ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.)
con il patrocinio del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo e lo Sport
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali
QUADERNI
DELL’I.R.TE.M.
26
SERIE 3: ATTI
N. 12: MODI DI RIPRODUZIONE IN TELEVISIONE
DELL’OPERA LIRICA:
PROBLEMI TEATRALI, PROBLEMI MUSICALI
ROMA, 29 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 1999
ROMA
2003
ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.)
con il patrocinio del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per lo Spettacolo dal vivo e lo Sport
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali
QUADERNI
DELL’I.R.TE.M.
26
SERIE 3: ATTI
N. 12: MODI DI RIPRODUZIONE IN TELEVISIONE
DELL’OPERA LIRICA:
PROBLEMI TEATRALI, PROBLEMI MUSICALI
partecipano
CARREIRA - DI CAPUA - DÖHRING - ERBEN
FAWKES - HEISTER - JUNG - LANDINI - MICELI
PATAY - SEGALINI - SMITH
ROMA 2003
© Copyright 2003 by I.R.TE.M.
Grafica Cristal s.r.l.
Via Raffaele Paolucci, 12/14 - 00152 Roma
CARREIRA - DI CAPUA - DÖHRING - ERBEN
FAWKES - HEISTER - JUNG - LANDINI - MICELI
PATAY - SEGALINI - SMITH
MODI DI RIPRODUZIONE
IN TELEVISIONE DELL’OPERA
LIRICA: PROBLEMI TEATRALI,
PROBLEMI MUSICALI
ROMA, 29 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 1999
redazione a cura di
LAURA NICOLETTA COLABIANCHI
VERA ALCALAY
p.
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Indice
ILIO CATANI
Alcune realizzazioni televisive significative della RAI
nell’opera lirica: quarant’anni di esperienze
GIANNI DI CAPUA
Regia televisiva di Guerra e pace di Prokof’ev
(Spoleto 1999)
FRANZ PATAY
Relations between Opera Houses, TV Channels, Distribution, Producers and Record Companies
(I rapporti fra enti lirici, reti televisive, distribuzione, produttori e case fonografiche)
GIANCARLO LANDINI
Il barbiere di Siviglia di Rossini in video
XOÁN M. CARREIRA
La produzione televisiva di zarzuela nel periodo tardo
franchista
RICHARD FAWKES
The Influence of Film Opera on the Recording of Live
Opera on Television
(Come l’opera in film ha influenzato la riproduzione dal
vivo dell’opera in televisione)
PATRICK J. SMITH
The Problem of Double Approach to Directing Opera
on Television
(Il problema del duplice approccio alla regia d’opera in televisione)
V
68
88
94
110
120
124
169
SERGIO SEGALINI
Opera e video. Il rêve impossibile
SIEGHART DÖHRING
Regia visiva di Christoph Colomb di Milhaud
(Greenaway, Berlin 1998)
SUSAN ERBEN
Problems and Opportunities of Getting Opera Shown
in the Various Television, Home Video, Internet Markets,
and Future Implications of New Technology
(Problemi e possibilità di far trasmettere l’opera lirica sui
mercati della televisione, dello home video e di Internet, e
implicazioni future delle nuove tecnologie)
SERGIO MICELI
Dissociazioni – Contaminazioni – Espedienti – Mistificazioni
HANNS-WERNER HEISTER
Dall’Opus perfectum et absolutum al Work in Progress dell’opera in televisione
JEAN-FRANÇOIS JUNG
La Scène d’Illusion teatrale e l’Espace d’Illusion dello
schermo
ELENCO ALFABETICO DEI NOMI DI PERSONA CITATI
VI
lunedì 29 novembre 1999
ore 15
Circolo RAI
viale di Tor di Quinto 64
Sala conferenze
presiede
Carlo Marinelli
Non è stato possibile trascrivere l’intervento introduttivo di Carlo Marinelli
per gravi difetti della registrazione. N.d.R.
3
ILIO CATANI
Alcune realizzazioni televisive significative della RAI nell’opera lirica: quarant’anni di esperienze
(esempio audiovisivo)
Mi dispiace sospendere questa interessante visione. Pregherei di riaccendere le luci. Consentitemi una sola brevissima osservazione: credo che sia uno dei
più lunghi piani sequenza della storia della televisione, che tuttavia non crea alcun fastidio perché la narrazione è talmente ben condotta che sembra che la camera segua naturalmente l’oggetto dell’attenzione. Ho visto qualcosa di analogo tanti anni fa, in una produzione della Beta Film di Monaco, il Giro di vite di
Britten, credo credo fosse stato registrato al Covent Garden di Londra. Si trattava di un intero duetto di dieci minuti inquadrato da una camera fissa, mentre in
questo caso c’è almeno movimento. Bisogna però dire che questi sono i vantaggi che la regia unica comporta: Franco Enriquez è infatti autore sia della
«messa in studio» – non possiamo parlare di messa in scena – sia della versione
televisiva e pertanto ha potuto distribuire lo spazio in modo tale da inserire
nell’inquadratura Rosina, il sedicente Maestro di musica e Don Bartolo, tutti
organizzati in modo chiaro e definito e con gli spazi giusti. È invece probabile
che in una ripresa teatrale tutto questo non sia possibile.
Una curiosità riferita a questa registrazione: l’Orchestra della RAI di Milano era diretta da un Carlo Maria Giulini non ancora quarantenne. Nel 1954,
anno di registrazione di quest’opera, non era ancora molto conosciuto come direttore. Altra curiosità. Tra le prime edizioni televisive di quegli anni c’è una
Vedova allegra, realizzata a mo’ di musical a Milano con l’orchestra diretta da
Bruno Maderna e non molto rispettosa della partitura di Lehár. Queste curiosità
ci dicono qualcosa di molto interessante anche da un punto di vista umano e
professionale: come questi grandi maestri – è proprio il caso di definirli tali –
abbiano fatto quella che in Italia viene definita «gavetta», come abbiano fatto il
normale apprendistato anche in ambiti lontani da quelli più corrispondenti ai
loro reali interessi. Evidentemente, per raggiungere certi traguardi è necessario
percorrere anche sentieri poco praticabili...
Il barbiere di Siviglia che abbiamo visto fu diretto da Franco Enriquez, regista teatrale che ha avuto una brillantissima carriera e che ha diretto in quel
periodo tante altre opere liriche. Questa produzione è realizzata in studio e, pertanto, è particolarmente laboriosa: la lavorazione è durata circa cinque settimane perché richiedeva innazitutto la registrazione della colonna sonora, quindi la
lettura al pianoforte, le prove con l’orchestra, la registrazione, la messa a punto
e solo dopo tutto ciò si andava in studio. A questo punto erano già stati acquisiti anche altri settori della produzione, le scenografie e i costumi erano a posto
e, infatti, sono visibilmente molto curati. Il fatto di dover realizzare una certa
gamma cromatica attraverso il solo bianco e nero ci fa capire quanta bravura e
quanta maestria ci fosse anche nei maestri che disegnavano e realizzavano i costumi, attraverso l’impiego di stoffe che fossero in grado di dare il senso della
lucentezza ma anche della consistenza del costume. Questa, come tante altre, è
una produzione interamente realizzata dalla RAI e nel vederla con attenzione ci
rendiamo conto della complessità del lavoro svolto ma anche della straordinaria capacità dei tecnici dei vari settori, ad esempio la scenografia e la sartoria. I
cantanti eseguono in playback, con risultati non sempre felici perché i cantanti
lirici erano allora poco avvezzi a questa tecnica; oggi lo sono sicuramente di
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più. In ogni caso, un risultato come questo, ottenuto quarantacinque anni fa, mi
sembra veramente apprezzabile. In quegli anni la tecnologia televisiva era agli
inizi, il che condizionava pesantemente le modalità di ripresa: la telecamera era
nata da pochi anni e non aveva ancora acquisito un’autonomia di linguaggio
sua propria; veniva vista come una cinepresa accessoriata – ricorderete la torretta con i tre obiettivi – e usata come una cinepresa. Questo risulta chiaramente dal frammento del Barbiere che abbiamo visto: carrelli, piani sequenza
e controcampi fanno parte di una sintassi che è ancora alla ricerca di una propria emancipazione. Malgrado ciò, come abbiamo potuto vedere, il risultato è
notevole.
In quei primi anni la RAI produce una serie di opere, molte delle quali purtroppo andate perdute, attingendo ovviamente al repertorio italiano. Tra le produzioni più interessanti vorrei mostrarvi ora l’inizio dell’Otello di Verdi con la
regia, anche in questo caso, di Franco Enriquez e con la partecipazione di uno
dei più grandi interpreti di Otello della storia della lirica, Mario Del Monaco.
Si tratta di una produzione del 1958. Personalmente trovo straordinaria la soluzione adottata dal regista per la breve introduzione strumentale e il passaggio
all’«Esultate». Vediamolo.
(esempio audiovisivo)
Dalla visione si è potuto anche apprezzare il significato di quell’annotazione che ho fatto in precedenza: la soluzione della breve introduzione strumentale con il coro, le dissolvenze e tutto il resto. Accennavo anche all’arretratezza
della tecnologia dei primi anni Cinquanta e ai problemi che essa poneva. Tra
questi, quelli più gravosi riguardavano la registrazione dei programmi e l’ingombro stesso delle apparecchiature. Prima dell’introduzione della registrazione videomagnetica si usava registrare in pellicola. In pratica si filmava il video
e, infatti, questi esempi sono dei «vidigrafi», come allora si chiamavano. La
macchina da presa stessa veniva posta davanti al monitor e registrava quello
che avveniva, e così è stato per buona parte dei primi anni Cinquanta. L’altro
inconveniente, quello dell’ingombro dei mezzi di ripresa, per ovvie ragioni è
stato il primo ostacolo alla ripresa in teatro. C’è infatti uno sfasamento temporale tra l’inizio delle produzioni in studio e quelle in teatro poiché è dovuto trascorrere del tempo per l’adeguamento tecnico.
Di questo periodo esistono realizzazioni interessantissime che mi piacerebbe farvi vedere ma che porterebbero via troppo tempo, quindi mi limiterò a citarne qualcuna, come per esempio La vedova allegra diretta da Maderna per la
regia di Gino Landi, il quale adattò anche il libretto alle esigenze tipiche dello
spettacolo. Qualche anno dopo appare una Lucia di Lammermoor di Donizetti
messa in scena da Mario Lanfranchi, con una straordinaria partecipazione emotiva di Anna Moffo nel ruolo della protagonista, particolarmente nella scena
della pazzia. Se domani avremo ve ne sarà il tempo, durante gli intervalli chi lo
voglia potrà prendere visione di questo materiale. Abbiamo inoltre diverse realizzazioni di Traviata, di Tosca, insomma dei titoli più amati dal pubblico.
D’altra parte, è con il pubblico che una televisione deve fare i conti, sia pure in
regime di monopolio come era la nostra di tanti anni fa.
Con la nascita delle squadre esterne di ripresa decisamente «si cambia musica», perché la possibilità di fare riprese in teatro porta a una diminuzione proporzionale delle produzioni in studio. Allo stesso tempo la televisione stessa è
in crescita, i canali sono saliti a due, il colore è stato introdotto, le trasmissioni
coprono larga parte del giorno e sono state acquisite fette di pubblico sempre
più diversificate. Il pluralismo culturale finisce per collocare la musica in posizioni sempre più marginali: la musica in prima serata diventa sempre più rara e,
con il tempo, finisce per scomparire del tutto. Le statistiche RAI riportano che
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la musica classica assorbe una percentuale tutt’altro che trascurabile dell’intera
programmazione ma tuttavia tralasciano il fatto che tale musica la si trova prima delle ore nove del mattino oppure dopo le undici della sera.
La acquisita capacità tecnico-organizzativa di effettuare riprese di avvenimenti esterni, nel nostro caso nei teatri, schiude nuovi orizzonti alla musica e
apre nello stesso tempo una serie di problematiche. Il contatto con la realtà e
l’attualità della vita musicale, che per molti è una vera scoperta, l’ampliamento
del repertorio, che si arricchisce di nuovi titoli, e le novità degli allestimenti,
spesso decisamente anti-tradizionali e trasgressivi, sono i dati di fatto più significativi. A ciò si aggiunge l’instaurarsi di un rapporto di forza tra i vari teatri e
la RAI per ottenere, da una parte, l’interesse verso le proprie produzioni e,
quindi, una presenza che si traduca in promozione ma anche in denaro e,
dall’altra parte, le migliori condizioni operative, indispensabili a una buona ripresa ma anche ampi diritti di sfruttamento del prodotto. Per quanto riguarda
quest’ultimo punto, assisteremo nel tempo a una graduale riduzione della disponibilità degli enti lirici a concedere diritti che non siano i soliti tre passaggi
televisivi in un arco di tempo piuttosto limitato. Questo spiega il divario tra il
numero di produzioni realizzate dalla RAI, le centinaia alle quali accennavo
all’inizio, e quelle oggi effettivamente disponibili in archivio per la messa in
onda. Ciò nonostante, la collaborazione con gli enti lirici e i teatri di tradizione,
che continua da oltre quarant’anni, ha consentito realizzazioni memorabili: la
Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, la Fenice di Venezia, l’Arena di Verona, i teatri di Firenze e di Bari sono entrati nelle case degli italiani – perdonate
la retorica – insieme ai nomi più importanti della lirica, da Abbado a Strehler,
da Ruggero Raimondi a Pavarotti, da Luca Ronconi a Ken Russell. Vorrei sottolineare una particolare attenzione rivolta dalla RAI a spettacoli fuori dall’ordinario, che si caratterizzano per la rarità dell’offerta musicale, l’allestimento
innovativo o cast di eccezionale rilievo artistico. Tutte queste componenti le ritroviamo in un’opera di Rossini allestita nell’agosto del 1984 a Pesaro, Il viaggio a Reims. Si tratta della prima assoluta di una partitura rossiniana nata come
cantata scenica e che, invece, viene messa in scena come una vera opera lirica
per la regia di Luca Ronconi. Questi è riuscito a rendere teatrale un’opera che
non è nata per il teatro, in una collocazione che non è un teatro vero e proprio
ma il palcoscenico della sala dei concerti del Conservatorio Pedrotti di Pesaro.
Il cast è a dir poco formidabile, con molti solisti di canto: tre soprani, tre mezzosoprani, quattro tenori e quattro bassi, cui si aggiungono i ruoli da comprimario; vi figurano i più bei nomi di quello che il mondo della lirica poteva offrire nel 1984, con una folta rappresentanza di artisti italiani, come la
Ricciarelli, la Gasdia, la Valentini Terrani, Ruggero Raimondi, un giovane
Matteuzzi, Dara, Claudio Abbado, Gae Aulenti e Luca Ronconi. Questa produzione ha creato notevoli difficoltà a chi ha dovuto riprenderla per la televisione.
Ha infatti comportato molti problemi da risolvere, legati principalmente alla
spazio esiguo della sala del Conservatorio, che non è un teatro e non è quindi
dotata di «livelli» diversi, quali la platea, gli ordini dei palchi, la struttura circolare. La sala era affollatissima perché l’allestimento aveva richiamato i melomani da ogni parte del mondo; e non poteva che essere così, visto che si trattava di una novità assoluta, con un livello di esecuzione eccezionale e una messa
in scena particolarissima: le regie di Luca Ronconi, come sa bene chi lo conosce, non sono mai «normali» e quel Viaggio a Reims non faceva eccezione, era
uno spettacolo nello spettacolo. Dello spettacolo facevano parte le torrette con
le telecamere e il carrello col binario che attraversava il palcoscenico da una
parte all’altra: tutto doveva essere visto, secondo una commistione dei due elementi, la maniera «classica» di rappresentare la partitura con gli abiti dell’Ottocento e la contaminazione col moderno della ripresa, delle telecamere, del mi6
crofonista con la cuffia che si avvicina alla Ricciarelli durante i suoi interventi.
Naturalmente tutto questo comportava grandi difficoltà. Vorrei mostrarvi un
breve frammento di questo Viaggio a Reims del 1984, la conclusione dell’opera, dove c’è una lunga romanza della Gasdia e il finale a sorpresa. Prima di farlo, vorrei sottolineare un’altra particolarità di quest’opera, che consiste nel fatto
che essa si svolge su due piani paralleli. All’interno del teatro c’è la rappresentazione dell’opera che, come sapete, ruota intorno alla preparazione del viaggio
a Reims di una comitiva assortita in occasione dell’incoronazione di Carlo X di
Francia. Vi accorrono anche i rappresentanti di molti stati europei che partecipano di diritto alla cerimonia ma alcuni contrattempi, come la rottura della carrozza o la perdita dei cappellini di una certa nobildonna, impediscono alla comitiva di procedere verso Reims. Nel frattempo la corte regale viaggia
concretamente attraverso le vie di Pesaro per arrivare in teatro. L’opera, infatti,
si conclude con l’arrivo del corteo proprio sul finale. Questo ha rappresentato
un’ulteriore complicazione, in quanto la produzione è stata messa in piedi in
pochissimo tempo e in pieno clima ferragostano, per cui è stato arduo trovare
quattro operatori disponibili, laddove uno simile spettacolo ne avrebbe richiesti
almeno il doppio per la sua complessa articolazione.
(esempio audiovisivo)
Per quanto riguarda invece lavori più recenti, nel filone di quelli che possono essere identificati come «ponti portanti», lascerei a questo punto la parola a
Gianni Di Capua, il quale ci parlerà di uno degli ultimi lavori realizzati dalla
RAI, Guerra e pace di Prokof’ev, andato da poco in scena al Festival dei Due
Mondi di Spoleto.
Vi ringrazio per l’attenzione ma vi annuncio – non vuole essere una minaccia – che ritorneremo su parte di questi argomenti nel corso dei prossimi giorni.
CARLO MARINELLI
Chi è stato con noi lo scorso anno ricorderà certamente la sensazione suscitata da Gianni Di Capua quando presentò, sia pure solo in parte (personalmente
ho avuto il privilegio di vederla per intero), A floresta é jovem e cheja de vida
(1966) di Nono. Di Capua insegna Storia e tecnica del documentario artistico
all’Università di Venezia. Tengo a sottolineare questo suo carattere: nel programma del Convegno, accanto al suo nome non è scritto «regista teatrale e televisivo», non certo per una dimenticanza ma volutamente. Quel che a me interessa sottolineare è soprattutto la sua esperienza viva, che è vastissima, non
solo in televisione ma anche in teatro e il suo curriculum, di straordinario rispetto per una persona così giovane, lo testimoniama. Oltre a questo background pratico egli ha un notevole bagaglio teorico, e la compresenza in lui di
entrambi gli elementi a mio parere va messa in grande evidenza. Scusatemi una
notazione autobiografica. Nel mio corso di Discografia e videografia musicale
dell’Università di Bologna ho fatto del suo lavoro A floresta é jovem e cheja de
vida oggetto di particolare attenzione, ottenendo presso gli studenti un successo
straordinario. È l’ora di cedere a lui la parola per questo suo nuovo lavoro del
1999.
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GIANNI DI CAPUA
Regia televisiva di Guerra e pace di Prokof’ev (Spoleto 1999)
Ringrazio per questo nuovo invito e ringrazio anche chi ha reso possibile la
realizzazione di questa mia regia televisiva a Spoleto. Mi sono trovato di fronte
a un’opera immane, della durata di quattro ore e mezzo circa. Avevo solo una o
due settimane di tempo per svolgere il mio lavoro, per cui ho colto l’occasione
di sperimentarmi. Mi sono concentrato su due scene che sono legate tra loro e
che ripropongono la questione dell’atteggiamento del regista televisivo di fronte a un’opera ossia di quel processo di sottrazione che il regista opera nell’atto
di mediare un’opera dal vivo: il regista necessariamente opera una sottrazione
dalla realtà perché ne propone una porzione. È ovvio che non si intende sostituire la sala da concerto con il televisore ma credo che la televisione dia un’opportunità in più all’opera stessa.
Il mio intervento sarà breve ed è incentrato sui due frammenti cui ho accennato. Il primo riguarda la seconda scena, che prevede una settantina di persone sul palco. Cosa fare in un caso del genere? Bisogna mostrare dei totali?
Assolutamente no. Mi sono rifiutato di farlo, anche perché, come Ilio Catani
insegna, la regia di un concerto è diversa da quella di un’opera lirica. Forse la
ripresa di un concerto deve rivelare una struttura, almeno nelle intenzioni. Nel
caso di quest’opera, invece, mi sembrava preferibile rivelare e seguire il racconto, la struttura teatrale, la drammaturgia, l’idea e il pensiero del regista. In
questo caso erano due, Giancarlo Menotti e Roman Hurko. Per la regia d’insieme fu chiamato Gillo Pontecorvo ma di lui appare soltanto il nome perché nella
pratica non ha fatto nulla: è stato un omaggio che Menotti ha voluto fare a un
suo amico. Evitando tutti i totali, noterete che vi è una somma di particolari, di
punti di vista diversi. Vi mostro come erano sistemate le telecamere.
(esempio audiovisivo)
Non mi è stato concesso di accedere al palco reale, quindi ho posizionato
una telecamera nella prima loggia a sinistra e a destra del palco reale e, sullo
stesso livello, nella seconda e terza loggia. Avevo poi una telecamera piazzata
in «piccionaia», con un operatore a cui chiedevo di effettuare le zoomate ma
che non era in grado di farlo. Dico questo perché è importante distribuire gli
operatori secondo un proprio progetto registico, a seconda delle capacità e dei
talenti di ciascuno: qualcuno ha una mano straordinaria per le panoramiche,
mentre altri sono affetti da quello che in gergo viene definito «morbo di
Parkinson». Per i dettagli disponevamo di una telecamera che montava un
obiettivo da 55 millimetri, un’altra montava invece un obiettivo da 18 millimetri, mentre da 15 millimetri erano gli obiettivi di altre due. Una ulteriore telecamera credo non sia mai stata usata, perché penso avesse un difetto. Una camera
era infine posizionata nel golfo mistico per inquadrare il direttore d’orchestra.
Per quanto detto, nella pratica disponevo di due telecamere che mi garantivano,
nel caso qualcosa fosse andato storto, una ripresa generale e una del direttore.
Vorrei spiegare perché abbia deciso di collocare le telecamere alla stessa
altezza e non ad altezze variabili. In precedenza avevo visto dei bei piani sequenza e anche noi abbiamo tentato di farne qualcuno; in effetti, ci siamo anche riusciti ma poi ci abbiamo rinunciato perché, per quanto riguarda le riprese,
lo studio offre vantaggi che il teatro non consente. Poiché a me non interessava
fare una ripresa «da studio», per me era interessante moltiplicare l’occhio dello
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spettatore teatrale dal punto di vista più privilegiato, quello della loggia e della
platea. Vi dico queste cose in modo che, vedendo scorrere le immagini, sappiate quali sono i punti di vista da cui sono state riprese.
Naturalmente, eliminando i totali (il boccascena si vede soltanto una volta,
all’inizio), entrando all’interno del racconto teatrale, ci siamo imbattuti nei movimenti del coro e dei vari cantanti. Come spesso accade, i movimenti previsti
dalla regia teatrale sono sempre codificati con un margine di errore piuttosto
ampio ed è accaduto che nella ripresa «buona» aspettavamo che entrassero dei
personaggi e invece ne sono entrati altri, per cui abbiamo dovuto far ricorso al
materiale registrato il giorno prima.
Detto questo, se non c’è il totale cosa rimane? Il primo piano; se tuttavia
dispongo di operatori con determinate caratteristiche non posso fare affidamento sul primo piano, dunque non mi resta che giocare con la figura intera. Il pavimento non mi piaceva, mentre trovavo splendide e molto curate le luci realizzate da David Hersey, lo stesso lighting designer del musical Cats.
Cosa pensavamo di catturare? Le dinamiche. Come vedrete, la scena è ricca di dinamica, è ricca dei movimenti degli autori di una coreografia che non
investe solamente il corpo di ballo o il coro ma anche l’orchestra nella buca, un
coro sulla scena e diversi ruoli secondari che, anche per un solo istante, diventano essenziali in una scena. Come individuare tali personaggi? Che rilevanza
dare loro quando entrano nel nostro schermo? Quella che vedremo è una scena
estremamente importante anche dal punto di vista librettistico: dopo la prima
scena, dove vengono introdotti il principe Andrej e Nataša, che vivono una storia d’amore mai consumata, vengono introdotti tutti gli altri personaggi
dell’opera, il che rende questo secondo atto estremamente importante proprio
ai fini della comprensione drammaturgica e dello svolgimento della storia. Direi di vederlo, perché è inutile che vi dica quello che avrei voluto realizzare,
perché credo di averlo fatto. L’altra scena è diversa e complementare, perché se
nella prima abbiamo ricostruito la realtà, secondo un processo di sottrazione,
nella scena successiva, la dodicesima, abbiamo fatto l’operazione inversa, mettendo in atto un processo di dilatazione della realtà.
(esempio audiovisivo)
Dovrei fare a questo punto una osservazione che ritengo importante. Nel
lavorare sulla struttura drammaturgica, se la ripresa televisiva che ha la capacità di esasperare le cose, di ampliarle, così come di amplificare il movimento,
è in grado di amplificare la validità della dinamica di un progetto registico, per
converso può anche rivelarne i difetti e l’inconsistenza. Senza entrare nel merito di quali siano e perché si verifichino determinate contraddizioni, vorrei portare alla vostra attenzione quel punto del libretto che recita: «Denisov balla la
mazurka». Ebbene, voi non avete visto nulla di tutto questo, non certo perché ci
siamo distratti ma perché Denisov e la signora non ballavano semplicemente
perché non erano in scena. Altro esempio: «Entra in scena Pierre»; il libretto ne
dà una connotazione dettagliata, descrivendolo come «grasso», «unto» ecc, ma
abbiamo visto che nel nostro caso egli è tutto fuorché grasso e unto. Ci siamo
presi la libertà di smussare questa incongruenza, riprendendolo di spalle oppure
aggiungendo un nuovo elemento visivo che distraesse l’attenzione dalla necessità di vedere quanto il testo recita in quel momento: una regia televisiva è fatta
anche di queste cose!
Passiamo alla dodicesima scena, che è l’esatto contrario di quel che abbiamo visto finora. Le telecamere rimangono le stesse ma in scena vi è una situazione estremamente imbarazzante dal punto di vista televisivo. La scena è la
seguente: c’è il boccascena, un tulle nero calato che lo ricopre interamente e
una zona illuminata. Ovviamente la regia teatrale e lo scenografo hanno la ne9
cessità di occultare alla vista del pubblico il successivo cambio di scena; non a
caso sentirete anche dei rumori provocati dal lavoro degli attrezzisti. Sul palcoscenico vi sono solo due elementi, due personaggi: il principe Andrej moribondo, disteso su un lettino, e Nataša che entra in un secondo momento; la scena
dura sedici minuti, una vera e propria agonia in tempo reale, improponibile in
televisione! Il principe delira. È a questo punto che il linguaggio televisivo si fa
interessante, perché la televisione consente di rivelare la realtà drammatica, il
progetto scenico per porzioni, lentamente, adoperando tutti i mezzi di cui si
dispone.
CARLO MARINELLI
Con la relazione di Gianni Di Capua si conclude questa prima sessione di
lavoro. L’appuntamento è per domattina alle 9.30 in punto. Buona serata a tutti.
10
martedì 30 novembre 1999
ore 9.30
Circolo RAI
viale di Tor di Quinto 64
Sala conferenze
presiede
Ilio Catani
ILIO CATANI
Buon giorno e benvenuti.
Sarete sorpresi di trovare me al posto della presidenza ma purtroppo una
brutta influenza ha impedito al professor Marinelli di partecipare ai lavori del
Seminario. Cercherò di prenderne il posto senza avere la presunzione di sostituirlo.
Prima di cominciare i nostri lavori devo fare due raccomandazioni. La prima riguarda l’uso dei telefoni cellulari, che provocano interferenze con gli apparecchi di riproduzione. Pregherei di tenerli spenti a meno che non se ne abbia
assoluta necessità. La seconda avvertenza è di carattere operativo: i signori che
desiderano intervenire sono pregati di aspettare che gli assistenti di sala portino
loro il microfono, il cosiddetto «gelato», perché in caso contrario l’intervento
non potrà essere registrato per gli atti.
Detto questo, invito Franz Patay a tenere la sua relazione, anche se con anticipo rispetto al calendario dovuto al ritardo di Giancarlo Landini. Il lato positivo è che avremo più tempo per la discussione e anche la possibilità di inserire
ulteriori elementi alla nostra giornata.
13
FRANZ PATAY
Relations between Opera Houses, TV Channels, Distributors, Producers, and
Record Companies
Good morning, ladies and gentlemen. I will speak in English, because my
Italian is very limited.
First of all, I want to apologize for not bringing any tapes this year, with
excerpts of productions on video. The reason is that the IMZ did not have any
opera activity, therefore we had no new programs we could show you. Next
year, in May, we will have a video festival and competition in Vienna which is
dedicated to opera, and hopefully in the year 2000 we will have new programs
and new videos to present.
My position at the IMZ gives me the opportunity and the chance to watch
our members’ activities like a spider in the net: I can see and observe what is
happening, and what I’m going to tell you now is just my observations
concerning opera in the field of media in the last years. I will speak a little
about the radio, about records, and then about TV and video.
As far as the situation with radio is concerned, in Europe we have a rather
privileged partnership with the public radio stations, the opera houses, and
even the concert organizers; because public radios broadcast a lot, there are a
lot of partnerships between opera houses, festivals, and the public radio, and
we have come to realize that there is a boom in classical music and opera on
the radio. Since the mid Eighties there are some private radios in Europe as
well, but these channels do not broadcast opera, they just focus on highlights:
one aria, one well-known part of a concert piece, and in-between they talk, like
in a pop music channel. In the United States, just to touch upon this matter,
though I think Susan Erben will talk about it in more detail, as far as I know the
radio does not give any money to the opera houses, and opera houses are even
asked to find sponsorship and money to pay for the artist rights in order to
bring their productions on air. In Europe there is another speciality, which is
IBU, which everybody here probably knows: this is a program exchange going
on where every channel has to deliver a certain number of programs to this
program pool, and has to deliver the European rights, and then all the other
channels can choose out of that.
Radio has the advantage of being a cheap medium, compared to television;
it’s easier to clear the copyright, and basically the world repertoire is always
available. Everything you can buy in a CD shop you can transmit immediately
without having wild negotiations with the publishers or with the artists,
because the author societies have the repertoire for radio, and you just deliver
the royalties to them.
The record companies are facing big changes since the beginning of the
Nineties; when the CD was first released, there was a real «Gold Rush»,
because everybody was enthusiastic about this new technology as it was easy
to store, and everybody bought everything. Thus the record companies thought
that the «high» would never end, but since 1995 consumers haven’t been
buying as many CDs, and record companies are now forced to change their
policy. The number of productions has gone down, and only very seldom the
big repertoire is produced again. Record companies have basically stopped
recording operas because most consumers have the entire repertoire on their
shelves at home, and if I already own a Tosca featuring Maria Callas, another
14
featuring Mirella Freni, why should I buy a third one? If I want to listen to it, I
can go to the opera, or listen to the radio, but it is not something people are
willing to buy any longer. Record companies are reorganizing their strategies,
and the focus now is on marketing, not on production.
Orchestras, theaters, and opera houses had to realize that the variable costs
– meaning the artists’ and the publishers’ rights – are too expensive to recoup
money, therefore everybody is now re-thinking their policy, and now the
tendency is to try to move the economic risk more to the publishers and the
artists, in asking them not to get a down-payment immediately but to
participate in the economic risk by accepting royalties. The market for classical
music records in 1985 was 14% and in 1990, five years later, it was only 6-8%;
the expectations of the big record companies are that it will go down to 2.5% of
the whole market share. On the other hand, big names like Herbert Von
Karajan are still selling; for instance, Deutsche Grammophon is still making
25% of its profit with the conductor’s productions, ten years after his death.
This shows how difficult the situation is for record companies: on the one hand
they have big archives, and consumers already own this archive (and are still
buying this archive, as the Karajan example goes to show), and on the other
hand they have new artists, and these artists and their managements ask for
records, and want these records to be marketed, but the audience is not willing
to buy the CDs! So, one major strategy now is to record and distribute for niche
markets; either you’re a small record company, dedicated to specific Baroque
music, or music performed on original instruments, then you will find a market
and be able to sell your product, or you are a big company like Sony, for
instance, who are now trying to produce experimental music, or else music
which is rarely heard in concerts, so they try to find combinations of singers
and instruments which are unknown to the public. There was a record
published last year featuring José Carreras singing the solo part of well-known
orchestra pieces, for instance the Mozart clarinet concerto, where Carreras sang
the clarinet part with an invented text. So record companies are trying to find a
new repertoire, new activities in order to attract public.
The TV and video situation, for opera especially, is a very sad one. We
have realized that slots for opera on TV have decreased, and some TV stations
have stopped broadcasting opera altogether. For instance, in Austria eight years
ago every Sunday at prime time there was an opera on TV, and now we have
four opera slots a year, and this naturally affects the number of recordings
being made. We must realize that the generalists, like the public broadcasters,
remain the only real partners of opera and music in the audiovisual media, and
this is because these stations are financed by public money and thus they are
forced to fulfill their cultural «mission». On the other hand, we realize there are
special theme channels which have a strong need for programs, especially
opera, because they have to broadcast 24 hours a day, but they have small
budgets and cannot finance big productions on their own, so they are forced to
exploit the archives of the already-recorded programs. We have the private
producers and distributors, who are becoming increasingly important in the
making of programs, because public broadcasters are forced to find partners to
finance productions, but the interest of private producers is basically
documentary, not so much the recording of opera itself, because documentaries
sell better, they travel better, and it’s easier to schedule a TV slot, which must
not necessarily dedicated to music.
The economic situation of private productions depends basically on the
acquisition of the copyright, because – considering that the cost of technical
equipment is fixed – copyright and artist fees can be negotiated, so this is
where the focus is now. A lot of IMZ members are now trying to negotiate with
15
publishing houses in order to change the copyright situation, especially
concerning the so-called «synch-rights». The goal is to motivate the music
publishers to participate in the economic risk of a production. As it is now, the
private producer has to pay the synch rights at the beginning, so the music
publisher gets his money, and to his it makes no difference whether the
production ever goes on the air or not. Private producers are less and less
willing to pay the publishers without having any guarantee that they will
recoup their money.
The home-video market is currently of no economic importance. VHS
tapes do not sell very well, as far as I understand. Most of these tapes are sold
in opera house shops, but the general public does not buy as many of these
VHS tapes as the industry estimated before. What we see now is a strong
demand for DVD. Distributors, producers, and copyright holders are very
positive about this new format. On one hand a DVD is not as bulky as a VHS
tape, so you can store them easily at home; the expectations are that they
cannot be destroyed as easily as a VHS tape. Sometimes tapes get caught in the
recorder, which is something that cannot happen to a DVD. A DVD also
contains additional information about the opera, the libretto, the biography of
the composer, the artists’ curricula, there can be various language versions, and
the public is buying DVD now like books for a library. It means that they’re
not necessarily going to watch these DVDs, but it’s like having the complete
works of Dante, Schiller or Goethe at home in your library. Likewise, you must
have, La bohème, Tosca, and the major opera works to consult if you wish: this
is now the expectation on the part of the industry, and all distributors are
looking for DVD rights.
It’s very difficult for me to describe the audiovisual market in a very
structured way, because it is not structured, it’s very segmented, and it varies
from territory to territory, from language area to language area. There are many
ways to distribute opera programs: they can be braodcast on terrestrial TV,
satellite, cable, digital, and analogue. This also involves different types of
copyrights, different prices, and the participants don’t necessarily disclose the
correct information, because often it is a «business secret».
As far as production is concerned, opera producers can be public TV
stations, private TV stations, sometimes opera houses (as is the case with the
Metropolitan, and sometimes the Opéra de Lyon); this means that opera houses
very seldom accept to look after logistics, finances, management of the
production, etc. The major problem with producing opera for video or
television is, as always, the financing. TV stations are increasingly unwilling to
produce everything themselves, which means they hold the copyright and
distribute the program. They increasingly look to co-productions, and keep
certain copyrights to themselves while they give away others to private
distributors. Very seldom does a TV accept to participate in a co-production by
accepting a pre sale, which means they agree to buy the programs even before
the production has begun. Private producers, like Rainer Mortiz or NVC, invest
money and look for partners, and then try to recoup their money by distributing
the program internationally.
I would now like to give a you a short overview of the market and the
people who participate in it. In the first place, we have generalistic TV stations,
basically public broadcasters, who are (or have been for a long time) the only
producers of opera for television, but in the past ten years a strong change in
the landscape of media took place. Private TV became an economical factor for
the public broadcasters, because a lot of public broadcasters are not 100%
financed by license fees or taxes, most of them are financed up to 50% by
advertisement, so they are in competition with the private TV channels for
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advertising money. The advertising industry asks for audiences, rates and
shares: this is the reason why art programs get less and less, and when they are
broadcast at midnight, it is only to fulfill their «mission to educate».
The IBU is trying to create something like an opera pool for opera
programs or art programs, like there is in radio. The chairman who is running
this project has failed, until now, because it is so difficult to clear copyrights in
order to make a program pool; for instance, if the Austrian Broadcasting
Corporation makes a program from Salzburg, they only buy the copyright for
Austria, not for all of Europe, because it would be too expensive for them.
These would be required in order to give this program to the European program
pool, so that the Irish or the Hungarian TV could watch the program for free,
and in exchange they would get something from them. Another problem is that
they only have four slots for opera per year, so it makes no sense make a
program pool (as it is in the radio), because for these four slots they are forced
by the public opinion, and by politicians I would add: one from Salzburg, one
from the Wiener Stadtsoper, and one from the Vienna festival, so there’s only
one left for an international co-production. It’s the same with Great Britain or
other countries: you have to cover your local opera first, and then you can look
for international co-productions. It Italy I think you have a contract with La
Scala di Milano, therefore your focus is one the Scala, not on the Viennese
State Opera. If you have only four slots for opera, you will have Milano and
other things which are of greater interest for the Italian public than Vienna or
Salzburg.
Just to show you how opera slots were cut down in the past years I want to
give you the example of the Danmarks Radio, the Danish Television and
Radio. Until 1995, The Danish TV had eight opera slots a year, and 50-60
hours of classical music per year; now, they have only 4 operas a year, and 20
hours of music. The person who was in charge of buying music programs for
Danmarks Radio, Mr. Friedman, is only working part-time, and word has it that
he was here in Rome last summer, working as a tour guide, because he is no
longer needed in his TV station.
Swedish TV, for instance, still has 100-150 hours of classical music per
year, of which 60% is in-house production and 40% is bought from the
international market. They have a deal with Drottningholm, and they produce
one of their operas per year. This costs them approximately 3,000,000 Austrian
shillings, which is 270,000 US dollars; every five years, Swedish TV makes a
studio production of an opera, the last one was The Rake’s Progress. Since
1993 they no longer have a deal with Rainer Moritz, therefore there are no
more international sales.
Swiss TV, in the French part, has about 50 concerts or ballets a year, and
only 1 opera per year, which is broadcast from Geneva. They have a very
interesting deal with the opera house in Geneva: the musicians and the cast
participate in the revenue of the distribution sales, therefore they can produce
quite cheaply, and they sell a lot to South America and Turkey, for instance.
The Swiss Italian TV channel had, until last year, 15 operas a year which is
quite a number, on the Second channel, starting at 8.30 P.M. on Sundays. I
don’t know whether this is still going on.
Now we have thematic channels which are on the rise. As I just said,
generalist public channels have drastically reduced classical music; however
private entrepreneurs think there is a market out there for classical music
lovers, and they believe these opera and music lovers are willing to pay a
subscription fee to a thematic channel to watch operas they no longer get on
free TV, so the public broadcasters are in a quandary: on one hand, they are
losing market shares to the private general TVs, with game shows and the rest,
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and on the other hand they lose public from the viewpoint of quality as well,
because thematic channels are out to capture the quality public.
Here in Italy there is a situation whereby the RAI-SAT is a thematic
channel, and it is also a public broadcaster; it is one of the only cases I know of
where this is happening. There is also a private channel for classical music.
In Germany there is a classical channel, in France there are two classical
music channels, there is «Ovation» in the United States and «TV Theater» in
Japan, and there are lots more arising.
Just an example of how «Musik» works – which is in my opinion the most
successful thematic channel as far as viewers are concerned; the figures I get
are that they have 1,000,000 subscribers for their channel, which is quite a lot.
They buy about 80% of their programs and produce the remaining 20%. As I
said before, they only produce «cheap» chamber music, because they don’t
have the means to produce opera. Their program budget per year is 40,000,000
Austrian shilling, which is about 600,000,000 Italian lire. They buy programs
which cost between 1,000 and 2,000 US dollars per hour, so it’s not very
interesting for copyright holders to sell to a thematic channel, because if you
compare that to the costs you have when you produce opera... It costs at least
1,500,000 million US dollars to produce its, and if you sell it for 1,000 or 2,000
US dollars per hour you never recoup production money. So why do
distributors sell to these thematic channels? These channels buy huge amounts
of programs (at least 500 hours at a time), and they don’t only take the
highlights, they take chamber music, documentaries, etc. For instance, Musik
needs 1,000 hours of programs per year; they have a schedule whereby every
day they have four hours of new programs, it works so that you have 20 hours
of programs divided into five blocks; every day they add four hours and shift
the whole program, so if you watch this channel every day at the same time,
you get to see something different. Only by adding 4 hours a day, they need
1,000 hours per year.
The big discussion now is what will these thematic channels do when all
the archives have been broadcast: even those who have immense archives will
come to the end, and when the public has been shown everything, what will
happen? How will they solve this problem? Thematic channels don’t have the
money to produce, but they need a lot of programs. As far as I see the situation
now, most of these channels cannot recoup enough money out of subscriptions
to pay for new programs. It’s a dilemma, and there are a lot of discussions
going on about how to reduce programs costs. Once again, copyright, grand
rights, synch rights, artist fees, and there is also a discussion about reducing
technical costs, by using the mini TV cameras, by reducing the costs for the
technical staff.
The future will show whether the public is willing to accept this, because
opera lovers want to have high quality; they are addicted to music, but the
market also shows that they are addicted to new technology as well. If new
technical devices come out, the first things that sell are pornography and then
music...
Maybe a brief glance at independent producers: most of them are addicted
to producing music and art programs. As the situation is now, most of them
will not get rich by making music, or opera, programs, because it’s so difficult
to find slots on the international televisions. Therefore, most of the time if an
independent producer takes on a co-production on a private initiative, 80% of
the cost are covered by public broadcasters, and 20% will be financed
subsequently, by running the program for thematic channels, or by selling it as
home-video. If it’s not possible to obtain 80% of the production costs, there are
basically no independent producers who want to run the risk.
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I see five big enterprises doing that, and they chose this market as a strong
concentration: one is Rainer Moritz, located in München and London; this
company has no preferences as far a territory or language. They produce with
Sydney Opera, Opéra de Lyon, Savonlinna, Salzburg, etc. Others, like Unitel in
München, have territorial and language preferences: they only do Austrian and
German productions. Another big one is Euroarts in Stuttgart; in the past years,
they’ve made a lot of documentaries but no more opera, and now they’re going
into feature films well. Then there’s BBC, of course; they’re getting more and
more involved in music by releasing CDs and exploiting their archive. NVC is
a daughter enterprise of Warner Music, and they also stopped making opera
productions because they can’t recoup their money, and like the others they are
not willing to run the risk of producing an opera. As far as I know, they only
take 10% of the risk.
Maybe a few words about the Opéra de Lyon; it is one of the few opera
houses that has become an «entrepreneur» in that they produce opera
themselves. The opera house was closed for a few years, I think from 1987 to
1993, in order to be completely reconstructed; only the outer walls were left,
and the inside was completely renewed. During this time, the managers had
enough leisure to think about a marketing strategy, so they negotiated a
contract with the musicians’ and the stagehands’ union, and they developed a
policy for their audiovisual productions. After 1993, when the opera house was
reopened, they hosted IMZ events, Opera Screen and Dance Screen, and had
the opportunity to make close contacts with the world of TV distribution,
independent production, and record companies. So they started to produce up
to seven operas as record and video production every year, by choosing not the
great repertoire, but operas that were less well-known. They did quite well,
reaching break-even point, by developing a very intelligent policy in this field,
but in 1996 it was stopped by a lawsuit, where the union (as far as I know)
accused the management that they were cheated in the contract, and were not
making enough money. The management has now changed, and it’s a pity that
this initiative came to an end so abruptly.
I’d like to ask my colleague Ilio Catani a question, a matter of personal
interest. I mentioned earlier that RAI-SAT has a special interest channel for
music, and you have a private competitor, which is Deplus Classica; I’d like
you to estimate the situation between you and this private channel, because I’m
not sure whether there is enough space for two channels in this very
competitive field. How do you see the future?
I rapporti fra enti lirici, reti televisive, distribuzione, produttori e case fonografiche
[Buon giorno, signore e signori. Sono costretto a parlare in inglese perché
il mio italiano è assai limitato.
Prima di tutto voglio scusarmi di non avere portato estratti di produzioni
su supporto audiovisivo quest’anno; ciò è dovuto al fatto che l’IMZ non ha
svolto attività in materia di opera lirica quindi non avevo novità da potervi
mostrare. Nel maggio del prossimo anno si terranno a Vienna un festival e un
concorso video dedicati all’opera lirica, quindi nel 2000 ci auguriamo di avere
programmi e video nuovi da presentare.
Dall’osservatorio privilegiato dell’IMZ ho modo di vedere l’attività dei
nostri membri come un ragno osserva la tela: posso osservare ciò che accade,
e ciò che vi riferirò sono semplicemente le mie considerazioni in materia di
opera nei media nel corso degli ultimi anni. Parlerò un po’ della radio e dei
dischi e successivamente di televisione e video.
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Per quanto riguarda la situazione della radio, in Europa abbiamo una collaborazione privilegiata con le radio pubbliche, i teatri lirici e persino gli organizzatori di concerti, giacché le radio pubbliche trasmettono molte produzioni, vi sono molte collaborazioni fra enti lirici e festival con le emittenti
pubbliche, e siamo giunti alla constatazione che è in atto un vero boom della
musica classica e lirica in radio. Dalla metà degli anni Ottanta in Europa ci
sono anche alcune radio private ma queste emittenti non trasmettono opere,
concentrandosi esclusivamente sui brani celebri: un’aria o un movimento famoso tratto da un brano sinfonico, inframmezzati da «chiacchere», come in un
canale di musica leggera. Negli Stati Uniti – solo per sfiorare un argomento
che credo Susan Erben tratterà in maggior dettaglio – per quanto io sappia la
radio non dà denaro agli enti lirici, i quali sono addirittura costretti a trovare
gli sponsor per poter pagare agli artisti i diritti di messa in onda. In Europa
c’è un’altra particolarità, l’IBU, che tutti i presenti probabilmente conoscono:
si tratta di uno scambio di programmi laddove ogni emittente deve consegnare
un certo numero di trasmissioni a un «archivio comune», cedendone anche i
diritti europei, quindi tutte le altre emittenti possono usufruirne.
La radio offre il vantaggio di essere un medium economico rispetto alla
televisione; è più facile ottenere i diritti e in tal modo il repertorio mondiale è
sempre a disposizione. Tutto ciò che si può acquistare in un negozio di CD può
essere mandato in onda senza dover sottostare a stressanti negoziati con editori e artisti, perché e sufficiente versare i diritti alle società degli autori.
Dall’inizio degli anni Novanta le case discografiche hanno dovuto affrontare enormi cambiamenti. Quando venne messo in vendita il primo CD si scatenò una vera e propria «febbre dell’oro»: tutti erano entusiasti della nuova
tecnologia perché era facile da conservare, quindi tutti compravano tutto. Le
case discografiche furono portate a credere che il «picco di vendite» non si sarebbe mai esaurito ma, sin dal 1995, i consumatori non acquistano più tanti
CD, costringendo quindi le case discografiche a rivedere le loro politiche. È
diminuito il numero di nuove produzioni, e solo di rado il grande repertorio
viene prodotto una seconda volta; inoltre è quasi smessa la produzione di opere liriche poiché la maggior parte dei consumatori ha già l’intero repertorio
sui propri scaffali a casa: se ho già una Tosca con Maria Callas e un’altra con
Mirella Freni, perché comprarne una terza? Se vogliono ascoltarne altre versioni, i consumatori possono anche andare all’opera o sentire la radio e quindi
sono sempre meno disposti ad acquistarne i CD. Le case discografiche stanno
riorganizzando le loro strategie e ora si concentrano più sul marketing che sulle produzioni.
Orchestre, teatri ed enti lirici hanno capito che i cosiddetti «costi variabili» – i diritti dovuti ad artisti ed editori – sono troppo alti per poter recuperare
i costi, quindi tutti stanno cambiando strategia. Ora la tendenza è quella di
condividere il rischio economico con editori e artisti, chiedendo loro di non
prendere un cachet ma di partecipare agli utili. Nel 1985 la quota di mercato
della musica classica era del 14% ma nel 1990, soltanto cinque anni dopo, era
scesa al 6-8%. Le previsioni delle grandi case discografiche sono che scenderà
al 2,5% dell’intero mercato. Per contro i grandi nomi, come Herbert Von Karajan, vendono ancora, infatti la Deutsche Grammophon trae tuttora il 25%
dei propri profitti dalle vendite di produzioni realizzate dal direttore, a dieci
anni dalla sua morte. Ciò dimostra quanto sia difficile la situazione delle grandi case discografiche: da una parte possiedono archivi immensi (che tuttavia i
consumatori già possiedono, sebbene lo continuino ad acquistare, come il caso
di Von Karajan dimostra) e dall’altra hanno i nuovi artisti che, insieme ai loro
agenti, reclamano nuovi dischi da immettere nel mercato. Ma il pubblico non è
disposto ad acquistare nuovi CD! Una delle strategie che viene quindi adottata
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è quella di produrre e distribuire per i mercati di nicchia: le piccole case discografiche che si dedicano esclusivamente alla musica barocca eseguita su
strumenti originali possono trovare un pubblico a cui vendere i propri prodotti, oppure le grandi compagnie, quale la Sony, possono dedicarsi a produrre
musica sperimentale o musica di raro ascolto, quindi cercano combinazioni di
cantanti e strumentisti sconosciute al vasto pubblico. L’anno scorso è uscito un
disco in cui José Carreras cantava la parte solistica di brani orchestrali famosi, come il Concerto per clarinetto e orchestra di Mozart, in cui Carreras cantava la parte del clarinetto su un testo inventato. Le case discografiche stanno
quindi cercando un repertorio inedito per riuscire ad attirare il pubblico.
La situazione di televisioni e video è assai triste. Abbiamo preso atto del
fatto che gli spazi dedicati all’opera in televisione sono diminuiti, e che alcune
emittenti televisive hanno smesso del tutto di trasmettere opera lirica. Per fare
un esempio, otto anni fa in Austria ogni domenica in prima serata veniva trasmessa un’opera in televisione, contro le quattro opere l’anno trasmesse attualmente; gli effetti di questo naturalmente si ripercuotono sul numero di nuove registrazioni che viene effettuato. Dobbiamo prendere atto del fatto che i
cosiddetti «generalisti» sono gli unici possibili partner di opera e musica sui
mezzi audiovisivi perché vengono finanziati con denaro pubblico e devono
quindi assolvere la loro «missione» culturale. D’altra parte dobbiamo renderci
conto che esistono i canali tematici che hanno un grande bisogno di programmi, specie di opera lirica, perché devono andare in onda ventiquattr’ore su
ventiquattro ma, con gli scarsi mezzi di cui dispongono, non possono sostenere
grandi produzioni in proprio e sono costretti ad attingere agli archivi già registrati. Vi sono inoltre produttori e distributori privati la cui importanza in materia di produzione di programmi sta crescendo, poiché le emittenti pubbliche
sono costrette a cercare collaborazioni per finanziare le proprie produzioni,
mentre l’interesse dei private risiede fondamentalmente nella documentazione.
Infatti, i documentari si vendono meglio, sono più facilmente esportabili ed è
più facile farli rientrare in una programmazione che non deve essere necessariamente dedicata alla musica.
La situazione economica delle produzioni private dipende sostanzialmente
dall’acquisizione dei diritti perché – visto che i costi dell’apparecchiatura tecnica sono fissi – questi possono essere negoziati, quindi è su questo che ci si
sta concentrando ora. Molti membri dell’IMZ stanno cercando di negoziare
con le case editrici in modo tale da modificare la situazione dei diritti, specie
per quanto riguarda i cosiddetti «diritti di sincronizazzione». L’obiettivo è
quello di invogliare gli editori a partecipare al rischio d’impresa delle produzioni. Attualmente un produttore privato deve pagare i diritti di sincronizzazione subito, quindi l’editore percepisce il proprio profitto e non fa alcuna differenza se la produzione va in onda o meno. I produttori privati sono sempre
meno disposti a pagare gli editori senza avere alcuna garanzia di recuperare il
loro investimento.
Allo stato attuale il mercato dello home video non è di alcun rilievo: le
videocassette VHS, per quanto ne so, non si vendono molto bene. La maggior
parte di questi nastri viene venduta nei negozi annessi ai teatri lirici ma il
pubblico non le acquista nelle quantità che erano state previste dall’industria.
Ora assistiamo a una grande richiesta di DVD. Distributori, produttori e detentori di diritti sono assai favorevoli al nuovo supporto; da una parte il DVD
non ingombra quanto la videocassetta, quindi può essere conservato facilmente e inoltre le aspettative di durevolezza sono maggiori rispetto al VHS. A
volte, le videocassette rimangono impigliate nel registatore, cosa che non può
accadere con un DVD; per di più quest’ultimo contiene informazioni aggiuntive sull’opera, il libretto, la biografia del compositore, i curricula degli arti21
sti, varie possibili versioni in diverse lingue, quindi ora il pubblico acquista
DVD come fossero libri da conservare nella propria biblioteca. Non è detto
che li guardino, piuttosto è paragonabile all’avere in casa l’opera omnia di
Dante, Schiller o Goethe; parimenti si devono avere La bohème, Tosca e altre
grandi opere da consultare se si desidera. Queste sono le attuali aspettative
da parte dell’industria, quindi tutti i distributori sono a caccia di diritti per
produrre DVD.
Mi risulta difficile descrivere il mercato dell’audiovisivo in maniera strutturata perché esso è assai poco strutturato, al contrario è segmentato e varia
da un territorio a un altro, da un’area linguistica a un’altra. Ci sono molti
modi per distribuire programmi operistici: possono essere trasmessi su televisioni terrestri, su satellite, via cavo, con segnale digitale o analogico. Tutto ciò
comporta diverse tipologie di diritti, prezzi differenti, e i diversi partecipanti
non sempre rivelano le informazioni correttamente perché queste sono coperte
da «segreto aziendale».
Per quanto concerne la produzione, i produttori di opere possono essere
reti televisive pubbliche o private, talvolta teatri lirici (come nel caso del Metropolitan e dell’Opéra de Lyon); questo significa che i teatri d’opera raramente accettano di farsi carico di problemi logistici, finanziari, di gestione della produzione, ecc. Il maggior ostacolo nel produrre opera per il video o per la
televisione è, come sempre, il finanziamento. Le reti televisive sono sempre
meno disposte a farsi carico della produzione in toto, limitandosi a detenere i
diritti e incaricarsi della distribuzione. C’è una crescente ricerca di coproduzioni, in cui le reti televisive trattengono alcuni diritti e ne cedono altri ai distributori privati. Succede di rado che una rete televisiva accetti una coproduzione in cui sia costretta ad acquistare un programma prima ancora che la
produzione cominci. I produttori privati, quali Rainer Moritz o NVC, investono
denaro e cercano soci, quindi cercano di recuperare l’investimento distribuendo il programma a livello internazionale.
Ora vi farò una breve descrizione riassuntiva del mercato e delle persone
che vi partecipano. In primo luogo abbiamo le TV generaliste, soprattutto le
reti pubbliche, che sono state per lungo tempo le uniche a produrre opera per
la televisione ma nell’ultimo decennio il panorama del mondo dei media è
cambiato enormemente. Le reti private sono diventate un fattore economico rilevante per le emittenti pubbliche perché molte di queste ultime non traggono
la totalità dei loro introiti da tasse o abbonamenti ma vengono finanziate per il
50% dalla pubblicità, mettendosi dunque in competizione con le reti private.
L’industria pubblicitaria richiede ascolti elevati, e grandi share di pubblico;
questo spiega perché i programmi dedicati alle arti ottengono spazi sempre più
ristretti, e quando alfine vengono trasmessi intorno a mezzanotte, è solo per
«assolvere al compito educativo» della televisione.
L’IBU sta cercando di creare qualcosa di simile a un pool per quanto riguarda programmi operistici e d’arte, come accade alla radio. Il presidente in
carica del progetto ha finora fallito a causa delle difficoltà legate all’acquisizione dei diritti; per fare un esempio, se la Radiotelevisione austriaca realizza
un programma a Salisburgo, acquista soltanto i diritti per l’Austria e non per
tutta Europa perché i costi sarebbero troppo elevati. I diritti sono indispensabili per poter cedere il programma al pool europeo, di modo da permettere alle
televisioni irlandese o ungherese di trasmetterlo gratuitamente, in cambio di
una loro produzione. Un altro problema è che vi sono soltanto quattro spazi
dedicati all’opera annualmente, quindi in realtà non ha molto senso creare
una cooperativa di programmi poiché i contenuti degli spazi destinati all’opera vengono stabiliti dal pubblico e dai politici: Salisburgo, la Wiener Stadtsoper, il Festival di Vienna e rimane un solo spazio per una coproduzione inter22
nazionale. Lo stesso accade in Gran Bretagna e in altri paesi: prima bisogna
coprire le produzioni locali e in seguito si possono cercare coproduzioni internazionali. In Italia credo che abbiate un contratto con La Scala di Milano,
quindi metterete l’accento sulla Scala, non sull’Opera di Stato di Vienna.
Avendo soli quattro spazi a disposizione annualmente, trasmetterete opere da
Milano e altre che interessino il pubblico italiano più delle produzioni di Vienna o Salisburgo.
Per dimostrarvi quanto siano stati ridotti negli ultimi anni gli spazi televisivi dedicati all’opera prenderò in esame la Danmarks Radio, l’ente radiotelevisivo danese. Fino al 1995 era prevista la messa in onda di otto opere e cinquanta ore di musica classica l’anno, che sono state ridotte a quattro opere e
venti ore di musica classica. La persona preposta all’acquisto di programmi
musicali per conto della Danmarks Radio, il signor Friedman, lavora part time,
e si vocifera che abbia trascorso l’estate a Roma lavorando come guida turistica perché la sua rete televisiva di appartenenza non ha più bisogno di lui.
La televisione svedese, per esempio, ha mantenuto cento-centocinquanta
ore di musica classica l’anno, delle quali il sessanta per cento di produzione
proprie e il quaranta di materiale acquistato sul mercato internazionale. Hanno stretto un accordo con Drottningholm in base al quale producono un’opera
del loro cartellone ogni anno; tale produzione ha un costo approssimativo di
3.000.000 di scellini austriaci, che corrispondono a 270.000 dollari statunitensi; ogni cinque anni la televisione svedese produce un’opera registrata in studio, l’ultima delle quali è stata The Rake’s Progress. Dal 1993 hanno interrotto il loro contratto con Rainer Moritz, quindi non effettuano vendite a livello
internazionale.
La Radiotelevisione svizzera, nel cantone francese, ha una cinquantina di
concerti o balletti ogni anno, ma soltanto un’opera che viene trasmessa da Ginevra. Hanno stipulato un accordo molto interessante con il Teatro dell’Opera
di Ginevra in base al quale anche i musicisti e il cast partecipano agli utili derivati dalle vendite. Sono quindi in grado di produrre a buon prezzo e vendono
molto in America Latina e Turchia, per esempio. Fino all’anno scorso la radiotelevisione della Svizzera italiana trasmetteva quindici opere ogni anno, la
domenica sera alle 20.30 sul Secondo canale ma non so se sia ancora così.
Attualmente sono in ascesa i canali tematici. Come ho appena detto, i canali pubblici generalisti hanno ridotto drasticamente gli spazi dedicati alla
musica classica, tuttavia gli imprenditori privati sostengono che esista un mercato di musicofili disposti ad abbonarsi a un canale tematico pur di poter vedere opere che non vengono più trasmesse dalla televisione gratuita. I dirigenti
delle televisioni pubbliche attraversano un momento difficile: da un lato perdono quote di mercato rispetto alle televisioni private generaliste a causa delle
trasmissioni incentrate su giochi televisivi e altro, e dall’altra perdono spettatori «di qualità», che sono il pubblico ideale per i canali tematici.
In Italia vi è una situazione per cui RAI-SAT è un canale tematico ed è al
tempo stesso un’emittente pubblica, ed è uno degli unici casi del suo genere. Vi
è anche un canale privato dedicato alla musica classica.
In Germania c’è un canale di musica classica, in Francia ce ne sono due,
negli Stati Uniti c’è «Ovation» e in Giappone «TV Theater», e molti altri stanno nascendo.
Prendiamo per esempio il modo in cui opera «Musik», che secondo me è il
canale tematico di maggior successo per quanto riguarda gli ascolti; secondo i
dati in mio possesso hanno circa un milione di abbonati, che è una cifra elevata. Acquistano circa l’ottanta per cento della programmazione e producono il
rimanente venti per cento. Come ho detto prima, producono soltanto musica
cameristica che risulta più economica, perché non diposngono di mezzi suffi23
cienti per produrre opere. Il loro budget per i programmi è di 40.000.000 di
scellini austriaci l’anno, che corrispondono a 600.000.000 di Lire italiane. Acquistano programmi che costano circa mille-duemila Dollari statunitensi l’ora,
quindi i detentori dei diritti non hanno molto interesse a vendere ai canali tematici, perché se rapportiamo queste cifre ai costi della produzione di un’opera... Produrre un’opera costa circa un milione e mezzo di Dollari statunitensi,
e se la si vende a mille-duemila Dollari l’ora non si recuperano i costi di produzione. Quindi perché i distributori vendono ai canali tematici? Perché questi
canali acquistano i programmi in grandi quantità (circa cinquecento ore per
volta), e non prendono soltanto programmi di richiamo ma acquistano anche
la musica da camera, i documentari, ecc. Ad esempio, Musik ha bisogno di
mille ore di programmazione l’anno; hanno una programmazione di venti ore
divise in cinque blocchi; ogni giorno aggiungono quattro ore di nuova programmazione, quindi se si guarda questo canale ogni giorno alla stessa ora si
possono vedere programmi diversi. Aggiungendo soltanto quattro ore al giorno, si ha bisogno di mille ore l’anno.
Attualmente si discute molto sul problema che dovranno affrontare i canali
tematici quando avranno finito di trasmettere tutto il materiale d’archivio. Una
volta trasmesso tutto cosa succederà? I canali tematici non hanno il denaro
necessario per produrre ma hanno bisogno di molti programmi; allo stato attuale la maggior parte di questi canali non può recuperare i costi di nuove
produzioni con gli abbonamenti. È un bel problema e si discute molto sui modi
per ridurre i costi dei programmi. E si torna a parlare di diritti d’autore, diritti
di sincronizzazione, cachet degli artisti; si discute inoltre di ridurre i costi tecnici mediante l’uso di mini telecamere che consentono un abbattimento dei costi per lo staff.
In futuro si vedrà quale accoglienza verrà riservata a tali programmi, poiché gli amanti dell’opera esigono la qualità. Sono musicofili ma le ricerche di
mercato mostrano che sono anche appassionati di nuove tecnologie. Se viene
lanciata una nuova attrezzatura tecnica, le prime cose a essere vendute sono la
pornografia e la musica...
Possiamo dare uno sguardo veloce ai produttori indipendenti: in gran parte sono appassionati produttori di programmi dedicati all’arte e alla musica.
Allo stato attuale la maggior parte di loro non si arricchirà producendo programmi musicali o d’opera perché è così difficile trovare spazi sulle reti internazionali. Se un produttore indipendente intraprende una coproduzione su iniziativa privata, l’ottanta per cento dei costi viene coperto dalle reti pubbliche e
il restante venti per cento viene finanziato in un secondo momento, col ricavato
della messa in onda sui canali tematici o vendendo il prodotto in home video.
Se non è possibile ottenere il finanziamento dell’ottanta per cento dei costi di
produzione nessun produttore indipendente vorrebbe correre rischi.
Vi sono cinque grandi società di produzione che scelgono questa strada.
Rainer Moritz, con sede a Monaco di Baviera e a Londra, non ha preferenze di
territorio o lingua; produce programmi della Sydney Opera, Opéra de Lyon,
Savonlinna, Salzburg, ecc. Altre, come la Unitel di Monaco di Baviera, hanno
preferenze territoriali e di lingua: si occupano perciò soltanto di produzioni tedesche o austriache. Un’altra grande società è la Euroarts di Stoccarda; negli
ultimi anni ha fatto molti documentari ma nessuna opera e ora sta cominciando a interessarsi anche ai film. Abbiamo poi la BBC, naturalmente; il suo crescente impegno in campo musicale è dimostrato dalla produzione di CD che
attingono ai suoi archivi. NVC è una costola della Warner Music, e anche essa
ha smesso di produrre opere perché non riesce a recuperare i costi di produzione. Come le altre società, la NVC è disposta a rischiare solo per il dieci per
cento.
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Poche parole riguardo l’Opéra de Lyon; è uno dei pochi teatri d’opera diventato «imprenditoriale» in quanto producono opera loro stessi. Il teatro è
stato chiuso per qualche anno, credo dal 1987 al 1993, per una ristrutturazione completa; sono rimaste soltanto le mura esterne mentre gli interni sono stati
completamente rinnovati. In questo periodo i dirigenti hanno avuto modo di
elaborare una strategia di marketing; hanno negoziato un contratto con i sindacati di musicisti e tecnici e hanno sviluppato una politica per le loro produzioni audiovisive. Dopo il 1993, quando il teatro è stato riaperto, ha ospitato
eventi dell’IMZ (Opera Screen e Dance Screen) e hanno così avuto occasione
di prendere contatto con il mondo della distribuzione televisiva, i produttori indipendenti e le case discografiche. Hanno quindi cominciato a produrre fino a
sette opere l’anno in forma di disco e video, scegliendo non il grande repertorio ma le opere meno conosciute. È andata abbastanza bene, sono riusciti a
pareggiare i costi ma nel 1996 hanno ricevuto una denuncia da parte del sindacato (per quanto ne so) che accusava i dirigenti di averli raggirati in sede
contrattuale. Ora i dirigenti sono cambiati ma è un peccato che l’iniziativa sia
finita così.
Vorrei fare una domanda al collega Ilio Catani, per mia curiosità. Prima
ho detto dell’interesse particolare che RAI-SAT mostra nei confronti della musica, e voi avete un concorrente in ambito privato, la Deplus Classica. Vorrei
che esprimessi la tua valutazione della situazione fra voi e l’emittente privata
perché non sono sicuro che vi sia sufficiente pubblico per entrambi in questo
campo così concorrenziale. Come vedete il futuro?]
ILIO CATANI
Io sono stato a RAI-SAT per circa due anni e non ho vissuto proprio appieno le vicende del canale, comunque ho potuto rendermi conto di alcune cose: la
situazione di RAI-SAT come canale tematico è ancora particolare, nel senso
che è un canale tematico ma non privato, si vede in chiaro, cosa che significa
che non c’è bisogno di abbonarsi per ricevere i programmi di RAI-SAT, è sufficiente installare una parabola e munirsi di un decoder, a differenza di CD
Classic, un canale tematico a tutti gli effetti, laddove per ricevere i programmi
bisogna sottoscrivere un abbonamento con la società. Vi chiederete come venga finanziato il canale tematico di RAI-SAT. Finora con un budget RAI, perché
RAI-SAT era un vero e proprio settore della RAI. Dal 1° luglio di quest’anno
c’è stata una scissione dal punto di vista burocratico-contrattuale, per la quale
RAI-SAT si è staccata dalla RAI, diventando una società per azioni in cui la
maggioranza del capitale è detenuto dalla RAI, che quindi continua a finanziare
una buona parte dell’attività di RAI-SAT. Se c’è la possibilità di due canali tematici in Italia? Finora la convivenza è stata possibile, forse grazie al fatto che
non c’è concorrenza sul piano della sottoscizione degli abbonamenti. Inoltre,
uno spazio ci potrebbe essere nel senso della differenziazione delle proposte di
programma.
Durante la mia permanenza a RAI-SAT sono state prodotte quattro opere liriche, che erano l’Orfeo di Monteverdi al Teatro Comunale di Firenze per la regia di Ronconi e la direzione musicale di René Jacobs; La serva padrona di Pergolesi in un allestimento molto particolare e divertente; Orione, di cui abbiamo
visto un frammento ieri; l’ultima e la più recente Una cosa rara di Martín y Soler. Quindi, la differenziazione sta nella proposta musicale; quattro opere in un
anno non è poco, se confrontate anche con la capacità produttiva delle altre reti
RAI. La prima rete notoriamente si sofferma solo sui grandissimi avvenimenti:
l’apertura della Scala e altri eventi di una certa rinomanza e, se vogliamo, anche
di una certa ridondanza; RAI 2 ha fatto l’apertura dell’Arena di Verona; RAI 3
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ha fatto altre opere che non ricordo, e ha tutto un suo settore dedicato all’opera
lirica che non è quello tradizionale, come vedremo in seguito perché vorrei che
ci fosse una nostra collega che illustra un suo programma.
Apro una parentesi e aggiungo qualche osservazione a quanto diceva prima
l’amico Patay. A differenza delle altre reti televisive europee, la RAI non ha
degli spazi fissi predestinati in maniera rigida alla musica (4 o 5 opere l’anno,
per esempio) ma il palinsensto è piuttosto aperto, per cui può capitare che in un
anno vengano trasmesse molte opere e in un altro meno. Dipende anche da quel
che offre il mercato, parlando prevalentemente di produzioni di teatri italiani.
Oltre l’opera c’è poi la musica strumentale. Per quanto riguarda l’attività di
RAI Sat, anche in questo caso c’è stata una scelta molto particolare ed elitaria.
Tra le produzioni strumentali di RAI Sat ci sono A Floresta di Nono, per esempio, o i frammenti del Prometeo, sempre di Nono, entrambe produzioni del
Teatro «La Fenice» di Venezia; c’è ancora i Salmi davidici di Benedetto Marcello, anche in questo caso visti in maniera tutta particolare, con un’intepretazione visiva che non si limitava semplicemente alla ripresa del coro, il che sarebbe stato molto riduttivo. Anche una versione-visione fantastica dei Carmina
burana di Orff, a metà tra la ripresa del concerto e un video vero e proprio; e
poi, per quel che riguarda la produzione, anche qualce concerto tradizionale. In
gran parte il palinsesto di RAI-SAT è stato alimentato dal magazzino RAI,
quello che sappiamo sia disponibile sia per la lirica sia per la musica strumentale e poi una gran mole di programmi d’acquisto. Partecipai a un incontro in
cui c’erano anche rappresentanti di Canale Classica, i quali facevano presenti le
difficoltà di budget per l’acquisto di programmi che non fossero ormai già ammortizzati sotto il profilo della spesa, dunque programmi che non costituiscono
in alcun modo una novità per lo spettatore. Le cose nuove si pagano, ovviamente, mentre le cose vecchie, una volta coperte le spese, possono essere vendute anche a pochi milioni di lire all’ora. Certo, oggi realizzare e acquisire i diritti, specialmente i diritti mondo, per un’opera costa in Italia non meno di un
miliardo, che è tanto, e giustamente la capacità di acquisto secondo una giusta
tabella di ripartizione che era stata fatta in sede di Eurovisione, tiene conto anche della forza delle singole televisioni. Ovviamente non si può fare una ripartizione divisa in maniera matematica per il numero delle televisioni poiché, con
tutto il rispetto, la televisione rumena non spenderebbe certo cifre astronomiche per avere un’opera di repertorio della Scala o dello Staatsoper. Lo stesso
discorso vale per i canali tematici. Il concetto per il quale il canale tematico
paga poco è che finora il canale tematico ha un numero di utenti limitato. È un
po’ quello che accade per la pubblicità, sapete tutti come viene pagata: uno
spazio pubblicitario in prima serata, prima del telegiornale, costa mille, mentre
uno spazio pubblicitario alle mezzanotte costa cinquanta, perché è proporzionale al numero degli spettatori, di coloro che sono in grado di recepire quel messaggio. Purtroppo, anche in questo caso, è un «bieco» interesse economico che
muove queste pedine. RAI-SAT aveva poche decine di migliaia di utenti, conteggiati solo in base al numero dei decoder acquistati, con un calcolo molto approssimativo, e questo serviva anche come oggetto di persuasione nei riguardi
dei venditori del mercato per dire, ci rivolgiamo a una massa non ancora considerevole, dunque non possiamo spendere più di tanto.
Vuole aggiungere qualcosa, signor Patay?
FRANZ PATAY
I think that everyone here will agree that we hope for a future in which
there will be more opera on television, and more opera being produced,
because there are still many works still waiting to go on the air. Thank you.
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[Credo che siamo tutti concordi nell’esprimere la speranza che in futuro
vengano trasmesse più opere in televisione e che ne venga prodotto un maggior numero, perché ci sono ancora molti lavori che non sono mai stati teletrasmessi. Grazie].
ILIO CATANI
Ringrazio il signor Patay per la sua interessante ed esauriente esposizione.
La parola a Gianni Di Capua per un breve intervento.
GIANNI DI CAPUA
Franz Patay poneva l’interessante questione se ci sia o meno conflittualità
fra la rete tematica Classica e RAI-SAT Show. Non c’è alcuna conflittualità,
sono due entità diverse, anche se ora RAI-SAT Show produce una gamma di
programmi molto differenziata, che riguarda lo spettacolo in generale: opera lirica, teatro, jazz, danza, balletto, ecc. Classica, come dice lo stesso logo, intende produrre solamente musica classica, ed è interessante perché già questa rete
tematica, che viene offerta dal buquet Tele+, però si devono pagare 10.000 lire
in più. RAI-SAT viene inclusa nel buquet di Tele+, nel senso che bisogna pagare 27.000 lire al mese per vederne i programmi, mentre pervedere Classica
bisogna pagare 27.000, e in più 10.000 lire, con un’ulteriore selezione del pubblico. La cosa interessante è che questa rete tematica sta configurando una crisi
dell’Archivio che tu avevi prima espresso. Quando dicevi che a questo punto le
reti tematiche, quando hanno dato fondo ai loro archivi cosa faranno? La rete
tematica Classica è appunto «arrivata alla frutta», e questo è molto interessante.
I segnali sono evidenti, e sono grosso modo due. Innanzitutto la rete tematica
Classica viene offerta in «offerta lancio», non sono più richieste le 10.000 lire
ma vien regalata in visione, c’è insomma una forma di promozione in atto; in
secondo luogo, stranamente iniziano ad apparire programmi di rap: cosa abbia
a che fare il rap con la classica proprio non saprei dire! Esiste allora una evidente crisi di progettualità all’interno della rete, quindi si parla di uomini, di direzione artistica, ecc. RAI-SAT Show, per arginare questa crisi dell’archivio
che si avvicina inesorabilmente, ha individuato nel «one-man-camera», cioè il
film-maker a tutto tondo, che col digitale può fare anche il montaggio a casa.
Ma questo vale per i documentari di classica, che hanno una grossa domanda e
godono di ampia distribuzione. La direzione verso cui RAI-SAT sta andando è
proprio questa. Naturalmente accanto ci sono le grandi produzioni che vengono
realizzate in coproduzione: Guerra e pace è una coproduzione di RAI-SAT, al
20%, RAI 3 e il Festival di Spoleto. Proprio il fatto che i programmi vengano
pagati a ore spiega l’appetibilità di Guerra e pace da questo punto di vista, perché dura quattro ore. Pensate che i mezzi e il tempo impiegati per la produzione di quest’opera sono equivalenti a quelli impiegati per un’opera di un’oraun’ora e mezza. Credo che la crisi degli archivi dal punto di vista sia della
ripresa televisiva di un’opera lirica sia dal punto di vista del documentario può
essere contenuta, arginata dal perfezionamento del suo racconto: noi professionisti della ripresa dobbiamo diventare ancor più bravi a raccontare televisivamente l’opera, sicuramente non possiamo più improvvisare, non possiamo più
usare una cultura pressapochista rispetto al linguaggio televisivo, che va assolutamente assunto attraverso tutto il suo vocabolario, vanno create delle professionalità specifiche che siano in grado di interpretare e tradurre l’opera lirica
attraverso la televisione. Perché dovrei vedere un’opera lirica in televisione.
Me lo dovete spiegare, devo capire! Credo che questo sia un punto molto importante. Sicuramente la crisi degli archivi produrrà un livellamento verso il
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basso – il tramonto dell’Occidente è iniziato da molto – ma non perdiamo d’occhio la necessità della creazione, dell’educazione e della formazione delle professionalità.
FRANZ PATAY
Just want to add something on that. Yesterday, in the booklet that was
distributed in our briefcases, I read a statement I made last year, which was that
people don’t watch opera on TV because it’s boring, and the reason for this is
because story-telling and film-maker skills are not a priority in TV opera
productions; the accent is on «transmission of the art-work». This is the reason
why in the festival that will be held in Vienna we want film-makers to be part
of the jury, to evaluate opera productions and judge if the story was presented
in the best of manners. This is the direction in which we think productions
should go in the future.
[Vorrei soltanto aggiungere un commento. Ieri, nel libretto che è stato distribuito all’interno delle nostre cartelle, ho letto un’affermazione che feci
l’anno scorso, cioè che il pubblico non guarda l’opera in televisione perché è
noiosa. Questo è dovuto al fatto che né lo svolgimento della trama e né l’uso di
appropriate tecniche cinematografiche rientrano fra le priorità nelle produzioni operistiche per la televisione, mentre si pone l’accento sulla «diffusione
dell’opera d’arte». È per questo che al nostro prossimo festival che si terrà a
Vienna ci saranno registi cinematografici in giuria, per valutare le produzioni
operistiche sotto il profilo narrativo e stabilire se la storia sia stata presentata
nella maniera più avvincente possibile. Credo che questa sia la direzione in cui
dovrebbero orientarsi le produzioni in futuro].
ILIO CATANI
Ancora grazie a Franz Patay ma vorrei ringraziare anche Di Capua per il
suo intervento che ci ha lentamente portato al cuore del problema.
Sono le 11.00 circa ed è giugnto il momento della pausa caffè. Ci rivedremo tra una decina di minuti per l’intervento di Grancarlo Landini, che saluto.
(pausa caffè)
Riprendiamo i lavori con la relazione di Landini, Il barbiere di Siviglia di
Rossini in video. Seguiranno l’intervento di Carreira e una breve discussione
che precederà la pausa pranzo.
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GIANCARLO LANDINI
Il barbiere di Siviglia di Rossini in video
Mi scuso con tutti per il ritardo ma questa mattina sono arrivato che il pulmino era già pieno e non ho voluto affliggere i viaggiatori con la mia mole, che
avrebbe senz’altro ingolfato ulteriormente la situazione.
In primo luogo, vorrei spiegare il senso, il motivo e l’obiettivo che mi propongo con questa relazione all’interno di un convegno di questo genere, tra
l’altro non il primo organizzato dall’I.R.TE.M. Il barbiere di Siviglia è stato
scelto con uno scopo meramente esemplificativo: si sceglie un titolo non soltanto di repertorio ma popolare nel senso più ampio del termine e si intende affrontare brevemente, nello spazio dei quaranta minuti concessi e con l’ausilio
di alcuni video (di cui saranno proiettati alcuni spezzoni) alcuni aspetti del problema in discussione. Il primo aspetto da valutare è come sia cambiata la testimonianza in video di un’opera (in questo caso di un’opera popolare di Rossini)
dalla sua prima edizione filmografica di cui ho notizia (un’edizione del 1946)
fino a quelle più recenti: l’ultimo video che vi mostrerò risale al 1992 e riguarda la ripresa RAI di un allestimento filmato da Carlo Verdone. Altro elemento
che si tenta di proporre alla vostra attenzione è cosa questi filmati conservano,
raccontano e permettono di archiviare della fruizione di un capolavoro e di
un’opera popolare come Il barbiere di Siviglia.
Premetto che le mie competenze sono quelle di un critico musicale che si
occupa di dischi e, in particolare, di vocalità e non sono certo quelle di un regista o di un esperto di riprese. Nel proporre i video, pertanto, vorrei fornire materiale di discussione anche ai competenti di questo aspetto presenti in sala, i
quali potranno senza alcun dubbio aiutarci a leggere queste testimonianze.
Dopo questi preliminari, vorrei fare una prima osservazione relativa alle
cronologie delle edizioni. La filmografia, per ovvi motivi, parte dal secondo
Dopoguerra mentre la discografia parte dal 1918 perché Il barbiere di Siviglia
è una delle prime opere a essere testimoniata in disco, sebbene limitatamente
alle edizioni che circolavano all’epoca, senza alcuna pretesa filologica. Tuttavia, anche quando la filmografia comincia a interessarsi al Barbiere di Siviglia
non riesce a tenere il passo della discografia. Se assumiamo come termini di
confronto l’edizione in film del 1946 già citata e l’edizione discografica della
Cetra del 1950, da un lato, e dall’altro l’edizione discografica Deutsche Grammophon con Abbado e i Complessi scaligeri e l’edizione in film di Ponnelle
(peraltro un’edizione importante nella storia interpretativa del Barbiere di Siviglia) noteremo che sostanzialmente fra il primo video e quello di Ponnelle-Abbado ci sono pochissimi titoli, due o tre tra quelli da me censiti e conosciuti,
mentre abbiamo ben 29 edizioni discografiche. Ci troviamo in un periodo «paleo» per quanto riguarda la filmografia, non ancora interessata a conservare documentazioni particolari, mentre la discografia ci inonda di tutta una serie di
edizioni che, tra l’altro, sono quasi sempre dettate dalla presenza di interpreti
famosi; sul piano dei materiali, dell’acquisizione di una maggior filologia, di
una maggiore proprietà esecutiva, ecc. in questi anni e in queste 29 edizioni
tutto è molto discutibile, ma c’è comunque la possibilità di ascoltare alcuni
grandi interpreti in parecchie edizioni, molte captate dal vivo, altre in studio.
Bisogna anche notare che le edizioni filmografiche comprese tra il 1946 e il
1972 (il film di cui vedremo un frammento e l’edizione di Abbado) inducono a
trarre la conclusione fondata e condivisibile che nel ventennio 1950-1970 non
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v’era una curiosità particolare da parte dell’industria discografica a produrre
filmati di edizioni teatrali di queste opere ma piuttosto la tendenza delle televisioni a filmare direttamente alcuni allestimenti oppure, negli anni Quaranta e
Cinquanta, a produrre film, tentando la strada – e qui ci si ricollega a quanto diceva Gianni Di Capua – di una trasposizione dell’opera in un linguaggio diverso. Tale tentativo potrebbe essere giudicato maldestro e opinabile ma risulta
per certi versi interessante perché evidenzia come forse la strada da percorrere
sia quella di inventare (il «come» dovranno deciderlo gli esperti) un linguaggio
televisivo alternativo, capace di recepire l’opera e di riprodurla.
Le prime due edizioni filmiche del Barbiere di Siviglia, una produzione
della Titanus del 1946 e una produzione del 1955 conservata nell’archivio RAI
e realizzata per la parte operistica dall’Opera di Roma e per la parte sinfonica
dall’Orchestra RAI di Roma diretta dal maestro Franco Ferrara, scelgono due
strade diverse. Nella prima a recitare e a cantare in prima persona sono gli stessi cantanti mentre per quanto riguarda la seconda i cantanti sono sostituiti da
attori, peraltro per l’epoca di chiara fama: nella parte del Conte d’Almaviva,
accanto all’esecuzione di Nicola Monti, tenore che all’epoca andava per la
maggiore, troviamo l’Almaviva di Armando Francioli, accanto all’esecuzione
di Giulietta Simionato troviamo la Rosina di Irene Gemma e, cosa più interessante, accanto all’esecuzione di Vito De Taranto troviamo il Bartolo di Cesco
Baseggio. L’interesse viene da questo motivo: per chi abbia visto il film, la
scelta di Cesco Baseggio nella parte di Bartolo riconduce questa esecuzione
teatrale all’interno di un cliché da commedia goldoniana settecentesca, impostata secondo una regia tradizionale che coopta all’interno di queste scelte interpretative anche Il barbiere di Siviglia, omologandolo. La regia del film è di
Camillo Mastrocinque mentre la regia del film Titanus è di Mario Costa. Di
questo vedremo adesso un frammento che rappresenta l’entrata di Figaro, il
«Largo al factotum», eseguita da Tito Gobbi. Spenderemo poi qualche parola
su questa lettura.
(esempio audiovisivo)
Dalla ripresa si possono ricavare alcuni elementi di riflessione. In questa
scena il regista si colloca sostanzialmente all’interno della tradizione operistica; gli interpreti si muovono con una maggior disinvoltura consentita dal fatto
che non stanno compiendo lo sforzo di cantare. In sostanza, ci troviamo all’interno di un teatro di posa con una impostazione di tipo tradizionale, e tuttavia
questa scena propone una novità interessante, che consiste negli interventi e nei
primi piani sul Conte d’Almaviva che occhieggia Figaro, ne osserva il carattere
e, nel frattempo, progetta già di servirsene in qualche modo. Detto questo, la ripresa televisiva permette in questo caso al protagonista, Figaro, una grande
esuberanza ma, tutto sommato, non si tenta alcun tipo di lettura diversa e neanche di uscire da alcun cliché: lo stesso costume di Figaro è nella forma più tradizionale, c’è questo girare simpaticamente per la piazzettina e mostrare l’esuberanza del personaggio, peraltro mediante una recitazione molto semplice.
L’altra soluzione che vorrei mostrarvi, con un salto cronologico piuttosto
ardito, ci porta al 1986. Questo salto è dovuto al fatto che si tratta della seconda
edizione filmica che propongo in questa sede mentre le altre sono solo riprese
di spettacoli teatrali che, in quanto tali, comportano un altro tipo di problematica. Si tratta tra l’altro di una ripresa filmica che ha visto la cooperazione della
RAI, della Tristar Film TV, della Bibo TV e della TVP 2 e che è stata realizzata in un paese dell’Est, con l’Orchestra Sinfonica e il Coro di Varsavia diretti
da Gabriele Ferro, la regia di Frank Eriquel con l’aiuto e i costumi di Salvatore
Russo; questo per quanto riguarda la parte filmica. Vi cantano William Matteuzzi, Francesca Franci, Leo Nucci, Alfredo Mariotti. Nel brano che vedremo
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e poi commenteremo brevemente vediamo Matteuzzi e Nucci nel duetto
«All’idea di quel metallo» dal primo atto.
(esempio audiovisivo)
In questo film le scelte sono a mio avviso giudicate sotto il profilo puramente estetico, nel senso che la situazione è nettamente peggiorata rispetto al
1946: se questa è la strada scelta per far circolare un capolavoro come quello
rossiniano in film si può capire perché il pubblico non si affezioni all’opera filmata! Ci sono errori clamorosi, primo fra tutti quello di tentare un realismo assolutamente improbabile contro quella che è la natura stessa del linguaggio e
della drammaturgia operistica. Da qui la scelta, per esempio, di ambientare
l’inizio del duetto in esterno, facendo passeggiare per i giardini di Siviglia i due
protagonisti. Il problema più grande di fronte al quale si trova un regista d’opera, un regista televisivo o un regista cinematografico credo sia quello di movimentare la scena, ma il fatto è che i tempi dell’opera non sono veloci e sono fatalmente legati alla sua struttura a numeri che ha delle costrizioni formali ben
precise – uso il termine costrizioni non in senso negativo –, per cui un duetto si
sviluppa in un tempo di attacco, in un tempo di mezzo, in una stretta che deve
essere necessariamente ripetuta. In tal senso, questo duetto facilita il lavoro di
un regista, poiché quello che è il tempo di mezzo in realtà è estremamente movimentato, con il numero quindici a mano manca, non è il solito tempo lento o
adagio, con l’aumento della fiorettatura dei cantanti. C’è quindi un notevole
movimento dovuto al fatto che siamo in un’opera buffa, eppure lo horror vacui, il terrore del vuoto televisivo, qui si mostra appieno e viene riempito con
una serie di «trovate», come quella di passare improvvisamente e senza una
spiegazione logica da un ambiente all’altro, dall’esterno all’interno. All’interno
la strada del realismo diventa assai più impraticabile. Se all’esterno c’è almeno
il contrasto tra i due personaggi che circolano cantando, con un fondale vero,
l’interno è costituito da una improbabile taverna gitana, sivigliana, dove si vedono avventori che bevono e dove, a un certo punto, compare anche una ballerina di flamenco che, in qualche modo, cerca di «buttarla» sulla Spagna. Sempre per quanto riguarda il campo visivo, devo dire che lo horror vacui prende
moltissimi registi che lavorano al Barbiere di Siviglia. A mo’ di esempio, cito
l’edizione scaligera di quest’anno, con la regia di Alfredo Arias, il quale, per
movimentare questo duetto, su un palcoscenico vastissimo utilizzato in tutta la
sua grandezza, spropositata per questa commedia, fa una serie di scelte che per
la loro demenzialità riescono anche a far ridere: «All’idea di quel metallo / … /
un vulcano la mia mente», ed ecco apparire un piccolo vulcano semovente che
spara lapilli! O, addirittura, quando Figaro parla dei pettini e delle forbici scende dall’alto del palcoscenico un gigantesco pettine e delle gigantesche forbici.
Un altro elemento che contrasta con l’idea filmica è la recitazione dei due personaggi, assolutamente improponibile sebbene potrebbe anche tenere su un palcoscenico d’opera. Nucci opta per il cliché di un Figaro «simpaticone», con
uno «smile» a 360° per tutto il tempo della ripresa. C’è anche un altro elemento
che agisce e che già era stato suggerito da Confalonieri, quando, nel 19491950, recensiva le recite dell’As.Li.Co., che si svolgevano nel piccolo Teatro
Nuovo a Milano dove il palcoscenico è talmente vicino alla platea che gli spettatori finiscono per essere seduti in mezzo a Rigoletto e a Gilda. Secondo Confalonieri con queste distanze ravvicinate il meccanismo non funziona più e sarebbe necessario cominciare a ripensare qualcosa. In una ripresa filmica di
questo genere, non solo siamo vicini ma siamo «dentro», nel senso che abbiamo Figaro e Almaviva a portata di mano; il che risulta ulteriormente imbarazzante per lo spettatore che assiste, perché tutte le magagne di una recitazione da
attore di spettacolo lirico, lo stesso trucco, gli stessi costumi (qui non lussuosi)
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finiscono per produrre un’impressione davvero deleteria e a non sortire il risultato che probabilmente il film si propone.
Se passiamo invece alle riprese di allestimenti teatrali, il video Deutsche
Grammophon di Jean-Pierre Ponnelle deve essere considerato a suo modo storico, prima di tutto perché traspone in versione filmica l’edizione critica del
Barbiere di Siviglia curata da Alberto Zedda e già conosciuta attraverso le rappresentazioni salisburghesi e poi scaligere. In secondo luogo, è un tentativo autorevole di portare alla conoscenza di un pubblico più vasto le regie di JeanPierre Ponnelle, che col trittico rossiniano, Il barbiere di Siviglia, Cenerentola
e L’italiana in Algeri, ha contribuito in maniera definitiva a riportare il treno
delle regie rossiniane su una rotta precisa attraverso la stilizzazione. Ma chi ha
avuto modo di vedere queste regie prima in teatro e poi in film ha purtroppo
constatato come questo passaggio (il caso di questo video non è quello di una
ripresa live) abbia provocato un fenomeno di «imbalsamazione» delle regie
stesse: la stilizzata ironia, il garbo, il modo graffiante di osservare Rossini, il rispetto verso il teatro rossiniano nel rivisitare il concetto di «buffo» attraverso
una lettura più rispondente all’esigenza del gusto moderno; ecco, tutto questo
nella trasposizione filmica finisce per essere più imbalsamato, meno vivo e
meno interessante di quanto potesse risultare in teatro. Di questo famosissimo
video vi offro il finale del primo atto, «Mi par d’esser con la testa», dove chiaramente il montaggio registico è determinante.
(esempio audiovisivo)
Questa sequenza pone con estrema chiarezza una serie di questioni, a mio
avviso non risolte. Ponnelle deve trasporre in film la stretta di un concertato. Il
primo problema che gli si pone è che la visione dell’opera in teatro è frontale, il
che in televisione risulterebbe assolutamente soporifero. Da qui l’idea di spostare la macchina in modo da inquadrare i personaggi principali, minori e il
coro da diverse angolazioni. Questa scelta è abbastanza frequente presso i registi: nella Tosca del Covent Garden con Cornell MacNeil ci sono magnifici effetti di riprese dall’alto che, ad esempio nella scena del Te Deum, danno
un’idea di grandiosità e di movimento. Nel nostro caso, tuttavia, poiché la telecamera viene collocata proprio al centro della scena e fa primi e primissimi
piani dei personaggi, a Ponnelle si pone un ulteriore problema: come costringere i cantanti a eseguire un brano che esige una posizione frontale e un movimento limitato di recitazione, perché tutti devono mantenere la nota, la sequenza della musica, ecc.? Il risultato è che in taluni passaggi il testo musicale viene
ridotto a mera colonna sonora: noi ascoltiamo le voci che cantano ma i personaggi sono impegnati a fare tutt’altro, il che produce un gravissimo scollamento tra il ritmo musicale e la scelta del regista, il quale, per ottenere un effetto,
privilegia la ripresa filmica e fa diventare la musica, appunto, colonna sonora;
ma lo scollamento più grave è soprattutto di carattere drammaturgico, perché
uno degli elementi più interessanti di questa stretta è il modo in cui Gioachino
Rossini riesce a trasformare la perfetta costruzione musicale in un evento non
solamente teatrale ma drammatico, che poi si universalizza nel concetto della
«follia» rossiniana. Questo concetto, che passa attraverso una struttura musicale, qui diventa una baraonda, una rissa da film, peraltro organizzata con poca
vivacità, con trovate non sempre perfettamente riuscite, con inserimenti dove,
oltretutto, il carattere dei personaggi, che in questa stretta risulta perfettamente,
nonché il rapporto tra i personaggi e la loro vocalità, che in Rossini è sempre
costante, qui si dilatano in una scena che, tutto sommato, risulta meno movimentata di quel che si possa credere.
Adesso prenderemo in esame un altro esempio di regia, che può essere
considerata fra le più interessanti e curiose degli anni Novanta, quella di Dario
32
Fo realizzata in Olanda. Ne vediamo assieme un frammento che riguarda un altro momento «scatenato» della commedia, in cui la regia interviene in modo
determinante. Siamo nel secondo atto, al concertato che segue l’entrata di Don
Basilio.
(esempio audiovisivo)
Non entriamo nel merito della valutazione della regia di Fo ma in quello
del modo in cui essa viene ripresa. Il regista televisivo opta per una lettura che
chiarisca i vari interventi dei personaggi, per cui tendenzialmente, almeno nella
prima parte, la telecamera si sposta permettendo allo spettatore di seguirli.
Quando però interviene Don Basilio, il regista sceglie di puntare tutto su questo
personaggio, il che produce un altro scollamento tra ripresa e sequenza musicale. Alcuni passaggi del Conte d’Almaviva sono, ad esempio, molto importanti
dal punto di vista musicale ma qui non vengono ripresi. Noi sentiamo una voce
che fa da ritornello ma naturalmente perdiamo un elemento fondamentale per
la definizione del personaggio, perché in questo momento il canto di coloratura, il canto fiorito ne esprime lo status e ne sottolinea l’importanza dell’intervento. La scelta di seguire Don Basilio continua per il resto della scena, per cui
soltanto all’arrivo della bara ci viene chiarito che questa scelta tipica del teatro
di regia vuole dare l’effetto dell’aspetto cadaverico che gli altri personaggi vogliono suggerire a Basilio dicendogli che è giallo come un morto. Anche l’entrata delle donne vestite a lutto, degli sbandieratori con i drappi luttuosi, e anche la prima entrata della bara non sono seguiti con sufficiente chiarezza dal
regista, il quale punta sempre sulla faccia di Don Basilio. Nonostante tutto, rispetto a tante altre, questa lettura si pone almeno il problema di far entrare
all’interno del mezzo filmico la drammaturgia di Rossini e di cercare di rendere
il passo teatrale della regia di Dario Fo col passo della regia televisiva.
L’ultimo esempio è un rapidissimo frammento. Lo commenteremo dopo
averlo visto.
(esempio audiovisivo)
Anche in questo caso, non giudichiamo la regia di Verdone che fu molto
discussa e criticata. Le attese del pubblico tradizionale e della stampa specializzata andarono ampiamente deluse. È una regia che funziona sia a livello teatrale sia a livello televisivo, almeno fino a quando, nella fascia del recitativo secco, c’è da narrare un elemento di commedia. Ma quando si trova di fronte allo
scoglio di un momento musicale ben preciso sia il regista teatrale sia quello televisivo non riescono più a «raccontare». Questo momento è il «Cessa di più
resistere». In questa edizione è stato riaperto il taglio del rondò del Conte d’Almaviva, per cui Verdone si trova a dover gestire un blocco che cala come un
macigno sul finale, che è fondamentale nella drammaturgia operistica ma che
diventa un elemento spiazzante in una ripresa e in una regia teatrale che denunciavano un forte horror vacui e, per questo motivo, erano impegnate a muovere
la scena con tante piccole trovate.
Mi rendo conto di aver superato di molto il tempo a mia disposizione, dunque arrivo alla morale della favola. Non ho conclusioni da trarre e lascio aperto
il discorso. Ho però una mia convinzione: tutti i filmati che vi ho mostrato nonché gli altri che ho visionato mi spingono a dire innanzitutto che la filmografia
ha il merito di testimoniare le tappe fondamentali degli allestimenti del Barbiere nel corso di questi cinquant’anni e, sotto il profilo dell’archiviazione, è
senz’altro benemerita. Sotto l’altro aspetto, alla possibilità di mettere l’opera in
video, stando al Barbiere di Siviglia e anche ad altre esperienze di spettatore,
devo dire che non credo: non si può, non ci sta, e questo per un motivo molto
semplice. La drammaturgia del teatro d’opera viaggia su binari che non stanno
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all’interno del ritmo del mezzo televisivo e del mezzo filmico e scegliere soluzioni alternative che sono ovviamente necessarie penalizza la fruizione da parte
del pubblico di quella drammaturgia; drammaturgia che, peraltro, la Bel Canto
Renaissance ha scoperto, per cui oggi possiamo ascoltare Il barbiere di Siviglia
nella versione filologica e con la riacquisizione di questi pezzi, come il «Cessa
di più resistere», che normalmente vengono tagliati. Non possiamo più accettare una esecuzione che faccia piazza pulita di questi elementi fondamentali, per
rendere un’opera una agevole commedia alla quale, peraltro, la televisione e il
film sembra fatichino a star dietro. Concludo con una provocazione. Se dovessi
mettere un’opera in film sceglierei uno spezzone del Romeo e Giulietta recitato
da Di Caprio, con un movimento e un’azione dinamicissimi, veramente filmici;
e, quando Di Caprio-Romeo si trova di fronte a Giulietta, farei ascoltare come
colonna sonora, cercando di sincronizzarla, il «Deh! tu, bell’anima» di Bellini.
Probabilmente i due mezzi, combinati in maniera assolutamente improponibile,
potrebbero ricordare al mondo che esistono i Capuleti e i Montecchi e spingere
qualcuno ad andare a vederli in teatro, senza avvilirli attraverso un mezzo che è
nato per altri motivi.
ILIO CATANI
Dopo aver ringraziato Landini, aprirei molto volentieri una discussione ma
non voglio sacrificare il nostro amico Carreira, al quale cedo subito la parola
per la sua relazione. Mettiamo in memoria tutte le nostre osservazioni: ne faremo oggetto di uno spazio nella seconda parte della giornata, perché indubbiamente le varie provocazioni di Landini sono molto interessanti per tutti noi. Ne
riparleremo.
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XOÁN M. CARREIRA
La produzione televisiva di zarzuela nel periodo tardo franchista
La mia esposizione prevede la proiezione di molti video.
La zarzuela è il corrispettivo spagnolo dell’operetta. In quanto genere nazionale tradizionale, «zarzuela» sostituisce il termine «operetta» che in Spagna
non è usato, sebbene si tratti di due generi diversi. La zarzuela comprende parola, musica, canto e danza. La produzione filmica di zarzuela è molto antica
perché la diffusione popolare della filmografia spagnola, a partire dal cinema
muto, attinge al repertorio della zarzuela come rappresentazione teatrale del libretto accompagnato dalla musica. All’epoca del cinema muto, la proiezione
sullo schermo della zarzuela è accompagnata da un’orchestra che nella fossa
esegue l’intera partitura. Negli anni Trenta vi sono rappresentazioni drammaturgiche del libretto. Questa scuola permane negli anni Quaranta, come testimoniano le molte produzioni ispirate soprattutto alla storia nazionale. Esponente fondamentale della filmografia spagnola fin dagli anni Trenta è il regista
Florián Rey, specialista di cinema popolare, il cui linguaggio è molto influenzato dalla cinematografia sovietica. Vediamo una scena tratta dalla Dolores,
un’opera del 1940 di Florián Rey, che ne fa un film naturalista, con una interessante agilità nell’uso della camera. La scena mostra l’innamoramento dei due
protagonisti.
(esempio audiovisivo)
Florián Rey è un bravissimo regista di cinema popolare che, tuttavia, non
ha avuto alcuna fortuna durante il Franchismo: tutte le innovazioni da lui introdotte in questo campo non hanno incontrato alcun favore ed egli muore
nell’isolamento più assoluto.
La zarzuela, come genere musicale spagnolo, appartiene ai primi anni Quaranta ma nel corso della Seconda Guerra Mondiale cessa di essere prodotta e
viene sostituita da un nuovo genere, una sorta di musical zigano e andaluso. È
solo negli anni Sessanta, quando la televisione spagnola inaugura la prima produzione di stato, che la zarzuela viene recuperata con un progetto che comprende la produzione di tredici lavori, dei quali solo sette verranno realizzate. Per
girarle viene scelto Juan de Orduña, un regista specializzato nel melodramma
storico. Il linguaggio del cinema storico di Orduña è fondamentale per la lettura della sua produzione zarzuelistica. Vediamo la scena di un suo film sulla
scoperta dell’America da parte di Colombo, scena che mostra l’arrivo di Isabella di Castiglia all’accampamento di Ferdinando d’Aragona, suo marito.
(esempio audiovisivo)
Juan de Orduña realizza alcuni film musicali, il più importante dei quali è
El último cuplé girato nel 1953. Molto interessante, come film, è Un caballero
de Barcelona uno spettacolo ipotetico, perché questo tipo di rappresentazione è
impensabile durante il Franchismo, poiché imita lo spettacolo musicale americano dell’epoca. La protagonista è la grande Sara Montiel in una delle sue prime pellicole.
(esempio audiovisivo)
Nel 1954, le conclusioni di un congresso molto importante sul cinema spagnolo tenutosi a Salamanca sono spaventose. Nella sua relazione conclusiva,
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Juan Antonio Bardem scrive: «Il cinema spagnolo attuale è politicamente inefficace, socialmente falso, intellettualmente infimo, esteticamente nullo, industrialmente rachitico». Queste conclusioni sono molto importanti, perché negli
anni Sessanta il Franchismo promuove una politica di apertura al turismo, il
che dà una sensazione di apparente libertà creativa e intellettuale. Alcuni amministratori della cultura sono uomini onesti che credono a questa apertura. Il
direttore della filmografia dell’epoca ha partecipato al congresso di Salamanca
e crede nella possibilità di far emergere un nuovo cinema spagnolo. D’altra
parte, il nuovo direttore promuove un tipo cinematografia basata sul Neorealismo italiano e ripone speranze sul nuovo cinema spagnolo ma la grave crisi
economica del 1967 fa venir meno i finanziamenti a questo settore. Rimasto
senza lavoro, il direttore fa molti film di scarsa importanza e si occupa di pubblicità. Juan de Orduña ha invece l’opportunità di girare per la televisione questa serie di zarzuele tra il 1967 e il 1973.
Negli anni Sessanta il musical americano ha un successo enorme in tutta la
Spagna. I musical sono integralmente tradotti e le parti cantate vengono riscritte in
spagnolo, con testi non sempre fedeli all’originale. Hallo, Dolly! e My Fair Lady
sono i titoli di maggior successo. Juan de Orduña subisce molto l’influenza
dell’immaginario minnelliano, soprattutto della concezione del colore in Minnelli
ma, nonostante l’evidente citazione del musical americano, egli agisce secondo un
chiaro programma politico teso ad esaltare l’immaginario del popolo spagnolo, felice e sano. La sua Revoltosa è la rappresentazione del popolo spagnolo secondo il
Franchismo. Ne vedremo uno spezzone che riguarda l’Ouverture (peraltro un magnifico spartito): una visione ottimista della Spagna e di Madrid, una Madrid inventata, popolare, lirica e senza problemi. La promozione di questa serie è sempre
accompagnata da un discorso sulla superiorità della zarzuela rispetto al musical
americano, perché parla della vita e della realtà spagnole, non di storie inventate.
(esempio audiovisivo)
Una curiosità: La revoltosa è l’unica zarzuela di ambiente popolare mentre
tutte le altre della serie sono di ambiente rurale o borghese. Su questo tema la
personalità di Juan de Orduña agisce in misura fondamentale perché egli non è
un regista di commedia.
Vediamo adesso da El huésped del sevillano, opera ambientata al tempo di
Filippo II, l’aria di uno spagnolo d’onore.
(esempio audiovisivo)
L’uomo è onorabile ed eroico e sua moglie è pura e vergine, una pastorella.
Vediamo un’aria da Maruxa di Amadeo Vives, secondo una lettura che a
quel tempo ha suscitato un certo scalpore. Siamo all’epoca dell’emigrazione di
massa dei contadini spagnoli verso la Svizzera, la Germania e la Francia. Questo è il mondo rurale secondo la televisione spagnola.
(esempio audiovisivo)
È il mondo della Spagna nell’epoca aurea, quando tutti gli uomini spagnoli
cantavano la spada; un mondo rurale, ideale, pastorale. È anche il mondo della
Napoli spagnola. Orduña interpreta un duetto vocale nella Canción del olvido,
una zarzuela storica, con una storia d’amore ambientata appunto nella Napoli
della dominazione spagnola.
(esempio audiovisivo)
Vediamo un esempio del film d’arte di Juan de Orduña attraverso due coreografie. La prima riguarda Bohemios, una zarzuela tratta molto liberamente La
bohème. Nell’Ouverture il regista, mediante un motivo, identifica il protagonista,
36
un poeta miserabile che aspira alla creazione di un’opera d’arte. Il riferimento al
musical americano e all’alta società di Hallo, Dolly! e My Fair Lady è manifesto.
Penso sia un buon esempio dell’influenza diretta della «propaganda del nemico»,
un nemico che è presente nella produzione ed è presente come citazione. Ricordate il ballo corale di Mary Poppins nella scena in piazza? Vediamo il ballo di
Bohemios e ascoltiamo il motivo caratterizzante il poeta bohèmien.
(esempio audiovisivo)
Il balletto classico nel periodo franchista è sinonimo di alta cultura ma esso
dipendeva dal Ministero del Lavoro e non dal Ministero della Cultura: è a tutti
gli effetti una divisione del lavoro, come la corrida e il circo. Le ballerine erano
funzionarie della Scuola di balletto del Ministero del Lavoro. Bohemios è una
produzione del 1968 ed è la prima di Juan de Orduña. L’idea originale era
quella di realizzare una produzione di alta qualità estetica ma la propaganda
vuole zarzuele di ambiente rurale. In ogni caso, la grande passione di Juan de
Orduña è questo tipo di spettacolo.
A una concezione sperimentale è ispirata una zarzuela molto interessante di
Gregorio Martínez Sierra, Las Golondrinas, libera interpretazione di Pagliacci.
La scena che vedremo riguarda la pantomima prevista nell’originale, che fece riscuotere un grande successo al gruppo di attori. Il libretto esige uno spettacolo di
qualità. Per l’occasione Orduña contatta il balletto del Teatro del Liceu e il suo
coreografo Juan Magriñá. La pretesa di Magriñá è quella di fare uno spettacolo à
la page con il Balletto di Marsiglia, ma la visione del Balletto di Marsiglia si
ispira al famoso film Un americano a Parigi. Il risultato è una sovrapposizione di
visioni cinematografiche: per Magriñá è la coreografia di Un americano a Parigi,
per Orduña è il colore di Minnelli. Il risultato è quel che segue.
(esempio audiovisivo)
Questo film ha avuto grande successo ed è tuttora presente in video sul
mercato. Il problema è che esso è l’unica esperienza fatta dalla televisione spagnola nel campo della produzione di teatro lirico. La rappresentazione in video
girata durante uno spettacolo del Teatro Real non ha una regia propriamente televisiva ma è una semplice captazione dell’allestimento teatrale. La televisione
spagnola, infatti, non ha esperienza nel campo della produzione di spettacoli e
questo ha influenzato fortemente il mercato spagnolo dell’opera e dell’operetta.
La condizione della televisione spagnola è quella della storia di un ideale produttivo che non ha trovato continuità.
Questa è la storia di un’esperienza che voleva essere Roland Petit e Vincent Minnelli ma che è morta sul nascere. Grazie
ILIO CATANI
Ringrazio Carreira per aver aperto a molti di noi una finestra su un panorama
completamente sconosciuto. Sapevamo che esiste la zarzuela ma personalmente
non ne avevo mai visto alcun frammento. Ho conosciuto la zarzuela soltanto attraverso i dischi: ricordo che nell’Archivio discografico della RAI sono custodite
molte produzioni di questo genere, che è parte integrante della cultura spagnola.
Siamo arrivati alle ore 13.00 e non v’è spazio per la discussione. Questo mi
dà l’occasione di raccomandare ai colleghi e agli amici che interverranno di attenersi quanto più possibile ai tempi loro assegnati in modo da lasaciare più
ampio spazio alla discussione, che mi è sembrata, anche dagli stimoli ricevuti
questa mattina, assolutamente interessante. Buon pranzo a tutti. L’appuntamento è per questo pomeriggio. Raccomando anche la puntualità!
(pausa pranzo)
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martedì 30 novembre 1999
ore 14.30
Circolo RAI
viale di Tor di Quinto 64
Sala conferenze
presiede
Ilio Catani
RICHARD FAWKES
The Influence of Film Opera on the Recording of Live Opera on Television
Good afternoon. I am sorry I have to speak in English.
In English there is a four-lettered word beginning with «f» which many
people use far to often when they shouldn’t, and that is «film». People talk
about film when they mean video. People talk about a film of a production
from La Scala or from the Met when, actually, it has been electronically
recorded. I make this distinction not to be pedantic, but because they are
different mediums. And when I talk this afternoon about film I mean
something that has sprocket holes, when I say television I mean something that
is electronic or recorded on magnetic tape.
I’d like to start by going back to November 1936. At Covent Garden, in
that month that year, a new opera was given its premiere: Pickwick, based on
The Pickwick Papers by Charles Dickens. It was composed by Albert Coates.
Now it may well have gone the way of his eight other operas had it not been
for something that happened the week before it opened: the entire cast went off
to a building in North London and performed twenty five minutes of the opera
live on television, and it became the very first opera ever to be seen on
television anywhere. At that time the BBC, which had only been transmitting
for eleven days, was on the air for one hour in the afternoon, one hour in the
evening, and not all on Sunday because in England we don’t do anything on
Sundays. Not a lot of people saw it, as only four hundred television sets had
been sold, it was only shown in the London area, and a television set cost one
hundred pounds, which in those days would have sufficed to buy a car. We also
don’t know what it was like because there was no means of recording it: it
came and it went.
But the BBC, along with other broadcasters when they opened up,
established that opera and classical music were going to be part of what was
shown on television, whether the audience liked it or not. And there is
considerable evidence that, in England, the audience didn’t like it: they didn’t
want their time taken up with opera or classical music. However, in the first
three years of the BBC, thirty operas – or parts of thirty operas, because there
wasn’t the time to show a complete opera – were shown.
It’s quite interesting that the operas that were shown initially were the sort
of opera that wouldn’t be shown or even be considered today. There was Venus
and Adonis by John Blow, Thomas and Sally by Thomas Arne, Lionel and
Clarissa by Charles Dibdin, John Gay’s The Beggar’s Opera, which was
considered popular and was therefore given 45 minutes, and the follow up
Polly.
It wasn’t until 1937 that Act III of Charles Gounod’s Faust was shown,
and also Act III of La traviata. Just as a matter of interest, in July 1937 no
operas were shown because the entire BBC closed down to repair the
equipment. In September it reopened with Giovanni Battista Pergolesi’s La
serva padrona, the first complete opera ever to be shown on television
anywhere.
In those early days, it was very difficult to put on not just an opera, but any
form of drama. There were four cameras, linked to a control room: two
cameras had wheels, two cameras were on tracks – they could be pushed
forward and pulled back, and it had to be done obviously out of shot of the
41
others. There was very powerful lighting, which made it very, very hot for
everybody in the studio. Those of you who work in television know that it
wasn’t until 1950 that the first cameras were introduced with turret lenses, and
also separate dollies, wheels cameras that move around.
There is a famous story that not long after television had started, when all
transmissions were live, two of the cameras went down and the engineers went
out during the transmission to repair them, and they had to disconnect the
cables from the cameras. They repaired whatever was wrong, they put the
cables back on the cameras but they were to different monitors in the gallery:
very small point but if you are going out live, frightening.
So of course if there were repeats, in those early days the entire cast, the
orchestra, everybody else had to be brought back and they would run through
the opera again.
The techniques that were used in those early days were very static but they
obviously came from film, in that a master-shot would be done and then closeups, back to a master shot, back to close-ups. There wasn’t an awful lot of
room, yet singers had to see the conductor. In the early days of the BBC, they
were unable to link studios, so the orchestra was in the same studio as everyone
else. The singers couldn’t see the conductor so there had to be an assistant who
would watch the conductor, and try to both match the beat and anticipate it. If
there was a chorus they had to stand absolutely still, not make a noise until they
were due to come in.
Something similar was still going on in the early Seventies when they
recorded Owen Wingrave, a Benjamin Britten opera. Stewart Bedford, who
was the assistant – Britten actually conducted the orchestra himself – had to sit
up in the gantry to conduct the singers. So there was one scene where the
singers were all rolling their eyes heavenward. They thought they looked
dramatic but, actually it was so they could see the beat.
After eighteen months, technicians at the BBC discovered how to put the
orchestra into a separate studio and link it to the main studio, and the first opera
to be done this way was put on the air at Christmas, and it was Hansel and
Gretel (by Engelbert Humperdinck, n.d.t.). It was repeated the following day.
What was interesting about that was that it was decided, even at that stage, that
the audience would not accept singers who did not look right for the part.
Therefore, Hansel and Gretel was done as a mime with the singers in the studio
together with the orchestra, while the actual action was being done by a young
boy and a young girl. Similar things were happening elsewhere: one of the
earliest station to go on air after the BBC was in Berlin: between 1938 and
1940, they showed a film of Mozart’s The Impresario nine times. They also did
a studio production of Bastien and Bastienne in which Elizabeth Schwarzkopf
sang Bastienne. NBC, in 1940, in New York, did the first American opera
which was a shortened version of Pagliacci. Then when World War II came, the
BBC and most televisions went off the air. When it came back on 1945 it was
actually not welcomed by the film industry. Audiences for the film industry
everywhere had gone down, and television was considered to be the threat.
Cinema didn’t like it, sports didn’t like it, entertainment generally didn’t like it.
Theatres refused to allow live relays of plays or operas, athletic meetings were
not allowed, football matches were not allowed, the derby, which is an horse
race in England, was not allowed, all the studios refused to let television have
any old film because they were the rival. Variety artists who worked on
television were blackballed, and told they couldn’t work in the theatres. So the
relationship between film and television was one of total mistrust.
I intend to show that the two came together, and to do that we need to talk
about what state the film industry was in at that stage. Again, I need to go back
42
very quickly to 1895, the official date that is given for the start of the cinema,
because that is when the Lumière brothers gave their first public showing in
Paris. In 1896, one year later, the first operatic arias were filmed, and what is
remarkable about that is that they were filmed with sound on a wax cylinder.
Unfortunately the sound has been lost; the film still exists, and we have no idea
of what the opera was.
In 1900, Victor Maurel, who had created the role of Falstaff and had been
the first Jago, made a three-minute-long film singing arias from those two
operas, with a wax cylinder. The reason this was done was because of the way
the cinema had started. Cinema came not because people sat down and
thought: «We want to show pictures». That was part of it, but it was developed
by people who were basically sound technicians. Thomas Edison had invented
the phonograph, which became the gramophone, and he wanted to put pictures
to his sound. It wasn’t the other way round. He didn’t say: «Here are pictures,
wouldn’t it be nice to have sound!». They had sound and they wanted pictures
to go with it. So, all this early pioneers of cinema were trying to put sound onto
the pictures. They had two massive problems. The first was one of
amplification. There were no means, at the turn of the century, of putting sound
into a large room. It just couldn’t be done. Edison had invented a little box that
you could hear sounds with, and you had a thing rather like a stethoscope. Only
one person at a time could listen to the sound that went with the film. So it
wasn’t much good when cinema started to expand and there were two hundred
people, if only one person could actually hear what was going on. The other
major problem was one of synchronization. The pioneers were, as I said,
inventors, therefore they were trying to merge wax cylinders with the film
image. The very first cameras had electric motors. They were massive, they
couldn’t be moved. So very quickly they came down to hand-cranked motors,
so they could move the cameras. The cameraman would crank and the popular
tune to hum was the Blue Danube, to get the right speed. They then relied on
the projectionist singing the Blue Danube with the same speed to get the
picture and the sound in synchronization. It very rarely happened. However,
there was a fascination with opera, and another reason why opera was chosen
in the early days for early films on far more occasions than people realise, was
because there were – the gramophone had started 1903 – sound recordings
available. So film-makers could match images to a sound which was already
recorded.
There was also a fascination with opera because it told good stories. Most
operas were taken from plays or books, and both the composer and the librettist
had done the work of the film-maker. They had filleted the story, they had cut
it down to its bare bones. It could be shown so the audience would understand
the narrative with the minimum of intertitles (little words in between). If you
then played some opera, immediately people knew the music, they were put in
the right mood. It all helped to build up those early experiments of opera on
film.
Before 1912, in Germany alone there were over 1500 sound films of
operatic arias made, some of which still exist. However, because of the
problem of amplification, these experiments were put to one side. Mainstream
filming became what we call «silent» though, of course, films were anything
but silent: they almost invariably had musical accompaniment, which originally
served to cover the sound of the projector, but then, because film-makers
realised music could alter mood, music was especially written or adapted to go
with films. If you were in a big city you would have an orchestra, if you were
in slightly smaller place you would have a quartet, if you were out in the fields,
you would have a pianist. It’s interesting to note that two very famous singers
43
actually started their careers this way: when they were students, they both
played piano for cinema. They were Richard Talbot and Rosa Ponsell.
By the 1920’s film had moved from the fairground into the main street.
There was a grammar of film making which film-makers were using very well:
things like master-shot, close-up, rhythm of cutting, tracking (because there
were no zoom-lenses in those days), panning, dissolving, film making as we
understand it today. One of the most significant early films was made in 1915,
and it was made by Cecil Blount De Mille: Carmen. I am going to show you a
clip from this. What it isn’t, it isn’t the opera with the sound turned off. It is
made as a film. The reason it was made was because Jessy Lasky and Sam
Goldwyn had formed the company called «Famous Players» in order to buy
Broadway plays to make films. They had no problems with buying the rights.
What they did have an immense problem with was persuading the stars to
appear because stars didn’t think that film was a very good medium. It was
jerky, they thought it would ruin their careers. So they decided that the best
way of showing how good film was, was to get the biggest star around, and the
biggest star in the States at that time was Geraldine Farrar, the reigning queen
of the Met. When Goldwyn first announced that he intended to sign up Farrar,
someone said that it would be easier to get the Statue of Liberty to walk on
water. But, in fact, she was intrigued by the idea of filming, and the idea of
appearing in Carmen without having to sing, so she agreed to go to Hollywood.
This film both made her name (she became one of the first stars of the silver
screen), and it also made Cecil B. De Mille’s name as director. At that time, it
was claimed that this production had absolutely nothing to do with Bizet’s
opera; the reason for that was because the Bizet estate wanted a great deal of
money. We know from what Franz [Patay, N.d.R.] was saying this morning
about the problem with rights, and this was going on even then. Geraldine
Farrar insisted – she was one of the first people to do this – that when she was
filming, she wanted an orchestra on stage playing music from Carmen and De
Mille said «No way, if the estate finds out about this, we have had it». So the
orchestra had to play something else. However, when the film was given its
premiere in Boston, the entire score was taken from Carmen, as you will hear,
and at three moments the singers sang, in this instance, the Habanera. So who
is telling the truth whether had anything to do or not with Bizet?
Could we see the first clip, please? An apology: this has a time code on it.
If anybody thinks critics are always sent better copies of anything than
anybody else, it isn’t true. I once said to someone who distributes homevideo
why is the sound so awful on this and he said «Well, we don’t sell enough to
do quality control. We expect the public to do it for us».
(audiovisual example: Carmen, «Habanera», by Georges Bizet, directed by
Cecil B. De Mille)
Thank you. There were slight changes made, for instance that Carmen had
actually met Don José before the fight in the factory.
Another very important operatic film made in the silent era was in 1926,
Der Rosenkavalier. Hugo von Hofmannsthal had actually written scripts for
films, and he convinced Strauss that it could be a very good idea to make a film
of the opera. It wasn’t the opera. They changed it and Strauss wrote some extra
music, including a march. They changed the end totally. They did away with
the end scene. But although he didn’t arrange it himself, he obviously approved
of it because he conducted the premieres in Dresden in London.
What they didn’t know in 1926 was they were the last of a line because the
film industry was about to undergo a massive change: the introduction of sound.
The «talkies» or «talkers», as they were first called, were about to start and opera
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played a very major part in the introduction of sound to the cinema. Warner
Brothers produced the first sound film. Now, it didn’t have sound dialogue. What
it did have was a soundtrack that was played by an orchestra – instead of having
an orchestra alive in the cinema – and it had synchronized sound effects. It was
Don Juan and it was shown on the 6th of August, 1926. The audience didn’t think
much of it because the live orchestra was much better than this soundtrack. You
know, hearing someone dropping a glass and it going «crash», so what? What did
astonish people was the shorts that had been shown before, which were designed
to show that sound and image could be put together. They showed seven
altogether: three of them contained opera singers. Warner Brothers – remembering
the way that Sam Goldwyn and Jesse Lasky had gone for Geraldine Farrar
because they wanted a bit of class – Warner Brothers had gone to the Met. They
had done a deal so they could negotiate with top singers to make films, and there
was Marianne Talley and, singing «Vesti la giubba», and Giovanni Martinelli,
who was the tenor of the time. That was the film that grabbed everybody: it lasted
about seven minutes, and the sound was so lifelike that a lady waited outside for
Martinelli to come out, because she was convinced he was actually standing
behind the screen singing. He was in the cinema at the time but he wasn’t singing.
This occurred over twelve months before The Jazz Singer, which
everybody says is the start of sound. Martinelli was the first person to show
what an impact sound and image could have together, and unfortunately I
haven’t got that particular tape but what I’d like to show you is a clip from a
film made shortly afterwards as one of the Vitaphone shorts: Beniamino Gigli
and Giuseppe De Luca singing a duet from the Pearlfishers. Before we watch it
I just want to say something about the problems of sound: no one had done it
before, therefore there were no sound stages. They tried putting carpeting on
the walls which didn’t work terribly well. Jack Warner then moved into Oscar
Hammerstein’s opera house because the little studio he was filming in was
right by an intersection on the road and there was too much noise. They found
they couldn’t film there because of the noise; they had to film at night, and it
was only later that they discovered the subway was been built underneath,
which was why there was so much noise during the day. The microphones had
to be placed, the singers could not turn them off, the cameras of course were
not blimped because no one had ever needed a blimped camera, so they built
little glass boxes they put the cameraman, and with the lights these became
very, very hot and there are many accounts of cameramen coming out at the
end of the take and just falling, having fainted. Very uncomfortable.
The other thing is that they had to do each take as a thousand feet of film
because there was no means of editing. The Vitaphone system involved recording
through a series of levers onto a disc which was recorded from the inside to the
out (not the way we used to play LPs but going the other way) and that was what
they believed would keep it in synch and never did. This is why this system only
lasted a couple of years and was then taken over by sound on film. But they had to
do these thousand-foot takes with this incredible heat, and the singers were not
allowed to move out of the line of the camera and the microphone. A lot of people
have said that Gigli couldn’t act, and have used as evidence what I am about to
show you. I think that is very unfair because no one, under those circumstances,
could act. Could we see this little piece of film, please?
(audiovisual example: Beniamino Gigli and Giuseppe De Luca sing «Del
tempio al limitar» from Les pêcheurs de perles by Georges Bizet)
Thank you. I think we get the point: not a lot of movement in that.
Not everybody welcomed the arrival of sound. A lot of people said it
would never catch on: Charlie Chaplin was one who said he could see no future
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for it whatsoever. Once it had been accepted Hollywood, by which I mean the
American film industry, turned its back totally on opera, and went for musicals
and operettas. As a matter of interest, the first person to sing an operatic aria in
a Hollywood movie was Ramón Novarro in Call of the Flesh (1930). He sang
«Vesti la giubba» and an aria from Manon, neither of them very well. What
Hollywood did do was they went for opera singers to appear in operettas and
musicals. So there were a lot of people like Lawrence Tibbet, Grace Moore,
Alice Gentle, Everett Marshall, Lily Pons, John McCormack, who went off to
Hollywood to make films but these were not operas. The only opera at this
stage that was filmed in the States was made in 1932: it was a film of
Pagliacci, a production by a company called «The San Carlo Touring
Company» which has nothing to do with the company in Naples, it was a
bunch of American-Italians who went to places where no other opera went to.
It was run by a man called Fortunio Gallo, and he made a film of his
production of Pagliacci. It was a film of the stage production, it was not an
attempt to make a film: it was simply cameras pointed at the artists singing. He
claimed it was the first film of an opera ever made with sound, and he was
wrong because two years earlier the first film to be made with sound was made
here in Italy and it was Auber’s Fra Diavolo, starring a Croatian tenor called
Tino Patiera, of whom I have never heard – I don’t know if anybody else has
ever heard of him. That was the first sound opera. It was Europe that began to
develop opera on film. Max Ophüls in Germany made a wonderful Bartered
Bride (by Bedřich Smetana, N.d.R.), which is still available, with Jarmila
Novotna (1932).
What these people in Europe were doing was they were making films: they
were not pointing cameras at the stage. They were going out on locations. They
were pacing the film with the music and if necessary they stopped the music,
they had a bit of action and they started the music again. They edited the music
in order to make a film.
There was also the «parallel» film, which was particularly popular with
possibly the greatest operatic film director ever, who seems never to get
mentioned these days and that is Carmine Gallone, who made more films than
any other person. He wasn’t the first. The first was Alexander Korda (1922),
who made a parallel film, silent film, in which a singer singing in Samson et
Dalila (by Camille Saint-Saëns, N.d.R.) paralleled with the biblical story. The
music from the opera was used as the soundtrack. This is what happened until
the war: there was an occasional opera being filmed as a film, arias being used
in different films.
After the war, a series of very important films were made in Italy. These
were initially based on stage productions, and we have seen a clip. In fact, I
want to show a clip of The Barber of Seville, but for a different reason.
There was a surge of film making in Italy and there were probably three
reasons for this. One is that, after having gone through the war, everybody was
looking back to a past that was certain, that had standards that people could
believe in: they wanted something they could cling onto. Opera was
acceptable. Also, the allies who occupied Rome had very strict censorship of
the Italian film industry: they would not allow anything to be filmed unless it
had been passed. The Americans actually attempted to stop the Italian film
industry being reformed, because they couldn’t see any point in having a film
industry. Opera was safe: it was acceptable. The other reason was that at that
time there were a lot of very good young singers who were photogenic, like
Tito Gobbi. I want to show you a clip from the Barber of Seville filmed in the
traditional way to playback, but what I think this shows is one of the principal
problems with filming to playback, and that is the problem of lip-synch,
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making sure that the lips actually coincide with the sound you are hearing. And
is not just that: in this particular clip it’s a problem of performance. The sound
is far greater than the performance you are seeing. The performance is right for
the screen, for the intimacy of the camera but is not right for the sound.
(audiovisual example: The Barber of Seville)
All those Italian films started in the studio. This was partly for economic
reasons, because film-makers weren’t allowed out, but as soon as they could
get out, they went on location and made films.
It is perhaps ironic that it was the arrival of television after the war to lead
to an awful lot of films being made simply because, as we have heard many
times and just to remind you, there was no means of pre-recording during the
Fifties. So if a production was not to go out live, it had to be filmed. And this
led, all over Europe, to a lot of very interesting films being made, but also a lot
of stage productions, particularly in Germany by Rolf Liebermann, were taken
into the studio and filmed on 35 mm. film. One person who jumped very much
onto this band wagon, believe it or not, was Herbert von Karajan: he was the
first conductor to realise the value of film and of self-publicity through
television, so he formed a company to film just about everything that he did.
Also, being Karajan, he insisted on doing everything himself including
directing the films, and one thing these films show is that he couldn’t direct.
I am going to show you a clip from Carmen: this is a 35 mm, film but it
looks like a studio electronic camera production. Except for the fact that the
tape didn’t exist at the time, it would have been done as a tape production.
What it does show is that Karajan, by using a single camera film technique,
didn’t know when to cut, didn’t know how to cut, had no sense – believe it or
not – of when the music requires him to cut. It also had the most abysmal
background acting I have ever seen, I think. Can we see the next clip, please?
(audiovisual example: Carmen)
Thank you. I hope you get the point. When tape did arrive, it was used
principally by radio broadcasters, not for the TV audience because there was no
video recording then. It meant that someone could go into an the opera house,
record a production, and show it the following Sunday, in three weeks’ time, a
year later. And electronic recording became the means of showing, then
preserving, stage productions. Actually, because of there being a facility of
doing things electronically, people started to ask composers to write specifically
for television.
This had an important effect on film because it freed film to do what film
does best which is to take you into a world that is totally created by the filmmaker, and one of the great drawbacks for any television director is that of
having to reinterpret someone else’s interpretation, with which they may not
necessarily agree; they have to try to both be faithful to a stage production and
also to put their own creative gloss onto it.
I was going to show you a clip from Losey’s Don Giovanni to show how a
film-maker has wonderful visual images but still has problems with synch, and
this difficulty very nearly sunk that film as it has sunk many other films:
Trevor Nunn’s Porgy and Bess, recently, made to a five-year-old recording.
You are aware that the artists are not singing at the same time as the video
recording is taking place. One film-maker who attempted to get around some
of these problems was Paul Czinner, a Hungarian who ended up working in
London. He decided – in two productions he directed, Don Giovanni and Der
Rosenkavalier – that he would put three film cameras running simultaneously
onto a production, exactly the same as one does with electronic cameras. And
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to get around the idea of having to use a pre-recorded track, he actually got the
singers to post-sing, so they recorded to the picture; however, to me it still
doesn’t work.
(audiovisual example: Richard Strauss, Der Rosenkavalier, directed by
Paul Czinner)
I have got quite a lot more I would like to say but I am running out of time
so I am going to skip over a couple of things.
To me, one of the basic problems with putting opera onto video or film is
the style of singing: in an MGM musical, we accept – because it comes
naturally out of conversation that someone bursts into song – that perhaps the
synchronization is not quite right. We know it is recorded at a different time.
We are reluctant to accept this in opera, I think, because no matter how
intimate a scene is, the composer has written it for that voice to be heard at the
back of a theatre, and you can never get away from that. Whatever you do with
the camera, that sound is going to be fighting the picture. Some film directors
have taken this idea of never being able to sing properly to its logical
conclusion, and this has being going on for a long time, of actually having
actors playing the parts, so you don’t bother to see the singers at all. I was
going to show a clip from Peter Weigl’s A Village Romeo and Juliet to
demonstrate this, but I won’t because of time.
The television Tosca filmed on location was not a new idea, it had been
done by Carmine Gallone before, who shot on the actual locations. Domingo
himself was in a film earlier, shot on the actual locations, although they
weren’t allowed into Palazzo Farnese because the French would not let them in
since they use it as their embassy. Wide screen, that we were talking about,
was done on film, cinemascope was introduced in order to combat television,
in order to show that the big screen was big and the television was not.
What I’d like to finish by saying is that there is something about opera that
attracts film-makers: it has – as I hope I have shown – since the last century,
and I am sure it will into the next century. Film-makers and television directors
will go on trying to find the perfect way to put opera on video. Thank you.
Come l’opera in film ha influenzato la riproduzione dal vivo dell’opera in televisione
[Buona sera. Mi dispiace ma sono costretto a parlare in inglese.
Esiste una parola inglese di quattro lettere che comincia per «f» e che
molte persone usano fin troppo spesso: «film». A volte si dice «film» quando in
realtà si intende «video». Per esempio, si parla del film di una produzione del
Teatro alla Scala o del Metropolitan quando in realtà si tratta di una registrazione elettronica. Faccio questa distinzione non per essere pedante ma perché
effettivamente si tratta di mezzi diversi. Oggi pomeriggio, quindi, col termine
«film» mi riferisco a una pellicola con perforazioni laterali, mentre «televisione» significa qualcosa di elettronico o di registrato su nastro magnetico.
Vorrei partire dal novembre del 1936, quando al Covent Garden venne allestita la prima di una nuova opera: Pickwick, tratta dai Pickwick Papers di
Charles Dickens, con musica composta da Albert Coates. Probabilmente tutto
si sarebbe svolto come per le altre otto opere del compositore, non fosse stato
per il fatto che, la settimana precedente la sera della prima, l’intero cast si trasferì in un edificio a Londra Nord dove vennero rappresentati e trasmessi dal
vivo, in televisione, 25 minuti dell’opera che divenne, dunque, la prima opera
al mondo a essere teletrasmessa. La BBC aveva iniziato a trasmettere da soli
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undici giorni, andando in onda per un’ora nel pomeriggio, un’ora la sera e facendo pausa la domenica: in effetti noi inglesi non facciamo mai nulla di domenica. Comunque, non molte persone videro quell’opera in televisione se
pensiamo che, fino a quel momento, erano stati venduti soltanto quattrocento
apparecchi televisivi e la trasmissione copriva la sola zona di Londra. Inoltre,
un televisore costava cento sterline, cifra a quell’epoca sufficiente per acquistare un’automobile. Purtroppo, non sappiamo come sia andata la rappresentazione perché, in mancanza di apparecchi di registrazione, venne mandata in
onda e sparì nell’etere.
La BBC, come anche altre emittenti via via che cominciarono a trasmettere, stabilì che l’opera e la musica classica dovessero far parte della programmazione televisiva, che al pubblico piacesse o meno. E, in realtà, ci sono numerose testimonianze del fatto che gli inglesi non gradirono minimamente: non
volevano che il loro tempo venisse occupato da opera e musica classica. Ciò
nonostante, nei primi tre anni, la BBC mandò in onda trenta opere o, per meglio dire, parti di trenta opere, perché non vi era tempo sufficiente per trasmetterle per intero.
È interessante notare che le prime opere trasmesse erano titoli che oggi
non verrebbero nemmeno presi in considerazione: Venus and Adonis di John
Blow, Thomas and Sally di Thomas Arne, Lionel and Clarissa di Charles Dibdin, The Beggar’s Opera di John Gay (a cui furono accordati 45 minuti perché
veniva considerata popolare) e il suo seguito Polly.
Bisognerà attendere il 1937 per vedere opere quali Faust di Charles Gounod o La traviata, delle quali venne trasmesso l’atto terzo. Può essere interessante sapere che nel mese di luglio dello stesso anno nessuna opera venne
mandata in onda perché l’intera BBC dovette chiudere per riparare le attrezzature. Si ripartì a settembre con La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, la prima opera trasmessa per intero in televisione.
In quei primi anni, mettere in scena un’opera o qualsiasi forma di rappresentazione era veramente difficile. Si disponeva di quattro telecamere collegate
a una sala di regia: due telecamere erano montate su ruote e le altre due potevano essere spostate avanti e indietro su rotaie; evidentemente tali spostamenti
dovevano avvenire senza che una telecamera entrasse nell’inquadratura
dell’altra. Le luci erano fortissime e negli studi tutti soffrivano il caldo. Chi lavora in televisione certo saprà che fu solo nel 1950 che vennero introdotte le
torrette porta-obiettivi e i dolly, il cui carrello permette alla telecamera di spostarsi all’interno del set.
C’è un aneddoto che è diventato famoso: poco dopo l’inizio della televisione, quando tutti i programmi andavano in onda in diretta, durante una trasmissione si ruppero due telecamere. Vennero inviati dei tecnici in studio per ripararle; dovettero staccare i cavi dalle telecamere e riparareo il guasto ma
invertirono i collegamenti dei cavi ai due monitor in galleria: un problema non
grave ma se avviene in diretta provoca ansia.
A quell’epoca, se bisognava ripetere una scena tutto il cast, l’orchestra e
gli altri dovevano tornare in studio ed eseguire il pezzo daccapo.
Le tecniche di ripresa usate dalla televisione degli esordi erano molto statiche ma evidentemente traevano origine dal cinema, nel senso che si passava
dall’inquadratura a tutto campo al primo piano e viceversa. Inoltre, non c’era
molto spazio, eppure i cantanti dovevano essere messi in condizione di vedere
il direttore d’orchestra. Alla BBC, inizialmente non era possibile collegare diversi studio tra loro quindi l’orchestra veniva sistemata insieme a tutti gli altri.
I cantanti non riuscivano a vedere il direttore d’orchestra, quindi era necessaria la presenza di un assistente incaricato di guardare il direttore e tentare non
solo di riprodurne la scansione del tempo ma addirittura di anticiparla. Se
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c’era un coro, i componenti dovevano rimanere immobili e mantenere un silenzio assoluto fino alla loro entrata.
Situazioni simili si verificavano ancora nei primi anni Settanta, quando
venne registrata Owen Wingrave di Benjamin Britten. Mentre Britten in persona dirigeva l’orchestra, il suo assistente Steward Bedford dovette sedersi sul
ponte delle luci per poter dirigere i cantanti. Vi è, infatti, una scena in cui tutti
i cantanti hanno lo sguardo rivolto verso il cielo: probabilmente speravano
che ciò conferisse loro un aspetto molto drammatico ma in realtà era l’unico
modo per poter seguire il tempo.
Dopo diciotto mesi, i tecnici della BBC scoprirono come poter collocare
l’orchestra in uno studio separato, collegato a quello principale. La prima
opera trasmessa in questo modo fu Hansel and Gretel (di Engelbert Humperdinck, N.d.T.), andata in onda il giorno di Natale e ripetuta anche il giorno
successivo. Il dato interessante è che già a quell’epoca si stabilì che il pubblico
non avrebbe accettato cantanti dall’aspetto non adatto alla parte. Pertanto
Hansel and Gretel venne realizzato in playback: i cantanti si trovavano nello
studio con l’orchestra mentre due giovani attori mimavano l’azione. Un comportamento simile veniva adottato anche altrove: una delle prime stazioni televisive ad andare in onda dopo la BBC fu quella berlinese, tra il 1938 e il 1940,
con nove repliche dello Schauspieldirektor di Mozart. Venne anche trasmessa
l’opera Bastien und Bastienne, con Elizabeth Schwarzkopf nella parte di Bastienne. Nel 1940 la NBC di New York trasmise un’opera per la prima volta
negli Stati Uniti: si trattava di una versione abbreviata di Pagliacci. Durante la
Seconda Guerra Mondiale la BBC, come la maggior parte delle altre stazioni
televisive, interruppe le proprie trasmissioni. Quando riaprì nel 1945, non fu
bene accolta dall’industria cinematografica, perché il pubblico del cinema era
diminuito e la televisione veniva considerata una minaccia. Non solo il cinema,
ma anche il mondo sportivo e quello dell’intrattenimento in genere non gradirono la ripresa delle trasmissioni. I teatri negavano il permesso di trasmettere
spettacoli teatrali e opere in diretta, non era consentito trasmettere incontri
sportivi (nemmeno il derby, la celebre corsa di cavalli), le case cinematografiche vietavano la messa in onda di film, sia pure datati, perché veniva considerata concorrenza. Gli artisti di varietà che lavoravano in televisione venivano
ostracizzati ed estromessi dai teatri. Il rapporto fra cinema e televisione era di
assoluta diffidenza.
Per arrivare a dimostrare che i due mezzi trovarono un punto d’incontro,
come intendo fare, dobbiamo capire in che stato fosse l’industria cinematografica dell’epoca. Sono nuovamente costretto a tornare al 1895, data ufficiale
della nascita del cinema, perché fu allora che i fratelli Lumière fecero la prima
proiezione pubblica a Parigi. Nel 1896, un anno dopo, vennero filmate le prime arie d’opera; il dato sorprendente è che vennero registrate complete di sonoro, su cilindri di cera. Purtroppo l’audio si è perso ma il film esiste ancora e
non abbiamo idea di quale opera si trattasse.
Nel 1900 Victor Maurel, primo interprete del ruolo di Falstaff e ancor prima di Jago, girò un filmato di tre minuti in cui cantava arie da entrambe le
opere su cilindro di cera. La ragione di tutto ciò è da ricercarsi nelle origini
del cinema. L’avvento del cinema non ebbe luogo perché qualcuno pensò:
«Voglio mostrare immagini». Questo era vero solo in parte ma, in realtà, il cinema venne sviluppato da tecnici del suono. Thomas Edison aveva inventato il
fonografo, che successivamente divenne il grammofono, e voleva aggiungere
immagini ai suoni, e non viceversa. Edison non disse: «Ecco le immagini, che
bello sarebbe metterci anche il sonoro!». Il suono c’era e l’aspirazione era
quella di abbinarci le immagini. Quindi tutti i pionieri del cinema tentarono di
mettere insieme suoni e immagini. Si scontrarono con due enormi problemi, di
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cui il primo era l’amplificazione: alla fine del sec. XIX non esistevano mezzi in
grado di trasmettere suoni in un ambiente di grandi dimensioni. Non si poteva
fare. Edison aveva inventato una piccola scatola per ascoltare i suoni, piuttosto simile a uno stetoscopio. Una persona alla volta poteva sentire i suoni abbinati al filmato, cosa che non serviva a molto quando centinaia di persone cominciarono ad affollare i cinematografi. Il secondo grande problema era
quello della sincronizzazione. I pionieri erano, come ho già detto, inventori
quindi tentarono di fondere i cilindri di cera con le immagini filmate. Le primissime telecamere avevano motori elettrici, erano massicce e non potevano
essere spostate. Si passò molto rapidamente, quindi, a telecamere il cui motore
veniva azionato manualmente, a manovella, di modo da potere essere spostate.
Il cameraman girava la manovella canticchiando Il bel Danubio blu per ottenere la velocità giusta. Bisognava quindi sperare che il proiezionista a sua volta
cantasse Il bel Danubio blu alla stessa velocità del cameraman per fare sì che
immagini e suoni fossero ben sincronizzati, cosa che accadeva raramente. Nonostante tutto, il fascino esercitato dall’opera lirica era forte, e una delle ragioni per le quali sin dagli esordi del cinema vennero realizzate molte più opere di quante si pensi è proprio perché molte registrazioni erano già disponibili,
dato che il grammofono esisteva dal 1903. I cineasti potevano quindi creare
immagini da sovrapporre a suoni già registrati.
Il fascino dell’opera lirica era dovuto anche al fatto che narrava storie avvincenti. La maggior parte delle opere era tratta da romanzi o commedie teatrali, e sia il compositore sia il librettista avevano fatto il lavoro dello sceneggiatore, riducendo la storia all’osso. Poteva essere rappresentata in maniera
che il pubblico seguisse il racconto con un minimo utilizzo di intertitoli didascalici. Se poi si faceva ascoltare un po’ di musica operistica che il pubblico
potesse riconoscere, lo si predisponeva emotivamente a partecipare alle vicende narrate. Ogni elemento contribuiva allo sviluppo dei primi esperimenti di
opera in film.
Prima del 1912 nella sola Germania vennero girati più di millecinquecento filmati di arie d’opera, alcuni dei quali esistono ancora. Tuttavia, a causa
dei problemi legati all’amplificazione, tali esperimenti vennero accantonati. La
maggior parte delle pellicole apparteneva al genere che definiamo «cinema
muto», anche se naturalmente erano tutt’altro che mute: erano, infatti, quasi
invariabilmente dotate di un accompagnamento musicale che in origine serviva
a coprire il rumore del proiettore ma che successivamente, quando i cineasti si
resero conto del potere evocativo della musica, veniva composto o adattato
specificamente per un determinato film. Nelle grandi città l’accompagnamento
veniva eseguito da orchestre, in provincia da quartetti d’archi e, nei villaggi,
da un pianista. È interessante ricordare che due celebri cantanti hanno mosso
i primi passi della carriera, quando erano studenti, in veste di pianisti da cinema: si tratta di Richard Talbot e Rosa Ponsell.
Negli anni Venti il cinema aveva già raggiunto un certo grado di sofisticazione e i cineasti dell’epoca utilizzavano la grammatica e la sintassi della cinematografia con competenza: master-shot (inquadratura che comprende tutta la
scena, N.d.T.), primo piano, montaggio, carrellate (poiché non esistevano ancora lenti dotate di zoom), panoramiche, dissolvenze, insomma, le tecniche cinematografiche che utilizziamo anche oggi. Uno dei più significativi fra i primi
film venne realizzato nel 1915 da Cecil Blount De Mille: Carmen, di cui vi farò
vedere una scena. Si tratta non già della rappresentazione dell’opera senza il
sonoro ma di un vero e proprio film. Venne realizzato da Jessy Lasky e Sam
Goldwyn, che avevano fondato la compagnia «Famous Players» al fine di acquistare i diritti sulle commedie in scena a Broadway onde trarne dei film. Non
incontrarono ostacoli nell’acquisizione dei diritti ma ebbero, invece, grandi
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difficoltà nel cercare di persuadere i divi del varietà a partecipare perché le
star non credevano che il film fosse un buon medium: non era scorrevole e gli
attori ritenevano che avrebbe rovinato loro la carriera. Quindi Lasky e
Goldwyn decisero che il miglior modo per dimostrare le potenzialità del mezzo
fosse quello di ingaggiare la diva più famosa in circolazione, che a quell’epoca negli Stati Uniti era Geraldine Farrar, sovrana del Metropolitan. Quando
Goldwyn annunciò per la prima volta che intendeva scritturare la Farrar,
qualcuno gli rispose che sarebbe stato più facile convincere la Statua della Libertà a camminare sull’acqua. Di fatto, la diva si incuriosì all’idea di venire
filmata e di apparire in Carmen senza dover cantare, quindi acconsentì ad andare a Hollywood. La pellicola rese famosa la Farrar – che divenne una stella
di prima grandezza nel firmamento cinematografico – così come anche Cecil
B. De Mille, che divenne un regista celebre. All’epoca si diceva che la produzione non avesse alcuna parentela con l’opera di Bizet, perché gli eredi del
compositore pretendevano di incassare cifre astronomiche per i diritti. Da ciò
che ci ha spiegato Franz Patay stamattina, sappiamo qualcosa riguardo le
problematiche legate ai diritti d’autore, che già all’epoca creavano difficoltà.
Durante la lavorazione Geraldine Farrar – una delle prime ad avanzare questa richiesta – pretese di avere in scena un’orchestra che suonasse musiche
tratte dalla Carmen mentre lei girava le riprese. De Mille le rispose che non
era possibile perché qualora gli eredi di Bizet fossero venuti a conoscenza del
fatto, ci sarebbero stati guai. Quindi l’orchestra dovette eseguire altre musiche. In ogni caso, l’intera partitura eseguita alla prima del film a Boston era
tratta da Carmen, come sentirete, e in tre occasioni i cantanti eseguirono la
Habanera. Quindi chi dice la verità riguardo il nesso con l’opera di Bizet?
Possiamo vedere il primo esempio video, per favore? Devo farvi le mie scuse
perché nel filmato appare una didascalia che scandisce i minuti trascorsi. Se
qualcuno immagina che ai critici vengano mandate copie migliori che a tutti gli
altri, sbaglia: una volta ho chiesto a un distributore di homevideo perché il suono
fosse così gracchiante e mi rispose che non si vendevano sufficienti copie per fare
un adeguato controllo di qualità, quindi stava al pubblico farlo al posto loro.
(esempio audiovisivo: Carmen, «Habanera», di Georges Bizet, regia di
Cecil B. De Mille)
Grazie. Vennero modificati alcuni particolari della narrazione, per esempio il fatto che Carmen in realtà avesse già conosciuto Don José prima ancora
della lite in fabbrica.
Un’altra importante pellicola operistica dell’epoca del muto venne realizzata nel 1926; si tratta del Rosenkavalier. Hugo von Hofmannsthal aveva esperienza di sceneggiature cinematografiche e convinse Strauss che sarebbe stata
una buona idea realizzare un film tratto dall’opera. Non si tratta, tuttavia,
dell’opera come la conosciamo poiché venne rimaneggiata e Strauss compose
musiche apposite, compresa una marcia. Il finale venne completamente cambiato mediante l’eliminazione dell’ultima scena. Sebbene non avesse curato
personalmente gli arrangiamenti, Strauss evidentemente approvò il risultato
perché diresse l’orchestra nelle prime rappresentazioni di Dresda e Londra.
Ciò che nel 1926 non si sapeva ancora, era che si trattava della fine di
un’epoca perché di lì a poco l’industria cinematografica avrebbe subito una
svolta epocale dovuta all’avvento del sonoro. Stava cominciando l’era dei cossiddetti talkies o talkers (film parlati, N.d.T.), e l’opera ebbe un ruolo di primaria importanza nell’introduzione del sonoro nel cinema. La Warner Brothers
produsse la prima pellicola col sonoro. Intendiamoci, non c’erano dialoghi sonori ma semplicemente una colonna musicale eseguita da un’orchestra – in sostituzione dell’orchestra in carne e ossa presente in sala – ed effetti sonori sin52
cronizzati. Si trattava del Don Juan, che venne proiettato il 6 agosto 1926; il
pubblico non rimase particolarmente colpito perché riteneva che l’orchestra
dal vivo fosse molto meglio di una registrazione. Il fatto che, quando a qualcuno cadeva un bicchiere, si udisse «crash» non suscitò particolare entusiasmo.
Ciò che realmente colpì il pubblico furono i cortometraggi proiettati prima
della pellicola, pensati appositamente per mostrare al meglio ciò che si può ottenere mediante l’unione di immagini e suoni. Ne vennero proiettati complessivamente sette, di cui tre incentrati su cantanti d’opera. Memori del fatto che
Sam Goldwyn e Jesse Lasky avevano scritturato Geraldine Farrar per aggiungere un «tocco di classe» alle loro produzioni, i fratelli Warner si rivolsero al
Met. Si prodigarono in modo da ingaggiare cantanti di punta per le loro pellicole: Marianne Talley eseguì «Vesti la giubba» e apparve anche Giovanni
Martinelli, il tenore del momento. Fu questo il filmato che fece breccia nel
cuore del pubblico: della durata di sette minuti circa, aveva un sonoro così simile al vero che una signora aspettò invano il tenore fuori dal cinema, convinta che Martinelli si fosse nascosto dietro lo schermo a cantare. In realtà, egli
era in sala durante la proiezione ma non aveva cantato dal vivo.
Tutto ciò accadeva dodici mesi prima dell’uscita di The Jazz Singer, universalmente noto come il primo film sonoro. Martinelli fu il primo a dimostrare
quale impatto potessero avere i suoni uniti alle immagini. Purtroppo non possiedo quella particolare registrazione ma quello che vi mostrerò è l’estratto di
un film di poco successivo, un cortometraggio della Vitaphone, in cui Beniamino Gigli e Giuseppe De Luca cantano un duetto tratto dai Pescatori di perle.
Prima della visione vorrei sottolineare alcuni dei problemi posti dal sonoro:
non era mai stato usato prima, quindi non esistevano set insonorizzati. Vennero
fatti alcuni tentativi, foderando le pareti di tessuto, ma il risultato fu ben lungi
dall’essere ottimale. Successivamente Jack Warner si trasferì nel teatro d’opera
di Oscar Hammerstein perché il piccolo studio in cui girava le riprese si trovava vicino a un trafficato incrocio stradale ed era eccessivamente rumoroso.
Warner si vide costretto a girare le riprese di notte a causa del rumore diurno e
solo successivamente scoprì che si trattava dei lavori per la costruzione della
metropolitana. Utilizzavano microfoni fissi che non si potevano spegnere, le telecamere non erano «mdp», ovvero autoblimpate (telecamere silenziose, N.d.T.)
perché non ce n’era mai stato bisognoprima di allora, quindi vennero costruiti
appositi gabbiotti di vetro per i cameramen. Con le luci, i gabbiotti diventavano
caldissimi e vi sono molti aneddoti di cameramen che, una volta usciti al termine di una ripresa, cadevano a terra svenuti. Decisamente scomodo.
Un altro aspetto è che ogni ripresa doveva essere costituita di un migliaio
di piedi di pellicola perché non esistevano mezzi per fare i montaggi. Il sistema
Vitaphone prevedeva che la registrazione venisse effettuata, mediante una serie di leve, su un disco che veniva inciso dal centro verso l’esterno, all’inverso
rispetto al funzionamento degli LP. Si riteneva che in questo modo il sincrono
sarebbe stato garantito ma in realtà non era così. È questa la ragione per la
quale il sistema durò solo pochi anni e venne sostituito dal sonoro su pellicola.
In sintesi, dovevano fare riprese lunghe mille piedi con un caldo insopportabile
e ai cantanti non era permesso muoversi fuori dal raggio di telecamere e microfoni. Molti sostengono che Gigli non sapesse recitare, usando come dimostrazione il video che stiamo per vedere. Credo che sia un giudizio ingeneroso
perché, in quelle condizioni, non era possibile recitare bene. Possiamo vedere
questo estratto, per favore?
(esempio audiovisivo: Beniamino Gigli e Giuseppe De Luca eseguono
«Del tempio al limitar» da Les pêcheurs de perles di Georges Bizet)
Grazie. Credo che si noti la staticità degli attori-cantanti.
53
Non tutti apprezzarono l’avvento del sonoro. Molti affermarono che non
avrebbe avuto alcun seguito; Charlie Chaplin fu tra quelli che dissero che il
sonoro non avrebbe avuto alcun futuro. Una volta che venne accettato da Hollywood – con questo termine mi riferisco all’industria cinematografica statunitense –, il cinema voltò le spalle all’opera per dedicarsi a musical e operette.
Ramón Novarro fu il primo a cantare un’aria d’opera in un film hollywoodiano; si trattava della Sivigliana del 1930 (regia di Charles Brabin, N.d.T.). Novarro cantò «Vesti la giubba» e un’aria tratta dalla Manon, non molto bene
per la verità. L’industria cinematografica di Hollywood ingaggiò cantanti lirici per girare operette e musical. Quindi molti esecutori quali Lawrence Tibbet,
Grace Moore, Alice Gentle, Everett Marshall, Lily Pons e John McCormack
andarono a Hollywood per girare pellicole che, tuttavia, non erano opere. In
questo periodo, l’unica opera prodotta negli Stati Uniti, nel 1932, fu Pagliacci,
una produzione della «San Carlo Touring Company», compagnia che non aveva alcun rapporto con il teatro napoletano. Si trattava di un gruppo di italoamericani che allestiva spettacoli laddove non andava nessun’altro; la compagnia era diretta da un certo Fortunio Gallo, che realizzò una pellicola della
sua produzione di Pagliacci. Si tratta del filmato dell’allestimento teatrale, non
di un tentativo di realizzare un vero e proprio film: le telecamere si limitano a
inquadrare gli artisti mentre cantano. Gallo si fregiò di avere realizzato il primo film di un’opera completa di sonoro ma, in realtà, sbagliava poiché il primo film di un’opera col sonoro venne realizzato qui in Italia e fu il Fra Diavolo
di Auber, con il tenore croato Tino Patiera di cui non ho mai sentito parlare
(non so se qualcuno di voi lo conosca). Fu questa la prima opera con il sonoro, e fu l’Europa a dare inizio all’opera in film. Nel 1932 in Germania, Max
Ophüls realizzò una splendida Sposa venduta (di Bedřich Smetana, N.d.R.),
con Jarmila Novotna, che è tutt’ora disponibile in commercio.
Quelli che venivano prodotti in Europa erano film veri e propri, non filmati in cui veniva ripreso un palcoscenico. Venivano girati in diverse location, il
«ritmo» della pellicola seguiva il ritmo musicale e, se necessario, la musica veniva interrotta durante l’azione scenica e poi ripresa. Si facevano addirittura
dei tagli alla partitura musicale.
Esisteva anche il film cosiddetto «parallelo», reso popolare da colui che
forse è stato il più grande regista di film-opera di tutti i tempi – e che oggi nessuno nomina –, ovvero Carmine Gallone, che ha realizzato più film di chiunque altro. Non fu, tuttavia, proprio il primo poiché Alexander Korda, nel 1922,
aveva realizzato un film muto di Samson et Dalila (di Camille Saint-Saëns,
N.d.R.) in cui, parallelamente al racconto biblico, veniva fatta ascoltare musica tratta dall’opera a mo’ di colonna sonora. Tutto ciò accadeva fino alla Seconda Guerra Mondiale: talvolta un’opera veniva ripresa come fosse una pellicola mentre le arie venivano utilizzate in diversi film.
Dopo la guerra in Italia venne realizzata una serie di importanti film che
prendevano le mosse da allestimenti teatrali, di cui abbiamo visto un estratto.
Ora vorrei farvi vedere un estratto dal Barbiere di Siviglia per un’altra ragione.
In Italia vennero realizzati moltissimi film in quell’epoca, probabilmente
per tre ragioni. La prima è che, finita la guerra, si ricordava il passato come
un’epoca in cui esistevano certezze, valori in cui poter credere: si avvertiva il
bisogno di aggrapparsi a qualcosa e l’opera era accettabile. Inoltre, gli alleati
che occupavano Roma avevano imposto una rigida censura all’industria cinematografica italiana, non permettendo che venisse ripreso alcun soggetto se
prima non aveva superato il vaglio. Gli statunitensi cercarono addirittura di impedire la riforma dell’industria cinematografica italiana perché non vedevano
la necessità dell’esistenza di una simile industria. L’opera era un soggetto sicuro, poiché era accettabile. La terza e ultima ragione è che a quell’epoca c’era54
no molti giovani cantanti che erano bravi quanto fotogenici, come Tito Gobbi.
Voglio farvi vedere un brano tratto dal Barbiere girato in playback; vi si evidenzia uno dei maggiori limiti di tale metodo, ovvero la mancanza di sincronizzazione tra canto e labiale. Non solo, in questo particolare filmato c’è anche un
problema di carattere esecutivo perché il suono è molto più «grande» di quello
che lascerebbe pensare l’esecuzione intima che vediamo sullo schermo.
(esempio audiovisivo: Il barbiere di Siviglia)
Tutti i film italiani venivano inizialmente girati in studio, in parte per ragioni economiche ma anche perché ai cineasti non era permesso lavorare in
esterno. Nel momento in cui ebbero il permesso di farlo, cominciarono a girare
in diverse location.
Ironia della sorte, l’avvento della televisione nel Dopoguerra portò alla
realizzazione di moltissimi film semplicemente perché – come è già stato detto
– negli anni Cinquanta non era possibile pre-registrare le trasmissioni, quindi
se una produzione non poteva andare in onda in diretta doveva necessariamente essere filmata. In Europa, il fenomeno diede vita alla produzione di molti film interessanti ma altresì alla ripresa di molte produzioni teatrali. In particolare, in Germania Rolf Liebermann portò moltissime produzioni sceniche
negli studi televisivi per girarle su pellicola a 35 mm. Un altro irriducibile sostenitore di questo metodo fu, che ci crediate o no, Herbert von Karajan, il primo direttore d’orchestra ad avere capito le potenzialità del film e dell’autopubblicità che ne derivava; fondò una società preposta a filmare qualunque
cosa facesse. Inoltre, trattandosi di Karajan, insisté per occuparsi di ogni dettaglio della realizzazione delle pellicole, compresa la regia; uno degli aspetti
che viene messo in evidenza da questi filmati è proprio il fatto che non era in
grado di dirigere un film.
Ora mostrerò un estratto da Carmen: si tratta di pellicola a 35 mm. ma sembra una produzione girata in studio con telecamera elettronica. Non fosse stato
perché all’epoca non esisteva il nastro, sarebbe stata registrata con quest’ultima metodica. È evidente che Karajan, nell’utilizzo di una tecnica a telecamera
singola, non sapeva dove né come tagliare e non aveva, stranamente, alcuna
sensibilità nel decidere dove la musica richiedesse tagli. Per giunta la recitazione da parte dei personaggi nello sfondo è, credo, la più raccapricciante che io
abbia mai visto. Possiamo vedere il prossimo esempio, per favore?
(esempio audiovisivo: Carmen)
Grazie, credo possiate capire il mio punto di vista. Inizialmente il nastro
veniva utilizzato soprattutto per trasmissioni radiofoniche perché non esisteva
la registrazione video. Il nastro permetteva di registrare una produzione in un
teatro d’opera e di mandarla in onda la domenica successiva, dopo tre settimane, un anno dopo. Le registrazioni elettroniche divennero un modo per trasmettere e successivamente conservare le produzioni teatrali. Di fatto, data la
possibilità delle realizzazioni elettroniche, ai compositori vennero commissionate opere concepite appositamente per il mezzo televisivo.
Questo ebbe un enorme riflesso sul cinema, consentendo al mezzo di esprimersi al meglio, ovvero nella ricostruzione di un mondo interamente concepito
dal cineasta. Uno dei maggiori svantaggi per qualsiasi regista televisivo è
quello di dover reinterpretare un’interpretazione altrui, con la quale non si è
necessariamente d’accordo; entrambi, a loro volta, devono attenersi a una
produzione teatrale cercando di introdurvi anche la propria patina creativa.
Avrei voluto farvi vedere un estratto dal Don Giovanni di Losey per evidenziare come un regista possa creare incantevoli immagini visive pur avendo
problemi di sincronizzazione, problemi che hanno quasi finito per affossare
55
questo come molti altri film, quale il Porgy and Bess di Trevor Nunn realizzato
su una registrazione di cinque anni precedente. Si avverte che gli artisti non
cantano nello stesso momento in cui ha luogo la registrazione video. Uno dei
cineasti che ha tentato di risolvere alcuni di questi problemi è Paul Czinner,
regista ungherese operante a Londra. In due delle cinque produzioni di cui ha
curato la regia, Don Giovanni e Der Rosenkavalier, ha deciso di fare le riprese
con tre telecamere simultaneamente, come si fa con le telecamere elettroniche.
E per aggirare l’ostacolo dell’audio pre-registrato, è riuscito a far sì che gli
esecutori cantassero sulle immagini girate. Per me non funziona in ogni caso.
(esempio audiovisivo: Richard Strauss, Der Rosenkavalier, regia di Paul
Czinner)
Avrei ancora diverse cose da dire ma purtroppo il tempo a mia disposizione si sta esaurendo, quindi dovrò rinunciare a qualche esempio.
A mio giudizio uno dei problemi basilari del trasferire l’opera su video o
film è quello dello stile vocale. In un musical della MGM, laddove si passa con
la massima naturalezza dalla conversazione al canto spiegato, tolleriamo il
fatto che la sincronizzazione non sia proprio perfetta. Sappiamo che la musica
è stata registrata in un altro momento. Ritengo che siamo restii ad accettare
l’utilizzo dello stesso procedimento per l’opera perché – per quanto una scena
sia intima – il compositore l’ha concepita in modo tale che la voce si senta fino
all’ultima fila di un teatro, una necessità cui non si può sfuggire. Qualunque
effetto si possa ottenere mediante un uso acconcio della telecamera viene vanificato dal volume di suono. Da diverso tempo vari registi hanno portato il concetto del non poter cantare appropriatamente alle logiche conseguenze che ne
derivano, risolvendo il conflitto mediante l’impiego di attori, in modo da evitare di vedere i cantanti. Avrei voluto proiettare un estratto da A Village Romeo
and Juliet di Peter Weigl come dimostrazione ma purtroppo non c’è tempo.
La Tosca televisiva girata «nei luoghi e nelle ore del libretto» non fu
un’idea innovativa giacché era stata realizzata in precedenza da Gallone. Domingo aveva già realizzato una pellicola simile, girata nei luoghi originali ad
eccezione di Palazzo Farnese che è utilizzato come ambasciata francese. Lo
schermo largo di cui parlavamo, il cinemascope, venne introdotto per combattere la televisione, per mostrare che il grande schermo ha possibilità diverse
da quello televisivo.
Vorrei concludere sottolineando che le caratteristiche dell’opera attirano i
cineasti: ne sono stati irretiti sin dal secolo scorso (come spero di avere dimostrato) e sono certo che lo saranno nel secolo a venire. Cineasti e registi televisivi continueranno a cercare di perfezionare i modi per proporre l’opera in video. Grazie.]
56
PATRICK J. SMITH
The Problem of the Double Approach to Directing Opera on Television
Opera on video is a specialized art form, removed both from actual live
performance in an opera house, and from sound recordings made in a studio for
release on disc. There are, very broadly, two types of opera on video. One is
made directly for visual consumption, either in a movie house or on television.
The other comprises the operas filmed in a theater – that is, the filming of a
production taking place on an opera stage in front of a «live» audience. This
last type – by far the most common in films now – can have various sub-sets,
such as some adaptation of the production for the television and movie
cameras, or a subsequent filming of the opera onstage in an empty auditorium,
but what it essentially represents is the production of the opera that the operahouse producer (in United States terms, the director of the opera) intended to
be seen by an opera house audience.
I propose to speak about the second type – the filming of an opera
production – dealing with the work of the American producer-director Peter
Sellars. In some cases, his filming has been done in a studio, but in each case it
essentially represents and reproduces the exact staging seen by an audience in
the opera house.
The task of the television director of an existing opera production is
extremely complex, as I don’t need to tell all of you. His idea is to communicate to the viewer, as accurately as possible, what the theatrical producer
put on the stage, without interference in terms of television and without the
interposition of the personality of the television director. This attitude can be
seen as a neutralization of the television director vis-à-vis the stage director,
but in fact it calls to the fore the best and strongest of his talents: that of acting
as a sort of passage through which the stage event can become a television
event.
To the extent that the television director interposes his own vision for that
of the stage director, he weakens and falsifies the other’s work; to the extent
that he consciously moves away from picturing what the stage director has
rendered, the television director not only adds a layer of ideas onto the whole,
but may obscure it – to the detriment of the final, filmed, result. The original is
therefore compromised – as can be the work of the composer and librettist
themselves.
How the television director uses the specific technical devices inherent in
his artistic medium to enhance, make vivid and even clarify in cinematic and
visual terms the work of the stage director is at the center of his task as a
creative artist.
I need not elaborate on how difficult this task is, given the costraints under
which the television director in an opera house works. In the United States at
least, the televions director must film his opera during an actual performance of
that opera before a paying, subscription audience. This audience expects its
money’s worth without interference of cameras, enhanced lighting and the
other distractions of television filming.
The result, quite often, is an approximation of what the television director
holds as an ideal, though it should be said that, owing to the skills of those
involved, more often than not that result is far better than could have been
anticipated. In the current funding climate in the United States, therefore, this
57
approach to the «filmization» of opera peformances will be the one generally
followed, because it is the least expensive.
Unobtrusive but excellent video direction of opera performances have been
accomplished many times, but I will only select, as illustration, one of the finest
short examples from a master of the craft, the television director of opera Brian
Large. It is the Wotan-Fricka scene in Act II of Richard Wagner’s Die
Walkuere, in the landmark Patrice Chéreau staging at Bayreuth. This scene is, of
course, in terms of that opera and of the cycle in general, a pivotal one, since it
is the exact moment when Wotan realizes he has failed in his schemes to control
events and recover the ring. Chéreau, as is well-known, has staged this scene as
a domestic quarrel – very much in the manner of the bourgeois nineteenthcentury theater – but he has included one element outside the purview of the
pièce bien fait. This is an import from another kind of theatrical experience
entirely – an alien intrusion on the Biedermeier scene. It is a Foucault
pendulum. From the beginning of the scene the pendulum is describing a large
circle at stage center – the world ticking away its time. At the moment when
Fricka finally, and irrevocably, gains mastery over her husband by the force and
logic of her argument that pendulum ceases its activity and becomes still –
indicating in a strong visual way that Wotan’s world has ceased functioning and
that, in Shakespeare’s words, «time is out of joint».
Now, it was Brian Large’s task to bring the essentials of this Chéreau
conception to the video screen. The task was, for him, relatively easier, since
he was dealing with only two people onstage, but in fact he had three «things»
– two people and one pendulum. He filmed the scene so that we, the viewers,
never lose entire contact with the pendulum, even if it is now and then out of
visual touch. Large gives us a glimpse of it – a shadow, a frisson – but we, if
only subliminally, remain aware that it is there and in motion. At the moment it
slows and stops, Large makes us crucially aware – by pulling the camera back
so that the three elements are lined up in front of us: Fricka, the pendulum, and
Wotan – the two of them separated by the representation of the flux of
historical events. Visually, we receive Chéreau’s image exactly as the Bayreuth
audience did, and we feel the force of that crucial marital separation.
What Brian Large has done, not only here but throughout that scene, is to
transfer onto the small screen what Patrice Chéreau put onstage, and by so
doing to reproduce and even reinforce the power of Chéreau’s stagecraft. Thus
we today – over twenty years after that staging has become part of history –
can experience it almost as did the Bayreuth audiences of the late 1970s.
I must add that this situation has its negative side, for most stagings since
have relied heavily in pillaging Chéreau – a sincere form of flattery maybe but
short-sighted, because it does not help in rethinking what Wagner wrote, and I
also believe that what Brian Large has done on video has had a lot to do with
the dissemination of Chéreau’s ideas.
Peter Sellars, however, does not work in this way. The American director
is noted for his individualistic, highly thought-out, stagings of traditional
repertory operas and of new works. His method combines close-in
Personenregie – involving what could be termed an extreme veristic approach
to the interaction of character and event – with a hieratic distancing,
represented by the use of outsized, exaggerated hand gestures derived from the
Kabuki theater of Japan, and body movements that, often, border on contortion.
This combination of the immediate, the mundane, and the outré in a single
directorial vision has been widely commented on, both favorably and
unfavorably. It must be said, in passing, that this complex of disparate styles
works better in the confines of the opera theater than it does on television,
especially in Sellars’ conception of the use of television, and is often overriden
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by the emotions inherent in his staging of the opera. The sexually charged
second act of his production of Mozart’s Così fan tutte is a good example of
the tension that Sellars can create in a staging, and the last half-hour of his
Glyndebourne staging of Händel’s Theodora remains, for sheer visceral
impact, as powerful as anything produced in opera in the last decade.
But, whatever the nature of Peter Sellar’s productions onstage – and they
are more varied than has been allowed – they are beside the point for our
purposes here today. For when Sellars has chosen to transfer and translate his
stage visions into film, he has consciously chosen not to stand back and – like
Brian Large – put on video an exact a representation of what went on onstage.
He has chosen to re-create the work in cinematic terms – using as basis the
exact stage setting and staging. What he has therefore done is to create for
television a two-layered edifice: one layer being the original and one layer the
elaboration and re-thinking for television of that original.
Sellars believes that this method creates a richer whole, which is in
addition more responsive to the visual medium of television. I and others
believe that this wilful superimposition has not only weakened the original and
often destroyed what was best in that original, but has not managed to
substitute anything of comparative strength or depth, so that the final video
result has in fact vitiated much of what was so striking in the stage version,
without a compensatory gain.
The filming of an opera can proceed from a stage-wide panorama to an
increasingly closer-in view, to a two-shot and then up as close as the camera
dares. Sellars, when filming, is chiefly interested in close-ups – usually of
faces. This, of course, gives the video a distinction from the stage performance,
and all video directors take advantage of it. But Sellars carries this to an
extreme, relying almost exclusively on close-ups and medium shots to tell his
story visually. This immediately distorts what he has said theatrically.
Sellars has an acute eye for stage space, which is evident in all the work he
does in theater and a mark of his eminence, I believe, as a theater director. He
knows how to use forestage and upstage, and how to use height for stage effect.
In his production of Händel’s Giulio Cesare (1990), at the beginning af Act
II he wishes to show the scene where Cleopatra appears as if by magic to a
beddazzled Caesar – he having been prepared by ethereal strains from the nine
muses. What Sellars does is to have Cleopatra appear above Caesar, dangling
from a sky hook – in the theater one hears a disembodied voice from somewhere
singing the opening strains of «V’adoro, pupille» – not sure where they come
from– and then one sees, slowly emerging from the top of the stage, the body of
Cleopatra. It is a moment of equivalent magic to the magical impact of the
exquisite Handelean aria, and it never fails to have effect in the theater.
However, for the film Sellars chose not to show this, but rather gave the
show away early by showing Cleopatra and the sky hook, and then cross-cut
from Caesar, lying dreamily on a deck chair, to Cleopatra descending, but
without the power of the downward movement towards Caesar – as far as the
film is concerned, they could be in different rooms! There is no feel of the
stage picture (you can see it in an illustration on the recording) which clearly
shows Cleopatra descending above Caesar as an orchestra plays in the
background. The cross-cutting of close-ups contnues until she «lands», and
then the scene (and the aria) devolves into two-shots of them. I’m going to
show you just the beginning of the scene, with Cleopatra descending.
(audiovisual example)
Sellars has deliberately chosen to concentrate on the people rather than on
the stage picture, and in the process has discarded the effect of the motion59
towards, which is integral to his setting of this scene, and has discarded the
magical effect of a voice sounding and then a person appearing, which would
have been more difficult to realize on film, but which could have been
similarly powerful.
A far more problematic transfer from stage to film, but one which again
Sellars has not tried to do, is that of the «Dove sono» aria for the Countess in
his production of Mozart’s Le nozze di Figaro (1991). Here there are two
elements to the staging: one, a two-level set of a luxurious apartment in New
York’s elegant Trump tower, and the other the time of day: growing evening.
James F. Ingalls, Sellars’ brilliant lighting director, has created a sunset glow
across the stage that bathes everything in autumnal light – a light exactly right
for the Countess’ musings on her past but which is very difficult to reproduce
with any faithfulness of color and intensity on video. The fact that the Countess
sings the aria from the second level, bathed in the light, also adds to this
mystery, for she is somewhat removed from the audience, partly in shadow and
sorrounded by the aura of the dying day – fitting for her nostalgic memories of
the «bei momenti». Yet here again Sellars chooses not to duplicate what he put
onstage, but to bring the Countess closer to us. The magic of the moment is
lost, and since we cannot capture the light of the stage picture we are left,
simply, with a soprano singing an aria.
Sellars’infatuation with closeups of people, and his reluctance to let the
camera stand back and examine a complete stage picture, is crippling as well as
for any part of an opera that involves more than a limited number of people.
His success with Così fan tutte, and especially with its second act, is in part
owing to the fact that there are so few people onstage at any one time, so that
his cutting from one to another can be rather easily «read» by the viewer.
The comings and goings of Act IV of Le nozze di Figaro, however, are
another matter entirely. As is well known, this act is one of the most difficult to
stage effectively, so that the audience can follow the ins and outs of the
characters, and the changes that take place with Figaro himself. Indeed, I am
convinced some stage directors keep the stage dark so as to obscure the fact
that they cannot make sense of the text.
Sellars, in his setting of the act, operates on two planes: a foreground and a
background. In the theater, the movements behind the foreground of the
various characters have a balletic urgency, while those in the foreground carry
on the action or the singing of arias. In the film, however, the background
becomes a blur of shapes and sounds which have little relation to what is going
on in front. Sellars’ close-in camera concentrates on the principals – especially
Figaro, whose anguish is well set forward – but we never feel the ensemble
nature of the whole as we do in a thorough-going production of that act.
The central event of the act, of course, is the realization by Count
Almaviva that he has been caught in flagrante not only by his wife but by
everyone. He begs forgiveness of her, in the justly celebrated «Contessa,
perdono» moment. Usually, this moment in the theater is either lost or
mitigated, because the staging is simply not to clear enough to distinguish
between the Countess (disguised as Susanna) and Susanna (disguised as the
Countess). But in the Sellars production the two are clearly distinguished by
costume, so that it is impossible to confuse them.
But it is not this that makes the climactic moment of the act so effective on
stage. Sellars operates in the foreground, near the footlights. At the moment
when the Count is berating the woman he believes to be his wife for traducing
him with Figaro, the Countess, dressed as Susanna, begins to cross the stage
from stage left (the audience’s right) toward him. As she is the only one
moving across the stage our eyes are inevitably on her. She arrives at where the
60
Count is standing just in time with the music: he turns, sees her and realizes his
grievous mistake. It is a crucial musico-dramatic moment, and one entirely
reinforced by the staging. That «cross», as it is called, intensifies the emotion –
the audience’s anticipation is increased to the exact instant when Almaviva
turns and sees his wife. Mozart and Da Ponte’s creation, then, is enhanced by
the staging – enhanced and clarified – so that we in the audience share the
emotions of the characters onstage.
When Sellars came to the filming of this moment, however, he made it far
less powerful. Since he was working closeup, without the distance required for
a full shot of the stage, he could not show the Countess moving slowly toward
Almaviva. He cross-cut between Almaviva and the Countess, giving the
impression of movement without its actuality. This lowers the intensity of the
meeting, and flattens it out. The moment remains to an extent powerful, but the
power derives mainly from the musical modulation, and not from the
combination of staging drama and music.
(audiovisual example)
As has been said, Sellars’ basic technique of wholesale reliance on
closeups for television runs into the most problems when the stage is densely
populated. His staging of the final scene of the first act of Don Giovanni is a
case in point. The physical limitations of the stage in Purchase, New York –
where this production was originally performed – precluded the placement of
the three onstage orchestras, which necessarily diminished the musical impact
of the scene. But, beyond the music, Sellars’ camera moves into the scene, so
that we get only cursory glimpses of anyone but the principals. There is an
impression – correct – of bodies and people and activity, but Sellars is more
anxious for us to keep our eyes on Giovanni and Zerlina, or on the masked trio
(here without masks), so that the other revelers become almost offstage
presences – heard but barely seen.
In keeping with this focus on principals, Sellars keeps his camera on
Giovanni (Eugene Perry), and has the stage emptied except for him at the end
of the act. This has the advantage of allowing the audience to focus on the chief
character of the drama, but the audience in the opera house has had the
experience of seeing a stageful of people and then a stage empty except for one
person: the television audience sees a confusion of people and then one.
I have spoken to Sellars about this dichotomy between what he has put
onstage for an audience and what he has given his television audience. He allows
that the television experience will not be as strong for the people who have seen
the opera house production, but that it will not matter to those who see the
television production only. This, of course, carries an element of truth, and it does
satisfy the idea of having the cake of the original stage production and eating it too
by filming it in a way that is more responsive to the demands of television.
But it is impossible not to feel that more than a little has been lost by this
decision. To the extent that we are not given a «clean», objective look at what
Peter Sellars put onstage we are being given a falsified picture; to the extent
that we are not being given a «clean», made-for-television look at Peter
Sellars’s view of an opera we are being given a falsified picture. What he has
attempted to do is, I believe, too much – a double layer of forceful input when
one layer would have been more powerful.
The videos that Peter Sellars directed have become – and will remain – the
only documents we have of his important productions for the stage. But – to a
greater extent than most television realizations of operatic works – they are
distanced from the originals, and burdened with a point of view that is at odds
with what was originally done.
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One can understand what Chéreau was trying to do, and what Chéreau
accomplished in fact through Brian Large’s films of Chéreau’s Ring Cycle at
Bayreuth. We can only see through the glass darkly when viewing Peter
Sellars’ own retellings of his stage productions for television.
Il problema del duplice approccio alla regia d’opera in televisione
[L’opera in video è una forma d’arte specialistica che differisce sia da una
vera e propria rappresentazione dal vivo in un teatro d’opera, sia da un’incisione audio fatta in sala di registrazione e finalizzata alla produzione di un disco. Vi sono, molto genericamente, due tipi di opera in video: il primo viene
realizzato espressamente per la fruizione visiva al cinema o in televisione; il
secondo comprende le opere filmate in teatro, ovvero laddove una produzione
viene ripresa durante la sua rappresentazione dal vivo di fronte a un pubblico.
Quest’ultimo tipo, di gran lunga più diffuso, può a sua volta essere suddiviso
in varie sottocategorie, tra le quali vi sono il riadattamento della produzione
per la telecamera oppure la ripresa di un’opera eseguita sul palcoscenico in
assenza di spettatori, ma in entrambi i casi il significato di questo tipo di lavoro è di mostrare la produzione che il regista teatrale intendeva venisse vista
dal pubblico.
Mi propongo di parlarvi del secondo tipo – la ripresa visiva di una produzione operistica – in relazione al lavoro del regista Peter Sellars. In alcuni casi
egli ha fatto riprese in studio, tuttavia i suoi film rispecchiano e riproducono
esattamente l’allestimento scenico proposto al pubblico teatrale.
Il compito del regista televisivo, nel riprendere una produzione teatrale
già esistente, è estremamente complesso, come tutti ben sapete. L’obiettivo è
quello di comunicare il più accuratamente possibile allo spettatore ciò che il
regista teatrale ha messo in scena, senza alcuna interferenza né in termini di
linguaggio televisivo né di personalità del regista televisivo. Tale atteggiamento può essere visto come la «neutralizzazione» del regista televisivo rispetto al
regista teatrale ma, di fatto, ciò che viene chiamato in causa è il suo migliore e
più spiccato talento: quello di comportarsi come una sorta di passaggio attraverso cui permettere all’evento scenico di diventare un evento televisivo.
Nella misura in cui il regista televisivo sovrappone il proprio modo di vedere a quello del regista teatrale, egli indebolisce e falsifica il lavoro dell’altro; nella misura in cui si allontata consapevolmente dal ritrarre ciò che il
regista teatrale ha reso, il regista televisivo non solo aggiunge, sovrapponendole, le proprie idee al lavoro ma può addirittura oscurare quelle originarie a
discapito del risultato filmico finale. In tal modo l’originale viene compromesso, così come possono esserlo il lavoro di compositore e librettista.
I modi in cui il regista televisivo utilizza gli specifici accorgimenti tecnici
inerenti il suo medium artistico, al fine di rendere vivo e chiarire – in termini
cinematografici e visivi – il lavoro del regista teatrale, sono al centro del suo
compito di artista creativo.
È superfluo dilungarsi sulla difficoltà di tale compito, date le restrizione
imposte ai registi televisivi nei teatri d’opera. Negli Stati Uniti i registi televisivi sono costretti a filmare durante lo svolgimento dello spettacolo, di fronte a
un pubblico abbonato e pagante. Tale pubblico pretende di vedere ciò per cui
ha pagato, ovvero un’opera senza l’interferenza di telecamere, illuminazioni
particolari e altre distrazioni dovute alla ripresa televisiva.
Molto spesso il risultato è soltanto un’approssimazione dell’ideale verso
cui tende il regista televisivo, anche se bisogna riconoscere che, grazie all’abilità delle troupe, il risultato è spesso molto migliore di quel che ci si potesse
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aspettare. Vista l’attuale politica dei finanziamenti negli Stati Uniti, tale approccio alla ripresa visiva di rappresentazioni operistiche è il più diffuso poiché è il meno costoso.
Ci sono molti esempi di eccellente regia televisiva di rappresentazioni operistiche ma per illustrare la mia affermazione ho scelto uno dei migliori esempi
brevi, realizzato da quel maestro di quest’arte che è il regista Brian Large. Si
tratta della scena tra Wotan e Fricka nell’atto II di Die Walküre di Richard
Wagner, nell’epocale allestimento di Patrice Chéreau a Bayreuth. Si tratta,
evidentemente, di una scena decisiva sia all’interno dell’opera sia nell’economia generale della tetralogia: è il preciso istante in cui Wotan si rende conto
che i suoi stratagemmi per controllare gli eventi e recuperare l’anello sono falliti. Chéreau, come tutti sanno, ha interpretato la scena come una lite domestica – nello stile del teatro borghese ottocentesco – inserendo, tuttavia, un elemento estraneo alla sfera della pièce bien fait, un elemento importato da un
altro genere di esperienza teatrale, un’intrusione aliena nella scena in stile
Biedermeier. Si tratta di un pendolo di Foucault, che sin dall’inizio della scena
stessa descrive un ampio cerchio al centro del palcoscenico, un simbolo dello
scorrere del tempo. Nel preciso istante in cui Fricka finalmente, e irrevocabilmente, prende il sopravvento su suo marito in virtù della forza logica delle sue
argomentazioni, il pendolo cessa di funzionare e si ferma, come una potente
rappresentazione visiva del fatto che il mondo di Wotan ha cessato di funzionare e che, per dirla con Shakespeare «il tempo si è scardinato» [Amleto, Atto I,
Scena V, N.d.T.].
Brian Large doveva quindi riuscire a portare sullo schermo l’essenza del
pensiero di Chéreau, un compito relativamente semplice poiché i personaggi in
scena erano soltanto due; tuttavia erano tre le «cose» con cui doveva fare i
conti: due persone e un pendolo. Ha ripreso la scena in modo che noi spettatori non perdessimo mai di vista il pendolo. Sebbene a tratti non sia visibile, Large ce ne fa intravedere l’ombra in modo tale che noi, sia pure in maniera subliminale, siamo costantemente consapevoli della sua presenza e del suo moto.
Nel momento in cui rallenta e si ferma, Large allarga l’inquadratura in modo
tale che i tre elementi si trovino allineati dinanzi a noi: Fricka, il pendolo e
Wotan. I coniugi sono divisi dall’incarnazione del flusso degli avvenimenti storici. L’impatto visivo con l’immagine voluta da Chéreau è esattamente quello
percepito dal pubblico di Bayreuth, e siamo in grado di capire la forza della
cruciale separazione fra i due.
Brian Large è riuscito, non soltanto in questa inquadratura ma lungo tutta
la scena, a trasferire sul piccolo schermo ciò che Patrice Chéreau aveva reso
sul palcoscenico e, così facendo, ha riprodotto e persino rafforzato la potenza
delle immagini di Chéreau. In tal modo oggi noi – più di vent’anni dopo che
quella regia è entrata a far parte della storia – possiamo provare quasi la stessa esperienza del pubblico di Bayreuth alla fine degli anni Settanta.
Bisogna aggiungere che questo precedente ha avuto anche esiti negativi,
poiché da allora la maggior parte dei registi ha saccheggiato le idee di Chéreau: un comportamento sinceramente lusinghiero, forse, ma sicuramente assai miope poiché non contribuisce a una riflessione sull’opera wagneriana.
Credo inoltre che il lavoro di Brian Large abbia contribuito alla diffusione del
pensiero di Chéreau.
Peter Sellars, in ogni caso, non lavora in questo modo; il regista statunitense è infatti noto per i suoi allestimenti estremamente personali e cerebrali
sia del repertorio tradizionale sia dei nuovi lavori. Il suo metodo consiste in
una combinazione di Personenregie (un approccio che potremmo definire «verista» quanto a interazione emotiva fra personaggio ed evento) e distacco ieratico, ottenuto mediante l’utilizzo di una gestualità manuale esagerata e fuori
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misura, derivata dal teatro Kabuki giapponese nonché da movimenti corporei
che spesso sconfinano nel contorsionismo.
Una simile commistione di immediatezza, mondanità ed eccesso in un’unica concezione registica ha suscitato molti commenti favorevoli e non. Bisogna
riconoscere che tale conglomerato di stili disparati funziona meglio nel chiuso
del teatro d’opera che in televisione, specie nella concezione che ha Sellars
dell’uso del mezzo, spesso sopraffatta dalle emozioni insite nel suo allestimento dell’opera. L’atto II della sua produzione di Così fan tutte di Mozart, fortemente carico di sensualità, è un buon esempio della tensione che Sellars riesce
a conferire a una scena, e l’ultima mezz’ora dell’allestimento della Theodora
di Händel a Glyndebourne rimane, quanto a mero impatto viscerale, una delle
produzioni più potenti che si siano viste nell’ultimo decennio.
Quale che sia la natura delle produzioni sceniche di Sellars – ed esse sono
più varie di quanto si pensi –, non costituiscono tuttavia l’oggetto dell’odierna
discussione, poiché quando Sellars ha deciso di trasferire e tradurre le sue visioni teatrali su pellicola, egli ha consapevolmente scelto di non farsi da parte
per portare in video una rappresentazione il più possibile fedele di ciò che era
avvenuto sulla scena, alla maniera di Brian Large, ma ha preferito ricreare il
lavoro in termini cinematografici, utilizzando come punto di partenza scenografia e allestimento teatrali. Ciò che ha fatto, pertanto, è di creare per la televisione un edificio a due piani in cui un piano è l’originale teatrale e l’altro la
rielaborazione televisiva di quello stesso originale.
Sellars è convinto che tale metodo crei un insieme più ricco e che sia anche più rispondente al mezzo televisivo. Io e altri sosteniamo che tale sovrapposizione forzata non solo indebolisca l’originale, spesso distruggendone alcuni degli aspetti migliori, ma che non riesca a rimpiazzarlo con alcunché di
paragonabile quanto a impatto e spessore, tanto che il risultato finale in video
spesso di fatto invalida molti aspetti di spicco della versione scenica senza offrire alcuna compensazione.
Nel filmare un’opera si può passare dalla panoramica a una ripresa sempre più ravvicinata fino ad arrivare al primo piano. Nelle sue riprese, l’interesse di Sellars è rivolto soprattutto ai primi piani, solitamente dei volti. In ciò,
naturalmente, i video si distinguono dalle rappresentazioni teatrali, e tutti i registi televisivi ne traggono profitto. Sellars, tuttavia, porta tale tecnica alle
estreme conseguenze, affidando quasi esclusivamente al primo piano e al mezzobusto il compito di narrare la storia visivamente. E ciò basta a distorcere ciò
che egli aveva proposto nell’allestimento teatrale.
Sellars ha molto occhio per lo spazio scenico, tratto che si evidenzia in tutto il suo lavoro teatrale e che costituisce uno dei suoi punti di forza come regista teatrale. Egli conosce tutti i segreti dell’uso della scena per trarne gli effetti che desidera.
Nell’allestimento del Giulio Cesare di Händel (1990), all’inizio dell’atto II
egli vuole mostrare la scena in cui Cleopatra compare come per incanto di
fronte a un Cesare abbagliato, dopo essere stato preparato dagli accordi eterei
delle nove muse. Sellars fa comparire Cleopatra sopra la testa di Cesare, appesa a un gancio: a teatro si ode una voce incorporea che, da un luogo imprecisato, intona l’incipit di «V’adoro, pupille», e poi si vede il corpo di Cleopatra scendere lentamente dall’alto del palco. L’impatto è di una magia pari a
quella della superba aria haendeliana, e fa sempre un grande effetto in teatro.
Nella versione cinematografica, tuttavia, Sellars ha scelto di rivelare il segreto in anticipo, mostrando Cleopatra e il gancio, quindi Cesare su una
sdraio con l’aria trasognata e, infine, nuovamente Cleopatra che scende. Nella
versione cinematografica, i due potrebbero trovarsi in stanze diverse, poiché
viene annullato il movimento discendente dell’una verso l’altro. Manca com64
pletamente il senso dell’immagine proposta dalla scena (una foto si trova
all’interno del cofanetto di CD), che mostra Cleopatra sospesa sopra la testa
di Cesare mentre l’orchestra suona in sottofondo. La telecamera, invece, prosegue nel gioco dei primi piani fino all’«atterraggio» di lei, dopodiché la scena (e l’aria) li coinvolge entrambi. Vi mostrerò soltanto l’inizio della scena,
con la discesa di Cleopatra.
(esempio audiovisivo)
Sellars ha scelto di concentrarsi sulle persone e non sull’immagine nel suo
complesso; così facendo ha scartato l’effetto di direzionalità insito nell’allestimento teatrale della scena e ha rinunciato anche alla magia data dal suono di
una voce immateriale seguita dall’apparizione della cantante, che forse avrebbe presentato delle difficoltà di realizzazione su pellicola ma che, tuttavia,
avrebbe potuto essere di grande effetto.
Un caso ben più problematico di passaggio dalla scena alla pellicola – cui
Sellars ha peraltro rinunciato ancora una volta – è quello dell’aria «Dove
sono» nell’allestimento delle Nozze di Figaro di Mozart (1991). In questo caso
la scenografia propone due elementi: il primo è un lussuoso appartamento su
due livelli nell’elegante Trump Tower di New York, il secondo l’ora del giorno,
il tramonto. James F. Ingalls, brillante direttore delle luci che collabora con
Sellars, ha creato un raggio dorato che pervade tutto di una luce autunnale
che si attaglia perfettamente alle reminiscenze del passato da parte della Contessa, ma che è assai difficile riprodurre su video rispettandone colori e intensità. Il fatto che la Contessa canti l’aria dal livello superiore, bagnata dalla
luce, ne accresce il mistero perché appare distante dal pubblico immerso
nell’oscurità che sembra circondarla come l’aura del giorno morente, in tono
con le sue reminiscenze nostalgiche dei «bei momenti». Eppure, anche in questo caso Sellars preferisce non riprodurre ciò che ha concepito per la scena,
ma ci mostra la Contessa più da vicino. L’incanto del momento si perde e, in
mancanza di effetti di luce e immagine di scena, non ci resta altro che un soprano che canta un’aria.
La passione di Sellars per i primi piani, nonché la sua ritrosia a far indietreggiare la telecamera per esaminare l’effetto della scena nel suo complesso,
risulta problematica anche per quelle parti delle opere in cui siano presenti diversi personaggi. Il successo del suo Così fan tutte, e in particolare del II atto,
è in parte dovuto al fatto che vi sono pochi personaggi in scena contemporaneamente, quindi i tagli dall’uno all’altro possono essere facilmente compresi
dagli spettatori.
L’andirivieni del IV atto delle Nozze di Figaro, invece, è tutt’altra faccenda. Com’è noto, si tratta di un atto fra i più difficili da mettere in scena con efficacia, di modo da permettere al pubblico di seguire le entrate e le uscite dei
personaggi nonché i cambiamenti subiti dallo stesso Figaro. In effetti, sono
convinto che alcuni registi optino per un palcoscenico quasi buio in modo da
celare il fatto che essi stessi non riescono a venire a capo del testo.
Nell’allestire il IV atto, Sellars opera su due livelli, il primo piano e lo
sfondo. Nella rappresentazione teatrale i movimenti dei personaggi in secondo
piano sono carichi di tensione coreutica mentre quelli in primo piano portano
avanti l’azione o intonano arie. Nel film, tuttavia, lo «sfondo» appare come
una massa indistinta di forme e suoni senza alcun rapporto con ciò che avviene
in primo piano. La telecamera ravvicinata di Sellars si concentra sui protagonisti – specie Figaro, la cui angoscia viene messa bene in evidenza – ma non si
ha mai la percezione dell’insieme che emerge dalla rappresentazione teatrale.
Naturalmente il momento clou dell’atto è quello in cui il Conte di Almaviva
capisce di essere stato colto in flagrante non soltanto da sua moglie ma da tutti.
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Le chiede perdono intonando «Contessa, perdono», aria che gode di una giustificata celebrità. Solitamente in teatro questo momento viene perso o mitigato
perché la regia non riesce a chiarire chi sia la Contessa (travestita da Susanna)
e chi Susanna (travestita da Contessa). Nella produzione di Sellars le due sono
ben riconoscibili dal costume, quindi diventa impossibile confonderle.
Ma non è questo a rendere efficace il momento clou a teatro. Sellars si
concentra sul boccascena, vicino alle luci. Nel momento in cui il Conte rimprovera la donna, che crede essere sua moglie, per averlo tradito con Figaro, la
Contessa (travestita da Susanna) comincia ad attraversare il palcoscenico da
sinistra (destra per gli spettatori) verso di lui. Trattandosi dell’unico personaggio in movimento sulla scena, il nostro sguardo ne è inevitabilmente attratto. Ella giunge al cospetto del Conte in perfetta sincronia con la musica: egli si
volta, la vede e comprende l’increscioso equivoco. Si tratta di un momento di
grande rilevanza musicale e drammaturgica, che viene ben sottolineato nell’allestimento teatrale. L’«attraversamento» del palco intensifica l’emozione, poiché il pubblico pregusta il preciso istante in cui Almaviva si volta e vede sua
moglie. L’idea di Mozart e Da Ponte viene dunque esaltata dalla rappresentazione scenica – esaltata e chiarita – in modo che gli spettatori condividano le
emozioni dei personaggi.
Quando Sellars riprese questa scena la rese molto meno efficace poiché,
lavorando con i soli primi piani e senza la distanza necessaria per mostrare
l’intero palcoscenico, non poté far vedere il lento incedere della Contessa verso Almaviva. Mediante il montaggio incrociato fra Almaviva e la Contessa si
ottiene l’effetto del movimento senza averlo di fatto visto. L’intensità del momento dell’incontro diminuisce e viene di fatto appiattita. La potenza espressiva che vi permane è data soprattutto dalla musica, non dall’unione di dramma
scenico e musica.
(esempio audiovisivo)
Come è già stato detto, l’uso incondizionato che Sellars fa dei primi piani
crea maggiori problemi nei casi in cui il palcoscenico è densamente popolato.
Il suo allestimento della scena finale dell’atto I del Don Giovanni è un esempio
pertinente. I limiti fisici imposti dal palcoscenico di Purchase, New York (dove
la produzione è andata in scena), escludevano la possibilità di mettere tre orchestre sulla scena, determinando un impoverimento dell’impatto musicale.
Ma, al di là della musica, la macchina da presa di Sellars si concentra sui particolari in modo da farci soltanto intravvedere i personaggi secondari. Si ha
l’impressione – senz’altro corretta – di corpi, persone e movimenti ma a Sellars preme che lo sguardo resti incollato su Don Giovanni e Zerlina, oppure
sul terzetto mascherato (senza le maschere in questo caso), in modo che gli altri invitati diventino presenze di sfondo, udibili ma quasi invisibili.
Coerente col suo interesse per i protagonisti, Sellars inquadra soprattutto
Don Giovanni (Eugene Perry) e lo fa rimanere solo sulla scena al termine
dell’atto, permettendo agli spettatori di concentrarsi sul personaggio principale del dramma. D’altra parte, gli spettatori presenti alla rappresentazione teatrale hanno visto svuotarsi un palcoscenico pieno di persone, mentre il pubblico televisivo vede un guazzabuglio di gente e poi una persona sola.
Ho chiesto a Sellars le ragioni della dicotomia fra ciò che mette in scena
per gli spettatori teatrali e ciò che mostra al pubblico televisivo. Ha ammesso
che l’esperienza televisiva non avrà lo stesso impatto per quelli che abbiano
già visto l’opera in teatro, ma che non avrà importanza per quelli che vedano
soltanto la versione televisiva. Naturalmente, c’è del vero in questa affermazione, e soddisfa l’esigenza di avere «la botte piena» dell’allestimento teatrale e
«la moglie ubriaca» di una ripresa che sia più confacente al mezzo televisivo.
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È tuttavia impossibile non avvertire che tale decisione abbia dei risvolti
negativi. Nella misura in cui ci viene negata la possibilità di vedere, obiettivamente e senza mediazioni, ciò che Peter Sellars ha messo in scena, ci viene mostrata un’immagine falsa; nella misura in cui ci viene negata una versione televisiva ad hoc, ci viene mostrata un’immagine falsa. Ciò che ha tentato di
ottenere è, a mio avviso, troppo: un doppio strato di forti stimoli laddove ne
sarebbe bastato uno.
I video diretti da Peter Sellars sono – e restano – gli unici documenti che
abbiamo dei suoi importanti lavori teatrali. Ma essi sono distanti dagli originali teatrali in misura maggiore rispetto ad altre realizzazioni televisive di
opere, e sono gravati dall’aver voluto proporre un punto di vista che contrasta
con quello originario.
Ciò che Chéreau voleva ottenere, e che ha di fatto ottenuto, risulta comprensibile anche grazie ai film della tetralogia wagneriana di Bayreuth girati
da Brian Large. Quando Peter Sellars ripropone le proprie produzioni teatrali
in video, siamo appena in grado di intuirne le intenzioni originarie.]
ILIO CATANI
Ringrazio il signor Smith per il suo intervento che aggiunge ulteriori elementi alle nostre considerazioni, poiché ha messo in evidenza l’importanza
dell’elemento soggettivo della ripresa in video. Finora abbiamo infatti discusso
senza affrontare il problema proprio dal punto di vista soggettivo del regista, e
il caso di Sellars è a questo riguardo emblematico.
Sono appena passate le ore 16.00. Se siete d’accordo facciamo una brevissima pausa per riprendere subito dopo i nostri lavori con l’intervento di Sergio
Segalini. Seguirà la discussione fino al termine della sessione odierna.
(pausa caffè)
Invito Sergio Segalini al microfono per la sua relazione «Opera e video: il
rêve impossibile».
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SERGIO SEGALINI
Opera e video. Il rêve impossibile
Stiamo discutendo da un giorno e mezzo e tutto quello che si è detto sin
qui è stato ovviamente interessantissimo. Provo un certo imbarazzo di fronte a
voi nel continuare questo discorso ma vorrei riproporre la tematica del nostro
incontro che riguarda appunto i problemi teatrali e i problemi musicali nella
proposta in video del mondo dell’opera. Premetto che sono sostanzialmente
uno spettatore dell’opera ma in realtà sono anche produttore di opere. Da sei
anni, infatti, dirigo il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca e produco
opere solo in quanto direttore artistico: non le dirigo, non faccio regia teatrale
né televisiva. Da spettatore, dunque, ho sempre notato una sorta di cassure
[frattura, N.d.R.] fra la teatralità che esige la camera e la non teatralità del
mondo dell’opera, soprattutto per quel che riguarda l’opera dell’Ottocento che,
in fin dei conti, è quella più amata: pensiamo alle opere serie di Rossini, alle
opere serie di Donizetti, a tutto Verdi e al primo Puccini. A mio parere, l’Ottocento attraversa un periodo di non teatralità, succedendo al Settecento che è
stato, al contrario, un secolo in cui la teatralità era un elemento essenziale del
mondo dell’opera, un elemento che tuttavia contrasta stranamente con i mezzi
della camera televisiva o cinematografica. Abbiamo visto tanti documenti, tutti
bellissimi e tutti eccitantissimi, sebbene di alcuni avremmo voluto vedere di
più. Siamo addirittura partiti da Geraldine Farrar, che nel cinema muto finge di
fare la Carmen di Bizet. Finge per forza di cose: è muta! Attraversato tutto il
secolo, siamo poi arrivati alle notevolissime ultime edizioni di Peter Sellars, regista americano. Anch’egli finge di fare l’opera perché produce un tipo d’opera
senza utilizzare cantanti d’opera. Le edizioni di Sellars, che sono un miracolo
di intelligenza, non sono un miracolo di musicalità e risultano improponibili
dal punto di vista musicale. Si arriva, quindi, a un discorso traviato che nasce
evidentemente dal cinema: siamo partiti dalla Carmen della Farrar per arrivare
a Sellars, il quale fa opera come Karajan; ma se l’opera di Karajan è un fiasco
totale, perché i suoi film sono l’esempio assoluto di quello che non si può fare
nel mondo dell’opera, Sellars dimostra invece che la regia dell’opera esiste anche per la camera. Entrambi, tuttavia, partono dallo spettacolo scenico. Karajan
realizza il film e produce anche l’opera in scena ma coloro che hanno ascoltato,
per esempio, L’oro del Reno in disco (ammirevole, fantastico dal punto di vista
musicale) oppure a Salisburgo circa vent’anni fa saranno scioccati dalla sua ripresa visiva, dove Karajan chiede al cantante cose che il cantante non può fare.
Vorrei cominciare dagli anni Cinquanta, gli anni in cui sono cresciuto musicalmente. Mi accorgo che laddove la televisione e il cinema si occupano di
opera si parte dall’attore. Perché abbiamo tante edizioni cinematografiche con
Tito Gobbi? Semplicemente perché questi è stato un grandissimo attore. Se
oggi analizziamo il canto di Tito Gobbi dobbiamo purtroppo concludere che
come cantante non è poi un granché; è un cantante che noi definiremmo «becero» ma è un attore fantastico! Evidentemente erano tempi in cui la nozione di
canto non era molto precisa, non si faceva differenza tra il Verismo, il bel canto, il Barocco, e tutto era molto confuso. Negli anni Cinquanta il canto di Gobbi non dava fastidio come dà fastidio oggi, e tuttavia risulta evidente che si
scelse Gobbi perché era un attore. Se però accanto a lui per cantare la Gilda
c’era Lina Pagliughi, questa non andava davanti alla telecamera ma era sostituita da un’altra cantante: nei Pagliacci, per esempio, è Gina Lollobrigida che
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fa il ruolo di Nedda; e nell’Aida la Tebaldi, pur essendo una bella donna, è sostituita da Sophia Loren per rendere l’opera estremamente credibile. Penso che
quando il cinema e la televisione hanno cominciato a interessanti al mondo
dell’opera abbiano cercato di rendere l’opera «credibile». Sono gli anni Cinquanta, gli anni in cui la Callas dimagrisce per fare della Traviata un personaggio credibile anche dal punto di vista della scena e abbiamo perso, per esempio
con La traviata nell’edizione Visconti-Callas, forse uno dei più grandi filmopera che si sarebbe potuto realizzare all’epoca. Se infatti guardiamo le fotografie di questa famosa Traviata, che io vidi da bambino, capiamo fino a che
punto Visconti facesse cinema; ma lo faceva adattandolo a al pubblico della
Scala, ragione per la quale, quando è calato il sipario alla fine dell’ultimo atto,
ci sono stati fischi, proprio perché risultava incomprensibile come in quella regia ci fossero particolari cinematografici: Traviata nel secondo atto arrivava
con l’ombrellino, mentre Alfredo arrivava col fucile da caccia e lo «sbatteva»
su un divano; idea che Giorgio Strehler riprese nelle famose Nozze di Figaro di
Parigi nel 1973, realizzate per il teatro di Versailles, in cui nel secondo atto il
Conte andava nella camera della Contessa e «sbatteva» il fucile sul letto. Voglio dire che, partendo da un’idea essenzialmente teatrale, si giunge a un periodo, gli anni Cinquanta, in cui si vuole dare al pubblico una visione dell’opera
quanto più vicina possibile al mondo del cinema o della commedia televisiva; e
si fa il cinema perché si pensa che queste produzioni non siano destinate alla
televisione ma alle sale cinematografiche. Successivamente sono diventate documenti televisivi ma il Rigoletto di Tito Gobbi ha avuto diffusione nelle sale
cinematografiche, perché il pubblico che andava al cinema andava anche al teatro d’opera. Come sapete, i due sistemi (quello del cinema e quello del teatro)
sono completamente diversi. Come spettatore di teatro d’opera, mi infastidisce
molto e penso si tradisca il mondo dell’opera se si chiede a un cantante di mimare il canto. L’opera è falsa di per sé perché è un’espressione falsa: non bisogna esprimersi con le parole ma con il canto, e il canto non stabilisce un rapporto diretto con la persona che si ha di fronte. Se a questa falsità si aggiunge
una seconda falsità, quella cioè di far mimare la parte, si arriva all’assurdo: il
cantante deve rifiutare di essere cantante per far finta di essere attore e copiare
l’attore. Questo è quanto di più assurdo ci sia, perché il cantante d’opera non è
un attore per la telecamera, a parte qualche rarissima eccezione; e a questo nonattore, che deve solo e che sa solo cantare, si chiede di recitare, di far finta di
recitare! I problemi del cinema d’opera dovrebbero essere accantonati una volta per tutte e sono molto deluso di sapere che i francesi, dopo diversi tentativi
quali il Don Giovanni di Losey, la Carmen di Rosi, il Boris Godunov di Ruggero Raimondi, La traviata con Teresa Stratas e Plácido Domingo, e addirittura
un Parsifal che uscì sugli schermi di Parigi e vi rimase una settimana (chi può
andare a vedere un Parsifal in una sala cinematografica?), stanno lanciando un
nuovo film che è la Tosca con Ruggero Raimondi, protagonista di tutte queste
opere, e con la coppia attualmente più fotografata, Roberto Alagna e Angela
Gheorghiu. Ora, riferendomi sempre a questa tematica, mi domando perché si
debba aggiungere qualcosa di cui non vi è alcun bisogno e che non risolve assolutamente nessuno dei nostri attuali problemi. Il lavoro che bisogna fare
quando si allestisce uno spettacolo è rispettare quella che è l’opera. L’opera
non è una cosa da trasformare in film. Dell’opera si fa un film. Per esempio, è
positivo che alcuni teatri producano quasi regolarmente i loro spettacoli, come
Glyndebourne, che ogni anno sforna per l’anno successivo quattro o cinque video che sono testimonianza delle manifestazioni. Stessa cosa ha fatto l’Opéra
di Lione, che è diventata produttrice dei video che pubblicava. Anche La Scala
aveva cominciato a fare queste operazioni con I vespri siciliani, Guglielmo
Tell, Così fan tutte, La fanciulla del West, La donna del lago. Come già è stato
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detto, molto spesso queste produzioni sono realizzate, come nel caso di Lione,
in assenza di pubblico. In questo modo si raggiunge un livello tecnico superiore e una precisione musicale più elevati ma, in special modo, non abbiamo la
falsità del discorso cinematografico, in cui si deve far cantare la Tosca alla signora Gheorghiu, la quale non sa cantarla ma finge di saperlo fare perché si ha
bisogno di una bella donna e, soprattutto, della moglie del signor Alagna. A
mio parere, se il mondo dell’opera deve trovare un’identità attraverso il video,
il cinema, insomma attraverso tutto ciò che è immagine, esso può trovarla solo
attraverso un discorso di verità. È stato molto interessante l’intervento del nostro amico veneziano [Gianni Di Capua, N.d.R.] su Guerra e Pace di Prokof’ev
a Spoleto, perché in quel caso si è lavorato a partire da un vero allestimento
teatrale prodotto da un festival e, su quella produzione, il cameraman o il regista televisivo ha creato uno spettacolo che può aspirare ad avvicinarsi il più
possibile allo spettatore della televisione. Non bisogna mai dimenticare, infatti,
che lo spettatore televisivo non è come noi, che siamo amatori del genere, che
amiamo l’opera, che ne godiamo; egli non può entrare in uno schema che non è
il suo e, se si continuano a produrre falsità, arriverà il momento in cui le televisioni si disinteresseranno completamente del mondo e dei temi dell’opera. La
televisione, così come il cinema, è l’arte del XX secolo, e questo mi sembra
così chiaro da accorgermi, attraverso il repertorio pubblicato in video o registrato da trasmissioni televisive in Europa, che nonostante tutto è proprio il XX
secolo che trova le sue più belle realizzazioni. Al contrario, la produzione di
spettacoli pre-teatrali per alcuni teatri (come l’Aida dell’Arena di Verona di
quest’estate, trasmessa in televisione nell’allestimento di Pierluigi Pizzi) è sbagliata: non soddisfa me che conosco Verona e conosco l’Aida ma non riesco a
capire bene quello che succede; e non soddisfa neanche chi nell’Aida vuole vedere il grande spettacolo che la televisione non può dare. Abbiamo parlato del
problema degli insieme e di come la televisione restituisca il finale del primo
atto del Barbiere di Siviglia: a mio parere Jean-Pierre Ponnelle ha fatto un
completo disastro. Analogamente, per la RAI è impossibile filmare Il viaggio a
Reims di Pesaro del 1984, in cui ci sono contemporaneamente l’arrivo del Re di
Francia e la scena all’esterno. Credo sia necessario fare uno studio sul massimo
di verità, in modo da ottenere un risultato che soddisfi quanti hanno visto lo
spettacolo che, in tal modo, diventa un bellissimo ricordo (sebbene per me quel
Viaggio a Reims non sia un bellissimo ricordo ma un vero orrore!) e nello stesso tempo soddisfi quanti non l’hanno visto, in modo che possano dire che Il
viaggio a Reims è un capolavoro. Ho notato che sono le opere del XX secolo
ad adattarsi alle tematiche televisive, e questo non avviene per caso. Arrivo direttamente dal Brasile, quindi non ho potuto portare i video che avevo a casa,
ma riporto comunque qualche esempio. Alcune settimane fa ho rivisto il film
della Medium che Menotti aveva realizzato nel 1950 e che è stato nuovamente
diffuso dalla americana VAI. Fu girato in Italia per la televisione americana.
Non so se la RAI lo abbia trasmesso o meno, sicuramente non lo ha fatto di recente. Questa edizione della Medium dimostra fino a che punto Menotti abbia
compreso il discorso televisivo. Non a caso, negli Stati Uniti, Amahl e gli ospiti
notturni di Menotti viene trasmesso ogni anno durante le feste natalizie, perché
è proprio il tipo di spettacolo che può essere visto in teatro ma che è godibilissimo anche in televisione, visto che, componendo l’opera, Menotti aveva già
pensato alla televisione. Anche l’opera Susannah di Carlisle Floyd è un prodotto ideale per la televisione, come lo è la Lulu di Patrice Chéreau a Parigi nel
1979: chi ne abbia visto la regia televisiva ha assistito a un’opera che era allo
stesso tempo una commedia e un film. Il film è stato poi nascosto perché in
Francia vi sono tremendi problemi con i sindacati e, infatti, non esiste sul mercato nessun prodotto dell’Opéra di Parigi, con la sola eccezione di una Tosca
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diretta da Seiji Ozawa con Kiri Te Kanawa e Luciano Pavarotti, sparita
anch’essa per problemi di diritti d’autore ecc. Quando Chéreau manda la Lulu
in televisione usa degli accorgimenti speciali per adattarla quanto più possibile
al mezzo: non solo ho assistito a uno spettacolo d’opera tra i più belli che abbia
mai visto ma ho assistito anche a uno fra i prodotti televisivi più fantastici che
si possano immaginare. Credo che un regista, come Chéreau o come Visconti,
conoscendo a perfezione la differenza fra la tecnica necessaria al cantante per
recitare e quella necessaria per cantare in scena, debba tenerne conto quando lo
spettacolo è destinato alla messa in onda. Quante volte, da spettatore, mi sono
arrabbiato perché il giorno della prima non era possibile assistere allo spettacolo così come era stato concepito perché la ripresa televisiva aveva richiesto un
cambiamento delle luci! Da spettatore ero costretto a vedere un prodotto che
era falso per me e che sarebbe stato ulteriormente falso per lo spettatore televisivo. Per continuare il discorso sul XX secolo, un’opera come la Fedora di
Umberto Giordano ha ispirato un film. È un tipico esempio di compositori che
non pensavano certo alla televisione, anche per ovvie ragioni cronologiche, e
che forse non pensavano neanche al cinema sebbene già esistesse. Essi vivevano artisticamente in un mondo che aveva già preso conoscenza delle nuove tecniche. Altri esempi. Glyndebourne e il Covent Garden hanno pubblicato il ciclo
quasi completo delle opere di Britten. Vi consiglio di dare un’occhiata a questi
video, che sono in vendita, perché opere come Billy Budd, Peter Grimes, Gloriana, The Turn of the Screw e così via sembrano fatte per un cameraman: messe in scena, possono essere viste in televisione con altrettanto piacere se il regista sa che il suo spettacolo sarà un giorno diffuso anche su questo mezzo. Lo
stesso si può dire di un’opera come Pelléas et Mélisande di Claude Debussy
del 1902. Luisa, che apre il XX secolo con Tosca, è una delle prime opere che
interessano il mondo del cinema e Grace Moore, la grande cantante, la interpreta per Abel Gance. Un altro compositore che sembra aver pensato alla televisione o al cinema è Leoš Janáček con Jenu° fa o Věc Makropulos, film meraviglioso. Sono opere bellissime ma hanno l’occhio già rivolto alla televisione e al
cinema.
In realtà, dovremmo ridimensionare il nostro lavoro sull’opera per catturare maggiormente l’interesse del pubblico contemporaneo, poiché ritengo che la
televisione debba occuparsi anche di questo. Non si può proporre a un giovane
di oggi un Boris Godunov, dove pure Ruggero Raimondi è fantastico, poiché la
falsità di questo linguaggio non può in alcun modo interessare un pubblico che
entra nel nuovo millennio. Fra le grandi edizioni che sono state realizzate, opere del Novecento a parte (Giordano, Menotti, Floyd, Berg, Britten, Debussy,
Janáček), figura la Tetralogia di cui si è parlato. Stranamente esiste in video
qualche edizione della Tetralogia perché probabilmente Wagner reinventa il
teatro dell’Ottocento ed è un compositore che fa teatro. Egli, con un’ottica tutta
sua particolare – non sapeva evidentemente che l’immagine si sarebbe trasformata –, crea il Festival di Bayreuth che viene inaugurato nel 1876, dunque a
molti anni di distanza dal Novecento. Chi conosce bene questo Festival sa bene
che quando ci si siede ci si trova davanti a una sorta di schermo: non si vede
l’orchestra, non si vede il direttore e, pertanto, non si sa neanche che l’opera
comincia proprio perché l’inizio del preludio non è annunciato dall’entrata del
direttore; anche il sipario che si alza sembra uno schermo cinematografico.
Non c’è neanche la luce della buca a infastidire. Un regista potrebbe usare tutte
le luci possibili su quel palcoscenico, perché non vi è mai contaminazione da
parte di presenze esterne, esattamente come avviene sul set di un film a Cinecittà. Questo è possibile solo a Bayreuth, perché altrove la luce delle buche
d’orchestra, come abbiamo visto in tutti i video presentati finora, crea sempre
un dislivello e anche una contaminazione fra l’orchestra e il palcoscenico. Mi
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infastidisce che si facciano paragoni fra le edizioni cinematografiche del Barbiere di Siviglia e quelle dal vivo poiché sono discorsi completamente opposti.
Credo che il cinema d’opera in quanto tale sia un discorso chiuso e anacronistico e che i grandi registi che si occupano di teatro, quali Sellars, Chéreau e altri,
non farebbero mai questo tipo di film, che andrebbero banditi. Sarebbe invece
interessante addentrarsi sempre più profondamente nella tematica dell’opera e
delle esigenze del mondo dell’opera e cercare di produrre al massimo l’identità
musicale, in un periodo in cui proprio l’identità musicale va scomparendo. Poiché in questo Convegno ci stiamo occupando dei problemi teatrali e dei problemi musicali, colgo l’occasione per ribadire in questa sede che le esigenze musicali spariscono e trovo che questo sia molto grave. Come si fa una Tosca con
una «non-Tosca», allo stesso modo si fanno riprese di opere – e qui torno a Sellars – che sono del tutto assurde dal punto di vista musicale e assolutamente indifendibili. Perché non dovrei vedere la Tebaldi fare lo sforzo di dare il do della «lama» nella Tosca? Perché mentire al pubblico e far credere che la Tebaldi
in quel momento non abbia una brutta bocca? Ma l’opera è quella! Dico questo
anche perché esiste un video girato in Germania in cui la Tebaldi lo canta. Dovremmo quindi porre rimedio a certe cose. Un cameraman che lavora a un film
per la televisione molto spesso non ha alcuna preparazione e magari non ha fatto alcuna prova. Si arriva fino all’assurdo dei tre atti della Tosca con la Callas,
tutti secondi atti: un secondo atto a New York, un secondo atto a Parigi, un secondo atto a Londra. È un caso? Il secondo atto è il più drammatico, il più eccitante, il più fantastico, e allora si sceglie sempre il secondo atto. Ma se guardate questi tre video e li mettete a confronto vedrete che quando un cameraman si
trova davanti a due attori come la Callas e Gobbi lavora per davvero, perché di
meglio non si è più visto. Per quanti l’hanno vista in scena nella Tosca, la Callas comincia a recitare soprattutto quando non canta ma la televisione non la riprende mai in quei momenti. Quando la Callas non cantava e si trasformava
nella grande attrice che era (Visconti riteneva che fosse la più grande attrice
che si sia avuta dopo la Duse) andava assolutamente ripresa ma nessuno, né a
New York né a Parigi né a Londra, si è preoccupato di capire quello che l’interprete stesse facendo; e similmente, quando la Callas e Gobbi cantavano insieme, toccando momenti di grandissima teatralità, visto che erano due attori unici, nessuno ha mai compreso il dialogo e il modo di comunicare che avevano. È
questa la cosa importante! Ci siamo trovati di fronte ad altre assurdità, come
quella di vedere, in questi ultimi vent’anni, la decadenza di televisioni che non
hanno esitato a filmare una Mimì della Caballé che muore di tisi e pesa centottanta chili, cosa che oggi la televisione non può più permettersi di fare. Se la signora Caballé ha il diritto di lavorare per la televisione non la si può filmare
nella Traviata o nella Bohème ma in un’opera in cui una donna può risultare affascinante anche se pesa cento chili. La credibilità scenica, insomma, rimane
un elemento essenziale e assolutamente indispensabile. Oggi per i grandi registi, da Wieland Wagner a Peter Sellars, il fisico è il fattore più importante. Se
per un regista teatrale il fisico è molto importante ancor più deve esserlo per un
regista televisivo perché si rivolge a un pubblico non esperto. Un esperto che
ha ascoltato moltissime volte il ruolo di Tosca, che è seduzione pura, può accettare che venga interpretato da una donna di centottanta chili, ma così non è
per il pubblico televisivo, poiché per esso non ha alcuna seduzione. Non sono
accettabili edizioni quali i film di Karajan, Carmen, Falstaff, Don Carlos, che
sono il contrario stesso della teatralità: il cantante entra in scena, canta ed esce
di scena. Cosa può fare la televisione in questo caso? Assolutamente niente,
perché c’è un repertorio in cui la televisione non può inventare (mi riferisco
ovviamente anche al cinema). Mentre con i compositori dell’opera del Novecento che ho citato è possibile inventare, la televisione non può inventare con
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Bellini, Rossini, Donizetti, Verdi, perché se non esiste una regia di Un ballo in
maschera la televisione è del tutto impotente. Quando Amelia canta «Ecco
l’orrido campo ove s’accoppia» e ha i noti problemi con gli acuti, la resa televisiva risulta tremenda se il regista non le ha dato consigli; cosa che capita molto
spesso, perché sapete bene che il grande cantante, nove volte su dieci, rifiuta
l’indicazione del regista perché vuole avere di fronte il direttore d’orchestra. Di
fronte a questi prodotti falsati i nostri problemi teatrali e i nostri problemi musicali devono trovare soluzione soprattutto attraverso la ricerca della verità del
dramma e della sua attualità. Ho notato che la Tosca è una delle opere più registrate e più diffuse perché è teatrale nel vero senso della parola. Vi sono tante
edizioni di Tosca. A questo proposito, per quel che riguarda la Callas, che è
stata soprattutto una Traviata, una Norma, una Medea, una Lucia, gli unici documenti che abbiamo sono tre edizioni di Tosca. Poi c’è la Tosca di Renata Tebaldi, di Magda Olivero, di Raina Kabaiwanska e così via. E ora annunciano un
nuovo film, neanche a dirlo una Tosca. È la grande produzione della RAI che
conoscete e che può essere considerata un tentativo folle ma diverso, quella famosa Tosca italiana che è andata in onda un po’ ovunque e che è stata realizzata nei luoghi dell’azione e nelle ore in cui gli avvenimenti narrati hanno luogo
(in modo analogo si intende realizzare anche La traviata); il che segnerebbe un
ritorno al teatro del Settencento, in cui vengono raccontate intere giornate. Nel
teatro del Settecento, infatti, non si va a letto al primo atto per rialzarsi il giorno dopo. Il teatro del Settecento è rappresentato dalle Nozze di Figaro, in cui
l’azione comincia all’alba con Figaro e Susanna che misurano i muri per vedere se c’è spazio per il letto e termina la sera, nel giardino, con la famosa frase
musicale, una delle più belle al mondo, «Contessa, perdono!» (atto IV, scena
XV). Anche Tosca si svolge nel corso di una giornata ma, come ho già detto,
l’edizione della RAI è un’impresa un po’ folle sulla quale però non voglio discutere perché è pur stato un modo di renderla molto popolare. In genere non
amo queste operazioni ma non sono contrario alla popolarità di un titolo. Personalmente, non vado a Verona ma sono d’accordo che Verona esista perché
esiste un tipo di pubblico che per questa via può scoprire un’opera. Allo stesso
modo, che un pubblico possa riscoprire Tosca in questo modo a me va benissimo. Quello che non mi trova d’accordo è che si debba andare al cinema per vedere Tosca. Ne è stata realizzata una anche in Italia da Gianfranco De Bosio
con Raina Kabaiwanska, Plácido Domingo e Sherrill Milnes, e girata a
Sant’Andrea della Valle, ma il pubblico abituato ad andare al cinema cosa
vede? Semplicemente un’imitazione. Credo che tutti noi si debba lottare molto
contro le imitazioni, io con quello che scrivo, voi con quello che producete.
Non dico che un regista debba farmi digerire tutto quello che fa: posso anche
essere in disaccordo con la regia di Guerra e Pace o con una regia di Peter Sellars ma ben altro discorso è non credere a quello che vedo perché è un discorso
completamente falsato. Questo tipo di operazioni, al giorno d’oggi, sono destinate al fallimento. Non so quale fortuna questi film d’opera abbiano avuto in
Italia e all’estero ma so che a Parigi Boris Godunov ha tenuto il cartellone una
settimana o due e il Parsifal non è stato neanche distribuito e si è visto solo in
qualche piccolo cinema d’essai. Eccezioni sono la Carmen di Rosi, perché si
tratta di un’opera popolare che molti hanno avuto occasione di andare a vedere,
e il Don Giovanni di Joseph Losey, perché è stato il primo tentativo del genere:
la spettacolarità di Losey, le ville del Palladio, la pubblicità enorme che fu fatta
spiegano l’affluenza del pubblico, accorso forse per una visita turistica nelle
ville del Palladio o per una certa arte veneziana del Settecento più che per assistere a un’edizione del Don Giovanni. Per fortuna il Tristano e Isotta di Wieland Wagner, prodotto a Bayreuth nel 1965, pochi anni prima della sua morte,
e diretto da Boulez andò presto in Giappone. I giapponesi ne hanno fatto una
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ripresa televisiva ammirevole, perché è riuscita a comunicare l’essenza dello
spettacolo, cioè la luce: Wieland Wagner lavorava quasi esclusivamente sulla
luce e riuscire con la telecamera a rispettarne la magia è a mio parere uno dei
più grandi risultati che possano raggiungere la televisione e il cinema. Rispettare il colore della luce e la sua intensità in molte regie è essenziale ma talvolta la
ripresa televisiva alza le luci, falsando completamente lo spettacolo. Per contro,
uno dei rari esempi di film che definirei «tentativo di film» sono le opere barocche del «ciclo-Ponnelle». Personalmente non sono un sostenitore di Ponnelle nell’opera di Rossini ma lo ammiro molto nel suo discorso barocco. Non so
se abbiate mai visto la Trilogia monteverdiana che realizzò con Harnoncourt (Il
ritorno d’Ulisse in patria, L’incoronazione di Poppea e l’Orfeo). Qui Ponnelle
dimostra di aver capito perfettamente la complessità del teatro barocco settecentesco e cerca di comunicare, in uno spettacolo di straordinaria bellezza,
come poteva godere uno spettatore del Settecento trasportandoci in un altro
luogo. Credo che nel lavoro che facciamo dovremmo rispettare proprio questa
comprensione, comprensione che è però vocata al fiasco totale con le opere
dell’Ottocento: anch’io ho visto il film di Romeo e Giulietta con di Di Caprio e
con la musica di Bellini ma fra la musica di Bellini, che è molto dépouillé (spoglia, N.d.R.), si scontra totalmente con un’azione scenica. Nella Trilogia di Sellars Mozart è vita, dinamismo, non smette di far muovere i cantanti, e se il regista riesce ad andare oltre tanto meglio. Ma un regista che voglia dare ritmo alla
Sonnambula di Bellini sfiora l’assurdo: non si può dare movimento a cose che
non ne hanno. Credo che se si sceglie di riprodurre un’opera si debba guardare
anche a quest’aspetto per poter rispettare il movimento della musica. Il teatro
barocco ha molto movimento: quando si ascolta un disco di musica barocca,
con le sue arie che sembrano non avere mai fine, si ha l’impressione di qualcosa che non va avanti ed è invece tutto il contrario. Successivamente e per un secolo l’opera si ferma: è l’Ottocento, l’epoca borghese in cui sia a Parigi sia a
Milano i salumieri, divenuti ricchi, vanno all’opera, si siedono e vogliono vedere delle salumiere che cantano. Ma il discorso cambia nuovamente nel gennaio del 1900, con la Tosca che inaugura un secolo in cui il movimento riprende. E tuttavia non è più il movimento barocco, è un movimento che
chiameremo «verista», ed è un movimento cinematografico. Sarei molto contento se un giorno avessi modo di dedicare più tempo allo studio della musica
del Novecento in base all’ottica della telecamera.
Vi ringrazio.
ILIO CATANI
Grazie a Sergio Segalini. Anche il suo intervento mette il dito in tante piaghe, come si suol dire, e offre molti spunti per la discussione. Diamo dunque
inizio al dibattito. Il professor Heister chiede la parola ma, dopo il suo intervento, direi di procedere in ordine cronologico, ripartendo da alcune considerazioni
su Guerra e pace per ripercorrere il tema di oggi. Prego professor Heister.
HANNS-WERNER HEISTER
Una piccola aggiunta al discorso del signor Smith a proposito del Giulio
Cesare. È problematico mostrare il gancio che sorregge il Deus ex machina e,
nel contempo, mantenere la «magia» che l’opera comporta. Forse questa è la
quadratura del cerchio, la sfida fondamentale sia per il teatro sia per la riproduzione in video.
Un’altra considerazione a proposito di Guerra e pace di Gianni Di Capua.
Se ricordate questo quadro, lo schermo è diviso in tre parti come la Gallia di
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Cesare: a sinistra il letto, a destra le memorie del ballo e sullo sfondo l’orchestra e il direttore. A me sembra che questo sia un po’ di manierismo e si allontani dalla sceneggiatura stessa del teatro. Personalmente non sono contrario al
manierismo ma in questo caso credo abbia funzionato stranamente. Le emozioni sono l’effetto di questo umore, di questa lunga durata del processo; le emozioni sono molto dense ed efficaci e il manierismo non le sminuisce; le emozioni crescono, perché tutto quello che si può immaginare è reso visibile dalla
regia di Di Capua e da quella teatrale.
ILIO CATANI
Grazie, professor Heister. A questo punto riprendiamo il discorso là dove
l’abbiamo lasciato ieri sera. Ricordo che c’erano possibili osservazioni sulla ripresa di Guerra e pace. Chi vuole riprendere il bandolo della matassa?
JEAN-FRANÇOIS JUNG
Come regista televisivo credo che sia terribile per i professionisti quanto
Catani ha fatto ieri mostrandoci quel Barbiere, perché penso che vedendolo abbiamo fatto molti passi indietro. Mi riferisco a quanto ha detto Segalini sul problema delle cose finte. Questo Barbiere pare una cosa finta e poi, due o tre minuti dopo, pare una cosa assolutamente naturale. C’è tuttavia qualcosa che
Segalini non ha detto: rispetto al problema dello spazio e del tempo, esiste una
differenza fra il cinema e la televisione e le telecamere. C’è un problema del
tempo staccato del cinema e del tempo lungo, come un filo continuo, della televisione. Ho capito questo guardando ieri Il barbiere di Siviglia: c’è un piano
sequenza perché siamo agli inizi dell’uso popolare della televisione; e cosa ha
scoperto il regista televisivo? ha scoperto la relazione fra il problema finanziario e il problema del tempo. Ieri ho scritto alcune note. C’è la libertà, con l’apparizione della televisione popolare nel 1954, di scoprire che si può fare una ripresa senza i problemi di costo e di brevità di durata della pellicola. Il
problema della pellicola è molto importante: finanziariamente comporta un
cambiamento totale perché quando si gira un film comporta costi enormi. Cosa
ha scoperto allora il regista che ha fatto quel piano-sequenza nel Barbiere di Siviglia? Ha scoperto che il filo, la corrente del tempo e dell’azione, è condotto
per la riscoperta di un altro modo di nastro di tempo: il nastro di tempo che è il
tempo non limitato del video. Ha scoperto un nastro libero che è il tempo aperto, il tempo lungo della presenza senza fine (in francese si dice sempiternel)
della ripresa di una telecamera; è come vedere il Gran Premio d’Italia: il tempo
per le telecamere è aperto, non c’è un problema di pellicola. Vent’anni fa ero
primo aiuto-regista, poi sono andato alla TV e ho scoperto che tutto il rilassamento narrativo del video era legato a questo fatto, cioè che il nastro non costava nulla e, dunque, si potevano fare delle cose in lunghezza. E questo è l’aspetto negativo della questione. Ma parlando dell’aspetto positivo, a proposito del
piano-sequenza del Barbiere di Siviglia, dobbiamo fare una differenza (che Segalini non ha fatto) tra la macchina da presa cinematografica e la telecamera
sul problema sul filo del tempo che è legato al supporto della pellicola chimica
o supporto che non costa niente, che è il supporto della TV.
ILIO CATANI
Grazie al maestro Jung. Se mi permettete un’altra osservazione in proposito, in fondo la scena che abbiamo visto è sì un piano-sequenza ma poi ha un seguito che sarebbe interessante poter vedere. Il seguito di quel piano-sequenza è
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la ripresa di un avvenimento in tempo reale: assistiamo a qualcosa che nella
realtà avverrebbe con le stesse cadenze, con lo stesso ritmo; quindi non ci dà
affatto fastidio che il punto di ripresa sia costituito da una sola telecamera. Certo, in questo caso il cinema avrebbe delle esigenze diverse, quelle del movimento artificioso del campo, del controcampo, del primo piano; e, come abbiamo visto ieri, sarà perché erano gli esordi della televisione, sarà perché certi
linguaggi dovevano essere affinati, invece quel modo di narrare era perfettamente normale, esemplificativo, pulito, lineare, luminoso. Grazie.
La parola a Francesca Nesler.
FRANCESCA NESLER
Vorrei proporre una riflessione che non riparte da Guerra e pace, come è
stato richiesto da Ilio Catani, ma che a mio avviso è importante perché ha tracciato un filo rosso in queste due giornate di lavori. Proporrei di far entrare in
campo definitivamente un protagonista che finora è rimasto in ombra, il pubblico televisivo. Questa mattina il signor Patay ci raccontava come ci sia stata una
migrazione del pubblico elitario, cui l’opera in parte si rivolge, verso i canali
tematici, mentre il pubblico da quiz televisivo si è spostato sulle reti private.
Resta tuttavia un pubblico anche per la televisione pubblica, che è proprio
quello a cui ci rivolgiamo quando affrontiamo un lavoro di questo genere. Ebbene, se mi rivolgo a un pubblico di melomani probabilmente ho dei doveri da
assolvere. Innanzitutto quello di far «vedere» la musica; inoltre, come diceva il
signor Smith, il regista televisivo in questo caso deve servire solo da passaggio
e scomparire: c’è il regista teatrale con la sua impostazione e noi siamo mezzo;
ci sono poi le regole e il rispetto, che sono altre due parole molto importanti nel
caso in cui si proponga televisivamente un’opera a un pubblico di melomani.
Nel caso di un pubblico che sceglie di vedere l’opera per accostarsi ad essa, invece, sono importanti a mio parere operazioni come quelle che sulla televisione
pubblica italiana sono state fatte da Baricco: io spiego l’opera e racconto a un
pubblico che non la conosce tutto quello che è il contesto dell’opera, perché
un’opera può durare quattro ore e un quarto e bisogna fare in modo che questo
pubblico non se ne lamenti o scappi. Per esempio, in Guerra e pace trovo che
ci sia un’attenzione verso questo pubblico data proprio dalla posizione di camera che il regista ci spiegava di aver scelto. Mi è sembrato di capire che Gianni Di Capua abbia collocato le telecamere nei punti privilegiati della platea perché anche lo spettatore di galleria possa vedere lo spettacolo dal palco.
Probabilmente questa è un’operazione che può costituire il senso di una proposizione nella televisione pubblica dell’opera; tutto il resto o lo si lascia ai canali
tematici o altrimenti non saprei trovargli un senso.
ILIO CATANI
Chi risponde a Francesca Nesler? Paolo Maragoni.
PAOLO MARAGONI
Vengo indirettamente chiamato in causa perché in quella famosa, vituperatissima Tosca, ora per la prima volta in parte apprezzata da Segalini dopo otto
anni, c’ero anch’io: ero il consulente musicale per il video e non ricordo nessun
lavoro più faticoso nella mia vita e nessun lavoro più bello. Ci ho messo un
anno e mezzo per riprendermi: lavoravamo una media di quindici ore al giorno
per sei giorni a settimana e a un certo punto abbiamo rinunciato anche ai riposi.
Ma ne è valsa la pena.
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Vorrei rispondere al signor Fawkes: c’eravamo, eravamo lì, siamo riusciti
a entrare a Palazzo Farnese nonostante il parere contrario dell’ambasciatore,
che era cambiato, mentre avevamo avuto promesse dall’ambasciatore precedente che era un melomane. A Segalini vorrei invece contestare l’affermazione
che Gobbi fosse un pessimo cantante: c’è un Falstaff con Karajan che è spettacoloso, forse per merito di Karajan.
A proposito della televisione e del cinema, che sono le arti del XX secolo,
personalmente penso che la televisione non sia né bene né male né quel dice
Popper; e neanche quel che dice Segalini: non è arte e non è immondizia ma
una tabula rasa, dipende da quello che uno ci mette dentro. La televisione ha un
suo linguaggio che tuttavia è quello dei generi che essa rappresenta: stiamo ancora discutendo su quale sia lo specifico televisivo? Forse è solo il talk-shaw
ma se è così lasciamo perdere! Un suo linguaggio specifico, alle soglie del
Duemila e a cinquant’anni dal suo uso pratico, la televisione non ce l’ha, perché di volta in volta ha usato lo specifico del teatro, poi del cinema, ecc., variandoli e adattandoli ai suoi problemi tecnici. Ancora non si sa quale sia lo
specifico televisivo. La televisione è un elettrodomestico. Se a qualcuno piacciono le camicie di seta nella sua lavatrice laverà camicie di seta, magari rovinandole. Se invece ha quelle di cotone laverà quelle di cotone. Voglio dire che
forse non bisogna dare tanta importanza alla televisione solo perché ne ha una
enorme nel mercato, e tuttavia personalmente amo la televisione, sono stato costretto ad amarla: sono sposato con lei da vent’anni e dopo vent’anni uno ama
qualunque moglie. Di volta in volta può avere molteplici linguaggi e ha solo
dei limiti tecnici che, peraltro, vengono superati dalle invenzioni. Ricordo le
«comete»: fino a pochi anni fa non si poteva inquadrare una sorgente di luce
senza rischiare di fare la «cometa», perché la persistenza produceva una striscia
bianca come quando l’otturatore viene tenuto aperto a lungo nelle foto notturne. Con le telecamere senza tubi adesso non ci sono più questi problemi. In altre parole, al momento bisogna fare i conti con i limiti. Ripeto, la televisione
non ha un suo specifico, ma cambia di volta in volta. È un po’ come Debussy,
che ogni volta creava una specifica forma musicale per un determinato brano,
la usava per quello e per nessun’altro brano, non creava una tradizione. Forse
ogni genere in televisione crea una forma.
Per quanto riguarda Tosca, Segalini diceva che bisogna rispettare la verità.
Non perché c’ero – sono stato testimone di molte cose che ho detestato –, ma
penso che quello fosse un prototipo. Mi hanno detto che è costato otto miliardi
e ne ha incassati dodici. Non sono sicuro, si può dire qualunque cosa; sta di fatto che se l’Italia può vendere qualcosa nel mondo questo qualcosa è la cupola
di San Pietro, Assisi e un po’ di lirica. In ogni caso i costi erano alti e credo che
se si riuscirà a contenerli forse avremo trovato la strada giusta. Scandalizzatevi
pure, ma forse quella è la strada giusta. Francesca Nesler ha parlato di pubblico
elitario ma l’opera nell’Ottocento non era elitaria, era quello che il cinema è
oggi per noi. Proposta indecente e RoboCop sono stati visti sia da Agnelli sia
dalla commessa del supermercato: questo è il cinema! Lo stesso vale per l’opera nell’Ottocento, con la differenza che la stratificazione sociale era visibile nei
posti: l’aristocrazia nei palchi, la borghesia in platea e i poveracci in piccionaia
in piedi per tre ore, con la stecca per non precipitare in platea. Veramente tutti
andavano all’opera. Forse il problema è proprio quello che l’opera è divenuta
elitaria oggi, è stata riscoperta in senso estetizzante e aristocratico dopo che è
finita la sua spinta propulsiva come spettacolo popolare, quel che era appunto
diventato nell’Ottocento. È probabile che l’unica speranza per l’opera sia ritornare a essere popolare. Credo che forse quella Tosca avesse capito tutto questo.
Parlando col signor Patay ho scoperto che anche l’Austria ha di questi problemi
e sembra impossibile che tutto questo accada anche nel paradiso della musica
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classica e del tifo nella musica classica. Patay lo spiega col fatto che i giovani
cominciano ad assomigliare a quelli di Los Angeles e di Parigi. Ebbene, questi
giovani non devono affatto scoprire l’opera ma solo riscoprirla perché non
l’hanno mai conosciuta. La nostra generazione non canta più «Che gelida manina», mentre qualunque salumiere o panettiere dei tempi di mio padre, sia
pure analfabeta, conosceva questi topoi dell’opera. Più che patrimonio culturale dovrebbe divenire appassionante come Via col vento. Un vecchio film fa
piangere anche le nuove generazioni e l’opera dovrebbe fare altrettanto, mentre
noi spesso continuiamo a presentarla come una porcellana intoccabile, bellissima, e forse è proprio questa sacralità che ha stufato la gente. L’appassionato
sarà sempre appassionato; noi, come nelle elezioni dei sistemi maggioritari,
dobbiamo conquistare il centro. L’importante è che l’opera sia live per restituirne l’emozione. Nella musica classica c’è il rischio di stecca, che l’orchestra
possa andare fuori tempo, che il coro abbia ricevuto dal regista indicazioni
troppo complesse per cui rischia di andare fuori tempo: tutto questo è la magia
dell’opera. A furia di registrarla e di montarla forse questa magia si perde; e
forse, anche in questo caso, quella Tosca aveva avuto ragione: si ha l’emozione
del teatro ma nessuna delle limitazioni che il mezzo televisivo vi incontra,
come quella di non trovare un angolo di ripresa. In ogni caso, una prova della
ricchezza dell’opera come genere è proprio questa: alle soglie del Duemila, ancora, al solo contatto col problema della riproduzione scateni un bailamme di
questa sorta; e questa, forse, è anche la prova che è ancora viva. Grazie.
ILIO CATANI
È vero, è ancora viva e questa discussione ne è la prova più lampante.
Quello che Maragoni dice fa sorgere un altro problema: non dobbiamo pensare
all’opera in teatro destinata a uno spettatore dal palato raffinato che la considera una porcellana ma a un prodotto televisivo per il pubblico che deve scoprirla
e non riscoprirla. Perché no? Invece nella prassi siamo piuttosto portati per la
novità. Lo dicevo ieri, quasi con vanto, e invece oggi mi vergogno di averlo
detto e pensato! Ci sono altri interventi? Prego, professor Miceli.
SERGIO MICELI
Sono contento che Maragoni abbia concluso il suo interessantissimo intervento perché se avesse continuato avrebbe anticipato tutto quel che avevo intenzione di dire domani! È una sorta di complimento nei suoi confronti, nel
senso che concordo in pieno con quanto ha sostenuto. Il problema più importante che ha sollevato (che è stato ripreso poi da Francesca Nesler) è quello del
pubblico ma non ho intenzione, per ora, di anticipare nulla in proposito.
Per entrare nella discussione, vorrei tornare per un momento alla Tosca,
nei luoghi e nelle ore di Tosca, di cui domani non parlerò se non di passaggio.
Come già dicevo lo scorso anno (ma vorrei precisarlo per coloro che sono qui)
sono un musicologo e non un uomo di cinema o di televisione, ma invito fortemente registi e tecnici, tutti coloro che partecipano a una realizzazione cinematografica o televisiva a essere orgogliosi del loro lavoro, molto orgogliosi, perché – e qui faccio l’esempio che mi riprende in causa – alcuni di noi – io stesso
– stanno preparando una prima storia della musica in rapporto ai mezzi di comunicazione di massa: è tempo, siamo alle soglie del nuovo millennio e sarebbe forse il caso di cominciare a prendere in esame questo problema anche da un
punto di vista storico. A titolo personale devo dire che, al di là del giudizio
estetico, ritengo la Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca un momento storico
per la televisione, perché è quella che si può chiamare una forma di virtuosi78
smo, esattamente come lo si dice per un grande concertista. Al di là del giudizio estetico (sul quale mi esprimerei anche, se non fosse che al momento non è
oggetto di discussione), sono rimasto profondamente ammirato non solo dallo
spiegamento di mezzi ma dal modo con cui questi mezzi sono utilizzati.
Un’altra osservazione. Si è spesso parlato di cinema. Personalmente mi occupo molto di cinema dal punto di vista storico-musicale e, come ben sappiamo, si parla spesso di metacinema, che si ritrova in tanti grandi registi, quali
Fellini, Losey, ecc.: tanti registi hanno fatto del cinema sul cinema in piena legittimità e potenziando il linguaggio estetico di questa arte che anch’io ritengo
sia quella che esprime massimamente il Novecento. Perché non parlare anche
di una metatelevisione? Si può benissimo fare anche della televisione che esalti
i mezzi propri della televisione. Credo che anche la Tosca, nei luoghi e nelle
ore di Tosca sia una forma di metatelevisione, perché se questo è il mezzo è
inutile nasconderlo o vergognarsene; si deve usarlo certamente (e qui si torna ai
temi dello scorso anno) in una forma di rispetto e considerazione dei problemi
e dei valori musicali, della drammaturgia musicale, ma è inutile far finta di fare
del teatro: la televisione è televisione, come la rosa è una rosa, e allora facciamo della televisione oppure smettiamo di farla e di discutere di opera in televisione. Grazie.
ILIO CATANI
Televisione intesa non solo come uso della telecamera: oggi è televisione
anche la post-produzione o il montaggio, per cui chi avrà dimestichezza e fantasia potrà realmente realizzare cose straordinarie. Perché no? Lasciamo aperto
il campo all’immaginazione.
La parola a Chiara Sirk.
CHIARA SIRK
Finora ho sentito un bilancio alquanto sconsolante, nel senso che se, da un
lato, gli spettatori della televisione «normale» sono per vari motivi poco attratti
dalla proposta del melodramma, dall’altro, gli archivi dei canali satellitari si
esauriscono e comincia a porsi il problema di un nuovo repertorio. Mi chiedo
allora se non esista un modo nuovo di avvicinare il pubblico a questo tipo di repertorio. Mi chiedo se non sia il caso e l’ora di percorrere, in modo più continuativo e meditato di quanto non sia stato fatto finora, la strada del prodotto
informativo e la strada del prodotto educativo. Non so cosa la televisione satellitare e quella pubblica stiano facendo ma leggo attraverso la posta elettronica i
messaggi delle liste di discussione dove gli appassionati, soprattutto dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, mi parlano di continuo di documentari della BBC
su Monteverdi, Gesualdo da Venosa, di opere trasmesse sempre in modo documentaristico, quel settore documentaristico di cui parlava il primo oratore di
questa mattina che trova una collocazione abbastanza ampia. Mi chiedo perché
io debba sapere tutto del leone del parco del Serengeti, perché documentari su
questo argomento vengono trasmessi dalla televisione, e non debba sapere chi
fosse Gesualdo da Venosa oppure come funzioni un’opera; non Tosca, non Cavalleria rusticana, non Il barbiere di Siviglia ma altre opere meno note nel repertorio. In altre parole, vorrei un Piero Angela della lirica! Si faceva il nome
di Baricco. Personalmente sono rimasta entusiasta del suo esperimento, mi è
piaciuto moltissimo e spero si ripeta, perché credo che l’opera sia un gioco meraviglioso che, come tutti i giochi, ha delle regole ferree; il gioco è qualcosa di
estremamente serio, del quale purtroppo però la maggioranza delle persone non
conosce più le regole. Pertanto una strada possibile da percorrere sarebbe forse
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quella di aprire la scatola, mostrare come funziona questo meraviglioso meccanismo e solo allora proporre interamente la scatola ben confezionata. Finché
noi non rispieghiamo le regole a chi ci guarda credo che la strada da percorrere
sia estremamente difficile.
ILIO CATANI
Interviene il signor Patay.
FRANZ PATAY
I think there are ways of presenting opera in a more popular way by using
recordings. In Vienna we have an Opera Film Festival in the summer in the
square in front of the Mayor’s House; it’s a large space, there’s a big screen,
and the public is invited to come and watch these opera films for free. Every
evening there are five to ten thousand people coming to watch opera films. We
tried to export this type of activity, for instance using pedestrian zones in
Budapest, Prague and Moscow, and it has beeen a great success. The idea is to
attract a public that doesn’t normally go to the opera, so that when there’s
opera on TV they might stay tuned longer than ten seconds.
On the other hand, documentaries are the only format that sells, for music
programs. Research shows that, if in a documentary about a composer, there is
more than one minute of music the audience changes channel. Thank you.
[Ritengono che ci siano modi più «popolari» di presentare l’opera attraverso le registrazioni. D’estate, a Vienna si organizza un Festival di opera in
film sulla grande piazza davanti al Palazzo Comunale; si tratta di uno spazio
molto ampio con un grande schermo e il pubblico può assistere alla proiezione
di film-opera gratuitamente. Ogni sera vi sono dai cinque ai dieci mila spettatori. Abbiamo anche esportato questo tipo di iniziativa, utilizzando le zone pedonali di Budapest, Praga e Mosca, ed è stato un grande successo. La speranza è quella di attirare spettatori che normalmente non frequentano i teatri
d’opera, in modo che restino sintonizzati per più di dieci secondi anche quando il melodramma viene successsivamente trasmesso in televisione.
D’altra parte, è dimostrato che i documentari sono l’unico formato che si
vende, in ambito musicale. Le ricerche di mercato evidenziano il fatto che se
all’interno di un documentario sulla vita di un compositore viene fatto ascoltare più di un minuto di musica, il pubblico cambia canale. Grazie].
ILIO CATANI
È come farsi schiavizzare dalle esigenze di un pubblico generalista che non
è interessato alla musica e proporre un prodotto musicale come se parlassimo di
un documentario. Certo, se mi aspettassi quaranta minuti sul leone e mi venisse
proposta invece una divagazione su un quadro di Matisse verrei distratto e passerei oltre. Ma torniamo sull’idea del pubblico di Francesca Nesler. Il pubblico
degli appassionati di musica, almeno in Italia, è silenzioso, non fa sentire la sua
voce come avviene per altri tipi di pubblico: se le televisioni in Italia, sia quella
pubblica sia quelle private, cominciassero a interrompere le trasmissioni sportive, a proporre dei programmi mutili o, addirittura, a saltare gli appuntamenti ci
sarebbe una sollevazione di scudi, una sommossa popolare, vedremmo i blocchi
stradali e la gente in strada. Quando invece si annuncia un programma musicale
e lo si fa iniziare con mezz’ora di ritardo o lo si annulla, le poche migliaia di
spettatori restano indifferenti quando non addirittura silenziosi. Perché mai? Per
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buona educazione? Per atteggiamento rinunciatario? Faccio presente che i dati
d’ascolto, specialmente per certi tipi di trasmissione, sono attendibili fino a un
certo punto, perché non tengono conto, ad esempio, dell’entità della videoregistrazione: se non posso vedere l’opera in televisione perché non posso restare in
piedi fino alle due di notte metto in funzione il videoregistratore. Questa attività
non viene evidenziata nel computo degli spettatori riferiti ai dati dell’Auditel
che usiamo in Italia per valutare l’entità del pubblico dei diversi programmi.
Fatta questa precisazione, in Italia, la massa degli spettatori musicali di un prodotto di buon livello oscilla mediamente intorno alle sette-ottocentomila unità e
aumenta in caso di avvenimenti di un certo peso. Ma qual è l’entità reale del
pubblico musicale italiano? attraverso quali canali agisce? L’ho già detto in passato e non voglio esimermi dal ripeterlo: la stampa e i critici musicali in particolare come segnalano le inadempienze della televisione pubblica e privata nei riguardi dei programmi musicali? Nessuno lamenta la carenza di trasmissioni
dedicate alla danza: ormai neanche nella televisione pubblica si assiste a uno
spettacolo di balletto che non sia un repêchage di vent’anni fa. Si vede solo prosa. Landini stamattina ha citato la serie «Palcoscenico», che va i onda su RAI 2
e che per un certo periodo degli anni passati (parliamo del 1997-1998) ha segnato una presenza importante. Qui c’è il collega Tonino Del Colle che è uno dei
curatori di quello spazio e sa quante opere e quanti concerti siano stati programmati e realizzati con mezzi RAI in sedi e istituzioni musicali italiane e quanti
programmi siano stati anche acquistati sul mercato per alimentare, con una certa
continuità, uno spazio che voleva essere anche un appuntamento fisso: un programmatore televisivo sa bene che per il pubblico televisivo «l’appuntamento» è
estremamente importante: il pubblico si aspetta che il venerdì o il sabato sera c’è
il concerto oppure alternativamente il concerto e, la settimana successiva, lo
spettacolo di prosa e poi la lirica. La risposta a quanto diceva la signora Sirk,
che condivido appieno, dovrebbe darla – e mi dispiace che manchi quasi sistematicamente nei nostri incontri – quella figura importantissima che è il responsabile del palinsesto, colui il quale decide che tipo di programma debba andare
in onda a quella determinata ora, con quella collocazione e per quanto tempo.
Non parlo dei canali tematici, per i quali bisognerebbe fare tutt’altro discorso,
ma tra i canali in chiaro della televisione pubblica RAI 3 è quella che propone
una maggiore offerta di programmi musicali. Rispetto alle altre, infatti, devo
dire che quantitativamente la sua offerta è rilevante perché almeno per buona
parte dell’anno trasmette un concerto il sabato mattina; e così i responsabili dei
palinsesti si salvano la faccia, perché almeno un concerto a settimana per cinquantadue settimane è garantito (siamo appunto al livello delle cinquanta ore
l’anno). Si parlava di quali modi debbano usarsi per presentare l’opera. «Prima
della prima» è un altro modo di presentare l’opera, perché non richiede necessariamente l’attenzione alle due ore e mezza dell’opera stessa, con l’aggiunta di un
primo intervallo, che è rappresentato dal telegiornale, di un secondo rappresentato da qualcos’altro, e con la difficoltà ulteriore che l’inizio non è mai puntuale,
per cui a volte diviene un modo di dissuasione dal seguire l’opera. «Prima della
prima» presenta quanto avviene prima dello spettacolo, con l’allestimento,
l’ideazione, la preparazione, le motivazioni stesse raccontate direttamente dai
protagonisti; mezzora di programma nel quale si entra, quasi con occhio discreto
e talvolta anche indiscreto, nel meccanismo teatrale. È un modo di avvicinare
all’opera un pubblico generalista, che non deve essere assolutamente e strettamente interessato ai problemi dell’opera. Avevo invitato la collega che se ne occupa, Maria Rosaria Bronzetti, a presentarci uno dei suoi ultimi lavori ma mi ha
fatto sapere proprio questo pomeriggio di essere anche lei vittima dell’influenza.
È vero, sono tutti discorsi molto interessanti, ma i responsabili del palinsesto secondo me si creano grossi problemi nel voler piazzare anche la bella musica in
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collocazioni che non siano totalmente agli antipodi degli interessi del grosso
pubblico, pensando che il grosso pubblico non possa essere interessato, per
esempio, a un valzer di Chopin suonato da un bravo pianista. Eppure quattro minuti girati bene con un bravo pianista non dovrebbero costringere persone prive
di qualsiasi sensibilità (non dico di cultura) a premere il pulsante del telecomando e finire su un altro canale. Parlando della preistoria, quando nacque RAI 3
furono sperimentati alcuni tentativi di abbinamento musica-immagini proprio
per suggerire all’uomo della strada la possibilità di un connubio che fosse finalizzato semplicemente a un momento di godimento, cioè al piacere di vedere e
di ascoltare qualcosa che non fosse né l’uno né l’altro ma che servisse se non altro a ingannare i due minuti dell’intervallo o l’attesa di un programma. Diciamo
pure che non c’è stato, almeno da parte nostra, un grande impegno nella ricerca
di soluzioni «alternative» a questo problema, anche perché la sperimentazione
costa, come abbiamo constatato sulla nostra pelle anche in occasione di questo
seminario che, come ricordava il professor Marinelli, doveva essere preceduto
da una sperimentazione. Non si è trattato di un problema di costi ma di altre ragioni oggettive, e tuttavia una volta tanto eravamo riusciti a far capire ai responsabili dell’Azienda l’importanza di poter utilizzare questo mezzo come un vero
e proprio gioco: divertiamoci a creare qualcosa, a vedere cosa si può creare,
come possiamo presentare l’opera al di fuori del condizionamento del teatro, degli orari, della telecamera che non può essere piazzata al centro del corridoio
perché la vigilanza non te lo permette, perché lo spettatore si lamenta, ecc.; tutto
con piena e assoluta libertà anche ideativa, a volte ribaltando addirittura i canoni, anzi facendo di proposito uno stravisamento di cose; semplicemente provare!
Il professor Heister e Luigi Bellingardi chiedono la parola, dopo di che
passeremo ai saluti.
HANNS-WERNER HEISTER
Vorrei tornare al problema del documentarismo. A questo proposito direi
che in televisione non ci sono troppi leoni ma troppa musica con i leoni e troppi leoni con la musica! Non sto scherzando, perché penso sia un problema reale. Ricordo una serie della BBC che mostrava immagini affascinanti dell’interno del corpo umano, con un soundtrack musicale che sembrava un’opera sulle
cellule batteriche! Penso che la musica come sfondo impedisca al pubblico di
ascoltare con una certa consapevolezza la musica in generale, soprattutto quella
colta. Questo è un altro problema della programmazione televisiva.
LUIGI BELLINGARDI
Qualche domanda a Di Capua perché i due quadri tratti da Guerra e pace
che abbiamo visto ieri mi hanno interessato molto. Vorrei sapere in generale
come ha realizzato gli altri quadri, per esempio quelli relativi alla guerra, nella
seconda parte dell’opera, in cui la drammaturgia della musica è ancor più carente che altrove: Guerra e pace è l’opera di Prokof’ev in cui la drammaturgia
è più assente, dunque senza i totali, senza lo schieramento dei soldati e così via,
solo con i primi piani è andato avanti in questi quadri.
In secondo luogo, io mi aspetterei per la televisione e per l’opera in televisione un linguaggio nuovo che mi coinvolga senza sommergermi di parole. Senza
divagare troppo, per esempio, trovo che le trasmissioni di Baricco non siano state
utili né educative perché presuppongono un determinato pubblico: sono andato
personalmente in teatro come cronista per assistere a una di queste trasmissioni e
c’era un pubblico preordinato, che arrivava con un determinato invito. Il cinema
ha impiegato molto tempo, forse la televisione impiegherà ancor più tempo per
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raggiungere un nuovo linguaggio di fantasia. La televisione è un elettrodomestico
che fornisce le notizie. Se è già più difficile che la televisione dia il commento,
funzione precipua dei giornali, è pur vero che i giornali sono sempre in ritardo
sulla televisione, e a ciò suppliscono in un certo senso con i commenti e l’approfondimento degli inviati, che in televisione risulterebbero troppo noiosi.
In ultimo vorrei chiedere a Di Capua se conoscesse o se avesse visto i video delle regie di Walter Felsenstein, perché sia per I racconti di Hoffmann sia
per Barbablù prevaricava volutamente l’opera per imporre una propria visione
dell’opera stessa. Nei Racconti di Hoffmann, per esempio, c’era sempre questa
sorta di sfilata di tutte le comparse che dava l’idea dell’impero di Napoleone e
dell’ambientazione generale. Ma per gli allestimenti di Felsenstein contava
poco la musica. Alla Komische Oper venivano in genere rappresentati allestimenti con un modesto direttore d’orchestra, con cantanti di poca importanza e
con tagli praticati senza alcun pudore, ma lo spettacolo aveva comunque una
propria valenza molto forte.
SERGIO MICELI
Scusate l’intrusione ma vorrei fare una proposta. Poiché le domande di Luigi Bellingardi mi sembrano molto interessanti e io vorrei parlar male di Baricco,
non potremmo rimandare questa discussione a domani? Come fa Di Capua a rispondere a quesiti così interessanti nel poco tempo che ci resta? Ricordo che
sono le 18.00. È solo una proposta che il presidente è libero di accettare o meno.
ILIO CATANI
Non vorrei forzare le volontà degli altri. Gianni Di Capua cosa ne pensa?
GIANNI DI CAPUA
Potremmo affrontare adesso metà del lavoro. In pochi secondi, non ho mai
visto un lavoro di Felsenstein e confesso la mia ignoranza a riguardo. Ho usato
per tutti gli altri quadri lo stesso modulo delle due telecamere, tre al massimo,
giocando soprattutto sulla composizione. Solo in un caso ho avuto problemi di
luce e ho giocato con una sovrapposizione ma, per rispondere a Bellingardi, ho
seguito questa logica.
TONINO DEL COLLE
Poiché la terza si rompeva sempre, noi usavamo in media due telecamere
per due giorni, ma non per otto ore al giorno: due ore al giorno, quelle della durata dell’opera. Per il resto, se volevamo fare qualcosa a tavolino potevamo lavorare anche tutta la notte. Sono molto addolorato perché domani non potrò partecipare ai lavori, e vorrei dire due parole. Venire a questo Convegno mi ha
rallegrato moltissimo, perché dal Settantadue fino al Novantuno ho dibattuto litigando con tutti in RAI sui problemi che adesso rivedo uno per uno, serenamente proposti da voi: Maragoni, che è assistente musicale, mi è testimone,
come pure Ilio Catani. Posso solo dire che per ottenere tre giorni anziché due,
per ottenere un palco sicuro da un teatro, anziché quello che volevano impormi,
ho dovuto fare le guerre. Ora vedo invece che si lavora tranquillamente e si parla di giorni di montaggio: per il montaggio a me concedevano due giorni, in cui
dovevo provvedere anche ai titoli di testa e di coda. Tutto questo perché alla fine
degli anni Cinquanta il discorso sullo specifico televisivo si era già esaurito, per
cui alcune produzioni legate all’estero o legate alla Scala di Milano venivano
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ben realizzate perché vi era già l’intenzione di farne delle trasmissioni per tutti.
Da noi, invece, i convegni sullo specifico televisivo si sono esauriti negli anni
Sessanta e da quel momento in poi non sono più esistiti non certo perché si fosse arrivati a una soluzione. Le soluzioni sono quelle che avete prospettate voi
tutti con i desideri, sono esattamente le stesse. Si è allora deciso che bisognava
andare a braccio. In questo sono stato favorito perché leggo la musica, il che
non significa che potessi preparare e fare un montaggio ma che potessi più facilmente di un altro decidere una determinata inquadratura perché sapevo che in un
determinato istante stava attaccando il tenore o il baritono. Devo dire che a fine
opera la troupe mi ha anche fatto tanti applausi. Questo dovevo assolutamente
dirlo, cioè la mia felicità nel vedere che si continua a discutere di questi temi.
GIANNI DI CAPUA
Sarò lieto poi di conoscerla, ma vorrei solo aggiungere quanto segue. Ho
usato tre telecamere e ho usato un termine non tecnico ma non mi sono lamentato perché è stata una scelta.
TONINO DEL COLLE
Ho capito benissimo che nel suo caso si è trattato di una scelta ma a me davano forzatamente tre telecamere che, ripeto, diventavano quasi sempre due. Ciò significa che le mie scelte erano del tutto misconosciute. Le battaglie che sono state
fatte contro questi due mostri che sono la televisione e i teatri, contro la mentalità
dei cantanti lirici e la mentalità del teatro che deve pensare al suo guadagno vedo
con piacere attraverso i suoi discorsi che hanno avuto buon esito e che i problemi
sono stati completamente risolti. Lei può anche scegliere di usare una sola telecamera ma io ero costretto a scegliere una sola telecamera per fare un’opera pulita.
Nel Novantuno la RAI mi aveva promesso una conferenza stampa e me
l’ha concessa dopo aver allestito per la prima volta in forma scenica L’impresario di Mozart al Foro Italico. In quell’occasione furono peraltro raggiunti tre
primati: realizzare contemporaneamente la regia radiofonica, la regia televisiva
e la regia teatrale; avevo anche disegnato le scene. In breve, non era mai accaduto che si facesse una forma scenica al Foro Italico e non era mai accaduto
che tre regie fossero curate contemporaneamente. Ebbene, in contemporanea,
all’ora designata per la mia conferenza stampa se ne stava svolgendo un’altra a
Viale Mazzini per l’inizio di Fantastico a Cinecittà. Potete immaginare quanti
giornalisti siano venuti. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso
e che mi ha fatto decidere di dedicarmi solo alla produzione. Se faccio un concerto cercando di tradurre in immagini la struttura musicale o un’opera lirica,
cercando di interpretarla, ma non mi vengono concessi spazi adeguati, è chiaro
che non riesco a fare le cose come vorrei; se per giunta faccio bene le cose e
nessuno se ne accorge allora è meglio andarsene. E così mi sono messo a fare il
produttore. Ilio Catani diceva che facevo Palcoscenico. A questo proposito
vorrei chiarire che l’alternanza di due settimane tra prosa e musica non è stata
cambiata a favore della prosa a causa del pubblico. Non è così. Il pubblico rispondeva allo stesso modo ma probabilmente ai capi della RAI non piaceva
programmare musica ogni quindici giorni. Grazie per avermi ascoltato.
ILIO CATANI
Ringrazio Tonino del Colle per questo suo racconto biografico. Ringrazio
anche tutti i partecipanti di questa sessione. Do appuntamento a tutti per domattina alle 9.30 per la terza giornata di lavoro. Un grazie caloroso e cordiale a tutti.
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mercoledì 1 dicembre 1999
ore 9.30
Circolo RAI
viale di Tor di Quinto 64
Sala conferenze
presiede
Ilio Catani
ILIO CATANI
Buongiorno e benvenuti. Il giorno è favorevole, il sole brilla e l’aria è tersa, e questo renderà meno piacevole il soggiorno all’interno di questa stanza,
visto che sarebbe stato molto più carino godersi l’aria esterna!
Possiamo dare inizio ai lavori di questa giornata. Prima di cominciare vorrei portarvi i saluti cordialissimi e affettuosi del professor Marinelli, il quale
per una indisposizione è costretto anche oggi a privarsi del piacere e dell’onore
di essere con noi. In realtà l’onore sarebbe stato tutto nostro. Spera di poter essere presente domani per le conclusioni del Seminario. Diamo inizio senza ulteriori indugi al programma odierno. Ho il piacere di avere al mio fianco il professor Döhring dell’Università di Bayreuth che ci propone una sua relazione
sulla regia visiva del Christoph Colomb di Darius Milhaud. Il professor Döhring ha una traduzione italiana del suo testo. Prego di farne una copia per agevolare il lavoro dei signori traduttori. Secondo il programma che ben conoscete
sarà poi la volta della signora Erben del Metropolitan Opera di New York. Infine, uno spazio sarà riservato alla discussione. Ieri sera abbiamo potuto apprezzare anche il significato di questi nostri incontri attraverso lo scambio delle
idee. Spero che ci sia più spazio oggi (domani ve ne sarà di sicuro) per affrontare tutti quegli aspetti in fondo irrisolti delle tematiche che sono emerse nei
vari interventi e nelle varie discussioni. Come già ieri, volevo raccomandare di
contenere nei limiti del possibile l’intervento nei minuti previsti, questo anche
per avere più tempo e non essere sacrificati nel dover rimandare a occasioni
successive le considerazioni e le varie obiezioni che possono sorgere di volta in
volta. L’impressione comunque è che tutto stia procedendo bene e l’unico rammarico è l’assenza del professor Marinelli, di cui conosciamo la capacità di
mediazione e di sintesi dei vari interventi nonché la capacità di stimolare alcune riflessioni che una problematica così vasta e articolata ci dà sempre modo di
evidenziare.
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SIEGHART DÖHRING
Regia visiva di Christoph Colomb di Milhaud (Greenaway, Berlin 1998)
Una delle idee a cui si ispira il programma della Staatsoper di Berlino Unter den Linden con il direttore Georg Quander è riportare sulle scene opere
oggi poco note, legate però in modo particolare alla storia di questo teatro, sia
perché vi sono state rappresentate per la prima volta sia perché sono state parte
importante del suo repertorio. Quando alla Staatsoper il 24 ottobre 1998 è stato
rappresentato Christoph Colomb di Darius Milhaud in una nuova spettacolare
messinscena (con la regia di Peter Greenaway e Saskia Boddeke, le scene di
Gerhard Benz, i costumi di Emi Wada, le luci di Franz Peter David, la direzione musicale di Philippe Jordan) solo pochi sapevano che quest’opera, nel frattempo quasi dimenticata, ha uno specifico sfondo berlinese, che basta a legittimare la sua ripresa su questa scena. Infatti l’opera Christoph Colomb, anche se
francese nel testo e nella musica, andò in scena per la prima volta il 5 maggio
1930, con tutti i connotati di un avvenimento sensazionale, alla Staatsoper di
Berlino, il teatro d’opera tedesco più importante in quel periodo, e rimase in
programma fino all’arrivo al potere del Nazionalsocialismo. Secondo i critici
del tempo questo difficile spartito trovò allora una realizzazione teatrale competente con il direttore Erich Kleiber e un ensemble di cantanti eccellenti (tra
cui Margherita Perras, Delia Reinhardt, Fritz Soot, Emanuel List). Ma fu in primo luogo l’aspetto scenico della rappresentazione a suscitare l’attenzione degli
ambienti musicali: le enormi difficoltà scenotecniche dell’opera con i suoi ventiquattro quadri che si susseguono per lo più in veloci cambiamenti di scena,
realizzati dal regista Franz Ludwig Hörth e dallo scenografo Panos Aravantinós
nello stile delle scene di massa del teatro di prosa del periodo (Max Reinhardt,
Erwin Piscator) e del cinema muto (Fritz Lang), un’estetica che trovò la sua
prima applicazione nel teatro musicale in questa occasione. Queste tendenze
culminarono poi nell’uso del film come elemento autonomo della presentazione drammatica, previsto nel contesto dell’opera. In questo senso Christoph Colomb fu una pietra miliare nella storia del teatro musicale, quindi è più che logico che Greenaway e il suo team si riallaccino proprio a questo elemento nella
nuova rappresentazione del 1998 e facciano del film l’elemento portante della
loro messinscena.
Dal punto di vista della storia del genere Christoph Colomb si ricollega a forme contemporanee del teatro musicale epico, quelle rappresentate per esempio
dagli ultimi lavori di Stravinskij, in modo particolare la sua opera-oratorio Oedipus Rex del 1927. Naturalmente in uno stile completamente diverso: ben lontano
dal rigore neoclassicista di Stravinskij, Milhaud impiegò in quest’opera un labirinto barocco dei più eterogenei mezzi rappresentativi, come scrive Michael Stegemann: «misteri e revue, melodramma e Gesamtkunstwerk, professione di fede
e accusa, spettacolo storico e teatro delle idee, psicogramma e action-thriller, arte
cinematografica e teatrale, parodia e sperimentazione». La struttura globale passa
in seconda linea dietro la plasticità del singolo quadro, così che Milhaud per la
nuova versione del 1956 poté invertire la posizione delle due parti («parties») con
i loro diciassette e sette quadri («tableaux») senza danno per l’insieme. La connessione non è tanto drammatica quanto reale e le parti sono tenute insieme innanzitutto dal testo di Paul Claudel, uno dei maggiori rappresentanti del rinnovamento cattolico («renouveau catholique»), la cui testimonianza più imponente nel
campo del dramma musicale è il Christoph Colomb, che precede la Jeanne d’Arc
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au bûcher di Arthur Honegger, anche questa composta su un testo di Claudel
(1938-1942). La scoperta e la conquista dell’America da parte di Cristoforo Colombo è raccontata come parte della storia della redenzione cristiana e presentata
come moderno «teatro del mondo» con i mezzi scenici più avanzati.
L’uso del film come mezzo teatrale diede all’opera e alla messinscena un
carattere avanguardista-sperimentale. Sia Claudel che Milhaud erano molto interessati alla cinematografia già negli anni Venti, ma in modo particolare nel loro
lavoro al Christoph Colomb. Uno dei vari progetti per l’elaborazione di questo
argomento era un copione per film di Max Reinhardt con la musica di Richard
Strauss. Ma l’idea di una collaborazione con questo compositore non entusiasmò tanto Claudel. In più si constatarono divergenze nell’impostazione generale, le quali portarono infine al fallimento della prevista collaborazione con
Reinhardt. In contrasto con l’idea iniziale di Reinhardt di realizzare il Christoph
Colomb come pantomima per musica, con uno scenario limitato, Claudel fin
dall’inizio propendeva per una più ampia realizzazione scenica, che gli sembrava la sola adatta al tema. Così scrisse un lavoro teatrale autonomo con il titolo
Le livre de Christoph Colomb (1927), su cui si basò poi l’opera di Milhaud. La
sua concezione drammaturgica è epica, non drammatica. L’azione presentata da
un lettore, chiamato «explicateur» o «récitant», si muove su vari livelli della finzione, che rivelano le diverse dimensioni del tema. Scriveva Claudel:
Il dramma è, nell’idea di base, come un libro che viene aperto e di cui si
comunica al pubblico il contenuto. E il pubblico interroga attraverso la voce
del coro il lettore e gli interpreti delle vicende. Vuole da loro schiarimenti. Si
associa ai loro sentimenti. Li sostiene con interventi e consigli. Il tutto è come
una messa, a cui si partecipa attivamente e continuamente.
In una tale concezione si inserisce perfettamente il nuovo medium film.
L’impiego di proiezioni filmiche offriva affascinanti e rivoluzionarie possibilità di una rappresentazione simultanea dei diversi piani dell’azione. Chiaramente non si utilizzò il nuovo mezzo espressivo indiscriminatamente, ma come
superficie di proiezione dell’azione interna, in contrasto con l’azione scenica,
per così dire, reale, come scriveva Claudel: «Un paesaggio dell’anima prende
qui il posto della vecchia veduta scenica materiale». Per Claudel il film era, nonostante le apparenze, un mezzo artistico anti-realistico che gli sembrava adatto a impedire il crearsi di una «sfera narcotica», come quella cercata da Wagner, o a romperla in caso si fosse creata.
La realizzazione tecnica avvenne proiettando, in momenti ben definiti
dell’azione, un film girato precedentemente, su una superficie che concludeva
lo sfondo della scena. Il film, che è andato perso, fu prodotto in un sotterraneo
della Staatsoper. Nel programma della prima rappresentazione si legge: «Il film
è progettato e girato da Franz Ludwig Hörth. Fotografia: Werner Brandes. Produzione: Ufa. Animazione: Paul Peroff. Proiezioni: Panos Aravantinós». Il regista e lo scenografo fungevano quindi anche da realizzatori del film, cosa che
ne garantiva la connessione con l’impianto della messinscena. Sulle riprese e
sui mezzi tecnici impiegati abbiamo ancora un resoconto dell’epoca, da cui risulta come Hörth fosse fortemente interessato a mostrare chiaramente l’unità di
concezione del film e dell’azione in scena. Nella rappresentazione la proiezione delle sequenze filmiche, che duravano complessivamente quarantadue minuti, avveniva nel modo seguente:
Sulla scena il proiettore è stato installato nello sfondo in una cabina assolutamente incombustibile. Un secondo proiettore si trova nascosto nella platea.
Uno schermo di shirting, del tutto bianco e trasparente, senza la minima struttura del tessuto, facile da tirar giù e da riavvolgere, costituisce la superficie di
proiezione.
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Ma sulla base dei pochi documenti fotografici rimasti – sono sei in tutto –
non possiamo dire se il film adempisse veramente alla funzione drammaturgia
affidatagli. Dei tre esempi che seguono, il primo mostra una protezione, il secondo e il terzo degli spezzoni di un film.
(esempio audiovisivo)
L’inserimento del nome «America» sulla carta geografica del continente
indica che il nuovo medium, contrariamente all’intenzione degli autori, produceva anche – comunque in alcuni casi – delle semplici ridondanze, e non solo –
come in questo caso – sul piano filmico, ma anche nel rapporto tra rappresentazione scenica e filmica. E alcuni critici disapprovano il carattere troppo illustrativo e ovvio degli inserti filmici, che non sono altro che «duplicati filmici dello
stato d’animo del momento» delle dramatis personae. Da altri resoconti risulta
che l’idea degli autori di rendere visibili delle «idee» attraverso il medium film
sembra essere riuscita almeno in parte, per esempio si legge che
le accuse rivolte a Christophe Colomb passano una dopo l’altra con la velocità dei fulmini, una volta il vecchio Colombo vede il suo passato e contemporaneamente il giudizio di valore che viene espresso su di lui. In un’altra scena ci sono cinque Cristofori Colombi; compaiono tutti contemporaneamente.
Uno sta in primo piano alla ribalta, uno come portavoce/narratore vicino al
coro, un terzo rappresenta Colombo da giovane, un quarto Colombo da uomo
maturo e un quinto è Colombo da vecchio.
Qui si capisce che il film era riuscito veramente a intensificare, nella maniera che gli è propria, la drammaturgia della discontinuità, caratteristica in generale del teatro epico.
Con precise istruzioni per l’esecuzione gli autori avevano definito dettagliatamente l’accordo di testo, musica, rappresentazione scenica e filmica. Eccone la dimostrazione per il secondo e terzo quadro della seconda parte. Dapprima il lettore si rivolge agli spettatori con un’introduzione: «Dopo il suo
quarto viaggio Colombo fu mandato a casa in Spagna da quell’uomo che il re
spagnolo aveva nominato governatore al suo posto. La scena davanti a voi mostra l’interno di una nave. Colombo è incatenato. Tutt’intorno è notte e la tempesta infuria sulle profondità dell’Atlantico (…)». Mentre crescono la tempesta
e il pericolo che la nave si rovesci, il comandante si rivolge a Colombo: «Trova
la parola che ci aiuti! Contro il caos scatenato sguaina tu la spada di quella parola che fende il fragore della tempesta!». A questo punto c’è la seguente istruzione per la regia: «La tempesta avviene con immenso ululato, l’intera scena
scompare dietro uno strato soffuso di acqua e vapore rischiarato solo da lampi
blu. Ma Colombo ha pronunciato una parola e dal buio compare a lettere gigantesche la parola del Vangelo secondo San Giovanni: «In principio era il Verbo». Il temporale si placa, si vede di nuovo la scena. Il coro ripete la citazione
biblica, poi la ripete anche Colombo: «In principio era il Verbo… Nel nome di
questo Verbo vi ordino, indietro, forze cieche e bestiali!». Dopo che si è calmata la tempesta, si passa a un dialogo tra Colombo e il cuoco di bordo, quest’ultimo con le caratteristiche del diavolo, e precisamente nel significato biblico di
«Satana», quindi «accusatore». Il dialogo è introdotto e interrotto da istruzioni
per la regia che si riferiscono agli inserti filmati: «La scena si trasforma, non si
vede più nient’altro che uno schermo bianco sullo sfondo. Colombo: «Dove
siamo adesso?». Cuoco: «Siamo nell’interno della tua coscienza!». (Ombre
scorrono a gran velocità sullo schermo). Colombo: «No, non riconosco niente».
(Si vede una massa passare volando come il vento. Sono teste di selvaggi ornate di penne, gli archi e le frecce). Cuoco: «Guardaci meglio!». Colombo: «Che
cosa sono queste ombre fuggevoli, passano sospese in aria come nebbie di
fumo?». Cuoco: «È un popolo intero, una massa immane, che tu hai stermina90
to». Colombo: «La nebbia non mi importa, giacché un solo forte raggio del
sole mattutino la sa cacciare». (Sullo schermo si vedono schiavi negri, carichi
di catene). Colombo: «Chi sono quegli Etiopi, carichi di catene?». Cuoco: «La
schiavitù, da tempo scomparsa dalla terra, tu l’hai riportata!». È evidente: il
film serve qui come medium della coscienza di Cristoforo Colombo (come dice
anche il titolo del quadro), e del suo inconscio.
Nel programma della nuova messinscena alla Staatsoper di Berlino Peter
Greenaway ha presentato, in un saggio ben informato, la sua interpretazione
del Christoph Colomb e, a partire da questa, ha sviluppato l’idea della regia.
Riconosce giustamente che è la concezione mediale dell’opera che le vale la
sua importanza estetica e la sua posizione nella storia del genere. Nel film, il
medium della comunicazione totale del secolo Ventesimo, sia Claudel che
Milhuad riconobbero il moderno «Gesamtkunstwerk». Ma per loro la multimedialità non significava frammentazione, bensì integrazione. Ciò che avevano in
mente e che realizzarono in modo esemplare con Christoph Colomb era un teatro musicale composto di media diversi, un misto di idioma teatrale e idioma
filmico. Partendo dalle esperienze cinematografiche degli anni Venti, ambedue
intendevano il film come medium narrativo, come sfondo illustrativo e sostituto dell’azione scenica. Esattamente in questo punto Greenaway si è allontanato
dalla concezione degli autori, cioè l’ha ampliata sulla base delle esperienze fatte con il nuovo medium nel periodo di tempo che è trascorso da allora. La sua
regia prevede quindi non un solo film prodotto in precedenza, ma include nella
parte filmica materiale di archivio, ritagli di documentari, animazioni e citazioni, in molteplici e sovrapposte combinazioni. Di conseguenza Greenaway non
utilizza soltanto una superficie di proiezione, come aveva fatto Hörth, ma dieci:
davanti, in centro, dietro e ai lati, in più uno schermo mobile e una superficie di
proiezione per commenti, come ampliamento della mediazione didattica attraverso la persona del narratore. Greenaway definisce questa messinscena «progetto degli schermi» appunto perché è caratterizzata da queste superfici di
proiezione, elementi di grande importanza.
La concezione multimediale non è il risultato di riflessioni di tipo esteticoformale, ma è strettamente connessa con l’interpretazione del tema da parte di
Greenaway, un’interpretazione che riprende, sì, le premesse tematiche di Claudel, ma le sviluppa alla luce dell’esperienza storica del nostro secolo. Greenaway non si chiude affatto al rigore del discorso di idee di Claudel, ma lo sottopone ad un’analisi storica. Questa analisi si svolge su 5 livelli di significato.
Sono: 1) Il livello testuale, a sua volta estremamente complesso per il grande
numero di documenti citati; 2) Il livello politico, che riguarda la questione del
colonialismo, vista come costante della storia mondiale fino ai tempi recenti; 3)
Il livello estetico della messinscena, che si rapporta ai due livelli sopraccitati;
da questo risulta 4) il livello autoriflessivo, espresso attraverso le persone che
partecipano alla messinscena; infine 5) il colore. Questo è collegato al terzo (al
livello estetico), ma ha un effetto di maggiore portata e trasporta l’idea a cui si
ispira tutta la messinscena. Il confronto del nuovo con il vecchio mondo e l’interazione tra i due vengono infatti visualizzati simbolicamente per mezzo del
colore. L’inizio della prima parte presenta un mondo in bianco e nero, la corte
spagnola nella sua sobrietà e austerità. Alla fine di questa parte si annunciano i
colori vivaci e luminosi degli indios. Ma presto lo splendore di questi colori degli indios viene strappato a forza e trasportato in Europa, dove lo si accumula
sugli austeri costumi neri dei conquistatori. Alla fine della seconda parte, e
quindi dell’opera, predominano il bianco e l’argento, i colori del cielo, là dove
la regina Isabella spera di trovare dimora per sé e per il suo fedele servitore Colombo. L’ascesa al cielo che è concessa ai due nel dramma, viene loro negata
nella messinscena, e Greenaway scrive: «Il loro viaggio li porta in un altro luo91
go – un luogo di sconforto e deserto, la conseguenza dello sfruttamento che lei
[Isabella] ha provato». Come ultima immagine rimane impresso – in una proiezione di grandi dimensioni – lo sguardo impaurito e interrogativo di un bambino indigeno: un finale aperto del dramma di mondi senza alcun orizzonte di
salvezza.
Come fonte di ispirazione visiva per la drammaturgia cromatica dei costumi, Greenaway ha utilizzato il dipinto Las Meniñas di Velasquez, le cui figure
rappresentano ai suoi occhi la Spagna imperialista. Come scesi da questa tela,
una dama di corte e un nano, rappresentanti opposti della società spagnola, si
muovono per tutto lo spettacolo in ruoli di pantomima. L’enigmatico simbolo
della colomba era stato già proposto da Claudel: viene ripreso e interpretato diversamente da Greenaway. Non è necessario in questa sede sciogliere o addirittura decifrare il complesso intreccio di significati e allusioni, già tessuto fittamente da Claudel e arricchito ulteriormente da Greenaway. Comunque è
riconoscibile il principio sulla base del quale si deve intendere l’uso del film in
questo allestimento. Il film non compare qui, come in Claudel, come elemento
di una concezione teatrale globale, ma la definisce come multimediale. Il film
passa quindi letteralmente dal margine al centro, non illustra l’azione scenica,
il film è un palcoscenico virtuale.
Vorrei presentare questa concezione con un brano della durata di circa dieci minuti; si tratta di una scena-chiave dell’opera, il secondo e il terzo quadro
della seconda parte, quando Colombo, davanti al tribunale della storia, presidiato da Satana nella persona del cuoco di bordo, deve rendere conto delle sue
azioni (è stata descritta prima seguendo il testo). Agli argomenti dell’accusa
Colombo non ha niente da contrapporre, però salva la sua vita e quella dei suoi
compagni con la forza della parola biblica, che pronuncia nel momento di massimo pericolo, e che ha il potere di cacciare le forze del Caos (vengono nominati Leviathan e Behemoth). Questa immagine ambivalente dell’essere umano
che si trova nel contrasto fra la colpa e la grazia, viene risolta da Greenaway in
una chiara accusa, e la sua interpretazione si oppone allo svolgimento
dell’azione come è prescritto dal testo e dalla musica. L’improvvisa quiete, che
però anche in Claudel e Milhaud è solo passeggera («l’occhio del ciclone» è il
nome che le dà il cuoco), riceve un contrappunto dissonante attraverso la forza
distruttiva delle immagini. Mentre il cuoco osserva e commenta ciò che succede dall’alto dell’albero della nave, Colombo è prigioniero come in una gabbia
nella sua cabina, con la colomba che svolazza intorno, sugli schermi si scatena
un inferno di violenza, il cui immaginario è preso da Hieronymus Bosch (ma
anche da Breugel, Goya e altri), montato con tagli e dissolvenze sempre più veloci. Il titolo del dipinto di Bosch (Il giudizio universale) definisce esattamente
il messaggio di questo collage filmico. Durante il dialogo che segue tra Colombo e il cuoco, le immagini sullo schermo si attengono in un primo momento al
contenuto del testo, ma ampliano poi l’immagine lì descritta degli indios asserviti creando un panorama degli «umiliati e oltraggiati» di vari popoli e vari periodi della storia più recente (delle vittime del napalm in Vietnam fino agli
ebrei nei campi di concentramento nazisti). Con montaggi rapidi sono inserite
immagini della natura e paesaggi industriali. Per dare un’idea della successione
rapida del materiale di queste scene, vedremo dopo la proiezione completa della scena, due brani della stessa scena, girati da una macchina da presa che riprende tutto il palcoscenico.
(esempio audiovisivo)
Quando si prende in considerazione il rapporto fra l’opera e il film bisogna
anche tener conto del modo in cui i due media si sono incontrati. L’interazione
avviene non solo sul piano della riproduzione ma anche su quello della produ92
zione. Ciò riguarda naturalmente in prima linea l’opera, perché in genere, al
momento della comparsa della cinematografia si trovava in una fase di nuovo
orientamento della sua storia ed era particolarmente aperto a impulsi esterni. Si
è riscontrata raramente una influenza nella direzione opposta anche se i film
storici e in costume possono essere considerati un’apertura verso la posizione
dell’estetica operistica. L’introduzione del film nell’opera è avvenuta in due
modi differenti: da un lato, l’opera ha potuto adattare per il proprio medium
delle tecniche filmiche, come il montaggio, allacciandosi a tendenze che aveva
già sviluppato, si può dire ante litteram, da sola e che si sono trovate rafforzate
con l’avvento del film, ma ha potuto anche integrare il nuovo medium film ampliando così la sua forma teatrale nel campo della multimedialità. Questo cammino lo percorsero in maniera esemplare Claudel e Milhaud con Christoph Colomb. Il fatto che la ricezione dell’opera non corrispose al suo significato
storico può avere a che fare con le circostanze della sua nascita e delle prime
rappresentazioni. Rimane però difficile da spiegare il fatto che librettisti e compositori esitarono a lungo a integrare il film nell’opera. Una ragione potrebbe
essere che il teatro musicale epico, che aveva un’affinità particolare con il film,
ha perso forza d’attrazione a partire dalla metà del secolo. Il nuovo riavvicinamento dei due media è avvenuto infatti non sul piano della composizione ma su
quello della messinscena. Sono stati i registi a reagire alle nuove abitudini visive proprie e del pubblico, modificate dal contatto quotidiano con i nuovi media. La messinscena di Peter Greenaway di un classico Filmoper, un esempio
radicale ma non unico, si rivela in questo senso estremamente attuale.
Grazie.
ILIO CATANI
Grazie al professor Döhring per questa interessante, esauriente e analitica
presentazione del Christoph Colomb. Se volessimo calarla anche nella tematica
del nostro Seminario mi verrebbe la pelle d’oca pensando alla problematica di
una traduzione puramente televisiva di questo lavoro, perché i frammenti che
abbiamo visto sono chiaramente amatoriali: si tratta di una videocamera, una
handycam che ha ripreso per motivi di studio e di documentazione un lavoro
così complesso. Certo sarebbe stato interessante sapere da Greenaway stesso se
avesse in progetto anche la realizzazione televisiva di un lavoro di tale portata,
e questo sarebbe potuto diventare oggetto di discussione anche per noi. Mi viene da pensare alla conclusione di Landini, che definiva poco televisive le opere
di Rossini. Può darsi ma in questo caso il problema è di ben altra portata. Ne
possiamo discutere in seguito.
Invito la signora Erben per la seconda relazione di questa sessione.
93
SUSAN ERBEN
Problems and Opportunities of Getting Opera Shown in the Television, Home
Video and Internet Markets, and Future Implications of New Technology
Thank you. I’ll talk about television production at the Metropolitan Opera
and give you a brief background on how we produce a telecast, because it
differs from most of the other opera companies in the United States.
We rarely do co-productions with other companies, distribution companies
or television broadcasters. We’ve produced approximately three telecasts each
season since 1977 for a series that goes on the air on public TV. The productions are entirely paid for by fund-raising at the Metropolitan Opera, from
our patrons. We had a corporation, Texaco, who for many years paid for the
telecasts, and this is the first year that we have no funding from Texaco, but we
have an individual patron who is dedicated to paying for our stage productions.
She started paying for television productions, and she recently left a specific
endowment to the Television Department at the Met. We have an in-house
Radio and Television Department, which is mostly administrative, as we hire
all of our technical staff – cameramen, directors, audio engineers – on a freelance basis, and it’s generally the same people. The technical staff has
consisted of the same personnel for the past twenty years, no matter who the
producers have been.
From my perspective, it’s technically very easy to do a television
production at the Met Opera house: the entire theater is cabled for transmission
for radio and television, there’s a satellite on the roof – which can feed to a
local radio or TV station – and shows can be transmitted either across the
country or, on occasion, internationally.
The first telecast that we did, as part of this series was La bohème, with
Luciano Pavarotti, in 1977; it is estimated that between 4 and 6 million viewers
watched that evening. It was the start of a regular series at the Met; before that
time television was produced by NBC, CBS, and major network stations that
came in and televised a production as a special event.
Many, many years ago NBC had an orchestra in their studio at the
television station, and they maintained a certain level of cultural arts on
commercial television, but in the United States network television has become
completely commercial – there’s a great deal of money at stake. Public
television in the United States took up the shortfalls of network television.
Public television has a reputation for high quality and artistic integrity. Also,
one of the requirements of public television is that it must try to present all the
different views in the US, which seems inconceivable in many ways... Public
TV presents opera, avant-garde theater, and dance; politically, they present
programs that are either conservative or liberal. It’s a wonderful medium to
have the opera presented on.
One of the considerations for the Metropolitan Opera at this point in time is
the fact that we’ve taped over ninety television opera productions since 1977.
Approximately forty of them are available on video, and there are several
operas, such as Otello and Aida, which have been taped several times. We are at
a stage in which we need to decide whether it’s worth it to do another recording
of the same opera that we’ve televised already. If it’s a brand-new stage
production, with new stage directors, wonderful new artists, obviously it’s a
good reason to go ahead and produce the same opera we’ve televised in the past.
94
The other consideration is that some of the people who fund the opera are,
at times, much like the public: they want to see the more popular operas, they
want to see the more popular stars.
However, we are also committed to considering the fact that we have
commissioned several new operas over the past ten years, one of which is The
Ghost of Versailles, an American opera, which was shown on PBS and,
although not seen internationally on television, was released on home video.
The video doesn’t sell very well from what I understand – an unknown opera, in
English –, but who knows what will happen fifty years from now? The Met felt
it was important enough to commission the piece, put it on the stage, and
televise it. Whether or not we receive ratings and how many people watch, I
think, sometimes has to be beside the point. We can’t possibly know in advance
the artistic merit of something, or how it’s going to be viewed historically.
The way public television works in the United States is that we have a
release date that we bill and promote as an event. The station in New York
City, WNET, is the main presenter; there are many local PBS stations, and
most of those stations – approximately 240 out of 300 stations – air the
Metropolitan opera on the same evening, nationally. But they are local stations,
which depend on local fund-raising, and have their own programming; many of
them produce programs that are specific to their own market: WGBH in Boston
is one of the première PBS stations that produces programming for its own
market, and they also sell their programming to other PBS stations. What we
have found in recent years is that some of the large opera markets will put on
an opera production at 8 P.M., when there are many viewers.
However, we have no influence over the local stations. They decide when
they want to air a particular program. Basically, the Met produces an opera – it
costs well over a million dollars today to produce an opera on television – the
local stations must air it within seven days, and then all the rights expire. So if
the telecast goes on PBS and is not sold in the international market, there is a
very good chance it will never be seen again. Several years ago this was not an
enormous concern for us, because inevitably programs would go to home video
or into the international television market, so we knew that people in the world
could see these productions in one way or another eventually. But today that is
not the case; we used to have presales in the international market, as well as the
home video. We knew that at least one production every single year was going
to go to home video, but in the past three years none of our productions have
been bought for home video, regardless of the artistic merit.
What is especially difficult is that we depend primarily on the European
market to air the telecasts. Traditionally, Italian, German, French or Spanish
television always bought Met Opera programs. BBC England is a case in point:
BBC Worldwide is our foreign distributor, but BBC Broadcasting has only
shown one out of three programs that have been sold in the international
market in the last several years.
What has happened is that we’re paying much more attention to the
number of people watching in the United States, and we’re discovering that
there are several different dynamics. For instance, if we are on the air in late
December, when it’s very cold in New York and the Northern cities in the
United States, and it’s between the holidays of Christmas and New Year’s Eve,
everyone stays home and watches the opera. If it’s early September it’s still
summertime, and it’s warm out, and the ratings are much lower. We presented
a telecast of The Queen of Spades on September 8th – we tried to air it after the
summer season, when everyone in New York and other major cities had come
back from the holidays – and we found that the ratings were actually quite low.
It was a wonderful production: Plácido Domingo sang in his first Russian role,
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and was taped with Valerij Gergiev; Galina Gorčakova, Dmitrij Hvorostovskij,
Nikolai Putilin, Olga Borodina – it was an incredibly beautiful production...
and the ratings were low! We have no idea if this is going to be picked up for
home video, but I seriously doubt it in the current market. Our distributor
believes that she can sell it in the international television market, but that
remains to be seen.
We taped The Marriage of Figaro last season, with Bryn Terfel, Cecilia
Bartoli, Renée Fleming, and an American singer who came up through the
«Young Artists» program at the Metropolitan, Dwayne Croft; that program is
going to go on the air in late December, and we expect the ratings to be quite
good; it’s also going to air in Australia, just after the PBS telecast takes place.
We’re very excited about that, but this is the kind of program that six years ago
would have immediately gone to home video as well, and we have no home
video deal for this production.
What we find too is we have fewer viewers if we televise an opera that is
not in the standard repertory. We are committed to doing some productions
which are not in the standard repertory: we did a production of Fedora with
Mirella Freni. It was a beautiful tribute to her and her career, and the years in
which she sang at the Metropolitan Opera. This is not going to be widely
distributed production, but it’s in our archives.
My perception varies between being very positive when we receive a call
from someone who is interested in one of our productions, to becoming quite
disillusioned in this business when I see things are not going into the
international markets.
One of the greatest things that have happened in opera is DVD. What it has
done for the Met, at least, is it has given the home videos we have out on the
market a new life. Laserdisc never quite took off, for us, but soon three titles
are going to be out on DVD. Unfortunately, at this time we have not taken
advantage of all the technological advantages of DVD: the different optional
languages and the background material, but our distributors plan to do so in the
future.
Deutsche Grammophon has released six titles to date, and only in Japan, of
DVDs that have sold quite well. This initial offering stimulated Polygram in
Hamburg (the parent company for Deutsche Grammophon), to plan the
worldwide release of DVDs of the Met Opera-Deutsche Grammophon
catalogue. What the Japanese office did was to release a DVD with background
material about the Metropolitan Opera, about the conductor (Maestro Levine,
for the most part), and some material on the artists. I think in the future DVD is
going to be a wonderful medium: we’ve watched the figures, and although the
sales numbers are not enormous yet, they are consistent. Every year that the
Met has a video out in the market, we’ve seen that they still sell. We assume
it’s students coming up, people interested in having a library of the latest
format, who collect operas in their own homes. I hope that it’s similar to what
happened with CDs: many of us owned albums, and now we own the CD of the
same title. Also, regarding the capabilities of DVD: it gives everyone, whether
you’re a musicologist or a historian or simply a consumer who enjoys opera, all
these other options. It gives you something extra beyond what we were able to
produce in the past.
One of the biggest issues is that we cannot ignore our union labor
agreements in the United States. One of the fears I have of the DVD format is
that the recording companies will withhold rights for a DVD release if the
DVD can also be played as a recording. Recently we had an artist whom we
spoke to about a telecast that we’re going to make in the future. The artist’s
recording company does not want to give us the DVD rights, because they
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don’t want people to buy a DVD and be able to listen to it as an audio
recording. They are planning an audio project of the same opera. So each time
a new technology comes up we find that it has its pros and cons, and there are
problems that need to be addressed. I hope that this is unique to this artist,
because I do think that audio recordings done in a studio are completely
different from taping a live opera in the theater, which is what we do at the
Met. We are not trying to make an audio recording, and although you may be
able to take it home and listen to it as an audio recording, it’s not our primary
intent in producing a program.
Cable television in the US has also given a new life to our programs,
although we’re beginning to see that come to an end. We’re not sure what
direction we’re going to take with cable. Bravo Television picked up six
Metropolitan Opera programs, most of which are available on home video, but
we’d like to see programs that have never been released anywhere else in the
world on cable, to have another life beyond public television.
The other positive aspect for cable TV vis-à-vis union agreements: we are
able to repeat a program ten or twelve times a year as opposed to just once a
year, which is what we do on public TV. It costs much less to be on cable TV
than to be on public television, in the US, although the cable audience is much
smaller. Despite at a recent meeting in New York this, Bravo informed us that
– although we have a very dedicated audience which loves the fact that our
operas are being repeated on cable TV – they also have many viewers outside
of our limited audience who are not interested in long programs; the majority
of viewers prefers programs that are about an hour in length and present an
autobiographical background on an artist or a company. So Bravo has decided
not to pick up any additional Met programs at this time.
The other aspect we find, in distribution, is that much depends on who’s in
charge of a given department. Luckily, there’s a great turnover: all of a sudden
someone new takes over the classical department in a video or cable company,
has a great devotion for opera, and calls us. It’s very hard to be in a market
where you feel as if your programs, or your artistic creation’s survival, depends
on who’s running the division. You’d like the company itself to think that this
is an important program to have out in the world!
Recently, the Met has been approached by three separate companies who
are interested in gaining the rights to be on the Internet, to stream performances
over the Internet, and this has opened up enormous problems, but also
enormous possibilities. The first company that approached us has great
experience on the technical aspects of the Internet, and absolutely no
experience in the theater. Their initial proposal, which we urged them to rethink, was to put four still cameras at the Met, four at the NY Philharmonic,
four at Carnegie Hall, four at the NYC Ballet, so on any given evening at
home, you could go on the Internet and look at a little of everything. You could
also choose what camera you want to see the stage from. The thought that any
singer, or stage director, would agree to letting the audience at home choose
what angle they’re going to be seen from is inconceivable. When we said this
to them, they claimed that we’re not thinking clearly about this new
technology. We replied that they did not understand: we would love to have
our programs seen more often, but not like this! We cannot give up the artistic
merit of a stage production, of a singer (singers trust the director to present
them in a certain way, the stage director trusts the TV director to present his
production trying to convey the experience to the audience at home).
Thankfully, the second company that approached us did talk about artistic
merit, and about the fact that it was necessary to have cameramen and a director
in the house.
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The other concern is that our biggest, most consistent audience, is that on
public television, so we cannot turn our backs on what we’re doing on the PBS
and simply stream on the Internet. Also because the video quality, at this stage,
is not up to parr with what television offers. So this is not something that’s
going to happen tomorrow. But one of the companies was realistic enough to
understand the union issue, and the publishing issues, and the artistic issues; so
we’re speaking to them, and looking into their offer.
The truth is that the Metropolitan Opera is a beautiful theater; television
and radio are not our primary mission in the world of performance. However,
as new technologies come up I think TV and radio are forcing us to move
ahead more quickly than in the past. Many of us working in large organizations
sometimes find that progress is rather slow, but we don’t want to be left behind
and be the last opera company to look at new technology.
In the past, we have often waited. In the US, opera companies have grown
in terms of fund-raising and marketing, and in some ways the departments at
the Met and other theaters have become separate. I think that new technologies
are forcing us to work together more closely. The marketing department is
interested in selling tickets, the TV department in getting a production on TV,
the development department is interested in raising funds for all of our activities.
So we used to work as separate entities. Now the marketing department wants
to use video and audio clips to sell tickets, we want the marketing department
to help us promote TV in a much bigger way. The mentality is such that we
don’t spend as much money to promote a telecast as we do for network
television; the concept of spending a great deal of advertising money just to
entice more viewers is not primary. The concept of raising the money to
produce the program is primary. But if we’re spending so much money to
produce something for only a handful of people to see, it gets to the point
where you want to say «This makes no sense».
This season we’re concerned with having enough money to produce three
telecasts; we’re also concerned with losing television slots on Public TV in the
United States if we tell them we do not have enough funding to pay for the
series. What we did for this upcoming season was produce The Queen of
Spades for the first telecast, and The Marriage of Figaro, as the second
telecast, which is a real turning point for the Metropolitan Opera – we’re
starting to produce telecasts with a new generation of singers: Cecilia Bartoli,
Bryn Terfel, artists who have already been seen on TV in other parts of the
world.
The third telecast is a re-broadcast from 1982 of Rosenkavalier, with Kiri
Te Kanawa and Judith Blegen, Luciano Pavarotti, and Kurt Moll. We wanted
to keep the series of three telecasts on PBS, and what we found was that, with a
re-broadcast, we have enough money to air three telecasts, which is very
exciting for us. Also, we’re thrilled that Rosenkavalier is going on the air
again, PBS is very happy that we included this program, because now they’ve
also started going into their own archival material for programming. I think
someone talked about this yesterday, that archives are very important, but at
some point you can only present an archival program so many times, the future
has to be taken into consideration as well. What I think is going to happen, in
terms of the Internet, is that, as you know, many of us have a VCR, we aren’t
going to be home, we want to see a program so we tape it and watch it at our
leisure – the Internet may provide on-demand capabilities.
The NY Philharmonic started a series called «The Rush Hour Concerts».
The selected programs last an hour and a half, and they begin earlier than 8
P.M., which is the usual time in NY to go to a performance. So you can go to a
performance at 7 in the evening, and at 8.30 the performance is over. When
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you are working all day that works out fine. I know that the Met, a few years
ago, started having some of the opera performances at 7 P.M., so that they
would end an hour earlier than usual. That idea had a great deal of success, and
sold a great deal of tickets. In the theater, our performance time and the way
we present performances is becoming more flexible, and still with a telecast we
go on the air at 8 P.M. We hope other stations will air it at 8 P.M. and no later,
and we hope everyone will watch the entire performance – but there is a dropoff of viewers toward 11:00 pm.
Several years ago one of the European stations, which was presenting one
of our programs, called our distributor and asked for permission to air one act
per evening, on three consecutive evenings, and we had to say no, because of
our union agreements, which is unfortunate, because they wanted to turn it into
an event, and a series. There is a discussion as to whether you should watch
opera all together, or piecemeal. We know that some compilation videos – the
videos Deutsche Grammophon and Decca have put out with famous arias – sell
well, and we hope they’ll inspire people to buy the full program, and to sit
down and watch it. We have no way of knowing, in market research, whether
this has had a great effect on sales of the complete operas, but we know the
compilation programs sell quite well.
I think that for the future the Internet is going to give us the capability to
provide what is called in the United States «video on demand». What one of
the Internet companies we interviewed is doing is presenting a live event,
advertising it as a live event, and trying to get people to come and watch the
entire program when it’s happening. Afterward, for another week, two weeks, a
year, or however long this program has a life and people want to see it, you can
pull it up and watch it in its entirety again or you can watch it piecemeal. If you
have permission from the company you can download it, and burn it onto a CD
or DVD. These are the proposals that people are looking into for the future.
What I find cannot be ignored, and which some of the companies don’t
want to discuss, are the union issues. However, these are huge issues, because
certainly the musicians’ union in the US, especially in terms of opera,
symphony and ballet programming, has a great deal of influence on the
direction the markets will take. The union agreements that I deal with at the
Met are technically out of date, starting with the definitions of television:
standard television, non-standard television... The Internet is being discussed
now, and the question is: «is it television, or is it another form of home
video?»; if you’re downloading into a CD or a DVD, what is the format? The
way in which people are paid for these different types of releases is quite
different.
Home video has been, in the long term, quite successful and very simple to
distribute, because we have no limits to the amount of years we can sell a home
video and, quite simply, if we make money on a home video, artists and unions
make money on the home video as well. It’s all on a royalty basis. But
television isn’t treated this way – there is the perception that there’s loads more
money, for some reason, in TV than there is from home video sales. There are
less opera slots available on TV as stations are being pushed to present more
commercial programming; it also costs much more money to be on television,
and there are strict limits to the amount of rights. The amount of money we
must spend to produce a telecast should be the same or perhaps less than home
video, because the telecast market does not produce much revenue.
One of the things that’s hopeful, in terms of the union issue, is that
orchestra managers, the labor negotiator at the Metropolitan Opera, and the
musicians’ union have begun discussing replacing the old definitions for
television in the contracts. This is the first time that this has happened. The NY
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Philharmonic, the labor director from the Met, and the orchestra manager from
the Philadelphia Orchestra are discussing with the musicians’ union all of the
implications of the new technology offered by the Internet. There have been
proposals to throw out all of the old definitions and make new ones. It’s
doubtful whether musicians are going to move in the direction of accepting
new technology quickly, but for next year they’ve already agreed to extend the
contract (only for one year) so we can begin addressing these new audiovisual
issues. In the United States, the agreement expired on July 31st of this year. I
think these discussions are a huge step towards incorporating new technology
for the Met programs as well as for the rest of cultural programming in the US,
and I hope that it will have positive implications for worldwide releases.
I attend the IMZ Midem Festival every year, and there are international
broadcasters and programmers there, and we see each other’s programs. Then I
return home and I have ninety-six stations on my cable TV. Perhaps one of
these transmits international programming, but very often much of what I see
at the IMZ I will never see in the US. However, a US cable station repeats the
same program over and over again: I can see the same autobiography or the
same performance as many times as I want. It’s amazing to me that there’s so
much programming, so many television stations, and yet we’re not quite
connected worldwide yet, in terms of being able to watch an international
program from Italy or from France...it simply isn’t easily accessible. What we
would hope is that eventually it will not be so difficult to view a wide variety
of programs of interest. On cable TV, it becomes quickly apparent what
programs are considered successful and what programs aren’t. Several of the
US cable stations, such as Bravo, were dedicated to presenting arts and cultural
programming; but they’ve not been able to devote themselves solely to
performances, although they still try to present programs with artistic merit.
They can run TV commercials, which the PBS is not allowed to do, and
therefore the pressure of earning revenues has an effect on programming. A&E
(Arts & Entertainment), which started before Bravo, I believe, was not able to
continue to present only performances, now they present a lot of films; they’ve
found their own niche in that they present a lot of autobiographical programs
and they found that it’s very successful. The History Channel has been very
successful – and taken viewers from PBS. PBS tracks television trends across
commercial, public and cable TV. The network stations are very upset because
they’re losing viewers to cable stations. Public television is incredibly forwardthinking; they have less money than the networks so they have really taken a
hard look at what’s going on in the rest of TV. They have less to lose than the
network stations, because they’re not making a great deal of money in the
commercial market, since they’re more interested in maintaining their level of
programming, no matter what the market bears. They don’t want to lose
programming to cable TV, but the reality is there are some very good,
artistically wonderful programs available on cable TV as well as public
television. Public TV has been able to maintain much of their audience because
they have continued to produce programs, and they continue to pay attention to
what specific groups of people want to see, with an eye to keeping it very high
in quality. The Met’s been very fortunate in that, in the performance realm,
PBS finds our programming is important. I know that the Washington Opera
has produced three telecasts and they had difficulty in scheduling airtime on
PBS. The Met does not want to find itself in a position with PBS where we’re
told «Sorry, you only have two slots a year now.»
One year ago I could not have foreseen that we would have any titles on
DVD, because it seemed as if Pioneer and Deutsche Grammophon’s parent
company might be sold off to companies with no interest in classical music, or
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the labels didn’t seem interested in devoting any more money into the opera
programs we were distributing, and then suddenly everybody had to have a
DVD.
We would like to think, based on these companies’ decisions, that there’s
an up-cycle taking place: companies are devoting money to opera DVDs,
unions are addressing the new technology issues (an unusual precedent), and
international forums, by the IMZ or this forum, will hopefully open up the
worldwide markets so that we’ll be able to continue to distribute the programs
worldwide.
The first video I’ll show is an example of the program Aida from 1989; it
was on PBS, for which it won an Emmy, it was sold in the international
television markets, it is available on home video, and it recouped home video
costs within three years of release, which is an enormous success. The second
clip is from The Ghost of Versailles, which was shown on PBS and released on
home video. I have no idea if you can even find the home video version in
most of the markets. The next three clips are excerpts from this season’s PBS
series on the Metropolitan Opera.
(audiovisual examples)
In conclusion, I’d like to believe that regardless of whether we’re watching
the opera on TV, the Internet or whatever medium, we’ll continue to produce
the opera. We must remain flexible to the possibilities and options that
technology offers us. Thank you.
Problemi e possibilità di far trasmettere l’opera lirica sui mercati della televisione, dello home video e di Internet, e implicazioni future delle nuove tecnologie
[Grazie. Vorrei parlarvi delle produzioni televisive del Metropolitan e darvi qualche ragguaglio sul modo in cui realizziamo le trasmissioni televisive,
poiché differisce da quello in uso presso la maggior parte delle compagnie
d’opera degli Stati Uniti.
Stabiliamo raramente rapporti di co-produzione con altri teatri, compagnie di distribuzione o reti televisive; realizziamo circa tre produzioni televisive ogni stagione dal 1977, all’interno di una serie che viene trasmessa sulle
reti pubbliche (PBS) e le spese di produzione vengono coperte in toto dalla
raccolta di fondi presso abbonati e mecenati del Metropolitan. Per diversi anni
la Texaco ha finanziato le teletrasmissioni; questo è il primo anno in cui non
abbiamo ricevuto fondi dalla Texaco, tuttavia una nostra mecenate ha deciso
di finanziare le produzioni televisive, disponendo di stanziare un fondo per il
Dipartimento televisivo del Metropolitan. Siamo infatti dotati di un Dipartimento radio-televisivo interno che, tuttavia, si occupa soprattutto di aspetti
amministrativi poiché il personale specializzato – cameraman, registi, tecnici
del suono – viene assunto con contratti libero professionali, e generalmente si
tratta sempre delle stesse persone. Lo staff tecnico è lo stesso da vent’anni a
questa parte nonostante siano cambiati i produttori.
Secondo me è molto semplice realizzare una produzione televisiva al Metropolitan, quanto meno dal punto di vista tecnico, poiché il teatro è completamente cablato per consentire trasmissioni radio-televisive. Abbiamo un satellite sul tetto in grado di inviare dati alle stazioni radio-televisive locali,
nazionali oppure, in qualche particolare occasione, anche internazionali.
La prima teletrasmissione di questa serie è stata La bohème con Luciano
Pavarotti, nel 1977: secondo alcune stime, la sera della messa in onda lo spet101
tacolo è stato seguito da 4-6 milioni di telespettatori, dando inizio a una vera e
propria serie al Metropolitan. Precedentemente, le produzioni televisive venivano realizzate di quando in quando, come evento eccezionale, da reti quali
NBC, CBS e altre.
Molti anni fa la NBC aveva una propria orchestra all’interno dei loro studios e la rete si fregiava di offrire prodotti di buon livello culturale. Purtroppo,
oggigiorno negli Stati Uniti tutti i network offrono una programmazione di tipo
esclusivamente commerciale poiché c’è molto denaro in gioco. Per contro, la
televisione pubblica (PBS) è subentrata a colmare il vuoto lasciato dai network
e gode perciò di un’ottima reputazione in termini qualitativi e di integrità artistica. Uno dei requisiti della PBS è quello di dare voce ai diversi punti di vista
negli Stati Uniti, un’impresa quasi impossibile... Vengono trasmessi spettacoli
operistici, teatro d’avanguardia, balletti e – per quanto riguarda le trasmissioni di carattere politico – programmi di stampo conservatore o, al contrario, liberale; la PBS costituisce pertanto uno splendido medium per presentare
l’opera lirica.
Attualmente al Metropolitan dobbiamo fare i conti col fatto che, dal 1977,
abbiamo filmato più di novanta rappresentazioni operistiche per la televisione.
Una quarantina di queste sono disponibili in homevideo, e ve ne sono alcune –
quali Otello e Aida – che sono state filmate diverse volte. Siamo giunti a una
fase in cui bisogna di volta in volta decidere se sia il caso, per ragioni di carattere artistico, di filmare nuovamente un’opera che è già stata teletrasmessa.
Se si tratta di una produzione nuova di zecca, con nuovi direttori di scena e
magnifici nuovi artisti, naturalmente vi sono ragioni sufficienti per procedere
come in passato.
Un altro ordine di considerazioni da tenere presente è che i finanziatori
delle opere talvolta somigliano molto agli spettatori, nel senso che preferiscono vedere in cartellone le opere più popolari interpretate dai cantanti più in
voga.
Per contro noi dobbiamo anche considerare che ci siamo assunti l’onere
di commissionare nuove opere, impegno che abbiamo assolto svariate volte
nell’ultimo decennio. È il caso di The Ghost of Versailles, un’opera statunitense andata in onda sulla PBS, che non è ancora stata trasmessa all’estero ma di
cui è stato prodotto lo homevideo. Mi risulta che questo non venda molto bene
ma chi può dire cosa succederà fra cinquant’anni? Il Metropolitan ha ritenuto
che fosse importante commissionare l’opera, allestirne la rappresentazione
teatrale e trasmetterla in televisione. Penso che alcune volte l’indice d’ascolto
debba essere messo da parte in nome del fatto che forse non siamo in grado di
valutare anticipatamente il pregio artistico di un’opera, né di sapere come
verrà considerata a distanza di tempo.
Il meccanismo usato dalla PBS negli Stati Uniti è quello di promuovere la
teletrasmissione di un nuovo lavoro come «evento». Il canale preferenziale è la
stazione televisiva di New York, la WNET; vi sono, inoltre, molte stazioni pubbliche locali, la maggior parte delle quali (circa duecentoquaranta su un totale
di trecento) trasmette l’opera del Metropolitan la stessa sera, a livello nazionale. Si tratta di stazioni televisive locali che dipendono da raccolte di fondi
locali e che hanno una programmazione propria; molte di queste producono
inoltre trasmissioni specifiche destinate ai propri mercati: la stazione WGBH
di Boston è la capofila nel produrre trasmissioni per il proprio mercato e venderele ad altre stazioni della rete pubblica. Negli ultimi anni abbiamo riscontrato che in alcuni mercati dove l’opera va per la maggiore gli spettacoli vengono trasmessi la sera alle 20, quando ci sono molti telespettatori.
Non siamo in grado di esercitare alcuna influenza sulle stazioni locali.
Sono loro a decidere quando vogliono trasmettere i programmi. In pratica il
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Metropolitan produce un’opera – e oggi ci vuole più di un milione di dollari
per produrre un’opera in televisione – e le stazioni locali devono mandarla in
onda entro sette giorni perché dopo decadono i diritti. Di conseguenza, se una
produzione viene trasmessa dalla PBS e non viene venduta sul mercato internazionale ci sono buone probabilità che non venga vista mai più. Alcuni anni
fa questo fatto non ci preoccupava molto poiché da un programma veniva quasi automaticamente ricavato lo homevideo, oppure veniva venduto sul mercato
internazionale; in tal modo avevamo la certezza che chiunque al mondo volesse poteva vedere queste produzioni, in un modo o nell’altro. Oggi la situazione
è mutata; un tempo facevamo prevendite degli spettacoli per il mercato internazionale e per lo homevideo ma purtroppo, negli ultimi tre anni nessuna delle
nostre produzioni è stata acquistata per trarne un video, a prescindere da considerazioni sui meriti artistici.
Lo scoglio maggiore è che dipendiamo soprattutto dal mercato europeo
per la trasmissione delle produzioni televisive. Le televisioni di Italia, Germania, Francia e Spagna hanno sempre acquistato gli spettacoli prodotti dal Metropolitan Opera. Un esempio concreto è quello della BBC: la BBC Worldwide
è il nostro distributore internazionale, tuttavia la BBC Broadcasting ha trasmesso soltanto uno dei tre programmi che abbiamo venduto sul mercato internazionale negli ultimi anni.
Ora stiamo facendo molta più attenzione al numero di telespettatori che
abbiamo negli Stati Uniti e abbiamo riscontrato che vi sono diverse dinamiche.
Se, per esempio, viene trasmessa una nostra produzione alla fine di dicembre,
tra le festività natalizie e Capodanno, quando a New York e nelle città del
Nord fa molto freddo, tutti restano a casa per vedere l’opera, mentre se andiamo in onda all’inizio di settembre, quando il clima è ancora estivo, abbiamo
molti meno telespettatori. Abbiamo presentato una produzione della Donna di
picche l’8 settembre – la data della messa in onda è stata decisa pensando che
gli abitanti di New York e di altre grandi città fossero tornati dalle ferie – ma
abbiamo riscontrato che il numero di telespettatori è stato piuttosto esiguo. Si
tratta di una produzione splendida: Plácido Domingo canta per la prima volta
questo ruolo in russo, e nella registrazione figurano anche Valerij Gergiev;
Galina Gorčakova, Dmitrij Hvorostovskij, Nikolai Putilin e Olga Borodina.
Una produzione di straordinaria bellezza... e un indice d’ascolto basso! Non
sappiamo se questo titolo verrà riproposto per lo homevideo ma ho dei seri
dubbi, visto il mercato attuale. Il nostro distributore pensa di riuscire a vendere il programma sul mercato televisivo internazionale ma per ora non vi sono
certezze.
La scorsa stagione abbiamo registrato Le nozze di Figaro con Bryn Terfel,
Cecilia Bartoli, Renée Fleming e un cantante statunitense emerso grazie al
concorso «Giovani Artisti» promosso dal Metropolitan, Dwayne Croft. Il programma verrà trasmesso alla fine di dicembre e ci aspettiamo che gli ascolti
siano buoni. Immediatamente dopo la trasmissione da parte della PBS statunitense l’opera verrà trasmessa anche in Australia. Ne siamo ben felici, tuttavia
questo è il genere di produzione che, soltanto sei anni fa, sarebbe passata immediatamente al mercato dello homevideo mentre attualmente non abbiamo
ancora avuto proposte in tal senso.
Abbiamo inoltre riscontrato che, se proponiamo opere che non fanno parte
del repertorio tradizionale, queste vengono seguite da un minor numero di telespettatori. Tuttavia, ci sforziamo di produrre un certo numero di opere che
non fanno parte del repertorio standard. Un esempio fra queste è Fedora con
Mirella Freni: si tratta di uno splendido omaggio alla cantante e alla sua carriera, e a tutti gli anni in cui ha cantato al Metropolitan. Non si tratterà di una
produzione di ampia distribuzione ma fa già parte del nostro archivio.
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Il mio stato d’animo rispetto a questo lavoro oscilla fra positività – quando veniamo contattati da qualcuno che mostra interesse nelle nostre produzioni – e disillusione quando mi rendo conto che le produzioni non prendono la
strada dei mercati internazionali.
Una delle cose migliori che siano capitate all’opera è l’avvento del DVD.
Quello che è accaduto al Met, quanto meno, è che ha dato una seconda vita
alla produzione di homevideo già immessa sul mercato. Per quanto ci riguarda
il laserdisc non è mai decollato, ma presto avremo tre titoli in DVD. Purtroppo
in questa occasione non abbiamo sfruttato tutti i vantaggi offerti dalla tecnologia del medium: mi riferisco alla possibilità di scegliere fra diverse lingue e al
materiale informativo, tuttavia i nostri distributori si ripromettono di aggiungerlo in seguito.
Allo stato attuale, la Deutsche Grammophon ha immesso, soltanto nel
mercato giapponese, sei titoli in DVD che hanno venduto discretamente bene.
Questo successo iniziale ha spinto la Polygram di Amburgo (la società madre
della Deutsche Grammophon) a pianificare l’uscita, a livello mondiale, del catalogo di opere prodotte dal Metropolitan Opera insieme alla Deutsche Grammophon. Ciò che è stato fatto dalla filiale giapponese è di mettere in commercio un DVD con molto materiale informativo riguardo il Metropolitan, il
direttore d’orchestra (perloppiù il Maestro Levine) e i cantanti. Penso che in
futuro il DVD sarà un mezzo fantastico: abbiamo cominciato a studiare le cifre
e, sebbene le vendite non siano ancora molto elevate, sono stabili. Ogni anno il
Met immette un video sul mercato perché abbiamo rilevato che questi hanno
ancora un mercato. Pensiamo che si tratti di studenti o di persone interessate
ad avere una collezione a casa propria nel formato più recente. È auspicabile
che somigli al fenomeno dei CD: molti di noi possedevano LP, e abbiamo ricomprato gli stessi titoli in CD. Per quanto riguarda le potenzialità del DVD,
esso offre a chiunque – che si tratti di un musicologo, di uno storico o semplicemente di un appassionato d’opera – molte possibilità in più, degli «extra» rispetto a ciò che eravamo in grado di produrre in passato.
Uno dei grandi problemi che dobbiamo affrontare è il fatto che non possiamo ignorare gli accordi sindacali statunitensi. Temo che le case discografiche
non concederanno il permesso di produrre un DVD se questo può essere anche
ascoltato come fosse una registrazione audio. Di recente abbiamo avuto il caso
di un artista a cui abbiamo proposto di partecipare alla produzione di una registrazione audiovisiva che abbiamo in progetto. La casa discografica a cui questi
è legato da contratto non vuole concederci i diritti per il formato DVD perché
non vuole che si possa acquistare il prodotto e poi ascoltarlo come se si trattasse
di una registrazione audio, giacché loro hanno in progetto di fare una registrazione audio della stessa opera. Quindi, ogni volta che compare una nuova tecnologia scopriamo che ha pregi e difetti, e che ci sono problemi nuovi da affrontare. Spero che il caso che vi ho raccontato rappresenti un’eccezione perché sono
fermamente convinta che una registrazione audio fatta in sala di incisione sia
profondamente diversa dalla registrazione di un’opera dal vivo in teatro, che è
quello che facciamo al Met. Non aspiriamo a fare una registrazione audio e, sebbene l’acquirente possa portare a casa il DVD e ascoltarlo come se lo fosse, non
è questo il nostro obiettivo primario nel produrre un programma.
Negli Stati Uniti anche la televisione via cavo ha dato nuova vita ai nostri
programmi, sebbene sia un fenomeno destinato a finire. Non sappiamo ancora
quale linea di comportamento adotteremo rispetto a questo mezzo. Bravo Television ha ripreso sei programmi operistici del Metropolitan Opera, la maggior
parte dei quali è disponibile in homevideo, mentre noi vorremmo che venissero
trasmessi programmi che non siano stati visti nel resto del mondo dopo il passaggio sulla televisione pubblica.
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Uno degli aspetti positivi della televisione via cavo è che, pur rispettando
gli accordi sindacali, possiamo trasmettere un programma dieci-dodici volte in
un anno contro un unico passaggio all’anno, garantito dalla televisione pubblica. Negli Stati Uniti il costo di un passaggio sulla televisione via cavo è
molto inferiore a quello della PBS, anche perché il numero di spettatori della
prima è numericamente inferiore a quello della seconda. Nonostante ciò i produttori della Bravo ci hanno riferito, durante un recente incontro a New York,
che abbiamo un pubblico molto fedele, entusiasta del fatto che le opere vengano ritrasmesse dalla televisione via cavo. Tuttavia essi devono fare i conti con i
tanti spettatori, al di fuori del nostro ristretto pubblico, che non gradiscono i
programmi lunghi. La maggior parte degli spettatori preferisce programmi di
un ora che presentino un profilo biografico di un artista o di una compagnia
teatrale. Di conseguenza Bravo ha deciso di non aggiungere altri programmi
del Met alle loro trasmissioni in questo momento.
Per quanto riguarda la distribuzione, abbiamo riscontrato che molto dipende dall’individuo che si trova a capo di un dato dipartimento. Per fortuna,
c’è sempre un grande ricambio: all’improvviso arriva un nuovo dirigente del
settore musica classica di una società produttrice di video oppure di un canale
di TV via cavo, che ha una grande passione per la lirica e ci chiama. È arduo
trovarsi in un mercato in cui sembra che la programmazione e la sopravvivenza delle nostre creazioni artistiche dipendano dal responsabile di un certo settore. Piacerebbe pensare che sia la compagnia intera a ritenere che sia importante trasmettere determinati programmi!
Di recente il Met è stato contattato da tre diverse compagnie interessate
ad acquisire i diritti Internet per trasmettere rappresentazioni in rete; tale proposta ha dato origine a enormi problemi ma offre altrettante possibilità. La
prima delle compagnie ha grande esperienza di Internet sotto il profilo tecnico,
e nessuna esperienza di teatro. La proposta iniziale, che abbiamo chiesto loro
di ri-formulare, era quella di mettere quattro telecamere al Met, quattro alla
New York Philharmonic, quattro a Carnegie Hall e quattro al New York City
Ballet, in modo che in qualsiasi momento, da casa tramite Internet, l’utente potesse vedere un po’ di tutto, scegliendo anche la telecamera desiderata. L’idea
che qualsiasi cantante o regista acconsenta a far decidere allo spettatore a
casa da quale angolatura vedere lo spettacolo è inconcepibile. Quando lo abbiamo fatto presente, ci hanno risposto che non abbiamo le idee chiare su questa nuova tecnologia. Abbiamo risposto che sono loro a non capire: ci piacerebbe molto che i nostri programmi venissero trasmessi più spesso ma non in
questo modo! Non possiamo fare a meno delle qualità sia della regia sia del
cantante (che, a sua volta, si fida del fatto che il regista lo presenti in un certo
modo, come il regista teatrale confida nel fatto che il regista televisivo presenti
la produzione in modo da trasmettere l’esperienza teatrale al pubblico a casa).
Per fortuna la seconda compagnia che ci ha contattati ha preso in considerazione anche l’aspetto artistico, compreso il fatto che era necessario avere un
loro cameraman e un regista presenti in teatro.
Un’altra preoccupazione è che il nostro pubblico più vasto e fedele è quello della televisione pubblica, quindi non possiamo voltare le spalle alla PBS e
passare semplicemente a Internet; anche perché la qualità di trasmissione video, allo stato attuale, non è al livello di quella offerta dalla televisione. Quindi non sono decisioni da prendersi dall’oggi al domani. In ogni caso una delle
compagnie aveva le idee sufficientemente chiare per comprendere i problemi
di carattere sindacale, editoriale e artistico, dunque stiamo continuando a vagliare la loro proposta.
In realtà il Metropolitan Opera è un bellissimo teatro; la televisione e la
radio non sono la nostra missione primaria nel mondo dello spettacolo. In ogni
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caso le nuove tecnologie che emergono ci costringono a progredire più velocemente che in passato. Molti di noi che lavoriamo all’interno di organizzazioni
di grandi dimensioni talvolta pensiamo che si proceda con eccessiva lentezza,
tuttavia non vogliamo rimanere indietro ed essere l’ultima compagnia d’opera
che si interessa alle nuove tecnologie.
In passato, abbiamo spesso aspettato. Negli Stati Uniti, le compagnie
d’opera sono cresciute in termini di raccolta di fondi e marketing e sotto molti
aspetti i diversi dipartimenti, al Met come in altri teatri, sono diventati entità
separate. Credo che le nuove tecnologie ci stiano costringendo a lavorare nuovamente insieme. L’obiettivo del dipartimento preposto al marketing è di vendere biglietti, quello televisivo vuole far trasmettere le produzioni in televisione mentre al dipartimento dello sviluppo interessa raccogliere fondi per tutte
le nostre attività. Lavoravamo come entità separate. Ora, invece, il dipartimento di marketing vuole usare audio e videoclip per vendere biglietti, e noi chiediamo a quelli del marketing di aiutarci a promuovere la televisione in maniera più incisiva. L’atteggiamento è tale per cui non vogliamo spendere
altrettanto denaro per promuovere una produzione televisiva quanto ne spendiamo per la televisione via cavo: il concetto di spendere grandi cifre solo per
allettare un maggior numero di telespettatori non è di primaria importanza,
mentre il concetto di riuscire a reperire i fondi per produrre il programma lo
è. Tuttavia, se si spendono tanti soldi per produrre qualcosa che viene visto
solo da una manciata di persone, ci si chiede se abbia un senso.
Nella passata stagione abbiamo dovuto affrontare il problema di produrre
tre trasmissioni televisive, ed eravamo preoccupati di perdere gli spazi televisivi, qualora fossimo stati costretti a dire loro che non avevamo fondi sufficienti
per coprire le spese. Abbiamo risolto facendo una produzione della Donna di
picche e Le nozze di Figaro, opera questa che segna una svolta per il Metropolitan perché abbiamo cominciato a produrre teletrasmissioni con una nuova
generazione di cantanti quali Cecilia Bartoli e Bryn Terfel, per citare i nomi di
coloro che sono già stati visti in televisione in altre parti del mondo.
La terza produzione televisiva è una riedizione del Rosenkavalier del 1982,
con Kiri Te Kanawa, Judith Blegen, Luciano Pavarotti e Kurt Moll. Abbiamo
voluto mantenere i consueti tre spazi sulla televisione pubblica e abbiamo appurato che, utilizzando una riedizione, siamo in grado di mandare in onda tre
produzioni, cosa per noi molto positiva. Inoltre la televisione pubblica ha assecondato la nostra scelta di riproporre il Rosenkavalier anche perché li ha stimolati a riutilizzare il loro materiale di archivio per la programmazione. Credo che ieri qualcuno abbia fatto cenno all’importanza degli archivi, tuttavia
non si possono riproporre solo programmi tratti dagli archivi, bisogna prendere in considerazione anche il futuro. Quello che credo accadrà, in termini di
Internet, è che consentirà una fruizione su richiesta, ovvero se sappiamo di non
poter vedere un programma quando va in onda, lo si registra.
La New York Philharmonic ha creato una stagione intitolata «I Concerti
dell’Ora di Punta». I programmi durano un’ora e mezzo e cominciano prima
delle 20.00, che è l’orario normale per le rappresentazioni a New York. In tal
modo si può assistere a uno spettacolo alle 19.00, sapendo che questo finirà entro le 20.30. Quando si lavora tutto il giorno è abbastanza funzionale. Al Metropolitan qualche anno fa abbiamo provato a far cominciare le rappresentazioni
alle 19.00 in modo che finissero un’ora prima del solito. L’idea ebbe molto successo e si vendette una grande quantità di biglietti. La programmazione delle
rappresentazioni sta diventando via via più flessibile, eppure le trasmissioni televisive vanno in onda alle 20.00. Speriamo che anche le altre stazioni televisive
trasmettano alle 20.00 e non più tardi, e che tutti vedano l’opera per intero anche se sappiamo che c’è un calo negli ascolti intorno alle 23.00.
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Diversi anni fa una delle stazioni europee che presentava uno dei nostri
programmi ha chiamato il nostro distributore per chiedere il permesso di mettere in onda un atto ogni sera, per tre sere consecutive. Purtroppo abbiamo
dovuto dire di no per problemi di accordi sindacali, ed è un peccato perché la
proposta mirava a farlo diventare un evento e poi una serie. Si discute molto
sull’opportunità di vedere un’opera per intero oppure divisa. Sappiamo che alcuni video antologici – quelli prodotti da Deutsche Grammophon e Decca,
contenenti le arie celebri – vendono assai bene, e speriamo che ispirino le persone ad acquistare l’opera completa per poterla vedere. Nelle ricerche di mercato non c’è modo di scoprire se i video antologici abbiano avuto alcun effetto
sulle vendite di opere complete, sappiamo soltanto che le antologie vendono
bene.
In futuro, credo che Internet ci darà la possibilità di offrire ciò che negli
Stati Uniti viene chiamato video on demand [video su richiesta, N.d.T.]. Una
delle compagnie con cui abbiamo avuto contatti propone di presentare un
evento dal vivo, reclamizzandolo come tale per cercare di attirare molti spettatori ad assistervi mentre ha luogo; successivamente, per una settimana, due
settimane, un anno, finché il programma ha vita e ci sono persone che lo vogliano vedere, lo si può vedere nuovamente, per intero o a pezzi. Se c’è il permesso della compagnia lo si può anche «scaricare» e copiare su CD o DVD.
Sono queste le proposte che bisogna vagliare per il futuro.
Trovo che tuttavia non si possano ignorare le problematiche sindacali, argomento che molte compagnie non vogliono affrontare. Si tratta di problemi
enormi perché negli Stati Uniti il sindacato dei musicisti, specie per quanto riguarda l’opera nonché le programmazioni sinfonica e coreutica, può influire
molto sulla direzione che prende il mercato. Gli accordi sindacali con cui ho a
che fare al Metropolitan sono obsoleti sotto il profilo tecnico: televisione standard oppure non-standard... Ora è in discussione Internet, e ci si chiede se sia
una forma di televisione oppure di homevideo. Se si scarica un programma su
CD o DVD, qual è il formato? Le retribuzioni per le diverse tipologie di medium possono variare molto.
Come progetto a lungo termine lo homevideo si è rivelato essere un grande successo: è molto semplice da distribuire poiché non abbiamo limitazioni
temporali per vendere le videocassette e, molto semplicemente, se noi ci guadagniamo ci guadagnano anche gli artisti e i sindacati. Tutto si basa sui diritti
d’autore. Ma la televisione non funziona così perché si pensa che ci siano molti più soldi (per qualche strana ragione) nella televisione che nella vendita di
homevideo. Ci sono meno spazi man mano che le stazioni televisive vengono
spinte a trasmettere una programmazione più commerciale; inoltre, è assai più
costoso trasmettere in televisione, e i diritti sono regolamentati rigidamente.
La spesa che dobbiamo affrontare per produrre un programma televisivo dovrebbere essere pari, o forse inferiore, a quella necessaria per produrre un homevideo, giacché il mercato delle trasmissioni televisive non produce introiti.
Per quanto riguarda gli accordi sindacali, i manager dell’orchestra, il
rappresentante sindacale del Metropolitan e il sindacato dei musicisti hanno
intavolato una discussione sull’aggiornamento dei contratti in termini di definizione di «televisione». Tutto ciò fa ben sperare, perché è la prima volta che
succede. La New York Philharminic, il direttore dei sindacati del Metropolitan
e il manager della Philadelphia Orchestra stanno discutendo, insieme al sindacato musicisti, tutte le possibili implicazioni della nuova tecnologia offerta da
Internet. È stato proposto di buttare via tutte le vecchie definizioni e di riformularle, tuttavia è dubitabile che i musicisti accettino in breve tempo le nuove
tecnologie, anche se per il prossimo anno è stato pattuito un rinnovo contrattuale di un solo anno, in modo da poter affrontare le tematiche audiovisive.
107
Negli Stati Uniti il contratto scade il 31 luglio di quest’anno. Credo che riunirsi per discutere sia un grande passo avanti per incorporare le nuove tecnologie
per i programmi del Metropolitan e anche per tutta la programmazione culturale negli Stati Uniti, e spero che abbia esiti favorevoli anche per il resto del
mondo.
Partecipo ogni anno all’IMZ Midem Festival, che è frequentato da professionisti della trasmissione e della programmazione televisiva, e vediamo gli
uni i programmi degli altri. Poi torno a casa e ho 96 canali sulla mia televisione via cavo. Forse uno di questi trasmette una programmazione internazionale
ma, spesso, quello che vedo all’IMZ non verrà mai trasmesso negli Stati Uniti.
Invece, le TV via cavo negli Stati Uniti ripetono la stessa programmazione:
posso vedere la stessa autobiografia o lo stesso spettacolo tutte le volte che voglio. Per me è stupefacente il fatto che ci sia una programmazione così ricca,
così tante stazioni televisive, eppure non siamo ancora del tutto collegati a livello mondiale, nel senso di poter guardare una trasmissione italiana o francese... non è facilmente accessibile. È auspicabile che diventi più facile vedere
una più ampia gamma di programmi interessanti.
Sulla televisione via cavo è subito chiaro quali sono i programmi ben riusciti e quali no. Molti canali via cavo, quali Bravo, trasmettevano una programmazione dedicata alle arti e alla cultura, tuttavia non si sono potuti dedicare esclusivamente alle rappresentazioni, anche se cercano di offrire
programmi che abbiano un valore artistico. Hanno la facoltà di trasmettere
spot televisivi, cosa che la televisione pubblica non può fare, pertanto l’esigenza di creare profitto ha conseguenze anche sulla programmazione. A&E (Arts
& Entertainment), che credo abbia cominciato prima di Bravo, non ha potuto
continuare a presentare soltanto spettacoli ma ha cominciato a proporre molti
film; ora si sono creati una nicchia trasmettendo molti programmi autobiografici, che hanno riscontrato il favore del pubblico. Lo History Channel ha riscosso molto successo – ed ha anche sottratto molti spettatori alla televisione
pubblica, che tiene traccia dei trend televisivi lungo l’arco delle reti commerciali, pubbliche e via cavo. I network sono disperati perché stanno perdendo
telespettatori a favore della televisione via cavo. La televisione pubblica ha
una mentalità incredibilmente avanzata; dispone di meno denaro dei network,
quindi studia attentamente quello che sta accadendo nel resto della televisione,
giacché non guadagna grandi somme sul mercato ed è più interessata a mantenere alto il livello della programmazione a prescindere da quello che offre il
mercato. Non vuole perdere spettatori rispetto alla TV via cavo, anche se in
realtà ci sono ottimi programmi, di grande valore artistico, disponibili sia sulla TV via cavo sia su quella pubblica.
La televisione pubblica ha tuttavia mantenuto gran parte dei propri spettatori perché continua a produrre i propri programmi prestando attenzione a ciò
che interessa specifici gruppi di utenti, e mantenendo elevato lo standard qualitativo.
Fortunatamente la programmazione del Metropolitan viene da loro tuttora
considerata di grande interesse. So che l’Opera di Washington ha prodotto tre
trasmissioni televisive ma ha avuto difficoltà a trovare spazio sul canale pubblico. Quindi il Metropolitan non vuole trovarsi in condizione tale da vedere
ridurre il proprio spazio televisivo a due sole teletrasmissioni all’anno.
Un anno fa non avrei pensato che avremmo avuto titoli in DVD perché
sembrava che la società madre di Pioneer e Deutsche Grammophon dovesse
essere ceduta ad altre società che non hanno alcun interesse nel settore della
musica classica; le etichette non sembravano voler destinare altro denaro alle
trasmissioni di lirica che noi distribuiamo, poi all’improvviso tutti dovevano
uscire con un DVD.
108
Ci piacerebbe poter credere, sulla base delle decisioni prese da queste società, che sia in atto una crescita della domanda: le società che investono nella
produzione di DVD di opere, i sindacati che affrontano i problemi legati alle
nuove tecnologie (creando un precedente inusuale) e i forum internazionali –
quali l’IMZ o questo Seminario – che ne parlano, fanno ben sperare in
un’apertura dei mercati internazionali che ci consenta di continuare a distribuire i nostri programmi ovunque.
Il primo video che vi mostrerò è tratto dall’Aida del 1989; è stato teletrasmesso dalla PBS, vincendo il premio Emmy, successivamente venduto sui
mercati televisivi internazionali ed è disponibile in homevideo; i costi della
produzione dello homevideo sono stati recuperati in tre anni, fatto questo che
costituisce un grandissimo successo. Il secondo brano è tratto da The Ghost of
Versailles, trasmesso sulla PBS e distribuito in homevideo. Non ho idea se il
video sia reperibile nella maggior parte dei mercati. I tre brani che seguono
sono tratti dalla serie televisiva dedicata al Metropolitan che verrà teletrasmessa sulla PBS in questa stagione.
(esempi audiovisivi)
Per concludere, mi piacerebbe poter pensare che, a prescindere da quale
sia il medium su cui decidiamo di vedere un’opera (televisione, Internet o qualunque altro), saremo sempre noi a produrre l’opera. Dobbiamo quindi essere
elastici nell’accogliere le diverse possibilità che ci vengono offerte dalla tecnologia. Grazie.]
ILIO CATANI
Ringrazio Miss Erben per questo ampio e vivace intervento. Ha toccato dei
punti molto interessanti, che spaziano dal mercato alle nuove tecnologie e ai
problemi sindacali. Sono tutte cose che viviamo pesantemente sulla nostra pelle, anche in riflesso ai possibili sviluppi di questa interessante materia. Volevo
ricordare che anche la RAI come radio ha da anni partecipato alle produzioni
del Met. Attraverso l’Euroradio si trasmettono moltissime opere, e per molto
tempo abbiamo ripreso i matinée del sabato, trasmettendoli quasi in diretta,
perché la rappresentazione del primo pomeriggio (se non erro alle 14.00 ora di
New York) ci consentiva di trasmettere alle venti. Era quindi una vera e propria
diretta. Per anni ci siamo collegati diverse volte col Met, quindi è un rapporto
di collaborazione che potrebbe essere ampliato con la sola grossa incognita dei
costi e dei diritti.
Abbiamo abbondantemente superato i limiti di tempo previsti. Dopo la
pausa caffè ascolteremo l’intervento di Sergio Miceli. In questo modo concluderemo questa sessione mattutina. Grazie.
(pausa caffè)
Ora che siamo tutti presenti possiamo riprendere i lavori. Ho il piacere di
dare la parola a Sergio Miceli, la cui relazione ha un titolo molto interessante:
Dissociazioni – Contaminazioni – Espedienti – Mistificazioni. Prego, professor
Miceli.
109
SERGIO MICELI
Dissociazioni – Contaminazioni – Espedienti – Mistificazioni
Uno dei momenti più impegnativi del mio corso di Storia della musica in
Conservatorio è quello in cui devo introdurre la nascita del melodramma; e non
si tratta neppure di una introduzione senza precedenti, perché già nel madrigale
dialogico, già nelle favole pastorali, negli intermedi, nelle Nuove musiche di
Caccini, di cui abbiamo già trattato nel corso, c’è, come tutti noi ben sappiamo,
qualche anticipazione del teatro musicale. Visto che un corso nozionistico e
dogmatico non ha mai avuto alcun senso (né, a maggior ragione, lo avrebbe
oggi), benché costretti a operare in una realtà formativa che ha perso tutti gli
appuntamenti con la contemporaneità – alludo ovviamente all’istituzione conservatoriale come è oggi, cioè esattamente come era durante il regime fascista,
in cui fu riformata –, corre l’obbligo quanto meno morale di trasmettere alle
nuove generazioni di musicisti l’essenza di un fenomeno senza paragoni nel
panorama dell’intera civiltà occidentale; un fenomeno che dovrebbe essere
riassunto in forma digitale e spedito in una di quelle sonde spaziali che partono
dalla terra per riferire a non si sa quale interlocutore: «Ecco! Noi siamo fatti
così». Però penso che quel messaggio avrebbe maggiori possibilità di essere
raccolto e compreso da un essere trinariciuto e tetraoculare che dai miei studenti, i quali – occorre ricordarlo – non vivono in regime monastico, non si formano più alla ferrea disciplina degli orfanotrofi da cui hanno avuto origine, appunto, i conservatori, almeno in Italia. I musicisti che si formano oggi vivono
la più comune delle esistenze, conoscono esclusivamente la musica che sono
costretti a studiare, ignorando di fatto la musica antica, buona parte della moderna e tutta, rigorosamente tutta, quella contemporanea. Leggono in prevalenza (quando va bene) La Gazzetta dello Sport e Stadio, vanno in discoteca ignari
(ancora quando va bene) di attentare in modo irreversibile all’organo che dovrebbe procurare loro il sostentamento futuro, l’udito; e, naturalmente, guardano la televisione, soprattutto il telegiornale dove, dopo le notizie di politica
estera e nazionale e dopo gli interminabili e compiaciutissimi servizi di cronaca
nera, vengono informati, con cadenza rigorosamente giornaliera e con un opportuno assaggio, dell’ultimo concerto di Jovanotti o dell’ultimo compact disc
di Pinco Pallino. Se, come pare, l’insistenza e l’importanza di un fenomeno si
misura in termini di presenza televisiva il gioco è fatto: se lo dice il telegiornale
deve essere importante! Questa è l’immagine mistificatoria di cultura rivolta
ogni sera alla nazione intera, non alle minoranze agganciate all’antenna parabolica su cui torneremo. E in quanto alla scuola, lasciando ora da parte l’inadeguatezza del corpo insegnante in fatto di cose musicali, non occorre essere pedagoghi per intuire che un messaggio fornito attraverso le istituzioni perde di
credibilità e di attrattiva proprio perché tale: tutti dovremmo ricordare la capacità tutta scolastica di farci apparire noiosi dei capolavori assoluti della letteratura e del teatro; li abbiamo recuperati per passione, indole e sensibilità al di
fuori della scuola, godendone come meritavano e come noi stessi meritavamo
di goderne. Brecht, caduto in disgrazia con la crisi del Comunismo per il piacere di coloro che non sanno e non vogliono distinguere tra contingenza storica e
ideale politico alimentato dal genio (un genio che ha la statura dei classici),
provò a insegnarci, fra le molte altre cose, che il numero legalizza, la quantità
giustifica: il furto individuale resta furto e, come tale, spesso è punito; il furto
su scala industriale è tutt’altra cosa e diviene oggetto di analisi da parte degli
110
economisti. Nell’Opera da tre soldi, con bella traduzione, il signor Peachum
domanda la differenza fra «sfondare» una banca e «fondare» una banca. Perché
dico questo? Perché proprio mentre andavo pensando a questo intervento mi è
caduto l’occhio su un articolo apparso su la Repubblica di martedì 23 novembre. Leggo:
«Mandare in onda certe trasmissioni a notte fonda è inutile. Se la RAI non
è in grado di programmarle diversamente allora tanto vale che non le faccia.
Alle due di notte si punti su un film porno, che è più adatto». Il Ministro del
Tesoro Amato contesta così la decisione della RAI di mandare in onda dopo
mezzanotte la trasmissione di RAI Educational Il grillo, cui lui stesso ha partecipato.
Ometto un ulteriore intervento di Amato e riporto la replica. Leggo:
Pier Luigi Celli, direttore generale della RAI, risponde così: «La RAI ha
varato un canale satellitare interamente dedicato ai giovani e alla formazione.
Non solo. Ha anche finanziato con quattro miliardi l’installazione di cinquemila parabole nelle scuole italiane, un terzo del totale. La nostra coscienza, insomma, è a posto».
Beato lui se intendeva usare il plurale majestatis; oppure beati loro che si
autoassolvono così facilmente. L’unica cosa che apprezzo di questa replica è il
fatto di aver parlato di formazione invece che di educational, visto che siamo in
Italia… In ogni caso, sembrano non aver letto Brecht e non appaiono neppure
sfiorati dal sospetto che i numeri, in questo caso, depongono a sfavore delle
loro fragili convinzioni. L’emissione satellitare è ancora un fenomeno di nicchia; occorre ricordarlo proprio a chi, della RAI, occupa il posto più alto? E un
ruolo educativo-formativo non può essere affidato in modo prioritario a quei
canali. Sbandierarne l’esistenza nell’attuale stato di cose significa soltanto
crearsi un alibi gattopardesco; senza contare che, sebbene non disponga di dati
recenti, le motivazioni prevalenti per l’acquisto dell’antenna parabolica sembrano essere di natura sportiva e pornografica, e non c’è da meravigliarsi, visto
che il videoregistratore si diffuse inizialmente per le stesse motivazioni (le seconde, ovviamente!).
Vorrei arrivare al punto essenziale della mia relazione, che si potrebbe anche riassumere in questa equazione: contenitore = contenuti. Se è vero che il
teatro musicale ha rappresentato un raro esempio in musica di diffusione orizzontale e verticale (un po’ come il fenomeno del ragtime, che partì dalle case
di tolleranza e arrivò a Stravinskij), quelle condizioni, oggi, non esistono più.
La forma espressiva che ha assunto un ruolo onnicomprensivo, assolutamente
verticale e orizzontale al tempo stesso, e che meglio di ogni altra parlerà del
Novecento nei secoli a venire è indubbiamente il cinema. Per continuare a occuparci di teatro musicale dovremo dedicarci dunque a una sorta di archeologia? Non credo proprio, perché il teatro musicale è vivo, sebbene nel Novecento abbia prodotto rispetto al passato un numero ridotto di opere memorabili, ma
nonostante questo non c’è rischio di archeologia, perché la materia è costituzionalmente viva e capace di rinnovarsi in eterno. Il punto è: a chi e come trasmettere tanto patrimonio? Se lo chiedessimo al solito extraterrestre, visto che disponiamo di un mezzo potentissimo chiamato televisione, ce lo indicherebbe
senza esitazione. Ma non intendo parlare di problemi formali interni all’opera
in televisione, dei quali mi sono occupato ripetutamente. Intendo parlare del
contesto e del contorno o, se preferite, del contenitore, convinto come sono che
il primo problema implicito nell’intitolazione di questo Convegno sia un problema di identità.
Il professor Rath dell’Angelo azzurro ci ha insegnato che non si può pretendere di entrare in un bordello e continuare a esigere dagli altri il rispetto do111
vuto a un cattedratico; se lo si fa si finisce col gridare «chicchirichì» – ricorderete questo capolavoro del cinema tedesco – e a mio avviso è esattamente quello che sta accadendo al teatro musicale in televisione per come e dove è collocato, per come è presentato. Vediamo perciò qualche esempio riguardante le
scelte attuali, tutte pressappoco dell’ultimo decennio. Il primo esempio tratta
dello Stabat mater per soli, coro e orchestra in occasione di una trasmissione
che apriva un ciclo nel bicentenario di Rossini. Il titolo della trasmissione era
Rossini, non solo un crescendo (29 febbraio 1992). Non trattiamo qui dello Stabat mater ma del modo in cui si presentava questo ciclo molto importante. Presenta Bruno Cagli. Non guardiamolo con i nostri occhi; in tal caso vedremmo
l’illustre collega, lo studioso, il maggior esponente di prestigiose istituzioni
musicali romane e non. Guardiamolo con gli occhi del comune spettatore che
nulla sa della sua importanza in ambito musicologico. Se pensate alle prime
trasmissioni televisive e all’impaccio che mostravano gli intellettuali che vi
partecipavano, converrete che in questo caso quarant’anni sono trascorsi invano. Prego, il primo esempio.
(esempio audiovisivo)
Ho azionato l’avanti-veloce alla parola «depressione», l’ultima parola che
il professor Cagli ha pronunciato e che avete sentito. Si va avanti così fino a
tredici minuti netti, che in televisione sono un’eternità. Evidentemente non siamo al cospetto di un comunicatore e neppure di un divulgatore, il che non è un
difetto, anzi! E ribadisco ancora una volta (è inutile dirlo ma lo ripeto) la mia
grandissima stima e ammirazione nei confronti del professor Cagli. Il problema
è un altro: è questo modo di porgere che serve in televisione?
Secondo esempio: Il flauto magico, registrazione effettuata al Teatro alla
Scala di Milano con sottotitoli in italiano. Qui abbiamo un diverso presentatore, Lorenzo Arruga. Con Arruga, critico musicale (lo ricordo per i colleghi stranieri) e direttore della rivista Musica Viva, siamo all’estremo opposto, all’eccesso di comunicazione che si fa istrionismo. È giusto non essere seriosi ma un
capolavoro del teatro musicale di tutti i tempi mi pare ridotto qui a una favola
per bambini scemi. È vero che Il flauto magico prese le mosse da un’operazione povera, dimessa, ma questo giocare al ribasso, oggi, per attirare un pubblico
che presumibilmente nulla sa mi pare un’operazione mistificatoria e perfino demagogica. Ancora una volta potrei fare molti altri esempi: si punta sulla storia,
mentre sui valori espressivi, sui caratteri formali non una parola. L’esempio,
prego! È una trasmissione RAI del 1996.
(esempio audiovisivo)
Non vorrei commentare ulteriormente. L’ho introdotto prima e penso sia
sufficiente. Mi spiace solo che non sia stata fatta la traduzione per i colleghi
stranieri che non comprendono la lingua italiana, perché i miei esempi si basano esclusivamente su questi contributi, non sull’analisi musicale. Andiamo
avanti.
Il terzo esempio è diviso in due parti, una parte A e una parte B. Si tratta di
una trasmissione di RAI 3 del marzo 1996. La data è di una grande tristezza per
tutti noi e l’evento è anche collegato: è poco dopo l’incendio del teatro La Fenice di Venezia. Si dà un Don Giovanni sotto un teatro-tenda proprio come gesto di orgoglio. C’è la regia televisiva di Ilio Catani e ne parlerò benissimo poiché naturalmente non ho scelta! Con Catani abbiamo avuto negli anni passati
bellissime discussioni proprio sui problemi della regia televisiva che tuttavia
non sono il tema della mia relazione di quest’anno. Direi di vedere la prima
parte del prossimo esempio e poi la commenteremo.
(esempio audiovisivo)
112
La parte A di questo esempio riguarda le scritte che scorrono sul video.
Viene fatto di pensare: Roma-Lazio 1-1, Milan-Juventus 0-0, Parma-Bari 3-1;
non me ne vogliano gli eventuali tifosi, non mi intendo di calcio e ho dato risultati casuali. Avete presenti quelle graziosissime informazioni che scorrono
nel bel mezzo della visione di un film? Un film magari importante, che stavate
registrando per la vostra videoteca o che contavate di utilizzare per motivi professionali? La mentalità così premurosa è la stessa: ben vengano i sottotitoli
quando l’opera è in lingua originale, ma qui siamo al pleonasma tanto assurdo
quanto fastidioso. Leporello canta «Voglio fare il gentiluomo/E non voglio più
servir…», e la didascalia paternalmente ci informa che il servo di Don Giovanni è stanco di fare il servo. Geniale! Ho persino pensato che si potesse trattare
di sottotitoli per non udenti e invece poi ho capito: sono per non pensati! Ne
deduco che l’istinto materno e protettivo della RAI, potentemente attivato
dall’avvento della televisione con trasmissioni dal forte connotato educativo,
che ebbero comunque una loro importante funzione, la di là del paternalismo e
dello spirito censorio imperante, persiste in queste sintomatiche scelte. Forse
bisognerebbe distinguere fra ignoranza musicale e incapacità intellettiva tout
court. Lo scopo evidente è quello di facilitare il compito dello spettatore, alleviargli la pena, ma così facendo l’attenzione audiovisiva è catturata da una sola
cosa, la scritta che, per sua natura, è percettivamente prioritaria. Qualsiasi psicologo potrebbe confermarvelo. Questa edizione ci riserva una seconda tortura.
Vediamo la seconda parte dell’esempio.
(esempio audiovisivo)
Lo dico per i colleghi stranieri: la presentatrice che avete visto si chiama
Serena Dandini. Si tratta di una intrattenitrice che ha cominciato a ottenere un
certo successo, soprattutto fra i giovani, in una trasmissione di RAI 3 realizzata
interamente da donne, «La TV delle ragazze». Il suo pregio maggiore è la
spontaneità, il tono anti-retorico. Da quel momento è cominciato il meccanismo della onnipresenza: tiene una rubrica di posta sull’inserto «Rock» di la Repubblica; è stata utilizzata per presentare più edizioni di una trasmissione legata al Festival del cinema di Venezia, e non so cos’altro. È evidente che si punta
su di lei per una funzione imbonitrice e catalizzatrice, ma che c’entra con la
musica? «Che gioia!», «Che emozione!»: questo saprebbe dirlo chiunque, magari è anche sincera la signora Dandini, ma tra decine di migliaia di giovani
laureati e disoccupati ci sono decine di migliaia di individui sinceri. Ma in fondo il punto è un altro. Questo è un avanzo post-sessantottesco di giovanilismo
sinistrorso che fra un’emozione e una sdrammatizzazione recita i soliti slogan
populisti, che tanto hanno nuociuto e tanto nuocciono alla sinistra, detto da chi,
almeno idealmente, vi appartiene da sempre.
Il quarto esempio riguarda La bohème di Giacomo Puccini nel centenario
della prima, RAI 2, Teatro Regio di Torino, 2 febbraio 1996, diretta televisiva.
Questa è l’apoteosi. Contiene i collegamenti con il foyer e con altri luoghi del
teatro, con interviste a personaggi più o meno illustri, da Zucchero Fornaciari a
Gianluca Vialli. Visto che siano andati in decrescendo, dico subito che si tocca
qui il punto più basso della serie. L’esempio non è corto e, riversandolo per
questa mia comunicazione, ho già tagliato qualcosa, ma vi invito con un po’
della vostra pazienza a vederne qualche frammento insieme. Il personaggio che
esordisce si chiama Arnaldo Bagnasco e ha condotto alcuni cicli di trasmissioni
culturali, in prevalenza letterarie e di varia umanità, ovviamente notturne o
quasi. La sua caratteristica più evidente è una certa dose di aggressività e di piglio anticonformista che, presumo, dovrebbero avere la funzione di tenere sveglio lo spettatore e di non indurlo a cambiare canale. Qui, nella genericità dei
suoi interventi e in un certo imbarazzo, mi pare un po’ a disagio; e c’è da capir113
lo, perché non ci si improvvisa specialisti di un determinato settore. Guardate i
candidati alle interviste alle sue spalle, in attesa impaziente della propria razione di presenzialismo. E guardate il pubblico. Si comporta esattamente come il
pubblico che segue le serate del Festival di San Remo: si sofferma davanti alla
telecamera, si rimira nel monitor, «io c’ero!». L’intento di siffatta regia – parlo
di quella estranea all’opera, Ilio! [Catani, N.d.R.] – è evidentemente convincere
la gente a casa che l’opera è una cosa importante, perciò non c’è niente di meglio che mostrare politici, intellettuali, magistrati, stilisti e via dicendo, che
hanno risposto all’appello. Per rafforzare l’effetto si fa ricorso a due intervistatori, Giuliani e Traverso, che trovo più opportuno non definire: non voglio incorrere nei rigori della legge. Lo sa chiunque si è trovato alle prese con simili
giornalisti: certe domande, il modo di porle, rendono stupido e impacciato anche chi non lo è. Vedrete fra poco Franca Valeri, un’eccellente artista e una
donna molto colta, che sinceramente non esce bene da questo, ma appunto il
problema sono le domande che le vengono rivolte. Ma c’è anche chi non si
pone questi problemi. Ora, con la cortesia del tecnico, sarà necessario interrompere più volte il prossimo esempio, ma le luci possono rimanere spente perché i
miei interventi saranno brevi. Possiamo cominciare.
(esempio audiovisivo)
In sintesi, Zucchero Fornaciari si augura che non ci siano dei fischi così
può dormire durante l’opera, visto che è molto stanco. Ieri l’altro, ritoccando
questo mio intervento, leggevo su La Stampa di Torino una intervista con Uto
Ughi, il quale finalmente ha detto papale papale che Pavarotti è un danno estremo per la musica, perché confonde le carte in modo vergognoso. Tutti noi lo
pensavamo, ma il fatto che mi pare rilevante è che lo abbia detto un grande
concertista, quando invece nel mondo del concertismo c’è in genere una sorta
di «riservatezza». Finalmente un grande concertista ha avuto il coraggio di dire
che questa è una cosa vergognosa e che serve solo alla fabbrica dell’appetito di
Pavarotti. Adesso vedrete che spiegamento di forze. Una volta la sinossi di ciascun atto era affidata a una gradevole annunciatrice; oggi si fa ricorso addirittura a un critico musicale, Enrico Castiglione, che confesso di non conoscere. Sul
suo discorso c’è un disturbo audio, ma non è una mia censura. Procediamo con
l’esempio.
(esempio audiovisivo)
Spero vogliate credere a quello che dico: non sto esercitando una forma di
sadismo nei vostri confronti, ma vorrei davvero che rileggeste con me questi
episodi inqualificabili che sono estremamente comuni.
(esempio audiovisivo)
Naturalmente la performance è sempre eccezionale: siamo o non siamo in
regime di consensocrazia? Non si parla mai male di niente, è assolutamente
vietato. Più avanti, poi – non ho cuore di farveli vedere e, inoltre, non credo ci
sia tempo sufficiente – gli intervistatori che avete visto sono all’opera con Renato Balestra, Melba Ruffo, Gianni Vattimo, Guido Davico Bonino, Marta
Marzotto. Lo stupidario è ai massimi livelli e, per non rischiare di abbassarlo,
il filosofo Vattimo non viene intervistato perché, magari, avrebbe rischiato di
dire qualcosa di intelligente. Ci si è allora guardati bene dal farlo parlare, tutti
hanno parlato fuorché lui. Castiglione va poi nel camerino di Anna Rita Taliento, che nell’opera è Musetta e che, come sapete, è una bella ragazza. È tutto assolutamente preparato. L’intervistatore chiede: «Che cosa si vedrà nel secondo atto?» e lei alza la gonna e fa vedere il reggicalze, scoprendo una
gamba del tutto apprezzabile – sono il primo a dirlo –. Il messaggio è chiaro:
114
se lo spettatore resisterà ci sarà un po’ di erotismo nel secondo atto; e Anna
Rita Taliento si è prestata a scoprire la coscia per mostrare qualcosa che in
realtà non si vedrà nel secondo atto, dunque lo spettatore è preso in giro due
volte. Segue poi l’intervista – che non vi farò vedere – con Gianluca Vialli,
per i colleghi stranieri un giocatore di calcio, mi dicono considerato nell’ambiente del calcio il più intellettuale di tutti. Dice più o meno le cose dette da
«Sugar» Fornaciari, ma diciamo la verità: eravamo tutti ansiosi di conoscere
l’opinione di Vialli su Puccini, davvero, non sapevamo come fare ad andare
avanti! Sempre affidandomi alla cortesia del tecnico, procediamo con un
avanti-veloce per saltare gli esempi che vi ho appena raccontato e arrivare
all’ultimo frammento che vorrei mostrarvi. [Durante l’avanti-veloce, N.d.R.]
Questa è Franca Valeri (poverina!) che si dibatte cercando di dare un senso
alle domande; ecco Vattimo, il secondo da destra, l’unico a non esser stato intervistato; Marta Marzotto non può non esserci; questo invece avrebbe potuto
essere interessante, è un dietro le quinte; l’intervista con i protagonisti; noi tutti sentiamo come qui aleggi lo spirito di Puccini; ecco il sindaco di Torino, e
qui c’è tutta una parte turistico-promozionale sulla città; questo è il sedicente
critico musicale con Musetta e, oplà!, la gamba; il calciatore Vialli in veste intellettuale; il magistrato Francesco Saverio Borrelli, al quale viene chiesto: c’è
relazione fra l’opera e la magistratura? Vi giuro! Due gentili signore del pubblico, la storiella. Fermiamoci un istante. Non entro nel merito artistico come
ho già anticipato ieri in un mio intervento. Questa è la famosa Tosca, nei luoghi e nelle ore di Tosca. Personalmente ne sono rimasto fortemente impressionato in senso positivo ma, ripeto, non è questo il contesto in cui ne parlerò.
Dirò solo che qui la televisione ha fatto la televisione ed è quello che deve
fare. La mia domanda è – a parte Tosca, con la quale ho voluto concludere
con una nota positiva –: a chi servono questi miseri espedienti? Vedremo poi
un esempio positivo, perché i titoli di Tosca sono quanto di più rigoroso si
possa immaginare. Nel rispondere alla domanda mi avvio alle conclusioni.
Non a chi è consapevole ma nemmeno e soprattutto a chi è inconsapevole,
perché tutto ciò svia, deforma, inganna, allontana dall’essenza dell’arte, che
non è una, sono infinite, ma nessuna passa attraverso questi rimedi che sono
peggiori del male. Vorrei infine sgombrare il terreno da un probabile equivoco. Non sono né un purista né un apocalittico, riferendomi in questo secondo
attributo alle ben note categorie di Umberto Eco: applicandomi in prevalenza
di musica applicata al cinema e ai media non vedo come potrei resistere se
fossi un purista o un apocalittico. Niente è intoccabile e l’opera soprattutto,
che trae buona parte della sua linfa vitale proprio dalle commistioni e dalle
contaminazioni fra linguaggi. Ben vengano insomma registi come Sellars, ma
il punto è che le trasformazioni devono avvenire dall’interno, mentre il contesto non può essere distorto. A chi serve il fenomeno «teatro musicale» snaturato a tal punto da perdere ogni connotazione? Se il fascino dell’opera è nello
spettacolo stesso, nella esibizione manifesta dell’artificio, occorre che del suo
contesto resti qualche traccia. La volgarità del fenomeno Bocelli o quella ancor meno comprensibile delle esibizioni «tritenorili» insidiano già abbastanza
un corretto apprezzamento del fenomeno belcantistico. Ma in questo c’è poco
da fare perché la storia insegna – e Benedetto Marcello ce lo ha ricordato con
insuperata efficacia nel teatro alla moda – che l’opera si è sempre dovuta
guardare prima di tutto dai cantanti. Avremo un bel fare a ragionare di forme
televisive e di forme teatrali, di regie sdoppiate, di letture cinematografiche e
di letture propriamente televisive, di spazialità acustica e di spazialità visiva.
Io l’ho fatto per anni: Ilio Catani mi è testimone, e Carlo Marinelli che, ahimè,
stamane manca mi è mentore; ma se non tenteremo di rispondere a questi semplici interrogativi a chi ci rivolgiamo? a che scopo? quando e come intendia115
mo farlo? Realizzeremo la solita riunione di studiosi, esperti e operatori di settore che servirà soltanto a noi stessi. Vediamo.
(esempio audiovisivo)
Ho concluso. Vi ringrazio.
ILIO CATANI
Grazie al professor Miceli per il suo simpaticissimo intervento, molto curioso e stimolante, che ci aiuta a riflettere anche su tante cose che a noi operatori sembrano invece accettabili. Dovremmo averlo sempre alle spalle come
una specie di grillo parlante, come la voce della nostra coscienza.
SERGIO MICELI
… se non fosse che il grillo parlante finisce male!
ILIO CATANI
Ahimè sì, ma dice cose sempre vere e c’è sempre qualcuno che sa apprezzare la verità. A proposito di verità vi annuncio che sono le 13.00 e che al di là
di quella porta ci aspetta una gustosa colazione. Grazie per l’attenzione di questa mattina. Ci rincontreremo alle 14.30 in punto per poter dare il giusto spazio
agli interventi del pomeriggio e al dibattito che vorrei più ampio del solito. Mi
sembra infatti che si siano accumulati diversi argomenti e diversi stimoli per la
discussione. Buon pranzo a tutti e ancora grazie.
116
mercoledì 1 dicembre 1999
ore 14.30
Circolo RAI
viale di Tor di Quinto 64
Sala conferenze
presiede
Ilio Catani
ILIO CATANI
Con incredibile puntualità diamo inizio alla seconda parte della nostra
giornata di lavori. Cedo il microfono al professor Heister dell’Università di
Amburgo. Il titolo della sua relazione è Dall’Opus Perfectum et Absolutum al
Work in Progress dell’opera in televisione. Prego, professor Heister.
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HANNS WERNER HEISTER
Dall’Opus Perfectum et Absolutum al Work in Progress dell’opera in televisione
Grazie.
Caro Ilio Catani, cari colleghe e colleghi, è un piacere poter tornare all’I.R.TE.M., alla RAI e a Roma dopo un solo anno. Una breve premessa. Purtroppo rispetto allo scorso anno non ho imparato meglio l’italiano e per questo
scusatemi. Volendo imparare la vostra lingua non ho imparato anche un’altra
cosa che, al contrario dell’italiano, non ho intenzione di imparare anche se potrei: dimenticare che l’opera d’arte, benché tendenzialmente imperfetta e non
assoluta, deve essere il centro di tutte le fatiche sia del regista sia del cantante
sia del responsabile della produzione televisiva. In questo centro la regia non è
la primadonna assoluta, centro assoluto del senso, delle azioni e dei significati
musicali teatrali, come le associazioni libere hanno il loro luogo legittimo nella
prassi della psicanalisi, non nella riproduzione in video dell’opera lirica.
Primo punto. Comincio come al solito, atteso e temuto, con un po’ di teoria,
una breve definizione del teatro. Tutte le innumerevoli forme di teatro hanno come
base due principi: trasformazione e azione, forse si può dire metamorfosi e, se possibile, senza implicazioni religiose, trasfigurazione. La trasformazione è il principio
più universale dell’arte in genere. Questo vale già per le forme storiche o preistoriche, prima che venissero considerate come arte vera e propria all’interno della cerimonia mimetica, il Gesamtkunstwerk [opera d’arte totale, N.d.R.] ante litteram, e in
ogni genere di arte gli uomini si appropriano della realtà attraverso oggetti o media
specifici, siano essi suoni o immagini, tessuti sonori o verbali, frasi o pietre, gesti o
colori, ecc. Già solo per questo frazionamento materiale, la mimesi non è una riproduzione della realtà, una imitatio naturae, ma elaborazione sensitivo-mentale, variazione-trasformazione. L’arte è così come è il mondo al quale si riferisce ed è diversa da quello; l’arte è simile strutturalmente, non contenutisticamente. La
trasformazione, insomma, corrisponde alle regole del definire il genus proximum, il
genere prossimo, differenza specifica cioè azione. Il teatro assomiglia in questo
senso alla musica, è arte da eseguire. Naturalmente la musica è inclusa nel teatro; il
teatro musicale non è teatro e musica come addizione, al contrario: il teatro senza
musica è nella storia l’eccezione. Azione. Si tratta di uomini vivi che agiscono in
una prassi specifica e in un modo specifico. In questa modalità specifica le azioni
sono diverse dalle azioni ordinarie, quotidiane, pratiche, diverse perché hanno
l’aspetto di finzione. Sul palcoscenico si agisce «come se». Centro delle azioni, di
cosa è fatto il dramma? Linguaggio verbale, azione scenica, allestimento, gesti, mimica, ecc, tutti strumenti che corrispondono e rispondono ai sensi della percezione.
La riproduzione tecnica, anche se perfetta, non può riprodurre totalmente e adeguatamente l’ambiente e l’atmosfera del teatro, l’odore del palcoscenico e del pubblico,
l’avvenimento nello spazio e nel collettivo. La riproduzione audiovisiva è un’immagine, non l’oggetto stesso. Come diceva Magritte «Ce n’est pas une pipe» [non è
una pipa, N.d.R.] ma il quadro di una pipa. La riproduzione in video non può e non
deve fingere di essere il teatro musicale reale ma deve andare per altre vie; vie più o
meno specifiche senza deviare totalmente dal punto di partenza, dal teatro musicale.
Secondo punto. Arte come natura, teatro, opera lirica come cinema. Un problema principale del film, soprattutto come colonna sonora, come audiovisivo, è la tendenza al naturalismo, al modo naturalistico della ripresa «immediata» della realtà.
L’opera lirica, invece, ha una tendenza, per così dire, naturale alla stilizzazione.
Terzo punto. Teatro come teatro. Meglio della riproduzione naturalistica è
il tipo di riproduzione che mostra o almeno indica in generale che siamo in tea120
tro; il tipo probabilmente più frequente è di regola la trasmissione in diretta.
Veramente importante è la realizzazione teatrale stessa, quanto più naturalistica
tanto più falsa, perché l’opera lirica si avvicina alla realtà e al realismo superficiale della drammaturgia sul genere della Hollywood convenzionale. In questo
senso la riproduzione, ossia la sceneggiatura in video, è tanto più problematica.
La regola con l’eccezione, naturalmente. Ci sono opere che funzionano come
film, in cui la realtà è direttamente presente con oggetti reali e autentici. Ci
sono molti esempi che sono già stati discussi esaurientemente, soprattutto da
Sergio Miceli, nel 1987 all’I.R.TE.M. Questo è solamente un punto di partenza
per noi. Vorrei concentrarmi in particolare su un certo filo di argomentazione:
la differenza tra riproduzione audiovisiva naturalistica, al contempo opera e audiovisione come natura, e riproduzioni che invece dimostrano e spiegano il loro
carattere come arte, come fatti artistici. L’equilibrio tra Classicismo e Manierismo, qui un po’ accentuato, non è facile. Il pubblico vuole e deve vedere una
certa integrità, non solo frammenti. Dall’inizio alla fine ci sono tante vie diverse e, come diceva Verdi, «lunghe, lunghe come le melodie di Bellini».
Quarto punto. Opera in riproduzione video. Problema fondamentale: realizzare la trasformazione modello il preludio, l’overture. Cito: «Arte è magia liberata dalla menzogna di essere vera», come diceva Adorno. Forse è davvero più
vera l’ambiguità, l’ambivalenza dell’arte. Da un lato bisognerebbe defeticizzare
l’arte e la sua riproduzione tecnica; dall’altro, come riesce la televisione a mettere
il pubblico nello stato d’animo del sentire tipico della cerimonia mimetica, del
teatro, dell’opera lirica o del concerto, del sentire diverso dello stato normale,
consueto? Non si deve lasciare il cervello nel guardaroba, secondo il sospetto di
Brecht, basta la consapevolezza dell’ambivalenza, del raddoppiamento, della differenza fra essere e finzione; e, in aggiunta, la differenza fra opera lirica in teatro
e riproduzione in video. Il problema nasce subito all’inizio, colpa dell’audio: al
teatro è sufficiente l’orchestra, visibile o quasi invisibile, ma questa non basta in
video dove, per esempio, non si può vedere il pubblico, ecc. Una ripresa documentaria può riprodurre e tenere la tensione estetica attraverso i rituali del teatro,
come l’accordatura dell’orchestra o l’applauso. Vediamo alcuni esempi video
con brevi commenti. Prima la musica poi le parole. Il primo esempio, per favore.
(esempio audiovisivo)
È come se fosse un vero appartamento, come nelle Nozze di Figaro di Sellars, per esempio, ma senza l’ironia e la riflessività di Sellars. La situazione è
quella tipica di una sit-com. Così fan tutte si potrebbe cominciare in questo
modo. Quando il primo suono viene cantato risulta assolutamente innaturale.
Entra l’uomo e dialoga in questo ambiente a mio parere assolutamente assurdo.
Prego, il secondo esempio.
(esempio audiovisivo)
Questo si annuncia seguendo Leoncavallo come figura allegorica. Strana
cosa: pretende di dire la verità, la vita vera attraverso il mondo della finzione
del teatro. Qui figura allegorica et incarnatus est, et homo factus est, umanizzato come clown, naturalmente clown tragico. Soluzione del problema con un
equilibrio tra teatro e film video ma la musica tende a essere e diventare un
soundtrack: troppo rumore, molta, forse troppa azione.
Terzo esempio, prego.
(esempio audiovisivo)
Sfondo dipinto ma realizzazione accentuatamente filmica. Che sia un palcoscenico lo si vede soltanto a posteriori. L’ambivalenza oscilla tra opera e
musica di film ma si riconosce – si spera – un po’ l’opus perfectum. Titoli di
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testa, poi il preludio, azione, dramma in nuce. La soluzione del problema, ingegnosa, rispetta e sfrutta la specificità del video. Il prossimo esempio, prego.
(esempio audiovisivo)
Raffinato tecnicamente, materializzato teatralmente. Opera del servizio di
salvataggio in mare. Costumi storicizzanti, un po’ ridicoli, cappa e spada, pirati, ecc. Film storico di seconda classe, del tipo «B picture», contrariamente
all’esempio RAI di Ilio Catani. Prossimo esempio, prego.
(esempio audiovisivo)
Mare, un allestimento tipo palcoscenico ma fatto così bene che resta una
certa ambiguità, senza pretese naturalistiche, come nell’Otello. Conoscete sicuramente tutti il prossimo esempio, il film di Ingmar Bergman tratto dal Flauto
magico. Il film di Bergman non è La fanciulla del West ma «La fanciulla del
Nord»: una fanciulla svedese (la figlia di Bergman) come Leitmotiv visivo,
come vedrete. Se seguite la partitura, Bergman ri-trasforma l’ouverture in un
pezzo di musica strumentale. Nessuna fuga dal contenuto drammatico-musicale
ma la sua soluzione visiva rispetta almeno il messaggio generale: tutti gli uomini «égalité et fraternité», e gli spettatori vengono coinvolti. Vediamolo.
(esempio audiovisivo)
Molta o troppa azione ma solo sul piano figurativo: arabeschi, tutto sommato a mio parere inutili. Un nuovo tipo, per lo più la vecchia feticizazzione,
qui come deumanizzazione, opera senza uomini, senza cantanti visibili. Ma la
soluzione, come parte di un concetto più ampio ed elaborato, potrebbe essere
utile e informativa. Il prossimo esempio riguarda sempre Il flauto magico.
(esempio audiovisivo)
È tratto da una rappresentazione svoltasi presso il Conservatorio di Amburgo dove lavoro. La sceneggiatura è fatta come se fosse destinata alla ripresa video, includendo il pubblico che letteralmente si rispecchia in essa. La tecnica di
ripresa è dilettantistica. Ricordate anche l’esempio di Christophe Colomb di
Milhaud, che in certi punti vi assomiglia, senza l’inserimento del film. Un ultimo esempio: la trasformazione artistica nel teatro stesso può essere anche un
travestimento, un teatro in potenza, qui un travestimento anche – lo si deve dire
– del Flauto magico. Si spiega quel che succede nell’opera, riferendosi a Papageno e Papagena; è una contrazione di tutte le scene con questi due personaggi.
(esempio audiovisivo)
Qui, naturalmente, la trasformazione è un po’ esagerata, come anche il travestimento! I bambini ai quali si rivolge comprenderanno Il flauto magico stesso, lo so: i bambini non sono così stupidi come pensano i pedagoghi dozzinali.
Quinto e penultimo punto. Video e Televisione come oggetto di riscontro o
pendant e complemento del teatro-opera come arte. Procedendo con concezioni più
avanzate, la relazione cambia dalla specificità del teatro a quella del video. La realizzazione in video è più che una semplice riproduzione in video, è una produzione.
Un punto di partenza è il problema massmediale; un punto d’arrivo del mio discorso (e nello stesso tempo forse della prassi televisiva) è il seguente: mi pare molto
adatta, in particolare per la televisione, la ripresa di una prova d’opera o di un’opera
con l’aggiunta delle prove, includendo altri tipi di commento verbale e visivo. Lo
scopo, non dimentichiamolo, è sempre quello di interpretare ottimamente l’opera
lirica stessa, di renderla il più possibile comprensibile al pubblico, non comeavviene in Sesame Street [celebre serie televisiva statunitense per bambini, N.d.R.], naturalmente. Le proposte significano trasposizione radicalizzata del teatro di regia, Re122
gietheater, di qualche elemento di questa tendenza alla riproduzione in video, e
questa trasposizione significa moltiplicazione. Per la specificità del video si possono e si devono usare altre e diverse tecniche di montaggio. Una grande possibilità
del video, rispetto al teatro, è la defeticizzazione, il rendere esplicite le finzioni, le
nebbie ideologiche e anche estetiche. Una via regia in questa direzione è mostrare
l’opera d’arte mentre viene realizzata. Vedendo le prove, il pubblico è coinvolto nel
processo formativo della nascita della musica e del dramma: arte come lavoro, artigianato. Ricostruendo l’intero processo di lavoro si crea una totalità che prima era
assente. Ma la direzione del processo può essere cambiata nei confronti dell’opus
perfectum et absolutum, prima della realizzazione del video, all’opposto, la frammentazione almeno temporanea dell’opus. Processualità in due direzioni: dal frammento all’opus e viceversa. Una seconda via della defeticizzazione dell’arte è l’uso
di certi oggetti e strumenti della realtà che va oltre la realizzazione del lato drammaturgico-musicale. Mi riferisco in primo luogo alle pagine di partitura, in secondo
luogo alle opere di arte figurativa, amplificando l’allestimento teatrale in senso
stretto: abbiamo visto esempi che si avvicinano a questa tendenza; in terzo luogo, ai
documenti storici e, infine, alla natura di certe immagini e dell’ambiente, al paesaggio. Ci sono risultati intelligenti nella visualizzazione della musica strumentale ma
dobbiamo chiederci più cautamente se in tal modo la percezione dell’opera sia valorizzata o meno. Al contrario della musica strumentale, questo tipo di montaggio
non si fa spesso nell’opera lirica, il canale della vista è già colmo. L’uso di importanti materiali documentari storici implica un’apertura dell’arte nei confronti della
realtà, realtà al posto della finzione televisiva o audio. Con un montaggio parallelo
o simultaneo le prove e tutti questi elementi informativi della realtà storica e contemporanea saranno inseriti e integrati come spoglie dell’antichità in architettura,
visibili attraverso sovraimpressioni, ecc. La continuità, forse, proviene dalla musica. Montaggio parallelo, come in Prima della prima della RAI, che non conoscevo
finché Miceli me ne ha parlato. Esistono anche altre esempi, almeno come potenzialità, nel CD interattivo o nel DVD (vedi Patay, Erben e altri). La differenza fra i
due mezzi sopra citati (CD e DVD) e la televisione come medio pubblico e collettivo è ovvia; ci si deve chiedere piuttosto se la ricezione live, senza registrazione su
nastro video, sia il tipo prevalente. Personalmente non lo so, dovrebbero esistere
studi empirici a riguardo. Comunque, la televisione ha il problema di dover prendere in considerazione i due tipi di ricezione.
Sesto punto, che è anche una breve conclusione. Seguiamo le vie doppie
della trasformazione del work in progress in opus perfectum e viceversa, e diverse vie e modi e oggetti del montaggio. Non esistono confini, limiti della fantasia e dell’immaginazione. Piuttosto sono vincolate le realizzazioni. Solo limite è lo scopo, come ho detto. Forse potrebbe stimolare a perseguire nuove
modalità ma avendo visto gli esempi proposti da Sergio Miceli e da altri sono
pessimista mentre dopo aver visto le realizzazioni della RAI, di Ilio Catani, di
Gianni Di Capua e di altri, incluso Il flauto magico di Amburgo, non sono pessimista. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
ILIO CATANI
La relazione del professor Heister ci ha trasportato dalla realtà ai problemi
teorici che, sotto certi aspetti, sono propedeutici alle realizzazioni, alla pratica
che spesso viene risolta in modo piuttosto semplicistico o empirico. Se dovessi
occuparmi ancora di regie televisive, a me piacerebbe avere la presenza di un
teorico, o del professor Heister a destra e di Sergio Miceli a sinistra, come due
angeli custodi, come Dante e due Virgilio, per essere guidato alla ricerca della
verità. Spero un giorno di poterne avere la possibilità. Grazie, professor Heister. Invito Jean-François Jung al microfono per la sua relazione.
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JEAN-FRANÇOIS JUNG
Scena di Illusione del teatro e Spazio di Illusione dello schermo.
La «mobilità» nell’adattamento lirico.
La riproduzione, diciamo piuttosto la trascrizione, o meglio la trasposizione di un’opera lirica su uno schermo televisivo, opera dal vivo infatti su due
campi, il campo teatrale e il campo musicale. Al livello dell’ Architettura
dell’Illusione, dobbiamo passare effettivamente da una Scena di Illusione teatrale ad uno Spazio di Illusione dello schermo. Uso questo termine, Spazio, per
dare lo «sfumato», l’ambivalenza al tempo stesso di restrizione e di allargamento del sistema della percezione. In ogni caso, è proprio nella libertà spaziale l’esplosione non scenica della rappresentazione che il sistema dello schermo
apre il campo delle questioni musicale. Dico «apre» perché mi sembra che nel
contesto di una trasposizione riuscita bisogna parlare più di libertà che di «problemi» musicali, più di opportunità date all’istanza musicale.
Vorrei quest’anno, evitando di arenarci nelle difficoltà che la ripresa dal
vivo comporta, riflettere sulle singolarità positive degli adattamenti specifici
allo schermo. Vorrei considerare il suo Spazio di Illusione come legato alla
mobilità musicale, forse al movimento stesso della musica... Le «sinestesie» tra
suoni e movimenti nella libertà dello spazio televisivo pongono la domanda:
quale movimento?
Il movimento, non è solamente il movimento fisico della telecamera, è anche quello, di spazio e di tempo, del taglio e della sceneggiatura. Questo è dire
che nello spazio dell’illusione dello schermo il movimento è anche una questione di tempo: senza il tempo non c’è movimento. il taglio, la sceneggiatura,
come i movimenti di camera, possono essere in simbiosi con i movimenti dei
cantati nello spazio e col movimento della musica stessa. Ora, il movimento del
canto di un corpo sulla musica all’opera è il tempo; il movimento musicale ha
dunque la sua equivalenza nella mobilità interna o esterna dell’immagine. Mobilità esterna sono il taglio ed i movimenti di camera. Per mobilità interna, penso che ci sia sullo schermo ciò che ho chiamato già in questa sede delle «immagini di equivalenza», dei supporti visuali, al «sogno» musicale... Anche
all’azione drammatica. Ciò certamente nel quadro di possibilità date per la configurazione di un adattamento abbastanza libero...
Fate strisciare sul piano della scena per esempio, fate strisciare all’opera
dei fumi e otterrete un «ambiente». Filmate in un piano molto stretto le volute,
gli arrotolamenti di questi fumi, e otterrete sullo schermo movimento e tempo.
Questo tempo è molto più in accordo col tempo musicale che quando queste
spirali vaporose si perdono nella visione larga di una scena. Andremo a vedere
ciò fra un istante con un piccolo estratto di Elektra.
Vorrei prima accennare ad alcune nozioni di base per me che sono in effetti delle nozioni spaziali come quella che chiamo nell’opera e nel teatro «i tre
muri» della scena...
Il linguaggio degli adattamenti teletrasmessi d’opera – non parlo delle riprese dal vivo – si modula più o meno in varianti, secondo le differenti volontà
di esplosione di ciò che chiamo i «tre muri» della «scatola teatrale» classica.
Quando l’adattamento è fatto sulla scena stessa, è difficile far esplodere i due
lati laterali della scatola scenica. Non si può far sparire la nozione delle quinte
che grazie ai virtuosismi della sceneggiatura che può creare una perdita dei riferimenti della scena d’illusione frontale o, ancora, per un abbassamento pro124
gressivo delle luci fino al nero, laddove lo spettatore ha l’abitudine di «segnare» la sua sinistra e la sua destra classica.
È difficile annegare questi «muri» nel nero, nello spazio stringente di una
ripresa fatta nell’esiguità del teatro stesso... Si ottiene più generalmente ciò
passando all’adattamento in uno studio. In uno studio molto grande si può far
esplodere anche il terzo muro, il «muro di fondo», il fondo della scatola, sul
quale i cantanti spiccano, quello che fa ancora riferimento alla scatola dell’illusione teatrale. Si può provare a passare a uno spazio, direi quasi cinematografico, e di cui la «non-teatralità» non è esente da trappole drammatiche...
Queste trappole, che chiamo le trappole dei «grandi spazi», le ho evocate
già, a proposito della questione del film-opera, e del suo permissivismo, al tempo stesso fantastico e «pericoloso» per certe drammaturgie musicali. Parlerò
piuttosto oggi, alla fine del mio intervento, di un’esperienza molto libera, quella del Lindberghflug, dove lo studio mi permetteva come regista un’esplosione
cinematografica dello spazio e dove mi sono assoggettato, al contrario, a ritrovare la scena d’illusione teatrale, la «scatola delle meraviglie», la «casa delle
bambole» che diventa sullo schermo televisivo questa scatola delle magie che
può essere uno studio...
Ho già commentato delle sequenze di questo film che molti tra voi conoscono, ma non ho parlato ancora delle mie intuizioni sulla magia, la prestidigitazione scenica, che mi hanno fatto girare in questo senso certe sequenze che
vorrei mostrarvi questa volta.
Ma cominciamo col guardare tre piani dell’Elektra di Götz Friedrich. È la
sequenza del lamento di Elektra «Agamemnon! Agamemnon!» nel primo atto,
quel movimento musicale tematico potente. Io vorrei che proviate in soli tre
piani tutto ciò che il cineasta, il regista, ha fatto e non ha fatto per approfittare
della libertà dello schermo senza allontanarci dalla magia della rappresentazione illusionista...
Andiamo a guardare una prima volta una sequenza esemplare corta.
(esempio audiovisivo)
Il primo piano ci guarda in uno spazio da una prossimità astratta intorno ad
Elektra, legata all’espressione intima della sua solitudine: «Allein! Weh, ganz
allein». È un piano cinematografico se volete, ma si potrebbe tanto bene seguire la cantante così in una ripresa dal vivo, seguendola allo zoom e in panoramica. La sola cosa che indica la ripresa video piano per piano, è che all’opera,
non si può far piovere tanto forte su dei cantanti, perché non hanno il tempo di
asciugarsi come nel cinema, tra due riprese di camera! «The show must go
on!»… La rappresentazione continua! Ma è un dettaglio accessorio... Questo
piano potrebbe essere filmato molto bene seguendo un movimento scenico dal
vivo.
Il secondo piano è invece grandioso. Si avverte una scenografia scavata secondo un punto di vista in pendenza che non potrebbe avere uno spettatore di
teatro; e tuttavia, la sua fissità resta ambigua: lascia liberamente i vapori spiegarsi in lontananza come a teatro ed abitare musicalmente lo spazio sull’attacco
del tema, ma sul principio di pudore teatrale... Ma proviamo a vedere chiaro in
questa ambiguità: la scelta di fissità della telecamera per lasciare Elektra affondare nella scena molto in pendenza è esattamente un grande movimento di telecamera! Un movimento di gru che indietreggerebbe per allontanarsi dal personaggio, e salirebbe abbastanza in alto per dare l’impressione che Elektra
affondi nel fango e negli «scuri abissi» («kalten Klüfte») produrrebbe esattamente la stessa vertigine in simbiosi col movimento musicale sempre più basso
e anche scuro. In effetti, abbiamo qui tutta la potenza del movimento di gru,
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senza movimento di gru. Semplicemente il cineasta-regista ha lasciato Elektra
si allontanasse, facendo scavare nello studio una scenografia cinematografica.
Ma quest’idea è un’idea teatrale, un’idea che rispetta profondamente la magia
dello spazio teatrale.
Ultimo piano: abbiamo, al contrario, pura magia cinematografica. Solo la
telecamera permette una tale prossimità col suolo grumoso, solo gli effetti cinematografici permettono di controllare in tal misura, musicalmente, gli effetti
del fumo e di filmare e filmare ancora questo piano dieci volte, finché le volute
disegnano ciò che ho chiamato un’immagine di equivalenza. Allora, al contrario dello spettatore di teatro, non abbiamo bisogno di vedere Elektra; il suo
canto è incluso nel fumo come nella musica. È l’avvilupparsi dei vapori, le circonvoluzioni del tempo – perché il fumo che si svolge, È TEMPO, l’espressione del tempo nello spazio – che sopportano tutto il sogno di questo momento lirico. È un vero «pentolone della strega», un crogiolo di invocazione nel quale
Elektra può evocare l’apparizione del viso lontano di suo padre, come negli
specchi magici («Wo bist du, Vater?»). Poi, d’improvviso, mentre siamo ancora nel sortilegio di questo fumo di evocazione del fantasma, dell’anima sottile
di Agamennon (sottile come nell’espressione «aria sottile»), mentre siamo immersi ancora in questa fascinazione, ecco che il sogno è rotto brutalmente
dall’entrata, inattesa, in alto a destra, del corpo di Elektra che avevamo dimenticato: le mani preganti ci fanno atterrare di nuovo sullo spazio del teatro, proprio come il corpo di Elektra raggiunge il suolo. L’illusione del teatro delle
ombre, con le mani in controluce, viene a sostituire l’illusione cinematografica
degli effetti speciali dei fumi.
Possiamo rivedere la sequenza, puntando meglio il sistema teatro-televisione di cui ho appena parlato:
(esempio audiovisivo)
Commento durante l’esempio: Questo è un piano fisso, ma ci sono delle
volute... Questo, per me, è un movimento di gru basato sul movimento musicale... Qui la gru va indietro, è la stessa cosa. È teatro e cinema insieme, poi cinema puro: questo si può ottenere soltanto con effetti cinematografici...
Ora abbiamo dimenticato la cantante… Lo schermo tutto bianco coi fumi
soli… Poi ritorno del teatro all’entrata della cantante: abbiamo cambiato spazio
nella stessa inquadratura!... Grazie.
Vorrei aggiungere, a proposito dello strano accordo tra le spire di vapori e
il movimento musicale che si gonfia, che continua a pensare (ho provato ad
esprimerlo l’anno scorso) che le volute di fumo, la semplice rete grigia molto
fine che sale da una sigaretta posta in un portacenere, che ondeggia nell’atmosfera come un serpente, fanno parte di queste immagini «princeps», equivalenti
a movimenti musicali; sono dei supporti visuali al suono musicale. Sono delle
equivalenze della mobilità della musica, del suo movimento che chiamo sottile... Penso che questi «mobili», che sono di movimento prima che di materia, e
ai quali il nostro occhio si lega in collegamento con un suono, ebbene sono
spesso i grandi movimenti che chiamo essenziali: quelli dell’acqua, ai quali
Leonardo ha dedicato un trattato decisivo, le cadute di pioggia e di neve, i vapori, i fumi, le fiamme del focolare, le colate di lava o di fango, i gorgoglii delle solfatare...
Il tempo dell’ascolto che si svolge è incarnato da un movimento ripiegato
su di sé, una specie di circonvoluzione aleatoria. Queste sostanze non solide e
mobili incarnano il tempo, la distillazione dell’ascolto. Sono un sistema di riflessione, per sognare ad occhi aperti, di supporto visuale onirico per questo
ascolto. Götz Friedrich, il regista, si è servito così, perfettamente, di ciò che ho
chiamato un’immagine di equivalenza. Il fumo incarna lo spazio, e il suo svol126
gimento incarna il tempo. Siamo nel sistema più semplice della rappresentazione di ciò che è lo spazio-tempo del teatro e della musica. Il fumo, è lo spazio
dell’illusione, è già del teatro. Il suo movimento è l’illusione del tempo, è già la
musica e il canto stesso... («Wo bist du, Vater?»: nell’antichità, si provava a
vedere un essere distante attraverso una vasca di fuoco o uno specchio di acqua). Ecco la deviazione che ha fatto Friedrich di questo fatto molto semplice.
Con un dispositivo tanto semplice, abbiamo l’esempio stesso della libertà del
video rispetto a un pezzo lirico!
Vorrei adesso mostrarvi un brano della versione originale in francese
dell’Amore delle tre melarance di Prokof’ev. È l’adattamento di una regia teatrale preesistente, ma ho avuto la possibilità di girare senza pubblico, di mettere
la telecamera sulla scena e di fare allungare tutto il proscenio verso la sala vuota. Si poteva avere così dei movimenti di indietreggiamento di gru, con salite
importanti, e si poteva dare dell’ampiezza a certi movimenti musicali che la regia di scena non poteva rendere. Attenzione, non dico che nella sequenza che
andate a vedere il regista TV sia più astuto del regista teatrale! Dico che sul
piccolo schermo televisivo, la scelta statica della drammaturgia scenica avrebbe diminuito di molto il piacere se la mia ripresa avesse reso semplicemente
questa staticità. Voglio dire che ho accentuato la staticità degli attori con un
grande movimento di telecamera. Ho preso come guida di questi movimenti la
musica. Siamo in un caso di fabbricazione differente dalla splendida Elektra di
Friederich e ho cercato dunque delle soluzioni differenti. È per questo che ho
scelto quest’altro brano. Ma lo spazio di illusione dello schermo ci permette, là
ancora, un’equivalenza della mobilità musicale. Gli attori sono fissi, ma la musica ha una dinamica sempre più grande. In quel momento, il «problema» musicale prevale sul «problema» teatrale, per riprendere il titolo del nostro incontro. Ma trasformo il «problema» in libertà come vi ho detto all’inizio sul senso
del mio intervento... Prendo la libertà di fare provare l’orchestrazione allo spettatore dello schermo. Al teatro, potrete provare questa vertigine voi stessi; su
uno schermo morto, piatto, piccolo, bisogna costringere le cose, bisogna curvare il bastone molto forte affinché sembri naturalmente diritto una volta nell’acqua!... Siamo stati obbligati a girare la scena in tre parti. Questi tre movimenti
di gru potevano essere fatti solamente uno a uno, con una telecamera che ogni
volta va indietro sul proscenio secondo un asse differente. Ciò provoca una triplice ripetizione volontaria, che corrisponde alla triplice ripetizione del libretto
e della sua musica: l’appello invocatorio alla cattiva Fata Nera «Fata Morgana»... Mi sembrava che bisognasse salire sempre più in alto, come in una foresta, per dare l’aspetto un po’ primitivo di questa invocazione. Difatti, comincia
in modo astuto, mormorata a bassa voce, come si sussurra tra cospiratori, per
concludersi in modo più selvaggio...
(esempio audiovisivo)
Grazie. Le cose prendono, musicalmente e moralmente, un’ampiezza un
po’ vertiginosa, che ho tentato di rendere attraverso questi tre movimenti. Sicuro, «l’equivalenza allo schermo» di questo movimento musicale è certo una duplicazione sincrona della musica... Ma questo balletto ripetitivo di gru deve accrescere, al contrario, la fissità della grande gabbia teatrale dalla quale queste
imprecazioni liriche vengono lanciate. Ho pensato un po’ all’enfasi dei finali
delle scene di music-hall che Prokof’ev conosceva bene in questo periodo, perché era appena arrivato negli Stati Uniti, e si sa che questo genere non è esente
da certi piccoli piaceri che si è concesso nell’Amore delle tre melarance.
Vediamo adesso l’interesse che c’è, nell’opportunità data da una ripresa in
studio nelle condizioni cinematografiche di play-back(1), a rivalutare al contrario le piccole scatole teatrali, come se gli attori si agitassero nelle scene, come
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ho già detto, di case di bambole... Il proposito è quello di prendersi tutta la libertà della successione diversificata delle sequenze di tipo cinematografico,
senza per questo polverizzare lo spazio teatrale con una sceneggiatura a 360°,
che provocherebbe l’esplosione dello spazio verso lo spazio troppo realista del
cinema.
È interessante giocare con lo sguardo dell’attore alla camera; si mantiene
in tal modo la convenzione teatrale del rivolgersi direttamente al pubblico da
parte dell’attore. Ed io vorrei proporvi un frammento del Lindberghflug, dove
ho avuto questa libertà. L’esempio è il secondo quadro: «Presentazione
dell’aviatore».
Ci sono pressappoco sette cambiamenti di scena, sette piani, per uno stesso
solo di cantante. Vediamo la sequenza (ho scelto il «bianco & nero»)... Ed i
commenti li lascio a dopo.
(esempio audiovisivo)
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
8)
Grazie. Abbiamo visto:
UNA VIA DI NEW YORK
UN NEGOZIO DI GIOCATTOLI, che indica che la sceneggiatura sarà
piuttosto un universo legato al mondo dei «modelli in scala ridotta», delle
illusioni di grandezza, e dunque degli spazi di illusione di conseguenza!
DEI PROGETTI DI COSTRUZIONE DELL’AEREO. Il tenore è off e lo si
ritrova cantando sullo schermo solo alla fine del piano.
UNA MAPPA sulla quale la mano del pilota traccia il suo percorso
sull’Atlantico. Qui il cantante è tutto nella sua mano e nella matita!
LO SCHEMA DEI SERBATOI. Con un ritorno del cantante all’immagine e
un suo sguardo molto frontale, anti-cinematografico, verso lo spettatore!
L’UFFICIO DI PISTA, che riannoda lo spazio del cinema, dove lo spettatore è ignorato: il pilota si preoccupa del fuori campo, del tempo, della meteorologia...
LA PORTA DELL’ AVIORIMESSA. Il solo continuo ma si è fatto un salto
spaziale e temporale considerevole. È una convenzione, un partito preso,
che chiude la sequenza. Sono partito dall’idea che il principio di una libertà
al di là del teatro poteva essere completamente ammessa adesso, al termine
della sequenza.
SI FINISCE NELL’AVIORIMESSA. È un’ottava scena in tre parti, ma con
una fine puramente musicale, muta poi... E con effetti sonori... Questo perché per me, un silenzio sullo schermo deve essere «abitato», un silenzio non
esiste: è un suono, non il vuoto... Perché il vuoto è sempre il crepitio dell’altoparlante del monitor!
Queste sette scene sono riferite a uno stesso solo, dunque si deve riflettere
sui limiti del permissivismo. Intendo un permissivismo di atomizzazione e di
moltiplicazione spaziale che sarebbe eccessivo. Il clip musicale di varietà – ma
adesso ne esistono anche di musica classica, pubblicità o altro – il clip, dunque,
ha creato un linguaggio, una grammatica, e se da un lato bisogna constatarne le
qualità e approfittare di certe lezioni positive, bisogna dall’altro lato diffidarne
per non ereditare questa libertà di gioco di spazi talmente moltiplicati aldilà di
ogni regola che non sono più spazi di illusione ma spazi di bluff !... Allora, evidentemente, se la maionese si monta troppo, impazzisce, il gioco di prestigio
viene meno! E un regista deve essere anche un prestigiatore. Non è un filosofo
che deve lavorare con la verità! E un saltimbanco che lavora con l’illusione. I
problemi sono le regole morali di questa illusione.
Ho provato a dare l’impressione che il solo continuo nella sua fluidità musicale, con una libertà naturale... Non dia la sensazione di un artificio indotto
128
dai cambiamenti di scena o dai movimenti in cui il personaggio sparisce dal
campo per cantare off, per poi tornare. La sua assenza dentro lo spazio deve
sembrare, là ancora, naturale. Ecco i problemi che volevo esporvi con questo
passaggio.
Il gioco della scatola teatrale e della sua visuale esclusivamente frontale
può essere pensato, nel giro di valzer delle scene molteplici che permettono lo
studio e il montaggio, come un caleidoscopio di case di bambole. Quando si
opera, come ho deciso di fare, con una colonna sonora in play-back sulla quale
si ha ogni libertà di «manipolare» dei cantanti e un coro che sono scelti per
l’immagine – e che non sono necessariamente gli interpreti del suono originale
– non bisogna privarsi della possibilità di fabbricare di sana pianta il nuovo
spazio dell’illusione. E questo spazio può ridiventare un’architettura allusiva
alla scena di illusione teatrale!
Possiamo, ad esempio, rappresentare i cori con un numero di interpreti più
piccolo della massa vocale della colonna sonora. È più interessante, molto più
stimolante per la mente dei gruppi costituiti del realismo vocale che il teatro lirico impone... Ogni insieme corale può diventare un piccolo gruppo di «figurine», di «statuine di presepe», che la telecamera viene a sorprendere nella loro
scatola di bambole, un po’ come un boccascena di teatrino di marionette il cui
fondale cambia. C’è ancora un aspetto di giocattolo, di modello in scala ridotta,
e siamo in effetti nelle piccole scene di illusione teatrale, ritroviamo il teatro.
Ma possiamo delineare molto di più i «caratteri» di ciascuno nel piccolo coro,
uscire dalle folle corali anonime...
Occorre, allora, che ogni gruppi si rigiri verso di noi come un insieme poco
numeroso di marionette dove, tuttavia, ogni elemento è identificabile singolarmente, molto caratterizzato teatralmente. Per esempio, andate a vedere il coro
dei radiotelegrafisti di un piroscafo. La massa corale del suono è enorme, ma
ho scelto solamente quattro attrici-cantanti. Vedete che ciò non disturba la percezione. Si girano verso di noi all’attacco del canto (che è al tempo stesso l’entrata della camera nel loro piccolo universo dove si va a sollecitarle). Ho utilizzato spesso questo principio giocoso nel Lindberghflug, perciò vorrei
semplicemente mostrarvi il finale, dove faccio girare come su una giostra, in un
carosello che ripropone il caleidoscopio di cui parlavo, tutti i differenti piccoli
teatri di marionette intravisti nel corso dell’opera...
(esempio audiovisivo)
Grazie. Con questi corpi e queste scene che cambiano, si può avere fisiologicamente l’impressione che ci siano delle cesure sonore ai cambiamenti di
piani, delle bascule nei tipi di piani e nei tipi di voce. Niente affatto; sono i personaggi che ho scelto che cambiano, ma sulla colonna sonora, sono sempre le
stesse persone, la stessa massa vocale che canta, lo stesso equilibrio uominidonne. Su questa «truffa», su questa illusione volevo finire (tra tante altre possibili con la trasposizione in video), lasciandovi meditare sul fatto che questo
«imbroglio» dà del piacere se si conserva una morale: quella di manipolare l’illusione negli spazi che restano legati alla magia della scena del teatro e del music-hall. Grazie.
ILIO CATANI
Ringrazio Jean-François Jung per la sua presentazione. Se mi consentine
una piccola annotazione. Secondo la migliore tradizione del melodramma, ha
terminato la sua relazione con una morale, cosa che troviamo nel teatro del Settecento. Ci prendiamo un caffè prima di iniziare la discussione?
(pausa caffé)
129
Proseguiremo fino alle 18 circa. Riserviamo la seconda parte di questo pomeriggio agli interventi e alla discussione; abbiamo più tempo degli altri giorni
e speriamo di coronare al meglio i nostri incontri di questa settimana. Gianluca
Tarquinio vuole intervenire per primo.
GIANLUCA TARQUINIO
Buona sera, sono Gianluca Tarquinio e vengo da L’Aquila. Innanzi tutto
preciso che non sono un esperto di problematiche televisive o di filmografia. Il
mio interesse è rivolto alla discografia ma anche alle problematiche legate al
modo in cui viene presentato un prodotto musicale a un pubblico non competente. In questi tre giorni di dibattito, peraltro molto interessante, mi sembra di
avere individuato due estremi: il primo rappresentato dalla relazione del dottor
Patay, che nuovamente ha evidenziato come il settore della musica classica stia
perdendo pubblico; il secondo rappresentato dalla relazione del professor Miceli, che ci ha fatto vedere, anche in maniera ironica, una serie di imbonitori televisivi che tutto fanno fuorché avvicinare un pubblico non competente all’opera lirica o alla musica in genere.
Vorrei rivolgere una domanda alla signora Erben e al professor Miceli. Le
grandi società di produzione e distribuzione si sono poste il problema di quale
strategia adottare per vendere il prodotto che realizzano non a un’altra società o
a un altro ente ma a un pubblico di non competenti? La signora Erben ha detto
che possiamo servirci del DVD. Al professor Miceli vorrei chiedere invece se
ha maturato una sua idea di come presentare a un pubblico non competente
un’opera lirica o un evento musicale qualsiasi. Sono proprio curioso di sapere
se i grandi enti i quali, logicamente, debbono vendere il prodotto che realizzano
hanno elaborato delle strategie «didattiche» per poter vendere questo prodotto a
un pubblico non competente. Grazie.
SUSAN ERBEN
We have discussed these topics more and more. There is evidence, in the
United States, that attendance at opera performances has grown, while the sales
of audio and video recordings have gone down. I think one of the most
important factors in bringing new audiences is education, and the Metropolitan
Opera Guild – which is a separate company, but affiliated with the Met – has
had an educational program for many, many years.
The advantage of DVD is that it gives you background and biographical
material, as well as the possibility to have all the languages. I know from my
own experience – I didn’t grow up listening to classical music or opera – that I
learned about opera in class. It took some time before I could sit and really
enjoy, understand and appreciate an opera performance. Opera, because it
contains all the musical aspects possible (vocal, instrumental, theatrical), as
well as the language barrier, is a less accessible art-form.
The Met tried, in their productions, to bring in more popular faces. They
were newscasters who acted as our hosts for opening nights on «pay per view»;
the audience was not large, at the time, and it was not wildly successful
because those who understood opera already could see that two of the hosts out
of three were seriously not knowledgeable in what they were talking about, and
we cannot expect a famous person to study opera deeply for a one-evening
appearance. However the third newscaster has a real passion for opera, and he
has been our host for several years. On occasion we have also used actors:
Joanne Woodward and Paul Newman are very big patrons of the arts. Last year
on the radio broadcast we had Branford Marsalis who, very late in his career,
130
came to love opera; he talked about that in one of the intermission features, and
I think that that’s a better way to bring more audiences to music. The radio is
addressing the problem, and certainly TV needs to follow.
[Questi problemi vengono discussi con frequenza sempre maggiore. È stato dimostrato che, negli Stati Uniti, il pubblico che frequenta l’opera è in aumento mentre la vendita di registrazioni audio e video è in calo. Ritengo che
uno dei fattori più importanti nel far avvicinare all’opera nuovi spettatori sia
l’educazione del gusto e, da moltissimi anni, il Metropolitan Opera Guild – che
è un ente a sé stante affiliato con il Met – sta portando avanti un programma di
istruzione.
I vantaggi che offre il DVD sono quelli di fornire materiale biografico e
informativo nonché la possibilità di scegliere in quale lingua ascoltarlo. So per
esperienza personale – non sono cresciuta ascoltando l’opera o la musica
classica – che ho imparato tutto sull’opera a scuola, e ci è voluto un po’ di
tempo prima che potessi rilassarmi e gustare, comprendere e apprezzare una
rappresentazione operistica. Poiché l’opera contiene in sé tutti i possibili
aspetti musicali (vocale, strumentale, teatrale) e anche a causa della barriera
linguistica, rimane una forma d’arte meno accessibile.
Il Met ha cercato, nelle proprie produzioni, di far apparire volti noti. Si
trattava di giornalisti televisivi che facevano da padroni di casa durante le prime visioni sui canali a pagamento; all’epoca il pubblico non era molto numeroso e l’iniziativa non ebbe un gran successo perché i veri melomani percepivano che due giornalisti su tre non erano realmente esperti in ciò di cui
parlavano, né d’altra parte, si può pretendere che un «volto noto» si metta a
studiare a fondo l’opera per l’apparizione di una sola sera. La fortuna volle
che il terzo giornalista avesse un’autentica passione per l’opera e quindi da diversi anni è il nostro «presentatore». In qualche occasione abbiamo utilizzato
anche alcuni attori, come ad esempio Joanne Woodward e Paul Newman che
sono grandi patroni delle arti. L’anno scorso, per una trasmissione radiofonica, abbiamo ospitato Branford Marsalis che ha cominciato ad amare l’opera
quando già era piuttosto avanti nella carriera, e credo che il suo intervento a
questo proposito sia un’ottima maniera per avvicinare un maggior numero di
persone alla musica. La radio si sta occupando molto di questo aspetto del
problema e la televisione deve seguirne l’esempio].
SERGIO MICELI
Trovo la domanda molto interessante e molto legittima ma la risposta potrebbe forse apparire un po’ lunga. Chiedo al Presidente se abbiamo ancora a
disposizione tre o quattro ore!
Scherzi a parte, oltre a mostrare qualcosa che sarebbe da distruggere bisogna fare anche delle proposte costruttive. È senza dubbio più facile distruggere
che costruire ma il fatto che io non abbia formulato proposte costruttive, con
l’eccezione del troppo breve esempio finale della Tosca come metodo rigoroso
di presentare un lavoro, significa semplicemente che avrei avuto realisticamente bisogno di una seconda relazione. Prima si distrugge poi si ricostruisce. Non
posso farlo neanche in questa occasione ma posso cercare di rispondere in un
modo soddisfacente.
Come ho accennato all’inizio, ho il privilegio e la condanna di insegnare
storia della musica in conservatorio: è un privilegio perché penso che insegnare
sia un lavoro bellissimo, lo penso ancora dopo più di vent’anni di insegnamento; è una condanna proprio perché insegno in conservatorio. Vorrei ricordare,
soprattutto ai colleghi stranieri, che la nostra è una situazione disperata e assur131
da perché siamo l’unica scuola in Italia dove nella stessa aula siedono ragazzi
con licenza di scuola media inferiore e ragazzi che frequentano l’università.
Dovreste dirmi allora quale linguaggio dovrei adottare per fare lezione. L’ho
già detto in privato ma voglio ripeterlo in pubblico: questa distinzione non implica una gerarchia, perché ho avuto ottimi studenti che avevano una licenza
media inferiore e stupidi che frequentavano l’università, ma è pur vero che
quelli che frequentano l’università hanno un lessico, una tecnica che hanno acquisito.
Perché ho ricordato questo? Perché probabilmente proprio questo tipo pazzesco di insegnamento sprona almeno alcuni di noi a sforzarsi di trovare un linguaggio – lo so, è un’utopia – che vada bene un po’ per quelli che non hanno
studiato e un po’ per quelli che hanno studiato. Io, per una profonda convinzione ideologica, tendo a privilegiare quelli che non hanno studiato, perché gli altri hanno più strumenti e si arrangiano. Resta però il fatto che devo cercare una
media. Questo credo sia un esercizio che mi porta a percorrere una strada che
non è la divulgazione bassa ma neppure l’esercitazione cattedratica destinata a
pochi. Come? Secondo me partendo dall’interno dell’opera. Dopo molti anni di
esperienza didattica, credo di avere verificato questa validità. Che poi ci riesca
bene o male è un’altra questione. Parto dall’interno dell’opera, evitando le introduzioni storico-estetiche generali per ricavarle solo in un momento successivo. In altre parole, se devo parlare del Don Giovanni di Mozart parto da una
scena o da un episodio centrale, pensando che forse quello abbia qualche capacità in più di catturare l’attenzione e la sensibilità dei miei studenti, faccio
un’analisi durante l’ascolto, a cui possono seguire anche delle analisi parziali
alla lavagna. Non antepongo mai l’analisi alla lavagna all’ascolto ma parto
dall’ascolto e poi cerco di allargarmi fino a includere quell’opera in un contesto
storico, estetico, ecc. Non ho detto che ci riesco, ho detto che ci provo e non so
se sono riuscito a rispondere alla sua domanda.
ILIO CATANI
Vorrei fare una breve osservazione su quanto diceva Miss Erben a proposito dei modi per conquistare sempre più pubblico alla televisione, precisando
che parliamo di un pubblico di melomani o di persone che potrebbero diventarlo. Anche da noi si è tentato, sia pure in maniera un po’ infelice, come la presentazione della Bohème con testimonial che non avevano alcun titolo per esserlo. Chiamando il giornalista o l’attrice famosi non si raggiunge lo scopo,
tanto più che, come abbiamo visto, si tratta di occasioni estemporanee che finiscono per rivolgersi a un pubblico che avrebbe comunque visto lo spettacolo,
anche senza la partecipazione del grande personaggio. La formula potrebbe
funzionare se una presenza diventasse abituale: quest’anno tutte le settimane
Paul Newman ci presenta la lirica. In tal modo, infatti, si crea un appuntamento
ma se una sera accendo il televisore ed è in programma un Tosca presentata da
Sophia Loren resto indifferente perché non si produce l’effetto desiderato.
Quello che manca nella situazione squisitamente italiana è la continuità
nella programmazione, l’appuntamento fisso, il creare l’abitudine all’ascolto.
Purtroppo, per ragioni di vita, siamo tutti metodici: ciascuno di noi ascolta il
giornale radio delle 8 del mattino o vede il telegiornale di sera a una certa ora,
e cambiare abitudini è difficilissimo, come ben sanno i nostri colleghi dei palinsesti quando periodicamente capovolgono gli schemi. Questo comporta delle
cadute d’ascolto e ci si domanda meravigliati il perché. La ragione è che si è
abitudinari. Un’idea potrebbe anche funzionare ma i risultati si vedono solo a
lungo termine. I risultati, anche molto sensibili, in RAI li abbiamo ottenuti anche grazie a un battage pubblicitario di un certo tipo. Ricordo per esperienza
132
diretta quando, nel 1987, si celebrarono con un grande spettacolo i duecentocinquant’anni dalla fondazione del Teatro di San Carlo di Napoli. Era un programma articolato e molto vario, confezionato su misura per la vita musicale
napoletana antica e contemporanea e trasmesso in diretta. Fu preceduto da una
settimana di pubblicità, un vero e proprio battage fatto di intere pagine sui
giornali. Ricordo che quella sera la trasmissione fu vista da novecentomila persone, il che nel 1987 era un risultato lusinghiero per quel tipo di spettacolo, soprattutto se si tiene conto del fatto che non si trattava della solita Aida o Bohème che richiama un pubblico di non appassionati melomani. Mi riferivo a una
certa latitanza degli organi di stampa nel sostenere gli sforzi di un’emittente a
pubblicizzare il proprio lavoro, perché quando queste cose non vengono sostenute cadono nell’indifferenza più totale, anche nell’indifferenza dei responsabili dei programmi, per i quali un trafiletto sul quotidiano serve a giustificare la
scelta, la collocazione e la realizzazione del programma.
PAOLO MARAGONI
Brevissima precisazione. Ho vissuto sulla mia pelle quanto dice Ilio Catani
perché per anni ho fatto riprese di concerti come consulente musicale e ho incontrato moltissimi operatori, orchestrali e critici che rimproveravano alla RAI
di trasmettere meno musica della Fininvest. Ebbene, questo non corrisponde a
verità ma ho capito che loro, in buona fede, avevano perfettamente ragione perché i nostri appuntamenti sono sporadici mentre quelli di Fininvest hanno uno
spazio fisso nella programmazione, diventando così una tradizione. Fininvest
trasmette anche spot che reclamizzano «la grande musica», e questo unico appuntamento diventa un evento. I melomani non si rendono conto che la RAI ha
una programmazione mensile superiore del 400% ma questa non ha sufficiente
visibilità. Grazie.
ILIO CATANI
Vorrei invitare il maestro Fausto Razzi per il suo intervento. Prego, maestro.
FAUSTO RAZZI
Vorrei cominciare con due note molto marginali rispetto a quello che dirò
in seguito poiché non essendo un «parlatore» ho bisogno di rompere il ghiaccio. Gli stimoli che ho ricevuto in queste giornate sono tanti e devo cercare di
essere sintetico.
Anch’io sono perplesso rispetto alla possibilità che Sophia Loren presenti
programmi culturali ma il problema è che invece per la mentalità generale non
è così: recentemente come «ciceroni» per le aperture serali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna hanno chiamato Jovanotti e qualcun’altro.
Altra nota. Senza voler essere polemico, ho sentito in diverse occasioni la
parola «melomane». A me questa parola non piace, forse per l’assonanza che
ha con «eroinomane» o «cleptomane», ma in realtà l’accostamento è giusto
perché, così come il cocainomane non può fare a meno della cocaina e il cleptomane non può fare a meno di rubare, il melomane non può fare a meno della
musica. In questo caso, peraltro, questa parola ha per me una connotazione negativa perché non siamo un paese di «amanti della musica» ma appunto di melomani, un paese in cui il bisogno di musica fa sì che tutti ascoltino tutto. Non
mi riferisco ad aree colte o non colte ma alla qualità: si ascolta tutto, si accetta
tutto, e questo è il grave danno di una disinformazione portata non solo dalla
televisione. Da questo punto di vista, anche come compositore che, fra l’altro,
133
lavora con il computer e si interessa dell’immagine, ritengo che si sia alquanto
trascurato un elemento fondamentale, vale a dire il problema di un linguaggio
musicale contemporaneo. La mancanza di un linguaggio contemporaneo nella
musica ha fatto sì che, come sappiamo, oggi la musica contemporanea sia solo
quella dei cantautori o il rock, e ciò vale per il 99% delle persone non solo giovani ma anche adulte, intellettuali. Questa mancanza è alla base di una riflessione sui rapporti tra opera e televisione. Premetto di essere allergico – ed è un
grave danno – a ogni forma di opera in televisione perché respinto da quelle
poche cose che mi è capitato di vedere, realizzate secondo l’ottica del signore
che dal palco guarda col binocolo l’ugola del cantante, che magari viene ripreso nel momento dello sforzo estremo per prendere il do di petto. Tuttavia mi
rendo conto che la mia allergia è un grave danno perché mi ha indotto a perdere una serie di conoscenze di quanto invece è stato fatto. Per questo motivo
sono molto contento di essere qui ma, sempre come compositore, penso che in
generale la maggior parte delle trasposizioni in video di opere soffra di una
mancanza di ritmo nella successione delle immagini, sia pure con qualche eccezione e lasciando da parte le realizzazioni più cialtronesche che hanno una
diffusione popolare; secondo me le opere presentate in quel modo possono solo
produrre tanti «loggionisti» del Regio di Parma, e non è certo ciò a cui dobbiamo tendere. Oggi abbiamo visto il Don Giovanni del Teatrotenda di Venezia,
dove c’è un’attenzione estrema alla coincidenza dei ritmi, il che non è necessario. Può essere accettabile infatti anche una successione di immagini che abbia
un ritmo proprio e che possa non corrispondere con quello musicale, però bisogna tenere conto di alcuni fattori. Esiste una collaborazione al momento della
composizione e una collaborazione al momento della messa in scena; si può arrivare a un parallelismo di situazioni sonore, testuali o di immagini, ognuna
delle quali è al contempo autonoma ma coerente e complementare (in senso positivo), cosa che bisognerebbe fare con un linguaggio musicale attuale. Ma nel
caso di una produzione di «messa in scena», in cui il dato musicale è già esistente, bisogna fare attenzione. Una musica complessa non può essere «disturbata» da procedimenti semplicistici, per non dire di peggio. Oltre tutto, si raggiunge l’effetto di indurre lo spettatore a pensare che la musica non sia un
linguaggio autonomo e che abbia bisogno di traduzione, fenomeno che secondo
me nasce dalla paura del vuoto.
La mancanza di ritmo, anche se non posso esprimere un giudizio avendo
visto solo un’infinitesima parte del Christophe Colombe di Milhaud, era evidente anche nelle riprese a tutto campo; ho notato delle asincronie, ad esempio
un’esplosione del coro con gli strumenti a cui non si accompagnava un corrispettivo visivo. Se l’asincronia era voluta, il tempo di differenza è troppo piccolo e lo si nota come sfasamento.
Non so quanto sia giusto porsi la semplice domanda di come mai l’opera
non piaccia più al pubblico. Perché dovrebbe piacere al pubblico? La generazione degli abbonati ai concerti di Santa Cecilia si sta estinguendo e le nuove
generazioni sono abituate solo a quello che la televisione e tutto il contesto in
cui vivono offrono; sono cioè abituati a un linguaggio «attuale» nella sua forma
più semplificata. Il fatto è che mediamente i giovani hanno disimparato a seguire un linguaggio più complesso, ed è questo il grave problema che dovremmo porci. Se proponessi l’aria «Che gelida manina...» forse il nonno sarebbe
interessato, non certo il nipote. Il problema sarebbe allora quello di proporre
qualcosa che sia attuale anche dal punto di vista del linguaggio musicale. Se il
linguaggio musicale non è attuale è difficile pensare a una trasposizione
dell’immagine che abbia una sua attualità. Molto spesso la televisione è mezzo
moderno al servizio di un linguaggio vecchio e questo costituisce un problema.
Parlo in questi termini perché il teatro musicale contemporaneo è fondamental134
mente vecchio, e in questo anche le opere di Berio non fanno eccezione, poiché
sono tutte calate in una tradizione retorico-melodrammatica che è quella del
teatro ottocentesco. Se si sostenesse questa posizione, proponendo dei lavori attuali, è probabile che col tempo per i giovani potrà essere interessante accostarvisi; in caso contrario, non dovremmo lamentarci se preferiscono l’attuale, il
solo attuale che conoscono.
Fra gli ultimi «eventi» c’è stata l’inaugurazione del Museo Archeologico
di Paestum, un’operazione di grandissimo rilievo culturale. Che bisogno c’era
che a questo evento si aggiungesse il concerto di Paolo Conte? Paolo Conte è
fra le pochissime persone che fanno degnamente il proprio mestiere – Petrassi
ci ha abituati a parlare di «mestiere» di musicista –, ma resta il fatto che non
vedo alcun legame fra ciò che nei millenni ha significato per l’umanità Paestum e quello che produce nella società, sia pure ottimamente, Paolo Conte. Il
problema è inoltre un altro: mi domando quale mentalità distorta e diffusissima
abbia ritenuto che Paestum non fosse autosufficiente e ci fosse pertanto bisogno di un evento al lato. Questo dà il senso della totale confusione in cui ci troviamo e alla quale dovremmo cercare di opporci. Grazie.
ILIO CATANI
Vorrei poter rispondere al maestro Razzi. Per alcune sue osservazioni non
ho argomenti ma di certo penso di interpretare il timore di un direttore di rete
che si pone il problema di portare da sei a sedici le persone interessate all’inaugurazione del museo di Paestum con la presenza di Paolo Conte: mettendo insieme il sacro col profano sarà forse riuscito ad avere un minimo di pubblico in
più. Tuttavia – mi ripeto – queste domande andrebbero poste ai responsabili
della programmazione. Parimenti, quando si lamenta la latitanza dei giornalisti
e dei critici musicali in realtà è ai caporedattori della pagina culturale che bisognerebbe rivolgersi, perché sono loro che decidono gli articoli da pubblicare.
Sarebbe importante conoscere quali siano oggi le strategie culturali perché tutto
avviene hic et nunc. Non sappiamo cosa possa succedere domani, col cambio
della dirigenza e dei direttori di rete. Purtroppo, infatti, la programmazione a
lungo termine manca perché nessuno è in grado di prendersi responsabilità di
impegni da realizzare nel 2002, proprio perché pochi sono certi di poter mantenere le proprie posizioni per un certo tempo. Non c’è alcuna sicurezza.
Ci siamo meravigliati che il Teatro di Stoccarda abbia nominato il proprio
sovrintendente due anni fa ma che questi avrebbe assunto pienamente l’incarico dal 2000. Mi pare che si trattasse di Tobias Richter. Il suo mandato sarebbe
cominciato dopo tre anni e avrebbe avuto una durata garantita di tre anni. Questo dà la possibilità al sovrintendente in carica di continuare il proprio lavoro e
a colui che subentrerà di cominciare a preparare la propria programmazione.
Da noi accade che il nuovo sovrintendente continui a fare quello che ha ricevuto in eredità dai suoi predecessori. Ho idea che la mancanza di una seria programmazione sia riscontrabile a vari livelli, dunque anche nelle nostre reti televisive non si prendono impegni perché non c’è sicurezza nel domani.
Ritornando al discorso iniziale, per instaurare una politica seria, sicuramente anche per quanto concerne la musica contemporanea bisogna fare un discorso di audience. Inoltre, mi piacerebbe fare una domanda ai colleghi che si
occupano di realizzazioni televisive: nel campo della musica contemporanea,
quali sono le chiavi di lettura e di accesso di questo mondo? Se ancora stiamo
discutendo di come mettere in scena Il flauto magico oppure Rigoletto, infatti,
non so immaginare cosa comporti una messa in scena di teatro contemporaneo,
se non addirittura la musica strumentale. Sono problemi che sarebbe giusto discutere in sedi come questa.
135
FAUSTO RAZZI
Non vorrei prevaricare nessuno ma vorrei fare una breve aggiunta al mio
intervento.
La tua è una domanda volutamente retorica, perché in realtà sappiamo
bene quali siano le tendenze non solo in RAI. Oggi è stata ricordata la figura di
musicologo di Bruno Cagli ma sappiamo che lavoro abbia fatto (o non fatto)
Santa Cecilia e come abbia contribuito ad aggiungere confusione nel tentativo
di captare i giovani. La contaminazione e l’abbattimento degli steccati sono
una cosa sacrosanta però se contaminazione deve significare andare incontro e
seguire certe tendenze... Come mia moglie ha giustamente osservato, non è
Zucchero ad avere bisogno di Pavarotti per attirare un pubblico giovane ma è
esattamente il contrario.
ILIO CATANI
Darei la parola al signor Carreira.
XOÁN M. CARREIRA
Vorrei fare diverse osservazioni. La prima riguarda la strategia, soprattutto
in risposta al dottor Tarquinio. L’economia di un teatro d’opera è molto semplice dal punto di vista microeconomico: i profitti derivanti dalla vendita dei
biglietti restano fissi mentre i costi di produzione aumentano. Questo è il problema fondamentale che il sovrintendente di un teatro d’opera deve risolvere.
Come fare? Bisogna affidarsi a uno sponsor e alla vendita nel mercato come
fonti di denaro. Questa strategia in ambito culturale negli ultimi dieci anni ha
determinato una grande rivoluzione che nel primo mondo ha portato la cultura
ad avere ripercussioni di grandissimo rilievo nel mondo economico: negli Stati
Uniti la cultura è ormai il terzo settore economico in ordine di importanza; in
Italia credo sia il secondo, mentre in Spagna è il terzo come incidenza sul prodotto interno lordo del paese. Esemplare a questo proposito è stata la costruzione del Museo Guggenheim di Bilbao, che ha provocato un rinnovamento radicale dell’urbanistica e dell’economia cittadina. Bilbao era una città in crisi, con
un centro storico molto degradato, e la costruzione del Guggenheim l’ha rivitalizzata. Il museo è quindi diventato più importante del settore industriale per
l’economia dell’intera città.
Ritenendo che oggi la cultura sia un fattore fondamentale di evoluzione
economica, per il futuro sono estremamente ottimista. In Spagna l’economia
dello spettacolo (teatro, cinema e musica) è il doppio dell’economia del turismo. Non si può essere pessimista con cifre del genere.
Un’altra questione di cui si discute è quella della «competenza» del pubblico. Faccio fatica a comprendere questo concetto perché, per fare un esempio,
nel film americano Pretty Woman Julia Roberts vede per la prima volta un’opera, Traviata, alla San Francisco Opera House e prova una grandissima emozione; ebbene, per me, in questo caso, la piccola prostituta è un pubblico competente. La questione è la creazione di un pubblico che possa essere felice e
godere di uno spettacolo, che si ponga in maniera positiva nei confronti dello
spettacolo. Questo pubblico ritornerà a teatro. Ho l’esperienza, nella mia città,
della creazione dell’Orchestra Sinfonica della Galizia. La mia città ha una
grande storia musicale di cui il franchismo ha spezzato la tradizione. Pertanto
la musica ha un pubblico di fatto nuovo. In cinque anni l’orchestra ha raccolto
mille abbonati. Si tratta di un pubblico che ama specialmente la musica del Novecento, che preferisce Šostakovič a Schubert. Perché mai? Questo pubblico
ama il suono orchestrale di Šostakovič, che è diverso da quello di Brahms o
136
Schubert. Non è competente per quanto riguarda la forma musicale ma lo è in
materia di suono, dunque le programmazioni che prevedono Šostakovič, Britten o Bartók sono molto richieste.
Oggi in Spagna vi è il grande e preoccupante problema della violenza sulle
donne. Una produzione di The Rape of Lucretia può essere presentata come un
dramma sulla violenza contro le donne? Sono sicuro che avrebbe un grandissimo successo poiché è un’opera onesta e importante sull’argomento. È un esempio di come fare mercato culturale senza svendere il prodotto. Un piccolo esempio per rispondere al professor Miceli. Proprio questa settimana a Madrid si sta
svolgendo un congresso sull’opera spagnola fra la Società degli Autori e il Ministero della Cultura. Si tratta di un’operazione nazionalistica, in cui si tenta di
affermare che un’opera di Ruperto Chapí sia superiore alla Bohème e ci si chiede perché non ne sia stato riconosciuto il valore. Quando verrà riproposta l’opera in questione sicuramente otterrà un grandissimo riscontro. Domattina,
nell’ambito di quel congresso, è prevista una discussione su temi scientifici di
storiografia classica, descrittiva, non analitica, e il pomeriggio è in programma
una sessione di discussione sui grandi temi sociali dell’opera. Ieri la discussione
pomeridiana ha ruotato intorno ai tre grandi compositori del franchismo Tomás
Marco, Cristóbal Halffter e Luís De Pablo ma è curioso che Halffter, il quale
non ha alcuna esperienza di opera, vada a parlare dei compositori d’opera. Domani ci sarà una sessione sull’opera e il pubblico e alla tavola rotonda parleranno una giornalista televisiva e uno psichiatra che lavora a Córdoba, città in cui
non esiste un teatro d’opera: da tale prospettiva un’analisi è impossibile.
Credo che l’opera come prodotto non sia in crisi mentre lo è la musica strumentale, sinfonica. L’opera è forse in crisi dal punto di vista dell’interpretazione
ma non da quello dello spettacolo o come prodotto di mercato. In tal senso sono
decisamente ottimista mentre non lo sono, ad esempio, rispetto alla validità delle interpretazioni belliniane. Credo anche che negli anni Novanta siano stati
composti lavori validi, quali A Streetcar Named Desire di Prévin, che presenta
una caratterizzazione dei personaggi (come quello di Bianca che canta in stile
pucciniano) che si attaglia particolarmente alle caratteristiche del personaggio
teatrale. Si tratta di una proposta teatrale che credo meriti una riflessione, anche
perché l’opera ha avuto un grande riscontro da parte del pubblico.
ILIO CATANI
Grazie, signor Carreira. Sarei tentato di dire che siamo felici del suo ottimismo, che non so quanti di noi condividano. Credo tuttavia che il problema si
possa considerare risolto quando una produzione che nasce in un qualunque
teatro del mondo dopo tre mesi viene presentata a Roma, Lisbona o Stoccolma.
XOÁN M. CARREIRA
La prima dell’opera di Prévin è del 1998, e in queste due stagioni è stata
presentata in otto teatri. La prima europea forse avverrà nel 2000.
ILIO CATANI
Grazie. Prego, signor Smith.
PATRICK SMITH
Thank you. I was very taken, moved (probably in the wrong way) by Prof.
Miceli’s example of the intermission at the opera-house. My question would be
137
addressed to Ilio Catani. What we in the United States have found is that the
non-commercial public television stations, which 15-20 years ago had a much
greater freedom, are now being put under a certain burden of competing with
the for-profit networks. Whereas before they would never look at the amount
of audience that would be given by a certain program, they would just make
the program and send it out because they felt that it was the right thing to do,
now they can’t. Now the question of how big the audience is becomes vital. I
have interpreted from the excerpt that was shown here that this has also
affected the RAI and, I assume, also other «public» television stations in
Europe. Has this been because of the pressure of the commercial stations that
these public stations have become more and more sensitized to audience, and
to downgrading the product in order to get a larger audience?
[Grazie. Sono rimasto molto colpito e commosso (probabilmente per le ragioni sbagliate) dall’esempio portato dal professor Miceli riguardo l’intervallo
al teatro d’opera. Vorrei rivolgere una domanda a Ilio Catani. Negli Stati Uniti abbiamo riscontrato che le reti pubbliche non commerciali, che quindici o
venti anni fa godevano di grande libertà, vengono ora messe in concorrenza
con i network commerciali. Quindi, mentre prima non si curavano molto
dell’audience di alcune programmazioni ma le producevano e le trasmettevano
perché sentivano che era la cosa giusta da farsi, ora non possono. Ora l’audience è diventato un argomento di vitale importanza. Dall’estratto che è stato
proiettato intuisco che questo problema affligge anche la RAI e, immagino, anche altre emittenti pubbliche europee. Secondo lei questo fenomeno è dovuto
alle pressioni esercitate dalle emittenti commerciali, a cui si deve la crescente
importanza data all’audience e il conseguente abbassamento del livello qualitativo finalizzato ad attirare un maggior numero di spettatori?]
ILIO CATANI
Condivido pienamente le sue ragioni e la sua analisi. Quando si parla di
«globalizzazione» pare che nessun aspetto della vita possa essere esente da questo fenomeno. Anche in Italia, quindici anni fa, le televisioni private stavano
esordendo ma il peso della televisione pubblica, della RAI in questo caso, era
schiacciante. In seguito, con la formazione dei vari network, è sorto il problema
della ripartizione della pubblicità. Il ricorso alla pubblicità costituisce per le reti
private l’unico metodo di finanziamento mentre per la RAI costituisce un’integrazione perché, come i nostri ospiti sanno, una parte del budget RAI proviene
dal canone di abbonamento e un’altra cospicua parte dalla pubblicità. Il grande
mercato della pubblicità si divide fra stampa quotidiana, quella periodica e le televisioni, e se è vero che negli anni la torta è cresciuta è altrettanto vero che
sono aumentati i commensali intorno ad essa. Accaparrarsi fette di pubblicità significa quindi avere la fonte primaria di sostentamento. Detto questo, se la pubblicità è legata, come purtroppo o per fortuna il mercato pretende, all’audience,
si capisce come automaticamente questo fattore possa condizionare l’offerta
specifica del prodotto sul mercato; e se le cose dovessero continuare così (e non
ho motivo per ritenere che possa verificarsi un’inversione di tendenza) penso
che l’analisi pessimista enunciata ieri da Patay possa essere in breve tempo condivisa da altre emittenti televisive. Come riferivo ieri al professor Marinelli, raccontandogli l’andamento della giornata, noi italiani credevamo di trovarci in una
situazione deficitaria rispetto alle televisioni di altri paesi, e invece dobbiamo
constatare che, se in un anno riusciamo a mandare in onda sulle tre reti dieci-dodici opere, siamo molto più avanzati culturalmente e musicalmente di altre nazioni che abbiamo sempre ritenuto sotto questo aspetto più progredite della no138
stra. Può darsi che si tratti di un momento in questa specie di corsa e non è detto
che le posizioni rimangano sempre stabili all’interno di questo enorme circuito.
Probabilmente, negli anni, le caratteristiche delle reti generaliste andranno a modificarsi nel senso che è stato prospettato ieri, cioè di una maggior caratterizzazione delle reti tematiche, dove confluiranno le trasmissioni di tipo specialistico
(sport, musica, arte, natura), mentre alle reti generaliste rimarrà l’intrattenimento
leggero. Penso che questa sia la strada ma mi piacerebbe sentire il parere degli
altri presenti. Vorrei dare la parola a Gianni Di Capua.
GIANNI DI CAPUA
Sarò molto breve per dar modo anche agli altri di risponderle.
Sicuramente le reti generaliste della RAI vanno incontro a un tramonto inesorabile: ci sarà solo giornalismo, talk show e giochini. La cultura, ritenuta superflua, negli anni scorsi è migrata verso le reti satellitari. In Italia, RAI Arte
testimonia un’offerta culturale tematica di spettacoli di livello. Il personale più
motivato, le migliori menti della RAI, Ilio Catani compreso, sono migrati verso
le reti satellitari, che stanno offrendo una grande scelta di trasmissioni di alto
profilo culturale. Abbiamo una rete che trasmette solo documentari d’arte, e in
questo siamo all’avanguardia. La direzione di RAI Tre, che è concepita come
proposta culturale all’interno delle reti generaliste, è stata invece affidata a Pippo Baudo. Forse la nostra interprete può tentare di spiegare ai colleghi stranieri
chi sia Pippo Baudo... Per carità, grande professionista!
Io credo che la cultura, nel nostro caso l’opera lirica, non morirà mai perché
risponde a una necessità innata nell’uomo. Naturalmente la necessità determina
una domanda, e qui si entra nell’ambito dell’economia. È giusto che oggi chi
vuole la qualità debba pagarla. Non voglio entrare nella polemica del canone da
pagare alla TV generalista, anche se, come ho già detto, la RAI generalista è una
contraddizione perché bisogna pagare un canone per ricevere un’offerta pressocché pari a zero. Mi riferisco invece alle reti satellitari, laddove si paga per
avere un servizio e si cessa semplicemente di pagare se l’offerta non soddisfa.
Per quanto riguarda l’intervento del maestro Razzi, vorrei dire che l’arte
contemporanea, in particolare la musica eseguita e messa in scena, sposa perfettamente il vocabolario, il mezzo linguistico della televisione. Ho avuto modo di
verificarlo e di poterlo esprimere con due lavori di Nono, dove ho potuto usare
tutto il vocabolario a disposizione della televisione. Si incontrano ancora delle
resistenze, perché si ritiene che la musica contemporanea sia ostica, ma secondo
me lo è di più ascoltata alla radio che vista in televisione. Spero che vi siano altre opportunità per poter lavorare su questo materiale. Non c’è ombra di dubbio
che certe necessità esistono e non sono un’invenzione; bisogna solo capire fino
a che punto lasciarle sopite o bisogna stimolarle, e questo può farlo il mercato
introducendo prodotti che rispondano agli stimoli che attivano le necessità.
A monte ci sarebbe la questione della formazione ma si tratta di un discorso molto più ampio e complesso. In conclusione, sono estremamente ottimista
per il futuro. Grazie.
ILIO CATANI
Grazie, Di Capua. Il microfono al professor Heister.
HANNS-WERNER HEISTER
Non sono un ottimista assoluto ma solo relativo e ritengo che non si possa
comprare tutto: questo è il problema! Se la cultura è commercializzata non of139
fre sul mercato le cose che noi vogliamo. Questa è soltanto una minima parte
dei problemi che personalmente non sono in grado di risolvere. In ogni modo,
credo che un’istituzione come la RAI, almeno in parte finanziata con denaro
pubblico, abbia il compito e il dovere di non essere un mezzo o un contesto per
la pubblicità. Un mezzo pubblico non può essere comprato, almeno non interamente. Così almeno spero.
In primo luogo, vorrei ricordarvi che noi tutti lavoriamo professionalmente
con i media e con la musica ma forse per la gente normale, per i salumieri o i
professionisti di cui parlava Segalini, le questioni si pongono in tutt’altro
modo. Noi conosciamo tutti i trucchi e tutte le possibilità dei media, di opera e
video, ma così non è per gli spettatori. Per questa ragione si deve contare sulla
semplice curiosità o su un semplice interesse a vedere e ascoltare una nuova
opera lirica oppure una nuova messa in scena di una vecchia opera. In questo
senso, penso che i nostri trucchi e i nostri problemi non siano così vicini alla
realtà.
In secondo luogo, come si è detto, cercando un’alternativa al linguaggio
consueto, uno stato d’animo alternativo o un sentiero sia per l’opera sia per il
concerto forse si troverebbe qualcosa di interessante, come un altro linguaggio
musicale o drammatico-musicale; e, tuttavia, cercarlo, come ha detto Gianni Di
Capua, nella televisione generalista non mi trova d’accordo perché non credo
sia un bene che tutto sia lasciato al libero mercato: la «libera» offerta, si sa...
Terzo punto. Come molti di noi hanno già detto, in special modo Miceli –
anch’io sono un insegnante di conservatorio e riconosco benissimo il problema
– è necessario individuare una moltitudine di livello cui destinare il discorso
sull’opera e sulla ripresa stessa. Non conosco sufficientemente le possibilità
tecniche del DVD ma penso che, al contrario di quanto si creda, la tecnica sia
sottosviluppata: si pensa sempre che la tecnica sia sviluppata e il cervello sottosviluppato ma talvolta è esattamente il contrario. Si potrebbe pensare, ad esempio, a sottrarre il commento e questo è uno dei metodi che la nuova tecnica ci
consente di fare. Un altro metodo è quello del masterwork del maestro Jung e
di questo Lindberghflug. Il commento è già previsto e inserito nella messinscena. Tutta l’aura storica degli anni Venti è già inclusa e forse si potrebbero dare
più spiegazioni.
In ultimo, dovremmo trovare una moltitudine di linguaggi: l’opera lirica è
un’opera d’arte composita e composta da diversi elementi. Spesso avviene che
la parte visiva sia più avanzata di quella acustica. Ricordiamoci Wagner: la sua
fantasia acustico-musicale, politica e drammatica era più sviluppata della sua
fantasia nella messinscena e da questo esempio si potrebbe imparare che forse
un tipo di linguaggio incluso nell’opera lirica potrebbe trasportare l’un l’altro,
anche per guadagnare un po’ di attenzione da parte dei giovani: i giovani cercano sempre nuove esperienze e potrebbero forse essere attratti dall’immagine
dell’Elektra di Götz Friedrich, che è linguaggio filmico e che è in grado di guadagnare anche i non conoscitori del linguaggio operistico all’opera lirica di
Strauss.
ILIO CATANI
Vorrei dare la parola a Sergio Miceli.
SERGIO MICELI
A questo punto, vista l’ora e considerando il lavoro terribile dei traduttori,
non mi sento di andare avanti. Ricordo che ieri avevo espresso il proposito di
parlare male di Baricco, cosa che non ho potuto fare oggi. Rimanderei alla di140
scussione di domattina il recupero di Baricco e di quello che avrei voluto dire
stasera.
ILIO CATANI
D’accordo. Domattina inizerà il professor Miceli. Grazie a tutti e un saluto
particolare al professor Heister che purtroppo è in partenza.
A domani.
141
giovedì 2 dicembre 1999
ore 9.30
Circolo RAI
viale di Tor di Quinto 64
Sala conferenze
presiede
Ilio Catani
ILIO CATANI
Buongiorno a tutti. Come vedete, il gruppo dei convegnisti alla fine dei lavori si è assottigliato. Sono rimasti i fedelissimi, i più resistenti. Il nostro rammarico è sempre che il professor Marinelli non sia con noi poiché l’indisposizione che l’ha colpito l’altro giorno gli impedisce ancora di muoversi di casa.
Ovviamente ha inviato a tutti il suo saluto che ricambiamo con cordialità e con
l’augurio che si possa prontamente ristabilire. Questa mattina era prevista una
«postfazione», come lo stesso Carlo Marinelli l’ha definita, al Seminario. Ebbene, ci rincresce ma questa postfazione più che far capo direttamente a lui sarà
costituita dal contributo che noi tutti vorremo dare come sintesi ai lavori dei
giorni precedenti. Nel frattempo, riprenderei dalla conclusione della seduta di
ieri dando la parola a Sergio Miceli.
SERGIO MICELI
Grazie. Comincerò col dire che, in tutta sincerità, non vorrei né imperversare né infierire. Avverto poi un certo imbarazzo perché, almeno per me, in
questo momento manca un po’ di «temperatura», ovviamente non in senso termometrico. Ieri sera la discussione era «a caldo», ora è «a freddo» e non so se
le mie parole possano essere oggi puntuali come le avrei sentite ieri sera. Ad
ogni modo ci provo perché così mi ero impegnato a fare.
Mi ricollegavo, ieri, a due interventi che mi avevano chiamato in causa,
quello di Smith e quello di Carreira, i quali avevano citato il mio intervento
precedente e ai quali avrei voluto replicare. Vi chiedo quindi di ristabilire con
pazienza questo collegamento mnemonico, senza il quale quello che sto per
dire non avrebbe molto senso.
Mi sembra che esista un problema di fondo che abbiamo solo sfiorato, attorno al quale abbiamo girato, ma che non è stato preso in considerazione. È,
ancora una volta, un problema di posizione della cultura musicale in rapporto
alla cultura tout court, senza aggettivi. Adesso manca una buona parte dei colleghi stranieri, ai quali era più specificatamente rivolto questo intervento, ma
mi consola la presenza di Carreira e di Jung. C’è infatti un paradosso che credo
sia tutto italiano e che è il seguente. Noi tutti sappiamo cosa abbia significato la
presenza musicale italiana in Europa dal Seicento in poi, anche dal punto di vista strumentale: pensate al lunghissimo elenco di compositori che sono nati in
Italia e che sono morti in varie parti d’Europa. Nel Settecento, poi, la maggior
parte dei padri della musica strumentale sono morti in Spagna o in Inghilterra.
Voglio dire che, in qualche modo, c’è stato questo verbo musicale che si è allargato, facendo sì che il segno della musica italiana sia stato profondo in tutta
Europa; per non parlare dell’opera che, come tutti sappiamo, ha parlato italiano
per almeno due secoli. Noi dovremmo sentirci a nostro agio in questa situazione ma qui subentra il paradosso di cui volevo parlare.
Il paradosso è che, allo stato attuale e per tutto il Novecento, che ormai se
ne sta andando, ci siamo trovati incapaci di gestire un patrimonio che di fatto ci
appartiene; questo senza negare l’importanza di quel che è stata l’opera al di
fuori dell’Italia. Non sto cercando di fare un discorso etnocentrico, non è proprio nelle mie intenzioni, ma la tradizione musicale italiana non è stata seguita
da una preparazione musicale adeguata. Noi non abbiamo mai goduto di quella
cultura musicale di base che esiste nei paesi anglosassoni, dove c’è una alfabetizzazione musicale minima nei diversi strati sociali. Questo è un problema che
noi non abbiamo ancora risolto e che, di conseguenza, è proprio come il problema del carro e dei buoi. Oggi ci troviamo di fronte a un immenso patrimonio che, in un certo senso, non sappiamo come gestire perché non c’è continuità fra questa realtà storica, che ci appartiene, e una pratica divulgativa che
145
non esiste in quanto non abbiamo tradizione didattica e di formazione musicale. Ieri avrei fatto un’altra premessa, che faccio ora per i colleghi stranieri. Non
sto cercando di fare un discorso esterofilo o masochista ma sta di fatto che questa dissociazione esiste. Io credo che se noi non affrontiamo una volta per tutte
il problema della formazione musicale di base non risolveremo mai niente. E
qui parlo proprio in piena e deliberata volontà, come dicono i cattolici, perché
mi occupo da sempre di problemi di didattica musicale. Ieri mi era venuto in
mente un esempio che non so se possa funzionare. Sarebbe come se, rivolgendomi a un collega statunitense, dicessi: «Pensa a quello che rappresentano per
voi il jazz e il musical. Pensa che questi diventino una cose che la gente non è
capace di assimilare o di gestire». Riuscite a immaginare una eventualità del
genere? Folle! Ebbene, da noi è così.
C’era poi Baricco. Anche se all’inizio del mio intervento ho detto che non era
mia intenzione infierire, vogliamo risolvere questo problema? Poi prometto di tacere fino a conclusione dei lavori, almeno che qualcuno non voglia chiamarmi in
causa. È un argomento delicatissimo che però si ricollega a quello che abbiamo
detto. Per mettere subito le carte in tavola, personalmente detesto Baricco anche
perché non amo le figure di parvenu. Anche se ha avuto un grande successo come
scrittore, infatti, come critico musicale non esisteva; e posso dirlo con certezza, visto che credo di conoscere abbastanza bene l’ambiente musicale. Lo scrittore ha
«trainato» il critico musicale, e non entro nel merito del suo successo letterario,
che per me è più che altro un fenomeno di mercato: non siamo qui a fare una discussione di critica letteraria. Ma il punto non è questo. Ho visto alcune di quelle
trasmissioni e so di scandalizzare qualcuno per quello che sto per dire. Ricordate
Arruga negli esempi che ho portato ieri? A un certo punto, cercando di sdrammatizzare con falsità di fondo, subito dopo aver parlato della Scala, della cultura,
ecc., dice in milanese «Ueh! Diamoci una smossa!» con tutt’altra abilità e tutt’altra competenza che gli riconosco. Ebbene, secondo me la matrice è la stessa. Prima di tacere, aggiungo un’altra osservazione in cui entra di mezzo la valutazione
dell’uomo. Come possiamo scindere l’uomo dallo studioso, dal comunicatore?
Ciascuno di noi mostra vari aspetti che sono parti di uno stesso individuo, quindi
non possiamo scinderli. Quello che mi disturba di più è un’operazione che gli ho
sempre visto fare e che mi ha dato i brividi. Baricco ha bisogno di dimostrare la
propria genialità e, per fare questo, spiega Rossini, Verdi o Wagner. Nella sua dimostrazione il genio si può spiegare semplicemente perché il genio è lui ed è quindi in grado di spiegare tutto. Gli ho sentito fare un’»analisi» (uso le virgolette perché le analisi vere, quelle degli specialisti, sono altra cosa) del Mosè in cui
riduceva a niente quello che è un procedimento compositivo tipicamente rossiniano con la grande soddisfazione di dire «Avete visto? Tutto si può spiegare». Io
trovo questo profondamente falso. Non che mi arrenda all’idea che non si possa
analizzare l’opera di un genio: dobbiamo farlo per noi stessi e, se abbiamo una
funzione didattica, per gli altri. Baricco è un grande comunicatore, cinico nel senso in cui Massimo Mila, nei suoi saggi L’esperienza musicale e l’estetica, parla di
«cinismo espressivo», che è quello di colui che sa esattamente cosa dire e come
dirla per colpire nel segno. Questo glielo riconosco come grandissima abilità ma
ridurre i grandi a un meccanismo elementare per poter dire «vedete, io ve lo spiego, è tutto molto semplice» è qualcosa che mi dà i brividi. Ci colpisce perché è insolito nel panorama della nostra tradizione di divulgazione ma lo ritengo pericolosissimo. Detto questo, vi ringrazio dell’attenzione.
ILIO CATANI
Grazie a te, Sergio Miceli. Certo, l’osservazione che facevi all’inizio calza
magnificamente, anche a giustificare la condizione del pubblico televisivo. Per146
ché siamo ridotti a non avere pubblico per i programmi musicali? Credo che la
ragione sia quella indicata da Sergio Miceli. È talmente semplice che non vale
neanche la pena di soffermarsi. Al contrario, il mercato e la tecnologia mi sembra che siano degli alibi ma la ragione di fondo è che noi proponiamo un discorso che non viene recepito. Paolo Maragoni vuole intervenire.
PAOLO MARAGONI
Noi siamo in una condizione particolare. È verissimo che il nostro è un
problema generale di cultura, di fruizione, di posizione dell’intera produzione
musicale: è ancora un patrimonio sentito dall’Occidente? Tuttavia in Italia abbiamo un duplice problema, avvertito come proprio forse solo in Giappone,
dove l’opera lirica incontra grande fortuna. Quello che ha detto Miceli è terribilmente vero, come vero è senza dubbio quello che ha detto Ilio Catani, ma
questo è un problema tutto italiano. Sono rimasto profondamente segnato dalla
relazione che Patay ha tenuto due giorni fa. Per gli austriaci la musica è quello
che per noi è il pallone. È un tifo ridicolo, anche esagerato, ma è comunque
consolante per un musicista; e a quanto pare anche lì tutto comincia a vacillare.
Ricordo di avere fatto carte false per trascorrere il Capodanno a Vienna perché
era un mio vecchio sogno. Naturalmente non sono riuscito ad avere i biglietti
per il Musikverein ma ero comunque a Vienna nel 1988-1989, in un albergo dignitosissimo del centro, non certo il Sacher o l’Imperial. Ricordo che c’erano le
locandine della programmazione musicale di gennaio anche nelle panetterie.
Pensate, andate a comprare il pane il 2 gennaio e trovate la locandina del Volksoper, della Wienerstaatsoper, dei Wiener Symphoniker, dei Wiener Philharmoniker! Comprate il salame e leggete tutto questo, proprio come da noi leggete «la Nottola» per il cinema. Il 31 dicembre stavo uscendo per il veglione e ho
scambiato due battute con il portiere dell’albergo dove alloggiavo, un uomo comune, molto «viennese». Carlos Kleiber avrebbe diretto il giorno dopo il Concerto di Capodanno e gli dissi che avevano un grandissimo, incontestabilmente
grande direttore, soprattutto in quello che avrebbe dovuto fare l’indomani, secondo una tradizione apparentemente leggera ma nobilissima. Ebbene, egli si
rammaricava che il primo oboe, il migliore dei quattro, non avrebbe potuto
suonare perché aveva l’influenza, proprio come se in una partita contro la Juventus mancasse alla squadra la punta avanzata! L’atteggiamento era proprio
questo. «Il nostro primo oboe, il migliore dei quattro, sta male, ha l’influenza.
È un gran peccato perché suona Vita d’artista che ha un celebre solo in fa maggiore nell’introduzione, prima che parta il rapinoso?, fa il duetto del Pipistrello,
altri due passi famosi per primo oboe; però il nostro primo violino è il migliore
di tutti. Sarà un gran concerto». Io sono rimasto esterrefatto e ho pensato: «Perché non sono nato qui?». Sebbene sia orgogliosissimo di essere italiano e ogni
anno che passa recuperi un patriottismo culturale, non certo dei sacri confini,
che mi riempie il petto di legittimo orgoglio, devo dire che in questo caso sarebbe stato opportuno dirottare la cicogna! Ma anche lì sta cambiando tutto. È
un fenomeno che investe tutto l’Occidente. Il problema che ponete è reale e
vale di riflesso anche per il tema specifico di questo consesso, sebbene sia generale. E, inoltre, per chi si fanno i concerti, visto che costano così tanto? Per
chi si fanno i conservatori? In Italia è andato in crisi un sistema che «vivacchiava» sia pure con queste problematiche non sentite, non avvertite in tutta la loro
gravità ma esistenti anche in passato. Per quanto riguarda il mercato del video,
invece, il problema diviene generale, occidentale. A quanto pare il CD cala, il
laserdisc non ha mai attecchito, lo homevideo non va e le famose tematiche che
riguardano il futuro, che bisogna pagarsi la qualità, pare che prima ancora di
decollare siano già finite. Dopo il mio intervento dell’altro ieri Ilio Catani ha
147
detto che forse sbagliamo a vedere la porcellana di Meissen, per cui non a caso
si allestisce Una cosa rara o L’Orione, e che forse dovremmo fare più Bocelli.
Io non intendo questo ma si potrebbero «bocellizzare» anche lavori di per se
stessi illustri anche se popolari, per esempio un Rigoletto, grandissima opera
che è però passata attraverso i nervi e le corde popolari o, almeno, nel nostro
immaginario. È probabile che sia banale, senza dubbio lo è, ma forse avremmo
il dovere di fare entrambe le cose, se ancora esiste una «vocazione obbligatoria» della televisione di stato. E sa Dio quanto la televisione di stato la senta
come obbligatoria, soprattutto adesso. L’atteggiamento diffuso e che, poiché il
servizio pubblico costringe a trasmettere quattrocento ore di musica ma non ne
specifica l’orario di trasmissione, le si relega alle due di notte. Ho visto personalmente palleggiarsi la musica tra le diverse reti: «Quest’anno le opere le fai
tu!»; nella «mia» Vienna avrebbero detto «Guarda che quest’anno le opere voglio farle io». In Italia, al contrario, si gioca a scaricabarile. Se ancora esiste
questo dovere e questa deontologia professionale della televisione di stato è
giusto fare l’Orione ed è altrettanto giusto organizzare convegni per capire
come dobbiamo farlo. Come il ragtime negli stati del Sud o il blues in Alabama, l’Italia aveva una «cosa sua», che anche l’analfabeta sentiva come proprio
patrimonio anche volgarissimo, certo non da stadio, non da melomania;
nell’Ottocento l’opera era l’intera storia, era il Via col vento anche delle sartine. Nel Settecento – so che non devo insegnarvelo io – era ancora un’arte elitaria, ma anche i gondolieri andavano all’opera una volta all’anno. Nell’Ottocento diventa quel che il cinema è stato nel Novecento, il che non vieta ai grandi
intellettuali di fare delle opere «contro»: Wagner è il caso più esemplare a riguardo. La mia fissazione di quest’anno è questa: forse dobbiamo «far sentire»
questo patrimonio per altre vie, il che diviene impossibile se non è avvertito più
come proprio perché si è interrotta una tradizione di trasmissione anche popolare, da nonno a padre e da padre a figlio. Bisogna trovare una maniera senza
volgarità e senza mistificazione; e in questo senso indicavo la «linea Anderman» come criticabilissima ma in fondo come la più giusta, la più santa, la più
vera. Parliamo della mistificazione del Do di «Di quella pira...», che è una nota
da far tremare le vene ai polsi e non si può vedere a mezza bocca, come diceva
Segalini. Ma quella è una diretta. La steadycam gli va in ugola? Il cantante lo
sta eseguendo in quel momento, dunque i presupposti sono tutti correttissimi;
ma è pur vero, come diceva Jung, che è improponibile fare in televisione una
soggettiva della fruizione teatrale. Bisogna però decidersi su una linea coerente
e avere delle severità con se stessi perché la necessità di cambiare linguaggio
non permette l’infrazione di ogni regola; questo come fatto di deontologia personale. Pur con tutte queste cautele bisogna fare in modo che la musica diventi
nuovamente «di massa», che possa nuovamente entusiasmare proprio come una
cosa nuova. Personalmente sono molto contrario alla musica classica all’aperto: come diceva Toscanini «all’aperto si gioca a bocce». Questo vale a maggior
ragione per l’opera, che è fatta di piani, di concertazione raffinatissima. Quando si è costretti ad amplificare tutto questo va perduto. Pensate a un Pelléas et
Melisande o a un Rosenkavalier all’aperto. Certo sono due casi limite, ma si
perde ogni finezza dei compositori che pesavano con la bilancia del farmacista
ogni dettaglio. Sebbene di norma sarei un nemico acerrimo dell’opera allo Stadio Olimpico, se servisse… Forse bisogna venire a patti con questa necessità,
ovviamente con tutti i rigori del caso. Grazie.
ILIO CATANI
Paolo Maragoni è una specie di turbine, un ciclone che riesce sempre a
mettere sul tavolo una serie di problemi. In questi seminari finiamo sempre per
148
portare l’attenzione su una problematica diversa da quella su cui vorremmo
concentrarci. Abbiamo parlato di modi di riproduzione in video dell’opera lirica, forse ora dovremmo parlare anche di come l’opera vada presentata al pubblico. Noi possiamo fare delle cose bellissime (bellissime per chi è tutto da vedere). Alla fine di questo Seminario arrivo con una convinzione che non so
quanti di voi possano condividere: non esiste un modo di riproduzione
dell’opera, non esiste una formula vincente. Esistono invece molte formule,
rapportabili di volta in volta a un tipo di produzione, a un’opera, a un allestimento. Sono degli abiti su misura, non delle confezioni standard del grande
magazzino; tant’è vero che, nelle varie esemplificazioni presentate, salvo rare
eccezioni (ma a questo punto è come parlare male del Pantheon!), sono stati
apprezzati i lavori più lontani nel tempo, quelli di quaranta-cinquant’anni fa.
Abbiamo visto le prime produzioni del 1954 che rimangono «mitiche», sotto
certi aspetti, ma non so quanto valore avrebbero oggi se provassimo a farne un
remake puro. Abbiamo parlato più o meno di tutto ma non siamo arrivati, a mio
avviso giustamente, a una conclusione univoca.
Prego, maestro Razzi. A Fausto Razzi mi lega un’amicizia che risale al
1966: fatevi i conti!
FAUSTO RAZZI
Mentre sono fondamentalmente d’accordo con quanto diceva Ilio Catani a
proposito della specificità di ogni lavoro che comporti, quindi, una specificità
di approccio, non sono affatto d’accordo con l’idea di Maragoni di andare allo
Stadio Olimpico se proprio necessario per diffondere la musica; e questo mi dispiace perché con Maragoni, con cui abbiamo parlato in varie occasioni, ci siamo trovati in sintonia su molti punti. Per esempio, ad eccezione di alcune «patacche» ma pur sempre con momenti di grandissima emozione, ho sempre
pensato che l’Aida abbia ricevuto un grande danno dalla patina, che in parte le
è propria ma in parte è stata gonfiata, di grande opéra, di kolossal ante-litteram. La visione dell’«Austria felix», inoltre, per certi aspetti è giustissima, per
altri non lo è. Ricordo che, in anni abbastanza lontani, in Germania (paese forse
meno feticista dell’Austria ma ugualmente attento alle cose musicali) fu eseguito un mio pezzo e, prima del concerto, alcune persone del pubblico mi chiesero se scrivessi musica classica, aggiungendo: «Non scriverà mica come Hindemith, vero?». Voglio dire che la diffusione della musica non può essere
affidata a questo tipo di sensazioni, di partecipazioni in qualche modo paragonabili al tifo calcistico. Il problema è ovviamente un altro.
Vorrei tornare quel che ho detto ieri, senza alcuna aggressività da parte
mia: l’opera va rinnovata. In questo senso Berio è vecchio ed è assurdo che la
maggior parte dei compositori non si accorga che da quattro secoli ci portiamo
dietro un «modo retorico» in senso proprio (non in senso negativo) tipico del
far musica a teatro; e non si capisce perché si debba continuare per questa via.
Non è una questione di linguaggio: ho sempre sostenuto che oggi si può essere
moderni indipendentemente dal fatto di usare una serie o una triade consonante
(parlo per approssimazioni); il problema è semmai come usarle, il modo, l’atteggiamento. Nel caso dell’opera dovrebbe essere qualcosa che rifiuti o modifichi non già in superficie, ma dall’interno, un modo che ormai non interessa più
gran parte della gente, e questo dovrebbe venire dagli stessi musicisti. Faccio
un nome solo, Franco Evangelisti. Morto diciotto anni fa, è stato uno dei più
importanti rappresentanti di quella generazione uscita dalla Seconda Guerra,
nel recupero di tutto quello che era andato perduto e nella curiosità, nell’impeto
di conoscere e rinnovare. Nonostante tutto questo, solo adesso in Italia (credo il
prossimo anno) si riuscirà a rappresentare un suo lavoro, Die Schachtel, che ho
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tentato invano in questi ultimi anni di proporre, sull’onda del successo che ha
avuto a Berlino circa due mesi fa e dell’uscita di due compact disc che contengono tutta la sua opera. Questo lavoro ha avuto uno spazio di rilievo e una critica entusiastica su Die Zeit ma in Italia Franco Evangelisti, non facendo parte
della scuderia Ricordi, non esiste se non sporadicamente, al punto che
quest’anno Nuova Consonanza – associazione da lui fondata e che da lui ha
avuto quegli impulsi per cui fino a poco tempo fa contava qualcosa – ha riassunto cinquant’anni di musica elettronica e s’è guardata bene dal fare l’unico
lavoro italiano degli anni Cinquanta (guarda caso di Franco Evangelisti) che
abbia segnato la ricerca di quegli anni. Come diceva Berio «c’è musica e musica», e la musica di Evangelisti «è musica». C’è poi altra musica che nasce da
una imposizione del mercato, da quella che impropriamente – o forse propriamente ma in maniera certamente non ironica nelle intenzioni – viene definita
«industria culturale» e che di culturale non ha assolutamente niente. Questa
condiziona non solo le scelte delle varie persone che per quieto vivere o per opportunismo sono state preposte alle istituzioni e scelgono secondo quell’ottica,
condizionando tutto quello che è attenzione verso la musica.
Poiché mi accorgo che parlare a braccio è più semplice ma induce allo straripamento, leggo due o tre passi da quanto scrissi quattro anni fa per il famoso
inserto rock di la Repubblica che era nato da poco. Tale inserto chiarisce qual è
la linea di tendenza di uno dei giornali a maggior diffusione. Al giornale era arrivata una lettera di protesta scritta a Castaldo da alcuni compositori, i quali lamentavano, cospargendosi il capo di cenere, di essere stati dimenticati. Castaldo aveva risposto dicendo: «Ma che cosa hanno fatto questi musicisti per avere
diritto a essere ricordati? Il loro linguaggio a volte è così contorto, oscuro, demotivato. Cos’hanno fatto per meritarsi di essere ricordati?». Su questo io
scrissi:
«Domande legittime, alle quali però se ne devono contrapporre subito altre: cosa ha fatto lo stato, cosa ha fatto la scuola, cosa hanno fatto le istituzioni?
Un rapporto, di qualunque tipo esso sia, è possibile solo se esiste un interesse
per ciò che viene proposto, e questo interesse può nascere solo dalla conoscenza. In uno stato in cui di fatto la musica non fa parte della cultura...». Il discorso sull’assenza dell’insegnamento musicale nelle scuole, infatti, va allargato:
nei fatti la musica non fa parte della cultura, gli intellettuali non musicisti, per
mancanza di conoscenza specifica – ma dovrebbero avere una conoscenza generale che supplisca a quella specifica – non solo non conoscono la musica ma
non ritengono che la musica faccia parte della cultura. Diverse volte ho citato
un libro sull’uomo barocco edito, mi sembra, da Laterza e curato dallo storico
Villari. Questo libro considera una serie di figure, il politico, il militare, l’ecclesiastico, l’artista (ovviamente l’artista figurativo), dimenticando il musicista.
Il Seicento ha inventato musicalmente una forma di rapporto con il pubblico, il
melodramma, che, al di là della sua importanza musicale, ha avuto un impatto
con la società che forse Villari non conosce e che forse farebbe bene a conoscere. «Per di più, solo negli ultimi cinquant’anni il musicista-interprete e l’ascoltatore medio sono stati messi in grado di conoscere una letteratura articolata su
un periodo di tempo assai vasto, grazie alla radio e ai dischi. Si è quindi prodotta una sorta di difficoltà di collocazione, di organizzazione, di orientamento,
una vera e propria saturazione di musica, a differenza di quanto è avvenuto per
le altre forme di pensiero che sono state assorbite in modo più graduale. Per il
recente passato, questa «musica contemporanea», con le dovute eccezioni ma
non sono tante, è stata in gran parte eseguita da musicisti demotivati che hanno
affrontato l’esecuzione di questa musica non potendo dedicarsi per deficienze
tecniche o per difficoltà di altro genere, all’esecuzione del repertorio classico
che era quello a cui erano stati abituati. Quindi, una lettura approssimativa
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quando non addirittura insufficiente e distorta, a differenza di quanto avviene
in area rock, ad esempio, dove qualsiasi complesso dimostra di credere in quello che fa e che lo faccia in questo modo lo si sente». Tante volte avrete sentito
dire che la gente non capisce la musica contemporanea, anche se non è eseguita
bene. Mancano i modelli di riferimento ma andrebbero costruiti, e costruiti
bene. «In ogni caso va poi detto che esperimenti, che purtroppo sono stati minimi e molto sporadici, per stabilire un rapporto con il pubblico non sono mancati». Negli anni Settanta, insieme a tanti altri musicisti, ho avuto la fortuna di
partecipare a quella serie di incontri che si sviluppò per tre anni a Reggio Emilia e che si chiamava «Musica/Realtà». Questa operazione, da cui ho tratto
esperienze positive, risultò efficace perché era basata sul confronto fra musiche
di aree diverse e sul conseguente dialogo fra musicisti di varie estrazioni e un
pubblico anch’esso non omogeneo. La discussione più interessante riguardava
naturalmente la musica meno conosciuta.
Per concludere vorrei fare una considerazione, ultima non certo per importanza. Non bisogna dimenticare il condizionamento imposto dall’industria culturale né sottovalutare il peso dell’editoria musicale. Quest’ultima, per ovvie
anche se non lungimiranti esigenze di mercato ma, a volte, anche per incapacità
di orientamento nelle scelte, ha ristretto e restringe tuttora le sue proposte a pochi nomi che non sempre assicurano la presenza di una qualità, di quella qualità
che è necessaria a far scattare l’interesse nei confronti di quella musica. Questo
è importante perché, se è giusto che accanto al saggio filosofico fondamentale
esiste la necessità di leggere un libro giallo, è evidente che accanto al rock abbiamo il dovere di proporre altre cose; e probabilmente non è insistendo solo su
un passato che per noi è ancora presente che possiamo pensare di interessare i
giovani. Dobbiamo interessarli a qualcosa di attuale che abbia un proprio valore e che sia complesso, in modo che pian piano possano rendersi conto della
mistificazione a cui sono stati costretti: mediamente la semplificazione raggiunge la banalità. Per far comprendere questa banalità bisogna tuttavia mettervi a confronto qualcosa che sia omogeneo dal punto di vista dell’attualità; in
caso contrario, come si è già detto, «Che gelida manina» rimane nel frigorifero.
Grazie.
ILIO CATANI
Grazie a Fausto Razzi. Come vedete le problematiche dilagano. Siamo partiti da un’idea e, a corollario, è nata una serie di problemi che riguardano la
scuola, le modalità di distribuzione, l’editoria. Miceli potrà confermarvi che di
questi problemi ne è discusso all’I.R.TE.M. più volte. La parola a Carreira.
XOÁN M. CARREIRA
Alcune brevi considerazioni. Credo che esistano gli strumenti per fare bene
le cose. Per esempio, tre anni fa in Spagna il direttore del Centro per la Diffusione della Musica Contemporanea, Jesús Villa Rojo, compositore-interprete
conosciuto anche in Italia, ha fatto un’esperienza importantissima. Il principale
inserto della stampa spagnola dedicato alla moda musicale è quello di El País e
si chiama El País de las Tentaciónes. Il quotidiano fa parte della stessa proprietà di Canal Plus. Villa Rojo, al Centro per la Diffusione della Musica Contemporanea, che è un ente ministeriale, ha promosso un convegno finalizzato
all’organizzazione di un concerto all’Auditorio Nacional con musiche di sei
giovani compositori spagnoli. Il concerto sarebbe stato pubblicizzato e recensito da El País de las Tentaciónes e, inoltre, sarebbe stato trasmesso da Canal
Plus.
151
Il reportage che El País de las Tentaciónes ne fece fu di ben sei facciate e
usava il linguaggio della cultura pop, ottenendo un enorme successo. Anche il
concerto ha avuto grande successo di pubblico, un pubblico che fino ad allora
non aveva conosciuto la musica di oggi. Tutti i partecipanti sono rimasti soddisfatti dall’esperienza fatta e la trasmissione è stata un successo.
Il lavoro della nuova direttrice del Centro, Consuelo Díaz, compositrice, è
improntato alla stessa concezione: quando un interprete bussa alla porta la linea
della pubblica amministrazione è quella di trattarlo come se fosse il povero alla
porta del tempio.
Passiamo alla musica sinfonica. La mia città ha un’orchestra civica che dipende per il 40% dai privati e per il 60% dal comune. Ha un proprio auditorium, una propria stagione di abbonamenti e un proprio festival ma viene presentata anche all’aperto come elemento di festa popolare, più che propriamente
culturale, con tre concerti: uno è dedicato alla musica scritta per il cinema, uno
alla musica dichiaratamente festiva e uno alla zarzuela; in aggiunta c’è una presentazione dei Carmina burana di Carl Orff. Si tratta di una «popolarizzazione» dell’orchestra che, in quanto servizio pubblico, partecipa alla festa cittadina. Il prodotto da popolarizzare è l’orchestra, non la musica: non bisogna avere
la pretesa di eseguire la Sinfonia n. 3 di Mahler all’aperto, è assurdo! Cinque o
sei mila persone partecipano ai concerti di quest’orchestra, ed è un pubblico felice di poter stare in piazza ad ascoltare la propria orchestra. Semplice!
Io credo che vi sia la possibiltà di presentare il nostro «prodotto» musicale
senza fare cose strane e con grande ripercussione sociale. Ieri parlavamo della
possibilità di presentare The Rape of Lucretia di Britten come opera di attualità, poiché attuale è il fenomeno della violenza sulle donne. Abbiamo l’assoluta necessità di usare la fantasia e trovare un nesso con la realtà. Se un prodotto
risulta impossibile da vendere sul mercato ho i miei dubbi che si tratti di un
buon prodotto: deve avere qualche difetto se non interessa a nessuno! Credo al
potere dell’immaginazione e della creatività e la televisione è uno strumento di
grande importanza per l’immaginazione. Ricordo la potenza economica del settore culturale del 1997 in Spagna: l’ammontare degli introiti dell’industria culturale spagnola, cinema, teatro e musica compresi, era di cinquantaquattro miliardi di euro ma, nello stesso anno, la perdita di mercato è stata pari a un
miliardo di pesetas per la mancanza di coordinamento fra le otto istituzioni
pubbliche che si occupano dell’amministrazione culturale. È un problema di
fantasia e coordinamento.
ILIO CATANI
Carreira auspica creatività e fantasia. Ebbene, se non credessimo anche noi
nella creatività e nell’immaginazione non ci saremmo occupati né di musica né
di televisione, di comunicazione, di media, in particolare in una situazione
come quella attuale, che sembra aprire confini a dir poco nebulosi. Siamo davvero tutti alla ricerca della pietra filosofale!
Prima di continuare con gli interventi vorrei salutare una carissima collega
arrivata da poco, Maria Rosaria Bronzetti, che sarebbe dovuta intervenire a proposito di un programma che realizza da anni e che si inserisce perfettamente nella
tematica del nostro Seminario. Da diversi anni Raitre ha «inventato», se così si
può dire, un modo di presentare la musica completamente diverso da quella tradizionale. Come già accennavo, con il programma «Prima della prima» si è tentato
di avvicinare all’opera e alla musica in genere (il programma è riferito a tutte le
manifestazioni musicali di ampio respiro) un pubblico non necessariamente di
melomani o di appassionati, con un linguaggio non tecnico. Mi dispiace che i
colleghi stranieri non siano presenti stamane poiché ritengo sia interessante vede152
re insieme e commentare questo programma, che ha una «pezzatura» limitata rispetto ai nostri standard. Dura infatti mediamente mezz’ora, è agile, di taglio
quasi giornalistico, e tuttavia fornisce una serie di informazioni e stimoli per destare curiosità. La programmazione di questo servizio avviene a ridosso della prima ufficiale, in modo da invogliare lo spettatore ad assistere allo spettacolo.
Prego i colleghi della sezione tecnica di attivare le apparecchiature e invito
Maria Rosaria Bronzetti a parlarci del suo programma.
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Buon giorno a tutti. La trasmissione di cui mi occupo è già stata ben illustrata da Ilio Catani. La puntata che stiamo per vedere è stata registrata a giugno a Ferrara. Si tratta del Falstaff diretto da Abbado con Ruggero Raimondi.
ILIO CATANI
Vorrei che ci parlassi anche dello spirito della trasmissione e delle esperienze
che avete avuto, visto che sono ormai molti anni che il programma va in onda.
Che tipo di risposta ha avuto dal pubblico? Noi abbiamo parlato anche delle difficoltà che a volte si incontrano nei teatri per collocare i mezzi di ripresa.
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Le difficoltà sono infinite, sebbene «Prima della prima» venga girata con
una troupe leggera che può trovare collocazione molto facilmente in punti dove
non disturbi lo svolgimento dello spettacolo. Ovviamente ci sono tutte le altre
difficoltà che si incontrano nei teatri ma, con la voglia di fare, queste vengono
superate.
VOCE DAL PUBBLICO
Come risolvete il problema dei diritti d’autore?
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Trattandosi di un programma di taglio informativo-giornalistico, basato soprattutto sulle prove, non si pagano diritti ai teatri. Cerchiamo inoltre di andare
sempre in onda quando lo spettacolo è ancora in scena, il che rende la trasmissione una sorta di promozione per il teatro.
ILIO CATANI
Come ha reagito il pubblico televisivo?
MARIA ROSARIA BRONZETTI
È una trasmissione collocata malamente: nonostante le proteste dei telespettatori e della stampa continua ad andare in onda a mezzanotte. In questa fascia oraria lo share d’ascolto varia dal 4 al 5%.
PAOLO MARAGONI
Ieri Ilio Catani ha detto che quello dei fruitori della musica classica è un
popolo invisibile, non solo in senso televisivo ma anche in senso sociale. Cosa
153
fanno, cestinano i fax? Ho sempre avuto il sospetto che le risposte dei nostri
superiori siano legate alle ricerche che vengono effettute sui programmi che
stanno loro a cuore. È l’epoca delle ricerche onnipotenti di mercato che dovrebbero orientare ma, «non c’è sordo più sordo che chi non vuol sentire», alla
ricerca non-funzionale al tuo discorso, o «iperuditivo» più «iperuditivo» alla ricerca che ti fa comodo! Questo mi pare abbastanza evidente.
Sono convinto che il bacino d’utenza di «Prima della prima» sia maggiore di
quello che viene lasciato apparire, e sicuramente questa utenza non è soddisfatta.
Non è vero che non importa nulla a nessuno, anch’io ho ricevuto proteste da parte di non-melomani riguardo l’orario di programmazione della trasmissione.
Come diceva Heister, il libero mercato non è affatto libero ma molto orientato.
ILIO CATANI
Purtroppo per molti aspetti siamo nelle mani di qualcuno che decide per
tutti, in base a considerazioni che spesso non sono rispettose della volontà popolare. Maestro Paperi?
VALERIO PAPERI
Purtroppo è storia vecchia. Ho lavorato accanto a Ilio Catani nel Concorso
intitolato alla Callas. Il suo grande impegno in quell’occasione è stato vanificato per metà dall’orario e dalla durata della trasmissione. Vedevo le spese enormi e l’impegno suo e della sua équipe ridotti a tempi molto stretti in un lavoro
che nasceva per essere popolare, trattandosi di un concorso che andava in onda
in mondovisione, sebbene alle 23.30. Si era obbligati a trasmettere per intero le
interviste ai vari Krause, ecc. e a ridurre a un’aria sola le esecuzioni dei concorrenti, cosa che spostava l’angolazione del giudizio della commissione rispetto a
quello del pubblico. E questo accadeva molto tempo fa.
ILIO CATANI
Dodici anni fa, per la cronaca. Grazie per avere riportato indietro la memoria. Vediamo ora «Prima della prima».
(esempio audiovisivo)
Grazie, siamo già fuori tempo massimo. Non voglio «giocare in casa», sarebbe troppo scoperto. Attendo osservazioni e commenti, credo che sarebbe la
parte più interessante.
GIANNI DI CAPUA
Premetto che i programmi di Maria Rosaria Bronzetti li seguo dai tempi di
«Hellzapoppin’». È una delle proposte più valide della televisione pubblica,
che dimostra ancora che la televisione pubblica non è espressione di un progetto ma che la cultura che si fa all’interno della televisione pubblica è sempre il
progetto che parte da un individuo, e qui ne abbiamo l’esempio. Credo che se
non ci fosse stata Maria Rosaria Bronzetti, «Prima della prima» non ci sarebbe
mai stato. Quindi riportiamo il problema all’individuo e questo vale anche per
Ilio Catani. Tutte le tue iniziative...
ILIO CATANI
Grazie ma non siamo qui per...
154
GIANNI DI CAPUA
Diciamolo pure! Due domande di carattere tecnico: vorrei sapere se voi
avete girato con le luci di scena...
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Sì.
GIANNI DI CAPUA
Non avete aggiunto della luce all’esterno...
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Questo è uno dei problemi: non possiamo, per ovvi motivi, mai aggiungere
le luci.
GIANNI DI CAPUA
Ecco. Poi un’altra cosa: «Prima della prima» lo seguo da diverso tempo.
Ho visto delle puntate memorabili; non ricordo se era quella di Uto Ughi: non
so se rientra in questo progetto...
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Sì, ne abbiamo fatte svariate con Uto Ughi.
GIANNI DI CAPUA
È stata splendida. Da quanti anni esiste «Prima della prima»?
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Esiste da dieci anni.
GIANNI DI CAPUA
Ecco. Io noto che l’impianto narrativo, di costruzione, si è assestato. Non
c’è stata una progressione, uno sviluppo del come raccontare il «Prima della
prima». Vedo che ci sono delle intuizioni narrative estremamente interessanti,
per esempio l’inizio folgorante. Avete visto il montaggio serrato tra quello che
dice Abbado e il corrispettivo di ciò che accade sulla scena. Però ci sono dei
momenti in cui la struttura si adagia su sé stessa, su un modello ormai collaudato. Voglio dire che è stanca.
MARIA ROSARIA BRONZETTI
È assolutamente vero ma ho avuto dei problemi.
GIANNI DI CAPUA
Sì, finisco di dire. Che cos’è che contribuisce a questo che dico? Al vocabolario delle immagini che viene usato, che è quello tipico delle news. Gli operatori sicuramente adottano un tipo di racconto per immagini che si adotta nor155
malmente per raccontare le news, cioè le cose che avvengono sul vivo,
sull’istante. In effetti l’immagine (e il suo contenuto) perde di forza di penetrazione nel memento in cui si propongono: ci sono «zoomate» ci sono campi totali. Forse questo è uno dei motivi per cui ci sono certi punti di debolezza nel
programma.
Ultima cosa: mi chiedo se forse non si potrebbe pensare a invitare dei registi a sperimentare questa struttura, questa trasmissione che io trovo veramente
singolare. Mi dispiace che non ci siano i colleghi stranieri perché si sarebbero
resi conto di un prodotto che appartiene alla cultura televisiva italiana, poiché
esiste da dieci anni, quindi mi domando se nel vostro progetto non sia ora di
aprirsi, e potrebbe essere una straordinaria palestra per formare nuove professionalità esterne. Invitare dei registi a raccontare, ad assumere la struttura di
«Prima della prima» e a individuare delle forme per contruibuire alla crescita
della stessa struttura narrativa.
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Parto da quest’ultima osservazione. Quest’anno la trasmissione è completamente cambiata, nel senso che le puntate erano monografiche, dedicate ogni
volta a una singola opera. Quest’anno la trasmissione è diventata un vero e proprio rotocalco sulla musica, e all’interno di ogni puntata ci sono tre servizi, tutti
fortemente incentrati sull’attualità e quindi chiaramente è un programma molto
più informativo e molto più agile e veloce. C’è una conduttrice tra un servizio e
l’altro, e questo tentativo di sperimentazione sta avvenendo proprio in questo
periodo. Adesso vediamo, abbiamo fatto soltanto tre puntate, stanno andando
abbastanza bene. Ci sono pro e contro, nel senso che il melomane era affezionato all’approfondimento; con i tre servizi, ovviamente, la trasmissione diventa
molto meno approfondita e molto più informativa.
Per quanto riguarda la ripresa, noi abbiamo un budget bassissimo, altrimenti «Prima della prima» non esisterebbe; sono anni che difendo questa trasmissione. È chiaro che bisognerebbe andare a girare con mezzi più importanti: noi giriamo con una sola troupe e soltanto quando c’è la prova generale
con una doppia troupe. Chiaramente, le immagini sono necessariamente quelle che avete visto. Per quanto riguarda questa particolare ripresa, ho avuto dei
problemi perché Raimondi [Ruggero Raimondi, baritono, N.d.R.] si è alternato con Andrea Concetti, che poi tra l’altro non ha neanche fatto recite, era
solo lì in aggiunta, e quindi chiaramente non potevo fare un montaggio con
Andrea Concetti alternato a Raimondi, non mi sembrava corretto. Quindi per
questo motivo c’è una certa staticità: non ho avuto abbastanza prove. Il giorno precedente Raimondi ha fatto pochissime prove senza cantare in voce,
quindi chiaramente non le potevo montare, però ho portato questa puntata
perché il Falstaff di Abbado mi sembrava una cosa interessante, e poi è abbastanza recente.
GIANNI DI CAPUA
Io lancio una provocazione. Ritorno sulla sperimentazione, proprio perché
conosciamo i limiti che ci vengono purtroppo imposti dalla realtà della produzione. Lancio una proposta: io mi propongo gratuitamente – te lo metto anche
per iscritto – per sperimentare un possibile racconto di «Prima della prima».
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Grazie!
156
ILIO CATANI
Gianni, ti sei irrimediabilmente compromesso! L’hai detto in pubblico ed è
tutto registrato. Ti conveniva venire con l’avvocato, perché questo potrà essere
usato contro di te.
GIANNI DI CAPUA
Mi impegno per una puntata.
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Quest’anno, per un servizio? Va bene.
ILIO CATANI
Maria Rosaria ne terrà conto, ne sono convinto. Ci sono altri interventi a riguardo?
VOCE NON IDENTIFICATA
Volevo soltanto fare una domanda ma non so neanche se questa sia la sede
adatta. È stata fatta un’indagine per sapere qual’è il rapporto di interesse fra i
giovani e il musical?
ILIO CATANI
Il musical in particolare, no.
VOCE NON IDENTIFICATA
Forse sarebbe interessante sapere perché...
ILIO CATANI
A riguardo devo dirti che le ultime indagini del servizio opinioni, sulla musica, risalgono a molti anni fa e furono fatte in particolare per l’ascolto della radio quando ne divenne direttore Aldo Grasso. Quindi parliamo del 1994-1995,
quando ci fu la riforma dei programmi radio, che chi ama e segue la musica ricorderà che il «Mattino Tre» cambiò completamente configurazione.
VOCE NON IDENTIFICATA
Non mi riferivo solo alla RAI.
ILIO CATANI
No, non è stata fatta. Se viene fatta, è solo per paradigmi molto ampi e non
così specifici come «i giovani e il musical», questo posso dirtelo con quasi assoluta certezza.
Se non ci sono altre domande relative al programma di Maria Rosaria
Bronzetti... So che lei è molto occupata, come al solito, perché non solo hanno
budget molto limitati ma sono anche pochissime le persone.
157
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Volevo soltanto dire una cosa, a proposito del montaggio fulminante iniziale. Anche lì, si è trattato di una costrizione perché tutti sappiamo che il maestro Abbado non ama essere intervistato, e io mi sono ritrovata con un’intervista con delle pause lunghissime, ovviamente non televisive. All’inizio ero
disperata perché pensavo «ci ho messo tanto, ad avere questa intervista, e ora
dovrò buttarla». Sono stata costretta a inventare qualcosa per poter mandare in
onda l’intervista.
ILIO CATANI
La difficoltà ha operato il prodigio. Grazie a Maria Rosaria Bronzetti.
Buon proseguimento e buon lavoro. Valerio Paperi, volevi parlare del «Prima
della prima»?
VALERIO PAPERI
Volevo cogliere, nei tempi, nei modi, nelle difficoltà che chiaramente incontra, delle volte la caduta può dipendere da un fattore, cioè fra quello che
dice l’intervistato e il risultato. Senza togliere il valore a Raimondi in realtà ci
sono delle carenze di significato nel modo in cui lui espone; è unicorde, in una
certa maniera che gli è comoda, ed è di valore. Ma il Falstaff ha dei significati
molto più sensibili di quello che lui tira fuori, anche in questi inserti. E la caduta può anche essere dovuta a questo, cioè che una parte che noi ascoltiamo cade
proprio perché quello che viene detto è in realtà disatteso per una parte, perché
forse non è tutta la corda possibile per lui. Non parlo di voce, parlo proprio di
significati emozionali che una partitura di questo tipo e la scrittura richiedono.
Questo è il mio pensiero riguardo ciò che si sente. Quindi, l’intervistato pone
un suo modo di concepire l’aria, i trapassi espressivi, e in realtà poi non tutto
quello che dice viene fuori dal suo modo di fare. E questo può far cadere l’attenzione.
JEAN-FRANÇOIS JUNG
Penso sia difficile per un regista avere un punto di vista unico su questo
Falstaff quando i protagonisti, il direttore e i cantanti, non hanno un punto di
vista che tutti insieme, non hanno la volontà di fare un particolare Falstaff. Ciascuno ha detto una piccola cosa: Raimondi ha detto dieci piccole cose, anche il
direttore non ha un punto di vista reale di fare una nuova direzione musicale di
Falstaff. Non ho sentito un punto di vista di cantante giocosa, delle donne; di
questo sono veramente deluso, di sentire le donne cantare così. Dunque, è una
specie di collage perché non è il problema del regista come fare un montaggio
dove le cose vanno insieme se si sceglie una regia dove tutta la gente non ha un
solo punto di vista sul modo di fare un nuovo Falstaff. Dunque, siamo molto
distanti da questo. Una cosa che si vede bene, per esempio, è che questa inquadratura di Raimondi allo specchio è troppo lontana, e questo sul montaggio riviene dieci o quindici volte ma penso che non sia colpa del regista perché io
sono lontano da Raimondi non solo perché è filmato in uno specchio ma perché
quello che dice Raimondi non è realmente interessante e la distanza fra Raimondi e me è la stessa che fra la telecamera e lo specchio, perché lo specchio
raddoppia la distanza fra me e Raimondi. Dato che Raimondi non ha qualche
cosa di realmente prossimo da dire, siamo lontani il doppio. Non so se mi sono
spiegato.
158
MARIA ROSARIA BRONZETTI
Sì, perfettamente. A proposito dei problemi a cui ho accennato prima, in
questo caso ero dentro un camerino che sarà grande quanto da qui a lì, e non potevo mettere la telecamera altro che sullo specchio. Era un camerino piccolissimo del Teatro Comunale a Ferrara. Era l’unico modo per fare la ripresa, perché
il palcoscenico era sempre occupato e non potevo andare da nessun’altra parte
se non nel camerino di Raimondi che era, praticamente, un buco, un ascensore.
ILIO CATANI
Sono i problemi di sempre. Vorrei sottolineare il carattere tra il documentaristico e il «promozionale» – anche se non vorrei usare questo termine – ecco, l’«assaggio», vi facciamo vedere lo spettacolo nel caso vi possa interessare, quindi non
so se sia il caso di rintracciare nell’economia generale del filmato un’unitarietà,
come invece la si pretenderebbe dal Falstaff intero, dove ci sia un’idea che va sviluppata in tutte le sue componenti. Giustamente, come dice Jean-François Jung,
queste cose emergono ed è giusto che emergano: non c’è una chiara idea nell’ironia o nell’allegria dei personaggi femminili, beh lo si vede. Senza calcare troppo
la mano, sono state messe in evidenza delle carenze, ed è anche questo il nostro
compito, non deve essere semplicemente l’apologia di qualcosa o di qualcuno.
Non sappiamo quali siano gli esiti. Nell’individuare uno spettacolo da andare a riprendere, che si tratti di una prova o di uno spettacolo interoacquistiamo a scatola
chiusa, come si suol dire. Non sappiamo quali saranno gli esiti finali del nostro lavoro: può trattarsi di un buon lavoro, di una buona rappresentazione, oppure di un
allestimento così così, quindi a me sembra giustissima l’osservazione di Jung ma
anche complessivamente valida l’idea della trasmissione. Come avviene nella
realtà, fra le centinaia di «Prima della prima» ce ne saranno alcune migliori e altre
peggiori. Anche Gianni Di Capua ha ragione nel definire i limiti tecnico-realizzativi di una struttura: certo, a volte ci si adagia, non si riesce a mantenere il ritmo
ma questo dipende da una serie di fattori. Sarebbe giusta l’idea di sperimentare, di
dare la possibilità di creare nuove formule di linguaggio.
Effettivamente, tra i modi di riproduzione dell’opera che abbiamo visto ci
tenevo a mostrarvi quale sia lo sforzo della RAI nell’avvicinare il pubblico e
nel cercare di non far passare sotto silenzio gran parte degli spettacoli messi in
scena nei nostri teatri.
Detto questo, saluto nuovamente Maria Rosaria Bronzetti, e vi invito a
prendere un caffè prima di passare alle ultime battute del nostro Seminario.
SERGIO MICELI
Scusate, vorrei fare una mozione d’ordine anche se l’atmosfera è amichevole. C’era una lista di persone che si erano prenotate per parlare, e prima o poi
dovremo rispettarla!
ILIO CATANI
Certo, la mozione è approvata. Se approvate anche l’idea del caffè ci vediamo qui fra dieci minuti.
(pausa caffè)
ILIO CATANI
Aspettiamo il rientro in sala di qualcuno dei nostri amici che ancora si intrattiene fuori. Ricordavo qualche istante fa con Fausto Razzi, a proposito della
159
trasmissione che abbiamo visto («Prima della prima»), dai modi di riproduzione in video ma anche di presentazione dell’opera lirica, che c’è stato recentemente sul Primo canale della RAI il programma di Antonio Lubrano «All’opera», non so se si chiamasse così. Si tratta della presentazione di un’opera in
sintesi, una formula agile, non impegnativa dal punto di vista del tempo, uno
dei tanti modi. Sono tentativi che dovrebbero portare a ripensamenti, a verifiche. Capire a chi piace, perché, come. Prego, la parola a Sergio Miceli.
SERGIO MICELI
In realtà, è passato tanto tempo da quando ci siamo iscritti a parlare che il
discorso si è di nuovo «raffreddato» e sarà molto più breve di quello che avevo
previsto per lasciare spazio, vista l’ora, a chi si era iscritto a parlare dopo di me.
Parto dall’intervento di Fausto Razzi che, come al solito, secondo me è ricco di stimoli, in questo caso in modo particolare perché ha toccato tanti punti
veramente nodali, che stanno alla base del nostro problema. Tu stesso, Ilio
[Catani, N.d.R.], e anche altri nel corso di questi lavori hai preso «Che gelida
manina» come emblema di qualche cosa che non stimola reazioni nei giovani
perché non hanno più, nei confronti di questa semplice citazione un minimo di
liberazione... Io vorrei ricordare che forse il processo di demitizzazione viene
dal cinema americano degli anni Sessanta, quello non allineato con le grandi
produzioni di Hollywood, in cui Garfunkel (quello del duo con Paul Simon) intonava «Che gelida vagina»: quello è probabilmente il segno di un disinteresse
totale nei confronti di qualche cosa che è mitico soltanto per noi, come memoria
storica, ma non certamente per i giovani che quel cinema leggeva perfettamente,
e interpretava negli istinti e nei desideri. Erano gli anni della contestazione.
Per quanto riguarda, più puntalmente, i tanti (direi troppi ma inteso come
complimento) stimoli che sono venuti da Razzi, ha citato il discorso di Evangelisti, di Nuova Consonanza. Io vorrei ricordare un altro nome che è stato
fatto durante questi lavori, quello di Hansjörg Pauli. Invito a rileggere l’opuscolo che l’I.R.TE.M. ha dato ai partecipanti dove si possono verificare alcune
presenze costanti, e soprattutto la sua, che è stato per anni presidente dei nostri
seminari. Tu, Ilio, te lo ricordi benissimo. Insieme ai colleghi provenienti da
tutti i paesi abbiamo cercato di affrontare i problemi dell’opera in film e
dell’opera in televisione. Vorrei ricordare che Pauli non è qui fra noi perché
gravemente malato da diversi. Vorrei ricordare, ricollegandomi al discorso
che faceva Razzi, che il fenomeno Nuova Consonanza, il gruppo di improvvisazione, è stato per la prima volta oggetto di attenzione e di interesse di un documentario bellissimo, raro, di cui ho il privilegio di possedere una copia. È
stato Pauli a girarlo, in Germania. Il primo, che riporta anche alcuni frammenti dei concerti all’Accademia d’Arte Contemporanea, con interviste fatte come
le poteva fare un musicista e un musicologo quale è Pauli, le due cose non
vanno spesso insieme. È anche un uomo con grandi interessi e capacità nel
mondo del cinema. Ricordo, per esempio, la sua proposta provocatoria, che
cadrebbe benissimo nei discorsi che abbiamo fatto in queste ore insieme, che
porto anni fa, di un concerto che lui aveva filmato non ricordo se in Svizzera o
Germania, in cui aveva tenuto rigorosamente la cinepresa (non era televisione,
era un film) al centro della sala, e non l’aveva mossa dall’inizio alla fine del
concerto, lasciando un punto di osservazione «oggettivo», contro le diverse invenzioni i diversi modi di anteporre o posporre ritmi visivi... Era una provocazione, la sua, ma era sicuramente frutto di grandi stimoli. Quindi confermo –
anche se non ce ne sarebbe bisogno, dopo l’intervento di Razzi – che questo
fenomeno, Evangelisti, Nuova Consonanza, hanno avuto e continuano ad avere molta più eco in Germania, soprattutto, ma comunque non in Italia, di quan160
to ce ne sia da noi. Evidentemente questi venti, trenta, quarant’anni non sono
serviti a nulla.
Quanto al discorso che mi ha molto colpito, nel senso che non mi era nuovo ma mi piace sentirlo proporre con questa lucidità dall’esterno, che Berio è
«vecchio», che c’è una visione retorica delle cose, io continuo a sostenerlo anche in sede didattica. Proposte ce ne sono state, all’inizio del secolo, nei primi
venti-trent’anni, e queste proposte si chiamano Histoire du Soldat, di Stravinskij, oppure i lavori di Weill. E non credo che queste proposte siano state raccolte. Io ho sperato che, in anni di grande fervore produttivo da parte di molti
compositori italiani, ci fosse un tentativo di raccogliere questo messaggio e di
svilupparlo. Secondo me, una formula come quella dell’Histoire du soldat è
ancora tutta da verificare. Se non lo si vede qualche volta in qualche interpretazione di regia televisiva, lo abbiamo visto anche qui, in questi giorni, in cui
viene fuori un altro nome che non è stato fatto e che mi pare giusto fare: Piscator [Erwin Piscator (1893-1966), N.d.R.] con la sua concezione di uno spazio
globale in cui cinema, teatro, musica, mimo, pantomima e danza si mescolano.
È un po’ scoprire l’acqua calda ma ben venga se può essere fonte di stimoli.
In ultimo, per quanto riguarda l’intervento di Maragoni oltre che quello di
Razzi, sul modo di sentire la musica dei viennesi, tanto per prendere questo
modello, sono d’accordo con le riserve di Razzi ma vorrei soltanto aggiungere
citando un verbo toscano, che dice «Beati gli orbi in terra dei ciechi». Grazie.
ILIO CATANI
Grazie, Sergio. Francesca Nesler era iscritta a parlare ma è dovuta partire,
il prossimo iscritto quindi è Acquafredda. Prego.
PIETRO ACQUAFREDDA
Sono stato contento di constatare, essendo potuto venire soltanto oggi, che
Catani abbia accennato a questo esperimento di «All’opera», l’esperimento
promosso da e andato in onda su Raiuno del quale sono stato autore insieme a
Lubrano e alla Serantoni, e che ha avuto un discreto successo di pubblico rispetto alle aspettative. Siccome si tratta di un seminario in cui si parla di come
portare l’opera in TV, credo che qualche cosa su questa trasmissione in questo
Seminario andasse detto, perché mi pare che sia stata escogitata – e con sorpresa di tutti abbia avuto un grande successo – una formula che senza stravolgere
nulla parte da un dato di fatto e cioè che, bene o male, le arie più celebri delle
grandi opere di repertorio in Italia moltissime persone le conosce. Partendo da
questo dato di fatto, senza trucchi e senza molti ammennicoli elettronici, ecc.,
con un’operazione semplicissima si è tentato di riannodare le fila di tutte queste
arie o di pezzi presi dalle opere attraverso un racconto, il quale racconto non
portasse per la sua eccessiva tecnicità a ridurre ancor di più il pubblico che, per
questo tipo di trasmissione, in televisione è già sufficientemente ridotto. Quindi
si è raccontata una storia, dicendo chiaramente che noi partiamo da questo dato
di fatto: le arie più celebri tutti le conoscono, probabilmente la gran parte di
quelli che conoscono le arie non conoscono la storia da cui nascono queste arie,
raccontiamo la storia e facciamo ascoltare le arie più celebri. E questo ha sorpreso tutti, per il successo che ha avuto. Si è discusso, non so se ne avete parlato ma io purtroppo non potevo essere presente a causa di altri impegni, si discute spessissimo (anch’io l’ho fatto tante volte) sul perché la musica non
debba andare in TV in prima serata. Si è visto anche con i leggeri scarti che noi
abbiamo avuto, andando invece in seconda serata, che la prima serata non ebbe
questo tipo di cosa e che, anzi, quando per ragione legate alla trasmissione pre161
cedente, si doveva appena appena posticipare, ma sempre nell’ambito della seconda serata non in notturna, le cose andavano molto meglio. E si è anche visto
che il grande repertorio era ed è ancora molto amato. Noi, per esempio, abbiamo
inserito nel ciclo un bellissimo spettacolo trasmesso da Napoli (del quale aveva
effettuato le riprese Ilio Catani), il Don Pasquale con la regia di De Simone, che
era una delizia, dove i protagonisti erano di una bravura, Elisabeth NorbergSchultz era di una bravura anche di attrice, oltre che di cantante. Il titolo Don
Pasquale non è molto conosciuto, nonostante lo spettacolo fosse bello. Traviata,
Bohème, Aida, Butterfly (quest’ultima non l’abbiamo trasmessa) sono andate benissimo, addirittura con punte del 13% di share che non esiste mai per nessuna...
cioè, quelle stesse opere mandate secondo la nostra formula... Manon, che abbiamo mandato secondo la nostra formula, è andata poi in un’altra fascia oraria
per intero diretta credo da Muti e credo che abbia fatto 200.000-300.000 spettatori. Nella nostra trasmissione ne ha fatti oltre un milione, la stessa opera con lo
stesso direttore e gli stessi interpreti. La stessa messa in scena e lo stesso spettacolo, presentato in quella maniera per la durata complessiva di 55 minuti, di cui
dieci erano di parlato e il resto, quindi la gran parte, era di musica ha avuto questo riscontro. Ora pare che si dovrebbe fare un secondo ciclo... ma questo però
non si sa ancora e poi, quando finiranno le opere del grande repertorio una trasmissione di questo genere è ancora proponibile? Questo è il problema.
Percui, quando ho visto «Prima della prima», dicevo che uno che viene
dall’estero e assiste a una trasmissione del genere messa in onda dalla TV italiana pensa che in Italia esista un’effettiva passione per l’opera e una presenza
dell’opera in TV così forte che le persone non solo sono informate attraverso
dei settimanali o riviste televisive di quello che avviene in Italia nell’opera, non
solo assiste a e vede le opere per intero, ma vuole addirittura capire, entrare
dietro, capire quali sono i meccanismi e i segreti del palcoscenico. Il che, come
sappiamo tutti, non è vero. Percui questa trasmissione è una sorta di assurdo: è
una bella trasmissione sull’opera per un popolo che non conosce l’opera e non
la vede, è questo il problema. Scusate e grazie.
ILIO CATANI
Vorrei in parte rassicurare Acquafredda sulle eventuali «emozioni» dei colleghi stranieri: sono stati – come dicevano una volta alla radio – «i familiari
sono stati avvertiti»; sono stati prontamente avvertiti, i colleghi stranieri, che la
situazione in Italia non è molto florida. Abbiamo messo, come si suol dire, le
mani avanti.
L’esempio che è stato mostrato oggi – tra l’altro, nel leggere bene il programma dell’intero Seminario, non era prevista la visione di «Prima della prima», anche perché si è cercato di attenersi esattamente alla tematica «Modi di
riproduzione in video dell’opera lirica». Ad Acquafredda dico che, prima che
tu venissi, avevo detto un’altra problematica non è quella della riproduzione
ma è della presentazione, cioè di come confezionare il programma video. Allora, il «Prima della prima» e «All’opera» rientrano forse in questa seconda categoria: come poter avvicinare nuove fette di pubblico. Certo, quando saranno finite le grandi opere di repertorio si inventerà un’altra formula in cui sarà
possibile inserire anche il Don Pasquale senza che per questo cali l’interesse
del pubblico.
FAUSTO RAZZI
Si inventerà un’altra formula per ripetere ancora Bohème, Aida, ecc. perché
questo è il pane quotidiano dei melomani.
162
ILIO CATANI
Come si diceva «non raccogliamo la provocazione!».
(risate dal pubblico)
Non ci sono solamente le formule tipo Aida, perché se per ipotesi – mi riferisco a come si fanno le compilation, oggi: nei dischi e nei CD, si riesce a inserirci anche un brano poco conosciuto (penso anche al nostro repertorio classico). «Il celebre pianista esegue» questo e quello, e poi mette dentro il
pezzettino di Ilio Catani... Nulla esclude che in una trasmissione dedicata alla
lirica che va in video, anziché prendere la formula de «il meglio dell’Aida» si
possa andare per idee trasversali e poter mettere benissimo La carriera di un libertino o più avanti, fino a cose poco conosciute o recentissime.
PAOLO MARAGONI
Come disse George Bernard Shaw a quella signora londinese che, volendo
essere chic, gli chiese se le dava delle lezioni per introdurla al mondo dell’opera, non essendo lui assolutamente interessato a perdere il suo tempo: «Signora,
è molto semplice, glielo spiego adesso. Tutte le opere rispondono a un unico
meccanismo: un soprano e un tenore che vogliono andare a letto e un baritono
che non è molto d’accordo».
(risate dal pubblico)
È una boutade di George Bernard Shaw che allora era molto più famoso
come critico musicale e teatrale che come autore e saggista. Forse siamo alla
frutta. Facciamo una trasmissione che si chiama, in onore di Shaw, «Le mille
varianti su questo schema».
XOÁN M. CARREIRA
Io sono un po’ perduto questa mattina perché tutto il tempo ritornano problemi che appartengono alla memoria dell’identità italiana: il problema dell’opera non come tradizione ma come storia culturale. Invece credo che oggi
non sia questo il problema dell’opera in televisione, il problema è come fare
creare uno spazio per l’opera in televisione come offerta culturale. Vedo che
quest’offerta culturale è più potente oggi che dieci anni fa. La sezione più consultata del mio giornale in Internet è quella dedicata all’opera in Europa, e ogni
giorno vengono pubblicati gli orari delle diverse proposte operistiche sui canali
tematici europei. Il giornale per il quale lavoro è in spagnolo, ma si rivolge a
tutto il pubblico, e c’è una fortissima domanda per questa sezione, tanto che è
la sezione più consultata del giornale stesso.
Credo che in questa sessione, a causa dell’assenza dei colleghi di area tedesca e anglofona, si siano fatti discorsi riferiti all’identità, molto importanti, ma
il problema dell’identità deve rimanere separato dalla realtà sull’espansione
della domanda e dell’offerta operistica in assoluto. Credo che sia in atto
un’espansione reale e che la questione centrale del Seminario sia fondamentale
perché la riflessione sul come comunicare è di una grande importanza, perché
abbiamo una proposta culturalemtne importantissima e un mercato di enorme
importanza economica.
Bisogna però mantenere il discorso distinto dal problema identitario, paragonabile a quello che vi ho raccontato si sta discutendo nel convegno sull’opera spagnola a Madrid. La riflessione identitaria non ha alcuna ripercussione
sulla reale evoluzione del mercato e dell’offerta. Dobbiamo tenere separate le
due cose.
163
ILIO CATANI
Sono d’accordo sulla distinzione, perbacco! Però, comunque, sono due argomenti e due mondi che si influenzano. Possiamo considerarli, ciascuno,
come un problema a sé ma poi finiscono per essere interdipendenti. Si tratta di
metterli d’accordo, di risolvere questa dicotomia.
PAOLO MARAGONI
A riprova di quello che dice Ilio Catani, c’è il fatto... chi potrebbe pensare,
in Europa, di non vendere una partita di calcio in diretta, in televisione. Negli
Stati Uniti, hanno gravissimi problemi ancora oggi a vendere il soccer perché
non risponde né a un’identità né a una domanda. Però si potrebbe costruire un
interesse, invece non sono riusciti neanche in questo. A quel punto diventa difficile piazzarlo in televisione, anche alle due di notte.
ILIO CATANI
La parola a Di Capua.
GIANNI DI CAPUA
Io mi volevo riferire alla trasmissione del signor Acquafredda, quindi slitto
indietro. Sono una domanda, a proposito della formula. Ho visto un paio di
puntate della trasmissione, e devo dire che per sobrietà e per eleganza, è una
proposta televisiva esemplare. Volevo sapere una cosa circa il conduttore, Antonio Lubrano, che da Telemontecarlo è tornato in RAI; vorrei sapere se questo
passaggio è stato preso in considerazione nel momento in cui è stato scelto Lubrano. E poi, quanto la trasmissione poggia sulla capacità divulgativa di Lubrano e se gli autori della trasmissione si siano posti il problema dell’identificazione dell’argomento «opera» con il volto familiare di Lubrano che era legato ad
altri. Capisco la raffinatezza della scelta, però il pubblico a casa ha un tipo di
percezione che alle volte lo confonde, non riesce a legare e a capire.
Premetto che Antonio Lubrano l’ho visto molte volte e so che è un grande
esperto di opera. L’ho anche incontrato spesso all’Arena di Verona, però questo lo so solo io.
PIETRO ACQUAFREDDA
Questa è una cosa tanto vera, che Lubrano mi ha raccontato, dopo quella trasmissione, che è stato invitato (non so se l’invitante qualifichi l’invitato) da Bruson a un concorso lirico. Si può essere degli appasionati, cosa che Lubrano è, ma
sfruttare il suo volto... Mi ha detto che è andato a Torre del Lago a vedere un’opera orrenda, e che a un certo punto è stato applaudito, quasi fosse appena sceso dal
palcoscenico. Questo è accaduto, ed è chiaro che si è sfruttato il volto e il pubblico
di Lubrano, l’operazione paga! Ma Lubrano all’inizio non c’entrava per niente nel
senso che questa trasmissione è stata pensata molto tempo prima, si è lavorato
molto tempo prima. Si è fatta la scelta delle opere in funzione e del repertorio e
anche dei diritti che la RAI aveva, perché praticamente questo primo ciclo in termini di diritti non è costato nulla. Una volta fatto tutto questo e una volta che io,
occupandomi dei tre autori di musica, avevo fatto la scelta dei brani e preparato
una sceneggiatura per poi calibrarla sui personaggi, è arrivato Lubrano che in quel
momento lasciava la RAI. Si è pensato, vista la sua passione per l’opera, di farlo
tornare e si è pensato di affidargli questa trasmissione, il che ha giovato alla trasmissione stessa. Ma, inizialmente, non si sapeva ancora né chi avrebbe dovuto
164
presentare, né se il presentatore sarebbe stato lui. Si era pensato ad altri nomi, si
era pensato addirittura di affidare il racconto a volti e voci molto conosciuti in televisione e, tenendo presente che un personaggio poteva essere legato a una particolare opera, per esempio Monica Vitti per Tosca, personaggi di questo genere. Si
era pensato a Benigni per Il barbiere di Siviglia, il che avrebbe introdotto nella
trasmissione un varietà ma avrebbe reso la lavorazione molto più difficoltosa, perché bisognava trovare il momento in cui queste persone erano libere, ecc. Poi si è
pensato che, tutto sommato, identificare la trasmissione con un solo volto, tra l’altro molto popolare anche se passato all’antipopolarità da che era passato a Telemontecarlo, poteva essere una formula abbastanza giusta.
GIANNI DI CAPUA
Non c’è il rischio di legare la trasmissione a un volto, e quindi una volta
che questa esaurisce la sua proposta dal punto di vista del format, diventa difficile poi riproporre un nuovo formato? Un’altra domanda: quando avete pensato
a questa trasmissione, cosa vi siete sentiti rispondere alla RAI?
PIETRO ACQUAFREDDA
La trasmissione è nata dalla stessa fonte da cui è scaturita «Prima della prima», uno dei dirigenti di Raiuno, credo il dottor De Luca e Paolo Gazzara: sono
loro alla base di questa, con la formula del «conoscono le arie, raccontiamogli
la storia». In fondo le opere sono le telenovelas dell’Ottocento, era questa la
formula. Il problema non è tanto quello della troppa identificazione della trasmissione con Lubrano, il problema è quello di farne ancora altri cicli. Hanno
assicurato di si, perché, ripeto, questi share non si erano mai avuti per trasmissioni di questo genere. Speriamo che li facciano, perché il problema più grave è
questo. Il secondo ciclo è già stato programmato perché c’è stata una «rivolta»
in favore della trasmissione, a partire dalla Melandri, tutti ne hanno tessuto le
lodi. La promessa è che si farà il secondo ciclo negli stessi tempi di lavorazione
del primo per essere messo in onda d’estate, ma ancora non è successo nulla.
GIANNI DI CAPUA
L’importante è che si continui a fare la trasmissione non perché c’è Lubrano, ma per i contenuti.
ILIO CATANI
Grazie. In conclusione volevo affrontare, su opportuna e giusta sollecitazione da parte di un collega, un aspetto fondamentale di cui non si è parlato ma
che ritengo possa essere inserito a pieno titolo fra gli argomenti di questo Seminario. Abbiamo parlato di riproduzione in video dell’opera lirica, non per
occuparci solamente dell’aspetto visivo e poi parliamo di opera lirica, la cui
componente fondamentale è quella sonora, quindi non abbiamo volutamente
affrontato il problemi degli aspetti audio propriamente detti, che meriterebbero
delle considerazioni a parte. Però, il collega Claudio Gatti, che si occupa di riprese audio nella lirica voleva dire qualcosa.
CLAUDIO GATTI
Volevo riportare il discorso sul tema della riproduzione audio, anche in
confronto ai problemi inerenti alle riproduzioni di cassette. Per me dovrebbero
165
esserci due modi per fare una ripresa video di un’opera lirica: una quella di documentazione di quello che fa il regista teatrale, da mettere via, da far vedere in
cordi universitari del DAMS per tante ragioni, non come è stato fatto da Greenaway con una camera, anche con 4-5 camere ma sempre dal punto di vista
dello spettatore. Questo, dal punto di vista audio, vuol dire riprendere l’opera
come si sente in sala. Quando si va, invece, a fare altre operazioni che sono
quelle del homevideo live, dovrebbero esserci dei modi per fare l’audio, perché
anche parlando con i maestri, anche loro nell’ascolto non accettano più la soluzione di un microfono appeso ma vorrebbero sentire le singole sezioni orchestrali. Anche nelle riproduzioni dei film c’è il surround, alcuni film avuto successo anche grazie ai suoni: lo scoccare della freccia di Robin Hood deve
essere un tonfo, si deve sentire la corda che si tende. E così, anche nella musica, il giovane non accetterebbe più il suono del violino, lo vorrebbe più pieno.
L’altra sera ascoltavo il Zarathustra di Strauss a Santa Cecilia, in cui ci sono
due arpe. L’arpa non si sente, nel pieno musicale; nel disco questo è improponibile, l’arpa si deve sentire. Quindi, quando si riproduce un’opera perché è
scontato che il suono c’è. Chiedo a Gianni [Di Capua, N.d.R.] se si sia interessato alla ripresa audio dei suoi lavori ma non penso che l’abbia fatto, perché è
dato per scontato che l’audio sia un fatto separato dalla televisione. Allora,
quando poi vai a vedere l’opera in homevideo e non c’entra niente con l’audio,
lo si percepisce subito! Nella prima giornata abbiamo visto vari esempi del
Barbiere, e c’era quello in cui i due personaggi che cantavano sullo stesso piano, uno era avanti e l’altro dietro, con un microfono che si trovava in un’altra
stanza. Ci deve essere un legame tra la parte visiva e il suono. Ce ne scordiamo, sembra che siano due entità separate.
Questo è il mio piccolo apporto: le tecniche cambiano, la confezione dovrebbe essere completa.
ILIO CATANI
Grazie. Ci suggerisce un tema da poter approfondire in sede competente.
La tecnologia di oggi ci dà la possibilità di adeguarci a queste esigenze.
Un’informazione: oggi le riprese audio delle opere liriche – mi è accaduto diverse volte negli ultimi tre-quattro anni di attività – non vengono più fatte con
registrazione su 1/4 di pollice, percui automaticamente quello che abbiamo sulla
banda video viene utilizzato anche in sede di montaggio. La ripresa audio avviene con un sistema multipiste, percui va «remixato» il tutto e, alla fine, riaccoppiato sul montato del video, il che è un’operazione abbastanza complessa
che porta a risultati a volte perfetti, ciascuno nel proprio ambito: il video è bellissimo, l’audio è magnifico però, come dice giustamente Claudio Gatti, non
segue la direzione da cui proviene il suono. Sono problematiche, credo, che la
regia video non si è posta in maniera molto seria. Gianni Di Capua voleva intervenire?
GIANNI DI CAPUA
Volevo aggiungere qualcosa ma l’hai già fatto tu. Per Guerra e pace io sapevo che avevamo un’uscita stereo perché usavamo il sonoro della diretta radiofonica Paolo è testimone di questa produzione, che non ho mai visto, da parte dei tecnici RAI, una mimetizzazione di tutto l’apparato dei microfoni
assolutamente invisibile. Ci sono stati i signori della casa discografica inglese
che arrivarono e misero i loro microfoni, disturbando la ripresa televisiva, e noi
ci impuntammo e pretendemmo che venissero tolti quei microfoni. Infatti lo
spettacolo iniziò con mezz’ora di ritardo, ci fu un grosso conflitto.
166
Per quanto riguarda la parte sonora, noi adesso con i concerti di Nono La
Floresta – e voi sapete quanto Luigi Nono pone nella questione della spazializzazione – abbiamo registrato il suono in digitale a otto piste, anche per prefigurarne un utilizzo in DVD. Quindi, oggi è impensabile fare una ripresa sonora
senza pensare alla sua destinazione futura: non bisogna più pensare in stereofonia, bisogna pensare in sei-otto canali.
Con Maddalena Novati abbiamo lavorato una settimana – io ho fatto tre
settimane di montaggio solo video – e con Maddalena della sede RAI di Milano abbiamo lavorato una settimana soltanto per la distribuzione, dell’organizzazione del suono in rapporto all’immagine. Siccome io faccio largo uso di dissolvenze, immaginate voi quanto più complesso diventa il procedimento degli
incroci e dei volumi. Credo, a contributo anche di quello che si è detto a proposito del DVD, oggi è impensabile...cioè bisogna assolutamente predisporre la
ripresa video per la ripresa stereofonica, otto canali, sei canali. Bisogna pensare
alla musica in senso di spazio e la registrazione va predisposta in questo senso,
non si può più pensare in stereofonia.
ILIO CATANI
Ultima considerazione a Paolo Maragoni.
PAOLO MARAGONI
Questo tutti possiamo dire che è ovvio. Rimane il fatto che poi bisogna trovare... o un genio trova la risoluzione perfetta, la quadratura del cerchio, o bisogna fermarsi a un certo punto. Non voglio dire che non bisogna avere maggior
rispetto per i problemi dell’audio, voglio dire che in questo accoppiamente anche virtuale, progettuale, mi veniva in mente che lo stesso problema (anzi più
gravemente) esiste nella ripresa del concerto. Se in teatro, bene o male, c’è il
ricordo di una ripresa frontale, di una parete di fondo, nel concerto da molti
anni abbiamo imparato a fare tagli a 45°, controcampo puro e semplice per il
direttore d’orchestra, o larghissimo in controcampo col direttore in mezzo a tutta l’orchestra e il fondo sotto tono, col pubblico che si vede o non si vede. In
quel caso io mi sono sempre chiesto: se noi sentiamo chiaramente, all’inizio
del concerto su un totale, l’impostazione stereo coi violini ben chiari a sinistra
e i contrabbassi ben chiari a destra, per dire la cosa più semplice, un tecnico
che apra molto in una grande sala con un gran suono d’orchestra l’apertura è
notevole. Al primo controcampo noi continueremo a sentire i contrabbassi a
destra e i violini a sinistra, quando li vedremo chiarissimamente, se il controcampo è largo, nella posizione opposta. Ora, in diretta il tecnico non può fare
una cosa del genere. Sempre a proposito di Tosca mi ricordo che erano radiomicrofoni, quindi chiaramente che fosse campo lunghissimo (tutta la navata di
Sant’Andrea) o che fosse primissimo piano del Sagrestano, non c’erano campi
come si dice al cinema. In diretta era più che ovvio, però siamo andati apposta
per diciotto giorni in post-produzione audio per lo homevideo in modo da rendere possibile il rimissaggio dei campi. Non è un fatto automatico, quindi vale
la pena di parlarne; è giusto tenerne conto ma non è così semplicistico. Ci sono
notevoli problemi pratici.
ILIO CATANI
Alla fine di ogni Seminario arriviamo sempre alla stessa conclusione, che
gli scenari sono aperti, anzi abbiamo inizato aprendo un sipario e finiamo
aprendone tanti altri e, magari, non avendo chiuso quello per i quale ci erava167
mo riuniti. Mi dispiace, lo ripeto ancora una volta, che non ci sia Carlo Marinelli per fare delle conclusione sulla sostanza. Io mi sono limitato a fare un po’
il «bidello» durante la ricreazione, suonando la campanella per invitarvi a ritornare in sala: non me ne vogliate. Credo che sia arrivata l’ora di salutarci, ringraziare tutti coloro che sono intervenuti e chge hanno partecipato attivamente
e forse il solo fatto di partecipare è stata una prova di considerazione e di interesse nei riguardi del tema. Speriamo di ritrovarci tutti ancora una volta in occasione di altre tematiche da affrontare su questo scenario che cerchiamo di tenere aperto il più possibile. Grazie a tutti.
(applausi)
168
ELENCO
ALFABETICO
DEI
NOMI DI PERSONA
CITATI
Abbado, Claudio, pp. 6, 29, 153, 155, 156.
Acquafredda, Pietro, pp. 161, 162, 164, 165.
Adorno, Theodor Wiesengrund, p. 121.
Agnelli, Giovanni (Gianni), p. 77.
Alagna, Roberto, pp. 69, 70.
Amato, Giuliano, p. 111.
Angela, Piero, p. 79.
Aravantinós, Panos, pp. 88, 89.
Arias, Alfredo, p. 31.
Arne, Thomas Augustine, pp. 41, 49.
Arruga, Lorenzo, p. 112.
Auber, Daniel-François-Esprit, pp. 46, 54.
Aulenti, Gae, p. 6.
Bagnasco, Arnaldo, p. 113.
Balestra, Renato, p. 114.
Bardem, Juan Antonio, p. 36.
Baricco, Alessandro, pp. 76, 79, 82, 83, 140,
141, 146.
Bartók, Béla, p. 137.
Bartoli, Cecilia, pp. 96, 98, 103, 106.
Baseggio, Cesco, p. 30.
Baudo, Giuseppe (Pippo), p. 139.
Bedford, Stewart, pp. 42, 50.
Bellingardi, Luigi, pp. 82, 83.
Bellini, Vincenzo, pp. 34, 73, 74, 121.
Benigni, Roberto, p. 165.
Benz, Gerhard, p. 88.
Berg, Alban, p. 71.
Bergman, Ingmar, p. 122.
Berio, Luciano, pp. 135, 149, 150, 161.
Bizet, Georges, pp. 44, 52, 53, 68.
Blegen, Judith, pp. 98, 106.
Blow, John, pp. 41, 49.
Bocelli, Andrea, pp. 115, 148.
Boddeke, Saskia, p. 88.
Borodina, Olga, pp. 96, 103.
Borrelli, Francesco Saverio, p. 115.
Bosch, Hieronymus, p. 92.
Boulez, Pierre, p. 73.
Brabin, Charles, p. 54.
Brahms, Johannes, p. 136.
Brandes, Werner, p. 89.
Brecht, Bertolt, pp. 110, 111, 121.
Breugel, Pieter, p. 92.
Britten, Benjamin, pp. 4, 42, 50, 71, 137,
152.
Bronzetti, Maria Rosaria, pp. 81, 152,
153, 154, 155, 156, 157, 158, 159.
Bruson, Renato, p. 164.
Caballé, Montserrat, p. 72.
Caccini, Giulio, p. 110.
Cagli, Bruno, pp. 112, 136.
Callas, Maria (vide Kalogeropoulos, Maria).
Carlo X, re di Francia, p. 7.
Carreira, Xoán M., pp. 28, 34, 35, 37, 136,
137, 145, 151, 152, 163.
Carreras, José, pp. 15, 21.
Castaldo, Gino, p. 150.
Castiglione, Enrico, p. 114.
Catani, Ilio, pp. 4, 8, 13, 19, 25, 27, 28,
34, 37, 67, 74, 75, 76, 78, 79, 80, 83, 84,
87, 93, 109, 112, 114, 115, 116, 119, 120,
122, 123, 129, 132, 133, 135, 136, 137,
138, 139, 140, 141, 145, 146, 147, 148,
149, 151, 152, 153, 154, 157, 158, 159,
160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167.
Ceciarelli, Maria Luisa, p. 165.
Celli, Pier Luigi, p. 111.
Chapí, Ruperto, p. 137.
Chaplin, Charles Spencer, pp. 45, 54.
Chéreau, Patrice, pp. 58, 62, 63, 67, 70,
71, 72.
Cherubini, Lorenzo, p. 110.
Chopin, Fryderyk, p. 82.
Claudel, Paul, pp. 88, 89, 91, 92, 93.
Coates, Albert, pp. 41, 48.
Colombo, Cristoforo, pp. 35, 89.
Concetti, Andrea, p. 156.
Confalonieri, Giulio, p. 31.
Conte, Paolo, p. 135.
Costa, Mario, p. 30.
Croft, Dwayne, pp. 96, 103.
Czinner, Paul, pp. 47, 48, 56.
Dandini, Serena, p. 113.
Dante Alighieri, pp. 16, 22, 123.
Da Ponte, Lorenzo, pp. 61, 66.
Dara, Enzo, p. 6.
Davico Bonino, Guido, p. 114.
David, Franz Peter, p. 88.
De Bosio, Gianfranco, p. 73.
Debussy, Claude, p. 71.
de Goya y Lucientes, José Francisco, p. 92.
Del Colle, Tonino, pp. 81, 83, 84.
Del Monaco, Mario, p. 5.
De Luca, Giuseppe, pp. 45, 53, 165.
De Mille, Cecil Blount, pp. 44, 51, 52.
De Orduña, Juan, pp. 35, 36, 37.
De Pablo, Luís, p. 137.
De Simone, Roberto, p. 162.
De Taranto, Vito, p. 30.
Díaz, Consuelo, p. 152.
Dibdin, Charles, pp. 41, 49.
Di Caprio, Leonardo, pp. 34, 74.
Di Capua, Gianni, pp. 7, 8, 10, 27, 28,
30, 70, 74, 75, 76, 82, 83, 84, 123, 139,
171
140, 154, 155, 156, 157, 159, 164, 165,
166.
Dickens, Charles John Huffam, pp. 41, 48.
Döhring, Sieghart, pp. 87, 88, 93.
Domingo, Plácido, pp. 48, 69, 73, 95, 103.
Donizetti, Gaetano, pp. 5, 68, 73.
Duse, Eleonora, p. 72.
Eco, Umberto, p. 115.
Edison, Thomas Alva, pp. 43, 50, 51.
Enriquez, Franco, pp. 4, 5.
Erben, Susan, pp. 14, 20, 87, 93, 94, 109,
123, 130, 132.
Eriquel, Frank, p. 30.
Evangelisti, Franco, pp. 149, 150, 160.
Farrar, Geraldine, pp. 44, 45, 52, 53, 68.
Fawkes, Richard, pp. 41, 77.
Fellini, Federico, p. 79.
Felsenstein, Walter, p. 83.
Ferdinando re d’Aragona, p. 35.
Ferrara, Franco, p. 30.
Ferro, Gabriele, p. 30.
Filippo II, re di Spagna, p. 36.
Fleming, Renée, pp. 96, 103.
Floyd, Carlisle, pp. 70, 71.
Fo, Dario, pp. 32-33.
Fornaciari, Adelmo, pp. 113, 114, 115,
136.
Fornaciari, Zucchero (vide Fornaciari,
Adelmo).
Franci, Francesca, p. 30.
Francioli, Armando, p. 30.
Freni, Mirella, pp. 15, 20, 96, 103.
Friedman, ?, pp. 17, 23.
Friedrich, Götz, pp. 125, 126, 127, 140.
Gallo, Fortunio, pp. 46, 54.
Gallone, Carmine, pp. 46, 48, 54, 56.
Gance, Abel, p. 71.
Garfunkel, Art, p. 160.
Gasdia, Cecilia, pp. 6, 7.
Gatti, Claudio, pp. 165, 166.
Gay, John, pp. 41, 49.
Gazzara, Paolo, p. 165.
Gemma, Irene, p. 30.
Gentle, Alice, pp. 46, 54.
Gergiev, Valerij, p. 96.
Gesualdo Carlo, principe di Venosa, p. 79.
Gesualdo da Venosa (vide Gesualdo Carlo, principe di Venosa).
Gheorghiu, Angela, pp. 69, 70.
Gigli, Beniamino, pp. 45, 53.
Giordano, Umberto, p. 71.
Giuliani, Massimo, p. 114.
Giulini, Carlo Maria, p. 4.
Gobbi, Tito, pp. 30, 46, 55, 68, 69, 72, 77.
Goethe, Johann Wolfgang, pp. 16, 22.
Goldwyn, Sam, pp. 44, 45, 51, 52, 53.
Gorčakova, Galina, pp. 96, 103.
Gounod, Charles, pp. 41, 49.
Goya, Francisco (vide de Goya y Lucientes, José Francisco).
Grasso, Aldo, p. 157.
Greenaway, Peter, pp. 88, 91, 92, 93, 166.
Halffter, Cristóbal, p. 137.
Hammerstein, Oscar, pp. 45, 53.
Händel, Georg Friedrich, pp. 59, 64.
Harnoncourt, Nikolaus, p. 74.
Heister, Hanns-Werner, pp. 74, 75, 82,
119, 120, 123, 139, 141, 154.
Hersey, David, p. 9.
Honegger, Arthur, p. 89.
Hört, Franz Ludwig, pp. 88, 89, 91.
Humperdinck, Engelbert, pp. 42, 50.
Hurko, Roman, p. 8.
Hvorostovskij, Dmitrij, pp. 96, 103.
Ingalls, James F., p. 60, 65.
Isabella, regina di Castiglia, p. 35.
Jacobs, René, p. 25.
Janáček, Leoš, p. 71.
Jordan, Philippe, p. 88.
Jovanotti (vide Cherubini, Lorenzo).
Jung, Jean-François, pp. 75, 123, 124,
129, 140, 145, 148, 158, 159.
Kabaiwanska, Raina, p. 73.
Kalogeropoulos, Maria, pp. 14, 20, 69, 72,
73, 154.
Kleiber, Carlos, p. 147.
Kleiber, Erich, p. 88.
Korda, Alexander, pp. 46, 54.
Krause, Tom, p. 154.
Landi, Gino, p. 5.
Landini, Giancarlo, pp. 13, 28, 29, 34, 81,
93.
Lanfranchi, Mario, p. 5.
Lang, Fritz, p. 88.
Large, Brian, pp. 58, 59, 62, 63, 64, 67.
Lasky, Jessy, pp. 44, 45, 51, 52, 53.
Lehár, Franz, p. 4.
Leonardo da Vinci, p. 126.
Leoncavallo, Ruggero, p. 121.
Levine, James, pp. 96, 104.
172
Liebermann, Rolf, pp. 47, 55.
List, Emanuel, p. 88.
Lollobrigida, Gina, p. 68.
Loren, Sophia (vide Scicolone, Sofia).
Losey, Joseph, pp. 47, 55, 69, 73, 79.
Lubrano, Antonio, pp. 160, 161, 164, 165.
Lumière, Auguste Marie Louis Nicholas,
pp. 43, 50.
Lumière, Louis Jean, pp. 43, 50.
McCormack, John, pp. 46, 54.
MacNeil, Cornell, p. 32.
Maderna, Bruno, pp. 4, 5.
Magriñá, Juan, p. 37.
Magritte, René, p. 120.
Mahler, Gustav, p. 152.
Maragoni, Paolo, pp. 76, 78, 83, 133, 147,
148, 149, 153, 161, 163, 164, 167.
Marcello, Benedetto, pp. 26, 115.
Marco, Tómas, p. 137.
Marinelli, Carlo, pp. 3, 7, 10, 13, 82, 87,
115, 138, 145, 168.
Mariotti, Alfredo, p. 30.
Marsalis, Branford, pp. 130, 131.
Marshall, Everett, pp. 46, 54.
Martinelli, Giovanni, pp. 45, 53.
Martínez Sierra, Gregorio, p. 37.
Martin y Soler, Vicente, p. 25.
Marzotto, Marta, pp. 114, 115.
Mastrocinque, Camillo, p. 30.
Matisse, Henri, p. 80.
Matteuzzi, William, pp. 6, 30, 31.
Maurel, Victor, pp. 43, 50.
Melandri, Giovanna, p. 165.
Menotti, Giancarlo, pp. 8, 70, 71.
Miceli, Sergio, pp. 78, 83, 109, 110, 116,
121, 123, 130, 131, 137, 138, 140, 141,
145, 146, 147, 159, 160.
Mila, Massimo, p. 146.
Milhaud, Darius, pp. 87, 88, 89, 91, 92,
93, 122, 134.
Milnes, Sherrill, p. 73.
Minnelli, Vincent, p. 37.
Moffo, Anna, p. 5.
Moll, Kurt, pp. 98, 106.
Monteverdi, Claudio, pp. 25, 79.
Monti, Nicola, p. 30.
Montiel, Sara, p. 35.
Moore, Grace, pp. 46, 54, 71.
Moritz, Rainer, pp. 16, 17, 19, 22, 23,
24.
Mozart, Wolfgang Amadè, pp. 15, 21, 42,
50, 59, 60, 61, 64, 65, 66, 74, 84, 132.
Muti, Riccardo, p. 162.
Napoleone I Bonaparte, p. 83.
Nesler, Francesca, pp. 76, 78, 80, 161.
Newman, Paul, pp. 130, 131, 132.
Nono, Luigi, pp. 7, 26, 139, 167.
Norberg-Schultz, Elisabeth, p. 162.
Novarro, Ramón, pp. 46, 54.
Novati, Maddalena, p. 167.
Novotna, Jarmila, pp. 46, 54.
Nucci, Leo, pp. 30, 31.
Nunn, Trevor, pp. 47, 56.
Olivero, Magda, p. 73.
Ophüls, Max, pp. 46, 54.
Orff, Carl, p. 152.
Ozawa, Seiji, p. 71.
Pagliughi, Lina, p. 68.
Palladio, Andrea, p. 73.
Paperi, Valerio, pp. 154, 158.
Patay, Franz, pp. 13, 14, 26, 27, 28, 44,
52, 76, 78, 80, 123, 130, 138, 147.
Patiera, Tino, p. 46.
Pauli, Hansjörg, p. 160.
Pavarotti, Luciano, pp. 6, 71, 94, 98, 101,
106, 114, 136.
Pergolesi, Giovanni Battista, pp. 25, 41,
49.
Peroff, Paul, p. 89.
Perras, Margherita, p. 88.
Perry, Eugene, pp. 61, 66.
Petit, Roland, p. 37.
Piscator, Erwin, pp. 88, 161.
Pizzi, Pierluigi, p. 70.
Ponnelle, Jean-Pierre, pp. 29, 32, 70, 74.
Pons, Lily, pp. 46, 54.
Ponsell, Rosa, pp. 44, 51.
Pontecorvo, Gillo, p. 8.
Popper, Karl, p. 77.
Prévin, André, p. 137.
Prokof’ev, Sergej, pp. 7, 8, 70, 82, 127.
Puccini, Giacomo, pp. 68, 113, 115.
Putilin, Nikolai, pp. 96, 103.
Quander, Georg, p. 88.
Raimondi, Ruggero, pp. 6, 69, 71, 153,
156, 158, 159.
Razzi, Fausto, pp. 133, 135, 136, 139,
149, 151, 159, 160, 161, 162.
Reinhardt, Delia, p. 88.
Reinhardt, Max, pp. 88, 89.
Rey, Florián, p. 35.
Ricciarelli, Katia, pp. 6, 7.
Richter, Tobias, p. 135.
173
Roberts, Julia, p. 136.
Ronconi, Luca, pp. 6, 25.
Rosi, Francesco, pp. 69, 73.
Rossini, Gioachino, pp. 6, 29, 32, 33, 68,
73, 74, 93, 112, 146.
Ruffo, Melba, p. 114.
Russell, Ken, p. 6.
Russo, Salvatore, p. 30.
Saint-Saëns, Camille, pp. 46, 54.
Schiller, Friedrich, pp. 16, 22.
Schubert, Franz Peter, pp. 136, 137.
Schwarzkopf, Elizabeth, pp. 42, 50.
Scicolone, Sofia, pp. 69, 132, 133.
Segalini, Sergio, pp. 67, 68, 74, 75, 76,
77, 140, 148.
Sellars, Peter, pp. 57, 58, 59, 60, 61, 62,
63, 64, 65, 66, 67, 68, 72, 73, 74, 115, 121.
Serantoni, Antonella, p. 161.
Shakespeare, William, pp. 58, 63.
Shaw, George Bernard, p. 163.
Simionato, Giulietta, p. 30.
Simon, Paul, p. 160.
Sirk, Chiara, pp. 79, 81.
Smetana, Bedřich, pp. 46, 54.
Smith, Patrick J., pp. 57, 67, 74, 76, 137,
145.
Soot, Fritz, p. 88.
Šostakovič, Dmitrij, pp. 136, 137.
Stegemann, Michael, p. 88.
Stratas, Teresa, p. 69.
Strauss, Richard, pp. 48, 52, 56, 89, 140,
166.
Stravinskij, Igor Fëdorovič, pp. 88, 111,
161.
Strehler, Giorgio, pp. 6, 69.
Talbot, Richard, pp. 44, 51.
Taliento, Anna Rita, pp. 114, 115.
Talley, Marianne, pp. 45, 53.
Tarquinio, Gianluca, pp. 130, 136.
Tebaldi, Renata, pp. 69, 72, 73.
Te Kanawa, Kiri, pp. 71, 98, 106.
Terfel, Bryn, pp. 96, 98, 103, 106.
Tibbet, Lawrence, pp. 46, 54.
Toscanini, Arturo, p. 148.
Traverso, Armando, p. 114.
Ughi, Uto, pp. 114, 155.
Valentini Terrani, Lucia, p. 6.
Valeri, Franca, pp. 114, 115.
Vattimo, Gianni, pp. 114, 115.
Velasquez, Diego Rodriguez de Silva, p.
92.
Verdi, Giuseppe, pp. 5, 68, 73, 121, 146.
Verdone, Carlo, pp. 29, 33.
Vialli, Gianluca, pp. 113, 115.
Villari, Rosario, p. 150.
Villa Rojo, Jesús, p. 151.
Virgilio Marone, Publio, p. 123.
Visconti, Luchino, pp. 69, 71, 72.
Vitti, Monica (vide Ceciarelli, Maria Luisa).
Vives, Amadeo, p. 36.
von Hofmannsthal, Hugo, pp. 44, 52.
von Karajan, Heribert (Herbert), pp. 15,
20, 47, 55, 68, 72, 77.
Wada, Emi, p. 88.
Wagner, Richard, pp. 58, 63, 71, 140,
146, 148.
Wagner, Wieland, pp. 72, 73, 74.
Warner, Jack, pp. 45, 53.
Weigl, Peter, pp. 48, 56.
Weill, Kurt, p. 161.
Woodward, Joanne, pp. 130, 131.
Zedda, Alberto, p. 32.
174
ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE
responsabile: CARLO MARINELLI
Finito di stampare
nel mese di maggio 2005