbe avuto alcun seguito; Charlie Chaplin fu tra quelli che dissero che il sonoro non avrebbe avuto alcun futuro. Una volta che venne accettato da Hollywood – con questo termine mi riferisco all’industria cinematografica statunitense –, il cinema voltò le spalle all’opera per dedicarsi a musical e operette. Ramón Novarro fu il primo a cantare un’aria d’opera in un film hollywoodiano; si trattava della Sivigliana del 1930 (regia di Charles Brabin, N.d.T.). Novarro cantò «Vesti la giubba» e un’aria tratta dalla Manon, non molto bene per la verità. L’industria cinematografica di Hollywood ingaggiò cantanti lirici per girare operette e musical. Quindi molti esecutori quali Lawrence Tibbet, Grace Moore, Alice Gentle, Everett Marshall, Lily Pons e John McCormack andarono a Hollywood per girare pellicole che, tuttavia, non erano opere. In questo periodo, l’unica opera prodotta negli Stati Uniti, nel 1932, fu Pagliacci, una produzione della «San Carlo Touring Company», compagnia che non aveva alcun rapporto con il teatro napoletano. Si trattava di un gruppo di italoamericani che allestiva spettacoli laddove non andava nessun’altro; la compagnia era diretta da un certo Fortunio Gallo, che realizzò una pellicola della sua produzione di Pagliacci. Si tratta del filmato dell’allestimento teatrale, non di un tentativo di realizzare un vero e proprio film: le telecamere si limitano a inquadrare gli artisti mentre cantano. Gallo si fregiò di avere realizzato il primo film di un’opera completa di sonoro ma, in realtà, sbagliava poiché il primo film di un’opera col sonoro venne realizzato qui in Italia e fu il Fra Diavolo di Auber, con il tenore croato Tino Patiera di cui non ho mai sentito parlare (non so se qualcuno di voi lo conosca). Fu questa la prima opera con il sonoro, e fu l’Europa a dare inizio all’opera in film. Nel 1932 in Germania, Max Ophüls realizzò una splendida Sposa venduta (di Bedřich Smetana, N.d.R.), con Jarmila Novotna, che è tutt’ora disponibile in commercio. Quelli che venivano prodotti in Europa erano film veri e propri, non filmati in cui veniva ripreso un palcoscenico. Venivano girati in diverse location, il «ritmo» della pellicola seguiva il ritmo musicale e, se necessario, la musica veniva interrotta durante l’azione scenica e poi ripresa. Si facevano addirittura dei tagli alla partitura musicale. Esisteva anche il film cosiddetto «parallelo», reso popolare da colui che forse è stato il più grande regista di film-opera di tutti i tempi – e che oggi nessuno nomina –, ovvero Carmine Gallone, che ha realizzato più film di chiunque altro. Non fu, tuttavia, proprio il primo poiché Alexander Korda, nel 1922, aveva realizzato un film muto di Samson et Dalila (di Camille Saint-Saëns, N.d.R.) in cui, parallelamente al racconto biblico, veniva fatta ascoltare musica tratta dall’opera a mo’ di colonna sonora. Tutto ciò accadeva fino alla Seconda Guerra Mondiale: talvolta un’opera veniva ripresa come fosse una pellicola mentre le arie venivano utilizzate in diversi film. Dopo la guerra in Italia venne realizzata una serie di importanti film che prendevano le mosse da allestimenti teatrali, di cui abbiamo visto un estratto. Ora vorrei farvi vedere un estratto dal Barbiere di Siviglia per un’altra ragione. In Italia vennero realizzati moltissimi film in quell’epoca, probabilmente per tre ragioni. La prima è che, finita la guerra, si ricordava il passato come un’epoca in cui esistevano certezze, valori in cui poter credere: si avvertiva il bisogno di aggrapparsi a qualcosa e l’opera era accettabile. Inoltre, gli alleati che occupavano Roma avevano imposto una rigida censura all’industria cinematografica italiana, non permettendo che venisse ripreso alcun soggetto se prima non aveva superato il vaglio. Gli statunitensi cercarono addirittura di impedire la riforma dell’industria cinematografica italiana perché non vedevano la necessità dell’esistenza di una simile industria. L’opera era un soggetto sicuro, poiché era accettabile. La terza e ultima ragione è che a quell’epoca c’era54 no molti giovani cantanti che erano bravi quanto fotogenici, come Tito Gobbi. Voglio farvi vedere un brano tratto dal Barbiere girato in playback; vi si evidenzia uno dei maggiori limiti di tale metodo, ovvero la mancanza di sincronizzazione tra canto e labiale. Non solo, in questo particolare filmato c’è anche un problema di carattere esecutivo perché il suono è molto più «grande» di quello che lascerebbe pensare l’esecuzione intima che vediamo sullo schermo. (esempio audiovisivo: Il barbiere di Siviglia) Tutti i film italiani venivano inizialmente girati in studio, in parte per ragioni economiche ma anche perché ai cineasti non era permesso lavorare in esterno. Nel momento in cui ebbero il permesso di farlo, cominciarono a girare in diverse location. Ironia della sorte, l’avvento della televisione nel Dopoguerra portò alla realizzazione di moltissimi film semplicemente perché – come è già stato detto – negli anni Cinquanta non era possibile pre-registrare le trasmissioni, quindi se una produzione non poteva andare in onda in diretta doveva necessariamente essere filmata. In Europa, il fenomeno diede vita alla produzione di molti film interessanti ma altresì alla ripresa di molte produzioni teatrali. In particolare, in Germania Rolf Liebermann portò moltissime produzioni sceniche negli studi televisivi per girarle su pellicola a 35 mm. Un altro irriducibile sostenitore di questo metodo fu, che ci crediate o no, Herbert von Karajan, il primo direttore d’orchestra ad avere capito le potenzialità del film e dell’autopubblicità che ne derivava; fondò una società preposta a filmare qualunque cosa facesse. Inoltre, trattandosi di Karajan, insisté per occuparsi di ogni dettaglio della realizzazione delle pellicole, compresa la regia; uno degli aspetti che viene messo in evidenza da questi filmati è proprio il fatto che non era in grado di dirigere un film. Ora mostrerò un estratto da Carmen: si tratta di pellicola a 35 mm. ma sembra una produzione girata in studio con telecamera elettronica. Non fosse stato perché all’epoca non esisteva il nastro, sarebbe stata registrata con quest’ultima metodica. È evidente che Karajan, nell’utilizzo di una tecnica a telecamera singola, non sapeva dove né come tagliare e non aveva, stranamente, alcuna sensibilità nel decidere dove la musica richiedesse tagli. Per giunta la recitazione da parte dei personaggi nello sfondo è, credo, la più raccapricciante che io abbia mai visto. Possiamo vedere il prossimo esempio, per favore? (esempio audiovisivo: Carmen) Grazie, credo possiate capire il mio punto di vista. Inizialmente il nastro veniva utilizzato soprattutto per trasmissioni radiofoniche perché non esisteva la registrazione video. Il nastro permetteva di registrare una produzione in un teatro d’opera e di mandarla in onda la domenica successiva, dopo tre settimane, un anno dopo. Le registrazioni elettroniche divennero un modo per trasmettere e successivamente conservare le produzioni teatrali. Di fatto, data la possibilità delle realizzazioni elettroniche, ai compositori vennero commissionate opere concepite appositamente per il mezzo televisivo. Questo ebbe un enorme riflesso sul cinema, consentendo al mezzo di esprimersi al meglio, ovvero nella ricostruzione di un mondo interamente concepito dal cineasta. Uno dei maggiori svantaggi per qualsiasi regista televisivo è quello di dover reinterpretare un’interpretazione altrui, con la quale non si è necessariamente d’accordo; entrambi, a loro volta, devono attenersi a una produzione teatrale cercando di introdurvi anche la propria patina creativa. Avrei voluto farvi vedere un estratto dal Don Giovanni di Losey per evidenziare come un regista possa creare incantevoli immagini visive pur avendo problemi di sincronizzazione, problemi che hanno quasi finito per affossare 55 questo come molti altri film, quale il Porgy and Bess di Trevor Nunn realizzato su una registrazione di cinque anni precedente. Si avverte che gli artisti non cantano nello stesso momento in cui ha luogo la registrazione video. Uno dei cineasti che ha tentato di risolvere alcuni di questi problemi è Paul Czinner, regista ungherese operante a Londra. In due delle cinque produzioni di cui ha curato la regia, Don Giovanni e Der Rosenkavalier, ha deciso di fare le riprese con tre telecamere simultaneamente, come si fa con le telecamere elettroniche. E per aggirare l’ostacolo dell’audio pre-registrato, è riuscito a far sì che gli esecutori cantassero sulle immagini girate. Per me non funziona in ogni caso. (esempio audiovisivo: Richard Strauss, Der Rosenkavalier, regia di Paul Czinner) Avrei ancora diverse cose da dire ma purtroppo il tempo a mia disposizione si sta esaurendo, quindi dovrò rinunciare a qualche esempio. A mio giudizio uno dei problemi basilari del trasferire l’opera su video o film è quello dello stile vocale. In un musical della MGM, laddove si passa con la massima naturalezza dalla conversazione al canto spiegato, tolleriamo il fatto che la sincronizzazione non sia proprio perfetta. Sappiamo che la musica è stata registrata in un altro momento. Ritengo che siamo restii ad accettare l’utilizzo dello stesso procedimento per l’opera perché – per quanto una scena sia intima – il compositore l’ha concepita in modo tale che la voce si senta fino all’ultima fila di un teatro, una necessità cui non si può sfuggire. Qualunque effetto si possa ottenere mediante un uso acconcio della telecamera viene vanificato dal volume di suono. Da diverso tempo vari registi hanno portato il concetto del non poter cantare appropriatamente alle logiche conseguenze che ne derivano, risolvendo il conflitto mediante l’impiego di attori, in modo da evitare di vedere i cantanti. Avrei voluto proiettare un estratto da A Village Romeo and Juliet di Peter Weigl come dimostrazione ma purtroppo non c’è tempo. La Tosca televisiva girata «nei luoghi e nelle ore del libretto» non fu un’idea innovativa giacché era stata realizzata in precedenza da Gallone. Domingo aveva già realizzato una pellicola simile, girata nei luoghi originali ad eccezione di Palazzo Farnese che è utilizzato come ambasciata francese. Lo schermo largo di cui parlavamo, il cinemascope, venne introdotto per combattere la televisione, per mostrare che il grande schermo ha possibilità diverse da quello televisivo. Vorrei concludere sottolineando che le caratteristiche dell’opera attirano i cineasti: ne sono stati irretiti sin dal secolo scorso (come spero di avere dimostrato) e sono certo che lo saranno nel secolo a venire. Cineasti e registi televisivi continueranno a cercare di perfezionare i modi per proporre l’opera in video. Grazie.] 56 PATRICK J. SMITH The Problem of the Double Approach to Directing Opera on Television Opera on video is a specialized art form, removed both from actual live performance in an opera house, and from sound recordings made in a studio for release on disc. There are, very broadly, two types of opera on video. One is made directly for visual consumption, either in a movie house or on television. The other comprises the operas filmed in a theater – that is, the filming of a production taking place on an opera stage in front of a «live» audience. This last type – by far the most common in films now – can have various sub-sets, such as some adaptation of the production for the television and movie cameras, or a subsequent filming of the opera onstage in an empty auditorium, but what it essentially represents is the production of the opera that the operahouse producer (in United States terms, the director of the opera) intended to be seen by an opera house audience. I propose to speak about the second type – the filming of an opera production – dealing with the work of the American producer-director Peter Sellars. In some cases, his filming has been done in a studio, but in each case it essentially represents and reproduces the exact staging seen by an audience in the opera house. The task of the television director of an existing opera production is extremely complex, as I don’t need to tell all of you. His idea is to communicate to the viewer, as accurately as possible, what the theatrical producer put on the stage, without interference in terms of television and without the interposition of the personality of the television director. This attitude can be seen as a neutralization of the television director vis-à-vis the stage director, but in fact it calls to the fore the best and strongest of his talents: that of acting as a sort of passage through which the stage event can become a television event. To the extent that the television director interposes his own vision for that of the stage director, he weakens and falsifies the other’s work; to the extent that he consciously moves away from picturing what the stage director has rendered, the television director not only adds a layer of ideas onto the whole, but may obscure it – to the detriment of the final, filmed, result. The original is therefore compromised – as can be the work of the composer and librettist themselves. How the television director uses the specific technical devices inherent in his artistic medium to enhance, make vivid and even clarify in cinematic and visual terms the work of the stage director is at the center of his task as a creative artist. I need not elaborate on how difficult this task is, given the costraints under which the television director in an opera house works. In the United States at least, the televions director must film his opera during an actual performance of that opera before a paying, subscription audience. This audience expects its money’s worth without interference of cameras, enhanced lighting and the other distractions of television filming. The result, quite often, is an approximation of what the television director holds as an ideal, though it should be said that, owing to the skills of those involved, more often than not that result is far better than could have been anticipated. In the current funding climate in the United States, therefore, this 57 approach to the «filmization» of opera peformances will be the one generally followed, because it is the least expensive. Unobtrusive but excellent video direction of opera performances have been accomplished many times, but I will only select, as illustration, one of the finest short examples from a master of the craft, the television director of opera Brian Large. It is the Wotan-Fricka scene in Act II of Richard Wagner’s Die Walkuere, in the landmark Patrice Chéreau staging at Bayreuth. This scene is, of course, in terms of that opera and of the cycle in general, a pivotal one, since it is the exact moment when Wotan realizes he has failed in his schemes to control events and recover the ring. Chéreau, as is well-known, has staged this scene as a domestic quarrel – very much in the manner of the bourgeois nineteenthcentury theater – but he has included one element outside the purview of the pièce bien fait. This is an import from another kind of theatrical experience entirely – an alien intrusion on the Biedermeier scene. It is a Foucault pendulum. From the beginning of the scene the pendulum is describing a large circle at stage center – the world ticking away its time. At the moment when Fricka finally, and irrevocably, gains mastery over her husband by the force and logic of her argument that pendulum ceases its activity and becomes still – indicating in a strong visual way that Wotan’s world has ceased functioning and that, in Shakespeare’s words, «time is out of joint». Now, it was Brian Large’s task to bring the essentials of this Chéreau conception to the video screen. The task was, for him, relatively easier, since he was dealing with only two people onstage, but in fact he had three «things» – two people and one pendulum. He filmed the scene so that we, the viewers, never lose entire contact with the pendulum, even if it is now and then out of visual touch. Large gives us a glimpse of it – a shadow, a frisson – but we, if only subliminally, remain aware that it is there and in motion. At the moment it slows and stops, Large makes us crucially aware – by pulling the camera back so that the three elements are lined up in front of us: Fricka, the pendulum, and Wotan – the two of them separated by the representation of the flux of historical events. Visually, we receive Chéreau’s image exactly as the Bayreuth audience did, and we feel the force of that crucial marital separation. What Brian Large has done, not only here but throughout that scene, is to transfer onto the small screen what Patrice Chéreau put onstage, and by so doing to reproduce and even reinforce the power of Chéreau’s stagecraft. Thus we today – over twenty years after that staging has become part of history – can experience it almost as did the Bayreuth audiences of the late 1970s. I must add that this situation has its negative side, for most stagings since have relied heavily in pillaging Chéreau – a sincere form of flattery maybe but short-sighted, because it does not help in rethinking what Wagner wrote, and I also believe that what Brian Large has done on video has had a lot to do with the dissemination of Chéreau’s ideas. Peter Sellars, however, does not work in this way. The American director is noted for his individualistic, highly thought-out, stagings of traditional repertory operas and of new works. His method combines close-in Personenregie – involving what could be termed an extreme veristic approach to the interaction of character and event – with a hieratic distancing, represented by the use of outsized, exaggerated hand gestures derived from the Kabuki theater of Japan, and body movements that, often, border on contortion. This combination of the immediate, the mundane, and the outré in a single directorial vision has been widely commented on, both favorably and unfavorably. It must be said, in passing, that this complex of disparate styles works better in the confines of the opera theater than it does on television, especially in Sellars’ conception of the use of television, and is often overriden 58 by the emotions inherent in his staging of the opera. The sexually charged second act of his production of Mozart’s Così fan tutte is a good example of the tension that Sellars can create in a staging, and the last half-hour of his Glyndebourne staging of Händel’s Theodora remains, for sheer visceral impact, as powerful as anything produced in opera in the last decade. But, whatever the nature of Peter Sellar’s productions onstage – and they are more varied than has been allowed – they are beside the point for our purposes here today. For when Sellars has chosen to transfer and translate his stage visions into film, he has consciously chosen not to stand back and – like Brian Large – put on video an exact a representation of what went on onstage. He has chosen to re-create the work in cinematic terms – using as basis the exact stage setting and staging. What he has therefore done is to create for television a two-layered edifice: one layer being the original and one layer the elaboration and re-thinking for television of that original. Sellars believes that this method creates a richer whole, which is in addition more responsive to the visual medium of television. I and others believe that this wilful superimposition has not only weakened the original and often destroyed what was best in that original, but has not managed to substitute anything of comparative strength or depth, so that the final video result has in fact vitiated much of what was so striking in the stage version, without a compensatory gain. The filming of an opera can proceed from a stage-wide panorama to an increasingly closer-in view, to a two-shot and then up as close as the camera dares. Sellars, when filming, is chiefly interested in close-ups – usually of faces. This, of course, gives the video a distinction from the stage performance, and all video directors take advantage of it. But Sellars carries this to an extreme, relying almost exclusively on close-ups and medium shots to tell his story visually. This immediately distorts what he has said theatrically. Sellars has an acute eye for stage space, which is evident in all the work he does in theater and a mark of his eminence, I believe, as a theater director. He knows how to use forestage and upstage, and how to use height for stage effect. In his production of Händel’s Giulio Cesare (1990), at the beginning af Act II he wishes to show the scene where Cleopatra appears as if by magic to a beddazzled Caesar – he having been prepared by ethereal strains from the nine muses. What Sellars does is to have Cleopatra appear above Caesar, dangling from a sky hook – in the theater one hears a disembodied voice from somewhere singing the opening strains of «V’adoro, pupille» – not sure where they come from– and then one sees, slowly emerging from the top of the stage, the body of Cleopatra. It is a moment of equivalent magic to the magical impact of the exquisite Handelean aria, and it never fails to have effect in the theater. However, for the film Sellars chose not to show this, but rather gave the show away early by showing Cleopatra and the sky hook, and then cross-cut from Caesar, lying dreamily on a deck chair, to Cleopatra descending, but without the power of the downward movement towards Caesar – as far as the film is concerned, they could be in different rooms! There is no feel of the stage picture (you can see it in an illustration on the recording) which clearly shows Cleopatra descending above Caesar as an orchestra plays in the background. The cross-cutting of close-ups contnues until she «lands», and then the scene (and the aria) devolves into two-shots of them. I’m going to show you just the beginning of the scene, with Cleopatra descending. (audiovisual example) Sellars has deliberately chosen to concentrate on the people rather than on the stage picture, and in the process has discarded the effect of the motion59 towards, which is integral to his setting of this scene, and has discarded the magical effect of a voice sounding and then a person appearing, which would have been more difficult to realize on film, but which could have been similarly powerful. A far more problematic transfer from stage to film, but one which again Sellars has not tried to do, is that of the «Dove sono» aria for the Countess in his production of Mozart’s Le nozze di Figaro (1991). Here there are two elements to the staging: one, a two-level set of a luxurious apartment in New York’s elegant Trump tower, and the other the time of day: growing evening. James F. Ingalls, Sellars’ brilliant lighting director, has created a sunset glow across the stage that bathes everything in autumnal light – a light exactly right for the Countess’ musings on her past but which is very difficult to reproduce with any faithfulness of color and intensity on video. The fact that the Countess sings the aria from the second level, bathed in the light, also adds to this mystery, for she is somewhat removed from the audience, partly in shadow and sorrounded by the aura of the dying day – fitting for her nostalgic memories of the «bei momenti». Yet here again Sellars chooses not to duplicate what he put onstage, but to bring the Countess closer to us. The magic of the moment is lost, and since we cannot capture the light of the stage picture we are left, simply, with a soprano singing an aria. Sellars’infatuation with closeups of people, and his reluctance to let the camera stand back and examine a complete stage picture, is crippling as well as for any part of an opera that involves more than a limited number of people. His success with Così fan tutte, and especially with its second act, is in part owing to the fact that there are so few people onstage at any one time, so that his cutting from one to another can be rather easily «read» by the viewer. The comings and goings of Act IV of Le nozze di Figaro, however, are another matter entirely. As is well known, this act is one of the most difficult to stage effectively, so that the audience can follow the ins and outs of the characters, and the changes that take place with Figaro himself. Indeed, I am convinced some stage directors keep the stage dark so as to obscure the fact that they cannot make sense of the text. Sellars, in his setting of the act, operates on two planes: a foreground and a background. In the theater, the movements behind the foreground of the various characters have a balletic urgency, while those in the foreground carry on the action or the singing of arias. In the film, however, the background becomes a blur of shapes and sounds which have little relation to what is going on in front. Sellars’ close-in camera concentrates on the principals – especially Figaro, whose anguish is well set forward – but we never feel the ensemble nature of the whole as we do in a thorough-going production of that act. The central event of the act, of course, is the realization by Count Almaviva that he has been caught in flagrante not only by his wife but by everyone. He begs forgiveness of her, in the justly celebrated «Contessa, perdono» moment. Usually, this moment in the theater is either lost or mitigated, because the staging is simply not to clear enough to distinguish between the Countess (disguised as Susanna) and Susanna (disguised as the Countess). But in the Sellars production the two are clearly distinguished by costume, so that it is impossible to confuse them. But it is not this that makes the climactic moment of the act so effective on stage. Sellars operates in the foreground, near the footlights. At the moment when the Count is berating the woman he believes to be his wife for traducing him with Figaro, the Countess, dressed as Susanna, begins to cross the stage from stage left (the audience’s right) toward him. As she is the only one moving across the stage our eyes are inevitably on her. She arrives at where the 60 Count is standing just in time with the music: he turns, sees her and realizes his grievous mistake. It is a crucial musico-dramatic moment, and one entirely reinforced by the staging. That «cross», as it is called, intensifies the emotion – the audience’s anticipation is increased to the exact instant when Almaviva turns and sees his wife. Mozart and Da Ponte’s creation, then, is enhanced by the staging – enhanced and clarified – so that we in the audience share the emotions of the characters onstage. When Sellars came to the filming of this moment, however, he made it far less powerful. Since he was working closeup, without the distance required for a full shot of the stage, he could not show the Countess moving slowly toward Almaviva. He cross-cut between Almaviva and the Countess, giving the impression of movement without its actuality. This lowers the intensity of the meeting, and flattens it out. The moment remains to an extent powerful, but the power derives mainly from the musical modulation, and not from the combination of staging drama and music. (audiovisual example) As has been said, Sellars’ basic technique of wholesale reliance on closeups for television runs into the most problems when the stage is densely populated. His staging of the final scene of the first act of Don Giovanni is a case in point. The physical limitations of the stage in Purchase, New York – where this production was originally performed – precluded the placement of the three onstage orchestras, which necessarily diminished the musical impact of the scene. But, beyond the music, Sellars’ camera moves into the scene, so that we get only cursory glimpses of anyone but the principals. There is an impression – correct – of bodies and people and activity, but Sellars is more anxious for us to keep our eyes on Giovanni and Zerlina, or on the masked trio (here without masks), so that the other revelers become almost offstage presences – heard but barely seen. In keeping with this focus on principals, Sellars keeps his camera on Giovanni (Eugene Perry), and has the stage emptied except for him at the end of the act. This has the advantage of allowing the audience to focus on the chief character of the drama, but the audience in the opera house has had the experience of seeing a stageful of people and then a stage empty except for one person: the television audience sees a confusion of people and then one. I have spoken to Sellars about this dichotomy between what he has put onstage for an audience and what he has given his television audience. He allows that the television experience will not be as strong for the people who have seen the opera house production, but that it will not matter to those who see the television production only. This, of course, carries an element of truth, and it does satisfy the idea of having the cake of the original stage production and eating it too by filming it in a way that is more responsive to the demands of television. But it is impossible not to feel that more than a little has been lost by this decision. To the extent that we are not given a «clean», objective look at what Peter Sellars put onstage we are being given a falsified picture; to the extent that we are not being given a «clean», made-for-television look at Peter Sellars’s view of an opera we are being given a falsified picture. What he has attempted to do is, I believe, too much – a double layer of forceful input when one layer would have been more powerful. The videos that Peter Sellars directed have become – and will remain – the only documents we have of his important productions for the stage. But – to a greater extent than most television realizations of operatic works – they are distanced from the originals, and burdened with a point of view that is at odds with what was originally done. 61 One can understand what Chéreau was trying to do, and what Chéreau accomplished in fact through Brian Large’s films of Chéreau’s Ring Cycle at Bayreuth. We can only see through the glass darkly when viewing Peter Sellars’ own retellings of his stage productions for television. Il problema del duplice approccio alla regia d’opera in televisione [L’opera in video è una forma d’arte specialistica che differisce sia da una vera e propria rappresentazione dal vivo in un teatro d’opera, sia da un’incisione audio fatta in sala di registrazione e finalizzata alla produzione di un disco. Vi sono, molto genericamente, due tipi di opera in video: il primo viene realizzato espressamente per la fruizione visiva al cinema o in televisione; il secondo comprende le opere filmate in teatro, ovvero laddove una produzione viene ripresa durante la sua rappresentazione dal vivo di fronte a un pubblico. Quest’ultimo tipo, di gran lunga più diffuso, può a sua volta essere suddiviso in varie sottocategorie, tra le quali vi sono il riadattamento della produzione per la telecamera oppure la ripresa di un’opera eseguita sul palcoscenico in assenza di spettatori, ma in entrambi i casi il significato di questo tipo di lavoro è di mostrare la produzione che il regista teatrale intendeva venisse vista dal pubblico. Mi propongo di parlarvi del secondo tipo – la ripresa visiva di una produzione operistica – in relazione al lavoro del regista Peter Sellars. In alcuni casi egli ha fatto riprese in studio, tuttavia i suoi film rispecchiano e riproducono esattamente l’allestimento scenico proposto al pubblico teatrale. Il compito del regista televisivo, nel riprendere una produzione teatrale già esistente, è estremamente complesso, come tutti ben sapete. L’obiettivo è quello di comunicare il più accuratamente possibile allo spettatore ciò che il regista teatrale ha messo in scena, senza alcuna interferenza né in termini di linguaggio televisivo né di personalità del regista televisivo. Tale atteggiamento può essere visto come la «neutralizzazione» del regista televisivo rispetto al regista teatrale ma, di fatto, ciò che viene chiamato in causa è il suo migliore e più spiccato talento: quello di comportarsi come una sorta di passaggio attraverso cui permettere all’evento scenico di diventare un evento televisivo. Nella misura in cui il regista televisivo sovrappone il proprio modo di vedere a quello del regista teatrale, egli indebolisce e falsifica il lavoro dell’altro; nella misura in cui si allontata consapevolmente dal ritrarre ciò che il regista teatrale ha reso, il regista televisivo non solo aggiunge, sovrapponendole, le proprie idee al lavoro ma può addirittura oscurare quelle originarie a discapito del risultato filmico finale. In tal modo l’originale viene compromesso, così come possono esserlo il lavoro di compositore e librettista. I modi in cui il regista televisivo utilizza gli specifici accorgimenti tecnici inerenti il suo medium artistico, al fine di rendere vivo e chiarire – in termini cinematografici e visivi – il lavoro del regista teatrale, sono al centro del suo compito di artista creativo. È superfluo dilungarsi sulla difficoltà di tale compito, date le restrizione imposte ai registi televisivi nei teatri d’opera. Negli Stati Uniti i registi televisivi sono costretti a filmare durante lo svolgimento dello spettacolo, di fronte a un pubblico abbonato e pagante. Tale pubblico pretende di vedere ciò per cui ha pagato, ovvero un’opera senza l’interferenza di telecamere, illuminazioni particolari e altre distrazioni dovute alla ripresa televisiva. Molto spesso il risultato è soltanto un’approssimazione dell’ideale verso cui tende il regista televisivo, anche se bisogna riconoscere che, grazie all’abilità delle troupe, il risultato è spesso molto migliore di quel che ci si potesse 62 aspettare. Vista l’attuale politica dei finanziamenti negli Stati Uniti, tale approccio alla ripresa visiva di rappresentazioni operistiche è il più diffuso poiché è il meno costoso. Ci sono molti esempi di eccellente regia televisiva di rappresentazioni operistiche ma per illustrare la mia affermazione ho scelto uno dei migliori esempi brevi, realizzato da quel maestro di quest’arte che è il regista Brian Large. Si tratta della scena tra Wotan e Fricka nell’atto II di Die Walküre di Richard Wagner, nell’epocale allestimento di Patrice Chéreau a Bayreuth. Si tratta, evidentemente, di una scena decisiva sia all’interno dell’opera sia nell’economia generale della tetralogia: è il preciso istante in cui Wotan si rende conto che i suoi stratagemmi per controllare gli eventi e recuperare l’anello sono falliti. Chéreau, come tutti sanno, ha interpretato la scena come una lite domestica – nello stile del teatro borghese ottocentesco – inserendo, tuttavia, un elemento estraneo alla sfera della pièce bien fait, un elemento importato da un altro genere di esperienza teatrale, un’intrusione aliena nella scena in stile Biedermeier. Si tratta di un pendolo di Foucault, che sin dall’inizio della scena stessa descrive un ampio cerchio al centro del palcoscenico, un simbolo dello scorrere del tempo. Nel preciso istante in cui Fricka finalmente, e irrevocabilmente, prende il sopravvento su suo marito in virtù della forza logica delle sue argomentazioni, il pendolo cessa di funzionare e si ferma, come una potente rappresentazione visiva del fatto che il mondo di Wotan ha cessato di funzionare e che, per dirla con Shakespeare «il tempo si è scardinato» [Amleto, Atto I, Scena V, N.d.T.]. Brian Large doveva quindi riuscire a portare sullo schermo l’essenza del pensiero di Chéreau, un compito relativamente semplice poiché i personaggi in scena erano soltanto due; tuttavia erano tre le «cose» con cui doveva fare i conti: due persone e un pendolo. Ha ripreso la scena in modo che noi spettatori non perdessimo mai di vista il pendolo. Sebbene a tratti non sia visibile, Large ce ne fa intravedere l’ombra in modo tale che noi, sia pure in maniera subliminale, siamo costantemente consapevoli della sua presenza e del suo moto. Nel momento in cui rallenta e si ferma, Large allarga l’inquadratura in modo tale che i tre elementi si trovino allineati dinanzi a noi: Fricka, il pendolo e Wotan. I coniugi sono divisi dall’incarnazione del flusso degli avvenimenti storici. L’impatto visivo con l’immagine voluta da Chéreau è esattamente quello percepito dal pubblico di Bayreuth, e siamo in grado di capire la forza della cruciale separazione fra i due. Brian Large è riuscito, non soltanto in questa inquadratura ma lungo tutta la scena, a trasferire sul piccolo schermo ciò che Patrice Chéreau aveva reso sul palcoscenico e, così facendo, ha riprodotto e persino rafforzato la potenza delle immagini di Chéreau. In tal modo oggi noi – più di vent’anni dopo che quella regia è entrata a far parte della storia – possiamo provare quasi la stessa esperienza del pubblico di Bayreuth alla fine degli anni Settanta. Bisogna aggiungere che questo precedente ha avuto anche esiti negativi, poiché da allora la maggior parte dei registi ha saccheggiato le idee di Chéreau: un comportamento sinceramente lusinghiero, forse, ma sicuramente assai miope poiché non contribuisce a una riflessione sull’opera wagneriana. Credo inoltre che il lavoro di Brian Large abbia contribuito alla diffusione del pensiero di Chéreau. Peter Sellars, in ogni caso, non lavora in questo modo; il regista statunitense è infatti noto per i suoi allestimenti estremamente personali e cerebrali sia del repertorio tradizionale sia dei nuovi lavori. Il suo metodo consiste in una combinazione di Personenregie (un approccio che potremmo definire «verista» quanto a interazione emotiva fra personaggio ed evento) e distacco ieratico, ottenuto mediante l’utilizzo di una gestualità manuale esagerata e fuori 63 misura, derivata dal teatro Kabuki giapponese nonché da movimenti corporei che spesso sconfinano nel contorsionismo. Una simile commistione di immediatezza, mondanità ed eccesso in un’unica concezione registica ha suscitato molti commenti favorevoli e non. Bisogna riconoscere che tale conglomerato di stili disparati funziona meglio nel chiuso del teatro d’opera che in televisione, specie nella concezione che ha Sellars dell’uso del mezzo, spesso sopraffatta dalle emozioni insite nel suo allestimento dell’opera. L’atto II della sua produzione di Così fan tutte di Mozart, fortemente carico di sensualità, è un buon esempio della tensione che Sellars riesce a conferire a una scena, e l’ultima mezz’ora dell’allestimento della Theodora di Händel a Glyndebourne rimane, quanto a mero impatto viscerale, una delle produzioni più potenti che si siano viste nell’ultimo decennio. Quale che sia la natura delle produzioni sceniche di Sellars – ed esse sono più varie di quanto si pensi –, non costituiscono tuttavia l’oggetto dell’odierna discussione, poiché quando Sellars ha deciso di trasferire e tradurre le sue visioni teatrali su pellicola, egli ha consapevolmente scelto di non farsi da parte per portare in video una rappresentazione il più possibile fedele di ciò che era avvenuto sulla scena, alla maniera di Brian Large, ma ha preferito ricreare il lavoro in termini cinematografici, utilizzando come punto di partenza scenografia e allestimento teatrali. Ciò che ha fatto, pertanto, è di creare per la televisione un edificio a due piani in cui un piano è l’originale teatrale e l’altro la rielaborazione televisiva di quello stesso originale. Sellars è convinto che tale metodo crei un insieme più ricco e che sia anche più rispondente al mezzo televisivo. Io e altri sosteniamo che tale sovrapposizione forzata non solo indebolisca l’originale, spesso distruggendone alcuni degli aspetti migliori, ma che non riesca a rimpiazzarlo con alcunché di paragonabile quanto a impatto e spessore, tanto che il risultato finale in video spesso di fatto invalida molti aspetti di spicco della versione scenica senza offrire alcuna compensazione. Nel filmare un’opera si può passare dalla panoramica a una ripresa sempre più ravvicinata fino ad arrivare al primo piano. Nelle sue riprese, l’interesse di Sellars è rivolto soprattutto ai primi piani, solitamente dei volti. In ciò, naturalmente, i video si distinguono dalle rappresentazioni teatrali, e tutti i registi televisivi ne traggono profitto. Sellars, tuttavia, porta tale tecnica alle estreme conseguenze, affidando quasi esclusivamente al primo piano e al mezzobusto il compito di narrare la storia visivamente. E ciò basta a distorcere ciò che egli aveva proposto nell’allestimento teatrale. Sellars ha molto occhio per lo spazio scenico, tratto che si evidenzia in tutto il suo lavoro teatrale e che costituisce uno dei suoi punti di forza come regista teatrale. Egli conosce tutti i segreti dell’uso della scena per trarne gli effetti che desidera. Nell’allestimento del Giulio Cesare di Händel (1990), all’inizio dell’atto II egli vuole mostrare la scena in cui Cleopatra compare come per incanto di fronte a un Cesare abbagliato, dopo essere stato preparato dagli accordi eterei delle nove muse. Sellars fa comparire Cleopatra sopra la testa di Cesare, appesa a un gancio: a teatro si ode una voce incorporea che, da un luogo imprecisato, intona l’incipit di «V’adoro, pupille», e poi si vede il corpo di Cleopatra scendere lentamente dall’alto del palco. L’impatto è di una magia pari a quella della superba aria haendeliana, e fa sempre un grande effetto in teatro. Nella versione cinematografica, tuttavia, Sellars ha scelto di rivelare il segreto in anticipo, mostrando Cleopatra e il gancio, quindi Cesare su una sdraio con l’aria trasognata e, infine, nuovamente Cleopatra che scende. Nella versione cinematografica, i due potrebbero trovarsi in stanze diverse, poiché viene annullato il movimento discendente dell’una verso l’altro. Manca com64 pletamente il senso dell’immagine proposta dalla scena (una foto si trova all’interno del cofanetto di CD), che mostra Cleopatra sospesa sopra la testa di Cesare mentre l’orchestra suona in sottofondo. La telecamera, invece, prosegue nel gioco dei primi piani fino all’«atterraggio» di lei, dopodiché la scena (e l’aria) li coinvolge entrambi. Vi mostrerò soltanto l’inizio della scena, con la discesa di Cleopatra. (esempio audiovisivo) Sellars ha scelto di concentrarsi sulle persone e non sull’immagine nel suo complesso; così facendo ha scartato l’effetto di direzionalità insito nell’allestimento teatrale della scena e ha rinunciato anche alla magia data dal suono di una voce immateriale seguita dall’apparizione della cantante, che forse avrebbe presentato delle difficoltà di realizzazione su pellicola ma che, tuttavia, avrebbe potuto essere di grande effetto. Un caso ben più problematico di passaggio dalla scena alla pellicola – cui Sellars ha peraltro rinunciato ancora una volta – è quello dell’aria «Dove sono» nell’allestimento delle Nozze di Figaro di Mozart (1991). In questo caso la scenografia propone due elementi: il primo è un lussuoso appartamento su due livelli nell’elegante Trump Tower di New York, il secondo l’ora del giorno, il tramonto. James F. Ingalls, brillante direttore delle luci che collabora con Sellars, ha creato un raggio dorato che pervade tutto di una luce autunnale che si attaglia perfettamente alle reminiscenze del passato da parte della Contessa, ma che è assai difficile riprodurre su video rispettandone colori e intensità. Il fatto che la Contessa canti l’aria dal livello superiore, bagnata dalla luce, ne accresce il mistero perché appare distante dal pubblico immerso nell’oscurità che sembra circondarla come l’aura del giorno morente, in tono con le sue reminiscenze nostalgiche dei «bei momenti». Eppure, anche in questo caso Sellars preferisce non riprodurre ciò che ha concepito per la scena, ma ci mostra la Contessa più da vicino. L’incanto del momento si perde e, in mancanza di effetti di luce e immagine di scena, non ci resta altro che un soprano che canta un’aria. La passione di Sellars per i primi piani, nonché la sua ritrosia a far indietreggiare la telecamera per esaminare l’effetto della scena nel suo complesso, risulta problematica anche per quelle parti delle opere in cui siano presenti diversi personaggi. Il successo del suo Così fan tutte, e in particolare del II atto, è in parte dovuto al fatto che vi sono pochi personaggi in scena contemporaneamente, quindi i tagli dall’uno all’altro possono essere facilmente compresi dagli spettatori. L’andirivieni del IV atto delle Nozze di Figaro, invece, è tutt’altra faccenda. Com’è noto, si tratta di un atto fra i più difficili da mettere in scena con efficacia, di modo da permettere al pubblico di seguire le entrate e le uscite dei personaggi nonché i cambiamenti subiti dallo stesso Figaro. In effetti, sono convinto che alcuni registi optino per un palcoscenico quasi buio in modo da celare il fatto che essi stessi non riescono a venire a capo del testo. Nell’allestire il IV atto, Sellars opera su due livelli, il primo piano e lo sfondo. Nella rappresentazione teatrale i movimenti dei personaggi in secondo piano sono carichi di tensione coreutica mentre quelli in primo piano portano avanti l’azione o intonano arie. Nel film, tuttavia, lo «sfondo» appare come una massa indistinta di forme e suoni senza alcun rapporto con ciò che avviene in primo piano. La telecamera ravvicinata di Sellars si concentra sui protagonisti – specie Figaro, la cui angoscia viene messa bene in evidenza – ma non si ha mai la percezione dell’insieme che emerge dalla rappresentazione teatrale. Naturalmente il momento clou dell’atto è quello in cui il Conte di Almaviva capisce di essere stato colto in flagrante non soltanto da sua moglie ma da tutti. 65 Le chiede perdono intonando «Contessa, perdono», aria che gode di una giustificata celebrità. Solitamente in teatro questo momento viene perso o mitigato perché la regia non riesce a chiarire chi sia la Contessa (travestita da Susanna) e chi Susanna (travestita da Contessa). Nella produzione di Sellars le due sono ben riconoscibili dal costume, quindi diventa impossibile confonderle. Ma non è questo a rendere efficace il momento clou a teatro. Sellars si concentra sul boccascena, vicino alle luci. Nel momento in cui il Conte rimprovera la donna, che crede essere sua moglie, per averlo tradito con Figaro, la Contessa (travestita da Susanna) comincia ad attraversare il palcoscenico da sinistra (destra per gli spettatori) verso di lui. Trattandosi dell’unico personaggio in movimento sulla scena, il nostro sguardo ne è inevitabilmente attratto. Ella giunge al cospetto del Conte in perfetta sincronia con la musica: egli si volta, la vede e comprende l’increscioso equivoco. Si tratta di un momento di grande rilevanza musicale e drammaturgica, che viene ben sottolineato nell’allestimento teatrale. L’«attraversamento» del palco intensifica l’emozione, poiché il pubblico pregusta il preciso istante in cui Almaviva si volta e vede sua moglie. L’idea di Mozart e Da Ponte viene dunque esaltata dalla rappresentazione scenica – esaltata e chiarita – in modo che gli spettatori condividano le emozioni dei personaggi. Quando Sellars riprese questa scena la rese molto meno efficace poiché, lavorando con i soli primi piani e senza la distanza necessaria per mostrare l’intero palcoscenico, non poté far vedere il lento incedere della Contessa verso Almaviva. Mediante il montaggio incrociato fra Almaviva e la Contessa si ottiene l’effetto del movimento senza averlo di fatto visto. L’intensità del momento dell’incontro diminuisce e viene di fatto appiattita. La potenza espressiva che vi permane è data soprattutto dalla musica, non dall’unione di dramma scenico e musica. (esempio audiovisivo) Come è già stato detto, l’uso incondizionato che Sellars fa dei primi piani crea maggiori problemi nei casi in cui il palcoscenico è densamente popolato. Il suo allestimento della scena finale dell’atto I del Don Giovanni è un esempio pertinente. I limiti fisici imposti dal palcoscenico di Purchase, New York (dove la produzione è andata in scena), escludevano la possibilità di mettere tre orchestre sulla scena, determinando un impoverimento dell’impatto musicale. Ma, al di là della musica, la macchina da presa di Sellars si concentra sui particolari in modo da farci soltanto intravvedere i personaggi secondari. Si ha l’impressione – senz’altro corretta – di corpi, persone e movimenti ma a Sellars preme che lo sguardo resti incollato su Don Giovanni e Zerlina, oppure sul terzetto mascherato (senza le maschere in questo caso), in modo che gli altri invitati diventino presenze di sfondo, udibili ma quasi invisibili. Coerente col suo interesse per i protagonisti, Sellars inquadra soprattutto Don Giovanni (Eugene Perry) e lo fa rimanere solo sulla scena al termine dell’atto, permettendo agli spettatori di concentrarsi sul personaggio principale del dramma. D’altra parte, gli spettatori presenti alla rappresentazione teatrale hanno visto svuotarsi un palcoscenico pieno di persone, mentre il pubblico televisivo vede un guazzabuglio di gente e poi una persona sola. Ho chiesto a Sellars le ragioni della dicotomia fra ciò che mette in scena per gli spettatori teatrali e ciò che mostra al pubblico televisivo. Ha ammesso che l’esperienza televisiva non avrà lo stesso impatto per quelli che abbiano già visto l’opera in teatro, ma che non avrà importanza per quelli che vedano soltanto la versione televisiva. Naturalmente, c’è del vero in questa affermazione, e soddisfa l’esigenza di avere «la botte piena» dell’allestimento teatrale e «la moglie ubriaca» di una ripresa che sia più confacente al mezzo televisivo. 66 È tuttavia impossibile non avvertire che tale decisione abbia dei risvolti negativi. Nella misura in cui ci viene negata la possibilità di vedere, obiettivamente e senza mediazioni, ciò che Peter Sellars ha messo in scena, ci viene mostrata un’immagine falsa; nella misura in cui ci viene negata una versione televisiva ad hoc, ci viene mostrata un’immagine falsa. Ciò che ha tentato di ottenere è, a mio avviso, troppo: un doppio strato di forti stimoli laddove ne sarebbe bastato uno. I video diretti da Peter Sellars sono – e restano – gli unici documenti che abbiamo dei suoi importanti lavori teatrali. Ma essi sono distanti dagli originali teatrali in misura maggiore rispetto ad altre realizzazioni televisive di opere, e sono gravati dall’aver voluto proporre un punto di vista che contrasta con quello originario. Ciò che Chéreau voleva ottenere, e che ha di fatto ottenuto, risulta comprensibile anche grazie ai film della tetralogia wagneriana di Bayreuth girati da Brian Large. Quando Peter Sellars ripropone le proprie produzioni teatrali in video, siamo appena in grado di intuirne le intenzioni originarie.] ILIO CATANI Ringrazio il signor Smith per il suo intervento che aggiunge ulteriori elementi alle nostre considerazioni, poiché ha messo in evidenza l’importanza dell’elemento soggettivo della ripresa in video. Finora abbiamo infatti discusso senza affrontare il problema proprio dal punto di vista soggettivo del regista, e il caso di Sellars è a questo riguardo emblematico. Sono appena passate le ore 16.00. Se siete d’accordo facciamo una brevissima pausa per riprendere subito dopo i nostri lavori con l’intervento di Sergio Segalini. Seguirà la discussione fino al termine della sessione odierna. (pausa caffè) Invito Sergio Segalini al microfono per la sua relazione «Opera e video: il rêve impossibile». 67 SERGIO SEGALINI Opera e video. Il rêve impossibile Stiamo discutendo da un giorno e mezzo e tutto quello che si è detto sin qui è stato ovviamente interessantissimo. Provo un certo imbarazzo di fronte a voi nel continuare questo discorso ma vorrei riproporre la tematica del nostro incontro che riguarda appunto i problemi teatrali e i problemi musicali nella proposta in video del mondo dell’opera. Premetto che sono sostanzialmente uno spettatore dell’opera ma in realtà sono anche produttore di opere. Da sei anni, infatti, dirigo il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca e produco opere solo in quanto direttore artistico: non le dirigo, non faccio regia teatrale né televisiva. Da spettatore, dunque, ho sempre notato una sorta di cassure [frattura, N.d.R.] fra la teatralità che esige la camera e la non teatralità del mondo dell’opera, soprattutto per quel che riguarda l’opera dell’Ottocento che, in fin dei conti, è quella più amata: pensiamo alle opere serie di Rossini, alle opere serie di Donizetti, a tutto Verdi e al primo Puccini. A mio parere, l’Ottocento attraversa un periodo di non teatralità, succedendo al Settecento che è stato, al contrario, un secolo in cui la teatralità era un elemento essenziale del mondo dell’opera, un elemento che tuttavia contrasta stranamente con i mezzi della camera televisiva o cinematografica. Abbiamo visto tanti documenti, tutti bellissimi e tutti eccitantissimi, sebbene di alcuni avremmo voluto vedere di più. Siamo addirittura partiti da Geraldine Farrar, che nel cinema muto finge di fare la Carmen di Bizet. Finge per forza di cose: è muta! Attraversato tutto il secolo, siamo poi arrivati alle notevolissime ultime edizioni di Peter Sellars, regista americano. Anch’egli finge di fare l’opera perché produce un tipo d’opera senza utilizzare cantanti d’opera. Le edizioni di Sellars, che sono un miracolo di intelligenza, non sono un miracolo di musicalità e risultano improponibili dal punto di vista musicale. Si arriva, quindi, a un discorso traviato che nasce evidentemente dal cinema: siamo partiti dalla Carmen della Farrar per arrivare a Sellars, il quale fa opera come Karajan; ma se l’opera di Karajan è un fiasco totale, perché i suoi film sono l’esempio assoluto di quello che non si può fare nel mondo dell’opera, Sellars dimostra invece che la regia dell’opera esiste anche per la camera. Entrambi, tuttavia, partono dallo spettacolo scenico. Karajan realizza il film e produce anche l’opera in scena ma coloro che hanno ascoltato, per esempio, L’oro del Reno in disco (ammirevole, fantastico dal punto di vista musicale) oppure a Salisburgo circa vent’anni fa saranno scioccati dalla sua ripresa visiva, dove Karajan chiede al cantante cose che il cantante non può fare. Vorrei cominciare dagli anni Cinquanta, gli anni in cui sono cresciuto musicalmente. Mi accorgo che laddove la televisione e il cinema si occupano di opera si parte dall’attore. Perché abbiamo tante edizioni cinematografiche con Tito Gobbi? Semplicemente perché questi è stato un grandissimo attore. Se oggi analizziamo il canto di Tito Gobbi dobbiamo purtroppo concludere che come cantante non è poi un granché; è un cantante che noi definiremmo «becero» ma è un attore fantastico! Evidentemente erano tempi in cui la nozione di canto non era molto precisa, non si faceva differenza tra il Verismo, il bel canto, il Barocco, e tutto era molto confuso. Negli anni Cinquanta il canto di Gobbi non dava fastidio come dà fastidio oggi, e tuttavia risulta evidente che si scelse Gobbi perché era un attore. Se però accanto a lui per cantare la Gilda c’era Lina Pagliughi, questa non andava davanti alla telecamera ma era sostituita da un’altra cantante: nei Pagliacci, per esempio, è Gina Lollobrigida che 68 fa il ruolo di Nedda; e nell’Aida la Tebaldi, pur essendo una bella donna, è sostituita da Sophia Loren per rendere l’opera estremamente credibile. Penso che quando il cinema e la televisione hanno cominciato a interessanti al mondo dell’opera abbiano cercato di rendere l’opera «credibile». Sono gli anni Cinquanta, gli anni in cui la Callas dimagrisce per fare della Traviata un personaggio credibile anche dal punto di vista della scena e abbiamo perso, per esempio con La traviata nell’edizione Visconti-Callas, forse uno dei più grandi filmopera che si sarebbe potuto realizzare all’epoca. Se infatti guardiamo le fotografie di questa famosa Traviata, che io vidi da bambino, capiamo fino a che punto Visconti facesse cinema; ma lo faceva adattandolo a al pubblico della Scala, ragione per la quale, quando è calato il sipario alla fine dell’ultimo atto, ci sono stati fischi, proprio perché risultava incomprensibile come in quella regia ci fossero particolari cinematografici: Traviata nel secondo atto arrivava con l’ombrellino, mentre Alfredo arrivava col fucile da caccia e lo «sbatteva» su un divano; idea che Giorgio Strehler riprese nelle famose Nozze di Figaro di Parigi nel 1973, realizzate per il teatro di Versailles, in cui nel secondo atto il Conte andava nella camera della Contessa e «sbatteva» il fucile sul letto. Voglio dire che, partendo da un’idea essenzialmente teatrale, si giunge a un periodo, gli anni Cinquanta, in cui si vuole dare al pubblico una visione dell’opera quanto più vicina possibile al mondo del cinema o della commedia televisiva; e si fa il cinema perché si pensa che queste produzioni non siano destinate alla televisione ma alle sale cinematografiche. Successivamente sono diventate documenti televisivi ma il Rigoletto di Tito Gobbi ha avuto diffusione nelle sale cinematografiche, perché il pubblico che andava al cinema andava anche al teatro d’opera. Come sapete, i due sistemi (quello del cinema e quello del teatro) sono completamente diversi. Come spettatore di teatro d’opera, mi infastidisce molto e penso si tradisca il mondo dell’opera se si chiede a un cantante di mimare il canto. L’opera è falsa di per sé perché è un’espressione falsa: non bisogna esprimersi con le parole ma con il canto, e il canto non stabilisce un rapporto diretto con la persona che si ha di fronte. Se a questa falsità si aggiunge una seconda falsità, quella cioè di far mimare la parte, si arriva all’assurdo: il cantante deve rifiutare di essere cantante per far finta di essere attore e copiare l’attore. Questo è quanto di più assurdo ci sia, perché il cantante d’opera non è un attore per la telecamera, a parte qualche rarissima eccezione; e a questo nonattore, che deve solo e che sa solo cantare, si chiede di recitare, di far finta di recitare! I problemi del cinema d’opera dovrebbero essere accantonati una volta per tutte e sono molto deluso di sapere che i francesi, dopo diversi tentativi quali il Don Giovanni di Losey, la Carmen di Rosi, il Boris Godunov di Ruggero Raimondi, La traviata con Teresa Stratas e Plácido Domingo, e addirittura un Parsifal che uscì sugli schermi di Parigi e vi rimase una settimana (chi può andare a vedere un Parsifal in una sala cinematografica?), stanno lanciando un nuovo film che è la Tosca con Ruggero Raimondi, protagonista di tutte queste opere, e con la coppia attualmente più fotografata, Roberto Alagna e Angela Gheorghiu. Ora, riferendomi sempre a questa tematica, mi domando perché si debba aggiungere qualcosa di cui non vi è alcun bisogno e che non risolve assolutamente nessuno dei nostri attuali problemi. Il lavoro che bisogna fare quando si allestisce uno spettacolo è rispettare quella che è l’opera. L’opera non è una cosa da trasformare in film. Dell’opera si fa un film. Per esempio, è positivo che alcuni teatri producano quasi regolarmente i loro spettacoli, come Glyndebourne, che ogni anno sforna per l’anno successivo quattro o cinque video che sono testimonianza delle manifestazioni. Stessa cosa ha fatto l’Opéra di Lione, che è diventata produttrice dei video che pubblicava. Anche La Scala aveva cominciato a fare queste operazioni con I vespri siciliani, Guglielmo Tell, Così fan tutte, La fanciulla del West, La donna del lago. Come già è stato 69 detto, molto spesso queste produzioni sono realizzate, come nel caso di Lione, in assenza di pubblico. In questo modo si raggiunge un livello tecnico superiore e una precisione musicale più elevati ma, in special modo, non abbiamo la falsità del discorso cinematografico, in cui si deve far cantare la Tosca alla signora Gheorghiu, la quale non sa cantarla ma finge di saperlo fare perché si ha bisogno di una bella donna e, soprattutto, della moglie del signor Alagna. A mio parere, se il mondo dell’opera deve trovare un’identità attraverso il video, il cinema, insomma attraverso tutto ciò che è immagine, esso può trovarla solo attraverso un discorso di verità. È stato molto interessante l’intervento del nostro amico veneziano [Gianni Di Capua, N.d.R.] su Guerra e Pace di Prokof’ev a Spoleto, perché in quel caso si è lavorato a partire da un vero allestimento teatrale prodotto da un festival e, su quella produzione, il cameraman o il regista televisivo ha creato uno spettacolo che può aspirare ad avvicinarsi il più possibile allo spettatore della televisione. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che lo spettatore televisivo non è come noi, che siamo amatori del genere, che amiamo l’opera, che ne godiamo; egli non può entrare in uno schema che non è il suo e, se si continuano a produrre falsità, arriverà il momento in cui le televisioni si disinteresseranno completamente del mondo e dei temi dell’opera. La televisione, così come il cinema, è l’arte del XX secolo, e questo mi sembra così chiaro da accorgermi, attraverso il repertorio pubblicato in video o registrato da trasmissioni televisive in Europa, che nonostante tutto è proprio il XX secolo che trova le sue più belle realizzazioni. Al contrario, la produzione di spettacoli pre-teatrali per alcuni teatri (come l’Aida dell’Arena di Verona di quest’estate, trasmessa in televisione nell’allestimento di Pierluigi Pizzi) è sbagliata: non soddisfa me che conosco Verona e conosco l’Aida ma non riesco a capire bene quello che succede; e non soddisfa neanche chi nell’Aida vuole vedere il grande spettacolo che la televisione non può dare. Abbiamo parlato del problema degli insieme e di come la televisione restituisca il finale del primo atto del Barbiere di Siviglia: a mio parere Jean-Pierre Ponnelle ha fatto un completo disastro. Analogamente, per la RAI è impossibile filmare Il viaggio a Reims di Pesaro del 1984, in cui ci sono contemporaneamente l’arrivo del Re di Francia e la scena all’esterno. Credo sia necessario fare uno studio sul massimo di verità, in modo da ottenere un risultato che soddisfi quanti hanno visto lo spettacolo che, in tal modo, diventa un bellissimo ricordo (sebbene per me quel Viaggio a Reims non sia un bellissimo ricordo ma un vero orrore!) e nello stesso tempo soddisfi quanti non l’hanno visto, in modo che possano dire che Il viaggio a Reims è un capolavoro. Ho notato che sono le opere del XX secolo ad adattarsi alle tematiche televisive, e questo non avviene per caso. Arrivo direttamente dal Brasile, quindi non ho potuto portare i video che avevo a casa, ma riporto comunque qualche esempio. Alcune settimane fa ho rivisto il film della Medium che Menotti aveva realizzato nel 1950 e che è stato nuovamente diffuso dalla americana VAI. Fu girato in Italia per la televisione americana. Non so se la RAI lo abbia trasmesso o meno, sicuramente non lo ha fatto di recente. Questa edizione della Medium dimostra fino a che punto Menotti abbia compreso il discorso televisivo. Non a caso, negli Stati Uniti, Amahl e gli ospiti notturni di Menotti viene trasmesso ogni anno durante le feste natalizie, perché è proprio il tipo di spettacolo che può essere visto in teatro ma che è godibilissimo anche in televisione, visto che, componendo l’opera, Menotti aveva già pensato alla televisione. Anche l’opera Susannah di Carlisle Floyd è un prodotto ideale per la televisione, come lo è la Lulu di Patrice Chéreau a Parigi nel 1979: chi ne abbia visto la regia televisiva ha assistito a un’opera che era allo stesso tempo una commedia e un film. Il film è stato poi nascosto perché in Francia vi sono tremendi problemi con i sindacati e, infatti, non esiste sul mercato nessun prodotto dell’Opéra di Parigi, con la sola eccezione di una Tosca 70 diretta da Seiji Ozawa con Kiri Te Kanawa e Luciano Pavarotti, sparita anch’essa per problemi di diritti d’autore ecc. Quando Chéreau manda la Lulu in televisione usa degli accorgimenti speciali per adattarla quanto più possibile al mezzo: non solo ho assistito a uno spettacolo d’opera tra i più belli che abbia mai visto ma ho assistito anche a uno fra i prodotti televisivi più fantastici che si possano immaginare. Credo che un regista, come Chéreau o come Visconti, conoscendo a perfezione la differenza fra la tecnica necessaria al cantante per recitare e quella necessaria per cantare in scena, debba tenerne conto quando lo spettacolo è destinato alla messa in onda. Quante volte, da spettatore, mi sono arrabbiato perché il giorno della prima non era possibile assistere allo spettacolo così come era stato concepito perché la ripresa televisiva aveva richiesto un cambiamento delle luci! Da spettatore ero costretto a vedere un prodotto che era falso per me e che sarebbe stato ulteriormente falso per lo spettatore televisivo. Per continuare il discorso sul XX secolo, un’opera come la Fedora di Umberto Giordano ha ispirato un film. È un tipico esempio di compositori che non pensavano certo alla televisione, anche per ovvie ragioni cronologiche, e che forse non pensavano neanche al cinema sebbene già esistesse. Essi vivevano artisticamente in un mondo che aveva già preso conoscenza delle nuove tecniche. Altri esempi. Glyndebourne e il Covent Garden hanno pubblicato il ciclo quasi completo delle opere di Britten. Vi consiglio di dare un’occhiata a questi video, che sono in vendita, perché opere come Billy Budd, Peter Grimes, Gloriana, The Turn of the Screw e così via sembrano fatte per un cameraman: messe in scena, possono essere viste in televisione con altrettanto piacere se il regista sa che il suo spettacolo sarà un giorno diffuso anche su questo mezzo. Lo stesso si può dire di un’opera come Pelléas et Mélisande di Claude Debussy del 1902. Luisa, che apre il XX secolo con Tosca, è una delle prime opere che interessano il mondo del cinema e Grace Moore, la grande cantante, la interpreta per Abel Gance. Un altro compositore che sembra aver pensato alla televisione o al cinema è Leoš Janáček con Jenu° fa o Věc Makropulos, film meraviglioso. Sono opere bellissime ma hanno l’occhio già rivolto alla televisione e al cinema. In realtà, dovremmo ridimensionare il nostro lavoro sull’opera per catturare maggiormente l’interesse del pubblico contemporaneo, poiché ritengo che la televisione debba occuparsi anche di questo. Non si può proporre a un giovane di oggi un Boris Godunov, dove pure Ruggero Raimondi è fantastico, poiché la falsità di questo linguaggio non può in alcun modo interessare un pubblico che entra nel nuovo millennio. Fra le grandi edizioni che sono state realizzate, opere del Novecento a parte (Giordano, Menotti, Floyd, Berg, Britten, Debussy, Janáček), figura la Tetralogia di cui si è parlato. Stranamente esiste in video qualche edizione della Tetralogia perché probabilmente Wagner reinventa il teatro dell’Ottocento ed è un compositore che fa teatro. Egli, con un’ottica tutta sua particolare – non sapeva evidentemente che l’immagine si sarebbe trasformata –, crea il Festival di Bayreuth che viene inaugurato nel 1876, dunque a molti anni di distanza dal Novecento. Chi conosce bene questo Festival sa bene che quando ci si siede ci si trova davanti a una sorta di schermo: non si vede l’orchestra, non si vede il direttore e, pertanto, non si sa neanche che l’opera comincia proprio perché l’inizio del preludio non è annunciato dall’entrata del direttore; anche il sipario che si alza sembra uno schermo cinematografico. Non c’è neanche la luce della buca a infastidire. Un regista potrebbe usare tutte le luci possibili su quel palcoscenico, perché non vi è mai contaminazione da parte di presenze esterne, esattamente come avviene sul set di un film a Cinecittà. Questo è possibile solo a Bayreuth, perché altrove la luce delle buche d’orchestra, come abbiamo visto in tutti i video presentati finora, crea sempre un dislivello e anche una contaminazione fra l’orchestra e il palcoscenico. Mi 71 infastidisce che si facciano paragoni fra le edizioni cinematografiche del Barbiere di Siviglia e quelle dal vivo poiché sono discorsi completamente opposti. Credo che il cinema d’opera in quanto tale sia un discorso chiuso e anacronistico e che i grandi registi che si occupano di teatro, quali Sellars, Chéreau e altri, non farebbero mai questo tipo di film, che andrebbero banditi. Sarebbe invece interessante addentrarsi sempre più profondamente nella tematica dell’opera e delle esigenze del mondo dell’opera e cercare di produrre al massimo l’identità musicale, in un periodo in cui proprio l’identità musicale va scomparendo. Poiché in questo Convegno ci stiamo occupando dei problemi teatrali e dei problemi musicali, colgo l’occasione per ribadire in questa sede che le esigenze musicali spariscono e trovo che questo sia molto grave. Come si fa una Tosca con una «non-Tosca», allo stesso modo si fanno riprese di opere – e qui torno a Sellars – che sono del tutto assurde dal punto di vista musicale e assolutamente indifendibili. Perché non dovrei vedere la Tebaldi fare lo sforzo di dare il do della «lama» nella Tosca? Perché mentire al pubblico e far credere che la Tebaldi in quel momento non abbia una brutta bocca? Ma l’opera è quella! Dico questo anche perché esiste un video girato in Germania in cui la Tebaldi lo canta. Dovremmo quindi porre rimedio a certe cose. Un cameraman che lavora a un film per la televisione molto spesso non ha alcuna preparazione e magari non ha fatto alcuna prova. Si arriva fino all’assurdo dei tre atti della Tosca con la Callas, tutti secondi atti: un secondo atto a New York, un secondo atto a Parigi, un secondo atto a Londra. È un caso? Il secondo atto è il più drammatico, il più eccitante, il più fantastico, e allora si sceglie sempre il secondo atto. Ma se guardate questi tre video e li mettete a confronto vedrete che quando un cameraman si trova davanti a due attori come la Callas e Gobbi lavora per davvero, perché di meglio non si è più visto. Per quanti l’hanno vista in scena nella Tosca, la Callas comincia a recitare soprattutto quando non canta ma la televisione non la riprende mai in quei momenti. Quando la Callas non cantava e si trasformava nella grande attrice che era (Visconti riteneva che fosse la più grande attrice che si sia avuta dopo la Duse) andava assolutamente ripresa ma nessuno, né a New York né a Parigi né a Londra, si è preoccupato di capire quello che l’interprete stesse facendo; e similmente, quando la Callas e Gobbi cantavano insieme, toccando momenti di grandissima teatralità, visto che erano due attori unici, nessuno ha mai compreso il dialogo e il modo di comunicare che avevano. È questa la cosa importante! Ci siamo trovati di fronte ad altre assurdità, come quella di vedere, in questi ultimi vent’anni, la decadenza di televisioni che non hanno esitato a filmare una Mimì della Caballé che muore di tisi e pesa centottanta chili, cosa che oggi la televisione non può più permettersi di fare. Se la signora Caballé ha il diritto di lavorare per la televisione non la si può filmare nella Traviata o nella Bohème ma in un’opera in cui una donna può risultare affascinante anche se pesa cento chili. La credibilità scenica, insomma, rimane un elemento essenziale e assolutamente indispensabile. Oggi per i grandi registi, da Wieland Wagner a Peter Sellars, il fisico è il fattore più importante. Se per un regista teatrale il fisico è molto importante ancor più deve esserlo per un regista televisivo perché si rivolge a un pubblico non esperto. Un esperto che ha ascoltato moltissime volte il ruolo di Tosca, che è seduzione pura, può accettare che venga interpretato da una donna di centottanta chili, ma così non è per il pubblico televisivo, poiché per esso non ha alcuna seduzione. Non sono accettabili edizioni quali i film di Karajan, Carmen, Falstaff, Don Carlos, che sono il contrario stesso della teatralità: il cantante entra in scena, canta ed esce di scena. Cosa può fare la televisione in questo caso? Assolutamente niente, perché c’è un repertorio in cui la televisione non può inventare (mi riferisco ovviamente anche al cinema). Mentre con i compositori dell’opera del Novecento che ho citato è possibile inventare, la televisione non può inventare con 72 Bellini, Rossini, Donizetti, Verdi, perché se non esiste una regia di Un ballo in maschera la televisione è del tutto impotente. Quando Amelia canta «Ecco l’orrido campo ove s’accoppia» e ha i noti problemi con gli acuti, la resa televisiva risulta tremenda se il regista non le ha dato consigli; cosa che capita molto spesso, perché sapete bene che il grande cantante, nove volte su dieci, rifiuta l’indicazione del regista perché vuole avere di fronte il direttore d’orchestra. Di fronte a questi prodotti falsati i nostri problemi teatrali e i nostri problemi musicali devono trovare soluzione soprattutto attraverso la ricerca della verità del dramma e della sua attualità. Ho notato che la Tosca è una delle opere più registrate e più diffuse perché è teatrale nel vero senso della parola. Vi sono tante edizioni di Tosca. A questo proposito, per quel che riguarda la Callas, che è stata soprattutto una Traviata, una Norma, una Medea, una Lucia, gli unici documenti che abbiamo sono tre edizioni di Tosca. Poi c’è la Tosca di Renata Tebaldi, di Magda Olivero, di Raina Kabaiwanska e così via. E ora annunciano un nuovo film, neanche a dirlo una Tosca. È la grande produzione della RAI che conoscete e che può essere considerata un tentativo folle ma diverso, quella famosa Tosca italiana che è andata in onda un po’ ovunque e che è stata realizzata nei luoghi dell’azione e nelle ore in cui gli avvenimenti narrati hanno luogo (in modo analogo si intende realizzare anche La traviata); il che segnerebbe un ritorno al teatro del Settencento, in cui vengono raccontate intere giornate. Nel teatro del Settecento, infatti, non si va a letto al primo atto per rialzarsi il giorno dopo. Il teatro del Settecento è rappresentato dalle Nozze di Figaro, in cui l’azione comincia all’alba con Figaro e Susanna che misurano i muri per vedere se c’è spazio per il letto e termina la sera, nel giardino, con la famosa frase musicale, una delle più belle al mondo, «Contessa, perdono!» (atto IV, scena XV). Anche Tosca si svolge nel corso di una giornata ma, come ho già detto, l’edizione della RAI è un’impresa un po’ folle sulla quale però non voglio discutere perché è pur stato un modo di renderla molto popolare. In genere non amo queste operazioni ma non sono contrario alla popolarità di un titolo. Personalmente, non vado a Verona ma sono d’accordo che Verona esista perché esiste un tipo di pubblico che per questa via può scoprire un’opera. Allo stesso modo, che un pubblico possa riscoprire Tosca in questo modo a me va benissimo. Quello che non mi trova d’accordo è che si debba andare al cinema per vedere Tosca. Ne è stata realizzata una anche in Italia da Gianfranco De Bosio con Raina Kabaiwanska, Plácido Domingo e Sherrill Milnes, e girata a Sant’Andrea della Valle, ma il pubblico abituato ad andare al cinema cosa vede? Semplicemente un’imitazione. Credo che tutti noi si debba lottare molto contro le imitazioni, io con quello che scrivo, voi con quello che producete. Non dico che un regista debba farmi digerire tutto quello che fa: posso anche essere in disaccordo con la regia di Guerra e Pace o con una regia di Peter Sellars ma ben altro discorso è non credere a quello che vedo perché è un discorso completamente falsato. Questo tipo di operazioni, al giorno d’oggi, sono destinate al fallimento. Non so quale fortuna questi film d’opera abbiano avuto in Italia e all’estero ma so che a Parigi Boris Godunov ha tenuto il cartellone una settimana o due e il Parsifal non è stato neanche distribuito e si è visto solo in qualche piccolo cinema d’essai. Eccezioni sono la Carmen di Rosi, perché si tratta di un’opera popolare che molti hanno avuto occasione di andare a vedere, e il Don Giovanni di Joseph Losey, perché è stato il primo tentativo del genere: la spettacolarità di Losey, le ville del Palladio, la pubblicità enorme che fu fatta spiegano l’affluenza del pubblico, accorso forse per una visita turistica nelle ville del Palladio o per una certa arte veneziana del Settecento più che per assistere a un’edizione del Don Giovanni. Per fortuna il Tristano e Isotta di Wieland Wagner, prodotto a Bayreuth nel 1965, pochi anni prima della sua morte, e diretto da Boulez andò presto in Giappone. I giapponesi ne hanno fatto una 73 ripresa televisiva ammirevole, perché è riuscita a comunicare l’essenza dello spettacolo, cioè la luce: Wieland Wagner lavorava quasi esclusivamente sulla luce e riuscire con la telecamera a rispettarne la magia è a mio parere uno dei più grandi risultati che possano raggiungere la televisione e il cinema. Rispettare il colore della luce e la sua intensità in molte regie è essenziale ma talvolta la ripresa televisiva alza le luci, falsando completamente lo spettacolo. Per contro, uno dei rari esempi di film che definirei «tentativo di film» sono le opere barocche del «ciclo-Ponnelle». Personalmente non sono un sostenitore di Ponnelle nell’opera di Rossini ma lo ammiro molto nel suo discorso barocco. Non so se abbiate mai visto la Trilogia monteverdiana che realizzò con Harnoncourt (Il ritorno d’Ulisse in patria, L’incoronazione di Poppea e l’Orfeo). Qui Ponnelle dimostra di aver capito perfettamente la complessità del teatro barocco settecentesco e cerca di comunicare, in uno spettacolo di straordinaria bellezza, come poteva godere uno spettatore del Settecento trasportandoci in un altro luogo. Credo che nel lavoro che facciamo dovremmo rispettare proprio questa comprensione, comprensione che è però vocata al fiasco totale con le opere dell’Ottocento: anch’io ho visto il film di Romeo e Giulietta con di Di Caprio e con la musica di Bellini ma fra la musica di Bellini, che è molto dépouillé (spoglia, N.d.R.), si scontra totalmente con un’azione scenica. Nella Trilogia di Sellars Mozart è vita, dinamismo, non smette di far muovere i cantanti, e se il regista riesce ad andare oltre tanto meglio. Ma un regista che voglia dare ritmo alla Sonnambula di Bellini sfiora l’assurdo: non si può dare movimento a cose che non ne hanno. Credo che se si sceglie di riprodurre un’opera si debba guardare anche a quest’aspetto per poter rispettare il movimento della musica. Il teatro barocco ha molto movimento: quando si ascolta un disco di musica barocca, con le sue arie che sembrano non avere mai fine, si ha l’impressione di qualcosa che non va avanti ed è invece tutto il contrario. Successivamente e per un secolo l’opera si ferma: è l’Ottocento, l’epoca borghese in cui sia a Parigi sia a Milano i salumieri, divenuti ricchi, vanno all’opera, si siedono e vogliono vedere delle salumiere che cantano. Ma il discorso cambia nuovamente nel gennaio del 1900, con la Tosca che inaugura un secolo in cui il movimento riprende. E tuttavia non è più il movimento barocco, è un movimento che chiameremo «verista», ed è un movimento cinematografico. Sarei molto contento se un giorno avessi modo di dedicare più tempo allo studio della musica del Novecento in base all’ottica della telecamera. Vi ringrazio. ILIO CATANI Grazie a Sergio Segalini. Anche il suo intervento mette il dito in tante piaghe, come si suol dire, e offre molti spunti per la discussione. Diamo dunque inizio al dibattito. Il professor Heister chiede la parola ma, dopo il suo intervento, direi di procedere in ordine cronologico, ripartendo da alcune considerazioni su Guerra e pace per ripercorrere il tema di oggi. Prego professor Heister. HANNS-WERNER HEISTER Una piccola aggiunta al discorso del signor Smith a proposito del Giulio Cesare. È problematico mostrare il gancio che sorregge il Deus ex machina e, nel contempo, mantenere la «magia» che l’opera comporta. Forse questa è la quadratura del cerchio, la sfida fondamentale sia per il teatro sia per la riproduzione in video. Un’altra considerazione a proposito di Guerra e pace di Gianni Di Capua. Se ricordate questo quadro, lo schermo è diviso in tre parti come la Gallia di 74 Cesare: a sinistra il letto, a destra le memorie del ballo e sullo sfondo l’orchestra e il direttore. A me sembra che questo sia un po’ di manierismo e si allontani dalla sceneggiatura stessa del teatro. Personalmente non sono contrario al manierismo ma in questo caso credo abbia funzionato stranamente. Le emozioni sono l’effetto di questo umore, di questa lunga durata del processo; le emozioni sono molto dense ed efficaci e il manierismo non le sminuisce; le emozioni crescono, perché tutto quello che si può immaginare è reso visibile dalla regia di Di Capua e da quella teatrale. ILIO CATANI Grazie, professor Heister. A questo punto riprendiamo il discorso là dove l’abbiamo lasciato ieri sera. Ricordo che c’erano possibili osservazioni sulla ripresa di Guerra e pace. Chi vuole riprendere il bandolo della matassa? JEAN-FRANÇOIS JUNG Come regista televisivo credo che sia terribile per i professionisti quanto Catani ha fatto ieri mostrandoci quel Barbiere, perché penso che vedendolo abbiamo fatto molti passi indietro. Mi riferisco a quanto ha detto Segalini sul problema delle cose finte. Questo Barbiere pare una cosa finta e poi, due o tre minuti dopo, pare una cosa assolutamente naturale. C’è tuttavia qualcosa che Segalini non ha detto: rispetto al problema dello spazio e del tempo, esiste una differenza fra il cinema e la televisione e le telecamere. C’è un problema del tempo staccato del cinema e del tempo lungo, come un filo continuo, della televisione. Ho capito questo guardando ieri Il barbiere di Siviglia: c’è un piano sequenza perché siamo agli inizi dell’uso popolare della televisione; e cosa ha scoperto il regista televisivo? ha scoperto la relazione fra il problema finanziario e il problema del tempo. Ieri ho scritto alcune note. C’è la libertà, con l’apparizione della televisione popolare nel 1954, di scoprire che si può fare una ripresa senza i problemi di costo e di brevità di durata della pellicola. Il problema della pellicola è molto importante: finanziariamente comporta un cambiamento totale perché quando si gira un film comporta costi enormi. Cosa ha scoperto allora il regista che ha fatto quel piano-sequenza nel Barbiere di Siviglia? Ha scoperto che il filo, la corrente del tempo e dell’azione, è condotto per la riscoperta di un altro modo di nastro di tempo: il nastro di tempo che è il tempo non limitato del video. Ha scoperto un nastro libero che è il tempo aperto, il tempo lungo della presenza senza fine (in francese si dice sempiternel) della ripresa di una telecamera; è come vedere il Gran Premio d’Italia: il tempo per le telecamere è aperto, non c’è un problema di pellicola. Vent’anni fa ero primo aiuto-regista, poi sono andato alla TV e ho scoperto che tutto il rilassamento narrativo del video era legato a questo fatto, cioè che il nastro non costava nulla e, dunque, si potevano fare delle cose in lunghezza. E questo è l’aspetto negativo della questione. Ma parlando dell’aspetto positivo, a proposito del piano-sequenza del Barbiere di Siviglia, dobbiamo fare una differenza (che Segalini non ha fatto) tra la macchina da presa cinematografica e la telecamera sul problema sul filo del tempo che è legato al supporto della pellicola chimica o supporto che non costa niente, che è il supporto della TV. ILIO CATANI Grazie al maestro Jung. Se mi permettete un’altra osservazione in proposito, in fondo la scena che abbiamo visto è sì un piano-sequenza ma poi ha un seguito che sarebbe interessante poter vedere. Il seguito di quel piano-sequenza è 75 la ripresa di un avvenimento in tempo reale: assistiamo a qualcosa che nella realtà avverrebbe con le stesse cadenze, con lo stesso ritmo; quindi non ci dà affatto fastidio che il punto di ripresa sia costituito da una sola telecamera. Certo, in questo caso il cinema avrebbe delle esigenze diverse, quelle del movimento artificioso del campo, del controcampo, del primo piano; e, come abbiamo visto ieri, sarà perché erano gli esordi della televisione, sarà perché certi linguaggi dovevano essere affinati, invece quel modo di narrare era perfettamente normale, esemplificativo, pulito, lineare, luminoso. Grazie. La parola a Francesca Nesler. FRANCESCA NESLER Vorrei proporre una riflessione che non riparte da Guerra e pace, come è stato richiesto da Ilio Catani, ma che a mio avviso è importante perché ha tracciato un filo rosso in queste due giornate di lavori. Proporrei di far entrare in campo definitivamente un protagonista che finora è rimasto in ombra, il pubblico televisivo. Questa mattina il signor Patay ci raccontava come ci sia stata una migrazione del pubblico elitario, cui l’opera in parte si rivolge, verso i canali tematici, mentre il pubblico da quiz televisivo si è spostato sulle reti private. Resta tuttavia un pubblico anche per la televisione pubblica, che è proprio quello a cui ci rivolgiamo quando affrontiamo un lavoro di questo genere. Ebbene, se mi rivolgo a un pubblico di melomani probabilmente ho dei doveri da assolvere. Innanzitutto quello di far «vedere» la musica; inoltre, come diceva il signor Smith, il regista televisivo in questo caso deve servire solo da passaggio e scomparire: c’è il regista teatrale con la sua impostazione e noi siamo mezzo; ci sono poi le regole e il rispetto, che sono altre due parole molto importanti nel caso in cui si proponga televisivamente un’opera a un pubblico di melomani. Nel caso di un pubblico che sceglie di vedere l’opera per accostarsi ad essa, invece, sono importanti a mio parere operazioni come quelle che sulla televisione pubblica italiana sono state fatte da Baricco: io spiego l’opera e racconto a un pubblico che non la conosce tutto quello che è il contesto dell’opera, perché un’opera può durare quattro ore e un quarto e bisogna fare in modo che questo pubblico non se ne lamenti o scappi. Per esempio, in Guerra e pace trovo che ci sia un’attenzione verso questo pubblico data proprio dalla posizione di camera che il regista ci spiegava di aver scelto. Mi è sembrato di capire che Gianni Di Capua abbia collocato le telecamere nei punti privilegiati della platea perché anche lo spettatore di galleria possa vedere lo spettacolo dal palco. Probabilmente questa è un’operazione che può costituire il senso di una proposizione nella televisione pubblica dell’opera; tutto il resto o lo si lascia ai canali tematici o altrimenti non saprei trovargli un senso. ILIO CATANI Chi risponde a Francesca Nesler? Paolo Maragoni. PAOLO MARAGONI Vengo indirettamente chiamato in causa perché in quella famosa, vituperatissima Tosca, ora per la prima volta in parte apprezzata da Segalini dopo otto anni, c’ero anch’io: ero il consulente musicale per il video e non ricordo nessun lavoro più faticoso nella mia vita e nessun lavoro più bello. Ci ho messo un anno e mezzo per riprendermi: lavoravamo una media di quindici ore al giorno per sei giorni a settimana e a un certo punto abbiamo rinunciato anche ai riposi. Ma ne è valsa la pena. 76 Vorrei rispondere al signor Fawkes: c’eravamo, eravamo lì, siamo riusciti a entrare a Palazzo Farnese nonostante il parere contrario dell’ambasciatore, che era cambiato, mentre avevamo avuto promesse dall’ambasciatore precedente che era un melomane. A Segalini vorrei invece contestare l’affermazione che Gobbi fosse un pessimo cantante: c’è un Falstaff con Karajan che è spettacoloso, forse per merito di Karajan. A proposito della televisione e del cinema, che sono le arti del XX secolo, personalmente penso che la televisione non sia né bene né male né quel dice Popper; e neanche quel che dice Segalini: non è arte e non è immondizia ma una tabula rasa, dipende da quello che uno ci mette dentro. La televisione ha un suo linguaggio che tuttavia è quello dei generi che essa rappresenta: stiamo ancora discutendo su quale sia lo specifico televisivo? Forse è solo il talk-shaw ma se è così lasciamo perdere! Un suo linguaggio specifico, alle soglie del Duemila e a cinquant’anni dal suo uso pratico, la televisione non ce l’ha, perché di volta in volta ha usato lo specifico del teatro, poi del cinema, ecc., variandoli e adattandoli ai suoi problemi tecnici. Ancora non si sa quale sia lo specifico televisivo. La televisione è un elettrodomestico. Se a qualcuno piacciono le camicie di seta nella sua lavatrice laverà camicie di seta, magari rovinandole. Se invece ha quelle di cotone laverà quelle di cotone. Voglio dire che forse non bisogna dare tanta importanza alla televisione solo perché ne ha una enorme nel mercato, e tuttavia personalmente amo la televisione, sono stato costretto ad amarla: sono sposato con lei da vent’anni e dopo vent’anni uno ama qualunque moglie. Di volta in volta può avere molteplici linguaggi e ha solo dei limiti tecnici che, peraltro, vengono superati dalle invenzioni. Ricordo le «comete»: fino a pochi anni fa non si poteva inquadrare una sorgente di luce senza rischiare di fare la «cometa», perché la persistenza produceva una striscia bianca come quando l’otturatore viene tenuto aperto a lungo nelle foto notturne. Con le telecamere senza tubi adesso non ci sono più questi problemi. In altre parole, al momento bisogna fare i conti con i limiti. Ripeto, la televisione non ha un suo specifico, ma cambia di volta in volta. È un po’ come Debussy, che ogni volta creava una specifica forma musicale per un determinato brano, la usava per quello e per nessun’altro brano, non creava una tradizione. Forse ogni genere in televisione crea una forma. Per quanto riguarda Tosca, Segalini diceva che bisogna rispettare la verità. Non perché c’ero – sono stato testimone di molte cose che ho detestato –, ma penso che quello fosse un prototipo. Mi hanno detto che è costato otto miliardi e ne ha incassati dodici. Non sono sicuro, si può dire qualunque cosa; sta di fatto che se l’Italia può vendere qualcosa nel mondo questo qualcosa è la cupola di San Pietro, Assisi e un po’ di lirica. In ogni caso i costi erano alti e credo che se si riuscirà a contenerli forse avremo trovato la strada giusta. Scandalizzatevi pure, ma forse quella è la strada giusta. Francesca Nesler ha parlato di pubblico elitario ma l’opera nell’Ottocento non era elitaria, era quello che il cinema è oggi per noi. Proposta indecente e RoboCop sono stati visti sia da Agnelli sia dalla commessa del supermercato: questo è il cinema! Lo stesso vale per l’opera nell’Ottocento, con la differenza che la stratificazione sociale era visibile nei posti: l’aristocrazia nei palchi, la borghesia in platea e i poveracci in piccionaia in piedi per tre ore, con la stecca per non precipitare in platea. Veramente tutti andavano all’opera. Forse il problema è proprio quello che l’opera è divenuta elitaria oggi, è stata riscoperta in senso estetizzante e aristocratico dopo che è finita la sua spinta propulsiva come spettacolo popolare, quel che era appunto diventato nell’Ottocento. È probabile che l’unica speranza per l’opera sia ritornare a essere popolare. Credo che forse quella Tosca avesse capito tutto questo. Parlando col signor Patay ho scoperto che anche l’Austria ha di questi problemi e sembra impossibile che tutto questo accada anche nel paradiso della musica 77 classica e del tifo nella musica classica. Patay lo spiega col fatto che i giovani cominciano ad assomigliare a quelli di Los Angeles e di Parigi. Ebbene, questi giovani non devono affatto scoprire l’opera ma solo riscoprirla perché non l’hanno mai conosciuta. La nostra generazione non canta più «Che gelida manina», mentre qualunque salumiere o panettiere dei tempi di mio padre, sia pure analfabeta, conosceva questi topoi dell’opera. Più che patrimonio culturale dovrebbe divenire appassionante come Via col vento. Un vecchio film fa piangere anche le nuove generazioni e l’opera dovrebbe fare altrettanto, mentre noi spesso continuiamo a presentarla come una porcellana intoccabile, bellissima, e forse è proprio questa sacralità che ha stufato la gente. L’appassionato sarà sempre appassionato; noi, come nelle elezioni dei sistemi maggioritari, dobbiamo conquistare il centro. L’importante è che l’opera sia live per restituirne l’emozione. Nella musica classica c’è il rischio di stecca, che l’orchestra possa andare fuori tempo, che il coro abbia ricevuto dal regista indicazioni troppo complesse per cui rischia di andare fuori tempo: tutto questo è la magia dell’opera. A furia di registrarla e di montarla forse questa magia si perde; e forse, anche in questo caso, quella Tosca aveva avuto ragione: si ha l’emozione del teatro ma nessuna delle limitazioni che il mezzo televisivo vi incontra, come quella di non trovare un angolo di ripresa. In ogni caso, una prova della ricchezza dell’opera come genere è proprio questa: alle soglie del Duemila, ancora, al solo contatto col problema della riproduzione scateni un bailamme di questa sorta; e questa, forse, è anche la prova che è ancora viva. Grazie. ILIO CATANI È vero, è ancora viva e questa discussione ne è la prova più lampante. Quello che Maragoni dice fa sorgere un altro problema: non dobbiamo pensare all’opera in teatro destinata a uno spettatore dal palato raffinato che la considera una porcellana ma a un prodotto televisivo per il pubblico che deve scoprirla e non riscoprirla. Perché no? Invece nella prassi siamo piuttosto portati per la novità. Lo dicevo ieri, quasi con vanto, e invece oggi mi vergogno di averlo detto e pensato! Ci sono altri interventi? Prego, professor Miceli. SERGIO MICELI Sono contento che Maragoni abbia concluso il suo interessantissimo intervento perché se avesse continuato avrebbe anticipato tutto quel che avevo intenzione di dire domani! È una sorta di complimento nei suoi confronti, nel senso che concordo in pieno con quanto ha sostenuto. Il problema più importante che ha sollevato (che è stato ripreso poi da Francesca Nesler) è quello del pubblico ma non ho intenzione, per ora, di anticipare nulla in proposito. Per entrare nella discussione, vorrei tornare per un momento alla Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca, di cui domani non parlerò se non di passaggio. Come già dicevo lo scorso anno (ma vorrei precisarlo per coloro che sono qui) sono un musicologo e non un uomo di cinema o di televisione, ma invito fortemente registi e tecnici, tutti coloro che partecipano a una realizzazione cinematografica o televisiva a essere orgogliosi del loro lavoro, molto orgogliosi, perché – e qui faccio l’esempio che mi riprende in causa – alcuni di noi – io stesso – stanno preparando una prima storia della musica in rapporto ai mezzi di comunicazione di massa: è tempo, siamo alle soglie del nuovo millennio e sarebbe forse il caso di cominciare a prendere in esame questo problema anche da un punto di vista storico. A titolo personale devo dire che, al di là del giudizio estetico, ritengo la Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca un momento storico per la televisione, perché è quella che si può chiamare una forma di virtuosi78 smo, esattamente come lo si dice per un grande concertista. Al di là del giudizio estetico (sul quale mi esprimerei anche, se non fosse che al momento non è oggetto di discussione), sono rimasto profondamente ammirato non solo dallo spiegamento di mezzi ma dal modo con cui questi mezzi sono utilizzati. Un’altra osservazione. Si è spesso parlato di cinema. Personalmente mi occupo molto di cinema dal punto di vista storico-musicale e, come ben sappiamo, si parla spesso di metacinema, che si ritrova in tanti grandi registi, quali Fellini, Losey, ecc.: tanti registi hanno fatto del cinema sul cinema in piena legittimità e potenziando il linguaggio estetico di questa arte che anch’io ritengo sia quella che esprime massimamente il Novecento. Perché non parlare anche di una metatelevisione? Si può benissimo fare anche della televisione che esalti i mezzi propri della televisione. Credo che anche la Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca sia una forma di metatelevisione, perché se questo è il mezzo è inutile nasconderlo o vergognarsene; si deve usarlo certamente (e qui si torna ai temi dello scorso anno) in una forma di rispetto e considerazione dei problemi e dei valori musicali, della drammaturgia musicale, ma è inutile far finta di fare del teatro: la televisione è televisione, come la rosa è una rosa, e allora facciamo della televisione oppure smettiamo di farla e di discutere di opera in televisione. Grazie. ILIO CATANI Televisione intesa non solo come uso della telecamera: oggi è televisione anche la post-produzione o il montaggio, per cui chi avrà dimestichezza e fantasia potrà realmente realizzare cose straordinarie. Perché no? Lasciamo aperto il campo all’immaginazione. La parola a Chiara Sirk. CHIARA SIRK Finora ho sentito un bilancio alquanto sconsolante, nel senso che se, da un lato, gli spettatori della televisione «normale» sono per vari motivi poco attratti dalla proposta del melodramma, dall’altro, gli archivi dei canali satellitari si esauriscono e comincia a porsi il problema di un nuovo repertorio. Mi chiedo allora se non esista un modo nuovo di avvicinare il pubblico a questo tipo di repertorio. Mi chiedo se non sia il caso e l’ora di percorrere, in modo più continuativo e meditato di quanto non sia stato fatto finora, la strada del prodotto informativo e la strada del prodotto educativo. Non so cosa la televisione satellitare e quella pubblica stiano facendo ma leggo attraverso la posta elettronica i messaggi delle liste di discussione dove gli appassionati, soprattutto dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, mi parlano di continuo di documentari della BBC su Monteverdi, Gesualdo da Venosa, di opere trasmesse sempre in modo documentaristico, quel settore documentaristico di cui parlava il primo oratore di questa mattina che trova una collocazione abbastanza ampia. Mi chiedo perché io debba sapere tutto del leone del parco del Serengeti, perché documentari su questo argomento vengono trasmessi dalla televisione, e non debba sapere chi fosse Gesualdo da Venosa oppure come funzioni un’opera; non Tosca, non Cavalleria rusticana, non Il barbiere di Siviglia ma altre opere meno note nel repertorio. In altre parole, vorrei un Piero Angela della lirica! Si faceva il nome di Baricco. Personalmente sono rimasta entusiasta del suo esperimento, mi è piaciuto moltissimo e spero si ripeta, perché credo che l’opera sia un gioco meraviglioso che, come tutti i giochi, ha delle regole ferree; il gioco è qualcosa di estremamente serio, del quale purtroppo però la maggioranza delle persone non conosce più le regole. Pertanto una strada possibile da percorrere sarebbe forse 79 quella di aprire la scatola, mostrare come funziona questo meraviglioso meccanismo e solo allora proporre interamente la scatola ben confezionata. Finché noi non rispieghiamo le regole a chi ci guarda credo che la strada da percorrere sia estremamente difficile. ILIO CATANI Interviene il signor Patay. FRANZ PATAY I think there are ways of presenting opera in a more popular way by using recordings. In Vienna we have an Opera Film Festival in the summer in the square in front of the Mayor’s House; it’s a large space, there’s a big screen, and the public is invited to come and watch these opera films for free. Every evening there are five to ten thousand people coming to watch opera films. We tried to export this type of activity, for instance using pedestrian zones in Budapest, Prague and Moscow, and it has beeen a great success. The idea is to attract a public that doesn’t normally go to the opera, so that when there’s opera on TV they might stay tuned longer than ten seconds. On the other hand, documentaries are the only format that sells, for music programs. Research shows that, if in a documentary about a composer, there is more than one minute of music the audience changes channel. Thank you. [Ritengono che ci siano modi più «popolari» di presentare l’opera attraverso le registrazioni. D’estate, a Vienna si organizza un Festival di opera in film sulla grande piazza davanti al Palazzo Comunale; si tratta di uno spazio molto ampio con un grande schermo e il pubblico può assistere alla proiezione di film-opera gratuitamente. Ogni sera vi sono dai cinque ai dieci mila spettatori. Abbiamo anche esportato questo tipo di iniziativa, utilizzando le zone pedonali di Budapest, Praga e Mosca, ed è stato un grande successo. La speranza è quella di attirare spettatori che normalmente non frequentano i teatri d’opera, in modo che restino sintonizzati per più di dieci secondi anche quando il melodramma viene successsivamente trasmesso in televisione. D’altra parte, è dimostrato che i documentari sono l’unico formato che si vende, in ambito musicale. Le ricerche di mercato evidenziano il fatto che se all’interno di un documentario sulla vita di un compositore viene fatto ascoltare più di un minuto di musica, il pubblico cambia canale. Grazie]. ILIO CATANI È come farsi schiavizzare dalle esigenze di un pubblico generalista che non è interessato alla musica e proporre un prodotto musicale come se parlassimo di un documentario. Certo, se mi aspettassi quaranta minuti sul leone e mi venisse proposta invece una divagazione su un quadro di Matisse verrei distratto e passerei oltre. Ma torniamo sull’idea del pubblico di Francesca Nesler. Il pubblico degli appassionati di musica, almeno in Italia, è silenzioso, non fa sentire la sua voce come avviene per altri tipi di pubblico: se le televisioni in Italia, sia quella pubblica sia quelle private, cominciassero a interrompere le trasmissioni sportive, a proporre dei programmi mutili o, addirittura, a saltare gli appuntamenti ci sarebbe una sollevazione di scudi, una sommossa popolare, vedremmo i blocchi stradali e la gente in strada. Quando invece si annuncia un programma musicale e lo si fa iniziare con mezz’ora di ritardo o lo si annulla, le poche migliaia di spettatori restano indifferenti quando non addirittura silenziosi. Perché mai? Per 80 buona educazione? Per atteggiamento rinunciatario? Faccio presente che i dati d’ascolto, specialmente per certi tipi di trasmissione, sono attendibili fino a un certo punto, perché non tengono conto, ad esempio, dell’entità della videoregistrazione: se non posso vedere l’opera in televisione perché non posso restare in piedi fino alle due di notte metto in funzione il videoregistratore. Questa attività non viene evidenziata nel computo degli spettatori riferiti ai dati dell’Auditel che usiamo in Italia per valutare l’entità del pubblico dei diversi programmi. Fatta questa precisazione, in Italia, la massa degli spettatori musicali di un prodotto di buon livello oscilla mediamente intorno alle sette-ottocentomila unità e aumenta in caso di avvenimenti di un certo peso. Ma qual è l’entità reale del pubblico musicale italiano? attraverso quali canali agisce? L’ho già detto in passato e non voglio esimermi dal ripeterlo: la stampa e i critici musicali in particolare come segnalano le inadempienze della televisione pubblica e privata nei riguardi dei programmi musicali? Nessuno lamenta la carenza di trasmissioni dedicate alla danza: ormai neanche nella televisione pubblica si assiste a uno spettacolo di balletto che non sia un repêchage di vent’anni fa. Si vede solo prosa. Landini stamattina ha citato la serie «Palcoscenico», che va i onda su RAI 2 e che per un certo periodo degli anni passati (parliamo del 1997-1998) ha segnato una presenza importante. Qui c’è il collega Tonino Del Colle che è uno dei curatori di quello spazio e sa quante opere e quanti concerti siano stati programmati e realizzati con mezzi RAI in sedi e istituzioni musicali italiane e quanti programmi siano stati anche acquistati sul mercato per alimentare, con una certa continuità, uno spazio che voleva essere anche un appuntamento fisso: un programmatore televisivo sa bene che per il pubblico televisivo «l’appuntamento» è estremamente importante: il pubblico si aspetta che il venerdì o il sabato sera c’è il concerto oppure alternativamente il concerto e, la settimana successiva, lo spettacolo di prosa e poi la lirica. La risposta a quanto diceva la signora Sirk, che condivido appieno, dovrebbe darla – e mi dispiace che manchi quasi sistematicamente nei nostri incontri – quella figura importantissima che è il responsabile del palinsesto, colui il quale decide che tipo di programma debba andare in onda a quella determinata ora, con quella collocazione e per quanto tempo. Non parlo dei canali tematici, per i quali bisognerebbe fare tutt’altro discorso, ma tra i canali in chiaro della televisione pubblica RAI 3 è quella che propone una maggiore offerta di programmi musicali. Rispetto alle altre, infatti, devo dire che quantitativamente la sua offerta è rilevante perché almeno per buona parte dell’anno trasmette un concerto il sabato mattina; e così i responsabili dei palinsesti si salvano la faccia, perché almeno un concerto a settimana per cinquantadue settimane è garantito (siamo appunto al livello delle cinquanta ore l’anno). Si parlava di quali modi debbano usarsi per presentare l’opera. «Prima della prima» è un altro modo di presentare l’opera, perché non richiede necessariamente l’attenzione alle due ore e mezza dell’opera stessa, con l’aggiunta di un primo intervallo, che è rappresentato dal telegiornale, di un secondo rappresentato da qualcos’altro, e con la difficoltà ulteriore che l’inizio non è mai puntuale, per cui a volte diviene un modo di dissuasione dal seguire l’opera. «Prima della prima» presenta quanto avviene prima dello spettacolo, con l’allestimento, l’ideazione, la preparazione, le motivazioni stesse raccontate direttamente dai protagonisti; mezzora di programma nel quale si entra, quasi con occhio discreto e talvolta anche indiscreto, nel meccanismo teatrale. È un modo di avvicinare all’opera un pubblico generalista, che non deve essere assolutamente e strettamente interessato ai problemi dell’opera. Avevo invitato la collega che se ne occupa, Maria Rosaria Bronzetti, a presentarci uno dei suoi ultimi lavori ma mi ha fatto sapere proprio questo pomeriggio di essere anche lei vittima dell’influenza. È vero, sono tutti discorsi molto interessanti, ma i responsabili del palinsesto secondo me si creano grossi problemi nel voler piazzare anche la bella musica in 81 collocazioni che non siano totalmente agli antipodi degli interessi del grosso pubblico, pensando che il grosso pubblico non possa essere interessato, per esempio, a un valzer di Chopin suonato da un bravo pianista. Eppure quattro minuti girati bene con un bravo pianista non dovrebbero costringere persone prive di qualsiasi sensibilità (non dico di cultura) a premere il pulsante del telecomando e finire su un altro canale. Parlando della preistoria, quando nacque RAI 3 furono sperimentati alcuni tentativi di abbinamento musica-immagini proprio per suggerire all’uomo della strada la possibilità di un connubio che fosse finalizzato semplicemente a un momento di godimento, cioè al piacere di vedere e di ascoltare qualcosa che non fosse né l’uno né l’altro ma che servisse se non altro a ingannare i due minuti dell’intervallo o l’attesa di un programma. Diciamo pure che non c’è stato, almeno da parte nostra, un grande impegno nella ricerca di soluzioni «alternative» a questo problema, anche perché la sperimentazione costa, come abbiamo constatato sulla nostra pelle anche in occasione di questo seminario che, come ricordava il professor Marinelli, doveva essere preceduto da una sperimentazione. Non si è trattato di un problema di costi ma di altre ragioni oggettive, e tuttavia una volta tanto eravamo riusciti a far capire ai responsabili dell’Azienda l’importanza di poter utilizzare questo mezzo come un vero e proprio gioco: divertiamoci a creare qualcosa, a vedere cosa si può creare, come possiamo presentare l’opera al di fuori del condizionamento del teatro, degli orari, della telecamera che non può essere piazzata al centro del corridoio perché la vigilanza non te lo permette, perché lo spettatore si lamenta, ecc.; tutto con piena e assoluta libertà anche ideativa, a volte ribaltando addirittura i canoni, anzi facendo di proposito uno stravisamento di cose; semplicemente provare! Il professor Heister e Luigi Bellingardi chiedono la parola, dopo di che passeremo ai saluti. HANNS-WERNER HEISTER Vorrei tornare al problema del documentarismo. A questo proposito direi che in televisione non ci sono troppi leoni ma troppa musica con i leoni e troppi leoni con la musica! Non sto scherzando, perché penso sia un problema reale. Ricordo una serie della BBC che mostrava immagini affascinanti dell’interno del corpo umano, con un soundtrack musicale che sembrava un’opera sulle cellule batteriche! Penso che la musica come sfondo impedisca al pubblico di ascoltare con una certa consapevolezza la musica in generale, soprattutto quella colta. Questo è un altro problema della programmazione televisiva. LUIGI BELLINGARDI Qualche domanda a Di Capua perché i due quadri tratti da Guerra e pace che abbiamo visto ieri mi hanno interessato molto. Vorrei sapere in generale come ha realizzato gli altri quadri, per esempio quelli relativi alla guerra, nella seconda parte dell’opera, in cui la drammaturgia della musica è ancor più carente che altrove: Guerra e pace è l’opera di Prokof’ev in cui la drammaturgia è più assente, dunque senza i totali, senza lo schieramento dei soldati e così via, solo con i primi piani è andato avanti in questi quadri. In secondo luogo, io mi aspetterei per la televisione e per l’opera in televisione un linguaggio nuovo che mi coinvolga senza sommergermi di parole. Senza divagare troppo, per esempio, trovo che le trasmissioni di Baricco non siano state utili né educative perché presuppongono un determinato pubblico: sono andato personalmente in teatro come cronista per assistere a una di queste trasmissioni e c’era un pubblico preordinato, che arrivava con un determinato invito. Il cinema ha impiegato molto tempo, forse la televisione impiegherà ancor più tempo per 82 raggiungere un nuovo linguaggio di fantasia. La televisione è un elettrodomestico che fornisce le notizie. Se è già più difficile che la televisione dia il commento, funzione precipua dei giornali, è pur vero che i giornali sono sempre in ritardo sulla televisione, e a ciò suppliscono in un certo senso con i commenti e l’approfondimento degli inviati, che in televisione risulterebbero troppo noiosi. In ultimo vorrei chiedere a Di Capua se conoscesse o se avesse visto i video delle regie di Walter Felsenstein, perché sia per I racconti di Hoffmann sia per Barbablù prevaricava volutamente l’opera per imporre una propria visione dell’opera stessa. Nei Racconti di Hoffmann, per esempio, c’era sempre questa sorta di sfilata di tutte le comparse che dava l’idea dell’impero di Napoleone e dell’ambientazione generale. Ma per gli allestimenti di Felsenstein contava poco la musica. Alla Komische Oper venivano in genere rappresentati allestimenti con un modesto direttore d’orchestra, con cantanti di poca importanza e con tagli praticati senza alcun pudore, ma lo spettacolo aveva comunque una propria valenza molto forte. SERGIO MICELI Scusate l’intrusione ma vorrei fare una proposta. Poiché le domande di Luigi Bellingardi mi sembrano molto interessanti e io vorrei parlar male di Baricco, non potremmo rimandare questa discussione a domani? Come fa Di Capua a rispondere a quesiti così interessanti nel poco tempo che ci resta? Ricordo che sono le 18.00. È solo una proposta che il presidente è libero di accettare o meno. ILIO CATANI Non vorrei forzare le volontà degli altri. Gianni Di Capua cosa ne pensa? GIANNI DI CAPUA Potremmo affrontare adesso metà del lavoro. In pochi secondi, non ho mai visto un lavoro di Felsenstein e confesso la mia ignoranza a riguardo. Ho usato per tutti gli altri quadri lo stesso modulo delle due telecamere, tre al massimo, giocando soprattutto sulla composizione. Solo in un caso ho avuto problemi di luce e ho giocato con una sovrapposizione ma, per rispondere a Bellingardi, ho seguito questa logica. TONINO DEL COLLE Poiché la terza si rompeva sempre, noi usavamo in media due telecamere per due giorni, ma non per otto ore al giorno: due ore al giorno, quelle della durata dell’opera. Per il resto, se volevamo fare qualcosa a tavolino potevamo lavorare anche tutta la notte. Sono molto addolorato perché domani non potrò partecipare ai lavori, e vorrei dire due parole. Venire a questo Convegno mi ha rallegrato moltissimo, perché dal Settantadue fino al Novantuno ho dibattuto litigando con tutti in RAI sui problemi che adesso rivedo uno per uno, serenamente proposti da voi: Maragoni, che è assistente musicale, mi è testimone, come pure Ilio Catani. Posso solo dire che per ottenere tre giorni anziché due, per ottenere un palco sicuro da un teatro, anziché quello che volevano impormi, ho dovuto fare le guerre. Ora vedo invece che si lavora tranquillamente e si parla di giorni di montaggio: per il montaggio a me concedevano due giorni, in cui dovevo provvedere anche ai titoli di testa e di coda. Tutto questo perché alla fine degli anni Cinquanta il discorso sullo specifico televisivo si era già esaurito, per cui alcune produzioni legate all’estero o legate alla Scala di Milano venivano 83 ben realizzate perché vi era già l’intenzione di farne delle trasmissioni per tutti. Da noi, invece, i convegni sullo specifico televisivo si sono esauriti negli anni Sessanta e da quel momento in poi non sono più esistiti non certo perché si fosse arrivati a una soluzione. Le soluzioni sono quelle che avete prospettate voi tutti con i desideri, sono esattamente le stesse. Si è allora deciso che bisognava andare a braccio. In questo sono stato favorito perché leggo la musica, il che non significa che potessi preparare e fare un montaggio ma che potessi più facilmente di un altro decidere una determinata inquadratura perché sapevo che in un determinato istante stava attaccando il tenore o il baritono. Devo dire che a fine opera la troupe mi ha anche fatto tanti applausi. Questo dovevo assolutamente dirlo, cioè la mia felicità nel vedere che si continua a discutere di questi temi. GIANNI DI CAPUA Sarò lieto poi di conoscerla, ma vorrei solo aggiungere quanto segue. Ho usato tre telecamere e ho usato un termine non tecnico ma non mi sono lamentato perché è stata una scelta. TONINO DEL COLLE Ho capito benissimo che nel suo caso si è trattato di una scelta ma a me davano forzatamente tre telecamere che, ripeto, diventavano quasi sempre due. Ciò significa che le mie scelte erano del tutto misconosciute. Le battaglie che sono state fatte contro questi due mostri che sono la televisione e i teatri, contro la mentalità dei cantanti lirici e la mentalità del teatro che deve pensare al suo guadagno vedo con piacere attraverso i suoi discorsi che hanno avuto buon esito e che i problemi sono stati completamente risolti. Lei può anche scegliere di usare una sola telecamera ma io ero costretto a scegliere una sola telecamera per fare un’opera pulita. Nel Novantuno la RAI mi aveva promesso una conferenza stampa e me l’ha concessa dopo aver allestito per la prima volta in forma scenica L’impresario di Mozart al Foro Italico. In quell’occasione furono peraltro raggiunti tre primati: realizzare contemporaneamente la regia radiofonica, la regia televisiva e la regia teatrale; avevo anche disegnato le scene. In breve, non era mai accaduto che si facesse una forma scenica al Foro Italico e non era mai accaduto che tre regie fossero curate contemporaneamente. Ebbene, in contemporanea, all’ora designata per la mia conferenza stampa se ne stava svolgendo un’altra a Viale Mazzini per l’inizio di Fantastico a Cinecittà. Potete immaginare quanti giornalisti siano venuti. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che mi ha fatto decidere di dedicarmi solo alla produzione. Se faccio un concerto cercando di tradurre in immagini la struttura musicale o un’opera lirica, cercando di interpretarla, ma non mi vengono concessi spazi adeguati, è chiaro che non riesco a fare le cose come vorrei; se per giunta faccio bene le cose e nessuno se ne accorge allora è meglio andarsene. E così mi sono messo a fare il produttore. Ilio Catani diceva che facevo Palcoscenico. A questo proposito vorrei chiarire che l’alternanza di due settimane tra prosa e musica non è stata cambiata a favore della prosa a causa del pubblico. Non è così. Il pubblico rispondeva allo stesso modo ma probabilmente ai capi della RAI non piaceva programmare musica ogni quindici giorni. Grazie per avermi ascoltato. ILIO CATANI Ringrazio Tonino del Colle per questo suo racconto biografico. Ringrazio anche tutti i partecipanti di questa sessione. Do appuntamento a tutti per domattina alle 9.30 per la terza giornata di lavoro. Un grazie caloroso e cordiale a tutti. 84 mercoledì 1 dicembre 1999 ore 9.30 Circolo RAI viale di Tor di Quinto 64 Sala conferenze presiede Ilio Catani ILIO CATANI Buongiorno e benvenuti. Il giorno è favorevole, il sole brilla e l’aria è tersa, e questo renderà meno piacevole il soggiorno all’interno di questa stanza, visto che sarebbe stato molto più carino godersi l’aria esterna! Possiamo dare inizio ai lavori di questa giornata. Prima di cominciare vorrei portarvi i saluti cordialissimi e affettuosi del professor Marinelli, il quale per una indisposizione è costretto anche oggi a privarsi del piacere e dell’onore di essere con noi. In realtà l’onore sarebbe stato tutto nostro. Spera di poter essere presente domani per le conclusioni del Seminario. Diamo inizio senza ulteriori indugi al programma odierno. Ho il piacere di avere al mio fianco il professor Döhring dell’Università di Bayreuth che ci propone una sua relazione sulla regia visiva del Christoph Colomb di Darius Milhaud. Il professor Döhring ha una traduzione italiana del suo testo. Prego di farne una copia per agevolare il lavoro dei signori traduttori. Secondo il programma che ben conoscete sarà poi la volta della signora Erben del Metropolitan Opera di New York. Infine, uno spazio sarà riservato alla discussione. Ieri sera abbiamo potuto apprezzare anche il significato di questi nostri incontri attraverso lo scambio delle idee. Spero che ci sia più spazio oggi (domani ve ne sarà di sicuro) per affrontare tutti quegli aspetti in fondo irrisolti delle tematiche che sono emerse nei vari interventi e nelle varie discussioni. Come già ieri, volevo raccomandare di contenere nei limiti del possibile l’intervento nei minuti previsti, questo anche per avere più tempo e non essere sacrificati nel dover rimandare a occasioni successive le considerazioni e le varie obiezioni che possono sorgere di volta in volta. L’impressione comunque è che tutto stia procedendo bene e l’unico rammarico è l’assenza del professor Marinelli, di cui conosciamo la capacità di mediazione e di sintesi dei vari interventi nonché la capacità di stimolare alcune riflessioni che una problematica così vasta e articolata ci dà sempre modo di evidenziare. 87 SIEGHART DÖHRING Regia visiva di Christoph Colomb di Milhaud (Greenaway, Berlin 1998) Una delle idee a cui si ispira il programma della Staatsoper di Berlino Unter den Linden con il direttore Georg Quander è riportare sulle scene opere oggi poco note, legate però in modo particolare alla storia di questo teatro, sia perché vi sono state rappresentate per la prima volta sia perché sono state parte importante del suo repertorio. Quando alla Staatsoper il 24 ottobre 1998 è stato rappresentato Christoph Colomb di Darius Milhaud in una nuova spettacolare messinscena (con la regia di Peter Greenaway e Saskia Boddeke, le scene di Gerhard Benz, i costumi di Emi Wada, le luci di Franz Peter David, la direzione musicale di Philippe Jordan) solo pochi sapevano che quest’opera, nel frattempo quasi dimenticata, ha uno specifico sfondo berlinese, che basta a legittimare la sua ripresa su questa scena. Infatti l’opera Christoph Colomb, anche se francese nel testo e nella musica, andò in scena per la prima volta il 5 maggio 1930, con tutti i connotati di un avvenimento sensazionale, alla Staatsoper di Berlino, il teatro d’opera tedesco più importante in quel periodo, e rimase in programma fino all’arrivo al potere del Nazionalsocialismo. Secondo i critici del tempo questo difficile spartito trovò allora una realizzazione teatrale competente con il direttore Erich Kleiber e un ensemble di cantanti eccellenti (tra cui Margherita Perras, Delia Reinhardt, Fritz Soot, Emanuel List). Ma fu in primo luogo l’aspetto scenico della rappresentazione a suscitare l’attenzione degli ambienti musicali: le enormi difficoltà scenotecniche dell’opera con i suoi ventiquattro quadri che si susseguono per lo più in veloci cambiamenti di scena, realizzati dal regista Franz Ludwig Hörth e dallo scenografo Panos Aravantinós nello stile delle scene di massa del teatro di prosa del periodo (Max Reinhardt, Erwin Piscator) e del cinema muto (Fritz Lang), un’estetica che trovò la sua prima applicazione nel teatro musicale in questa occasione. Queste tendenze culminarono poi nell’uso del film come elemento autonomo della presentazione drammatica, previsto nel contesto dell’opera. In questo senso Christoph Colomb fu una pietra miliare nella storia del teatro musicale, quindi è più che logico che Greenaway e il suo team si riallaccino proprio a questo elemento nella nuova rappresentazione del 1998 e facciano del film l’elemento portante della loro messinscena. Dal punto di vista della storia del genere Christoph Colomb si ricollega a forme contemporanee del teatro musicale epico, quelle rappresentate per esempio dagli ultimi lavori di Stravinskij, in modo particolare la sua opera-oratorio Oedipus Rex del 1927. Naturalmente in uno stile completamente diverso: ben lontano dal rigore neoclassicista di Stravinskij, Milhaud impiegò in quest’opera un labirinto barocco dei più eterogenei mezzi rappresentativi, come scrive Michael Stegemann: «misteri e revue, melodramma e Gesamtkunstwerk, professione di fede e accusa, spettacolo storico e teatro delle idee, psicogramma e action-thriller, arte cinematografica e teatrale, parodia e sperimentazione». La struttura globale passa in seconda linea dietro la plasticità del singolo quadro, così che Milhaud per la nuova versione del 1956 poté invertire la posizione delle due parti («parties») con i loro diciassette e sette quadri («tableaux») senza danno per l’insieme. La connessione non è tanto drammatica quanto reale e le parti sono tenute insieme innanzitutto dal testo di Paul Claudel, uno dei maggiori rappresentanti del rinnovamento cattolico («renouveau catholique»), la cui testimonianza più imponente nel campo del dramma musicale è il Christoph Colomb, che precede la Jeanne d’Arc 88 au bûcher di Arthur Honegger, anche questa composta su un testo di Claudel (1938-1942). La scoperta e la conquista dell’America da parte di Cristoforo Colombo è raccontata come parte della storia della redenzione cristiana e presentata come moderno «teatro del mondo» con i mezzi scenici più avanzati. L’uso del film come mezzo teatrale diede all’opera e alla messinscena un carattere avanguardista-sperimentale. Sia Claudel che Milhaud erano molto interessati alla cinematografia già negli anni Venti, ma in modo particolare nel loro lavoro al Christoph Colomb. Uno dei vari progetti per l’elaborazione di questo argomento era un copione per film di Max Reinhardt con la musica di Richard Strauss. Ma l’idea di una collaborazione con questo compositore non entusiasmò tanto Claudel. In più si constatarono divergenze nell’impostazione generale, le quali portarono infine al fallimento della prevista collaborazione con Reinhardt. In contrasto con l’idea iniziale di Reinhardt di realizzare il Christoph Colomb come pantomima per musica, con uno scenario limitato, Claudel fin dall’inizio propendeva per una più ampia realizzazione scenica, che gli sembrava la sola adatta al tema. Così scrisse un lavoro teatrale autonomo con il titolo Le livre de Christoph Colomb (1927), su cui si basò poi l’opera di Milhaud. La sua concezione drammaturgica è epica, non drammatica. L’azione presentata da un lettore, chiamato «explicateur» o «récitant», si muove su vari livelli della finzione, che rivelano le diverse dimensioni del tema. Scriveva Claudel: Il dramma è, nell’idea di base, come un libro che viene aperto e di cui si comunica al pubblico il contenuto. E il pubblico interroga attraverso la voce del coro il lettore e gli interpreti delle vicende. Vuole da loro schiarimenti. Si associa ai loro sentimenti. Li sostiene con interventi e consigli. Il tutto è come una messa, a cui si partecipa attivamente e continuamente. In una tale concezione si inserisce perfettamente il nuovo medium film. L’impiego di proiezioni filmiche offriva affascinanti e rivoluzionarie possibilità di una rappresentazione simultanea dei diversi piani dell’azione. Chiaramente non si utilizzò il nuovo mezzo espressivo indiscriminatamente, ma come superficie di proiezione dell’azione interna, in contrasto con l’azione scenica, per così dire, reale, come scriveva Claudel: «Un paesaggio dell’anima prende qui il posto della vecchia veduta scenica materiale». Per Claudel il film era, nonostante le apparenze, un mezzo artistico anti-realistico che gli sembrava adatto a impedire il crearsi di una «sfera narcotica», come quella cercata da Wagner, o a romperla in caso si fosse creata. La realizzazione tecnica avvenne proiettando, in momenti ben definiti dell’azione, un film girato precedentemente, su una superficie che concludeva lo sfondo della scena. Il film, che è andato perso, fu prodotto in un sotterraneo della Staatsoper. Nel programma della prima rappresentazione si legge: «Il film è progettato e girato da Franz Ludwig Hörth. Fotografia: Werner Brandes. Produzione: Ufa. Animazione: Paul Peroff. Proiezioni: Panos Aravantinós». Il regista e lo scenografo fungevano quindi anche da realizzatori del film, cosa che ne garantiva la connessione con l’impianto della messinscena. Sulle riprese e sui mezzi tecnici impiegati abbiamo ancora un resoconto dell’epoca, da cui risulta come Hörth fosse fortemente interessato a mostrare chiaramente l’unità di concezione del film e dell’azione in scena. Nella rappresentazione la proiezione delle sequenze filmiche, che duravano complessivamente quarantadue minuti, avveniva nel modo seguente: Sulla scena il proiettore è stato installato nello sfondo in una cabina assolutamente incombustibile. Un secondo proiettore si trova nascosto nella platea. Uno schermo di shirting, del tutto bianco e trasparente, senza la minima struttura del tessuto, facile da tirar giù e da riavvolgere, costituisce la superficie di proiezione. 89 Ma sulla base dei pochi documenti fotografici rimasti – sono sei in tutto – non possiamo dire se il film adempisse veramente alla funzione drammaturgia affidatagli. Dei tre esempi che seguono, il primo mostra una protezione, il secondo e il terzo degli spezzoni di un film. (esempio audiovisivo) L’inserimento del nome «America» sulla carta geografica del continente indica che il nuovo medium, contrariamente all’intenzione degli autori, produceva anche – comunque in alcuni casi – delle semplici ridondanze, e non solo – come in questo caso – sul piano filmico, ma anche nel rapporto tra rappresentazione scenica e filmica. E alcuni critici disapprovano il carattere troppo illustrativo e ovvio degli inserti filmici, che non sono altro che «duplicati filmici dello stato d’animo del momento» delle dramatis personae. Da altri resoconti risulta che l’idea degli autori di rendere visibili delle «idee» attraverso il medium film sembra essere riuscita almeno in parte, per esempio si legge che le accuse rivolte a Christophe Colomb passano una dopo l’altra con la velocità dei fulmini, una volta il vecchio Colombo vede il suo passato e contemporaneamente il giudizio di valore che viene espresso su di lui. In un’altra scena ci sono cinque Cristofori Colombi; compaiono tutti contemporaneamente. Uno sta in primo piano alla ribalta, uno come portavoce/narratore vicino al coro, un terzo rappresenta Colombo da giovane, un quarto Colombo da uomo maturo e un quinto è Colombo da vecchio. Qui si capisce che il film era riuscito veramente a intensificare, nella maniera che gli è propria, la drammaturgia della discontinuità, caratteristica in generale del teatro epico. Con precise istruzioni per l’esecuzione gli autori avevano definito dettagliatamente l’accordo di testo, musica, rappresentazione scenica e filmica. Eccone la dimostrazione per il secondo e terzo quadro della seconda parte. Dapprima il lettore si rivolge agli spettatori con un’introduzione: «Dopo il suo quarto viaggio Colombo fu mandato a casa in Spagna da quell’uomo che il re spagnolo aveva nominato governatore al suo posto. La scena davanti a voi mostra l’interno di una nave. Colombo è incatenato. Tutt’intorno è notte e la tempesta infuria sulle profondità dell’Atlantico (…)». Mentre crescono la tempesta e il pericolo che la nave si rovesci, il comandante si rivolge a Colombo: «Trova la parola che ci aiuti! Contro il caos scatenato sguaina tu la spada di quella parola che fende il fragore della tempesta!». A questo punto c’è la seguente istruzione per la regia: «La tempesta avviene con immenso ululato, l’intera scena scompare dietro uno strato soffuso di acqua e vapore rischiarato solo da lampi blu. Ma Colombo ha pronunciato una parola e dal buio compare a lettere gigantesche la parola del Vangelo secondo San Giovanni: «In principio era il Verbo». Il temporale si placa, si vede di nuovo la scena. Il coro ripete la citazione biblica, poi la ripete anche Colombo: «In principio era il Verbo… Nel nome di questo Verbo vi ordino, indietro, forze cieche e bestiali!». Dopo che si è calmata la tempesta, si passa a un dialogo tra Colombo e il cuoco di bordo, quest’ultimo con le caratteristiche del diavolo, e precisamente nel significato biblico di «Satana», quindi «accusatore». Il dialogo è introdotto e interrotto da istruzioni per la regia che si riferiscono agli inserti filmati: «La scena si trasforma, non si vede più nient’altro che uno schermo bianco sullo sfondo. Colombo: «Dove siamo adesso?». Cuoco: «Siamo nell’interno della tua coscienza!». (Ombre scorrono a gran velocità sullo schermo). Colombo: «No, non riconosco niente». (Si vede una massa passare volando come il vento. Sono teste di selvaggi ornate di penne, gli archi e le frecce). Cuoco: «Guardaci meglio!». Colombo: «Che cosa sono queste ombre fuggevoli, passano sospese in aria come nebbie di fumo?». Cuoco: «È un popolo intero, una massa immane, che tu hai stermina90 to». Colombo: «La nebbia non mi importa, giacché un solo forte raggio del sole mattutino la sa cacciare». (Sullo schermo si vedono schiavi negri, carichi di catene). Colombo: «Chi sono quegli Etiopi, carichi di catene?». Cuoco: «La schiavitù, da tempo scomparsa dalla terra, tu l’hai riportata!». È evidente: il film serve qui come medium della coscienza di Cristoforo Colombo (come dice anche il titolo del quadro), e del suo inconscio. Nel programma della nuova messinscena alla Staatsoper di Berlino Peter Greenaway ha presentato, in un saggio ben informato, la sua interpretazione del Christoph Colomb e, a partire da questa, ha sviluppato l’idea della regia. Riconosce giustamente che è la concezione mediale dell’opera che le vale la sua importanza estetica e la sua posizione nella storia del genere. Nel film, il medium della comunicazione totale del secolo Ventesimo, sia Claudel che Milhuad riconobbero il moderno «Gesamtkunstwerk». Ma per loro la multimedialità non significava frammentazione, bensì integrazione. Ciò che avevano in mente e che realizzarono in modo esemplare con Christoph Colomb era un teatro musicale composto di media diversi, un misto di idioma teatrale e idioma filmico. Partendo dalle esperienze cinematografiche degli anni Venti, ambedue intendevano il film come medium narrativo, come sfondo illustrativo e sostituto dell’azione scenica. Esattamente in questo punto Greenaway si è allontanato dalla concezione degli autori, cioè l’ha ampliata sulla base delle esperienze fatte con il nuovo medium nel periodo di tempo che è trascorso da allora. La sua regia prevede quindi non un solo film prodotto in precedenza, ma include nella parte filmica materiale di archivio, ritagli di documentari, animazioni e citazioni, in molteplici e sovrapposte combinazioni. Di conseguenza Greenaway non utilizza soltanto una superficie di proiezione, come aveva fatto Hörth, ma dieci: davanti, in centro, dietro e ai lati, in più uno schermo mobile e una superficie di proiezione per commenti, come ampliamento della mediazione didattica attraverso la persona del narratore. Greenaway definisce questa messinscena «progetto degli schermi» appunto perché è caratterizzata da queste superfici di proiezione, elementi di grande importanza. La concezione multimediale non è il risultato di riflessioni di tipo esteticoformale, ma è strettamente connessa con l’interpretazione del tema da parte di Greenaway, un’interpretazione che riprende, sì, le premesse tematiche di Claudel, ma le sviluppa alla luce dell’esperienza storica del nostro secolo. Greenaway non si chiude affatto al rigore del discorso di idee di Claudel, ma lo sottopone ad un’analisi storica. Questa analisi si svolge su 5 livelli di significato. Sono: 1) Il livello testuale, a sua volta estremamente complesso per il grande numero di documenti citati; 2) Il livello politico, che riguarda la questione del colonialismo, vista come costante della storia mondiale fino ai tempi recenti; 3) Il livello estetico della messinscena, che si rapporta ai due livelli sopraccitati; da questo risulta 4) il livello autoriflessivo, espresso attraverso le persone che partecipano alla messinscena; infine 5) il colore. Questo è collegato al terzo (al livello estetico), ma ha un effetto di maggiore portata e trasporta l’idea a cui si ispira tutta la messinscena. Il confronto del nuovo con il vecchio mondo e l’interazione tra i due vengono infatti visualizzati simbolicamente per mezzo del colore. L’inizio della prima parte presenta un mondo in bianco e nero, la corte spagnola nella sua sobrietà e austerità. Alla fine di questa parte si annunciano i colori vivaci e luminosi degli indios. Ma presto lo splendore di questi colori degli indios viene strappato a forza e trasportato in Europa, dove lo si accumula sugli austeri costumi neri dei conquistatori. Alla fine della seconda parte, e quindi dell’opera, predominano il bianco e l’argento, i colori del cielo, là dove la regina Isabella spera di trovare dimora per sé e per il suo fedele servitore Colombo. L’ascesa al cielo che è concessa ai due nel dramma, viene loro negata nella messinscena, e Greenaway scrive: «Il loro viaggio li porta in un altro luo91 go – un luogo di sconforto e deserto, la conseguenza dello sfruttamento che lei [Isabella] ha provato». Come ultima immagine rimane impresso – in una proiezione di grandi dimensioni – lo sguardo impaurito e interrogativo di un bambino indigeno: un finale aperto del dramma di mondi senza alcun orizzonte di salvezza. Come fonte di ispirazione visiva per la drammaturgia cromatica dei costumi, Greenaway ha utilizzato il dipinto Las Meniñas di Velasquez, le cui figure rappresentano ai suoi occhi la Spagna imperialista. Come scesi da questa tela, una dama di corte e un nano, rappresentanti opposti della società spagnola, si muovono per tutto lo spettacolo in ruoli di pantomima. L’enigmatico simbolo della colomba era stato già proposto da Claudel: viene ripreso e interpretato diversamente da Greenaway. Non è necessario in questa sede sciogliere o addirittura decifrare il complesso intreccio di significati e allusioni, già tessuto fittamente da Claudel e arricchito ulteriormente da Greenaway. Comunque è riconoscibile il principio sulla base del quale si deve intendere l’uso del film in questo allestimento. Il film non compare qui, come in Claudel, come elemento di una concezione teatrale globale, ma la definisce come multimediale. Il film passa quindi letteralmente dal margine al centro, non illustra l’azione scenica, il film è un palcoscenico virtuale. Vorrei presentare questa concezione con un brano della durata di circa dieci minuti; si tratta di una scena-chiave dell’opera, il secondo e il terzo quadro della seconda parte, quando Colombo, davanti al tribunale della storia, presidiato da Satana nella persona del cuoco di bordo, deve rendere conto delle sue azioni (è stata descritta prima seguendo il testo). Agli argomenti dell’accusa Colombo non ha niente da contrapporre, però salva la sua vita e quella dei suoi compagni con la forza della parola biblica, che pronuncia nel momento di massimo pericolo, e che ha il potere di cacciare le forze del Caos (vengono nominati Leviathan e Behemoth). Questa immagine ambivalente dell’essere umano che si trova nel contrasto fra la colpa e la grazia, viene risolta da Greenaway in una chiara accusa, e la sua interpretazione si oppone allo svolgimento dell’azione come è prescritto dal testo e dalla musica. L’improvvisa quiete, che però anche in Claudel e Milhaud è solo passeggera («l’occhio del ciclone» è il nome che le dà il cuoco), riceve un contrappunto dissonante attraverso la forza distruttiva delle immagini. Mentre il cuoco osserva e commenta ciò che succede dall’alto dell’albero della nave, Colombo è prigioniero come in una gabbia nella sua cabina, con la colomba che svolazza intorno, sugli schermi si scatena un inferno di violenza, il cui immaginario è preso da Hieronymus Bosch (ma anche da Breugel, Goya e altri), montato con tagli e dissolvenze sempre più veloci. Il titolo del dipinto di Bosch (Il giudizio universale) definisce esattamente il messaggio di questo collage filmico. Durante il dialogo che segue tra Colombo e il cuoco, le immagini sullo schermo si attengono in un primo momento al contenuto del testo, ma ampliano poi l’immagine lì descritta degli indios asserviti creando un panorama degli «umiliati e oltraggiati» di vari popoli e vari periodi della storia più recente (delle vittime del napalm in Vietnam fino agli ebrei nei campi di concentramento nazisti). Con montaggi rapidi sono inserite immagini della natura e paesaggi industriali. Per dare un’idea della successione rapida del materiale di queste scene, vedremo dopo la proiezione completa della scena, due brani della stessa scena, girati da una macchina da presa che riprende tutto il palcoscenico. (esempio audiovisivo) Quando si prende in considerazione il rapporto fra l’opera e il film bisogna anche tener conto del modo in cui i due media si sono incontrati. L’interazione avviene non solo sul piano della riproduzione ma anche su quello della produ92 zione. Ciò riguarda naturalmente in prima linea l’opera, perché in genere, al momento della comparsa della cinematografia si trovava in una fase di nuovo orientamento della sua storia ed era particolarmente aperto a impulsi esterni. Si è riscontrata raramente una influenza nella direzione opposta anche se i film storici e in costume possono essere considerati un’apertura verso la posizione dell’estetica operistica. L’introduzione del film nell’opera è avvenuta in due modi differenti: da un lato, l’opera ha potuto adattare per il proprio medium delle tecniche filmiche, come il montaggio, allacciandosi a tendenze che aveva già sviluppato, si può dire ante litteram, da sola e che si sono trovate rafforzate con l’avvento del film, ma ha potuto anche integrare il nuovo medium film ampliando così la sua forma teatrale nel campo della multimedialità. Questo cammino lo percorsero in maniera esemplare Claudel e Milhaud con Christoph Colomb. Il fatto che la ricezione dell’opera non corrispose al suo significato storico può avere a che fare con le circostanze della sua nascita e delle prime rappresentazioni. Rimane però difficile da spiegare il fatto che librettisti e compositori esitarono a lungo a integrare il film nell’opera. Una ragione potrebbe essere che il teatro musicale epico, che aveva un’affinità particolare con il film, ha perso forza d’attrazione a partire dalla metà del secolo. Il nuovo riavvicinamento dei due media è avvenuto infatti non sul piano della composizione ma su quello della messinscena. Sono stati i registi a reagire alle nuove abitudini visive proprie e del pubblico, modificate dal contatto quotidiano con i nuovi media. La messinscena di Peter Greenaway di un classico Filmoper, un esempio radicale ma non unico, si rivela in questo senso estremamente attuale. Grazie. ILIO CATANI Grazie al professor Döhring per questa interessante, esauriente e analitica presentazione del Christoph Colomb. Se volessimo calarla anche nella tematica del nostro Seminario mi verrebbe la pelle d’oca pensando alla problematica di una traduzione puramente televisiva di questo lavoro, perché i frammenti che abbiamo visto sono chiaramente amatoriali: si tratta di una videocamera, una handycam che ha ripreso per motivi di studio e di documentazione un lavoro così complesso. Certo sarebbe stato interessante sapere da Greenaway stesso se avesse in progetto anche la realizzazione televisiva di un lavoro di tale portata, e questo sarebbe potuto diventare oggetto di discussione anche per noi. Mi viene da pensare alla conclusione di Landini, che definiva poco televisive le opere di Rossini. Può darsi ma in questo caso il problema è di ben altra portata. Ne possiamo discutere in seguito. Invito la signora Erben per la seconda relazione di questa sessione. 93 SUSAN ERBEN Problems and Opportunities of Getting Opera Shown in the Television, Home Video and Internet Markets, and Future Implications of New Technology Thank you. I’ll talk about television production at the Metropolitan Opera and give you a brief background on how we produce a telecast, because it differs from most of the other opera companies in the United States. We rarely do co-productions with other companies, distribution companies or television broadcasters. We’ve produced approximately three telecasts each season since 1977 for a series that goes on the air on public TV. The productions are entirely paid for by fund-raising at the Metropolitan Opera, from our patrons. We had a corporation, Texaco, who for many years paid for the telecasts, and this is the first year that we have no funding from Texaco, but we have an individual patron who is dedicated to paying for our stage productions. She started paying for television productions, and she recently left a specific endowment to the Television Department at the Met. We have an in-house Radio and Television Department, which is mostly administrative, as we hire all of our technical staff – cameramen, directors, audio engineers – on a freelance basis, and it’s generally the same people. The technical staff has consisted of the same personnel for the past twenty years, no matter who the producers have been. From my perspective, it’s technically very easy to do a television production at the Met Opera house: the entire theater is cabled for transmission for radio and television, there’s a satellite on the roof – which can feed to a local radio or TV station – and shows can be transmitted either across the country or, on occasion, internationally. The first telecast that we did, as part of this series was La bohème, with Luciano Pavarotti, in 1977; it is estimated that between 4 and 6 million viewers watched that evening. It was the start of a regular series at the Met; before that time television was produced by NBC, CBS, and major network stations that came in and televised a production as a special event. Many, many years ago NBC had an orchestra in their studio at the television station, and they maintained a certain level of cultural arts on commercial television, but in the United States network television has become completely commercial – there’s a great deal of money at stake. Public television in the United States took up the shortfalls of network television. Public television has a reputation for high quality and artistic integrity. Also, one of the requirements of public television is that it must try to present all the different views in the US, which seems inconceivable in many ways... Public TV presents opera, avant-garde theater, and dance; politically, they present programs that are either conservative or liberal. It’s a wonderful medium to have the opera presented on. One of the considerations for the Metropolitan Opera at this point in time is the fact that we’ve taped over ninety television opera productions since 1977. Approximately forty of them are available on video, and there are several operas, such as Otello and Aida, which have been taped several times. We are at a stage in which we need to decide whether it’s worth it to do another recording of the same opera that we’ve televised already. If it’s a brand-new stage production, with new stage directors, wonderful new artists, obviously it’s a good reason to go ahead and produce the same opera we’ve televised in the past. 94 The other consideration is that some of the people who fund the opera are, at times, much like the public: they want to see the more popular operas, they want to see the more popular stars. However, we are also committed to considering the fact that we have commissioned several new operas over the past ten years, one of which is The Ghost of Versailles, an American opera, which was shown on PBS and, although not seen internationally on television, was released on home video. The video doesn’t sell very well from what I understand – an unknown opera, in English –, but who knows what will happen fifty years from now? The Met felt it was important enough to commission the piece, put it on the stage, and televise it. Whether or not we receive ratings and how many people watch, I think, sometimes has to be beside the point. We can’t possibly know in advance the artistic merit of something, or how it’s going to be viewed historically. The way public television works in the United States is that we have a release date that we bill and promote as an event. The station in New York City, WNET, is the main presenter; there are many local PBS stations, and most of those stations – approximately 240 out of 300 stations – air the Metropolitan opera on the same evening, nationally. But they are local stations, which depend on local fund-raising, and have their own programming; many of them produce programs that are specific to their own market: WGBH in Boston is one of the première PBS stations that produces programming for its own market, and they also sell their programming to other PBS stations. What we have found in recent years is that some of the large opera markets will put on an opera production at 8 P.M., when there are many viewers. However, we have no influence over the local stations. They decide when they want to air a particular program. Basically, the Met produces an opera – it costs well over a million dollars today to produce an opera on television – the local stations must air it within seven days, and then all the rights expire. So if the telecast goes on PBS and is not sold in the international market, there is a very good chance it will never be seen again. Several years ago this was not an enormous concern for us, because inevitably programs would go to home video or into the international television market, so we knew that people in the world could see these productions in one way or another eventually. But today that is not the case; we used to have presales in the international market, as well as the home video. We knew that at least one production every single year was going to go to home video, but in the past three years none of our productions have been bought for home video, regardless of the artistic merit. What is especially difficult is that we depend primarily on the European market to air the telecasts. Traditionally, Italian, German, French or Spanish television always bought Met Opera programs. BBC England is a case in point: BBC Worldwide is our foreign distributor, but BBC Broadcasting has only shown one out of three programs that have been sold in the international market in the last several years. What has happened is that we’re paying much more attention to the number of people watching in the United States, and we’re discovering that there are several different dynamics. For instance, if we are on the air in late December, when it’s very cold in New York and the Northern cities in the United States, and it’s between the holidays of Christmas and New Year’s Eve, everyone stays home and watches the opera. If it’s early September it’s still summertime, and it’s warm out, and the ratings are much lower. We presented a telecast of The Queen of Spades on September 8th – we tried to air it after the summer season, when everyone in New York and other major cities had come back from the holidays – and we found that the ratings were actually quite low. It was a wonderful production: Plácido Domingo sang in his first Russian role, 95 and was taped with Valerij Gergiev; Galina Gorčakova, Dmitrij Hvorostovskij, Nikolai Putilin, Olga Borodina – it was an incredibly beautiful production... and the ratings were low! We have no idea if this is going to be picked up for home video, but I seriously doubt it in the current market. Our distributor believes that she can sell it in the international television market, but that remains to be seen. We taped The Marriage of Figaro last season, with Bryn Terfel, Cecilia Bartoli, Renée Fleming, and an American singer who came up through the «Young Artists» program at the Metropolitan, Dwayne Croft; that program is going to go on the air in late December, and we expect the ratings to be quite good; it’s also going to air in Australia, just after the PBS telecast takes place. We’re very excited about that, but this is the kind of program that six years ago would have immediately gone to home video as well, and we have no home video deal for this production. What we find too is we have fewer viewers if we televise an opera that is not in the standard repertory. We are committed to doing some productions which are not in the standard repertory: we did a production of Fedora with Mirella Freni. It was a beautiful tribute to her and her career, and the years in which she sang at the Metropolitan Opera. This is not going to be widely distributed production, but it’s in our archives. My perception varies between being very positive when we receive a call from someone who is interested in one of our productions, to becoming quite disillusioned in this business when I see things are not going into the international markets. One of the greatest things that have happened in opera is DVD. What it has done for the Met, at least, is it has given the home videos we have out on the market a new life. Laserdisc never quite took off, for us, but soon three titles are going to be out on DVD. Unfortunately, at this time we have not taken advantage of all the technological advantages of DVD: the different optional languages and the background material, but our distributors plan to do so in the future. Deutsche Grammophon has released six titles to date, and only in Japan, of DVDs that have sold quite well. This initial offering stimulated Polygram in Hamburg (the parent company for Deutsche Grammophon), to plan the worldwide release of DVDs of the Met Opera-Deutsche Grammophon catalogue. What the Japanese office did was to release a DVD with background material about the Metropolitan Opera, about the conductor (Maestro Levine, for the most part), and some material on the artists. I think in the future DVD is going to be a wonderful medium: we’ve watched the figures, and although the sales numbers are not enormous yet, they are consistent. Every year that the Met has a video out in the market, we’ve seen that they still sell. We assume it’s students coming up, people interested in having a library of the latest format, who collect operas in their own homes. I hope that it’s similar to what happened with CDs: many of us owned albums, and now we own the CD of the same title. Also, regarding the capabilities of DVD: it gives everyone, whether you’re a musicologist or a historian or simply a consumer who enjoys opera, all these other options. It gives you something extra beyond what we were able to produce in the past. One of the biggest issues is that we cannot ignore our union labor agreements in the United States. One of the fears I have of the DVD format is that the recording companies will withhold rights for a DVD release if the DVD can also be played as a recording. Recently we had an artist whom we spoke to about a telecast that we’re going to make in the future. The artist’s recording company does not want to give us the DVD rights, because they 96 don’t want people to buy a DVD and be able to listen to it as an audio recording. They are planning an audio project of the same opera. So each time a new technology comes up we find that it has its pros and cons, and there are problems that need to be addressed. I hope that this is unique to this artist, because I do think that audio recordings done in a studio are completely different from taping a live opera in the theater, which is what we do at the Met. We are not trying to make an audio recording, and although you may be able to take it home and listen to it as an audio recording, it’s not our primary intent in producing a program. Cable television in the US has also given a new life to our programs, although we’re beginning to see that come to an end. We’re not sure what direction we’re going to take with cable. Bravo Television picked up six Metropolitan Opera programs, most of which are available on home video, but we’d like to see programs that have never been released anywhere else in the world on cable, to have another life beyond public television. The other positive aspect for cable TV vis-à-vis union agreements: we are able to repeat a program ten or twelve times a year as opposed to just once a year, which is what we do on public TV. It costs much less to be on cable TV than to be on public television, in the US, although the cable audience is much smaller. Despite at a recent meeting in New York this, Bravo informed us that – although we have a very dedicated audience which loves the fact that our operas are being repeated on cable TV – they also have many viewers outside of our limited audience who are not interested in long programs; the majority of viewers prefers programs that are about an hour in length and present an autobiographical background on an artist or a company. So Bravo has decided not to pick up any additional Met programs at this time. The other aspect we find, in distribution, is that much depends on who’s in charge of a given department. Luckily, there’s a great turnover: all of a sudden someone new takes over the classical department in a video or cable company, has a great devotion for opera, and calls us. It’s very hard to be in a market where you feel as if your programs, or your artistic creation’s survival, depends on who’s running the division. You’d like the company itself to think that this is an important program to have out in the world! Recently, the Met has been approached by three separate companies who are interested in gaining the rights to be on the Internet, to stream performances over the Internet, and this has opened up enormous problems, but also enormous possibilities. The first company that approached us has great experience on the technical aspects of the Internet, and absolutely no experience in the theater. Their initial proposal, which we urged them to rethink, was to put four still cameras at the Met, four at the NY Philharmonic, four at Carnegie Hall, four at the NYC Ballet, so on any given evening at home, you could go on the Internet and look at a little of everything. You could also choose what camera you want to see the stage from. The thought that any singer, or stage director, would agree to letting the audience at home choose what angle they’re going to be seen from is inconceivable. When we said this to them, they claimed that we’re not thinking clearly about this new technology. We replied that they did not understand: we would love to have our programs seen more often, but not like this! We cannot give up the artistic merit of a stage production, of a singer (singers trust the director to present them in a certain way, the stage director trusts the TV director to present his production trying to convey the experience to the audience at home). Thankfully, the second company that approached us did talk about artistic merit, and about the fact that it was necessary to have cameramen and a director in the house. 97 The other concern is that our biggest, most consistent audience, is that on public television, so we cannot turn our backs on what we’re doing on the PBS and simply stream on the Internet. Also because the video quality, at this stage, is not up to parr with what television offers. So this is not something that’s going to happen tomorrow. But one of the companies was realistic enough to understand the union issue, and the publishing issues, and the artistic issues; so we’re speaking to them, and looking into their offer. The truth is that the Metropolitan Opera is a beautiful theater; television and radio are not our primary mission in the world of performance. However, as new technologies come up I think TV and radio are forcing us to move ahead more quickly than in the past. Many of us working in large organizations sometimes find that progress is rather slow, but we don’t want to be left behind and be the last opera company to look at new technology. In the past, we have often waited. In the US, opera companies have grown in terms of fund-raising and marketing, and in some ways the departments at the Met and other theaters have become separate. I think that new technologies are forcing us to work together more closely. The marketing department is interested in selling tickets, the TV department in getting a production on TV, the development department is interested in raising funds for all of our activities. So we used to work as separate entities. Now the marketing department wants to use video and audio clips to sell tickets, we want the marketing department to help us promote TV in a much bigger way. The mentality is such that we don’t spend as much money to promote a telecast as we do for network television; the concept of spending a great deal of advertising money just to entice more viewers is not primary. The concept of raising the money to produce the program is primary. But if we’re spending so much money to produce something for only a handful of people to see, it gets to the point where you want to say «This makes no sense». This season we’re concerned with having enough money to produce three telecasts; we’re also concerned with losing television slots on Public TV in the United States if we tell them we do not have enough funding to pay for the series. What we did for this upcoming season was produce The Queen of Spades for the first telecast, and The Marriage of Figaro, as the second telecast, which is a real turning point for the Metropolitan Opera – we’re starting to produce telecasts with a new generation of singers: Cecilia Bartoli, Bryn Terfel, artists who have already been seen on TV in other parts of the world. The third telecast is a re-broadcast from 1982 of Rosenkavalier, with Kiri Te Kanawa and Judith Blegen, Luciano Pavarotti, and Kurt Moll. We wanted to keep the series of three telecasts on PBS, and what we found was that, with a re-broadcast, we have enough money to air three telecasts, which is very exciting for us. Also, we’re thrilled that Rosenkavalier is going on the air again, PBS is very happy that we included this program, because now they’ve also started going into their own archival material for programming. I think someone talked about this yesterday, that archives are very important, but at some point you can only present an archival program so many times, the future has to be taken into consideration as well. What I think is going to happen, in terms of the Internet, is that, as you know, many of us have a VCR, we aren’t going to be home, we want to see a program so we tape it and watch it at our leisure – the Internet may provide on-demand capabilities. The NY Philharmonic started a series called «The Rush Hour Concerts». The selected programs last an hour and a half, and they begin earlier than 8 P.M., which is the usual time in NY to go to a performance. So you can go to a performance at 7 in the evening, and at 8.30 the performance is over. When 98 you are working all day that works out fine. I know that the Met, a few years ago, started having some of the opera performances at 7 P.M., so that they would end an hour earlier than usual. That idea had a great deal of success, and sold a great deal of tickets. In the theater, our performance time and the way we present performances is becoming more flexible, and still with a telecast we go on the air at 8 P.M. We hope other stations will air it at 8 P.M. and no later, and we hope everyone will watch the entire performance – but there is a dropoff of viewers toward 11:00 pm. Several years ago one of the European stations, which was presenting one of our programs, called our distributor and asked for permission to air one act per evening, on three consecutive evenings, and we had to say no, because of our union agreements, which is unfortunate, because they wanted to turn it into an event, and a series. There is a discussion as to whether you should watch opera all together, or piecemeal. We know that some compilation videos – the videos Deutsche Grammophon and Decca have put out with famous arias – sell well, and we hope they’ll inspire people to buy the full program, and to sit down and watch it. We have no way of knowing, in market research, whether this has had a great effect on sales of the complete operas, but we know the compilation programs sell quite well. I think that for the future the Internet is going to give us the capability to provide what is called in the United States «video on demand». What one of the Internet companies we interviewed is doing is presenting a live event, advertising it as a live event, and trying to get people to come and watch the entire program when it’s happening. Afterward, for another week, two weeks, a year, or however long this program has a life and people want to see it, you can pull it up and watch it in its entirety again or you can watch it piecemeal. If you have permission from the company you can download it, and burn it onto a CD or DVD. These are the proposals that people are looking into for the future. What I find cannot be ignored, and which some of the companies don’t want to discuss, are the union issues. However, these are huge issues, because certainly the musicians’ union in the US, especially in terms of opera, symphony and ballet programming, has a great deal of influence on the direction the markets will take. The union agreements that I deal with at the Met are technically out of date, starting with the definitions of television: standard television, non-standard television... The Internet is being discussed now, and the question is: «is it television, or is it another form of home video?»; if you’re downloading into a CD or a DVD, what is the format? The way in which people are paid for these different types of releases is quite different. Home video has been, in the long term, quite successful and very simple to distribute, because we have no limits to the amount of years we can sell a home video and, quite simply, if we make money on a home video, artists and unions make money on the home video as well. It’s all on a royalty basis. But television isn’t treated this way – there is the perception that there’s loads more money, for some reason, in TV than there is from home video sales. There are less opera slots available on TV as stations are being pushed to present more commercial programming; it also costs much more money to be on television, and there are strict limits to the amount of rights. The amount of money we must spend to produce a telecast should be the same or perhaps less than home video, because the telecast market does not produce much revenue. One of the things that’s hopeful, in terms of the union issue, is that orchestra managers, the labor negotiator at the Metropolitan Opera, and the musicians’ union have begun discussing replacing the old definitions for television in the contracts. This is the first time that this has happened. The NY 99 Philharmonic, the labor director from the Met, and the orchestra manager from the Philadelphia Orchestra are discussing with the musicians’ union all of the implications of the new technology offered by the Internet. There have been proposals to throw out all of the old definitions and make new ones. It’s doubtful whether musicians are going to move in the direction of accepting new technology quickly, but for next year they’ve already agreed to extend the contract (only for one year) so we can begin addressing these new audiovisual issues. In the United States, the agreement expired on July 31st of this year. I think these discussions are a huge step towards incorporating new technology for the Met programs as well as for the rest of cultural programming in the US, and I hope that it will have positive implications for worldwide releases. I attend the IMZ Midem Festival every year, and there are international broadcasters and programmers there, and we see each other’s programs. Then I return home and I have ninety-six stations on my cable TV. Perhaps one of these transmits international programming, but very often much of what I see at the IMZ I will never see in the US. However, a US cable station repeats the same program over and over again: I can see the same autobiography or the same performance as many times as I want. It’s amazing to me that there’s so much programming, so many television stations, and yet we’re not quite connected worldwide yet, in terms of being able to watch an international program from Italy or from France...it simply isn’t easily accessible. What we would hope is that eventually it will not be so difficult to view a wide variety of programs of interest. On cable TV, it becomes quickly apparent what programs are considered successful and what programs aren’t. Several of the US cable stations, such as Bravo, were dedicated to presenting arts and cultural programming; but they’ve not been able to devote themselves solely to performances, although they still try to present programs with artistic merit. They can run TV commercials, which the PBS is not allowed to do, and therefore the pressure of earning revenues has an effect on programming. A&E (Arts & Entertainment), which started before Bravo, I believe, was not able to continue to present only performances, now they present a lot of films; they’ve found their own niche in that they present a lot of autobiographical programs and they found that it’s very successful. The History Channel has been very successful – and taken viewers from PBS. PBS tracks television trends across commercial, public and cable TV. The network stations are very upset because they’re losing viewers to cable stations. Public television is incredibly forwardthinking; they have less money than the networks so they have really taken a hard look at what’s going on in the rest of TV. They have less to lose than the network stations, because they’re not making a great deal of money in the commercial market, since they’re more interested in maintaining their level of programming, no matter what the market bears. They don’t want to lose programming to cable TV, but the reality is there are some very good, artistically wonderful programs available on cable TV as well as public television. Public TV has been able to maintain much of their audience because they have continued to produce programs, and they continue to pay attention to what specific groups of people want to see, with an eye to keeping it very high in quality. The Met’s been very fortunate in that, in the performance realm, PBS finds our programming is important. I know that the Washington Opera has produced three telecasts and they had difficulty in scheduling airtime on PBS. The Met does not want to find itself in a position with PBS where we’re told «Sorry, you only have two slots a year now.» One year ago I could not have foreseen that we would have any titles on DVD, because it seemed as if Pioneer and Deutsche Grammophon’s parent company might be sold off to companies with no interest in classical music, or 100 the labels didn’t seem interested in devoting any more money into the opera programs we were distributing, and then suddenly everybody had to have a DVD. We would like to think, based on these companies’ decisions, that there’s an up-cycle taking place: companies are devoting money to opera DVDs, unions are addressing the new technology issues (an unusual precedent), and international forums, by the IMZ or this forum, will hopefully open up the worldwide markets so that we’ll be able to continue to distribute the programs worldwide. The first video I’ll show is an example of the program Aida from 1989; it was on PBS, for which it won an Emmy, it was sold in the international television markets, it is available on home video, and it recouped home video costs within three years of release, which is an enormous success. The second clip is from The Ghost of Versailles, which was shown on PBS and released on home video. I have no idea if you can even find the home video version in most of the markets. The next three clips are excerpts from this season’s PBS series on the Metropolitan Opera. (audiovisual examples) In conclusion, I’d like to believe that regardless of whether we’re watching the opera on TV, the Internet or whatever medium, we’ll continue to produce the opera. We must remain flexible to the possibilities and options that technology offers us. Thank you. Problemi e possibilità di far trasmettere l’opera lirica sui mercati della televisione, dello home video e di Internet, e implicazioni future delle nuove tecnologie [Grazie. Vorrei parlarvi delle produzioni televisive del Metropolitan e darvi qualche ragguaglio sul modo in cui realizziamo le trasmissioni televisive, poiché differisce da quello in uso presso la maggior parte delle compagnie d’opera degli Stati Uniti. Stabiliamo raramente rapporti di co-produzione con altri teatri, compagnie di distribuzione o reti televisive; realizziamo circa tre produzioni televisive ogni stagione dal 1977, all’interno di una serie che viene trasmessa sulle reti pubbliche (PBS) e le spese di produzione vengono coperte in toto dalla raccolta di fondi presso abbonati e mecenati del Metropolitan. Per diversi anni la Texaco ha finanziato le teletrasmissioni; questo è il primo anno in cui non abbiamo ricevuto fondi dalla Texaco, tuttavia una nostra mecenate ha deciso di finanziare le produzioni televisive, disponendo di stanziare un fondo per il Dipartimento televisivo del Metropolitan. Siamo infatti dotati di un Dipartimento radio-televisivo interno che, tuttavia, si occupa soprattutto di aspetti amministrativi poiché il personale specializzato – cameraman, registi, tecnici del suono – viene assunto con contratti libero professionali, e generalmente si tratta sempre delle stesse persone. Lo staff tecnico è lo stesso da vent’anni a questa parte nonostante siano cambiati i produttori. Secondo me è molto semplice realizzare una produzione televisiva al Metropolitan, quanto meno dal punto di vista tecnico, poiché il teatro è completamente cablato per consentire trasmissioni radio-televisive. Abbiamo un satellite sul tetto in grado di inviare dati alle stazioni radio-televisive locali, nazionali oppure, in qualche particolare occasione, anche internazionali. La prima teletrasmissione di questa serie è stata La bohème con Luciano Pavarotti, nel 1977: secondo alcune stime, la sera della messa in onda lo spet101 tacolo è stato seguito da 4-6 milioni di telespettatori, dando inizio a una vera e propria serie al Metropolitan. Precedentemente, le produzioni televisive venivano realizzate di quando in quando, come evento eccezionale, da reti quali NBC, CBS e altre. Molti anni fa la NBC aveva una propria orchestra all’interno dei loro studios e la rete si fregiava di offrire prodotti di buon livello culturale. Purtroppo, oggigiorno negli Stati Uniti tutti i network offrono una programmazione di tipo esclusivamente commerciale poiché c’è molto denaro in gioco. Per contro, la televisione pubblica (PBS) è subentrata a colmare il vuoto lasciato dai network e gode perciò di un’ottima reputazione in termini qualitativi e di integrità artistica. Uno dei requisiti della PBS è quello di dare voce ai diversi punti di vista negli Stati Uniti, un’impresa quasi impossibile... Vengono trasmessi spettacoli operistici, teatro d’avanguardia, balletti e – per quanto riguarda le trasmissioni di carattere politico – programmi di stampo conservatore o, al contrario, liberale; la PBS costituisce pertanto uno splendido medium per presentare l’opera lirica. Attualmente al Metropolitan dobbiamo fare i conti col fatto che, dal 1977, abbiamo filmato più di novanta rappresentazioni operistiche per la televisione. Una quarantina di queste sono disponibili in homevideo, e ve ne sono alcune – quali Otello e Aida – che sono state filmate diverse volte. Siamo giunti a una fase in cui bisogna di volta in volta decidere se sia il caso, per ragioni di carattere artistico, di filmare nuovamente un’opera che è già stata teletrasmessa. Se si tratta di una produzione nuova di zecca, con nuovi direttori di scena e magnifici nuovi artisti, naturalmente vi sono ragioni sufficienti per procedere come in passato. Un altro ordine di considerazioni da tenere presente è che i finanziatori delle opere talvolta somigliano molto agli spettatori, nel senso che preferiscono vedere in cartellone le opere più popolari interpretate dai cantanti più in voga. Per contro noi dobbiamo anche considerare che ci siamo assunti l’onere di commissionare nuove opere, impegno che abbiamo assolto svariate volte nell’ultimo decennio. È il caso di The Ghost of Versailles, un’opera statunitense andata in onda sulla PBS, che non è ancora stata trasmessa all’estero ma di cui è stato prodotto lo homevideo. Mi risulta che questo non venda molto bene ma chi può dire cosa succederà fra cinquant’anni? Il Metropolitan ha ritenuto che fosse importante commissionare l’opera, allestirne la rappresentazione teatrale e trasmetterla in televisione. Penso che alcune volte l’indice d’ascolto debba essere messo da parte in nome del fatto che forse non siamo in grado di valutare anticipatamente il pregio artistico di un’opera, né di sapere come verrà considerata a distanza di tempo. Il meccanismo usato dalla PBS negli Stati Uniti è quello di promuovere la teletrasmissione di un nuovo lavoro come «evento». Il canale preferenziale è la stazione televisiva di New York, la WNET; vi sono, inoltre, molte stazioni pubbliche locali, la maggior parte delle quali (circa duecentoquaranta su un totale di trecento) trasmette l’opera del Metropolitan la stessa sera, a livello nazionale. Si tratta di stazioni televisive locali che dipendono da raccolte di fondi locali e che hanno una programmazione propria; molte di queste producono inoltre trasmissioni specifiche destinate ai propri mercati: la stazione WGBH di Boston è la capofila nel produrre trasmissioni per il proprio mercato e venderele ad altre stazioni della rete pubblica. Negli ultimi anni abbiamo riscontrato che in alcuni mercati dove l’opera va per la maggiore gli spettacoli vengono trasmessi la sera alle 20, quando ci sono molti telespettatori. Non siamo in grado di esercitare alcuna influenza sulle stazioni locali. Sono loro a decidere quando vogliono trasmettere i programmi. In pratica il 102 Metropolitan produce un’opera – e oggi ci vuole più di un milione di dollari per produrre un’opera in televisione – e le stazioni locali devono mandarla in onda entro sette giorni perché dopo decadono i diritti. Di conseguenza, se una produzione viene trasmessa dalla PBS e non viene venduta sul mercato internazionale ci sono buone probabilità che non venga vista mai più. Alcuni anni fa questo fatto non ci preoccupava molto poiché da un programma veniva quasi automaticamente ricavato lo homevideo, oppure veniva venduto sul mercato internazionale; in tal modo avevamo la certezza che chiunque al mondo volesse poteva vedere queste produzioni, in un modo o nell’altro. Oggi la situazione è mutata; un tempo facevamo prevendite degli spettacoli per il mercato internazionale e per lo homevideo ma purtroppo, negli ultimi tre anni nessuna delle nostre produzioni è stata acquistata per trarne un video, a prescindere da considerazioni sui meriti artistici. Lo scoglio maggiore è che dipendiamo soprattutto dal mercato europeo per la trasmissione delle produzioni televisive. Le televisioni di Italia, Germania, Francia e Spagna hanno sempre acquistato gli spettacoli prodotti dal Metropolitan Opera. Un esempio concreto è quello della BBC: la BBC Worldwide è il nostro distributore internazionale, tuttavia la BBC Broadcasting ha trasmesso soltanto uno dei tre programmi che abbiamo venduto sul mercato internazionale negli ultimi anni. Ora stiamo facendo molta più attenzione al numero di telespettatori che abbiamo negli Stati Uniti e abbiamo riscontrato che vi sono diverse dinamiche. Se, per esempio, viene trasmessa una nostra produzione alla fine di dicembre, tra le festività natalizie e Capodanno, quando a New York e nelle città del Nord fa molto freddo, tutti restano a casa per vedere l’opera, mentre se andiamo in onda all’inizio di settembre, quando il clima è ancora estivo, abbiamo molti meno telespettatori. Abbiamo presentato una produzione della Donna di picche l’8 settembre – la data della messa in onda è stata decisa pensando che gli abitanti di New York e di altre grandi città fossero tornati dalle ferie – ma abbiamo riscontrato che il numero di telespettatori è stato piuttosto esiguo. Si tratta di una produzione splendida: Plácido Domingo canta per la prima volta questo ruolo in russo, e nella registrazione figurano anche Valerij Gergiev; Galina Gorčakova, Dmitrij Hvorostovskij, Nikolai Putilin e Olga Borodina. Una produzione di straordinaria bellezza... e un indice d’ascolto basso! Non sappiamo se questo titolo verrà riproposto per lo homevideo ma ho dei seri dubbi, visto il mercato attuale. Il nostro distributore pensa di riuscire a vendere il programma sul mercato televisivo internazionale ma per ora non vi sono certezze. La scorsa stagione abbiamo registrato Le nozze di Figaro con Bryn Terfel, Cecilia Bartoli, Renée Fleming e un cantante statunitense emerso grazie al concorso «Giovani Artisti» promosso dal Metropolitan, Dwayne Croft. Il programma verrà trasmesso alla fine di dicembre e ci aspettiamo che gli ascolti siano buoni. Immediatamente dopo la trasmissione da parte della PBS statunitense l’opera verrà trasmessa anche in Australia. Ne siamo ben felici, tuttavia questo è il genere di produzione che, soltanto sei anni fa, sarebbe passata immediatamente al mercato dello homevideo mentre attualmente non abbiamo ancora avuto proposte in tal senso. Abbiamo inoltre riscontrato che, se proponiamo opere che non fanno parte del repertorio tradizionale, queste vengono seguite da un minor numero di telespettatori. Tuttavia, ci sforziamo di produrre un certo numero di opere che non fanno parte del repertorio standard. Un esempio fra queste è Fedora con Mirella Freni: si tratta di uno splendido omaggio alla cantante e alla sua carriera, e a tutti gli anni in cui ha cantato al Metropolitan. Non si tratterà di una produzione di ampia distribuzione ma fa già parte del nostro archivio. 103 Il mio stato d’animo rispetto a questo lavoro oscilla fra positività – quando veniamo contattati da qualcuno che mostra interesse nelle nostre produzioni – e disillusione quando mi rendo conto che le produzioni non prendono la strada dei mercati internazionali. Una delle cose migliori che siano capitate all’opera è l’avvento del DVD. Quello che è accaduto al Met, quanto meno, è che ha dato una seconda vita alla produzione di homevideo già immessa sul mercato. Per quanto ci riguarda il laserdisc non è mai decollato, ma presto avremo tre titoli in DVD. Purtroppo in questa occasione non abbiamo sfruttato tutti i vantaggi offerti dalla tecnologia del medium: mi riferisco alla possibilità di scegliere fra diverse lingue e al materiale informativo, tuttavia i nostri distributori si ripromettono di aggiungerlo in seguito. Allo stato attuale, la Deutsche Grammophon ha immesso, soltanto nel mercato giapponese, sei titoli in DVD che hanno venduto discretamente bene. Questo successo iniziale ha spinto la Polygram di Amburgo (la società madre della Deutsche Grammophon) a pianificare l’uscita, a livello mondiale, del catalogo di opere prodotte dal Metropolitan Opera insieme alla Deutsche Grammophon. Ciò che è stato fatto dalla filiale giapponese è di mettere in commercio un DVD con molto materiale informativo riguardo il Metropolitan, il direttore d’orchestra (perloppiù il Maestro Levine) e i cantanti. Penso che in futuro il DVD sarà un mezzo fantastico: abbiamo cominciato a studiare le cifre e, sebbene le vendite non siano ancora molto elevate, sono stabili. Ogni anno il Met immette un video sul mercato perché abbiamo rilevato che questi hanno ancora un mercato. Pensiamo che si tratti di studenti o di persone interessate ad avere una collezione a casa propria nel formato più recente. È auspicabile che somigli al fenomeno dei CD: molti di noi possedevano LP, e abbiamo ricomprato gli stessi titoli in CD. Per quanto riguarda le potenzialità del DVD, esso offre a chiunque – che si tratti di un musicologo, di uno storico o semplicemente di un appassionato d’opera – molte possibilità in più, degli «extra» rispetto a ciò che eravamo in grado di produrre in passato. Uno dei grandi problemi che dobbiamo affrontare è il fatto che non possiamo ignorare gli accordi sindacali statunitensi. Temo che le case discografiche non concederanno il permesso di produrre un DVD se questo può essere anche ascoltato come fosse una registrazione audio. Di recente abbiamo avuto il caso di un artista a cui abbiamo proposto di partecipare alla produzione di una registrazione audiovisiva che abbiamo in progetto. La casa discografica a cui questi è legato da contratto non vuole concederci i diritti per il formato DVD perché non vuole che si possa acquistare il prodotto e poi ascoltarlo come se si trattasse di una registrazione audio, giacché loro hanno in progetto di fare una registrazione audio della stessa opera. Quindi, ogni volta che compare una nuova tecnologia scopriamo che ha pregi e difetti, e che ci sono problemi nuovi da affrontare. Spero che il caso che vi ho raccontato rappresenti un’eccezione perché sono fermamente convinta che una registrazione audio fatta in sala di incisione sia profondamente diversa dalla registrazione di un’opera dal vivo in teatro, che è quello che facciamo al Met. Non aspiriamo a fare una registrazione audio e, sebbene l’acquirente possa portare a casa il DVD e ascoltarlo come se lo fosse, non è questo il nostro obiettivo primario nel produrre un programma. Negli Stati Uniti anche la televisione via cavo ha dato nuova vita ai nostri programmi, sebbene sia un fenomeno destinato a finire. Non sappiamo ancora quale linea di comportamento adotteremo rispetto a questo mezzo. Bravo Television ha ripreso sei programmi operistici del Metropolitan Opera, la maggior parte dei quali è disponibile in homevideo, mentre noi vorremmo che venissero trasmessi programmi che non siano stati visti nel resto del mondo dopo il passaggio sulla televisione pubblica. 104 Uno degli aspetti positivi della televisione via cavo è che, pur rispettando gli accordi sindacali, possiamo trasmettere un programma dieci-dodici volte in un anno contro un unico passaggio all’anno, garantito dalla televisione pubblica. Negli Stati Uniti il costo di un passaggio sulla televisione via cavo è molto inferiore a quello della PBS, anche perché il numero di spettatori della prima è numericamente inferiore a quello della seconda. Nonostante ciò i produttori della Bravo ci hanno riferito, durante un recente incontro a New York, che abbiamo un pubblico molto fedele, entusiasta del fatto che le opere vengano ritrasmesse dalla televisione via cavo. Tuttavia essi devono fare i conti con i tanti spettatori, al di fuori del nostro ristretto pubblico, che non gradiscono i programmi lunghi. La maggior parte degli spettatori preferisce programmi di un ora che presentino un profilo biografico di un artista o di una compagnia teatrale. Di conseguenza Bravo ha deciso di non aggiungere altri programmi del Met alle loro trasmissioni in questo momento. Per quanto riguarda la distribuzione, abbiamo riscontrato che molto dipende dall’individuo che si trova a capo di un dato dipartimento. Per fortuna, c’è sempre un grande ricambio: all’improvviso arriva un nuovo dirigente del settore musica classica di una società produttrice di video oppure di un canale di TV via cavo, che ha una grande passione per la lirica e ci chiama. È arduo trovarsi in un mercato in cui sembra che la programmazione e la sopravvivenza delle nostre creazioni artistiche dipendano dal responsabile di un certo settore. Piacerebbe pensare che sia la compagnia intera a ritenere che sia importante trasmettere determinati programmi! Di recente il Met è stato contattato da tre diverse compagnie interessate ad acquisire i diritti Internet per trasmettere rappresentazioni in rete; tale proposta ha dato origine a enormi problemi ma offre altrettante possibilità. La prima delle compagnie ha grande esperienza di Internet sotto il profilo tecnico, e nessuna esperienza di teatro. La proposta iniziale, che abbiamo chiesto loro di ri-formulare, era quella di mettere quattro telecamere al Met, quattro alla New York Philharmonic, quattro a Carnegie Hall e quattro al New York City Ballet, in modo che in qualsiasi momento, da casa tramite Internet, l’utente potesse vedere un po’ di tutto, scegliendo anche la telecamera desiderata. L’idea che qualsiasi cantante o regista acconsenta a far decidere allo spettatore a casa da quale angolatura vedere lo spettacolo è inconcepibile. Quando lo abbiamo fatto presente, ci hanno risposto che non abbiamo le idee chiare su questa nuova tecnologia. Abbiamo risposto che sono loro a non capire: ci piacerebbe molto che i nostri programmi venissero trasmessi più spesso ma non in questo modo! Non possiamo fare a meno delle qualità sia della regia sia del cantante (che, a sua volta, si fida del fatto che il regista lo presenti in un certo modo, come il regista teatrale confida nel fatto che il regista televisivo presenti la produzione in modo da trasmettere l’esperienza teatrale al pubblico a casa). Per fortuna la seconda compagnia che ci ha contattati ha preso in considerazione anche l’aspetto artistico, compreso il fatto che era necessario avere un loro cameraman e un regista presenti in teatro. Un’altra preoccupazione è che il nostro pubblico più vasto e fedele è quello della televisione pubblica, quindi non possiamo voltare le spalle alla PBS e passare semplicemente a Internet; anche perché la qualità di trasmissione video, allo stato attuale, non è al livello di quella offerta dalla televisione. Quindi non sono decisioni da prendersi dall’oggi al domani. In ogni caso una delle compagnie aveva le idee sufficientemente chiare per comprendere i problemi di carattere sindacale, editoriale e artistico, dunque stiamo continuando a vagliare la loro proposta. In realtà il Metropolitan Opera è un bellissimo teatro; la televisione e la radio non sono la nostra missione primaria nel mondo dello spettacolo. In ogni 105 caso le nuove tecnologie che emergono ci costringono a progredire più velocemente che in passato. Molti di noi che lavoriamo all’interno di organizzazioni di grandi dimensioni talvolta pensiamo che si proceda con eccessiva lentezza, tuttavia non vogliamo rimanere indietro ed essere l’ultima compagnia d’opera che si interessa alle nuove tecnologie. In passato, abbiamo spesso aspettato. Negli Stati Uniti, le compagnie d’opera sono cresciute in termini di raccolta di fondi e marketing e sotto molti aspetti i diversi dipartimenti, al Met come in altri teatri, sono diventati entità separate. Credo che le nuove tecnologie ci stiano costringendo a lavorare nuovamente insieme. L’obiettivo del dipartimento preposto al marketing è di vendere biglietti, quello televisivo vuole far trasmettere le produzioni in televisione mentre al dipartimento dello sviluppo interessa raccogliere fondi per tutte le nostre attività. Lavoravamo come entità separate. Ora, invece, il dipartimento di marketing vuole usare audio e videoclip per vendere biglietti, e noi chiediamo a quelli del marketing di aiutarci a promuovere la televisione in maniera più incisiva. L’atteggiamento è tale per cui non vogliamo spendere altrettanto denaro per promuovere una produzione televisiva quanto ne spendiamo per la televisione via cavo: il concetto di spendere grandi cifre solo per allettare un maggior numero di telespettatori non è di primaria importanza, mentre il concetto di riuscire a reperire i fondi per produrre il programma lo è. Tuttavia, se si spendono tanti soldi per produrre qualcosa che viene visto solo da una manciata di persone, ci si chiede se abbia un senso. Nella passata stagione abbiamo dovuto affrontare il problema di produrre tre trasmissioni televisive, ed eravamo preoccupati di perdere gli spazi televisivi, qualora fossimo stati costretti a dire loro che non avevamo fondi sufficienti per coprire le spese. Abbiamo risolto facendo una produzione della Donna di picche e Le nozze di Figaro, opera questa che segna una svolta per il Metropolitan perché abbiamo cominciato a produrre teletrasmissioni con una nuova generazione di cantanti quali Cecilia Bartoli e Bryn Terfel, per citare i nomi di coloro che sono già stati visti in televisione in altre parti del mondo. La terza produzione televisiva è una riedizione del Rosenkavalier del 1982, con Kiri Te Kanawa, Judith Blegen, Luciano Pavarotti e Kurt Moll. Abbiamo voluto mantenere i consueti tre spazi sulla televisione pubblica e abbiamo appurato che, utilizzando una riedizione, siamo in grado di mandare in onda tre produzioni, cosa per noi molto positiva. Inoltre la televisione pubblica ha assecondato la nostra scelta di riproporre il Rosenkavalier anche perché li ha stimolati a riutilizzare il loro materiale di archivio per la programmazione. Credo che ieri qualcuno abbia fatto cenno all’importanza degli archivi, tuttavia non si possono riproporre solo programmi tratti dagli archivi, bisogna prendere in considerazione anche il futuro. Quello che credo accadrà, in termini di Internet, è che consentirà una fruizione su richiesta, ovvero se sappiamo di non poter vedere un programma quando va in onda, lo si registra. La New York Philharmonic ha creato una stagione intitolata «I Concerti dell’Ora di Punta». I programmi durano un’ora e mezzo e cominciano prima delle 20.00, che è l’orario normale per le rappresentazioni a New York. In tal modo si può assistere a uno spettacolo alle 19.00, sapendo che questo finirà entro le 20.30. Quando si lavora tutto il giorno è abbastanza funzionale. Al Metropolitan qualche anno fa abbiamo provato a far cominciare le rappresentazioni alle 19.00 in modo che finissero un’ora prima del solito. L’idea ebbe molto successo e si vendette una grande quantità di biglietti. La programmazione delle rappresentazioni sta diventando via via più flessibile, eppure le trasmissioni televisive vanno in onda alle 20.00. Speriamo che anche le altre stazioni televisive trasmettano alle 20.00 e non più tardi, e che tutti vedano l’opera per intero anche se sappiamo che c’è un calo negli ascolti intorno alle 23.00. 106 Diversi anni fa una delle stazioni europee che presentava uno dei nostri programmi ha chiamato il nostro distributore per chiedere il permesso di mettere in onda un atto ogni sera, per tre sere consecutive. Purtroppo abbiamo dovuto dire di no per problemi di accordi sindacali, ed è un peccato perché la proposta mirava a farlo diventare un evento e poi una serie. Si discute molto sull’opportunità di vedere un’opera per intero oppure divisa. Sappiamo che alcuni video antologici – quelli prodotti da Deutsche Grammophon e Decca, contenenti le arie celebri – vendono assai bene, e speriamo che ispirino le persone ad acquistare l’opera completa per poterla vedere. Nelle ricerche di mercato non c’è modo di scoprire se i video antologici abbiano avuto alcun effetto sulle vendite di opere complete, sappiamo soltanto che le antologie vendono bene. In futuro, credo che Internet ci darà la possibilità di offrire ciò che negli Stati Uniti viene chiamato video on demand [video su richiesta, N.d.T.]. Una delle compagnie con cui abbiamo avuto contatti propone di presentare un evento dal vivo, reclamizzandolo come tale per cercare di attirare molti spettatori ad assistervi mentre ha luogo; successivamente, per una settimana, due settimane, un anno, finché il programma ha vita e ci sono persone che lo vogliano vedere, lo si può vedere nuovamente, per intero o a pezzi. Se c’è il permesso della compagnia lo si può anche «scaricare» e copiare su CD o DVD. Sono queste le proposte che bisogna vagliare per il futuro. Trovo che tuttavia non si possano ignorare le problematiche sindacali, argomento che molte compagnie non vogliono affrontare. Si tratta di problemi enormi perché negli Stati Uniti il sindacato dei musicisti, specie per quanto riguarda l’opera nonché le programmazioni sinfonica e coreutica, può influire molto sulla direzione che prende il mercato. Gli accordi sindacali con cui ho a che fare al Metropolitan sono obsoleti sotto il profilo tecnico: televisione standard oppure non-standard... Ora è in discussione Internet, e ci si chiede se sia una forma di televisione oppure di homevideo. Se si scarica un programma su CD o DVD, qual è il formato? Le retribuzioni per le diverse tipologie di medium possono variare molto. Come progetto a lungo termine lo homevideo si è rivelato essere un grande successo: è molto semplice da distribuire poiché non abbiamo limitazioni temporali per vendere le videocassette e, molto semplicemente, se noi ci guadagniamo ci guadagnano anche gli artisti e i sindacati. Tutto si basa sui diritti d’autore. Ma la televisione non funziona così perché si pensa che ci siano molti più soldi (per qualche strana ragione) nella televisione che nella vendita di homevideo. Ci sono meno spazi man mano che le stazioni televisive vengono spinte a trasmettere una programmazione più commerciale; inoltre, è assai più costoso trasmettere in televisione, e i diritti sono regolamentati rigidamente. La spesa che dobbiamo affrontare per produrre un programma televisivo dovrebbere essere pari, o forse inferiore, a quella necessaria per produrre un homevideo, giacché il mercato delle trasmissioni televisive non produce introiti. Per quanto riguarda gli accordi sindacali, i manager dell’orchestra, il rappresentante sindacale del Metropolitan e il sindacato dei musicisti hanno intavolato una discussione sull’aggiornamento dei contratti in termini di definizione di «televisione». Tutto ciò fa ben sperare, perché è la prima volta che succede. La New York Philharminic, il direttore dei sindacati del Metropolitan e il manager della Philadelphia Orchestra stanno discutendo, insieme al sindacato musicisti, tutte le possibili implicazioni della nuova tecnologia offerta da Internet. È stato proposto di buttare via tutte le vecchie definizioni e di riformularle, tuttavia è dubitabile che i musicisti accettino in breve tempo le nuove tecnologie, anche se per il prossimo anno è stato pattuito un rinnovo contrattuale di un solo anno, in modo da poter affrontare le tematiche audiovisive. 107 Negli Stati Uniti il contratto scade il 31 luglio di quest’anno. Credo che riunirsi per discutere sia un grande passo avanti per incorporare le nuove tecnologie per i programmi del Metropolitan e anche per tutta la programmazione culturale negli Stati Uniti, e spero che abbia esiti favorevoli anche per il resto del mondo. Partecipo ogni anno all’IMZ Midem Festival, che è frequentato da professionisti della trasmissione e della programmazione televisiva, e vediamo gli uni i programmi degli altri. Poi torno a casa e ho 96 canali sulla mia televisione via cavo. Forse uno di questi trasmette una programmazione internazionale ma, spesso, quello che vedo all’IMZ non verrà mai trasmesso negli Stati Uniti. Invece, le TV via cavo negli Stati Uniti ripetono la stessa programmazione: posso vedere la stessa autobiografia o lo stesso spettacolo tutte le volte che voglio. Per me è stupefacente il fatto che ci sia una programmazione così ricca, così tante stazioni televisive, eppure non siamo ancora del tutto collegati a livello mondiale, nel senso di poter guardare una trasmissione italiana o francese... non è facilmente accessibile. È auspicabile che diventi più facile vedere una più ampia gamma di programmi interessanti. Sulla televisione via cavo è subito chiaro quali sono i programmi ben riusciti e quali no. Molti canali via cavo, quali Bravo, trasmettevano una programmazione dedicata alle arti e alla cultura, tuttavia non si sono potuti dedicare esclusivamente alle rappresentazioni, anche se cercano di offrire programmi che abbiano un valore artistico. Hanno la facoltà di trasmettere spot televisivi, cosa che la televisione pubblica non può fare, pertanto l’esigenza di creare profitto ha conseguenze anche sulla programmazione. A&E (Arts & Entertainment), che credo abbia cominciato prima di Bravo, non ha potuto continuare a presentare soltanto spettacoli ma ha cominciato a proporre molti film; ora si sono creati una nicchia trasmettendo molti programmi autobiografici, che hanno riscontrato il favore del pubblico. Lo History Channel ha riscosso molto successo – ed ha anche sottratto molti spettatori alla televisione pubblica, che tiene traccia dei trend televisivi lungo l’arco delle reti commerciali, pubbliche e via cavo. I network sono disperati perché stanno perdendo telespettatori a favore della televisione via cavo. La televisione pubblica ha una mentalità incredibilmente avanzata; dispone di meno denaro dei network, quindi studia attentamente quello che sta accadendo nel resto della televisione, giacché non guadagna grandi somme sul mercato ed è più interessata a mantenere alto il livello della programmazione a prescindere da quello che offre il mercato. Non vuole perdere spettatori rispetto alla TV via cavo, anche se in realtà ci sono ottimi programmi, di grande valore artistico, disponibili sia sulla TV via cavo sia su quella pubblica. La televisione pubblica ha tuttavia mantenuto gran parte dei propri spettatori perché continua a produrre i propri programmi prestando attenzione a ciò che interessa specifici gruppi di utenti, e mantenendo elevato lo standard qualitativo. Fortunatamente la programmazione del Metropolitan viene da loro tuttora considerata di grande interesse. So che l’Opera di Washington ha prodotto tre trasmissioni televisive ma ha avuto difficoltà a trovare spazio sul canale pubblico. Quindi il Metropolitan non vuole trovarsi in condizione tale da vedere ridurre il proprio spazio televisivo a due sole teletrasmissioni all’anno. Un anno fa non avrei pensato che avremmo avuto titoli in DVD perché sembrava che la società madre di Pioneer e Deutsche Grammophon dovesse essere ceduta ad altre società che non hanno alcun interesse nel settore della musica classica; le etichette non sembravano voler destinare altro denaro alle trasmissioni di lirica che noi distribuiamo, poi all’improvviso tutti dovevano uscire con un DVD. 108 Ci piacerebbe poter credere, sulla base delle decisioni prese da queste società, che sia in atto una crescita della domanda: le società che investono nella produzione di DVD di opere, i sindacati che affrontano i problemi legati alle nuove tecnologie (creando un precedente inusuale) e i forum internazionali – quali l’IMZ o questo Seminario – che ne parlano, fanno ben sperare in un’apertura dei mercati internazionali che ci consenta di continuare a distribuire i nostri programmi ovunque. Il primo video che vi mostrerò è tratto dall’Aida del 1989; è stato teletrasmesso dalla PBS, vincendo il premio Emmy, successivamente venduto sui mercati televisivi internazionali ed è disponibile in homevideo; i costi della produzione dello homevideo sono stati recuperati in tre anni, fatto questo che costituisce un grandissimo successo. Il secondo brano è tratto da The Ghost of Versailles, trasmesso sulla PBS e distribuito in homevideo. Non ho idea se il video sia reperibile nella maggior parte dei mercati. I tre brani che seguono sono tratti dalla serie televisiva dedicata al Metropolitan che verrà teletrasmessa sulla PBS in questa stagione. (esempi audiovisivi) Per concludere, mi piacerebbe poter pensare che, a prescindere da quale sia il medium su cui decidiamo di vedere un’opera (televisione, Internet o qualunque altro), saremo sempre noi a produrre l’opera. Dobbiamo quindi essere elastici nell’accogliere le diverse possibilità che ci vengono offerte dalla tecnologia. Grazie.] ILIO CATANI Ringrazio Miss Erben per questo ampio e vivace intervento. Ha toccato dei punti molto interessanti, che spaziano dal mercato alle nuove tecnologie e ai problemi sindacali. Sono tutte cose che viviamo pesantemente sulla nostra pelle, anche in riflesso ai possibili sviluppi di questa interessante materia. Volevo ricordare che anche la RAI come radio ha da anni partecipato alle produzioni del Met. Attraverso l’Euroradio si trasmettono moltissime opere, e per molto tempo abbiamo ripreso i matinée del sabato, trasmettendoli quasi in diretta, perché la rappresentazione del primo pomeriggio (se non erro alle 14.00 ora di New York) ci consentiva di trasmettere alle venti. Era quindi una vera e propria diretta. Per anni ci siamo collegati diverse volte col Met, quindi è un rapporto di collaborazione che potrebbe essere ampliato con la sola grossa incognita dei costi e dei diritti. Abbiamo abbondantemente superato i limiti di tempo previsti. Dopo la pausa caffè ascolteremo l’intervento di Sergio Miceli. In questo modo concluderemo questa sessione mattutina. Grazie. (pausa caffè) Ora che siamo tutti presenti possiamo riprendere i lavori. Ho il piacere di dare la parola a Sergio Miceli, la cui relazione ha un titolo molto interessante: Dissociazioni – Contaminazioni – Espedienti – Mistificazioni. Prego, professor Miceli. 109 SERGIO MICELI Dissociazioni – Contaminazioni – Espedienti – Mistificazioni Uno dei momenti più impegnativi del mio corso di Storia della musica in Conservatorio è quello in cui devo introdurre la nascita del melodramma; e non si tratta neppure di una introduzione senza precedenti, perché già nel madrigale dialogico, già nelle favole pastorali, negli intermedi, nelle Nuove musiche di Caccini, di cui abbiamo già trattato nel corso, c’è, come tutti noi ben sappiamo, qualche anticipazione del teatro musicale. Visto che un corso nozionistico e dogmatico non ha mai avuto alcun senso (né, a maggior ragione, lo avrebbe oggi), benché costretti a operare in una realtà formativa che ha perso tutti gli appuntamenti con la contemporaneità – alludo ovviamente all’istituzione conservatoriale come è oggi, cioè esattamente come era durante il regime fascista, in cui fu riformata –, corre l’obbligo quanto meno morale di trasmettere alle nuove generazioni di musicisti l’essenza di un fenomeno senza paragoni nel panorama dell’intera civiltà occidentale; un fenomeno che dovrebbe essere riassunto in forma digitale e spedito in una di quelle sonde spaziali che partono dalla terra per riferire a non si sa quale interlocutore: «Ecco! Noi siamo fatti così». Però penso che quel messaggio avrebbe maggiori possibilità di essere raccolto e compreso da un essere trinariciuto e tetraoculare che dai miei studenti, i quali – occorre ricordarlo – non vivono in regime monastico, non si formano più alla ferrea disciplina degli orfanotrofi da cui hanno avuto origine, appunto, i conservatori, almeno in Italia. I musicisti che si formano oggi vivono la più comune delle esistenze, conoscono esclusivamente la musica che sono costretti a studiare, ignorando di fatto la musica antica, buona parte della moderna e tutta, rigorosamente tutta, quella contemporanea. Leggono in prevalenza (quando va bene) La Gazzetta dello Sport e Stadio, vanno in discoteca ignari (ancora quando va bene) di attentare in modo irreversibile all’organo che dovrebbe procurare loro il sostentamento futuro, l’udito; e, naturalmente, guardano la televisione, soprattutto il telegiornale dove, dopo le notizie di politica estera e nazionale e dopo gli interminabili e compiaciutissimi servizi di cronaca nera, vengono informati, con cadenza rigorosamente giornaliera e con un opportuno assaggio, dell’ultimo concerto di Jovanotti o dell’ultimo compact disc di Pinco Pallino. Se, come pare, l’insistenza e l’importanza di un fenomeno si misura in termini di presenza televisiva il gioco è fatto: se lo dice il telegiornale deve essere importante! Questa è l’immagine mistificatoria di cultura rivolta ogni sera alla nazione intera, non alle minoranze agganciate all’antenna parabolica su cui torneremo. E in quanto alla scuola, lasciando ora da parte l’inadeguatezza del corpo insegnante in fatto di cose musicali, non occorre essere pedagoghi per intuire che un messaggio fornito attraverso le istituzioni perde di credibilità e di attrattiva proprio perché tale: tutti dovremmo ricordare la capacità tutta scolastica di farci apparire noiosi dei capolavori assoluti della letteratura e del teatro; li abbiamo recuperati per passione, indole e sensibilità al di fuori della scuola, godendone come meritavano e come noi stessi meritavamo di goderne. Brecht, caduto in disgrazia con la crisi del Comunismo per il piacere di coloro che non sanno e non vogliono distinguere tra contingenza storica e ideale politico alimentato dal genio (un genio che ha la statura dei classici), provò a insegnarci, fra le molte altre cose, che il numero legalizza, la quantità giustifica: il furto individuale resta furto e, come tale, spesso è punito; il furto su scala industriale è tutt’altra cosa e diviene oggetto di analisi da parte degli 110 economisti. Nell’Opera da tre soldi, con bella traduzione, il signor Peachum domanda la differenza fra «sfondare» una banca e «fondare» una banca. Perché dico questo? Perché proprio mentre andavo pensando a questo intervento mi è caduto l’occhio su un articolo apparso su la Repubblica di martedì 23 novembre. Leggo: «Mandare in onda certe trasmissioni a notte fonda è inutile. Se la RAI non è in grado di programmarle diversamente allora tanto vale che non le faccia. Alle due di notte si punti su un film porno, che è più adatto». Il Ministro del Tesoro Amato contesta così la decisione della RAI di mandare in onda dopo mezzanotte la trasmissione di RAI Educational Il grillo, cui lui stesso ha partecipato. Ometto un ulteriore intervento di Amato e riporto la replica. Leggo: Pier Luigi Celli, direttore generale della RAI, risponde così: «La RAI ha varato un canale satellitare interamente dedicato ai giovani e alla formazione. Non solo. Ha anche finanziato con quattro miliardi l’installazione di cinquemila parabole nelle scuole italiane, un terzo del totale. La nostra coscienza, insomma, è a posto». Beato lui se intendeva usare il plurale majestatis; oppure beati loro che si autoassolvono così facilmente. L’unica cosa che apprezzo di questa replica è il fatto di aver parlato di formazione invece che di educational, visto che siamo in Italia… In ogni caso, sembrano non aver letto Brecht e non appaiono neppure sfiorati dal sospetto che i numeri, in questo caso, depongono a sfavore delle loro fragili convinzioni. L’emissione satellitare è ancora un fenomeno di nicchia; occorre ricordarlo proprio a chi, della RAI, occupa il posto più alto? E un ruolo educativo-formativo non può essere affidato in modo prioritario a quei canali. Sbandierarne l’esistenza nell’attuale stato di cose significa soltanto crearsi un alibi gattopardesco; senza contare che, sebbene non disponga di dati recenti, le motivazioni prevalenti per l’acquisto dell’antenna parabolica sembrano essere di natura sportiva e pornografica, e non c’è da meravigliarsi, visto che il videoregistratore si diffuse inizialmente per le stesse motivazioni (le seconde, ovviamente!). Vorrei arrivare al punto essenziale della mia relazione, che si potrebbe anche riassumere in questa equazione: contenitore = contenuti. Se è vero che il teatro musicale ha rappresentato un raro esempio in musica di diffusione orizzontale e verticale (un po’ come il fenomeno del ragtime, che partì dalle case di tolleranza e arrivò a Stravinskij), quelle condizioni, oggi, non esistono più. La forma espressiva che ha assunto un ruolo onnicomprensivo, assolutamente verticale e orizzontale al tempo stesso, e che meglio di ogni altra parlerà del Novecento nei secoli a venire è indubbiamente il cinema. Per continuare a occuparci di teatro musicale dovremo dedicarci dunque a una sorta di archeologia? Non credo proprio, perché il teatro musicale è vivo, sebbene nel Novecento abbia prodotto rispetto al passato un numero ridotto di opere memorabili, ma nonostante questo non c’è rischio di archeologia, perché la materia è costituzionalmente viva e capace di rinnovarsi in eterno. Il punto è: a chi e come trasmettere tanto patrimonio? Se lo chiedessimo al solito extraterrestre, visto che disponiamo di un mezzo potentissimo chiamato televisione, ce lo indicherebbe senza esitazione. Ma non intendo parlare di problemi formali interni all’opera in televisione, dei quali mi sono occupato ripetutamente. Intendo parlare del contesto e del contorno o, se preferite, del contenitore, convinto come sono che il primo problema implicito nell’intitolazione di questo Convegno sia un problema di identità. Il professor Rath dell’Angelo azzurro ci ha insegnato che non si può pretendere di entrare in un bordello e continuare a esigere dagli altri il rispetto do111 vuto a un cattedratico; se lo si fa si finisce col gridare «chicchirichì» – ricorderete questo capolavoro del cinema tedesco – e a mio avviso è esattamente quello che sta accadendo al teatro musicale in televisione per come e dove è collocato, per come è presentato. Vediamo perciò qualche esempio riguardante le scelte attuali, tutte pressappoco dell’ultimo decennio. Il primo esempio tratta dello Stabat mater per soli, coro e orchestra in occasione di una trasmissione che apriva un ciclo nel bicentenario di Rossini. Il titolo della trasmissione era Rossini, non solo un crescendo (29 febbraio 1992). Non trattiamo qui dello Stabat mater ma del modo in cui si presentava questo ciclo molto importante. Presenta Bruno Cagli. Non guardiamolo con i nostri occhi; in tal caso vedremmo l’illustre collega, lo studioso, il maggior esponente di prestigiose istituzioni musicali romane e non. Guardiamolo con gli occhi del comune spettatore che nulla sa della sua importanza in ambito musicologico. Se pensate alle prime trasmissioni televisive e all’impaccio che mostravano gli intellettuali che vi partecipavano, converrete che in questo caso quarant’anni sono trascorsi invano. Prego, il primo esempio. (esempio audiovisivo) Ho azionato l’avanti-veloce alla parola «depressione», l’ultima parola che il professor Cagli ha pronunciato e che avete sentito. Si va avanti così fino a tredici minuti netti, che in televisione sono un’eternità. Evidentemente non siamo al cospetto di un comunicatore e neppure di un divulgatore, il che non è un difetto, anzi! E ribadisco ancora una volta (è inutile dirlo ma lo ripeto) la mia grandissima stima e ammirazione nei confronti del professor Cagli. Il problema è un altro: è questo modo di porgere che serve in televisione? Secondo esempio: Il flauto magico, registrazione effettuata al Teatro alla Scala di Milano con sottotitoli in italiano. Qui abbiamo un diverso presentatore, Lorenzo Arruga. Con Arruga, critico musicale (lo ricordo per i colleghi stranieri) e direttore della rivista Musica Viva, siamo all’estremo opposto, all’eccesso di comunicazione che si fa istrionismo. È giusto non essere seriosi ma un capolavoro del teatro musicale di tutti i tempi mi pare ridotto qui a una favola per bambini scemi. È vero che Il flauto magico prese le mosse da un’operazione povera, dimessa, ma questo giocare al ribasso, oggi, per attirare un pubblico che presumibilmente nulla sa mi pare un’operazione mistificatoria e perfino demagogica. Ancora una volta potrei fare molti altri esempi: si punta sulla storia, mentre sui valori espressivi, sui caratteri formali non una parola. L’esempio, prego! È una trasmissione RAI del 1996. (esempio audiovisivo) Non vorrei commentare ulteriormente. L’ho introdotto prima e penso sia sufficiente. Mi spiace solo che non sia stata fatta la traduzione per i colleghi stranieri che non comprendono la lingua italiana, perché i miei esempi si basano esclusivamente su questi contributi, non sull’analisi musicale. Andiamo avanti. Il terzo esempio è diviso in due parti, una parte A e una parte B. Si tratta di una trasmissione di RAI 3 del marzo 1996. La data è di una grande tristezza per tutti noi e l’evento è anche collegato: è poco dopo l’incendio del teatro La Fenice di Venezia. Si dà un Don Giovanni sotto un teatro-tenda proprio come gesto di orgoglio. C’è la regia televisiva di Ilio Catani e ne parlerò benissimo poiché naturalmente non ho scelta! Con Catani abbiamo avuto negli anni passati bellissime discussioni proprio sui problemi della regia televisiva che tuttavia non sono il tema della mia relazione di quest’anno. Direi di vedere la prima parte del prossimo esempio e poi la commenteremo. (esempio audiovisivo) 112 La parte A di questo esempio riguarda le scritte che scorrono sul video. Viene fatto di pensare: Roma-Lazio 1-1, Milan-Juventus 0-0, Parma-Bari 3-1; non me ne vogliano gli eventuali tifosi, non mi intendo di calcio e ho dato risultati casuali. Avete presenti quelle graziosissime informazioni che scorrono nel bel mezzo della visione di un film? Un film magari importante, che stavate registrando per la vostra videoteca o che contavate di utilizzare per motivi professionali? La mentalità così premurosa è la stessa: ben vengano i sottotitoli quando l’opera è in lingua originale, ma qui siamo al pleonasma tanto assurdo quanto fastidioso. Leporello canta «Voglio fare il gentiluomo/E non voglio più servir…», e la didascalia paternalmente ci informa che il servo di Don Giovanni è stanco di fare il servo. Geniale! Ho persino pensato che si potesse trattare di sottotitoli per non udenti e invece poi ho capito: sono per non pensati! Ne deduco che l’istinto materno e protettivo della RAI, potentemente attivato dall’avvento della televisione con trasmissioni dal forte connotato educativo, che ebbero comunque una loro importante funzione, la di là del paternalismo e dello spirito censorio imperante, persiste in queste sintomatiche scelte. Forse bisognerebbe distinguere fra ignoranza musicale e incapacità intellettiva tout court. Lo scopo evidente è quello di facilitare il compito dello spettatore, alleviargli la pena, ma così facendo l’attenzione audiovisiva è catturata da una sola cosa, la scritta che, per sua natura, è percettivamente prioritaria. Qualsiasi psicologo potrebbe confermarvelo. Questa edizione ci riserva una seconda tortura. Vediamo la seconda parte dell’esempio. (esempio audiovisivo) Lo dico per i colleghi stranieri: la presentatrice che avete visto si chiama Serena Dandini. Si tratta di una intrattenitrice che ha cominciato a ottenere un certo successo, soprattutto fra i giovani, in una trasmissione di RAI 3 realizzata interamente da donne, «La TV delle ragazze». Il suo pregio maggiore è la spontaneità, il tono anti-retorico. Da quel momento è cominciato il meccanismo della onnipresenza: tiene una rubrica di posta sull’inserto «Rock» di la Repubblica; è stata utilizzata per presentare più edizioni di una trasmissione legata al Festival del cinema di Venezia, e non so cos’altro. È evidente che si punta su di lei per una funzione imbonitrice e catalizzatrice, ma che c’entra con la musica? «Che gioia!», «Che emozione!»: questo saprebbe dirlo chiunque, magari è anche sincera la signora Dandini, ma tra decine di migliaia di giovani laureati e disoccupati ci sono decine di migliaia di individui sinceri. Ma in fondo il punto è un altro. Questo è un avanzo post-sessantottesco di giovanilismo sinistrorso che fra un’emozione e una sdrammatizzazione recita i soliti slogan populisti, che tanto hanno nuociuto e tanto nuocciono alla sinistra, detto da chi, almeno idealmente, vi appartiene da sempre. Il quarto esempio riguarda La bohème di Giacomo Puccini nel centenario della prima, RAI 2, Teatro Regio di Torino, 2 febbraio 1996, diretta televisiva. Questa è l’apoteosi. Contiene i collegamenti con il foyer e con altri luoghi del teatro, con interviste a personaggi più o meno illustri, da Zucchero Fornaciari a Gianluca Vialli. Visto che siano andati in decrescendo, dico subito che si tocca qui il punto più basso della serie. L’esempio non è corto e, riversandolo per questa mia comunicazione, ho già tagliato qualcosa, ma vi invito con un po’ della vostra pazienza a vederne qualche frammento insieme. Il personaggio che esordisce si chiama Arnaldo Bagnasco e ha condotto alcuni cicli di trasmissioni culturali, in prevalenza letterarie e di varia umanità, ovviamente notturne o quasi. La sua caratteristica più evidente è una certa dose di aggressività e di piglio anticonformista che, presumo, dovrebbero avere la funzione di tenere sveglio lo spettatore e di non indurlo a cambiare canale. Qui, nella genericità dei suoi interventi e in un certo imbarazzo, mi pare un po’ a disagio; e c’è da capir113 lo, perché non ci si improvvisa specialisti di un determinato settore. Guardate i candidati alle interviste alle sue spalle, in attesa impaziente della propria razione di presenzialismo. E guardate il pubblico. Si comporta esattamente come il pubblico che segue le serate del Festival di San Remo: si sofferma davanti alla telecamera, si rimira nel monitor, «io c’ero!». L’intento di siffatta regia – parlo di quella estranea all’opera, Ilio! [Catani, N.d.R.] – è evidentemente convincere la gente a casa che l’opera è una cosa importante, perciò non c’è niente di meglio che mostrare politici, intellettuali, magistrati, stilisti e via dicendo, che hanno risposto all’appello. Per rafforzare l’effetto si fa ricorso a due intervistatori, Giuliani e Traverso, che trovo più opportuno non definire: non voglio incorrere nei rigori della legge. Lo sa chiunque si è trovato alle prese con simili giornalisti: certe domande, il modo di porle, rendono stupido e impacciato anche chi non lo è. Vedrete fra poco Franca Valeri, un’eccellente artista e una donna molto colta, che sinceramente non esce bene da questo, ma appunto il problema sono le domande che le vengono rivolte. Ma c’è anche chi non si pone questi problemi. Ora, con la cortesia del tecnico, sarà necessario interrompere più volte il prossimo esempio, ma le luci possono rimanere spente perché i miei interventi saranno brevi. Possiamo cominciare. (esempio audiovisivo) In sintesi, Zucchero Fornaciari si augura che non ci siano dei fischi così può dormire durante l’opera, visto che è molto stanco. Ieri l’altro, ritoccando questo mio intervento, leggevo su La Stampa di Torino una intervista con Uto Ughi, il quale finalmente ha detto papale papale che Pavarotti è un danno estremo per la musica, perché confonde le carte in modo vergognoso. Tutti noi lo pensavamo, ma il fatto che mi pare rilevante è che lo abbia detto un grande concertista, quando invece nel mondo del concertismo c’è in genere una sorta di «riservatezza». Finalmente un grande concertista ha avuto il coraggio di dire che questa è una cosa vergognosa e che serve solo alla fabbrica dell’appetito di Pavarotti. Adesso vedrete che spiegamento di forze. Una volta la sinossi di ciascun atto era affidata a una gradevole annunciatrice; oggi si fa ricorso addirittura a un critico musicale, Enrico Castiglione, che confesso di non conoscere. Sul suo discorso c’è un disturbo audio, ma non è una mia censura. Procediamo con l’esempio. (esempio audiovisivo) Spero vogliate credere a quello che dico: non sto esercitando una forma di sadismo nei vostri confronti, ma vorrei davvero che rileggeste con me questi episodi inqualificabili che sono estremamente comuni. (esempio audiovisivo) Naturalmente la performance è sempre eccezionale: siamo o non siamo in regime di consensocrazia? Non si parla mai male di niente, è assolutamente vietato. Più avanti, poi – non ho cuore di farveli vedere e, inoltre, non credo ci sia tempo sufficiente – gli intervistatori che avete visto sono all’opera con Renato Balestra, Melba Ruffo, Gianni Vattimo, Guido Davico Bonino, Marta Marzotto. Lo stupidario è ai massimi livelli e, per non rischiare di abbassarlo, il filosofo Vattimo non viene intervistato perché, magari, avrebbe rischiato di dire qualcosa di intelligente. Ci si è allora guardati bene dal farlo parlare, tutti hanno parlato fuorché lui. Castiglione va poi nel camerino di Anna Rita Taliento, che nell’opera è Musetta e che, come sapete, è una bella ragazza. È tutto assolutamente preparato. L’intervistatore chiede: «Che cosa si vedrà nel secondo atto?» e lei alza la gonna e fa vedere il reggicalze, scoprendo una gamba del tutto apprezzabile – sono il primo a dirlo –. Il messaggio è chiaro: 114 se lo spettatore resisterà ci sarà un po’ di erotismo nel secondo atto; e Anna Rita Taliento si è prestata a scoprire la coscia per mostrare qualcosa che in realtà non si vedrà nel secondo atto, dunque lo spettatore è preso in giro due volte. Segue poi l’intervista – che non vi farò vedere – con Gianluca Vialli, per i colleghi stranieri un giocatore di calcio, mi dicono considerato nell’ambiente del calcio il più intellettuale di tutti. Dice più o meno le cose dette da «Sugar» Fornaciari, ma diciamo la verità: eravamo tutti ansiosi di conoscere l’opinione di Vialli su Puccini, davvero, non sapevamo come fare ad andare avanti! Sempre affidandomi alla cortesia del tecnico, procediamo con un avanti-veloce per saltare gli esempi che vi ho appena raccontato e arrivare all’ultimo frammento che vorrei mostrarvi. [Durante l’avanti-veloce, N.d.R.] Questa è Franca Valeri (poverina!) che si dibatte cercando di dare un senso alle domande; ecco Vattimo, il secondo da destra, l’unico a non esser stato intervistato; Marta Marzotto non può non esserci; questo invece avrebbe potuto essere interessante, è un dietro le quinte; l’intervista con i protagonisti; noi tutti sentiamo come qui aleggi lo spirito di Puccini; ecco il sindaco di Torino, e qui c’è tutta una parte turistico-promozionale sulla città; questo è il sedicente critico musicale con Musetta e, oplà!, la gamba; il calciatore Vialli in veste intellettuale; il magistrato Francesco Saverio Borrelli, al quale viene chiesto: c’è relazione fra l’opera e la magistratura? Vi giuro! Due gentili signore del pubblico, la storiella. Fermiamoci un istante. Non entro nel merito artistico come ho già anticipato ieri in un mio intervento. Questa è la famosa Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca. Personalmente ne sono rimasto fortemente impressionato in senso positivo ma, ripeto, non è questo il contesto in cui ne parlerò. Dirò solo che qui la televisione ha fatto la televisione ed è quello che deve fare. La mia domanda è – a parte Tosca, con la quale ho voluto concludere con una nota positiva –: a chi servono questi miseri espedienti? Vedremo poi un esempio positivo, perché i titoli di Tosca sono quanto di più rigoroso si possa immaginare. Nel rispondere alla domanda mi avvio alle conclusioni. Non a chi è consapevole ma nemmeno e soprattutto a chi è inconsapevole, perché tutto ciò svia, deforma, inganna, allontana dall’essenza dell’arte, che non è una, sono infinite, ma nessuna passa attraverso questi rimedi che sono peggiori del male. Vorrei infine sgombrare il terreno da un probabile equivoco. Non sono né un purista né un apocalittico, riferendomi in questo secondo attributo alle ben note categorie di Umberto Eco: applicandomi in prevalenza di musica applicata al cinema e ai media non vedo come potrei resistere se fossi un purista o un apocalittico. Niente è intoccabile e l’opera soprattutto, che trae buona parte della sua linfa vitale proprio dalle commistioni e dalle contaminazioni fra linguaggi. Ben vengano insomma registi come Sellars, ma il punto è che le trasformazioni devono avvenire dall’interno, mentre il contesto non può essere distorto. A chi serve il fenomeno «teatro musicale» snaturato a tal punto da perdere ogni connotazione? Se il fascino dell’opera è nello spettacolo stesso, nella esibizione manifesta dell’artificio, occorre che del suo contesto resti qualche traccia. La volgarità del fenomeno Bocelli o quella ancor meno comprensibile delle esibizioni «tritenorili» insidiano già abbastanza un corretto apprezzamento del fenomeno belcantistico. Ma in questo c’è poco da fare perché la storia insegna – e Benedetto Marcello ce lo ha ricordato con insuperata efficacia nel teatro alla moda – che l’opera si è sempre dovuta guardare prima di tutto dai cantanti. Avremo un bel fare a ragionare di forme televisive e di forme teatrali, di regie sdoppiate, di letture cinematografiche e di letture propriamente televisive, di spazialità acustica e di spazialità visiva. Io l’ho fatto per anni: Ilio Catani mi è testimone, e Carlo Marinelli che, ahimè, stamane manca mi è mentore; ma se non tenteremo di rispondere a questi semplici interrogativi a chi ci rivolgiamo? a che scopo? quando e come intendia115 mo farlo? Realizzeremo la solita riunione di studiosi, esperti e operatori di settore che servirà soltanto a noi stessi. Vediamo. (esempio audiovisivo) Ho concluso. Vi ringrazio. ILIO CATANI Grazie al professor Miceli per il suo simpaticissimo intervento, molto curioso e stimolante, che ci aiuta a riflettere anche su tante cose che a noi operatori sembrano invece accettabili. Dovremmo averlo sempre alle spalle come una specie di grillo parlante, come la voce della nostra coscienza. SERGIO MICELI … se non fosse che il grillo parlante finisce male! ILIO CATANI Ahimè sì, ma dice cose sempre vere e c’è sempre qualcuno che sa apprezzare la verità. A proposito di verità vi annuncio che sono le 13.00 e che al di là di quella porta ci aspetta una gustosa colazione. Grazie per l’attenzione di questa mattina. Ci rincontreremo alle 14.30 in punto per poter dare il giusto spazio agli interventi del pomeriggio e al dibattito che vorrei più ampio del solito. Mi sembra infatti che si siano accumulati diversi argomenti e diversi stimoli per la discussione. Buon pranzo a tutti e ancora grazie. 116 mercoledì 1 dicembre 1999 ore 14.30 Circolo RAI viale di Tor di Quinto 64 Sala conferenze presiede Ilio Catani ILIO CATANI Con incredibile puntualità diamo inizio alla seconda parte della nostra giornata di lavori. Cedo il microfono al professor Heister dell’Università di Amburgo. Il titolo della sua relazione è Dall’Opus Perfectum et Absolutum al Work in Progress dell’opera in televisione. Prego, professor Heister. 119 HANNS WERNER HEISTER Dall’Opus Perfectum et Absolutum al Work in Progress dell’opera in televisione Grazie. Caro Ilio Catani, cari colleghe e colleghi, è un piacere poter tornare all’I.R.TE.M., alla RAI e a Roma dopo un solo anno. Una breve premessa. Purtroppo rispetto allo scorso anno non ho imparato meglio l’italiano e per questo scusatemi. Volendo imparare la vostra lingua non ho imparato anche un’altra cosa che, al contrario dell’italiano, non ho intenzione di imparare anche se potrei: dimenticare che l’opera d’arte, benché tendenzialmente imperfetta e non assoluta, deve essere il centro di tutte le fatiche sia del regista sia del cantante sia del responsabile della produzione televisiva. In questo centro la regia non è la primadonna assoluta, centro assoluto del senso, delle azioni e dei significati musicali teatrali, come le associazioni libere hanno il loro luogo legittimo nella prassi della psicanalisi, non nella riproduzione in video dell’opera lirica. Primo punto. Comincio come al solito, atteso e temuto, con un po’ di teoria, una breve definizione del teatro. Tutte le innumerevoli forme di teatro hanno come base due principi: trasformazione e azione, forse si può dire metamorfosi e, se possibile, senza implicazioni religiose, trasfigurazione. La trasformazione è il principio più universale dell’arte in genere. Questo vale già per le forme storiche o preistoriche, prima che venissero considerate come arte vera e propria all’interno della cerimonia mimetica, il Gesamtkunstwerk [opera d’arte totale, N.d.R.] ante litteram, e in ogni genere di arte gli uomini si appropriano della realtà attraverso oggetti o media specifici, siano essi suoni o immagini, tessuti sonori o verbali, frasi o pietre, gesti o colori, ecc. Già solo per questo frazionamento materiale, la mimesi non è una riproduzione della realtà, una imitatio naturae, ma elaborazione sensitivo-mentale, variazione-trasformazione. L’arte è così come è il mondo al quale si riferisce ed è diversa da quello; l’arte è simile strutturalmente, non contenutisticamente. La trasformazione, insomma, corrisponde alle regole del definire il genus proximum, il genere prossimo, differenza specifica cioè azione. Il teatro assomiglia in questo senso alla musica, è arte da eseguire. Naturalmente la musica è inclusa nel teatro; il teatro musicale non è teatro e musica come addizione, al contrario: il teatro senza musica è nella storia l’eccezione. Azione. Si tratta di uomini vivi che agiscono in una prassi specifica e in un modo specifico. In questa modalità specifica le azioni sono diverse dalle azioni ordinarie, quotidiane, pratiche, diverse perché hanno l’aspetto di finzione. Sul palcoscenico si agisce «come se». Centro delle azioni, di cosa è fatto il dramma? Linguaggio verbale, azione scenica, allestimento, gesti, mimica, ecc, tutti strumenti che corrispondono e rispondono ai sensi della percezione. La riproduzione tecnica, anche se perfetta, non può riprodurre totalmente e adeguatamente l’ambiente e l’atmosfera del teatro, l’odore del palcoscenico e del pubblico, l’avvenimento nello spazio e nel collettivo. La riproduzione audiovisiva è un’immagine, non l’oggetto stesso. Come diceva Magritte «Ce n’est pas une pipe» [non è una pipa, N.d.R.] ma il quadro di una pipa. La riproduzione in video non può e non deve fingere di essere il teatro musicale reale ma deve andare per altre vie; vie più o meno specifiche senza deviare totalmente dal punto di partenza, dal teatro musicale. Secondo punto. Arte come natura, teatro, opera lirica come cinema. Un problema principale del film, soprattutto come colonna sonora, come audiovisivo, è la tendenza al naturalismo, al modo naturalistico della ripresa «immediata» della realtà. L’opera lirica, invece, ha una tendenza, per così dire, naturale alla stilizzazione. Terzo punto. Teatro come teatro. Meglio della riproduzione naturalistica è il tipo di riproduzione che mostra o almeno indica in generale che siamo in tea120 tro; il tipo probabilmente più frequente è di regola la trasmissione in diretta. Veramente importante è la realizzazione teatrale stessa, quanto più naturalistica tanto più falsa, perché l’opera lirica si avvicina alla realtà e al realismo superficiale della drammaturgia sul genere della Hollywood convenzionale. In questo senso la riproduzione, ossia la sceneggiatura in video, è tanto più problematica. La regola con l’eccezione, naturalmente. Ci sono opere che funzionano come film, in cui la realtà è direttamente presente con oggetti reali e autentici. Ci sono molti esempi che sono già stati discussi esaurientemente, soprattutto da Sergio Miceli, nel 1987 all’I.R.TE.M. Questo è solamente un punto di partenza per noi. Vorrei concentrarmi in particolare su un certo filo di argomentazione: la differenza tra riproduzione audiovisiva naturalistica, al contempo opera e audiovisione come natura, e riproduzioni che invece dimostrano e spiegano il loro carattere come arte, come fatti artistici. L’equilibrio tra Classicismo e Manierismo, qui un po’ accentuato, non è facile. Il pubblico vuole e deve vedere una certa integrità, non solo frammenti. Dall’inizio alla fine ci sono tante vie diverse e, come diceva Verdi, «lunghe, lunghe come le melodie di Bellini». Quarto punto. Opera in riproduzione video. Problema fondamentale: realizzare la trasformazione modello il preludio, l’overture. Cito: «Arte è magia liberata dalla menzogna di essere vera», come diceva Adorno. Forse è davvero più vera l’ambiguità, l’ambivalenza dell’arte. Da un lato bisognerebbe defeticizzare l’arte e la sua riproduzione tecnica; dall’altro, come riesce la televisione a mettere il pubblico nello stato d’animo del sentire tipico della cerimonia mimetica, del teatro, dell’opera lirica o del concerto, del sentire diverso dello stato normale, consueto? Non si deve lasciare il cervello nel guardaroba, secondo il sospetto di Brecht, basta la consapevolezza dell’ambivalenza, del raddoppiamento, della differenza fra essere e finzione; e, in aggiunta, la differenza fra opera lirica in teatro e riproduzione in video. Il problema nasce subito all’inizio, colpa dell’audio: al teatro è sufficiente l’orchestra, visibile o quasi invisibile, ma questa non basta in video dove, per esempio, non si può vedere il pubblico, ecc. Una ripresa documentaria può riprodurre e tenere la tensione estetica attraverso i rituali del teatro, come l’accordatura dell’orchestra o l’applauso. Vediamo alcuni esempi video con brevi commenti. Prima la musica poi le parole. Il primo esempio, per favore. (esempio audiovisivo) È come se fosse un vero appartamento, come nelle Nozze di Figaro di Sellars, per esempio, ma senza l’ironia e la riflessività di Sellars. La situazione è quella tipica di una sit-com. Così fan tutte si potrebbe cominciare in questo modo. Quando il primo suono viene cantato risulta assolutamente innaturale. Entra l’uomo e dialoga in questo ambiente a mio parere assolutamente assurdo. Prego, il secondo esempio. (esempio audiovisivo) Questo si annuncia seguendo Leoncavallo come figura allegorica. Strana cosa: pretende di dire la verità, la vita vera attraverso il mondo della finzione del teatro. Qui figura allegorica et incarnatus est, et homo factus est, umanizzato come clown, naturalmente clown tragico. Soluzione del problema con un equilibrio tra teatro e film video ma la musica tende a essere e diventare un soundtrack: troppo rumore, molta, forse troppa azione. Terzo esempio, prego. (esempio audiovisivo) Sfondo dipinto ma realizzazione accentuatamente filmica. Che sia un palcoscenico lo si vede soltanto a posteriori. L’ambivalenza oscilla tra opera e musica di film ma si riconosce – si spera – un po’ l’opus perfectum. Titoli di 121 testa, poi il preludio, azione, dramma in nuce. La soluzione del problema, ingegnosa, rispetta e sfrutta la specificità del video. Il prossimo esempio, prego. (esempio audiovisivo) Raffinato tecnicamente, materializzato teatralmente. Opera del servizio di salvataggio in mare. Costumi storicizzanti, un po’ ridicoli, cappa e spada, pirati, ecc. Film storico di seconda classe, del tipo «B picture», contrariamente all’esempio RAI di Ilio Catani. Prossimo esempio, prego. (esempio audiovisivo) Mare, un allestimento tipo palcoscenico ma fatto così bene che resta una certa ambiguità, senza pretese naturalistiche, come nell’Otello. Conoscete sicuramente tutti il prossimo esempio, il film di Ingmar Bergman tratto dal Flauto magico. Il film di Bergman non è La fanciulla del West ma «La fanciulla del Nord»: una fanciulla svedese (la figlia di Bergman) come Leitmotiv visivo, come vedrete. Se seguite la partitura, Bergman ri-trasforma l’ouverture in un pezzo di musica strumentale. Nessuna fuga dal contenuto drammatico-musicale ma la sua soluzione visiva rispetta almeno il messaggio generale: tutti gli uomini «égalité et fraternité», e gli spettatori vengono coinvolti. Vediamolo. (esempio audiovisivo) Molta o troppa azione ma solo sul piano figurativo: arabeschi, tutto sommato a mio parere inutili. Un nuovo tipo, per lo più la vecchia feticizazzione, qui come deumanizzazione, opera senza uomini, senza cantanti visibili. Ma la soluzione, come parte di un concetto più ampio ed elaborato, potrebbe essere utile e informativa. Il prossimo esempio riguarda sempre Il flauto magico. (esempio audiovisivo) È tratto da una rappresentazione svoltasi presso il Conservatorio di Amburgo dove lavoro. La sceneggiatura è fatta come se fosse destinata alla ripresa video, includendo il pubblico che letteralmente si rispecchia in essa. La tecnica di ripresa è dilettantistica. Ricordate anche l’esempio di Christophe Colomb di Milhaud, che in certi punti vi assomiglia, senza l’inserimento del film. Un ultimo esempio: la trasformazione artistica nel teatro stesso può essere anche un travestimento, un teatro in potenza, qui un travestimento anche – lo si deve dire – del Flauto magico. Si spiega quel che succede nell’opera, riferendosi a Papageno e Papagena; è una contrazione di tutte le scene con questi due personaggi. (esempio audiovisivo) Qui, naturalmente, la trasformazione è un po’ esagerata, come anche il travestimento! I bambini ai quali si rivolge comprenderanno Il flauto magico stesso, lo so: i bambini non sono così stupidi come pensano i pedagoghi dozzinali. Quinto e penultimo punto. Video e Televisione come oggetto di riscontro o pendant e complemento del teatro-opera come arte. Procedendo con concezioni più avanzate, la relazione cambia dalla specificità del teatro a quella del video. La realizzazione in video è più che una semplice riproduzione in video, è una produzione. Un punto di partenza è il problema massmediale; un punto d’arrivo del mio discorso (e nello stesso tempo forse della prassi televisiva) è il seguente: mi pare molto adatta, in particolare per la televisione, la ripresa di una prova d’opera o di un’opera con l’aggiunta delle prove, includendo altri tipi di commento verbale e visivo. Lo scopo, non dimentichiamolo, è sempre quello di interpretare ottimamente l’opera lirica stessa, di renderla il più possibile comprensibile al pubblico, non comeavviene in Sesame Street [celebre serie televisiva statunitense per bambini, N.d.R.], naturalmente. Le proposte significano trasposizione radicalizzata del teatro di regia, Re122 gietheater, di qualche elemento di questa tendenza alla riproduzione in video, e questa trasposizione significa moltiplicazione. Per la specificità del video si possono e si devono usare altre e diverse tecniche di montaggio. Una grande possibilità del video, rispetto al teatro, è la defeticizzazione, il rendere esplicite le finzioni, le nebbie ideologiche e anche estetiche. Una via regia in questa direzione è mostrare l’opera d’arte mentre viene realizzata. Vedendo le prove, il pubblico è coinvolto nel processo formativo della nascita della musica e del dramma: arte come lavoro, artigianato. Ricostruendo l’intero processo di lavoro si crea una totalità che prima era assente. Ma la direzione del processo può essere cambiata nei confronti dell’opus perfectum et absolutum, prima della realizzazione del video, all’opposto, la frammentazione almeno temporanea dell’opus. Processualità in due direzioni: dal frammento all’opus e viceversa. Una seconda via della defeticizzazione dell’arte è l’uso di certi oggetti e strumenti della realtà che va oltre la realizzazione del lato drammaturgico-musicale. Mi riferisco in primo luogo alle pagine di partitura, in secondo luogo alle opere di arte figurativa, amplificando l’allestimento teatrale in senso stretto: abbiamo visto esempi che si avvicinano a questa tendenza; in terzo luogo, ai documenti storici e, infine, alla natura di certe immagini e dell’ambiente, al paesaggio. Ci sono risultati intelligenti nella visualizzazione della musica strumentale ma dobbiamo chiederci più cautamente se in tal modo la percezione dell’opera sia valorizzata o meno. Al contrario della musica strumentale, questo tipo di montaggio non si fa spesso nell’opera lirica, il canale della vista è già colmo. L’uso di importanti materiali documentari storici implica un’apertura dell’arte nei confronti della realtà, realtà al posto della finzione televisiva o audio. Con un montaggio parallelo o simultaneo le prove e tutti questi elementi informativi della realtà storica e contemporanea saranno inseriti e integrati come spoglie dell’antichità in architettura, visibili attraverso sovraimpressioni, ecc. La continuità, forse, proviene dalla musica. Montaggio parallelo, come in Prima della prima della RAI, che non conoscevo finché Miceli me ne ha parlato. Esistono anche altre esempi, almeno come potenzialità, nel CD interattivo o nel DVD (vedi Patay, Erben e altri). La differenza fra i due mezzi sopra citati (CD e DVD) e la televisione come medio pubblico e collettivo è ovvia; ci si deve chiedere piuttosto se la ricezione live, senza registrazione su nastro video, sia il tipo prevalente. Personalmente non lo so, dovrebbero esistere studi empirici a riguardo. Comunque, la televisione ha il problema di dover prendere in considerazione i due tipi di ricezione. Sesto punto, che è anche una breve conclusione. Seguiamo le vie doppie della trasformazione del work in progress in opus perfectum e viceversa, e diverse vie e modi e oggetti del montaggio. Non esistono confini, limiti della fantasia e dell’immaginazione. Piuttosto sono vincolate le realizzazioni. Solo limite è lo scopo, come ho detto. Forse potrebbe stimolare a perseguire nuove modalità ma avendo visto gli esempi proposti da Sergio Miceli e da altri sono pessimista mentre dopo aver visto le realizzazioni della RAI, di Ilio Catani, di Gianni Di Capua e di altri, incluso Il flauto magico di Amburgo, non sono pessimista. Vi ringrazio per la vostra attenzione. ILIO CATANI La relazione del professor Heister ci ha trasportato dalla realtà ai problemi teorici che, sotto certi aspetti, sono propedeutici alle realizzazioni, alla pratica che spesso viene risolta in modo piuttosto semplicistico o empirico. Se dovessi occuparmi ancora di regie televisive, a me piacerebbe avere la presenza di un teorico, o del professor Heister a destra e di Sergio Miceli a sinistra, come due angeli custodi, come Dante e due Virgilio, per essere guidato alla ricerca della verità. Spero un giorno di poterne avere la possibilità. Grazie, professor Heister. Invito Jean-François Jung al microfono per la sua relazione. 123 JEAN-FRANÇOIS JUNG Scena di Illusione del teatro e Spazio di Illusione dello schermo. La «mobilità» nell’adattamento lirico. La riproduzione, diciamo piuttosto la trascrizione, o meglio la trasposizione di un’opera lirica su uno schermo televisivo, opera dal vivo infatti su due campi, il campo teatrale e il campo musicale. Al livello dell’ Architettura dell’Illusione, dobbiamo passare effettivamente da una Scena di Illusione teatrale ad uno Spazio di Illusione dello schermo. Uso questo termine, Spazio, per dare lo «sfumato», l’ambivalenza al tempo stesso di restrizione e di allargamento del sistema della percezione. In ogni caso, è proprio nella libertà spaziale l’esplosione non scenica della rappresentazione che il sistema dello schermo apre il campo delle questioni musicale. Dico «apre» perché mi sembra che nel contesto di una trasposizione riuscita bisogna parlare più di libertà che di «problemi» musicali, più di opportunità date all’istanza musicale. Vorrei quest’anno, evitando di arenarci nelle difficoltà che la ripresa dal vivo comporta, riflettere sulle singolarità positive degli adattamenti specifici allo schermo. Vorrei considerare il suo Spazio di Illusione come legato alla mobilità musicale, forse al movimento stesso della musica... Le «sinestesie» tra suoni e movimenti nella libertà dello spazio televisivo pongono la domanda: quale movimento? Il movimento, non è solamente il movimento fisico della telecamera, è anche quello, di spazio e di tempo, del taglio e della sceneggiatura. Questo è dire che nello spazio dell’illusione dello schermo il movimento è anche una questione di tempo: senza il tempo non c’è movimento. il taglio, la sceneggiatura, come i movimenti di camera, possono essere in simbiosi con i movimenti dei cantati nello spazio e col movimento della musica stessa. Ora, il movimento del canto di un corpo sulla musica all’opera è il tempo; il movimento musicale ha dunque la sua equivalenza nella mobilità interna o esterna dell’immagine. Mobilità esterna sono il taglio ed i movimenti di camera. Per mobilità interna, penso che ci sia sullo schermo ciò che ho chiamato già in questa sede delle «immagini di equivalenza», dei supporti visuali, al «sogno» musicale... Anche all’azione drammatica. Ciò certamente nel quadro di possibilità date per la configurazione di un adattamento abbastanza libero... Fate strisciare sul piano della scena per esempio, fate strisciare all’opera dei fumi e otterrete un «ambiente». Filmate in un piano molto stretto le volute, gli arrotolamenti di questi fumi, e otterrete sullo schermo movimento e tempo. Questo tempo è molto più in accordo col tempo musicale che quando queste spirali vaporose si perdono nella visione larga di una scena. Andremo a vedere ciò fra un istante con un piccolo estratto di Elektra. Vorrei prima accennare ad alcune nozioni di base per me che sono in effetti delle nozioni spaziali come quella che chiamo nell’opera e nel teatro «i tre muri» della scena... Il linguaggio degli adattamenti teletrasmessi d’opera – non parlo delle riprese dal vivo – si modula più o meno in varianti, secondo le differenti volontà di esplosione di ciò che chiamo i «tre muri» della «scatola teatrale» classica. Quando l’adattamento è fatto sulla scena stessa, è difficile far esplodere i due lati laterali della scatola scenica. Non si può far sparire la nozione delle quinte che grazie ai virtuosismi della sceneggiatura che può creare una perdita dei riferimenti della scena d’illusione frontale o, ancora, per un abbassamento pro124 gressivo delle luci fino al nero, laddove lo spettatore ha l’abitudine di «segnare» la sua sinistra e la sua destra classica. È difficile annegare questi «muri» nel nero, nello spazio stringente di una ripresa fatta nell’esiguità del teatro stesso... Si ottiene più generalmente ciò passando all’adattamento in uno studio. In uno studio molto grande si può far esplodere anche il terzo muro, il «muro di fondo», il fondo della scatola, sul quale i cantanti spiccano, quello che fa ancora riferimento alla scatola dell’illusione teatrale. Si può provare a passare a uno spazio, direi quasi cinematografico, e di cui la «non-teatralità» non è esente da trappole drammatiche... Queste trappole, che chiamo le trappole dei «grandi spazi», le ho evocate già, a proposito della questione del film-opera, e del suo permissivismo, al tempo stesso fantastico e «pericoloso» per certe drammaturgie musicali. Parlerò piuttosto oggi, alla fine del mio intervento, di un’esperienza molto libera, quella del Lindberghflug, dove lo studio mi permetteva come regista un’esplosione cinematografica dello spazio e dove mi sono assoggettato, al contrario, a ritrovare la scena d’illusione teatrale, la «scatola delle meraviglie», la «casa delle bambole» che diventa sullo schermo televisivo questa scatola delle magie che può essere uno studio... Ho già commentato delle sequenze di questo film che molti tra voi conoscono, ma non ho parlato ancora delle mie intuizioni sulla magia, la prestidigitazione scenica, che mi hanno fatto girare in questo senso certe sequenze che vorrei mostrarvi questa volta. Ma cominciamo col guardare tre piani dell’Elektra di Götz Friedrich. È la sequenza del lamento di Elektra «Agamemnon! Agamemnon!» nel primo atto, quel movimento musicale tematico potente. Io vorrei che proviate in soli tre piani tutto ciò che il cineasta, il regista, ha fatto e non ha fatto per approfittare della libertà dello schermo senza allontanarci dalla magia della rappresentazione illusionista... Andiamo a guardare una prima volta una sequenza esemplare corta. (esempio audiovisivo) Il primo piano ci guarda in uno spazio da una prossimità astratta intorno ad Elektra, legata all’espressione intima della sua solitudine: «Allein! Weh, ganz allein». È un piano cinematografico se volete, ma si potrebbe tanto bene seguire la cantante così in una ripresa dal vivo, seguendola allo zoom e in panoramica. La sola cosa che indica la ripresa video piano per piano, è che all’opera, non si può far piovere tanto forte su dei cantanti, perché non hanno il tempo di asciugarsi come nel cinema, tra due riprese di camera! «The show must go on!»… La rappresentazione continua! Ma è un dettaglio accessorio... Questo piano potrebbe essere filmato molto bene seguendo un movimento scenico dal vivo. Il secondo piano è invece grandioso. Si avverte una scenografia scavata secondo un punto di vista in pendenza che non potrebbe avere uno spettatore di teatro; e tuttavia, la sua fissità resta ambigua: lascia liberamente i vapori spiegarsi in lontananza come a teatro ed abitare musicalmente lo spazio sull’attacco del tema, ma sul principio di pudore teatrale... Ma proviamo a vedere chiaro in questa ambiguità: la scelta di fissità della telecamera per lasciare Elektra affondare nella scena molto in pendenza è esattamente un grande movimento di telecamera! Un movimento di gru che indietreggerebbe per allontanarsi dal personaggio, e salirebbe abbastanza in alto per dare l’impressione che Elektra affondi nel fango e negli «scuri abissi» («kalten Klüfte») produrrebbe esattamente la stessa vertigine in simbiosi col movimento musicale sempre più basso e anche scuro. In effetti, abbiamo qui tutta la potenza del movimento di gru, 125 senza movimento di gru. Semplicemente il cineasta-regista ha lasciato Elektra si allontanasse, facendo scavare nello studio una scenografia cinematografica. Ma quest’idea è un’idea teatrale, un’idea che rispetta profondamente la magia dello spazio teatrale. Ultimo piano: abbiamo, al contrario, pura magia cinematografica. Solo la telecamera permette una tale prossimità col suolo grumoso, solo gli effetti cinematografici permettono di controllare in tal misura, musicalmente, gli effetti del fumo e di filmare e filmare ancora questo piano dieci volte, finché le volute disegnano ciò che ho chiamato un’immagine di equivalenza. Allora, al contrario dello spettatore di teatro, non abbiamo bisogno di vedere Elektra; il suo canto è incluso nel fumo come nella musica. È l’avvilupparsi dei vapori, le circonvoluzioni del tempo – perché il fumo che si svolge, È TEMPO, l’espressione del tempo nello spazio – che sopportano tutto il sogno di questo momento lirico. È un vero «pentolone della strega», un crogiolo di invocazione nel quale Elektra può evocare l’apparizione del viso lontano di suo padre, come negli specchi magici («Wo bist du, Vater?»). Poi, d’improvviso, mentre siamo ancora nel sortilegio di questo fumo di evocazione del fantasma, dell’anima sottile di Agamennon (sottile come nell’espressione «aria sottile»), mentre siamo immersi ancora in questa fascinazione, ecco che il sogno è rotto brutalmente dall’entrata, inattesa, in alto a destra, del corpo di Elektra che avevamo dimenticato: le mani preganti ci fanno atterrare di nuovo sullo spazio del teatro, proprio come il corpo di Elektra raggiunge il suolo. L’illusione del teatro delle ombre, con le mani in controluce, viene a sostituire l’illusione cinematografica degli effetti speciali dei fumi. Possiamo rivedere la sequenza, puntando meglio il sistema teatro-televisione di cui ho appena parlato: (esempio audiovisivo) Commento durante l’esempio: Questo è un piano fisso, ma ci sono delle volute... Questo, per me, è un movimento di gru basato sul movimento musicale... Qui la gru va indietro, è la stessa cosa. È teatro e cinema insieme, poi cinema puro: questo si può ottenere soltanto con effetti cinematografici... Ora abbiamo dimenticato la cantante… Lo schermo tutto bianco coi fumi soli… Poi ritorno del teatro all’entrata della cantante: abbiamo cambiato spazio nella stessa inquadratura!... Grazie. Vorrei aggiungere, a proposito dello strano accordo tra le spire di vapori e il movimento musicale che si gonfia, che continua a pensare (ho provato ad esprimerlo l’anno scorso) che le volute di fumo, la semplice rete grigia molto fine che sale da una sigaretta posta in un portacenere, che ondeggia nell’atmosfera come un serpente, fanno parte di queste immagini «princeps», equivalenti a movimenti musicali; sono dei supporti visuali al suono musicale. Sono delle equivalenze della mobilità della musica, del suo movimento che chiamo sottile... Penso che questi «mobili», che sono di movimento prima che di materia, e ai quali il nostro occhio si lega in collegamento con un suono, ebbene sono spesso i grandi movimenti che chiamo essenziali: quelli dell’acqua, ai quali Leonardo ha dedicato un trattato decisivo, le cadute di pioggia e di neve, i vapori, i fumi, le fiamme del focolare, le colate di lava o di fango, i gorgoglii delle solfatare... Il tempo dell’ascolto che si svolge è incarnato da un movimento ripiegato su di sé, una specie di circonvoluzione aleatoria. Queste sostanze non solide e mobili incarnano il tempo, la distillazione dell’ascolto. Sono un sistema di riflessione, per sognare ad occhi aperti, di supporto visuale onirico per questo ascolto. Götz Friedrich, il regista, si è servito così, perfettamente, di ciò che ho chiamato un’immagine di equivalenza. Il fumo incarna lo spazio, e il suo svol126 gimento incarna il tempo. Siamo nel sistema più semplice della rappresentazione di ciò che è lo spazio-tempo del teatro e della musica. Il fumo, è lo spazio dell’illusione, è già del teatro. Il suo movimento è l’illusione del tempo, è già la musica e il canto stesso... («Wo bist du, Vater?»: nell’antichità, si provava a vedere un essere distante attraverso una vasca di fuoco o uno specchio di acqua). Ecco la deviazione che ha fatto Friedrich di questo fatto molto semplice. Con un dispositivo tanto semplice, abbiamo l’esempio stesso della libertà del video rispetto a un pezzo lirico! Vorrei adesso mostrarvi un brano della versione originale in francese dell’Amore delle tre melarance di Prokof’ev. È l’adattamento di una regia teatrale preesistente, ma ho avuto la possibilità di girare senza pubblico, di mettere la telecamera sulla scena e di fare allungare tutto il proscenio verso la sala vuota. Si poteva avere così dei movimenti di indietreggiamento di gru, con salite importanti, e si poteva dare dell’ampiezza a certi movimenti musicali che la regia di scena non poteva rendere. Attenzione, non dico che nella sequenza che andate a vedere il regista TV sia più astuto del regista teatrale! Dico che sul piccolo schermo televisivo, la scelta statica della drammaturgia scenica avrebbe diminuito di molto il piacere se la mia ripresa avesse reso semplicemente questa staticità. Voglio dire che ho accentuato la staticità degli attori con un grande movimento di telecamera. Ho preso come guida di questi movimenti la musica. Siamo in un caso di fabbricazione differente dalla splendida Elektra di Friederich e ho cercato dunque delle soluzioni differenti. È per questo che ho scelto quest’altro brano. Ma lo spazio di illusione dello schermo ci permette, là ancora, un’equivalenza della mobilità musicale. Gli attori sono fissi, ma la musica ha una dinamica sempre più grande. In quel momento, il «problema» musicale prevale sul «problema» teatrale, per riprendere il titolo del nostro incontro. Ma trasformo il «problema» in libertà come vi ho detto all’inizio sul senso del mio intervento... Prendo la libertà di fare provare l’orchestrazione allo spettatore dello schermo. Al teatro, potrete provare questa vertigine voi stessi; su uno schermo morto, piatto, piccolo, bisogna costringere le cose, bisogna curvare il bastone molto forte affinché sembri naturalmente diritto una volta nell’acqua!... Siamo stati obbligati a girare la scena in tre parti. Questi tre movimenti di gru potevano essere fatti solamente uno a uno, con una telecamera che ogni volta va indietro sul proscenio secondo un asse differente. Ciò provoca una triplice ripetizione volontaria, che corrisponde alla triplice ripetizione del libretto e della sua musica: l’appello invocatorio alla cattiva Fata Nera «Fata Morgana»... Mi sembrava che bisognasse salire sempre più in alto, come in una foresta, per dare l’aspetto un po’ primitivo di questa invocazione. Difatti, comincia in modo astuto, mormorata a bassa voce, come si sussurra tra cospiratori, per concludersi in modo più selvaggio... (esempio audiovisivo) Grazie. Le cose prendono, musicalmente e moralmente, un’ampiezza un po’ vertiginosa, che ho tentato di rendere attraverso questi tre movimenti. Sicuro, «l’equivalenza allo schermo» di questo movimento musicale è certo una duplicazione sincrona della musica... Ma questo balletto ripetitivo di gru deve accrescere, al contrario, la fissità della grande gabbia teatrale dalla quale queste imprecazioni liriche vengono lanciate. Ho pensato un po’ all’enfasi dei finali delle scene di music-hall che Prokof’ev conosceva bene in questo periodo, perché era appena arrivato negli Stati Uniti, e si sa che questo genere non è esente da certi piccoli piaceri che si è concesso nell’Amore delle tre melarance. Vediamo adesso l’interesse che c’è, nell’opportunità data da una ripresa in studio nelle condizioni cinematografiche di play-back(1), a rivalutare al contrario le piccole scatole teatrali, come se gli attori si agitassero nelle scene, come 127 ho già detto, di case di bambole... Il proposito è quello di prendersi tutta la libertà della successione diversificata delle sequenze di tipo cinematografico, senza per questo polverizzare lo spazio teatrale con una sceneggiatura a 360°, che provocherebbe l’esplosione dello spazio verso lo spazio troppo realista del cinema. È interessante giocare con lo sguardo dell’attore alla camera; si mantiene in tal modo la convenzione teatrale del rivolgersi direttamente al pubblico da parte dell’attore. Ed io vorrei proporvi un frammento del Lindberghflug, dove ho avuto questa libertà. L’esempio è il secondo quadro: «Presentazione dell’aviatore». Ci sono pressappoco sette cambiamenti di scena, sette piani, per uno stesso solo di cantante. Vediamo la sequenza (ho scelto il «bianco & nero»)... Ed i commenti li lascio a dopo. (esempio audiovisivo) 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) Grazie. Abbiamo visto: UNA VIA DI NEW YORK UN NEGOZIO DI GIOCATTOLI, che indica che la sceneggiatura sarà piuttosto un universo legato al mondo dei «modelli in scala ridotta», delle illusioni di grandezza, e dunque degli spazi di illusione di conseguenza! DEI PROGETTI DI COSTRUZIONE DELL’AEREO. Il tenore è off e lo si ritrova cantando sullo schermo solo alla fine del piano. UNA MAPPA sulla quale la mano del pilota traccia il suo percorso sull’Atlantico. Qui il cantante è tutto nella sua mano e nella matita! LO SCHEMA DEI SERBATOI. Con un ritorno del cantante all’immagine e un suo sguardo molto frontale, anti-cinematografico, verso lo spettatore! L’UFFICIO DI PISTA, che riannoda lo spazio del cinema, dove lo spettatore è ignorato: il pilota si preoccupa del fuori campo, del tempo, della meteorologia... LA PORTA DELL’ AVIORIMESSA. Il solo continuo ma si è fatto un salto spaziale e temporale considerevole. È una convenzione, un partito preso, che chiude la sequenza. Sono partito dall’idea che il principio di una libertà al di là del teatro poteva essere completamente ammessa adesso, al termine della sequenza. SI FINISCE NELL’AVIORIMESSA. È un’ottava scena in tre parti, ma con una fine puramente musicale, muta poi... E con effetti sonori... Questo perché per me, un silenzio sullo schermo deve essere «abitato», un silenzio non esiste: è un suono, non il vuoto... Perché il vuoto è sempre il crepitio dell’altoparlante del monitor! Queste sette scene sono riferite a uno stesso solo, dunque si deve riflettere sui limiti del permissivismo. Intendo un permissivismo di atomizzazione e di moltiplicazione spaziale che sarebbe eccessivo. Il clip musicale di varietà – ma adesso ne esistono anche di musica classica, pubblicità o altro – il clip, dunque, ha creato un linguaggio, una grammatica, e se da un lato bisogna constatarne le qualità e approfittare di certe lezioni positive, bisogna dall’altro lato diffidarne per non ereditare questa libertà di gioco di spazi talmente moltiplicati aldilà di ogni regola che non sono più spazi di illusione ma spazi di bluff !... Allora, evidentemente, se la maionese si monta troppo, impazzisce, il gioco di prestigio viene meno! E un regista deve essere anche un prestigiatore. Non è un filosofo che deve lavorare con la verità! E un saltimbanco che lavora con l’illusione. I problemi sono le regole morali di questa illusione. Ho provato a dare l’impressione che il solo continuo nella sua fluidità musicale, con una libertà naturale... Non dia la sensazione di un artificio indotto 128 dai cambiamenti di scena o dai movimenti in cui il personaggio sparisce dal campo per cantare off, per poi tornare. La sua assenza dentro lo spazio deve sembrare, là ancora, naturale. Ecco i problemi che volevo esporvi con questo passaggio. Il gioco della scatola teatrale e della sua visuale esclusivamente frontale può essere pensato, nel giro di valzer delle scene molteplici che permettono lo studio e il montaggio, come un caleidoscopio di case di bambole. Quando si opera, come ho deciso di fare, con una colonna sonora in play-back sulla quale si ha ogni libertà di «manipolare» dei cantanti e un coro che sono scelti per l’immagine – e che non sono necessariamente gli interpreti del suono originale – non bisogna privarsi della possibilità di fabbricare di sana pianta il nuovo spazio dell’illusione. E questo spazio può ridiventare un’architettura allusiva alla scena di illusione teatrale! Possiamo, ad esempio, rappresentare i cori con un numero di interpreti più piccolo della massa vocale della colonna sonora. È più interessante, molto più stimolante per la mente dei gruppi costituiti del realismo vocale che il teatro lirico impone... Ogni insieme corale può diventare un piccolo gruppo di «figurine», di «statuine di presepe», che la telecamera viene a sorprendere nella loro scatola di bambole, un po’ come un boccascena di teatrino di marionette il cui fondale cambia. C’è ancora un aspetto di giocattolo, di modello in scala ridotta, e siamo in effetti nelle piccole scene di illusione teatrale, ritroviamo il teatro. Ma possiamo delineare molto di più i «caratteri» di ciascuno nel piccolo coro, uscire dalle folle corali anonime... Occorre, allora, che ogni gruppi si rigiri verso di noi come un insieme poco numeroso di marionette dove, tuttavia, ogni elemento è identificabile singolarmente, molto caratterizzato teatralmente. Per esempio, andate a vedere il coro dei radiotelegrafisti di un piroscafo. La massa corale del suono è enorme, ma ho scelto solamente quattro attrici-cantanti. Vedete che ciò non disturba la percezione. Si girano verso di noi all’attacco del canto (che è al tempo stesso l’entrata della camera nel loro piccolo universo dove si va a sollecitarle). Ho utilizzato spesso questo principio giocoso nel Lindberghflug, perciò vorrei semplicemente mostrarvi il finale, dove faccio girare come su una giostra, in un carosello che ripropone il caleidoscopio di cui parlavo, tutti i differenti piccoli teatri di marionette intravisti nel corso dell’opera... (esempio audiovisivo) Grazie. Con questi corpi e queste scene che cambiano, si può avere fisiologicamente l’impressione che ci siano delle cesure sonore ai cambiamenti di piani, delle bascule nei tipi di piani e nei tipi di voce. Niente affatto; sono i personaggi che ho scelto che cambiano, ma sulla colonna sonora, sono sempre le stesse persone, la stessa massa vocale che canta, lo stesso equilibrio uominidonne. Su questa «truffa», su questa illusione volevo finire (tra tante altre possibili con la trasposizione in video), lasciandovi meditare sul fatto che questo «imbroglio» dà del piacere se si conserva una morale: quella di manipolare l’illusione negli spazi che restano legati alla magia della scena del teatro e del music-hall. Grazie. ILIO CATANI Ringrazio Jean-François Jung per la sua presentazione. Se mi consentine una piccola annotazione. Secondo la migliore tradizione del melodramma, ha terminato la sua relazione con una morale, cosa che troviamo nel teatro del Settecento. Ci prendiamo un caffè prima di iniziare la discussione? (pausa caffé) 129 Proseguiremo fino alle 18 circa. Riserviamo la seconda parte di questo pomeriggio agli interventi e alla discussione; abbiamo più tempo degli altri giorni e speriamo di coronare al meglio i nostri incontri di questa settimana. Gianluca Tarquinio vuole intervenire per primo. GIANLUCA TARQUINIO Buona sera, sono Gianluca Tarquinio e vengo da L’Aquila. Innanzi tutto preciso che non sono un esperto di problematiche televisive o di filmografia. Il mio interesse è rivolto alla discografia ma anche alle problematiche legate al modo in cui viene presentato un prodotto musicale a un pubblico non competente. In questi tre giorni di dibattito, peraltro molto interessante, mi sembra di avere individuato due estremi: il primo rappresentato dalla relazione del dottor Patay, che nuovamente ha evidenziato come il settore della musica classica stia perdendo pubblico; il secondo rappresentato dalla relazione del professor Miceli, che ci ha fatto vedere, anche in maniera ironica, una serie di imbonitori televisivi che tutto fanno fuorché avvicinare un pubblico non competente all’opera lirica o alla musica in genere. Vorrei rivolgere una domanda alla signora Erben e al professor Miceli. Le grandi società di produzione e distribuzione si sono poste il problema di quale strategia adottare per vendere il prodotto che realizzano non a un’altra società o a un altro ente ma a un pubblico di non competenti? La signora Erben ha detto che possiamo servirci del DVD. Al professor Miceli vorrei chiedere invece se ha maturato una sua idea di come presentare a un pubblico non competente un’opera lirica o un evento musicale qualsiasi. Sono proprio curioso di sapere se i grandi enti i quali, logicamente, debbono vendere il prodotto che realizzano hanno elaborato delle strategie «didattiche» per poter vendere questo prodotto a un pubblico non competente. Grazie. SUSAN ERBEN We have discussed these topics more and more. There is evidence, in the United States, that attendance at opera performances has grown, while the sales of audio and video recordings have gone down. I think one of the most important factors in bringing new audiences is education, and the Metropolitan Opera Guild – which is a separate company, but affiliated with the Met – has had an educational program for many, many years. The advantage of DVD is that it gives you background and biographical material, as well as the possibility to have all the languages. I know from my own experience – I didn’t grow up listening to classical music or opera – that I learned about opera in class. It took some time before I could sit and really enjoy, understand and appreciate an opera performance. Opera, because it contains all the musical aspects possible (vocal, instrumental, theatrical), as well as the language barrier, is a less accessible art-form. The Met tried, in their productions, to bring in more popular faces. They were newscasters who acted as our hosts for opening nights on «pay per view»; the audience was not large, at the time, and it was not wildly successful because those who understood opera already could see that two of the hosts out of three were seriously not knowledgeable in what they were talking about, and we cannot expect a famous person to study opera deeply for a one-evening appearance. However the third newscaster has a real passion for opera, and he has been our host for several years. On occasion we have also used actors: Joanne Woodward and Paul Newman are very big patrons of the arts. Last year on the radio broadcast we had Branford Marsalis who, very late in his career, 130 came to love opera; he talked about that in one of the intermission features, and I think that that’s a better way to bring more audiences to music. The radio is addressing the problem, and certainly TV needs to follow. [Questi problemi vengono discussi con frequenza sempre maggiore. È stato dimostrato che, negli Stati Uniti, il pubblico che frequenta l’opera è in aumento mentre la vendita di registrazioni audio e video è in calo. Ritengo che uno dei fattori più importanti nel far avvicinare all’opera nuovi spettatori sia l’educazione del gusto e, da moltissimi anni, il Metropolitan Opera Guild – che è un ente a sé stante affiliato con il Met – sta portando avanti un programma di istruzione. I vantaggi che offre il DVD sono quelli di fornire materiale biografico e informativo nonché la possibilità di scegliere in quale lingua ascoltarlo. So per esperienza personale – non sono cresciuta ascoltando l’opera o la musica classica – che ho imparato tutto sull’opera a scuola, e ci è voluto un po’ di tempo prima che potessi rilassarmi e gustare, comprendere e apprezzare una rappresentazione operistica. Poiché l’opera contiene in sé tutti i possibili aspetti musicali (vocale, strumentale, teatrale) e anche a causa della barriera linguistica, rimane una forma d’arte meno accessibile. Il Met ha cercato, nelle proprie produzioni, di far apparire volti noti. Si trattava di giornalisti televisivi che facevano da padroni di casa durante le prime visioni sui canali a pagamento; all’epoca il pubblico non era molto numeroso e l’iniziativa non ebbe un gran successo perché i veri melomani percepivano che due giornalisti su tre non erano realmente esperti in ciò di cui parlavano, né d’altra parte, si può pretendere che un «volto noto» si metta a studiare a fondo l’opera per l’apparizione di una sola sera. La fortuna volle che il terzo giornalista avesse un’autentica passione per l’opera e quindi da diversi anni è il nostro «presentatore». In qualche occasione abbiamo utilizzato anche alcuni attori, come ad esempio Joanne Woodward e Paul Newman che sono grandi patroni delle arti. L’anno scorso, per una trasmissione radiofonica, abbiamo ospitato Branford Marsalis che ha cominciato ad amare l’opera quando già era piuttosto avanti nella carriera, e credo che il suo intervento a questo proposito sia un’ottima maniera per avvicinare un maggior numero di persone alla musica. La radio si sta occupando molto di questo aspetto del problema e la televisione deve seguirne l’esempio]. SERGIO MICELI Trovo la domanda molto interessante e molto legittima ma la risposta potrebbe forse apparire un po’ lunga. Chiedo al Presidente se abbiamo ancora a disposizione tre o quattro ore! Scherzi a parte, oltre a mostrare qualcosa che sarebbe da distruggere bisogna fare anche delle proposte costruttive. È senza dubbio più facile distruggere che costruire ma il fatto che io non abbia formulato proposte costruttive, con l’eccezione del troppo breve esempio finale della Tosca come metodo rigoroso di presentare un lavoro, significa semplicemente che avrei avuto realisticamente bisogno di una seconda relazione. Prima si distrugge poi si ricostruisce. Non posso farlo neanche in questa occasione ma posso cercare di rispondere in un modo soddisfacente. Come ho accennato all’inizio, ho il privilegio e la condanna di insegnare storia della musica in conservatorio: è un privilegio perché penso che insegnare sia un lavoro bellissimo, lo penso ancora dopo più di vent’anni di insegnamento; è una condanna proprio perché insegno in conservatorio. Vorrei ricordare, soprattutto ai colleghi stranieri, che la nostra è una situazione disperata e assur131 da perché siamo l’unica scuola in Italia dove nella stessa aula siedono ragazzi con licenza di scuola media inferiore e ragazzi che frequentano l’università. Dovreste dirmi allora quale linguaggio dovrei adottare per fare lezione. L’ho già detto in privato ma voglio ripeterlo in pubblico: questa distinzione non implica una gerarchia, perché ho avuto ottimi studenti che avevano una licenza media inferiore e stupidi che frequentavano l’università, ma è pur vero che quelli che frequentano l’università hanno un lessico, una tecnica che hanno acquisito. Perché ho ricordato questo? Perché probabilmente proprio questo tipo pazzesco di insegnamento sprona almeno alcuni di noi a sforzarsi di trovare un linguaggio – lo so, è un’utopia – che vada bene un po’ per quelli che non hanno studiato e un po’ per quelli che hanno studiato. Io, per una profonda convinzione ideologica, tendo a privilegiare quelli che non hanno studiato, perché gli altri hanno più strumenti e si arrangiano. Resta però il fatto che devo cercare una media. Questo credo sia un esercizio che mi porta a percorrere una strada che non è la divulgazione bassa ma neppure l’esercitazione cattedratica destinata a pochi. Come? Secondo me partendo dall’interno dell’opera. Dopo molti anni di esperienza didattica, credo di avere verificato questa validità. Che poi ci riesca bene o male è un’altra questione. Parto dall’interno dell’opera, evitando le introduzioni storico-estetiche generali per ricavarle solo in un momento successivo. In altre parole, se devo parlare del Don Giovanni di Mozart parto da una scena o da un episodio centrale, pensando che forse quello abbia qualche capacità in più di catturare l’attenzione e la sensibilità dei miei studenti, faccio un’analisi durante l’ascolto, a cui possono seguire anche delle analisi parziali alla lavagna. Non antepongo mai l’analisi alla lavagna all’ascolto ma parto dall’ascolto e poi cerco di allargarmi fino a includere quell’opera in un contesto storico, estetico, ecc. Non ho detto che ci riesco, ho detto che ci provo e non so se sono riuscito a rispondere alla sua domanda. ILIO CATANI Vorrei fare una breve osservazione su quanto diceva Miss Erben a proposito dei modi per conquistare sempre più pubblico alla televisione, precisando che parliamo di un pubblico di melomani o di persone che potrebbero diventarlo. Anche da noi si è tentato, sia pure in maniera un po’ infelice, come la presentazione della Bohème con testimonial che non avevano alcun titolo per esserlo. Chiamando il giornalista o l’attrice famosi non si raggiunge lo scopo, tanto più che, come abbiamo visto, si tratta di occasioni estemporanee che finiscono per rivolgersi a un pubblico che avrebbe comunque visto lo spettacolo, anche senza la partecipazione del grande personaggio. La formula potrebbe funzionare se una presenza diventasse abituale: quest’anno tutte le settimane Paul Newman ci presenta la lirica. In tal modo, infatti, si crea un appuntamento ma se una sera accendo il televisore ed è in programma un Tosca presentata da Sophia Loren resto indifferente perché non si produce l’effetto desiderato. Quello che manca nella situazione squisitamente italiana è la continuità nella programmazione, l’appuntamento fisso, il creare l’abitudine all’ascolto. Purtroppo, per ragioni di vita, siamo tutti metodici: ciascuno di noi ascolta il giornale radio delle 8 del mattino o vede il telegiornale di sera a una certa ora, e cambiare abitudini è difficilissimo, come ben sanno i nostri colleghi dei palinsesti quando periodicamente capovolgono gli schemi. Questo comporta delle cadute d’ascolto e ci si domanda meravigliati il perché. La ragione è che si è abitudinari. Un’idea potrebbe anche funzionare ma i risultati si vedono solo a lungo termine. I risultati, anche molto sensibili, in RAI li abbiamo ottenuti anche grazie a un battage pubblicitario di un certo tipo. Ricordo per esperienza 132 diretta quando, nel 1987, si celebrarono con un grande spettacolo i duecentocinquant’anni dalla fondazione del Teatro di San Carlo di Napoli. Era un programma articolato e molto vario, confezionato su misura per la vita musicale napoletana antica e contemporanea e trasmesso in diretta. Fu preceduto da una settimana di pubblicità, un vero e proprio battage fatto di intere pagine sui giornali. Ricordo che quella sera la trasmissione fu vista da novecentomila persone, il che nel 1987 era un risultato lusinghiero per quel tipo di spettacolo, soprattutto se si tiene conto del fatto che non si trattava della solita Aida o Bohème che richiama un pubblico di non appassionati melomani. Mi riferivo a una certa latitanza degli organi di stampa nel sostenere gli sforzi di un’emittente a pubblicizzare il proprio lavoro, perché quando queste cose non vengono sostenute cadono nell’indifferenza più totale, anche nell’indifferenza dei responsabili dei programmi, per i quali un trafiletto sul quotidiano serve a giustificare la scelta, la collocazione e la realizzazione del programma. PAOLO MARAGONI Brevissima precisazione. Ho vissuto sulla mia pelle quanto dice Ilio Catani perché per anni ho fatto riprese di concerti come consulente musicale e ho incontrato moltissimi operatori, orchestrali e critici che rimproveravano alla RAI di trasmettere meno musica della Fininvest. Ebbene, questo non corrisponde a verità ma ho capito che loro, in buona fede, avevano perfettamente ragione perché i nostri appuntamenti sono sporadici mentre quelli di Fininvest hanno uno spazio fisso nella programmazione, diventando così una tradizione. Fininvest trasmette anche spot che reclamizzano «la grande musica», e questo unico appuntamento diventa un evento. I melomani non si rendono conto che la RAI ha una programmazione mensile superiore del 400% ma questa non ha sufficiente visibilità. Grazie. ILIO CATANI Vorrei invitare il maestro Fausto Razzi per il suo intervento. Prego, maestro. FAUSTO RAZZI Vorrei cominciare con due note molto marginali rispetto a quello che dirò in seguito poiché non essendo un «parlatore» ho bisogno di rompere il ghiaccio. Gli stimoli che ho ricevuto in queste giornate sono tanti e devo cercare di essere sintetico. Anch’io sono perplesso rispetto alla possibilità che Sophia Loren presenti programmi culturali ma il problema è che invece per la mentalità generale non è così: recentemente come «ciceroni» per le aperture serali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna hanno chiamato Jovanotti e qualcun’altro. Altra nota. Senza voler essere polemico, ho sentito in diverse occasioni la parola «melomane». A me questa parola non piace, forse per l’assonanza che ha con «eroinomane» o «cleptomane», ma in realtà l’accostamento è giusto perché, così come il cocainomane non può fare a meno della cocaina e il cleptomane non può fare a meno di rubare, il melomane non può fare a meno della musica. In questo caso, peraltro, questa parola ha per me una connotazione negativa perché non siamo un paese di «amanti della musica» ma appunto di melomani, un paese in cui il bisogno di musica fa sì che tutti ascoltino tutto. Non mi riferisco ad aree colte o non colte ma alla qualità: si ascolta tutto, si accetta tutto, e questo è il grave danno di una disinformazione portata non solo dalla televisione. Da questo punto di vista, anche come compositore che, fra l’altro, 133 lavora con il computer e si interessa dell’immagine, ritengo che si sia alquanto trascurato un elemento fondamentale, vale a dire il problema di un linguaggio musicale contemporaneo. La mancanza di un linguaggio contemporaneo nella musica ha fatto sì che, come sappiamo, oggi la musica contemporanea sia solo quella dei cantautori o il rock, e ciò vale per il 99% delle persone non solo giovani ma anche adulte, intellettuali. Questa mancanza è alla base di una riflessione sui rapporti tra opera e televisione. Premetto di essere allergico – ed è un grave danno – a ogni forma di opera in televisione perché respinto da quelle poche cose che mi è capitato di vedere, realizzate secondo l’ottica del signore che dal palco guarda col binocolo l’ugola del cantante, che magari viene ripreso nel momento dello sforzo estremo per prendere il do di petto. Tuttavia mi rendo conto che la mia allergia è un grave danno perché mi ha indotto a perdere una serie di conoscenze di quanto invece è stato fatto. Per questo motivo sono molto contento di essere qui ma, sempre come compositore, penso che in generale la maggior parte delle trasposizioni in video di opere soffra di una mancanza di ritmo nella successione delle immagini, sia pure con qualche eccezione e lasciando da parte le realizzazioni più cialtronesche che hanno una diffusione popolare; secondo me le opere presentate in quel modo possono solo produrre tanti «loggionisti» del Regio di Parma, e non è certo ciò a cui dobbiamo tendere. Oggi abbiamo visto il Don Giovanni del Teatrotenda di Venezia, dove c’è un’attenzione estrema alla coincidenza dei ritmi, il che non è necessario. Può essere accettabile infatti anche una successione di immagini che abbia un ritmo proprio e che possa non corrispondere con quello musicale, però bisogna tenere conto di alcuni fattori. Esiste una collaborazione al momento della composizione e una collaborazione al momento della messa in scena; si può arrivare a un parallelismo di situazioni sonore, testuali o di immagini, ognuna delle quali è al contempo autonoma ma coerente e complementare (in senso positivo), cosa che bisognerebbe fare con un linguaggio musicale attuale. Ma nel caso di una produzione di «messa in scena», in cui il dato musicale è già esistente, bisogna fare attenzione. Una musica complessa non può essere «disturbata» da procedimenti semplicistici, per non dire di peggio. Oltre tutto, si raggiunge l’effetto di indurre lo spettatore a pensare che la musica non sia un linguaggio autonomo e che abbia bisogno di traduzione, fenomeno che secondo me nasce dalla paura del vuoto. La mancanza di ritmo, anche se non posso esprimere un giudizio avendo visto solo un’infinitesima parte del Christophe Colombe di Milhaud, era evidente anche nelle riprese a tutto campo; ho notato delle asincronie, ad esempio un’esplosione del coro con gli strumenti a cui non si accompagnava un corrispettivo visivo. Se l’asincronia era voluta, il tempo di differenza è troppo piccolo e lo si nota come sfasamento. Non so quanto sia giusto porsi la semplice domanda di come mai l’opera non piaccia più al pubblico. Perché dovrebbe piacere al pubblico? La generazione degli abbonati ai concerti di Santa Cecilia si sta estinguendo e le nuove generazioni sono abituate solo a quello che la televisione e tutto il contesto in cui vivono offrono; sono cioè abituati a un linguaggio «attuale» nella sua forma più semplificata. Il fatto è che mediamente i giovani hanno disimparato a seguire un linguaggio più complesso, ed è questo il grave problema che dovremmo porci. Se proponessi l’aria «Che gelida manina...» forse il nonno sarebbe interessato, non certo il nipote. Il problema sarebbe allora quello di proporre qualcosa che sia attuale anche dal punto di vista del linguaggio musicale. Se il linguaggio musicale non è attuale è difficile pensare a una trasposizione dell’immagine che abbia una sua attualità. Molto spesso la televisione è mezzo moderno al servizio di un linguaggio vecchio e questo costituisce un problema. Parlo in questi termini perché il teatro musicale contemporaneo è fondamental134 mente vecchio, e in questo anche le opere di Berio non fanno eccezione, poiché sono tutte calate in una tradizione retorico-melodrammatica che è quella del teatro ottocentesco. Se si sostenesse questa posizione, proponendo dei lavori attuali, è probabile che col tempo per i giovani potrà essere interessante accostarvisi; in caso contrario, non dovremmo lamentarci se preferiscono l’attuale, il solo attuale che conoscono. Fra gli ultimi «eventi» c’è stata l’inaugurazione del Museo Archeologico di Paestum, un’operazione di grandissimo rilievo culturale. Che bisogno c’era che a questo evento si aggiungesse il concerto di Paolo Conte? Paolo Conte è fra le pochissime persone che fanno degnamente il proprio mestiere – Petrassi ci ha abituati a parlare di «mestiere» di musicista –, ma resta il fatto che non vedo alcun legame fra ciò che nei millenni ha significato per l’umanità Paestum e quello che produce nella società, sia pure ottimamente, Paolo Conte. Il problema è inoltre un altro: mi domando quale mentalità distorta e diffusissima abbia ritenuto che Paestum non fosse autosufficiente e ci fosse pertanto bisogno di un evento al lato. Questo dà il senso della totale confusione in cui ci troviamo e alla quale dovremmo cercare di opporci. Grazie. ILIO CATANI Vorrei poter rispondere al maestro Razzi. Per alcune sue osservazioni non ho argomenti ma di certo penso di interpretare il timore di un direttore di rete che si pone il problema di portare da sei a sedici le persone interessate all’inaugurazione del museo di Paestum con la presenza di Paolo Conte: mettendo insieme il sacro col profano sarà forse riuscito ad avere un minimo di pubblico in più. Tuttavia – mi ripeto – queste domande andrebbero poste ai responsabili della programmazione. Parimenti, quando si lamenta la latitanza dei giornalisti e dei critici musicali in realtà è ai caporedattori della pagina culturale che bisognerebbe rivolgersi, perché sono loro che decidono gli articoli da pubblicare. Sarebbe importante conoscere quali siano oggi le strategie culturali perché tutto avviene hic et nunc. Non sappiamo cosa possa succedere domani, col cambio della dirigenza e dei direttori di rete. Purtroppo, infatti, la programmazione a lungo termine manca perché nessuno è in grado di prendersi responsabilità di impegni da realizzare nel 2002, proprio perché pochi sono certi di poter mantenere le proprie posizioni per un certo tempo. Non c’è alcuna sicurezza. Ci siamo meravigliati che il Teatro di Stoccarda abbia nominato il proprio sovrintendente due anni fa ma che questi avrebbe assunto pienamente l’incarico dal 2000. Mi pare che si trattasse di Tobias Richter. Il suo mandato sarebbe cominciato dopo tre anni e avrebbe avuto una durata garantita di tre anni. Questo dà la possibilità al sovrintendente in carica di continuare il proprio lavoro e a colui che subentrerà di cominciare a preparare la propria programmazione. Da noi accade che il nuovo sovrintendente continui a fare quello che ha ricevuto in eredità dai suoi predecessori. Ho idea che la mancanza di una seria programmazione sia riscontrabile a vari livelli, dunque anche nelle nostre reti televisive non si prendono impegni perché non c’è sicurezza nel domani. Ritornando al discorso iniziale, per instaurare una politica seria, sicuramente anche per quanto concerne la musica contemporanea bisogna fare un discorso di audience. Inoltre, mi piacerebbe fare una domanda ai colleghi che si occupano di realizzazioni televisive: nel campo della musica contemporanea, quali sono le chiavi di lettura e di accesso di questo mondo? Se ancora stiamo discutendo di come mettere in scena Il flauto magico oppure Rigoletto, infatti, non so immaginare cosa comporti una messa in scena di teatro contemporaneo, se non addirittura la musica strumentale. Sono problemi che sarebbe giusto discutere in sedi come questa. 135 FAUSTO RAZZI Non vorrei prevaricare nessuno ma vorrei fare una breve aggiunta al mio intervento. La tua è una domanda volutamente retorica, perché in realtà sappiamo bene quali siano le tendenze non solo in RAI. Oggi è stata ricordata la figura di musicologo di Bruno Cagli ma sappiamo che lavoro abbia fatto (o non fatto) Santa Cecilia e come abbia contribuito ad aggiungere confusione nel tentativo di captare i giovani. La contaminazione e l’abbattimento degli steccati sono una cosa sacrosanta però se contaminazione deve significare andare incontro e seguire certe tendenze... Come mia moglie ha giustamente osservato, non è Zucchero ad avere bisogno di Pavarotti per attirare un pubblico giovane ma è esattamente il contrario. ILIO CATANI Darei la parola al signor Carreira. XOÁN M. CARREIRA Vorrei fare diverse osservazioni. La prima riguarda la strategia, soprattutto in risposta al dottor Tarquinio. L’economia di un teatro d’opera è molto semplice dal punto di vista microeconomico: i profitti derivanti dalla vendita dei biglietti restano fissi mentre i costi di produzione aumentano. Questo è il problema fondamentale che il sovrintendente di un teatro d’opera deve risolvere. Come fare? Bisogna affidarsi a uno sponsor e alla vendita nel mercato come fonti di denaro. Questa strategia in ambito culturale negli ultimi dieci anni ha determinato una grande rivoluzione che nel primo mondo ha portato la cultura ad avere ripercussioni di grandissimo rilievo nel mondo economico: negli Stati Uniti la cultura è ormai il terzo settore economico in ordine di importanza; in Italia credo sia il secondo, mentre in Spagna è il terzo come incidenza sul prodotto interno lordo del paese. Esemplare a questo proposito è stata la costruzione del Museo Guggenheim di Bilbao, che ha provocato un rinnovamento radicale dell’urbanistica e dell’economia cittadina. Bilbao era una città in crisi, con un centro storico molto degradato, e la costruzione del Guggenheim l’ha rivitalizzata. Il museo è quindi diventato più importante del settore industriale per l’economia dell’intera città. Ritenendo che oggi la cultura sia un fattore fondamentale di evoluzione economica, per il futuro sono estremamente ottimista. In Spagna l’economia dello spettacolo (teatro, cinema e musica) è il doppio dell’economia del turismo. Non si può essere pessimista con cifre del genere. Un’altra questione di cui si discute è quella della «competenza» del pubblico. Faccio fatica a comprendere questo concetto perché, per fare un esempio, nel film americano Pretty Woman Julia Roberts vede per la prima volta un’opera, Traviata, alla San Francisco Opera House e prova una grandissima emozione; ebbene, per me, in questo caso, la piccola prostituta è un pubblico competente. La questione è la creazione di un pubblico che possa essere felice e godere di uno spettacolo, che si ponga in maniera positiva nei confronti dello spettacolo. Questo pubblico ritornerà a teatro. Ho l’esperienza, nella mia città, della creazione dell’Orchestra Sinfonica della Galizia. La mia città ha una grande storia musicale di cui il franchismo ha spezzato la tradizione. Pertanto la musica ha un pubblico di fatto nuovo. In cinque anni l’orchestra ha raccolto mille abbonati. Si tratta di un pubblico che ama specialmente la musica del Novecento, che preferisce Šostakovič a Schubert. Perché mai? Questo pubblico ama il suono orchestrale di Šostakovič, che è diverso da quello di Brahms o 136 Schubert. Non è competente per quanto riguarda la forma musicale ma lo è in materia di suono, dunque le programmazioni che prevedono Šostakovič, Britten o Bartók sono molto richieste. Oggi in Spagna vi è il grande e preoccupante problema della violenza sulle donne. Una produzione di The Rape of Lucretia può essere presentata come un dramma sulla violenza contro le donne? Sono sicuro che avrebbe un grandissimo successo poiché è un’opera onesta e importante sull’argomento. È un esempio di come fare mercato culturale senza svendere il prodotto. Un piccolo esempio per rispondere al professor Miceli. Proprio questa settimana a Madrid si sta svolgendo un congresso sull’opera spagnola fra la Società degli Autori e il Ministero della Cultura. Si tratta di un’operazione nazionalistica, in cui si tenta di affermare che un’opera di Ruperto Chapí sia superiore alla Bohème e ci si chiede perché non ne sia stato riconosciuto il valore. Quando verrà riproposta l’opera in questione sicuramente otterrà un grandissimo riscontro. Domattina, nell’ambito di quel congresso, è prevista una discussione su temi scientifici di storiografia classica, descrittiva, non analitica, e il pomeriggio è in programma una sessione di discussione sui grandi temi sociali dell’opera. Ieri la discussione pomeridiana ha ruotato intorno ai tre grandi compositori del franchismo Tomás Marco, Cristóbal Halffter e Luís De Pablo ma è curioso che Halffter, il quale non ha alcuna esperienza di opera, vada a parlare dei compositori d’opera. Domani ci sarà una sessione sull’opera e il pubblico e alla tavola rotonda parleranno una giornalista televisiva e uno psichiatra che lavora a Córdoba, città in cui non esiste un teatro d’opera: da tale prospettiva un’analisi è impossibile. Credo che l’opera come prodotto non sia in crisi mentre lo è la musica strumentale, sinfonica. L’opera è forse in crisi dal punto di vista dell’interpretazione ma non da quello dello spettacolo o come prodotto di mercato. In tal senso sono decisamente ottimista mentre non lo sono, ad esempio, rispetto alla validità delle interpretazioni belliniane. Credo anche che negli anni Novanta siano stati composti lavori validi, quali A Streetcar Named Desire di Prévin, che presenta una caratterizzazione dei personaggi (come quello di Bianca che canta in stile pucciniano) che si attaglia particolarmente alle caratteristiche del personaggio teatrale. Si tratta di una proposta teatrale che credo meriti una riflessione, anche perché l’opera ha avuto un grande riscontro da parte del pubblico. ILIO CATANI Grazie, signor Carreira. Sarei tentato di dire che siamo felici del suo ottimismo, che non so quanti di noi condividano. Credo tuttavia che il problema si possa considerare risolto quando una produzione che nasce in un qualunque teatro del mondo dopo tre mesi viene presentata a Roma, Lisbona o Stoccolma. XOÁN M. CARREIRA La prima dell’opera di Prévin è del 1998, e in queste due stagioni è stata presentata in otto teatri. La prima europea forse avverrà nel 2000. ILIO CATANI Grazie. Prego, signor Smith. PATRICK SMITH Thank you. I was very taken, moved (probably in the wrong way) by Prof. Miceli’s example of the intermission at the opera-house. My question would be 137 addressed to Ilio Catani. What we in the United States have found is that the non-commercial public television stations, which 15-20 years ago had a much greater freedom, are now being put under a certain burden of competing with the for-profit networks. Whereas before they would never look at the amount of audience that would be given by a certain program, they would just make the program and send it out because they felt that it was the right thing to do, now they can’t. Now the question of how big the audience is becomes vital. I have interpreted from the excerpt that was shown here that this has also affected the RAI and, I assume, also other «public» television stations in Europe. Has this been because of the pressure of the commercial stations that these public stations have become more and more sensitized to audience, and to downgrading the product in order to get a larger audience? [Grazie. Sono rimasto molto colpito e commosso (probabilmente per le ragioni sbagliate) dall’esempio portato dal professor Miceli riguardo l’intervallo al teatro d’opera. Vorrei rivolgere una domanda a Ilio Catani. Negli Stati Uniti abbiamo riscontrato che le reti pubbliche non commerciali, che quindici o venti anni fa godevano di grande libertà, vengono ora messe in concorrenza con i network commerciali. Quindi, mentre prima non si curavano molto dell’audience di alcune programmazioni ma le producevano e le trasmettevano perché sentivano che era la cosa giusta da farsi, ora non possono. Ora l’audience è diventato un argomento di vitale importanza. Dall’estratto che è stato proiettato intuisco che questo problema affligge anche la RAI e, immagino, anche altre emittenti pubbliche europee. Secondo lei questo fenomeno è dovuto alle pressioni esercitate dalle emittenti commerciali, a cui si deve la crescente importanza data all’audience e il conseguente abbassamento del livello qualitativo finalizzato ad attirare un maggior numero di spettatori?] ILIO CATANI Condivido pienamente le sue ragioni e la sua analisi. Quando si parla di «globalizzazione» pare che nessun aspetto della vita possa essere esente da questo fenomeno. Anche in Italia, quindici anni fa, le televisioni private stavano esordendo ma il peso della televisione pubblica, della RAI in questo caso, era schiacciante. In seguito, con la formazione dei vari network, è sorto il problema della ripartizione della pubblicità. Il ricorso alla pubblicità costituisce per le reti private l’unico metodo di finanziamento mentre per la RAI costituisce un’integrazione perché, come i nostri ospiti sanno, una parte del budget RAI proviene dal canone di abbonamento e un’altra cospicua parte dalla pubblicità. Il grande mercato della pubblicità si divide fra stampa quotidiana, quella periodica e le televisioni, e se è vero che negli anni la torta è cresciuta è altrettanto vero che sono aumentati i commensali intorno ad essa. Accaparrarsi fette di pubblicità significa quindi avere la fonte primaria di sostentamento. Detto questo, se la pubblicità è legata, come purtroppo o per fortuna il mercato pretende, all’audience, si capisce come automaticamente questo fattore possa condizionare l’offerta specifica del prodotto sul mercato; e se le cose dovessero continuare così (e non ho motivo per ritenere che possa verificarsi un’inversione di tendenza) penso che l’analisi pessimista enunciata ieri da Patay possa essere in breve tempo condivisa da altre emittenti televisive. Come riferivo ieri al professor Marinelli, raccontandogli l’andamento della giornata, noi italiani credevamo di trovarci in una situazione deficitaria rispetto alle televisioni di altri paesi, e invece dobbiamo constatare che, se in un anno riusciamo a mandare in onda sulle tre reti dieci-dodici opere, siamo molto più avanzati culturalmente e musicalmente di altre nazioni che abbiamo sempre ritenuto sotto questo aspetto più progredite della no138 stra. Può darsi che si tratti di un momento in questa specie di corsa e non è detto che le posizioni rimangano sempre stabili all’interno di questo enorme circuito. Probabilmente, negli anni, le caratteristiche delle reti generaliste andranno a modificarsi nel senso che è stato prospettato ieri, cioè di una maggior caratterizzazione delle reti tematiche, dove confluiranno le trasmissioni di tipo specialistico (sport, musica, arte, natura), mentre alle reti generaliste rimarrà l’intrattenimento leggero. Penso che questa sia la strada ma mi piacerebbe sentire il parere degli altri presenti. Vorrei dare la parola a Gianni Di Capua. GIANNI DI CAPUA Sarò molto breve per dar modo anche agli altri di risponderle. Sicuramente le reti generaliste della RAI vanno incontro a un tramonto inesorabile: ci sarà solo giornalismo, talk show e giochini. La cultura, ritenuta superflua, negli anni scorsi è migrata verso le reti satellitari. In Italia, RAI Arte testimonia un’offerta culturale tematica di spettacoli di livello. Il personale più motivato, le migliori menti della RAI, Ilio Catani compreso, sono migrati verso le reti satellitari, che stanno offrendo una grande scelta di trasmissioni di alto profilo culturale. Abbiamo una rete che trasmette solo documentari d’arte, e in questo siamo all’avanguardia. La direzione di RAI Tre, che è concepita come proposta culturale all’interno delle reti generaliste, è stata invece affidata a Pippo Baudo. Forse la nostra interprete può tentare di spiegare ai colleghi stranieri chi sia Pippo Baudo... Per carità, grande professionista! Io credo che la cultura, nel nostro caso l’opera lirica, non morirà mai perché risponde a una necessità innata nell’uomo. Naturalmente la necessità determina una domanda, e qui si entra nell’ambito dell’economia. È giusto che oggi chi vuole la qualità debba pagarla. Non voglio entrare nella polemica del canone da pagare alla TV generalista, anche se, come ho già detto, la RAI generalista è una contraddizione perché bisogna pagare un canone per ricevere un’offerta pressocché pari a zero. Mi riferisco invece alle reti satellitari, laddove si paga per avere un servizio e si cessa semplicemente di pagare se l’offerta non soddisfa. Per quanto riguarda l’intervento del maestro Razzi, vorrei dire che l’arte contemporanea, in particolare la musica eseguita e messa in scena, sposa perfettamente il vocabolario, il mezzo linguistico della televisione. Ho avuto modo di verificarlo e di poterlo esprimere con due lavori di Nono, dove ho potuto usare tutto il vocabolario a disposizione della televisione. Si incontrano ancora delle resistenze, perché si ritiene che la musica contemporanea sia ostica, ma secondo me lo è di più ascoltata alla radio che vista in televisione. Spero che vi siano altre opportunità per poter lavorare su questo materiale. Non c’è ombra di dubbio che certe necessità esistono e non sono un’invenzione; bisogna solo capire fino a che punto lasciarle sopite o bisogna stimolarle, e questo può farlo il mercato introducendo prodotti che rispondano agli stimoli che attivano le necessità. A monte ci sarebbe la questione della formazione ma si tratta di un discorso molto più ampio e complesso. In conclusione, sono estremamente ottimista per il futuro. Grazie. ILIO CATANI Grazie, Di Capua. Il microfono al professor Heister. HANNS-WERNER HEISTER Non sono un ottimista assoluto ma solo relativo e ritengo che non si possa comprare tutto: questo è il problema! Se la cultura è commercializzata non of139 fre sul mercato le cose che noi vogliamo. Questa è soltanto una minima parte dei problemi che personalmente non sono in grado di risolvere. In ogni modo, credo che un’istituzione come la RAI, almeno in parte finanziata con denaro pubblico, abbia il compito e il dovere di non essere un mezzo o un contesto per la pubblicità. Un mezzo pubblico non può essere comprato, almeno non interamente. Così almeno spero. In primo luogo, vorrei ricordarvi che noi tutti lavoriamo professionalmente con i media e con la musica ma forse per la gente normale, per i salumieri o i professionisti di cui parlava Segalini, le questioni si pongono in tutt’altro modo. Noi conosciamo tutti i trucchi e tutte le possibilità dei media, di opera e video, ma così non è per gli spettatori. Per questa ragione si deve contare sulla semplice curiosità o su un semplice interesse a vedere e ascoltare una nuova opera lirica oppure una nuova messa in scena di una vecchia opera. In questo senso, penso che i nostri trucchi e i nostri problemi non siano così vicini alla realtà. In secondo luogo, come si è detto, cercando un’alternativa al linguaggio consueto, uno stato d’animo alternativo o un sentiero sia per l’opera sia per il concerto forse si troverebbe qualcosa di interessante, come un altro linguaggio musicale o drammatico-musicale; e, tuttavia, cercarlo, come ha detto Gianni Di Capua, nella televisione generalista non mi trova d’accordo perché non credo sia un bene che tutto sia lasciato al libero mercato: la «libera» offerta, si sa... Terzo punto. Come molti di noi hanno già detto, in special modo Miceli – anch’io sono un insegnante di conservatorio e riconosco benissimo il problema – è necessario individuare una moltitudine di livello cui destinare il discorso sull’opera e sulla ripresa stessa. Non conosco sufficientemente le possibilità tecniche del DVD ma penso che, al contrario di quanto si creda, la tecnica sia sottosviluppata: si pensa sempre che la tecnica sia sviluppata e il cervello sottosviluppato ma talvolta è esattamente il contrario. Si potrebbe pensare, ad esempio, a sottrarre il commento e questo è uno dei metodi che la nuova tecnica ci consente di fare. Un altro metodo è quello del masterwork del maestro Jung e di questo Lindberghflug. Il commento è già previsto e inserito nella messinscena. Tutta l’aura storica degli anni Venti è già inclusa e forse si potrebbero dare più spiegazioni. In ultimo, dovremmo trovare una moltitudine di linguaggi: l’opera lirica è un’opera d’arte composita e composta da diversi elementi. Spesso avviene che la parte visiva sia più avanzata di quella acustica. Ricordiamoci Wagner: la sua fantasia acustico-musicale, politica e drammatica era più sviluppata della sua fantasia nella messinscena e da questo esempio si potrebbe imparare che forse un tipo di linguaggio incluso nell’opera lirica potrebbe trasportare l’un l’altro, anche per guadagnare un po’ di attenzione da parte dei giovani: i giovani cercano sempre nuove esperienze e potrebbero forse essere attratti dall’immagine dell’Elektra di Götz Friedrich, che è linguaggio filmico e che è in grado di guadagnare anche i non conoscitori del linguaggio operistico all’opera lirica di Strauss. ILIO CATANI Vorrei dare la parola a Sergio Miceli. SERGIO MICELI A questo punto, vista l’ora e considerando il lavoro terribile dei traduttori, non mi sento di andare avanti. Ricordo che ieri avevo espresso il proposito di parlare male di Baricco, cosa che non ho potuto fare oggi. Rimanderei alla di140 scussione di domattina il recupero di Baricco e di quello che avrei voluto dire stasera. ILIO CATANI D’accordo. Domattina inizerà il professor Miceli. Grazie a tutti e un saluto particolare al professor Heister che purtroppo è in partenza. A domani. 141 giovedì 2 dicembre 1999 ore 9.30 Circolo RAI viale di Tor di Quinto 64 Sala conferenze presiede Ilio Catani ILIO CATANI Buongiorno a tutti. Come vedete, il gruppo dei convegnisti alla fine dei lavori si è assottigliato. Sono rimasti i fedelissimi, i più resistenti. Il nostro rammarico è sempre che il professor Marinelli non sia con noi poiché l’indisposizione che l’ha colpito l’altro giorno gli impedisce ancora di muoversi di casa. Ovviamente ha inviato a tutti il suo saluto che ricambiamo con cordialità e con l’augurio che si possa prontamente ristabilire. Questa mattina era prevista una «postfazione», come lo stesso Carlo Marinelli l’ha definita, al Seminario. Ebbene, ci rincresce ma questa postfazione più che far capo direttamente a lui sarà costituita dal contributo che noi tutti vorremo dare come sintesi ai lavori dei giorni precedenti. Nel frattempo, riprenderei dalla conclusione della seduta di ieri dando la parola a Sergio Miceli. SERGIO MICELI Grazie. Comincerò col dire che, in tutta sincerità, non vorrei né imperversare né infierire. Avverto poi un certo imbarazzo perché, almeno per me, in questo momento manca un po’ di «temperatura», ovviamente non in senso termometrico. Ieri sera la discussione era «a caldo», ora è «a freddo» e non so se le mie parole possano essere oggi puntuali come le avrei sentite ieri sera. Ad ogni modo ci provo perché così mi ero impegnato a fare. Mi ricollegavo, ieri, a due interventi che mi avevano chiamato in causa, quello di Smith e quello di Carreira, i quali avevano citato il mio intervento precedente e ai quali avrei voluto replicare. Vi chiedo quindi di ristabilire con pazienza questo collegamento mnemonico, senza il quale quello che sto per dire non avrebbe molto senso. Mi sembra che esista un problema di fondo che abbiamo solo sfiorato, attorno al quale abbiamo girato, ma che non è stato preso in considerazione. È, ancora una volta, un problema di posizione della cultura musicale in rapporto alla cultura tout court, senza aggettivi. Adesso manca una buona parte dei colleghi stranieri, ai quali era più specificatamente rivolto questo intervento, ma mi consola la presenza di Carreira e di Jung. C’è infatti un paradosso che credo sia tutto italiano e che è il seguente. Noi tutti sappiamo cosa abbia significato la presenza musicale italiana in Europa dal Seicento in poi, anche dal punto di vista strumentale: pensate al lunghissimo elenco di compositori che sono nati in Italia e che sono morti in varie parti d’Europa. Nel Settecento, poi, la maggior parte dei padri della musica strumentale sono morti in Spagna o in Inghilterra. Voglio dire che, in qualche modo, c’è stato questo verbo musicale che si è allargato, facendo sì che il segno della musica italiana sia stato profondo in tutta Europa; per non parlare dell’opera che, come tutti sappiamo, ha parlato italiano per almeno due secoli. Noi dovremmo sentirci a nostro agio in questa situazione ma qui subentra il paradosso di cui volevo parlare. Il paradosso è che, allo stato attuale e per tutto il Novecento, che ormai se ne sta andando, ci siamo trovati incapaci di gestire un patrimonio che di fatto ci appartiene; questo senza negare l’importanza di quel che è stata l’opera al di fuori dell’Italia. Non sto cercando di fare un discorso etnocentrico, non è proprio nelle mie intenzioni, ma la tradizione musicale italiana non è stata seguita da una preparazione musicale adeguata. Noi non abbiamo mai goduto di quella cultura musicale di base che esiste nei paesi anglosassoni, dove c’è una alfabetizzazione musicale minima nei diversi strati sociali. Questo è un problema che noi non abbiamo ancora risolto e che, di conseguenza, è proprio come il problema del carro e dei buoi. Oggi ci troviamo di fronte a un immenso patrimonio che, in un certo senso, non sappiamo come gestire perché non c’è continuità fra questa realtà storica, che ci appartiene, e una pratica divulgativa che 145 non esiste in quanto non abbiamo tradizione didattica e di formazione musicale. Ieri avrei fatto un’altra premessa, che faccio ora per i colleghi stranieri. Non sto cercando di fare un discorso esterofilo o masochista ma sta di fatto che questa dissociazione esiste. Io credo che se noi non affrontiamo una volta per tutte il problema della formazione musicale di base non risolveremo mai niente. E qui parlo proprio in piena e deliberata volontà, come dicono i cattolici, perché mi occupo da sempre di problemi di didattica musicale. Ieri mi era venuto in mente un esempio che non so se possa funzionare. Sarebbe come se, rivolgendomi a un collega statunitense, dicessi: «Pensa a quello che rappresentano per voi il jazz e il musical. Pensa che questi diventino una cose che la gente non è capace di assimilare o di gestire». Riuscite a immaginare una eventualità del genere? Folle! Ebbene, da noi è così. C’era poi Baricco. Anche se all’inizio del mio intervento ho detto che non era mia intenzione infierire, vogliamo risolvere questo problema? Poi prometto di tacere fino a conclusione dei lavori, almeno che qualcuno non voglia chiamarmi in causa. È un argomento delicatissimo che però si ricollega a quello che abbiamo detto. Per mettere subito le carte in tavola, personalmente detesto Baricco anche perché non amo le figure di parvenu. Anche se ha avuto un grande successo come scrittore, infatti, come critico musicale non esisteva; e posso dirlo con certezza, visto che credo di conoscere abbastanza bene l’ambiente musicale. Lo scrittore ha «trainato» il critico musicale, e non entro nel merito del suo successo letterario, che per me è più che altro un fenomeno di mercato: non siamo qui a fare una discussione di critica letteraria. Ma il punto non è questo. Ho visto alcune di quelle trasmissioni e so di scandalizzare qualcuno per quello che sto per dire. Ricordate Arruga negli esempi che ho portato ieri? A un certo punto, cercando di sdrammatizzare con falsità di fondo, subito dopo aver parlato della Scala, della cultura, ecc., dice in milanese «Ueh! Diamoci una smossa!» con tutt’altra abilità e tutt’altra competenza che gli riconosco. Ebbene, secondo me la matrice è la stessa. Prima di tacere, aggiungo un’altra osservazione in cui entra di mezzo la valutazione dell’uomo. Come possiamo scindere l’uomo dallo studioso, dal comunicatore? Ciascuno di noi mostra vari aspetti che sono parti di uno stesso individuo, quindi non possiamo scinderli. Quello che mi disturba di più è un’operazione che gli ho sempre visto fare e che mi ha dato i brividi. Baricco ha bisogno di dimostrare la propria genialità e, per fare questo, spiega Rossini, Verdi o Wagner. Nella sua dimostrazione il genio si può spiegare semplicemente perché il genio è lui ed è quindi in grado di spiegare tutto. Gli ho sentito fare un’»analisi» (uso le virgolette perché le analisi vere, quelle degli specialisti, sono altra cosa) del Mosè in cui riduceva a niente quello che è un procedimento compositivo tipicamente rossiniano con la grande soddisfazione di dire «Avete visto? Tutto si può spiegare». Io trovo questo profondamente falso. Non che mi arrenda all’idea che non si possa analizzare l’opera di un genio: dobbiamo farlo per noi stessi e, se abbiamo una funzione didattica, per gli altri. Baricco è un grande comunicatore, cinico nel senso in cui Massimo Mila, nei suoi saggi L’esperienza musicale e l’estetica, parla di «cinismo espressivo», che è quello di colui che sa esattamente cosa dire e come dirla per colpire nel segno. Questo glielo riconosco come grandissima abilità ma ridurre i grandi a un meccanismo elementare per poter dire «vedete, io ve lo spiego, è tutto molto semplice» è qualcosa che mi dà i brividi. Ci colpisce perché è insolito nel panorama della nostra tradizione di divulgazione ma lo ritengo pericolosissimo. Detto questo, vi ringrazio dell’attenzione. ILIO CATANI Grazie a te, Sergio Miceli. Certo, l’osservazione che facevi all’inizio calza magnificamente, anche a giustificare la condizione del pubblico televisivo. Per146 ché siamo ridotti a non avere pubblico per i programmi musicali? Credo che la ragione sia quella indicata da Sergio Miceli. È talmente semplice che non vale neanche la pena di soffermarsi. Al contrario, il mercato e la tecnologia mi sembra che siano degli alibi ma la ragione di fondo è che noi proponiamo un discorso che non viene recepito. Paolo Maragoni vuole intervenire. PAOLO MARAGONI Noi siamo in una condizione particolare. È verissimo che il nostro è un problema generale di cultura, di fruizione, di posizione dell’intera produzione musicale: è ancora un patrimonio sentito dall’Occidente? Tuttavia in Italia abbiamo un duplice problema, avvertito come proprio forse solo in Giappone, dove l’opera lirica incontra grande fortuna. Quello che ha detto Miceli è terribilmente vero, come vero è senza dubbio quello che ha detto Ilio Catani, ma questo è un problema tutto italiano. Sono rimasto profondamente segnato dalla relazione che Patay ha tenuto due giorni fa. Per gli austriaci la musica è quello che per noi è il pallone. È un tifo ridicolo, anche esagerato, ma è comunque consolante per un musicista; e a quanto pare anche lì tutto comincia a vacillare. Ricordo di avere fatto carte false per trascorrere il Capodanno a Vienna perché era un mio vecchio sogno. Naturalmente non sono riuscito ad avere i biglietti per il Musikverein ma ero comunque a Vienna nel 1988-1989, in un albergo dignitosissimo del centro, non certo il Sacher o l’Imperial. Ricordo che c’erano le locandine della programmazione musicale di gennaio anche nelle panetterie. Pensate, andate a comprare il pane il 2 gennaio e trovate la locandina del Volksoper, della Wienerstaatsoper, dei Wiener Symphoniker, dei Wiener Philharmoniker! Comprate il salame e leggete tutto questo, proprio come da noi leggete «la Nottola» per il cinema. Il 31 dicembre stavo uscendo per il veglione e ho scambiato due battute con il portiere dell’albergo dove alloggiavo, un uomo comune, molto «viennese». Carlos Kleiber avrebbe diretto il giorno dopo il Concerto di Capodanno e gli dissi che avevano un grandissimo, incontestabilmente grande direttore, soprattutto in quello che avrebbe dovuto fare l’indomani, secondo una tradizione apparentemente leggera ma nobilissima. Ebbene, egli si rammaricava che il primo oboe, il migliore dei quattro, non avrebbe potuto suonare perché aveva l’influenza, proprio come se in una partita contro la Juventus mancasse alla squadra la punta avanzata! L’atteggiamento era proprio questo. «Il nostro primo oboe, il migliore dei quattro, sta male, ha l’influenza. È un gran peccato perché suona Vita d’artista che ha un celebre solo in fa maggiore nell’introduzione, prima che parta il rapinoso?, fa il duetto del Pipistrello, altri due passi famosi per primo oboe; però il nostro primo violino è il migliore di tutti. Sarà un gran concerto». Io sono rimasto esterrefatto e ho pensato: «Perché non sono nato qui?». Sebbene sia orgogliosissimo di essere italiano e ogni anno che passa recuperi un patriottismo culturale, non certo dei sacri confini, che mi riempie il petto di legittimo orgoglio, devo dire che in questo caso sarebbe stato opportuno dirottare la cicogna! Ma anche lì sta cambiando tutto. È un fenomeno che investe tutto l’Occidente. Il problema che ponete è reale e vale di riflesso anche per il tema specifico di questo consesso, sebbene sia generale. E, inoltre, per chi si fanno i concerti, visto che costano così tanto? Per chi si fanno i conservatori? In Italia è andato in crisi un sistema che «vivacchiava» sia pure con queste problematiche non sentite, non avvertite in tutta la loro gravità ma esistenti anche in passato. Per quanto riguarda il mercato del video, invece, il problema diviene generale, occidentale. A quanto pare il CD cala, il laserdisc non ha mai attecchito, lo homevideo non va e le famose tematiche che riguardano il futuro, che bisogna pagarsi la qualità, pare che prima ancora di decollare siano già finite. Dopo il mio intervento dell’altro ieri Ilio Catani ha 147 detto che forse sbagliamo a vedere la porcellana di Meissen, per cui non a caso si allestisce Una cosa rara o L’Orione, e che forse dovremmo fare più Bocelli. Io non intendo questo ma si potrebbero «bocellizzare» anche lavori di per se stessi illustri anche se popolari, per esempio un Rigoletto, grandissima opera che è però passata attraverso i nervi e le corde popolari o, almeno, nel nostro immaginario. È probabile che sia banale, senza dubbio lo è, ma forse avremmo il dovere di fare entrambe le cose, se ancora esiste una «vocazione obbligatoria» della televisione di stato. E sa Dio quanto la televisione di stato la senta come obbligatoria, soprattutto adesso. L’atteggiamento diffuso e che, poiché il servizio pubblico costringe a trasmettere quattrocento ore di musica ma non ne specifica l’orario di trasmissione, le si relega alle due di notte. Ho visto personalmente palleggiarsi la musica tra le diverse reti: «Quest’anno le opere le fai tu!»; nella «mia» Vienna avrebbero detto «Guarda che quest’anno le opere voglio farle io». In Italia, al contrario, si gioca a scaricabarile. Se ancora esiste questo dovere e questa deontologia professionale della televisione di stato è giusto fare l’Orione ed è altrettanto giusto organizzare convegni per capire come dobbiamo farlo. Come il ragtime negli stati del Sud o il blues in Alabama, l’Italia aveva una «cosa sua», che anche l’analfabeta sentiva come proprio patrimonio anche volgarissimo, certo non da stadio, non da melomania; nell’Ottocento l’opera era l’intera storia, era il Via col vento anche delle sartine. Nel Settecento – so che non devo insegnarvelo io – era ancora un’arte elitaria, ma anche i gondolieri andavano all’opera una volta all’anno. Nell’Ottocento diventa quel che il cinema è stato nel Novecento, il che non vieta ai grandi intellettuali di fare delle opere «contro»: Wagner è il caso più esemplare a riguardo. La mia fissazione di quest’anno è questa: forse dobbiamo «far sentire» questo patrimonio per altre vie, il che diviene impossibile se non è avvertito più come proprio perché si è interrotta una tradizione di trasmissione anche popolare, da nonno a padre e da padre a figlio. Bisogna trovare una maniera senza volgarità e senza mistificazione; e in questo senso indicavo la «linea Anderman» come criticabilissima ma in fondo come la più giusta, la più santa, la più vera. Parliamo della mistificazione del Do di «Di quella pira...», che è una nota da far tremare le vene ai polsi e non si può vedere a mezza bocca, come diceva Segalini. Ma quella è una diretta. La steadycam gli va in ugola? Il cantante lo sta eseguendo in quel momento, dunque i presupposti sono tutti correttissimi; ma è pur vero, come diceva Jung, che è improponibile fare in televisione una soggettiva della fruizione teatrale. Bisogna però decidersi su una linea coerente e avere delle severità con se stessi perché la necessità di cambiare linguaggio non permette l’infrazione di ogni regola; questo come fatto di deontologia personale. Pur con tutte queste cautele bisogna fare in modo che la musica diventi nuovamente «di massa», che possa nuovamente entusiasmare proprio come una cosa nuova. Personalmente sono molto contrario alla musica classica all’aperto: come diceva Toscanini «all’aperto si gioca a bocce». Questo vale a maggior ragione per l’opera, che è fatta di piani, di concertazione raffinatissima. Quando si è costretti ad amplificare tutto questo va perduto. Pensate a un Pelléas et Melisande o a un Rosenkavalier all’aperto. Certo sono due casi limite, ma si perde ogni finezza dei compositori che pesavano con la bilancia del farmacista ogni dettaglio. Sebbene di norma sarei un nemico acerrimo dell’opera allo Stadio Olimpico, se servisse… Forse bisogna venire a patti con questa necessità, ovviamente con tutti i rigori del caso. Grazie. ILIO CATANI Paolo Maragoni è una specie di turbine, un ciclone che riesce sempre a mettere sul tavolo una serie di problemi. In questi seminari finiamo sempre per 148 portare l’attenzione su una problematica diversa da quella su cui vorremmo concentrarci. Abbiamo parlato di modi di riproduzione in video dell’opera lirica, forse ora dovremmo parlare anche di come l’opera vada presentata al pubblico. Noi possiamo fare delle cose bellissime (bellissime per chi è tutto da vedere). Alla fine di questo Seminario arrivo con una convinzione che non so quanti di voi possano condividere: non esiste un modo di riproduzione dell’opera, non esiste una formula vincente. Esistono invece molte formule, rapportabili di volta in volta a un tipo di produzione, a un’opera, a un allestimento. Sono degli abiti su misura, non delle confezioni standard del grande magazzino; tant’è vero che, nelle varie esemplificazioni presentate, salvo rare eccezioni (ma a questo punto è come parlare male del Pantheon!), sono stati apprezzati i lavori più lontani nel tempo, quelli di quaranta-cinquant’anni fa. Abbiamo visto le prime produzioni del 1954 che rimangono «mitiche», sotto certi aspetti, ma non so quanto valore avrebbero oggi se provassimo a farne un remake puro. Abbiamo parlato più o meno di tutto ma non siamo arrivati, a mio avviso giustamente, a una conclusione univoca. Prego, maestro Razzi. A Fausto Razzi mi lega un’amicizia che risale al 1966: fatevi i conti! FAUSTO RAZZI Mentre sono fondamentalmente d’accordo con quanto diceva Ilio Catani a proposito della specificità di ogni lavoro che comporti, quindi, una specificità di approccio, non sono affatto d’accordo con l’idea di Maragoni di andare allo Stadio Olimpico se proprio necessario per diffondere la musica; e questo mi dispiace perché con Maragoni, con cui abbiamo parlato in varie occasioni, ci siamo trovati in sintonia su molti punti. Per esempio, ad eccezione di alcune «patacche» ma pur sempre con momenti di grandissima emozione, ho sempre pensato che l’Aida abbia ricevuto un grande danno dalla patina, che in parte le è propria ma in parte è stata gonfiata, di grande opéra, di kolossal ante-litteram. La visione dell’«Austria felix», inoltre, per certi aspetti è giustissima, per altri non lo è. Ricordo che, in anni abbastanza lontani, in Germania (paese forse meno feticista dell’Austria ma ugualmente attento alle cose musicali) fu eseguito un mio pezzo e, prima del concerto, alcune persone del pubblico mi chiesero se scrivessi musica classica, aggiungendo: «Non scriverà mica come Hindemith, vero?». Voglio dire che la diffusione della musica non può essere affidata a questo tipo di sensazioni, di partecipazioni in qualche modo paragonabili al tifo calcistico. Il problema è ovviamente un altro. Vorrei tornare quel che ho detto ieri, senza alcuna aggressività da parte mia: l’opera va rinnovata. In questo senso Berio è vecchio ed è assurdo che la maggior parte dei compositori non si accorga che da quattro secoli ci portiamo dietro un «modo retorico» in senso proprio (non in senso negativo) tipico del far musica a teatro; e non si capisce perché si debba continuare per questa via. Non è una questione di linguaggio: ho sempre sostenuto che oggi si può essere moderni indipendentemente dal fatto di usare una serie o una triade consonante (parlo per approssimazioni); il problema è semmai come usarle, il modo, l’atteggiamento. Nel caso dell’opera dovrebbe essere qualcosa che rifiuti o modifichi non già in superficie, ma dall’interno, un modo che ormai non interessa più gran parte della gente, e questo dovrebbe venire dagli stessi musicisti. Faccio un nome solo, Franco Evangelisti. Morto diciotto anni fa, è stato uno dei più importanti rappresentanti di quella generazione uscita dalla Seconda Guerra, nel recupero di tutto quello che era andato perduto e nella curiosità, nell’impeto di conoscere e rinnovare. Nonostante tutto questo, solo adesso in Italia (credo il prossimo anno) si riuscirà a rappresentare un suo lavoro, Die Schachtel, che ho 149 tentato invano in questi ultimi anni di proporre, sull’onda del successo che ha avuto a Berlino circa due mesi fa e dell’uscita di due compact disc che contengono tutta la sua opera. Questo lavoro ha avuto uno spazio di rilievo e una critica entusiastica su Die Zeit ma in Italia Franco Evangelisti, non facendo parte della scuderia Ricordi, non esiste se non sporadicamente, al punto che quest’anno Nuova Consonanza – associazione da lui fondata e che da lui ha avuto quegli impulsi per cui fino a poco tempo fa contava qualcosa – ha riassunto cinquant’anni di musica elettronica e s’è guardata bene dal fare l’unico lavoro italiano degli anni Cinquanta (guarda caso di Franco Evangelisti) che abbia segnato la ricerca di quegli anni. Come diceva Berio «c’è musica e musica», e la musica di Evangelisti «è musica». C’è poi altra musica che nasce da una imposizione del mercato, da quella che impropriamente – o forse propriamente ma in maniera certamente non ironica nelle intenzioni – viene definita «industria culturale» e che di culturale non ha assolutamente niente. Questa condiziona non solo le scelte delle varie persone che per quieto vivere o per opportunismo sono state preposte alle istituzioni e scelgono secondo quell’ottica, condizionando tutto quello che è attenzione verso la musica. Poiché mi accorgo che parlare a braccio è più semplice ma induce allo straripamento, leggo due o tre passi da quanto scrissi quattro anni fa per il famoso inserto rock di la Repubblica che era nato da poco. Tale inserto chiarisce qual è la linea di tendenza di uno dei giornali a maggior diffusione. Al giornale era arrivata una lettera di protesta scritta a Castaldo da alcuni compositori, i quali lamentavano, cospargendosi il capo di cenere, di essere stati dimenticati. Castaldo aveva risposto dicendo: «Ma che cosa hanno fatto questi musicisti per avere diritto a essere ricordati? Il loro linguaggio a volte è così contorto, oscuro, demotivato. Cos’hanno fatto per meritarsi di essere ricordati?». Su questo io scrissi: «Domande legittime, alle quali però se ne devono contrapporre subito altre: cosa ha fatto lo stato, cosa ha fatto la scuola, cosa hanno fatto le istituzioni? Un rapporto, di qualunque tipo esso sia, è possibile solo se esiste un interesse per ciò che viene proposto, e questo interesse può nascere solo dalla conoscenza. In uno stato in cui di fatto la musica non fa parte della cultura...». Il discorso sull’assenza dell’insegnamento musicale nelle scuole, infatti, va allargato: nei fatti la musica non fa parte della cultura, gli intellettuali non musicisti, per mancanza di conoscenza specifica – ma dovrebbero avere una conoscenza generale che supplisca a quella specifica – non solo non conoscono la musica ma non ritengono che la musica faccia parte della cultura. Diverse volte ho citato un libro sull’uomo barocco edito, mi sembra, da Laterza e curato dallo storico Villari. Questo libro considera una serie di figure, il politico, il militare, l’ecclesiastico, l’artista (ovviamente l’artista figurativo), dimenticando il musicista. Il Seicento ha inventato musicalmente una forma di rapporto con il pubblico, il melodramma, che, al di là della sua importanza musicale, ha avuto un impatto con la società che forse Villari non conosce e che forse farebbe bene a conoscere. «Per di più, solo negli ultimi cinquant’anni il musicista-interprete e l’ascoltatore medio sono stati messi in grado di conoscere una letteratura articolata su un periodo di tempo assai vasto, grazie alla radio e ai dischi. Si è quindi prodotta una sorta di difficoltà di collocazione, di organizzazione, di orientamento, una vera e propria saturazione di musica, a differenza di quanto è avvenuto per le altre forme di pensiero che sono state assorbite in modo più graduale. Per il recente passato, questa «musica contemporanea», con le dovute eccezioni ma non sono tante, è stata in gran parte eseguita da musicisti demotivati che hanno affrontato l’esecuzione di questa musica non potendo dedicarsi per deficienze tecniche o per difficoltà di altro genere, all’esecuzione del repertorio classico che era quello a cui erano stati abituati. Quindi, una lettura approssimativa 150 quando non addirittura insufficiente e distorta, a differenza di quanto avviene in area rock, ad esempio, dove qualsiasi complesso dimostra di credere in quello che fa e che lo faccia in questo modo lo si sente». Tante volte avrete sentito dire che la gente non capisce la musica contemporanea, anche se non è eseguita bene. Mancano i modelli di riferimento ma andrebbero costruiti, e costruiti bene. «In ogni caso va poi detto che esperimenti, che purtroppo sono stati minimi e molto sporadici, per stabilire un rapporto con il pubblico non sono mancati». Negli anni Settanta, insieme a tanti altri musicisti, ho avuto la fortuna di partecipare a quella serie di incontri che si sviluppò per tre anni a Reggio Emilia e che si chiamava «Musica/Realtà». Questa operazione, da cui ho tratto esperienze positive, risultò efficace perché era basata sul confronto fra musiche di aree diverse e sul conseguente dialogo fra musicisti di varie estrazioni e un pubblico anch’esso non omogeneo. La discussione più interessante riguardava naturalmente la musica meno conosciuta. Per concludere vorrei fare una considerazione, ultima non certo per importanza. Non bisogna dimenticare il condizionamento imposto dall’industria culturale né sottovalutare il peso dell’editoria musicale. Quest’ultima, per ovvie anche se non lungimiranti esigenze di mercato ma, a volte, anche per incapacità di orientamento nelle scelte, ha ristretto e restringe tuttora le sue proposte a pochi nomi che non sempre assicurano la presenza di una qualità, di quella qualità che è necessaria a far scattare l’interesse nei confronti di quella musica. Questo è importante perché, se è giusto che accanto al saggio filosofico fondamentale esiste la necessità di leggere un libro giallo, è evidente che accanto al rock abbiamo il dovere di proporre altre cose; e probabilmente non è insistendo solo su un passato che per noi è ancora presente che possiamo pensare di interessare i giovani. Dobbiamo interessarli a qualcosa di attuale che abbia un proprio valore e che sia complesso, in modo che pian piano possano rendersi conto della mistificazione a cui sono stati costretti: mediamente la semplificazione raggiunge la banalità. Per far comprendere questa banalità bisogna tuttavia mettervi a confronto qualcosa che sia omogeneo dal punto di vista dell’attualità; in caso contrario, come si è già detto, «Che gelida manina» rimane nel frigorifero. Grazie. ILIO CATANI Grazie a Fausto Razzi. Come vedete le problematiche dilagano. Siamo partiti da un’idea e, a corollario, è nata una serie di problemi che riguardano la scuola, le modalità di distribuzione, l’editoria. Miceli potrà confermarvi che di questi problemi ne è discusso all’I.R.TE.M. più volte. La parola a Carreira. XOÁN M. CARREIRA Alcune brevi considerazioni. Credo che esistano gli strumenti per fare bene le cose. Per esempio, tre anni fa in Spagna il direttore del Centro per la Diffusione della Musica Contemporanea, Jesús Villa Rojo, compositore-interprete conosciuto anche in Italia, ha fatto un’esperienza importantissima. Il principale inserto della stampa spagnola dedicato alla moda musicale è quello di El País e si chiama El País de las Tentaciónes. Il quotidiano fa parte della stessa proprietà di Canal Plus. Villa Rojo, al Centro per la Diffusione della Musica Contemporanea, che è un ente ministeriale, ha promosso un convegno finalizzato all’organizzazione di un concerto all’Auditorio Nacional con musiche di sei giovani compositori spagnoli. Il concerto sarebbe stato pubblicizzato e recensito da El País de las Tentaciónes e, inoltre, sarebbe stato trasmesso da Canal Plus. 151 Il reportage che El País de las Tentaciónes ne fece fu di ben sei facciate e usava il linguaggio della cultura pop, ottenendo un enorme successo. Anche il concerto ha avuto grande successo di pubblico, un pubblico che fino ad allora non aveva conosciuto la musica di oggi. Tutti i partecipanti sono rimasti soddisfatti dall’esperienza fatta e la trasmissione è stata un successo. Il lavoro della nuova direttrice del Centro, Consuelo Díaz, compositrice, è improntato alla stessa concezione: quando un interprete bussa alla porta la linea della pubblica amministrazione è quella di trattarlo come se fosse il povero alla porta del tempio. Passiamo alla musica sinfonica. La mia città ha un’orchestra civica che dipende per il 40% dai privati e per il 60% dal comune. Ha un proprio auditorium, una propria stagione di abbonamenti e un proprio festival ma viene presentata anche all’aperto come elemento di festa popolare, più che propriamente culturale, con tre concerti: uno è dedicato alla musica scritta per il cinema, uno alla musica dichiaratamente festiva e uno alla zarzuela; in aggiunta c’è una presentazione dei Carmina burana di Carl Orff. Si tratta di una «popolarizzazione» dell’orchestra che, in quanto servizio pubblico, partecipa alla festa cittadina. Il prodotto da popolarizzare è l’orchestra, non la musica: non bisogna avere la pretesa di eseguire la Sinfonia n. 3 di Mahler all’aperto, è assurdo! Cinque o sei mila persone partecipano ai concerti di quest’orchestra, ed è un pubblico felice di poter stare in piazza ad ascoltare la propria orchestra. Semplice! Io credo che vi sia la possibiltà di presentare il nostro «prodotto» musicale senza fare cose strane e con grande ripercussione sociale. Ieri parlavamo della possibilità di presentare The Rape of Lucretia di Britten come opera di attualità, poiché attuale è il fenomeno della violenza sulle donne. Abbiamo l’assoluta necessità di usare la fantasia e trovare un nesso con la realtà. Se un prodotto risulta impossibile da vendere sul mercato ho i miei dubbi che si tratti di un buon prodotto: deve avere qualche difetto se non interessa a nessuno! Credo al potere dell’immaginazione e della creatività e la televisione è uno strumento di grande importanza per l’immaginazione. Ricordo la potenza economica del settore culturale del 1997 in Spagna: l’ammontare degli introiti dell’industria culturale spagnola, cinema, teatro e musica compresi, era di cinquantaquattro miliardi di euro ma, nello stesso anno, la perdita di mercato è stata pari a un miliardo di pesetas per la mancanza di coordinamento fra le otto istituzioni pubbliche che si occupano dell’amministrazione culturale. È un problema di fantasia e coordinamento. ILIO CATANI Carreira auspica creatività e fantasia. Ebbene, se non credessimo anche noi nella creatività e nell’immaginazione non ci saremmo occupati né di musica né di televisione, di comunicazione, di media, in particolare in una situazione come quella attuale, che sembra aprire confini a dir poco nebulosi. Siamo davvero tutti alla ricerca della pietra filosofale! Prima di continuare con gli interventi vorrei salutare una carissima collega arrivata da poco, Maria Rosaria Bronzetti, che sarebbe dovuta intervenire a proposito di un programma che realizza da anni e che si inserisce perfettamente nella tematica del nostro Seminario. Da diversi anni Raitre ha «inventato», se così si può dire, un modo di presentare la musica completamente diverso da quella tradizionale. Come già accennavo, con il programma «Prima della prima» si è tentato di avvicinare all’opera e alla musica in genere (il programma è riferito a tutte le manifestazioni musicali di ampio respiro) un pubblico non necessariamente di melomani o di appassionati, con un linguaggio non tecnico. Mi dispiace che i colleghi stranieri non siano presenti stamane poiché ritengo sia interessante vede152 re insieme e commentare questo programma, che ha una «pezzatura» limitata rispetto ai nostri standard. Dura infatti mediamente mezz’ora, è agile, di taglio quasi giornalistico, e tuttavia fornisce una serie di informazioni e stimoli per destare curiosità. La programmazione di questo servizio avviene a ridosso della prima ufficiale, in modo da invogliare lo spettatore ad assistere allo spettacolo. Prego i colleghi della sezione tecnica di attivare le apparecchiature e invito Maria Rosaria Bronzetti a parlarci del suo programma. MARIA ROSARIA BRONZETTI Buon giorno a tutti. La trasmissione di cui mi occupo è già stata ben illustrata da Ilio Catani. La puntata che stiamo per vedere è stata registrata a giugno a Ferrara. Si tratta del Falstaff diretto da Abbado con Ruggero Raimondi. ILIO CATANI Vorrei che ci parlassi anche dello spirito della trasmissione e delle esperienze che avete avuto, visto che sono ormai molti anni che il programma va in onda. Che tipo di risposta ha avuto dal pubblico? Noi abbiamo parlato anche delle difficoltà che a volte si incontrano nei teatri per collocare i mezzi di ripresa. MARIA ROSARIA BRONZETTI Le difficoltà sono infinite, sebbene «Prima della prima» venga girata con una troupe leggera che può trovare collocazione molto facilmente in punti dove non disturbi lo svolgimento dello spettacolo. Ovviamente ci sono tutte le altre difficoltà che si incontrano nei teatri ma, con la voglia di fare, queste vengono superate. VOCE DAL PUBBLICO Come risolvete il problema dei diritti d’autore? MARIA ROSARIA BRONZETTI Trattandosi di un programma di taglio informativo-giornalistico, basato soprattutto sulle prove, non si pagano diritti ai teatri. Cerchiamo inoltre di andare sempre in onda quando lo spettacolo è ancora in scena, il che rende la trasmissione una sorta di promozione per il teatro. ILIO CATANI Come ha reagito il pubblico televisivo? MARIA ROSARIA BRONZETTI È una trasmissione collocata malamente: nonostante le proteste dei telespettatori e della stampa continua ad andare in onda a mezzanotte. In questa fascia oraria lo share d’ascolto varia dal 4 al 5%. PAOLO MARAGONI Ieri Ilio Catani ha detto che quello dei fruitori della musica classica è un popolo invisibile, non solo in senso televisivo ma anche in senso sociale. Cosa 153 fanno, cestinano i fax? Ho sempre avuto il sospetto che le risposte dei nostri superiori siano legate alle ricerche che vengono effettute sui programmi che stanno loro a cuore. È l’epoca delle ricerche onnipotenti di mercato che dovrebbero orientare ma, «non c’è sordo più sordo che chi non vuol sentire», alla ricerca non-funzionale al tuo discorso, o «iperuditivo» più «iperuditivo» alla ricerca che ti fa comodo! Questo mi pare abbastanza evidente. Sono convinto che il bacino d’utenza di «Prima della prima» sia maggiore di quello che viene lasciato apparire, e sicuramente questa utenza non è soddisfatta. Non è vero che non importa nulla a nessuno, anch’io ho ricevuto proteste da parte di non-melomani riguardo l’orario di programmazione della trasmissione. Come diceva Heister, il libero mercato non è affatto libero ma molto orientato. ILIO CATANI Purtroppo per molti aspetti siamo nelle mani di qualcuno che decide per tutti, in base a considerazioni che spesso non sono rispettose della volontà popolare. Maestro Paperi? VALERIO PAPERI Purtroppo è storia vecchia. Ho lavorato accanto a Ilio Catani nel Concorso intitolato alla Callas. Il suo grande impegno in quell’occasione è stato vanificato per metà dall’orario e dalla durata della trasmissione. Vedevo le spese enormi e l’impegno suo e della sua équipe ridotti a tempi molto stretti in un lavoro che nasceva per essere popolare, trattandosi di un concorso che andava in onda in mondovisione, sebbene alle 23.30. Si era obbligati a trasmettere per intero le interviste ai vari Krause, ecc. e a ridurre a un’aria sola le esecuzioni dei concorrenti, cosa che spostava l’angolazione del giudizio della commissione rispetto a quello del pubblico. E questo accadeva molto tempo fa. ILIO CATANI Dodici anni fa, per la cronaca. Grazie per avere riportato indietro la memoria. Vediamo ora «Prima della prima». (esempio audiovisivo) Grazie, siamo già fuori tempo massimo. Non voglio «giocare in casa», sarebbe troppo scoperto. Attendo osservazioni e commenti, credo che sarebbe la parte più interessante. GIANNI DI CAPUA Premetto che i programmi di Maria Rosaria Bronzetti li seguo dai tempi di «Hellzapoppin’». È una delle proposte più valide della televisione pubblica, che dimostra ancora che la televisione pubblica non è espressione di un progetto ma che la cultura che si fa all’interno della televisione pubblica è sempre il progetto che parte da un individuo, e qui ne abbiamo l’esempio. Credo che se non ci fosse stata Maria Rosaria Bronzetti, «Prima della prima» non ci sarebbe mai stato. Quindi riportiamo il problema all’individuo e questo vale anche per Ilio Catani. Tutte le tue iniziative... ILIO CATANI Grazie ma non siamo qui per... 154 GIANNI DI CAPUA Diciamolo pure! Due domande di carattere tecnico: vorrei sapere se voi avete girato con le luci di scena... MARIA ROSARIA BRONZETTI Sì. GIANNI DI CAPUA Non avete aggiunto della luce all’esterno... MARIA ROSARIA BRONZETTI Questo è uno dei problemi: non possiamo, per ovvi motivi, mai aggiungere le luci. GIANNI DI CAPUA Ecco. Poi un’altra cosa: «Prima della prima» lo seguo da diverso tempo. Ho visto delle puntate memorabili; non ricordo se era quella di Uto Ughi: non so se rientra in questo progetto... MARIA ROSARIA BRONZETTI Sì, ne abbiamo fatte svariate con Uto Ughi. GIANNI DI CAPUA È stata splendida. Da quanti anni esiste «Prima della prima»? MARIA ROSARIA BRONZETTI Esiste da dieci anni. GIANNI DI CAPUA Ecco. Io noto che l’impianto narrativo, di costruzione, si è assestato. Non c’è stata una progressione, uno sviluppo del come raccontare il «Prima della prima». Vedo che ci sono delle intuizioni narrative estremamente interessanti, per esempio l’inizio folgorante. Avete visto il montaggio serrato tra quello che dice Abbado e il corrispettivo di ciò che accade sulla scena. Però ci sono dei momenti in cui la struttura si adagia su sé stessa, su un modello ormai collaudato. Voglio dire che è stanca. MARIA ROSARIA BRONZETTI È assolutamente vero ma ho avuto dei problemi. GIANNI DI CAPUA Sì, finisco di dire. Che cos’è che contribuisce a questo che dico? Al vocabolario delle immagini che viene usato, che è quello tipico delle news. Gli operatori sicuramente adottano un tipo di racconto per immagini che si adotta nor155 malmente per raccontare le news, cioè le cose che avvengono sul vivo, sull’istante. In effetti l’immagine (e il suo contenuto) perde di forza di penetrazione nel memento in cui si propongono: ci sono «zoomate» ci sono campi totali. Forse questo è uno dei motivi per cui ci sono certi punti di debolezza nel programma. Ultima cosa: mi chiedo se forse non si potrebbe pensare a invitare dei registi a sperimentare questa struttura, questa trasmissione che io trovo veramente singolare. Mi dispiace che non ci siano i colleghi stranieri perché si sarebbero resi conto di un prodotto che appartiene alla cultura televisiva italiana, poiché esiste da dieci anni, quindi mi domando se nel vostro progetto non sia ora di aprirsi, e potrebbe essere una straordinaria palestra per formare nuove professionalità esterne. Invitare dei registi a raccontare, ad assumere la struttura di «Prima della prima» e a individuare delle forme per contruibuire alla crescita della stessa struttura narrativa. MARIA ROSARIA BRONZETTI Parto da quest’ultima osservazione. Quest’anno la trasmissione è completamente cambiata, nel senso che le puntate erano monografiche, dedicate ogni volta a una singola opera. Quest’anno la trasmissione è diventata un vero e proprio rotocalco sulla musica, e all’interno di ogni puntata ci sono tre servizi, tutti fortemente incentrati sull’attualità e quindi chiaramente è un programma molto più informativo e molto più agile e veloce. C’è una conduttrice tra un servizio e l’altro, e questo tentativo di sperimentazione sta avvenendo proprio in questo periodo. Adesso vediamo, abbiamo fatto soltanto tre puntate, stanno andando abbastanza bene. Ci sono pro e contro, nel senso che il melomane era affezionato all’approfondimento; con i tre servizi, ovviamente, la trasmissione diventa molto meno approfondita e molto più informativa. Per quanto riguarda la ripresa, noi abbiamo un budget bassissimo, altrimenti «Prima della prima» non esisterebbe; sono anni che difendo questa trasmissione. È chiaro che bisognerebbe andare a girare con mezzi più importanti: noi giriamo con una sola troupe e soltanto quando c’è la prova generale con una doppia troupe. Chiaramente, le immagini sono necessariamente quelle che avete visto. Per quanto riguarda questa particolare ripresa, ho avuto dei problemi perché Raimondi [Ruggero Raimondi, baritono, N.d.R.] si è alternato con Andrea Concetti, che poi tra l’altro non ha neanche fatto recite, era solo lì in aggiunta, e quindi chiaramente non potevo fare un montaggio con Andrea Concetti alternato a Raimondi, non mi sembrava corretto. Quindi per questo motivo c’è una certa staticità: non ho avuto abbastanza prove. Il giorno precedente Raimondi ha fatto pochissime prove senza cantare in voce, quindi chiaramente non le potevo montare, però ho portato questa puntata perché il Falstaff di Abbado mi sembrava una cosa interessante, e poi è abbastanza recente. GIANNI DI CAPUA Io lancio una provocazione. Ritorno sulla sperimentazione, proprio perché conosciamo i limiti che ci vengono purtroppo imposti dalla realtà della produzione. Lancio una proposta: io mi propongo gratuitamente – te lo metto anche per iscritto – per sperimentare un possibile racconto di «Prima della prima». MARIA ROSARIA BRONZETTI Grazie! 156 ILIO CATANI Gianni, ti sei irrimediabilmente compromesso! L’hai detto in pubblico ed è tutto registrato. Ti conveniva venire con l’avvocato, perché questo potrà essere usato contro di te. GIANNI DI CAPUA Mi impegno per una puntata. MARIA ROSARIA BRONZETTI Quest’anno, per un servizio? Va bene. ILIO CATANI Maria Rosaria ne terrà conto, ne sono convinto. Ci sono altri interventi a riguardo? VOCE NON IDENTIFICATA Volevo soltanto fare una domanda ma non so neanche se questa sia la sede adatta. È stata fatta un’indagine per sapere qual’è il rapporto di interesse fra i giovani e il musical? ILIO CATANI Il musical in particolare, no. VOCE NON IDENTIFICATA Forse sarebbe interessante sapere perché... ILIO CATANI A riguardo devo dirti che le ultime indagini del servizio opinioni, sulla musica, risalgono a molti anni fa e furono fatte in particolare per l’ascolto della radio quando ne divenne direttore Aldo Grasso. Quindi parliamo del 1994-1995, quando ci fu la riforma dei programmi radio, che chi ama e segue la musica ricorderà che il «Mattino Tre» cambiò completamente configurazione. VOCE NON IDENTIFICATA Non mi riferivo solo alla RAI. ILIO CATANI No, non è stata fatta. Se viene fatta, è solo per paradigmi molto ampi e non così specifici come «i giovani e il musical», questo posso dirtelo con quasi assoluta certezza. Se non ci sono altre domande relative al programma di Maria Rosaria Bronzetti... So che lei è molto occupata, come al solito, perché non solo hanno budget molto limitati ma sono anche pochissime le persone. 157 MARIA ROSARIA BRONZETTI Volevo soltanto dire una cosa, a proposito del montaggio fulminante iniziale. Anche lì, si è trattato di una costrizione perché tutti sappiamo che il maestro Abbado non ama essere intervistato, e io mi sono ritrovata con un’intervista con delle pause lunghissime, ovviamente non televisive. All’inizio ero disperata perché pensavo «ci ho messo tanto, ad avere questa intervista, e ora dovrò buttarla». Sono stata costretta a inventare qualcosa per poter mandare in onda l’intervista. ILIO CATANI La difficoltà ha operato il prodigio. Grazie a Maria Rosaria Bronzetti. Buon proseguimento e buon lavoro. Valerio Paperi, volevi parlare del «Prima della prima»? VALERIO PAPERI Volevo cogliere, nei tempi, nei modi, nelle difficoltà che chiaramente incontra, delle volte la caduta può dipendere da un fattore, cioè fra quello che dice l’intervistato e il risultato. Senza togliere il valore a Raimondi in realtà ci sono delle carenze di significato nel modo in cui lui espone; è unicorde, in una certa maniera che gli è comoda, ed è di valore. Ma il Falstaff ha dei significati molto più sensibili di quello che lui tira fuori, anche in questi inserti. E la caduta può anche essere dovuta a questo, cioè che una parte che noi ascoltiamo cade proprio perché quello che viene detto è in realtà disatteso per una parte, perché forse non è tutta la corda possibile per lui. Non parlo di voce, parlo proprio di significati emozionali che una partitura di questo tipo e la scrittura richiedono. Questo è il mio pensiero riguardo ciò che si sente. Quindi, l’intervistato pone un suo modo di concepire l’aria, i trapassi espressivi, e in realtà poi non tutto quello che dice viene fuori dal suo modo di fare. E questo può far cadere l’attenzione. JEAN-FRANÇOIS JUNG Penso sia difficile per un regista avere un punto di vista unico su questo Falstaff quando i protagonisti, il direttore e i cantanti, non hanno un punto di vista che tutti insieme, non hanno la volontà di fare un particolare Falstaff. Ciascuno ha detto una piccola cosa: Raimondi ha detto dieci piccole cose, anche il direttore non ha un punto di vista reale di fare una nuova direzione musicale di Falstaff. Non ho sentito un punto di vista di cantante giocosa, delle donne; di questo sono veramente deluso, di sentire le donne cantare così. Dunque, è una specie di collage perché non è il problema del regista come fare un montaggio dove le cose vanno insieme se si sceglie una regia dove tutta la gente non ha un solo punto di vista sul modo di fare un nuovo Falstaff. Dunque, siamo molto distanti da questo. Una cosa che si vede bene, per esempio, è che questa inquadratura di Raimondi allo specchio è troppo lontana, e questo sul montaggio riviene dieci o quindici volte ma penso che non sia colpa del regista perché io sono lontano da Raimondi non solo perché è filmato in uno specchio ma perché quello che dice Raimondi non è realmente interessante e la distanza fra Raimondi e me è la stessa che fra la telecamera e lo specchio, perché lo specchio raddoppia la distanza fra me e Raimondi. Dato che Raimondi non ha qualche cosa di realmente prossimo da dire, siamo lontani il doppio. Non so se mi sono spiegato. 158 MARIA ROSARIA BRONZETTI Sì, perfettamente. A proposito dei problemi a cui ho accennato prima, in questo caso ero dentro un camerino che sarà grande quanto da qui a lì, e non potevo mettere la telecamera altro che sullo specchio. Era un camerino piccolissimo del Teatro Comunale a Ferrara. Era l’unico modo per fare la ripresa, perché il palcoscenico era sempre occupato e non potevo andare da nessun’altra parte se non nel camerino di Raimondi che era, praticamente, un buco, un ascensore. ILIO CATANI Sono i problemi di sempre. Vorrei sottolineare il carattere tra il documentaristico e il «promozionale» – anche se non vorrei usare questo termine – ecco, l’«assaggio», vi facciamo vedere lo spettacolo nel caso vi possa interessare, quindi non so se sia il caso di rintracciare nell’economia generale del filmato un’unitarietà, come invece la si pretenderebbe dal Falstaff intero, dove ci sia un’idea che va sviluppata in tutte le sue componenti. Giustamente, come dice Jean-François Jung, queste cose emergono ed è giusto che emergano: non c’è una chiara idea nell’ironia o nell’allegria dei personaggi femminili, beh lo si vede. Senza calcare troppo la mano, sono state messe in evidenza delle carenze, ed è anche questo il nostro compito, non deve essere semplicemente l’apologia di qualcosa o di qualcuno. Non sappiamo quali siano gli esiti. Nell’individuare uno spettacolo da andare a riprendere, che si tratti di una prova o di uno spettacolo interoacquistiamo a scatola chiusa, come si suol dire. Non sappiamo quali saranno gli esiti finali del nostro lavoro: può trattarsi di un buon lavoro, di una buona rappresentazione, oppure di un allestimento così così, quindi a me sembra giustissima l’osservazione di Jung ma anche complessivamente valida l’idea della trasmissione. Come avviene nella realtà, fra le centinaia di «Prima della prima» ce ne saranno alcune migliori e altre peggiori. Anche Gianni Di Capua ha ragione nel definire i limiti tecnico-realizzativi di una struttura: certo, a volte ci si adagia, non si riesce a mantenere il ritmo ma questo dipende da una serie di fattori. Sarebbe giusta l’idea di sperimentare, di dare la possibilità di creare nuove formule di linguaggio. Effettivamente, tra i modi di riproduzione dell’opera che abbiamo visto ci tenevo a mostrarvi quale sia lo sforzo della RAI nell’avvicinare il pubblico e nel cercare di non far passare sotto silenzio gran parte degli spettacoli messi in scena nei nostri teatri. Detto questo, saluto nuovamente Maria Rosaria Bronzetti, e vi invito a prendere un caffè prima di passare alle ultime battute del nostro Seminario. SERGIO MICELI Scusate, vorrei fare una mozione d’ordine anche se l’atmosfera è amichevole. C’era una lista di persone che si erano prenotate per parlare, e prima o poi dovremo rispettarla! ILIO CATANI Certo, la mozione è approvata. Se approvate anche l’idea del caffè ci vediamo qui fra dieci minuti. (pausa caffè) ILIO CATANI Aspettiamo il rientro in sala di qualcuno dei nostri amici che ancora si intrattiene fuori. Ricordavo qualche istante fa con Fausto Razzi, a proposito della 159 trasmissione che abbiamo visto («Prima della prima»), dai modi di riproduzione in video ma anche di presentazione dell’opera lirica, che c’è stato recentemente sul Primo canale della RAI il programma di Antonio Lubrano «All’opera», non so se si chiamasse così. Si tratta della presentazione di un’opera in sintesi, una formula agile, non impegnativa dal punto di vista del tempo, uno dei tanti modi. Sono tentativi che dovrebbero portare a ripensamenti, a verifiche. Capire a chi piace, perché, come. Prego, la parola a Sergio Miceli. SERGIO MICELI In realtà, è passato tanto tempo da quando ci siamo iscritti a parlare che il discorso si è di nuovo «raffreddato» e sarà molto più breve di quello che avevo previsto per lasciare spazio, vista l’ora, a chi si era iscritto a parlare dopo di me. Parto dall’intervento di Fausto Razzi che, come al solito, secondo me è ricco di stimoli, in questo caso in modo particolare perché ha toccato tanti punti veramente nodali, che stanno alla base del nostro problema. Tu stesso, Ilio [Catani, N.d.R.], e anche altri nel corso di questi lavori hai preso «Che gelida manina» come emblema di qualche cosa che non stimola reazioni nei giovani perché non hanno più, nei confronti di questa semplice citazione un minimo di liberazione... Io vorrei ricordare che forse il processo di demitizzazione viene dal cinema americano degli anni Sessanta, quello non allineato con le grandi produzioni di Hollywood, in cui Garfunkel (quello del duo con Paul Simon) intonava «Che gelida vagina»: quello è probabilmente il segno di un disinteresse totale nei confronti di qualche cosa che è mitico soltanto per noi, come memoria storica, ma non certamente per i giovani che quel cinema leggeva perfettamente, e interpretava negli istinti e nei desideri. Erano gli anni della contestazione. Per quanto riguarda, più puntalmente, i tanti (direi troppi ma inteso come complimento) stimoli che sono venuti da Razzi, ha citato il discorso di Evangelisti, di Nuova Consonanza. Io vorrei ricordare un altro nome che è stato fatto durante questi lavori, quello di Hansjörg Pauli. Invito a rileggere l’opuscolo che l’I.R.TE.M. ha dato ai partecipanti dove si possono verificare alcune presenze costanti, e soprattutto la sua, che è stato per anni presidente dei nostri seminari. Tu, Ilio, te lo ricordi benissimo. Insieme ai colleghi provenienti da tutti i paesi abbiamo cercato di affrontare i problemi dell’opera in film e dell’opera in televisione. Vorrei ricordare che Pauli non è qui fra noi perché gravemente malato da diversi. Vorrei ricordare, ricollegandomi al discorso che faceva Razzi, che il fenomeno Nuova Consonanza, il gruppo di improvvisazione, è stato per la prima volta oggetto di attenzione e di interesse di un documentario bellissimo, raro, di cui ho il privilegio di possedere una copia. È stato Pauli a girarlo, in Germania. Il primo, che riporta anche alcuni frammenti dei concerti all’Accademia d’Arte Contemporanea, con interviste fatte come le poteva fare un musicista e un musicologo quale è Pauli, le due cose non vanno spesso insieme. È anche un uomo con grandi interessi e capacità nel mondo del cinema. Ricordo, per esempio, la sua proposta provocatoria, che cadrebbe benissimo nei discorsi che abbiamo fatto in queste ore insieme, che porto anni fa, di un concerto che lui aveva filmato non ricordo se in Svizzera o Germania, in cui aveva tenuto rigorosamente la cinepresa (non era televisione, era un film) al centro della sala, e non l’aveva mossa dall’inizio alla fine del concerto, lasciando un punto di osservazione «oggettivo», contro le diverse invenzioni i diversi modi di anteporre o posporre ritmi visivi... Era una provocazione, la sua, ma era sicuramente frutto di grandi stimoli. Quindi confermo – anche se non ce ne sarebbe bisogno, dopo l’intervento di Razzi – che questo fenomeno, Evangelisti, Nuova Consonanza, hanno avuto e continuano ad avere molta più eco in Germania, soprattutto, ma comunque non in Italia, di quan160 to ce ne sia da noi. Evidentemente questi venti, trenta, quarant’anni non sono serviti a nulla. Quanto al discorso che mi ha molto colpito, nel senso che non mi era nuovo ma mi piace sentirlo proporre con questa lucidità dall’esterno, che Berio è «vecchio», che c’è una visione retorica delle cose, io continuo a sostenerlo anche in sede didattica. Proposte ce ne sono state, all’inizio del secolo, nei primi venti-trent’anni, e queste proposte si chiamano Histoire du Soldat, di Stravinskij, oppure i lavori di Weill. E non credo che queste proposte siano state raccolte. Io ho sperato che, in anni di grande fervore produttivo da parte di molti compositori italiani, ci fosse un tentativo di raccogliere questo messaggio e di svilupparlo. Secondo me, una formula come quella dell’Histoire du soldat è ancora tutta da verificare. Se non lo si vede qualche volta in qualche interpretazione di regia televisiva, lo abbiamo visto anche qui, in questi giorni, in cui viene fuori un altro nome che non è stato fatto e che mi pare giusto fare: Piscator [Erwin Piscator (1893-1966), N.d.R.] con la sua concezione di uno spazio globale in cui cinema, teatro, musica, mimo, pantomima e danza si mescolano. È un po’ scoprire l’acqua calda ma ben venga se può essere fonte di stimoli. In ultimo, per quanto riguarda l’intervento di Maragoni oltre che quello di Razzi, sul modo di sentire la musica dei viennesi, tanto per prendere questo modello, sono d’accordo con le riserve di Razzi ma vorrei soltanto aggiungere citando un verbo toscano, che dice «Beati gli orbi in terra dei ciechi». Grazie. ILIO CATANI Grazie, Sergio. Francesca Nesler era iscritta a parlare ma è dovuta partire, il prossimo iscritto quindi è Acquafredda. Prego. PIETRO ACQUAFREDDA Sono stato contento di constatare, essendo potuto venire soltanto oggi, che Catani abbia accennato a questo esperimento di «All’opera», l’esperimento promosso da e andato in onda su Raiuno del quale sono stato autore insieme a Lubrano e alla Serantoni, e che ha avuto un discreto successo di pubblico rispetto alle aspettative. Siccome si tratta di un seminario in cui si parla di come portare l’opera in TV, credo che qualche cosa su questa trasmissione in questo Seminario andasse detto, perché mi pare che sia stata escogitata – e con sorpresa di tutti abbia avuto un grande successo – una formula che senza stravolgere nulla parte da un dato di fatto e cioè che, bene o male, le arie più celebri delle grandi opere di repertorio in Italia moltissime persone le conosce. Partendo da questo dato di fatto, senza trucchi e senza molti ammennicoli elettronici, ecc., con un’operazione semplicissima si è tentato di riannodare le fila di tutte queste arie o di pezzi presi dalle opere attraverso un racconto, il quale racconto non portasse per la sua eccessiva tecnicità a ridurre ancor di più il pubblico che, per questo tipo di trasmissione, in televisione è già sufficientemente ridotto. Quindi si è raccontata una storia, dicendo chiaramente che noi partiamo da questo dato di fatto: le arie più celebri tutti le conoscono, probabilmente la gran parte di quelli che conoscono le arie non conoscono la storia da cui nascono queste arie, raccontiamo la storia e facciamo ascoltare le arie più celebri. E questo ha sorpreso tutti, per il successo che ha avuto. Si è discusso, non so se ne avete parlato ma io purtroppo non potevo essere presente a causa di altri impegni, si discute spessissimo (anch’io l’ho fatto tante volte) sul perché la musica non debba andare in TV in prima serata. Si è visto anche con i leggeri scarti che noi abbiamo avuto, andando invece in seconda serata, che la prima serata non ebbe questo tipo di cosa e che, anzi, quando per ragione legate alla trasmissione pre161 cedente, si doveva appena appena posticipare, ma sempre nell’ambito della seconda serata non in notturna, le cose andavano molto meglio. E si è anche visto che il grande repertorio era ed è ancora molto amato. Noi, per esempio, abbiamo inserito nel ciclo un bellissimo spettacolo trasmesso da Napoli (del quale aveva effettuato le riprese Ilio Catani), il Don Pasquale con la regia di De Simone, che era una delizia, dove i protagonisti erano di una bravura, Elisabeth NorbergSchultz era di una bravura anche di attrice, oltre che di cantante. Il titolo Don Pasquale non è molto conosciuto, nonostante lo spettacolo fosse bello. Traviata, Bohème, Aida, Butterfly (quest’ultima non l’abbiamo trasmessa) sono andate benissimo, addirittura con punte del 13% di share che non esiste mai per nessuna... cioè, quelle stesse opere mandate secondo la nostra formula... Manon, che abbiamo mandato secondo la nostra formula, è andata poi in un’altra fascia oraria per intero diretta credo da Muti e credo che abbia fatto 200.000-300.000 spettatori. Nella nostra trasmissione ne ha fatti oltre un milione, la stessa opera con lo stesso direttore e gli stessi interpreti. La stessa messa in scena e lo stesso spettacolo, presentato in quella maniera per la durata complessiva di 55 minuti, di cui dieci erano di parlato e il resto, quindi la gran parte, era di musica ha avuto questo riscontro. Ora pare che si dovrebbe fare un secondo ciclo... ma questo però non si sa ancora e poi, quando finiranno le opere del grande repertorio una trasmissione di questo genere è ancora proponibile? Questo è il problema. Percui, quando ho visto «Prima della prima», dicevo che uno che viene dall’estero e assiste a una trasmissione del genere messa in onda dalla TV italiana pensa che in Italia esista un’effettiva passione per l’opera e una presenza dell’opera in TV così forte che le persone non solo sono informate attraverso dei settimanali o riviste televisive di quello che avviene in Italia nell’opera, non solo assiste a e vede le opere per intero, ma vuole addirittura capire, entrare dietro, capire quali sono i meccanismi e i segreti del palcoscenico. Il che, come sappiamo tutti, non è vero. Percui questa trasmissione è una sorta di assurdo: è una bella trasmissione sull’opera per un popolo che non conosce l’opera e non la vede, è questo il problema. Scusate e grazie. ILIO CATANI Vorrei in parte rassicurare Acquafredda sulle eventuali «emozioni» dei colleghi stranieri: sono stati – come dicevano una volta alla radio – «i familiari sono stati avvertiti»; sono stati prontamente avvertiti, i colleghi stranieri, che la situazione in Italia non è molto florida. Abbiamo messo, come si suol dire, le mani avanti. L’esempio che è stato mostrato oggi – tra l’altro, nel leggere bene il programma dell’intero Seminario, non era prevista la visione di «Prima della prima», anche perché si è cercato di attenersi esattamente alla tematica «Modi di riproduzione in video dell’opera lirica». Ad Acquafredda dico che, prima che tu venissi, avevo detto un’altra problematica non è quella della riproduzione ma è della presentazione, cioè di come confezionare il programma video. Allora, il «Prima della prima» e «All’opera» rientrano forse in questa seconda categoria: come poter avvicinare nuove fette di pubblico. Certo, quando saranno finite le grandi opere di repertorio si inventerà un’altra formula in cui sarà possibile inserire anche il Don Pasquale senza che per questo cali l’interesse del pubblico. FAUSTO RAZZI Si inventerà un’altra formula per ripetere ancora Bohème, Aida, ecc. perché questo è il pane quotidiano dei melomani. 162 ILIO CATANI Come si diceva «non raccogliamo la provocazione!». (risate dal pubblico) Non ci sono solamente le formule tipo Aida, perché se per ipotesi – mi riferisco a come si fanno le compilation, oggi: nei dischi e nei CD, si riesce a inserirci anche un brano poco conosciuto (penso anche al nostro repertorio classico). «Il celebre pianista esegue» questo e quello, e poi mette dentro il pezzettino di Ilio Catani... Nulla esclude che in una trasmissione dedicata alla lirica che va in video, anziché prendere la formula de «il meglio dell’Aida» si possa andare per idee trasversali e poter mettere benissimo La carriera di un libertino o più avanti, fino a cose poco conosciute o recentissime. PAOLO MARAGONI Come disse George Bernard Shaw a quella signora londinese che, volendo essere chic, gli chiese se le dava delle lezioni per introdurla al mondo dell’opera, non essendo lui assolutamente interessato a perdere il suo tempo: «Signora, è molto semplice, glielo spiego adesso. Tutte le opere rispondono a un unico meccanismo: un soprano e un tenore che vogliono andare a letto e un baritono che non è molto d’accordo». (risate dal pubblico) È una boutade di George Bernard Shaw che allora era molto più famoso come critico musicale e teatrale che come autore e saggista. Forse siamo alla frutta. Facciamo una trasmissione che si chiama, in onore di Shaw, «Le mille varianti su questo schema». XOÁN M. CARREIRA Io sono un po’ perduto questa mattina perché tutto il tempo ritornano problemi che appartengono alla memoria dell’identità italiana: il problema dell’opera non come tradizione ma come storia culturale. Invece credo che oggi non sia questo il problema dell’opera in televisione, il problema è come fare creare uno spazio per l’opera in televisione come offerta culturale. Vedo che quest’offerta culturale è più potente oggi che dieci anni fa. La sezione più consultata del mio giornale in Internet è quella dedicata all’opera in Europa, e ogni giorno vengono pubblicati gli orari delle diverse proposte operistiche sui canali tematici europei. Il giornale per il quale lavoro è in spagnolo, ma si rivolge a tutto il pubblico, e c’è una fortissima domanda per questa sezione, tanto che è la sezione più consultata del giornale stesso. Credo che in questa sessione, a causa dell’assenza dei colleghi di area tedesca e anglofona, si siano fatti discorsi riferiti all’identità, molto importanti, ma il problema dell’identità deve rimanere separato dalla realtà sull’espansione della domanda e dell’offerta operistica in assoluto. Credo che sia in atto un’espansione reale e che la questione centrale del Seminario sia fondamentale perché la riflessione sul come comunicare è di una grande importanza, perché abbiamo una proposta culturalemtne importantissima e un mercato di enorme importanza economica. Bisogna però mantenere il discorso distinto dal problema identitario, paragonabile a quello che vi ho raccontato si sta discutendo nel convegno sull’opera spagnola a Madrid. La riflessione identitaria non ha alcuna ripercussione sulla reale evoluzione del mercato e dell’offerta. Dobbiamo tenere separate le due cose. 163 ILIO CATANI Sono d’accordo sulla distinzione, perbacco! Però, comunque, sono due argomenti e due mondi che si influenzano. Possiamo considerarli, ciascuno, come un problema a sé ma poi finiscono per essere interdipendenti. Si tratta di metterli d’accordo, di risolvere questa dicotomia. PAOLO MARAGONI A riprova di quello che dice Ilio Catani, c’è il fatto... chi potrebbe pensare, in Europa, di non vendere una partita di calcio in diretta, in televisione. Negli Stati Uniti, hanno gravissimi problemi ancora oggi a vendere il soccer perché non risponde né a un’identità né a una domanda. Però si potrebbe costruire un interesse, invece non sono riusciti neanche in questo. A quel punto diventa difficile piazzarlo in televisione, anche alle due di notte. ILIO CATANI La parola a Di Capua. GIANNI DI CAPUA Io mi volevo riferire alla trasmissione del signor Acquafredda, quindi slitto indietro. Sono una domanda, a proposito della formula. Ho visto un paio di puntate della trasmissione, e devo dire che per sobrietà e per eleganza, è una proposta televisiva esemplare. Volevo sapere una cosa circa il conduttore, Antonio Lubrano, che da Telemontecarlo è tornato in RAI; vorrei sapere se questo passaggio è stato preso in considerazione nel momento in cui è stato scelto Lubrano. E poi, quanto la trasmissione poggia sulla capacità divulgativa di Lubrano e se gli autori della trasmissione si siano posti il problema dell’identificazione dell’argomento «opera» con il volto familiare di Lubrano che era legato ad altri. Capisco la raffinatezza della scelta, però il pubblico a casa ha un tipo di percezione che alle volte lo confonde, non riesce a legare e a capire. Premetto che Antonio Lubrano l’ho visto molte volte e so che è un grande esperto di opera. L’ho anche incontrato spesso all’Arena di Verona, però questo lo so solo io. PIETRO ACQUAFREDDA Questa è una cosa tanto vera, che Lubrano mi ha raccontato, dopo quella trasmissione, che è stato invitato (non so se l’invitante qualifichi l’invitato) da Bruson a un concorso lirico. Si può essere degli appasionati, cosa che Lubrano è, ma sfruttare il suo volto... Mi ha detto che è andato a Torre del Lago a vedere un’opera orrenda, e che a un certo punto è stato applaudito, quasi fosse appena sceso dal palcoscenico. Questo è accaduto, ed è chiaro che si è sfruttato il volto e il pubblico di Lubrano, l’operazione paga! Ma Lubrano all’inizio non c’entrava per niente nel senso che questa trasmissione è stata pensata molto tempo prima, si è lavorato molto tempo prima. Si è fatta la scelta delle opere in funzione e del repertorio e anche dei diritti che la RAI aveva, perché praticamente questo primo ciclo in termini di diritti non è costato nulla. Una volta fatto tutto questo e una volta che io, occupandomi dei tre autori di musica, avevo fatto la scelta dei brani e preparato una sceneggiatura per poi calibrarla sui personaggi, è arrivato Lubrano che in quel momento lasciava la RAI. Si è pensato, vista la sua passione per l’opera, di farlo tornare e si è pensato di affidargli questa trasmissione, il che ha giovato alla trasmissione stessa. Ma, inizialmente, non si sapeva ancora né chi avrebbe dovuto 164 presentare, né se il presentatore sarebbe stato lui. Si era pensato ad altri nomi, si era pensato addirittura di affidare il racconto a volti e voci molto conosciuti in televisione e, tenendo presente che un personaggio poteva essere legato a una particolare opera, per esempio Monica Vitti per Tosca, personaggi di questo genere. Si era pensato a Benigni per Il barbiere di Siviglia, il che avrebbe introdotto nella trasmissione un varietà ma avrebbe reso la lavorazione molto più difficoltosa, perché bisognava trovare il momento in cui queste persone erano libere, ecc. Poi si è pensato che, tutto sommato, identificare la trasmissione con un solo volto, tra l’altro molto popolare anche se passato all’antipopolarità da che era passato a Telemontecarlo, poteva essere una formula abbastanza giusta. GIANNI DI CAPUA Non c’è il rischio di legare la trasmissione a un volto, e quindi una volta che questa esaurisce la sua proposta dal punto di vista del format, diventa difficile poi riproporre un nuovo formato? Un’altra domanda: quando avete pensato a questa trasmissione, cosa vi siete sentiti rispondere alla RAI? PIETRO ACQUAFREDDA La trasmissione è nata dalla stessa fonte da cui è scaturita «Prima della prima», uno dei dirigenti di Raiuno, credo il dottor De Luca e Paolo Gazzara: sono loro alla base di questa, con la formula del «conoscono le arie, raccontiamogli la storia». In fondo le opere sono le telenovelas dell’Ottocento, era questa la formula. Il problema non è tanto quello della troppa identificazione della trasmissione con Lubrano, il problema è quello di farne ancora altri cicli. Hanno assicurato di si, perché, ripeto, questi share non si erano mai avuti per trasmissioni di questo genere. Speriamo che li facciano, perché il problema più grave è questo. Il secondo ciclo è già stato programmato perché c’è stata una «rivolta» in favore della trasmissione, a partire dalla Melandri, tutti ne hanno tessuto le lodi. La promessa è che si farà il secondo ciclo negli stessi tempi di lavorazione del primo per essere messo in onda d’estate, ma ancora non è successo nulla. GIANNI DI CAPUA L’importante è che si continui a fare la trasmissione non perché c’è Lubrano, ma per i contenuti. ILIO CATANI Grazie. In conclusione volevo affrontare, su opportuna e giusta sollecitazione da parte di un collega, un aspetto fondamentale di cui non si è parlato ma che ritengo possa essere inserito a pieno titolo fra gli argomenti di questo Seminario. Abbiamo parlato di riproduzione in video dell’opera lirica, non per occuparci solamente dell’aspetto visivo e poi parliamo di opera lirica, la cui componente fondamentale è quella sonora, quindi non abbiamo volutamente affrontato il problemi degli aspetti audio propriamente detti, che meriterebbero delle considerazioni a parte. Però, il collega Claudio Gatti, che si occupa di riprese audio nella lirica voleva dire qualcosa. CLAUDIO GATTI Volevo riportare il discorso sul tema della riproduzione audio, anche in confronto ai problemi inerenti alle riproduzioni di cassette. Per me dovrebbero 165 esserci due modi per fare una ripresa video di un’opera lirica: una quella di documentazione di quello che fa il regista teatrale, da mettere via, da far vedere in cordi universitari del DAMS per tante ragioni, non come è stato fatto da Greenaway con una camera, anche con 4-5 camere ma sempre dal punto di vista dello spettatore. Questo, dal punto di vista audio, vuol dire riprendere l’opera come si sente in sala. Quando si va, invece, a fare altre operazioni che sono quelle del homevideo live, dovrebbero esserci dei modi per fare l’audio, perché anche parlando con i maestri, anche loro nell’ascolto non accettano più la soluzione di un microfono appeso ma vorrebbero sentire le singole sezioni orchestrali. Anche nelle riproduzioni dei film c’è il surround, alcuni film avuto successo anche grazie ai suoni: lo scoccare della freccia di Robin Hood deve essere un tonfo, si deve sentire la corda che si tende. E così, anche nella musica, il giovane non accetterebbe più il suono del violino, lo vorrebbe più pieno. L’altra sera ascoltavo il Zarathustra di Strauss a Santa Cecilia, in cui ci sono due arpe. L’arpa non si sente, nel pieno musicale; nel disco questo è improponibile, l’arpa si deve sentire. Quindi, quando si riproduce un’opera perché è scontato che il suono c’è. Chiedo a Gianni [Di Capua, N.d.R.] se si sia interessato alla ripresa audio dei suoi lavori ma non penso che l’abbia fatto, perché è dato per scontato che l’audio sia un fatto separato dalla televisione. Allora, quando poi vai a vedere l’opera in homevideo e non c’entra niente con l’audio, lo si percepisce subito! Nella prima giornata abbiamo visto vari esempi del Barbiere, e c’era quello in cui i due personaggi che cantavano sullo stesso piano, uno era avanti e l’altro dietro, con un microfono che si trovava in un’altra stanza. Ci deve essere un legame tra la parte visiva e il suono. Ce ne scordiamo, sembra che siano due entità separate. Questo è il mio piccolo apporto: le tecniche cambiano, la confezione dovrebbe essere completa. ILIO CATANI Grazie. Ci suggerisce un tema da poter approfondire in sede competente. La tecnologia di oggi ci dà la possibilità di adeguarci a queste esigenze. Un’informazione: oggi le riprese audio delle opere liriche – mi è accaduto diverse volte negli ultimi tre-quattro anni di attività – non vengono più fatte con registrazione su 1/4 di pollice, percui automaticamente quello che abbiamo sulla banda video viene utilizzato anche in sede di montaggio. La ripresa audio avviene con un sistema multipiste, percui va «remixato» il tutto e, alla fine, riaccoppiato sul montato del video, il che è un’operazione abbastanza complessa che porta a risultati a volte perfetti, ciascuno nel proprio ambito: il video è bellissimo, l’audio è magnifico però, come dice giustamente Claudio Gatti, non segue la direzione da cui proviene il suono. Sono problematiche, credo, che la regia video non si è posta in maniera molto seria. Gianni Di Capua voleva intervenire? GIANNI DI CAPUA Volevo aggiungere qualcosa ma l’hai già fatto tu. Per Guerra e pace io sapevo che avevamo un’uscita stereo perché usavamo il sonoro della diretta radiofonica Paolo è testimone di questa produzione, che non ho mai visto, da parte dei tecnici RAI, una mimetizzazione di tutto l’apparato dei microfoni assolutamente invisibile. Ci sono stati i signori della casa discografica inglese che arrivarono e misero i loro microfoni, disturbando la ripresa televisiva, e noi ci impuntammo e pretendemmo che venissero tolti quei microfoni. Infatti lo spettacolo iniziò con mezz’ora di ritardo, ci fu un grosso conflitto. 166 Per quanto riguarda la parte sonora, noi adesso con i concerti di Nono La Floresta – e voi sapete quanto Luigi Nono pone nella questione della spazializzazione – abbiamo registrato il suono in digitale a otto piste, anche per prefigurarne un utilizzo in DVD. Quindi, oggi è impensabile fare una ripresa sonora senza pensare alla sua destinazione futura: non bisogna più pensare in stereofonia, bisogna pensare in sei-otto canali. Con Maddalena Novati abbiamo lavorato una settimana – io ho fatto tre settimane di montaggio solo video – e con Maddalena della sede RAI di Milano abbiamo lavorato una settimana soltanto per la distribuzione, dell’organizzazione del suono in rapporto all’immagine. Siccome io faccio largo uso di dissolvenze, immaginate voi quanto più complesso diventa il procedimento degli incroci e dei volumi. Credo, a contributo anche di quello che si è detto a proposito del DVD, oggi è impensabile...cioè bisogna assolutamente predisporre la ripresa video per la ripresa stereofonica, otto canali, sei canali. Bisogna pensare alla musica in senso di spazio e la registrazione va predisposta in questo senso, non si può più pensare in stereofonia. ILIO CATANI Ultima considerazione a Paolo Maragoni. PAOLO MARAGONI Questo tutti possiamo dire che è ovvio. Rimane il fatto che poi bisogna trovare... o un genio trova la risoluzione perfetta, la quadratura del cerchio, o bisogna fermarsi a un certo punto. Non voglio dire che non bisogna avere maggior rispetto per i problemi dell’audio, voglio dire che in questo accoppiamente anche virtuale, progettuale, mi veniva in mente che lo stesso problema (anzi più gravemente) esiste nella ripresa del concerto. Se in teatro, bene o male, c’è il ricordo di una ripresa frontale, di una parete di fondo, nel concerto da molti anni abbiamo imparato a fare tagli a 45°, controcampo puro e semplice per il direttore d’orchestra, o larghissimo in controcampo col direttore in mezzo a tutta l’orchestra e il fondo sotto tono, col pubblico che si vede o non si vede. In quel caso io mi sono sempre chiesto: se noi sentiamo chiaramente, all’inizio del concerto su un totale, l’impostazione stereo coi violini ben chiari a sinistra e i contrabbassi ben chiari a destra, per dire la cosa più semplice, un tecnico che apra molto in una grande sala con un gran suono d’orchestra l’apertura è notevole. Al primo controcampo noi continueremo a sentire i contrabbassi a destra e i violini a sinistra, quando li vedremo chiarissimamente, se il controcampo è largo, nella posizione opposta. Ora, in diretta il tecnico non può fare una cosa del genere. Sempre a proposito di Tosca mi ricordo che erano radiomicrofoni, quindi chiaramente che fosse campo lunghissimo (tutta la navata di Sant’Andrea) o che fosse primissimo piano del Sagrestano, non c’erano campi come si dice al cinema. In diretta era più che ovvio, però siamo andati apposta per diciotto giorni in post-produzione audio per lo homevideo in modo da rendere possibile il rimissaggio dei campi. Non è un fatto automatico, quindi vale la pena di parlarne; è giusto tenerne conto ma non è così semplicistico. Ci sono notevoli problemi pratici. ILIO CATANI Alla fine di ogni Seminario arriviamo sempre alla stessa conclusione, che gli scenari sono aperti, anzi abbiamo inizato aprendo un sipario e finiamo aprendone tanti altri e, magari, non avendo chiuso quello per i quale ci erava167 mo riuniti. Mi dispiace, lo ripeto ancora una volta, che non ci sia Carlo Marinelli per fare delle conclusione sulla sostanza. Io mi sono limitato a fare un po’ il «bidello» durante la ricreazione, suonando la campanella per invitarvi a ritornare in sala: non me ne vogliate. Credo che sia arrivata l’ora di salutarci, ringraziare tutti coloro che sono intervenuti e chge hanno partecipato attivamente e forse il solo fatto di partecipare è stata una prova di considerazione e di interesse nei riguardi del tema. Speriamo di ritrovarci tutti ancora una volta in occasione di altre tematiche da affrontare su questo scenario che cerchiamo di tenere aperto il più possibile. Grazie a tutti. (applausi) 168 ELENCO ALFABETICO DEI NOMI DI PERSONA CITATI Abbado, Claudio, pp. 6, 29, 153, 155, 156. Acquafredda, Pietro, pp. 161, 162, 164, 165. Adorno, Theodor Wiesengrund, p. 121. Agnelli, Giovanni (Gianni), p. 77. Alagna, Roberto, pp. 69, 70. Amato, Giuliano, p. 111. Angela, Piero, p. 79. Aravantinós, Panos, pp. 88, 89. Arias, Alfredo, p. 31. Arne, Thomas Augustine, pp. 41, 49. Arruga, Lorenzo, p. 112. Auber, Daniel-François-Esprit, pp. 46, 54. Aulenti, Gae, p. 6. Bagnasco, Arnaldo, p. 113. Balestra, Renato, p. 114. Bardem, Juan Antonio, p. 36. Baricco, Alessandro, pp. 76, 79, 82, 83, 140, 141, 146. Bartók, Béla, p. 137. Bartoli, Cecilia, pp. 96, 98, 103, 106. Baseggio, Cesco, p. 30. Baudo, Giuseppe (Pippo), p. 139. Bedford, Stewart, pp. 42, 50. Bellingardi, Luigi, pp. 82, 83. Bellini, Vincenzo, pp. 34, 73, 74, 121. Benigni, Roberto, p. 165. Benz, Gerhard, p. 88. Berg, Alban, p. 71. Bergman, Ingmar, p. 122. Berio, Luciano, pp. 135, 149, 150, 161. Bizet, Georges, pp. 44, 52, 53, 68. Blegen, Judith, pp. 98, 106. Blow, John, pp. 41, 49. Bocelli, Andrea, pp. 115, 148. Boddeke, Saskia, p. 88. Borodina, Olga, pp. 96, 103. Borrelli, Francesco Saverio, p. 115. Bosch, Hieronymus, p. 92. Boulez, Pierre, p. 73. Brabin, Charles, p. 54. Brahms, Johannes, p. 136. Brandes, Werner, p. 89. Brecht, Bertolt, pp. 110, 111, 121. Breugel, Pieter, p. 92. Britten, Benjamin, pp. 4, 42, 50, 71, 137, 152. Bronzetti, Maria Rosaria, pp. 81, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159. Bruson, Renato, p. 164. Caballé, Montserrat, p. 72. Caccini, Giulio, p. 110. Cagli, Bruno, pp. 112, 136. Callas, Maria (vide Kalogeropoulos, Maria). Carlo X, re di Francia, p. 7. Carreira, Xoán M., pp. 28, 34, 35, 37, 136, 137, 145, 151, 152, 163. Carreras, José, pp. 15, 21. Castaldo, Gino, p. 150. Castiglione, Enrico, p. 114. Catani, Ilio, pp. 4, 8, 13, 19, 25, 27, 28, 34, 37, 67, 74, 75, 76, 78, 79, 80, 83, 84, 87, 93, 109, 112, 114, 115, 116, 119, 120, 122, 123, 129, 132, 133, 135, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 145, 146, 147, 148, 149, 151, 152, 153, 154, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167. Ceciarelli, Maria Luisa, p. 165. Celli, Pier Luigi, p. 111. Chapí, Ruperto, p. 137. Chaplin, Charles Spencer, pp. 45, 54. Chéreau, Patrice, pp. 58, 62, 63, 67, 70, 71, 72. Cherubini, Lorenzo, p. 110. Chopin, Fryderyk, p. 82. Claudel, Paul, pp. 88, 89, 91, 92, 93. Coates, Albert, pp. 41, 48. Colombo, Cristoforo, pp. 35, 89. Concetti, Andrea, p. 156. Confalonieri, Giulio, p. 31. Conte, Paolo, p. 135. Costa, Mario, p. 30. Croft, Dwayne, pp. 96, 103. Czinner, Paul, pp. 47, 48, 56. Dandini, Serena, p. 113. Dante Alighieri, pp. 16, 22, 123. Da Ponte, Lorenzo, pp. 61, 66. Dara, Enzo, p. 6. Davico Bonino, Guido, p. 114. David, Franz Peter, p. 88. De Bosio, Gianfranco, p. 73. Debussy, Claude, p. 71. de Goya y Lucientes, José Francisco, p. 92. Del Colle, Tonino, pp. 81, 83, 84. Del Monaco, Mario, p. 5. De Luca, Giuseppe, pp. 45, 53, 165. De Mille, Cecil Blount, pp. 44, 51, 52. De Orduña, Juan, pp. 35, 36, 37. De Pablo, Luís, p. 137. De Simone, Roberto, p. 162. De Taranto, Vito, p. 30. Díaz, Consuelo, p. 152. Dibdin, Charles, pp. 41, 49. Di Caprio, Leonardo, pp. 34, 74. Di Capua, Gianni, pp. 7, 8, 10, 27, 28, 30, 70, 74, 75, 76, 82, 83, 84, 123, 139, 171 140, 154, 155, 156, 157, 159, 164, 165, 166. Dickens, Charles John Huffam, pp. 41, 48. Döhring, Sieghart, pp. 87, 88, 93. Domingo, Plácido, pp. 48, 69, 73, 95, 103. Donizetti, Gaetano, pp. 5, 68, 73. Duse, Eleonora, p. 72. Eco, Umberto, p. 115. Edison, Thomas Alva, pp. 43, 50, 51. Enriquez, Franco, pp. 4, 5. Erben, Susan, pp. 14, 20, 87, 93, 94, 109, 123, 130, 132. Eriquel, Frank, p. 30. Evangelisti, Franco, pp. 149, 150, 160. Farrar, Geraldine, pp. 44, 45, 52, 53, 68. Fawkes, Richard, pp. 41, 77. Fellini, Federico, p. 79. Felsenstein, Walter, p. 83. Ferdinando re d’Aragona, p. 35. Ferrara, Franco, p. 30. Ferro, Gabriele, p. 30. Filippo II, re di Spagna, p. 36. Fleming, Renée, pp. 96, 103. Floyd, Carlisle, pp. 70, 71. Fo, Dario, pp. 32-33. Fornaciari, Adelmo, pp. 113, 114, 115, 136. Fornaciari, Zucchero (vide Fornaciari, Adelmo). Franci, Francesca, p. 30. Francioli, Armando, p. 30. Freni, Mirella, pp. 15, 20, 96, 103. Friedman, ?, pp. 17, 23. Friedrich, Götz, pp. 125, 126, 127, 140. Gallo, Fortunio, pp. 46, 54. Gallone, Carmine, pp. 46, 48, 54, 56. Gance, Abel, p. 71. Garfunkel, Art, p. 160. Gasdia, Cecilia, pp. 6, 7. Gatti, Claudio, pp. 165, 166. Gay, John, pp. 41, 49. Gazzara, Paolo, p. 165. Gemma, Irene, p. 30. Gentle, Alice, pp. 46, 54. Gergiev, Valerij, p. 96. Gesualdo Carlo, principe di Venosa, p. 79. Gesualdo da Venosa (vide Gesualdo Carlo, principe di Venosa). Gheorghiu, Angela, pp. 69, 70. Gigli, Beniamino, pp. 45, 53. Giordano, Umberto, p. 71. Giuliani, Massimo, p. 114. Giulini, Carlo Maria, p. 4. Gobbi, Tito, pp. 30, 46, 55, 68, 69, 72, 77. Goethe, Johann Wolfgang, pp. 16, 22. Goldwyn, Sam, pp. 44, 45, 51, 52, 53. Gorčakova, Galina, pp. 96, 103. Gounod, Charles, pp. 41, 49. Goya, Francisco (vide de Goya y Lucientes, José Francisco). Grasso, Aldo, p. 157. Greenaway, Peter, pp. 88, 91, 92, 93, 166. Halffter, Cristóbal, p. 137. Hammerstein, Oscar, pp. 45, 53. Händel, Georg Friedrich, pp. 59, 64. Harnoncourt, Nikolaus, p. 74. Heister, Hanns-Werner, pp. 74, 75, 82, 119, 120, 123, 139, 141, 154. Hersey, David, p. 9. Honegger, Arthur, p. 89. Hört, Franz Ludwig, pp. 88, 89, 91. Humperdinck, Engelbert, pp. 42, 50. Hurko, Roman, p. 8. Hvorostovskij, Dmitrij, pp. 96, 103. Ingalls, James F., p. 60, 65. Isabella, regina di Castiglia, p. 35. Jacobs, René, p. 25. Janáček, Leoš, p. 71. Jordan, Philippe, p. 88. Jovanotti (vide Cherubini, Lorenzo). Jung, Jean-François, pp. 75, 123, 124, 129, 140, 145, 148, 158, 159. Kabaiwanska, Raina, p. 73. Kalogeropoulos, Maria, pp. 14, 20, 69, 72, 73, 154. Kleiber, Carlos, p. 147. Kleiber, Erich, p. 88. Korda, Alexander, pp. 46, 54. Krause, Tom, p. 154. Landi, Gino, p. 5. Landini, Giancarlo, pp. 13, 28, 29, 34, 81, 93. Lanfranchi, Mario, p. 5. Lang, Fritz, p. 88. Large, Brian, pp. 58, 59, 62, 63, 64, 67. Lasky, Jessy, pp. 44, 45, 51, 52, 53. Lehár, Franz, p. 4. Leonardo da Vinci, p. 126. Leoncavallo, Ruggero, p. 121. Levine, James, pp. 96, 104. 172 Liebermann, Rolf, pp. 47, 55. List, Emanuel, p. 88. Lollobrigida, Gina, p. 68. Loren, Sophia (vide Scicolone, Sofia). Losey, Joseph, pp. 47, 55, 69, 73, 79. Lubrano, Antonio, pp. 160, 161, 164, 165. Lumière, Auguste Marie Louis Nicholas, pp. 43, 50. Lumière, Louis Jean, pp. 43, 50. McCormack, John, pp. 46, 54. MacNeil, Cornell, p. 32. Maderna, Bruno, pp. 4, 5. Magriñá, Juan, p. 37. Magritte, René, p. 120. Mahler, Gustav, p. 152. Maragoni, Paolo, pp. 76, 78, 83, 133, 147, 148, 149, 153, 161, 163, 164, 167. Marcello, Benedetto, pp. 26, 115. Marco, Tómas, p. 137. Marinelli, Carlo, pp. 3, 7, 10, 13, 82, 87, 115, 138, 145, 168. Mariotti, Alfredo, p. 30. Marsalis, Branford, pp. 130, 131. Marshall, Everett, pp. 46, 54. Martinelli, Giovanni, pp. 45, 53. Martínez Sierra, Gregorio, p. 37. Martin y Soler, Vicente, p. 25. Marzotto, Marta, pp. 114, 115. Mastrocinque, Camillo, p. 30. Matisse, Henri, p. 80. Matteuzzi, William, pp. 6, 30, 31. Maurel, Victor, pp. 43, 50. Melandri, Giovanna, p. 165. Menotti, Giancarlo, pp. 8, 70, 71. Miceli, Sergio, pp. 78, 83, 109, 110, 116, 121, 123, 130, 131, 137, 138, 140, 141, 145, 146, 147, 159, 160. Mila, Massimo, p. 146. Milhaud, Darius, pp. 87, 88, 89, 91, 92, 93, 122, 134. Milnes, Sherrill, p. 73. Minnelli, Vincent, p. 37. Moffo, Anna, p. 5. Moll, Kurt, pp. 98, 106. Monteverdi, Claudio, pp. 25, 79. Monti, Nicola, p. 30. Montiel, Sara, p. 35. Moore, Grace, pp. 46, 54, 71. Moritz, Rainer, pp. 16, 17, 19, 22, 23, 24. Mozart, Wolfgang Amadè, pp. 15, 21, 42, 50, 59, 60, 61, 64, 65, 66, 74, 84, 132. Muti, Riccardo, p. 162. Napoleone I Bonaparte, p. 83. Nesler, Francesca, pp. 76, 78, 80, 161. Newman, Paul, pp. 130, 131, 132. Nono, Luigi, pp. 7, 26, 139, 167. Norberg-Schultz, Elisabeth, p. 162. Novarro, Ramón, pp. 46, 54. Novati, Maddalena, p. 167. Novotna, Jarmila, pp. 46, 54. Nucci, Leo, pp. 30, 31. Nunn, Trevor, pp. 47, 56. Olivero, Magda, p. 73. Ophüls, Max, pp. 46, 54. Orff, Carl, p. 152. Ozawa, Seiji, p. 71. Pagliughi, Lina, p. 68. Palladio, Andrea, p. 73. Paperi, Valerio, pp. 154, 158. Patay, Franz, pp. 13, 14, 26, 27, 28, 44, 52, 76, 78, 80, 123, 130, 138, 147. Patiera, Tino, p. 46. Pauli, Hansjörg, p. 160. Pavarotti, Luciano, pp. 6, 71, 94, 98, 101, 106, 114, 136. Pergolesi, Giovanni Battista, pp. 25, 41, 49. Peroff, Paul, p. 89. Perras, Margherita, p. 88. Perry, Eugene, pp. 61, 66. Petit, Roland, p. 37. Piscator, Erwin, pp. 88, 161. Pizzi, Pierluigi, p. 70. Ponnelle, Jean-Pierre, pp. 29, 32, 70, 74. Pons, Lily, pp. 46, 54. Ponsell, Rosa, pp. 44, 51. Pontecorvo, Gillo, p. 8. Popper, Karl, p. 77. Prévin, André, p. 137. Prokof’ev, Sergej, pp. 7, 8, 70, 82, 127. Puccini, Giacomo, pp. 68, 113, 115. Putilin, Nikolai, pp. 96, 103. Quander, Georg, p. 88. Raimondi, Ruggero, pp. 6, 69, 71, 153, 156, 158, 159. Razzi, Fausto, pp. 133, 135, 136, 139, 149, 151, 159, 160, 161, 162. Reinhardt, Delia, p. 88. Reinhardt, Max, pp. 88, 89. Rey, Florián, p. 35. Ricciarelli, Katia, pp. 6, 7. Richter, Tobias, p. 135. 173 Roberts, Julia, p. 136. Ronconi, Luca, pp. 6, 25. Rosi, Francesco, pp. 69, 73. Rossini, Gioachino, pp. 6, 29, 32, 33, 68, 73, 74, 93, 112, 146. Ruffo, Melba, p. 114. Russell, Ken, p. 6. Russo, Salvatore, p. 30. Saint-Saëns, Camille, pp. 46, 54. Schiller, Friedrich, pp. 16, 22. Schubert, Franz Peter, pp. 136, 137. Schwarzkopf, Elizabeth, pp. 42, 50. Scicolone, Sofia, pp. 69, 132, 133. Segalini, Sergio, pp. 67, 68, 74, 75, 76, 77, 140, 148. Sellars, Peter, pp. 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 72, 73, 74, 115, 121. Serantoni, Antonella, p. 161. Shakespeare, William, pp. 58, 63. Shaw, George Bernard, p. 163. Simionato, Giulietta, p. 30. Simon, Paul, p. 160. Sirk, Chiara, pp. 79, 81. Smetana, Bedřich, pp. 46, 54. Smith, Patrick J., pp. 57, 67, 74, 76, 137, 145. Soot, Fritz, p. 88. Šostakovič, Dmitrij, pp. 136, 137. Stegemann, Michael, p. 88. Stratas, Teresa, p. 69. Strauss, Richard, pp. 48, 52, 56, 89, 140, 166. Stravinskij, Igor Fëdorovič, pp. 88, 111, 161. Strehler, Giorgio, pp. 6, 69. Talbot, Richard, pp. 44, 51. Taliento, Anna Rita, pp. 114, 115. Talley, Marianne, pp. 45, 53. Tarquinio, Gianluca, pp. 130, 136. Tebaldi, Renata, pp. 69, 72, 73. Te Kanawa, Kiri, pp. 71, 98, 106. Terfel, Bryn, pp. 96, 98, 103, 106. Tibbet, Lawrence, pp. 46, 54. Toscanini, Arturo, p. 148. Traverso, Armando, p. 114. Ughi, Uto, pp. 114, 155. Valentini Terrani, Lucia, p. 6. Valeri, Franca, pp. 114, 115. Vattimo, Gianni, pp. 114, 115. Velasquez, Diego Rodriguez de Silva, p. 92. Verdi, Giuseppe, pp. 5, 68, 73, 121, 146. Verdone, Carlo, pp. 29, 33. Vialli, Gianluca, pp. 113, 115. Villari, Rosario, p. 150. Villa Rojo, Jesús, p. 151. Virgilio Marone, Publio, p. 123. Visconti, Luchino, pp. 69, 71, 72. Vitti, Monica (vide Ceciarelli, Maria Luisa). Vives, Amadeo, p. 36. von Hofmannsthal, Hugo, pp. 44, 52. von Karajan, Heribert (Herbert), pp. 15, 20, 47, 55, 68, 72, 77. Wada, Emi, p. 88. Wagner, Richard, pp. 58, 63, 71, 140, 146, 148. Wagner, Wieland, pp. 72, 73, 74. Warner, Jack, pp. 45, 53. Weigl, Peter, pp. 48, 56. Weill, Kurt, p. 161. Woodward, Joanne, pp. 130, 131. Zedda, Alberto, p. 32. 174 ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE responsabile: CARLO MARINELLI Finito di stampare nel mese di maggio 2005