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Il codice penale
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R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398. Approvazione del
testo definitivo del Codice penale (Suppl. alla
Gazzetta Ufficiale n. 251 del 26 ottobre 1930).
Vittorio Emanuele III
per grazia
di Dio e per volontà
della Nazione Re d’Italia
Vista la legge 24 dicembre 1925, n. 2260, che delega al Governo del Re la facoltà di emendare il codice
penale;
Sentito il parere della Commissione parlamentare,
a’ termini dell’articolo 2 della legge predetta;
Udito il Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Nostro Guardasigilli, Ministro
Segretario di Stato per la giustizia e gli affari di culto;
1. Il testo definitivo del codice penale portante la
data di questo giorno è approvato ed avrà esecuzione
a cominciare dal 1° luglio 1931.
2. Un esemplare del suddetto testo definitivo del
codice penale, firmato da Noi e contrassegnato dal
Nostro Ministro Segretario di Stato per la giustizia e gli
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affari di culto, servirà di originale e sarà depositato e
custodito nell’Archivio del Regno.
3. La pubblicazione del predetto codice si eseguirà
col trasmetterne un esemplare stampato a ciascuno
dei Comuni del Regno, per essere depositato nella sala
comunale, e tenuto ivi esposto, durante un mese successivo, per sei ore in ciascun giorno, affinché ognuno
possa prenderne cognizione.
Ordiniamo che il presente decreto, munito del
sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta ufficiale
delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a S. Rossore, addì 19 ottobre 1930.
VITTORIO EMANUELE
Mussolini-Rocco
Visto, il Guardasigilli: Rocco.
Registrato alla Corte dei Conti, addì 22 ottobre
1930 - Atti del Governo, registro 301, foglio 58.
Mancini
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Titolo I – Legge penale
Libro I
Dei reati in generale
Titolo I
Della legge penale
1. Reati e pene: disposizione espressa di legge. –
Nessuno può essere punito (132) per un fatto che non
sia espressamente preveduto come reato dalla legge
(40, 42, 85), né con pene che non siano da essa stabilite
(199; 25 Cost.) (1).
(1) L’art. 1, primo comma, della L. 24 novembre 1981, n. 689,
in tema di depenalizzazione, stabilisce che nessuno può essere
assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima della commissione della
violazione.
SOMMARIO:
a) Principio di legalità;
b) Norma penale in bianco.
a) Principio di legalità.
l Il principio di legalità della pena è vincolante non solo quando venga applicata una pena
non prevista o diversa da quella contemplata dalla legge, ma anche quando venga applicata una
pena che esula dalle singole fattispecie legali penali perché pena legale è anche quella risultante
dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento
sanzionatorio, tra le quali rientrano le norme
sulle circostanze aggravanti. (Affermando tale
principio la Cassazione ha eliminato la pena della
multa inflitta per il reato di corruzione ai sensi
dell’art. 24, comma 2, c.p. che consente l’aggiunta
della pena della multa per i delitti determinati
da motivi di lucro puniti con la sola reclusione:
all’uopo ha considerato che il reato ascritto all’epoca dei fatti era punito con la pena congiunta
della reclusione e della multa e che pertanto, per
il principio di legalità della pena, esso rimaneva
fuori della previsione aggravatoria di cui al suddetto articolo). * Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 1994,
n. 7505 (ud. 25 marzo 1994), Caputo.
l Il principio di stretta legalità vigente in diritto
penale impone al giudice di attenersi alla precisa
dizione della norma incriminatrice, senza indulgere a interpretazioni analogiche e, ove la norma
del tutto chiara non sia, di attenersi all’interpretazione giurisprudenziale imperante, che la abbia
esplicitata, ad evitare diverse interpretazioni che
espongano il cittadino a responsabilità di maggior
contenuto a quelle cui il cittadino medesimo, in
base al principio di cui all’art. 1 c.p., era espressamente chiamato dalla norma incriminatrice e
dalla giurisprudenza al riguardo. (Nella specie, relativa ad annullamento senza rinvio perché il fatto
non costituisce reato di sentenza di condanna per
avere l’imputato effettuato scarichi dai servizi
civili, in un fosso adiacente alla propria fabbrica
senza avere richiesto la prescritta autorizzazione,
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Art. 1
la S.C. ha osservato che la coincidenza dell’epoca
dell’accertamento dello scarico con quella del
mutamento della giurisprudenza imperante, che
non richiedeva l’autorizzazione, avrebbe imposto
come soluzione obbligata l’assoluzione dell’imputato, la quale, oltreché dettata dall’art. 5 c.p.
nella lettura fattane dalla Corte costituzionale, è
suggerita, prima ancora, dal principio di stretta
legalità). * Cass. pen., sez. III, 19 gennaio 1994, n.
435 (ud. 6 ottobre 1993), Garofoli.
l La norma intesa come imperativo o come
giudizio ipotetico è sempre un unicum che
proviene dal legislatore, il quale, anche quando
collega il precetto alla sanzione, pur se attraverso
un rinvio ad altre norme, è investito al riguardo
di una competenza esclusiva, non esercitabile in
funzione surrogatoria dall’interprete della legge.
(Fattispecie in tema di reati militari). * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 15 giugno 1984, n. 5655 (ud. 26
maggio 1984), Sommella.
l La sanzione da applicare ad una fattispecie
che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe
in legislatore con mancata incidenza negativa sia
sul principio di sia sulla stessa efficacia deterrente delle disposizioni penali coinvolte in siffatta
operazione interpretativa, diretta a correlare, con
l’intervento del giudice il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente
oggetto di specifica commentoria legislativa.
(Applicazione in tema di reati militari puniti dagli artt. 186 e 189 cod. pen. mil. pace dichiarati
costituzionalmente illegittimi nella parte sanzionatoria con la prospettazione delle punibilità da
applicare a tutte le fattispecie di insubordinazione militare le sanzioni punite dalla legge penale
comune). * Cass. pen., Sezioni Unite, 15 giugno
1984, n. 5655 (ud. 26 maggio 1984), Sommella.
l Il principio di legalità della pena (art. 1 c.p.)
è violato qualora venga applicata una pena non
prevista o diversa da quella prevista dalla legge
per un determinato reato. Rientra, tuttavia, nel
concetto di legalità anche la pena comminata
dalle singole fattispecie penali, nonché quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, nelle quali disposizioni,
oltre le norme sulle circostanze (aggravanti o attenuanti) va ricompresa la normativa concernente il trattamento sanzionatorio previsto dall’art.
81 c.p.* Cass. pen., Sezioni Unite, 8 giugno 1981,
n. 5690 (ud. 7 febbraio 1981), Viola.
b) Norma penale in bianco.
l La norma o la prescrizione di rinvio, espressamente richiamata a completamento del precetto, viene a svolgere una funzione integratrice della
norma penale in bianco e ad essere, quindi, in essa
incorporata. Ne discende che la norma in bianco
non è in contrasto con la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. poiché, attraverso il suddetto proce-
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Art. 2
Libro I – Dei reati
dimento di integrazione, la fonte immediata della
norma penale resta pur sempre la legge (in senso
formale o sostanziale), mentre la norma regolamentare o l’atto della pubblica amministrazione
riveste il ruolo di completamento ed integrazione
del precetto nei limiti e con il contenuto indicati
con sufficiente specificazione dalla norma primaria. (Nella specie tale rapporto di integrazione è
stato individuato nell’art. 58 del regolamento di
esecuzione del t.u. delle leggi di P.S. e l’art. 221 del
t.u. medesimo, definita norma penale in bianco). *
Cass. pen., Sezioni Unite, 30 giugno 1984, n. 6176
(ud. 24 marzo 1984), Romano.
2. Successione di leggi penali (1). – Nessuno può es-
sere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato (25 Cost.).
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e,
se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli
effetti penali.
Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge
posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria,
la pena detentiva inflitta si converte immediatamente
nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 (2).
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato
e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile (648 c.p.p.) (3).
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non
si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti
(14 prel.).
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un
decreto-legge e nei casi di un decreto legge convertito
in legge con emendamenti (77 Cost.) (4).
(1) Si vedano gli artt. 10, 12 e 15 delle disposizioni sulla legge
in generale del codice civile.
(2) Questo comma è stato inserito dall’art. 14 della L. 24 febbraio 2006, n. 85.
L’art. 15 della medesima legge prevede inoltre che alle violazioni depenalizzate dalla stessa legge si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 101 e 102 del D.L.vo 30 dicembre 1999, n. 507.
(3) L’art. 30, quarto comma, della L. 11 marzo 1953, n. 87,
contenente norme sul funzionamento della Corte costituzionale,
stabilisce che, qualora in applicazione di una norma dichiarata
incostituzionale sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di
condanna, ne cessino l’esecuzione e tutti gli effetti penali.
(4) La Corte costituzionale con sentenza 19 febbraio 1985, n.
51 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma
nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste,
le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma di questo
articolo.
SOMMARIO:
a) Ambito di operatività;
b) Abolitio criminis;
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50
c) Applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo;
d) Leggi eccezionali o temporanee;
e) Disposizioni contenute in un decreto legge;
f) In genere; f-1) Consumo di gruppo di stupefacenti; f-2) Circolazione stradale; f-3) Reati fallimentari; f-4) Reati societari; f-5) Servizio militare;
f-6) Reati in tema di paesaggio; f-7) Oltraggio a
pubblico ufficiale; f-8) Reati edilizi; f-9) Trasporto
di oli minerali; f-10) Ricettazione; f-11) Adesione
della Romania alla U.E; f-12) Reati doganali; f-13)
Falsità in valori di bollo.
a) Ambito di operatività.
l Non può trovare applicazione la legge
penale modificativa più favorevole entrata in vigore dopo la sentenza della Corte di cassazione
che dispone l’annullamento con rinvio ai soli fini
della determinazione della pena, ma prima della
definizione di questa ulteriore fase del giudizio,
poiché i limiti della pronuncia rescindente determinano l’irrevocabilità della decisione impugnata
in ordine alla responsabilità penale ed alla qualificazione dei fatti ascritti all’imputato. (Fattispecie
relativa a condanna per concussione annullata limitatamente alla individuazione della pena prima
dell’approvazione della legge 6 novembre 2012, n.
190). * Cass. pen., Sezioni Unite, 14 aprile 2014,
n. 16208 (ud. 27 marzo 2014), C. [RV258654]
l Le disposizioni concernenti l’esecuzione
delle pene detentive e le misure alternative alla
detenzione, non riguardando l’accertamento del
reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le
modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e, pertanto, (in
assenza di una specifica disciplina transitoria),
soggiacciono al principio “tempus regit actum” e
non alle regole dettate in materia di successione
di norme penali nel tempo. (Principio affermato
in relazione alla modifica dell’art. 4 bis della legge
n. 354 del 1975, relativo alla previsione della concedibilità dei permessi premio ai detenuti per il
delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione solo in caso di collaborazione con la giustizia).
* Cass. pen., sez. I, 12 marzo 2013, n. 11580 (5
febbraio 2013), Schirato. [RV255310]. Conforme,
Cass. pen., sez. I, 17 marzo 1993, n. 108 (c.c. 14
gennaio 1993), Primerano.
l In presenza di una successione di leggi che
comporti la depenalizzazione di una fattispecie in
precedenza prevista come reato, le sanzioni amministrative trovano immediata applicazione nel caso
in cui il giudizio penale instaurato nella vigenza
della legislazione precedente non risulti concluso
alla data di entrata in vigore della legge di depenalizzazione. * Cass. pen., sez. fer., 7 novembre 2011,
n. 40146 (ud. 23 agosto 2011), Zhu. [RV251659]
l Il criterio di ragguaglio di euro 250 di pena
pecuniaria per un giorno di pena detentiva di cui
all’art. 135 c.p. come modificato per effetto dell’art.
3, comma sessantaduesimo, della L. n. 94 del 2009,
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51
Titolo I – Legge penale
non si applica, ai fini della sostituzione “ex” art. 53
L. n. 689 del 1981, ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della predetta modifica in quanto
norma meno favorevole rispetto alla disciplina
pregressa. * Cass. pen., sez. III, 19 maggio 2011, n.
19725 (ud. 14 aprile 2011), Proia. [RV250333]
l Il principio “tempus regit actum” riguarda
solo la successione nel tempo delle leggi processuali e non anche delle interpretazioni giurisprudenziali di queste ultime. * Cass. pen., sez.
II, 25 maggio 2010, n. 19716 (c.c. 6 maggio 2010),
Merlo. [RV247114]
l In caso di successione di disposizioni diverse concernenti misure alternative alla detenzione,
che non attengono né alla cognizione del reato,
né all’irrogazione della pena, ma alle modalità
esecutive di questa, non operano le regole dettate
dall’art. 2 c.p., né il principio costituzionale di
irretroattività delle disposizioni “in peius”, ma
quelle vigenti al momento della loro applicazione.
(Nella specie si è ritenuta corretta la dichiarazione di inammissibilità, nella vigenza del D.L. 23
febbraio 2009 n. 11, quando esso era in corso di
conversione, di un’istanza di affidamento in prova
al servizio sociale presentata da condannato per
delitto di cui all’art. 609-quater c.p., commesso
prima dell’entrata in vigore del predetto decretolegge; ed è stata tuttavia annullata con rinvio la
decisione impugnata, sul rilievo di una modificazione “in melius” introdotta dalla successiva
legge di conversione n. 38 del 2009 in ordine ai
presupposti di concessione della misura). * Cass.
pen., sez. I, 3 settembre 2009, n. 33890 (c.c. 26
giugno 2009), Miglioranza. [RV244831]
l In tema di successione di leggi nel tempo,
il principio di irretroattività della legge penale
opera con riguardo alle norme incriminatrici
e non anche alle misure di sicurezza, sicché la
confisca obbligatoria del veicolo, con il quale sia
stato commesso il reato di guida in stato di ebbrezza con accertamento di un tasso alcolemico
superiore a g. 1,5 per litro, trova applicazione anche relativamente ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 4 della L. n. 125 del 2008,
che l’ha introdotta. * Cass. pen., sez. IV, 5 marzo
2009, n. 9986 (c.c. 27 gennaio 2009), P.G. in proc.
Favè. [RV243297]
l In tema di successione di leggi penali, la
modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la
punibilità del fatto precedentemente commesso se
tale norma è integratrice di quella penale oppure
ha essa stessa efficacia retroattiva. (Nella specie,
la Corte ha ritenuto che l’adesione della Romania
all’Unione europea, con il conseguente acquisto
da parte dei rumeni della condizione di cittadini
europei, non ha determinato la non punibilità del
reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine del
questore di allontanamento dal territorio dello
Stato commesso dagli stessi prima del 1° gennaio
2007, data di entrata in vigore del Trattato di ade-
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Art. 2
sione, in quanto quest’ultimo e la relativa legge di
ratifica si sono limitati a modificare la situazione di
fatto, facendo solo perdere ai rumeni la condizione di stranieri, senza che tuttavia tale circostanza
sia stata in grado di operare retroattivamente sul
reato già commesso). * Cass. pen., Sezioni Unite,
16 gennaio 2008, n. 2451 (ud. 27 settembre 2007),
P.G. in proc. Magera. Conforme, Cass. pen., sez.
I, 6 marzo 2008, n. 10265 (ud. 28 febbraio 2008),
P.G. in proc. Cristofan. [RV238197]
l La nuova formulazione delle norme che
prevedono i delitti di false comunicazioni sociali
(artt. 2621 e 2622), nel testo introdotto dall’art. 1
D.L.vo 11 aprile 2002, n.61, non ha comportato
l’abolizione totale dei reati precedentemente
contemplati, ma si pone in rapporto di continuità
normativa con la fattispecie previgente, determinando una successione di leggi con effetto
parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti,
commessi prima dell’entrata in vigore del citato
D.L.vo, che non siano riconducibili alle nuove
fattispecie criminose. (Nella specie la Corte ha
annullato con rinvio la decisione dei giudici di
merito che aveva assolto gli imputati dal reato ex
art. 2621 c.c. perché il fatto non è preveduto dalla
legge come reato anziché di procedere ad accertamento al fine di stabilire se l’originaria condotta
contestata contenesse o meno tutti gli elementi
richiesti dalla nuova normativa). * Cass. pen., sez.
V, 20 ottobre 2004, n. 40823 (ud. 7 luglio 2004),
P.M. in proc. Preatoni ed altro. [RV230258]
l In tema di reati societari, il giudice penale
che accerti l’avvenuta abolitio criminis del reato
di impedito controllo della gestione sociale — originariamente previsto dall’art. 2623, n. 3, c.c. —
ad opera dell’art. 2625 c.c., introdotto dal D.L.vo
n. 61 del 2002, il quale prevede che la condotta di
impedito controllo, quando non abbia cagionato
danno ai soci, sia punita con sanzione pecuniaria
amministrativa — non ha l’obbligo di trasmettere
gli atti alla autorità amministrativa competente
ad applicare le sanzioni in ordine all’illecito depenalizzato, non sussistendo alcuna disposizione
transitoria del D.L.vo n. 61 del 2002 che preveda
un tale obbligo, mentre il legislatore, laddove ha
ritenuto necessaria tale trasmissione, ha dettato
un’espressa previsione (ad esempio per gli illeciti
valutari), posto che detto obbligo si pone in contrasto con il principio di irretroattività della sanzione amministrativa sancita dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, che non può essere derogato se
non nelle ipotesi tassativamente previste. Né sono
applicabili — trattandosi di violazione antecedente l’entrata in vigore del D.L.vo n. 61 del 2002 — le
disposizioni transitorie di cui alla legge n. 689 del
1981, ovvero l’art. 2, comma terzo, c.p., in quanto
tale previsione disciplina l’ipotesi di successione
di leggi penali e non quella in cui sopravvenga
una legge che trasforma il fatto costituente reato
in illecito amministrativo. Con la conseguenza
che in nessun caso l’autorità amministrativa può
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Art. 2
Libro I – Dei reati
applicare alla violazione dell’art. 2623 n. 3 c.c. una
sanzione ai sensi dell’art. 2625 c.c. come modificato. * Cass. pen., sez. V, 5 maggio 2004, n. 21064
(ud. 5 marzo 2004), De Mattei. [RV229236]
l La fattispecie previgente dell’art. 2631 c.c.
che disciplinava il conflitto di interessi non è stata
riprodotta, a seguito dell’introduzione del D.L.vo n.
61 del 2002, nel vigente art. 2631 c.c. che prevede
la violazione amministrativa di omessa convocazione dell’assemblea, ed è solo in parte riprodotta
dal vigente art. 2634 c.c. che disciplina l’infedeltà
patrimoniale; ne consegue — nell’ipotesi in cui il
reato contestato all’imputato sia quello previsto
dal previgente art. 2631 c.c. e non siano ravvisabili gli estremi della fattispecie criminosa di cui al
vigente art. 2634 c.c. — che il giudice ha il dovere
di assolvere l’imputato e non può ordinare la trasmissione degli atti all’Autorità amministrativa. *
Cass. pen., sez. V, 26 febbraio 2004, n. 8673 (ud. 11
dicembre 2003), Torrisi e altro. [RV228744]
l La disciplina relativa alla successione delle
leggi penali (art. 2 c.p.) si applica qualora la disposizione richiamata da una «norma penale in bianco» sia modificata o abrogata, ovvero nell’ipotesi
in cui venga modificata una norma «definitoria»
— ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in
una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale
— oppure, infine, nel caso in cui una disposizione
legislativa commini una sanzione penale per la
violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che venga abrogata in tutto
o in parte. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato l’affermazione di penale responsabilità di
un sindaco in ordine al delitto di cui all’art. 323
e ha escluso l’applicabilità del’art. 2 c.p. alla luce
dell’abrogazione, ad opera dell’art. 136 del D.P.R.
n. 380 del 2001, dell’art. 7 della legge n. 47 del
1985 e della previsione, contenuta nell’art. 31 del
citato D.P.R. 380/2001, secondo la quale il soggetto titolare del potere-dovere di provvedere in
merito alle ingiunzioni di di demolizione, rimozione, ripristino non è il sindaco, ma il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale).
* Cass. pen., sez. II, 4 febbraio 2004, n. 4296 (ud.
2 dicembre 2003), Stellaccio. [RV228152]
l In tema di false comunicazioni sociali, al
fine di verificare se i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61,
siano sussumibili nell’attuale fattispecie criminosa di cui all’art. 2622 c.c. occorre che tutti gli
elementi richiesti dalla nuova disciplina (quali,
ad esempio, il superamento delle soglie di punibilità) siano stati contestati e abbiano formato
oggetto di accertamento in contraddittorio. Ne
consegue che nel giudizio di cassazione, nel quale
la Corte è chiamata a decidere sulla base di un
accertamento già compiuto dal giudice di merito,
se i nuovi elementi non hanno formato oggetto
di valutazione nella decisione impugnata, il fatto-
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reato rientra nell’ambito dell’abolitio criminis. *
Cass. pen., sez. V, 26 novembre 2003, n. 45712
(c.c. 3 ottobre 2003), Fodde. [RV226918]
l In tema di successione di leggi penali nel
tempo, la punibilità di un fatto commesso nel
vigore di una norma generale, che sia stata sostituita da una norma speciale, non costituisce
applicazione retroattiva di questa, ma piuttosto
ne esclude l’efficacia abolitrice per la porzione
della fattispecie prevista dalla norma generale che
coincide con quella della norma successiva, salvo
che il legislatore con la medesima legge speciale
stabilisca, in deroga alla disposizione dell’art.2,
terzo comma, c.p., la non punibilità dei reati in
precedenza commessi. * Cass. pen., Sezioni Unite, 16 giugno 2003, n. 25887 (ud. 26 marzo 2003),
Giordano ed altri. [RV224608]
l In tema di false comunicazioni sociali, il
dato che emerge con evidenza dalla nuova disciplina introdotta con il D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61,
è rappresentato dalla suddivisione dell’originaria
unica fattispecie nelle due, oggetto dei nuovi artt.
2621 (come figura contravvenzionale) e 2622
(come figura delittuosa) del codice civile. L’area
di punibilità del vecchio art. 2621 c.c. risulta,
da un lato fortemente circoscritta, attraverso le
novità introdotte, e dall’altro, articolata nelle due
nuove disposizioni. Nell’ambito di una fattispecie
alquanto ampia, specie nell’interpretazione che ne
aveva dato la giurisprudenza, sono state ritagliate
fattispecie molto più circoscritte e assai più blandamente punite, ma deve riconoscersi che i fatti
rientranti nelle nuove previsioni erano punibili
anche in base al precedente testo dell’art. 2621 c.c.,
dovendo perciò concludersi che i fatti commessi
sotto il vigore della precedente legge, nei limiti in
cui rientrano nella previsione della nuova legge,
rimangono punibili, a norma dell’art. 2, comma 3,
c.p., mentre gli altri non costituiscono più reato,
per un effetto abolitivo delle nuove disposizioni
che a norma dell’art. 2, comma 2, c.p., travolge anche il giudicato di condanna. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 16 giugno 2003, n. 25887 (ud. 26 marzo
2003), Giordano ed altri, in Riv. pen. 2003, 700.
l In tema di false comunicazioni sociali, la
nuova formulazione del reato, introdotta dall’art.
1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, comporta che,
per i fatti pregressi giudicati con sentenza irrevocabile, spetta al giudice dell’esecuzione, sulla
base dello schema procedimentale dell’art. 666,
comma quinto, c.p.p., accertare se sussistano
nella fattispecie, già giudicata, i requisiti previsti
dalla nuova disciplina (quali, ad esempio, il superamento delle soglie di punibilità). In ipotesi di
accertamento negativo, si determinano gli effetti
dell’abolitio criminis, in quanto il fatto non è più
previsto dalla legge come reato, con conseguente
possibilità di revoca della sentenza definitiva, ai
sensi degli artt. 2, comma secondo, c.p. e 673
c.p.p. * Cass. pen., sez. V, 11 marzo 2003, n. 11345
(c.c. 6 novembre 2002), Dell’Utri. [RV224111]
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Titolo I – Legge penale
l In tema di successione di leggi penali nel
tempo, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2, comma 2,
c.p., sono norme extrapenali integratrici solo quelle che determinano, o concorrono a determinare, il
contenuto del precetto penale. Tali non sono, con
riguardo ai reati fallimentari, le norme civilistiche
(artt. 10 e 11 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 - Disciplina del fallimento, applicabili anche al socio illimitatamente responsabile di società fallita, a seguito
della sentenza della Corte costituzionale n. 66 del
1999), che disciplinano i limiti temporali entro cui
deve intervenire la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, elemento costitutivo del
reato, con la conseguenza che le vicende relative
alle predette norme restano ininfluenti rispetto al
fatto di reato anteriormente commesso. * Cass.
pen., sez. V, 11 dicembre 2002, n. 41499 (c.c. 26
settembre 2002), Crescenzo. [RV222978]
l La fattispecie di bancarotta impropria
da reato societario di cui all’art. 223 della legge fallimentare, come sostituita dall’art. 4 del
D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, si pone in rapporto
di specialità rispetto alla precedente, in quanto
introduce, come elemento nuovo ed ulteriore rispetto alla precedente formulazione, il rapporto
di causalità tra il delitto di false comunicazioni
sociali, od altro reato societario tra quelli specificamente richiamati dalla norma, ed il dissesto della società fallita. Trattandosi, tuttavia,
di specialità per aggiunta, deve ritenersi che essa
comporti una totale abolizione della fattispecie
abrogata, in quanto l’elemento aggiuntivo è tale
da attribuire alla nuova fattispecie un significato
lesivo del tutto diverso da quello della precedente
fattispecie. In questa, infatti, assumeva rilievo
la sola idoneità della condotta a rappresentare
falsamente le condizioni economiche della società, nella nuova configurazione, invece, assume
rilievo soprattutto la sua idoneità a contribuire al
dissesto dell’impresa. L’abolizione del più grave
delitto di cui all’art. 223 legge fallimentare non
esclude, nondimeno, la configurabilità, in concreto, dell’ipotesi residuale del falso in bilancio,
in quanto fattispecie generale rispetto a quella
della bancarotta impropria. * Cass. pen., sez. V,
16 ottobre 2002, n. 24622 (ud. 8 ottobre 2002),
Benzi ed altri. [RV222432]
l La nuova formulazione del reato di false
comunicazioni sociali, introdotta dal D.L.vo 11
aprile 2002, n. 61, e quella precedente configurano fattispecie omogenee sia per la struttura
portante, consistente nella falsa rappresentazione
delle condizioni economiche della società, sia
per il significato lesivo della condotta. Le stesse
si differenziano, invece, solo per l’introduzione,
nella nuova formula, di limiti quantitativi di
rilevanza penale in relazione all’entità dei dati
economici falsamente rappresentati. Pertanto,
stante il rapporto di specialità per specificazione,
sussiste continuità e non abrogazione rispetto
alla precedente norma, tranne che per la man-
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 53
Art. 2
cata previsione, tra i soggetti attivi qualificati,
dei soci fondatori e dei promotori, rispetto ai
quali si è avuta abolizione secca del reato. Passando dall’analisi astratta delle due formulazioni
normative all’esame della fattispecie concreta
risultante dal capo d’imputazione, potrà aversi, in
applicazione della norma di cui all’art. 2, comma
terzo, c.p., che per i fatti rientranti in entrambe
le fattispecie, quella precedente e quella speciale, risulterà applicabile la norma più favorevole
tra le due; per i fatti rientranti solo nella norma
generale si avrà invece abolitio criminis, con la
revoca anche delle sentenze definitive. (Nel caso
di specie, la Suprema Corte, dopo aver affermato
che il reato di false comunicazioni sociali può residuare all’originaria contestazione di bancarotta
fraudolenta impropria, ha ritenuto che, avuto
riguardo alla contestazione, sarebbe stata applicabile la contravvenzione prevista dal nuovo testo
dell’art. 2621 c.c., rispetto alla quale, nondimeno,
risultava ormai maturato il più breve termine
prescrizionale, sicché, qualificato l’originario
reato di bancarotta fraudolenta impropria come
contravvenzione di cui al nuovo art. 2621 c.c., ha
annullato l’impugnata sentenza senza rinvio per
intervenuta prescrizione). * Cass. pen., sez. V, 16
ottobre 2002, n. 34622 ud. (8 ottobre 2002, Benzi
ed altri. [RV222433] )
l Il reato di false comunicazioni sociali di cui
all’art. 2621 c.c., nella formulazione introdotta dal
D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61, non presenta differenze strutturali rispetto alla fattispecie descritta nella
precedente formulazione della norma incriminatrice, identici essendo rimasti l’interesse protetto,
l’indicazione dei soggetti attivi del reato e l’esigenza del dolo specifico, precedentemente espressa
con la parola «fraudolentemente» ed attualmente
con le parole «intenzione di ingannare i soci o il
pubblico al fine di conseguire per sé o per altri un
ingiusto profitto» (dizione più puntuale e specifica
rispetto al vecchio testo). Le differenze risultano
quindi limitate alle soglie di punibilità, all’intensità della pena ed a vari elementi circostanziali del
reato, per cui, essendovi continuità tra le due fattispecie, va applicata, per i fatti pregressi, quella più
favorevole al reo, previa verifica che la concreta
contestazione del fatto sia tale da integrare il reato
anche nella sua nuova formulazione. * Cass. pen.,
sez. V, 19 giugno 2002, n. 23449 (ud. 21 maggio
2002), Fabri ed altro. [RV221921]
l In tema di falso in bilancio, a seguito dell’entrata in vigore del D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, si
è verificato un fenomeno di successione di norme
nell’ambito del quale la vigente disciplina si pone
in rapporto di specialità rispetto alla precedente.
Infatti, la fattispecie astratta, originariamente
delineata dal legislatore, risulta ricompresa in
quella ora incriminata con l’aggiunta di elementi
specializzanti (come la tipicizzazione del dolo
specifico, l’idoneità delle false esposizioni e delle omesse comunicazioni ad indurre in errore i
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Art. 2
Libro I – Dei reati
destinatari, la previsione di un evento di danno
nell’ipotesi delittuosa di cui al nuovo art. 2622
c.c., peraltro punibile a querela di parte), sicché,
mentre i fatti attualmente punibili già lo erano in
precedenza, non tutti quelli rilevanti penalmente
in passato lo sono tuttora. Pertanto, è necessario
accertare se la concreta contestazione contenga
i nuovi elementi in modo da rendere possibile
la difesa. (Nel caso di specie, la suprema Corte
ha ritenuto che, esclusa la punibilità della condotta con riferimento all’ipotesi delittuosa di cui
al nuovo art. 2621 c.c., per quanto riguardava la
contravvenzione non era enunciato nell’imputazione, e conseguentemente verificato, il duplice
intento in cui deve concretarsi il dolo specifico
né l’idoneità oggettiva dell’azione ad ingannare,
sicché, non rientrando la condotta ascritta nella
vigente previsione legislativa, si imponeva l’annullamento della sentenza impugnata con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge
come reato, con eliminazione della relativa pena).
* Cass. pen., sez. V, 3 giugno 2002, n. 21532 (ud. 8
maggio 2002), Torrenti. [RV222429]
l La disciplina relativa alla successione delle
leggi penali (art. 2 c.p.) non si applica alla variazione nel tempo delle norme extra-penali e degli
atti o fatti amministrativi che non incidono sulla
struttura essenziale e circostanziata del reato, ma
si limitano a precisare la fattispecie precettiva,
delineando la portata del comando, che viene a
modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in detta ipotesi, rimane fermo il
disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti al
momento del fatto (Principio affermato in tema di
responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge
4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza
di norme regolamentari contenute nel D.M. 27
dicembre 1990, poi sostituito dal D.M. 25 gennaio
2001). * Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2002, n.
18193 (ud. 12 marzo 2002), Pata V. [RV221943]
l Le norme che disciplinano le misure alternative alla detenzione, e quindi anche quelle relative
alla detenzione domiciliare, non attengono alla
cognizione del reato e all’irrogazione della pena,
ma riguardano invece le modalità esecutive della
pena stessa. Esse, pertanto, non sono norme penali sostanziali e ad esse non si riferisce il dettato
dell’art. 2 del codice penale, né il principio costituzionale di cui all’art. 25 Cost. Conseguentemente,
la detenzione domiciliare è disposta dalla magistratura di sorveglianza, secondo la legge vigente
al momento della sua applicazione. (Fattispecie
nella quale la S.C. ha ritenuto corretto l’operato
del giudice di merito che, a fronte di richiesta
di differimento facoltativo dell’esecuzione della
pena, aveva applicato la misura della detenzione
domiciliare, in forza dello ius superveniens, osservando che, in base a quest’ultimo, non si pone
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54
più un’alternativa tra detenzione domiciliare e
carcere, bensì tra la prima e la libertà conseguente all’eventuale differimento, da concedere solo
quando non si debba o non si possa, in concreto,
disporre la misura alternativa). * Cass. pen., sez. I,
3 febbraio 2000, n. 6297 (c.c. 17 novembre 1999),
Brunello. Conforme, Cass. pen., sez. I, 5 maggio
1992, n. 1469, Calascibetta. [RV215217]
l Il principio di irretroattività della legge
penale, sancito dagli artt. 2 c.p. e 25, comma secondo, Cost., è operante nei riguardi delle norme
incriminatrici e non anche rispetto alle misure
di sicurezza, sicché la confisca può essere disposta anche in riferimento a reati commessi nel
tempo in cui non era legislativamente prevista
ovvero era diversamente disciplinata quanto a
tipo, qualità e durata. (Fattispecie nella quale, in
sede di patteggiamento, il giudice aveva rigettato
la richiesta del P.M. di confisca delle autovetture
usate per commettere il reato di agevolazione
dell’ingresso clandestino in Italia di cittadini extracomunitari e la S.C., investita di ricorso sul
punto, ha ritenuto legittima la statuizione sulla
base del diritto vigente all’epoca del fatto, pur disponendo, poi, direttamente essa stessa la misura
di sicurezza, in forza del sopravvenuto art. 2 del
decreto legislativo n. 113 del 1999, contemplante
espressamente la confisca del mezzo di trasporto
«anche nel caso di applicazione della pena su richiesta delle parti». * Cass. pen., sez. I, 7 luglio
1999, n. 3717 (c.c. 19 maggio 1999), P.G. in proc.
Musliu. Conforme, quanto al principio, Cass.
pen., sez. I, 16 marzo 2006, n. 9269 (c.c. 1 marzo
2006), Colombari. [RV213941]
l In tema di abuso di ufficio, a seguito della
nuova formulazione dell’art. 323 c.p. ad opera
della legge 16 luglio 1997, n. 234, occorre verificare, in base all’art. 2 c.p., riguardante la successione delle leggi penali nel tempo, se le condotte
contestate all’imputato sulla base della fattispecie
previgente siano tali da integrare reato anche in
base al nuovo testo del predetto articolo; e ciò
tenendo presente che la nuova fattispecie, al fine
di realizzare una maggiore tipicizzazione della
condotta del pubblico ufficiale, richiede specificatamente che questi abbia agito intenzionalmente
in violazione di leggi o di regolamenti; che essa
configura ora un reato di evento, postulando che
il comportamento del pubblico ufficiale abbia
determinato un ingiusto vantaggio patrimoniale
per sé o per altri ovvero un danno ingiusto per
altri; che essa contempla la sussistenza del carattere patrimoniale del vantaggio ingiusto, mentre
tale carattere, prima della novella, valeva solo a
contraddistinguere la ipotesi più grave di cui al
comma secondo dell’art. 323 c.p. previgente. *
Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 1998, n. 2328 (ud.
14 gennaio 1998), Branciforte ed altro. In termini, Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 1997, n. 11204,
P.M. in proc. Vitarelli ed altri. [RV209781]
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Titolo I – Legge penale
l L’art. 2 c.p. che regola la successione nel
tempo della legge penale, riguarda quelle norme
che definiscono la natura sostanziale e circostanziale del reato, comprese quelle norme extrapenali richiamate espressamente ad integrazione
della fattispecie incriminatrice nonché le leggi
costituenti indispensabile presupposto o comunque concorrenti ad individuare il contenuto sostanziale del precetto. Esula da tale normativa la
successione di atti o fatti amministrativi che, senza modificare la norma incriminatrice o comunque su di essa influire, agiscano sugli elementi di
fatto — modificandoli — sì da non renderli più
sussumibili sotto l’astratta fattispecie normativa.
(Fattispecie in tema di rigetto di eccepita inapplicabilità dell’art. 468 c.p., alla contraffazione
dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico
per non essere più l’Enel, a seguito della legge n.
395 del 1992, ente pubblico economico). * Cass.
pen., sez. V, 8 maggio 1997, n. 4114 (ud. 25 febbraio 1997), De Lisi. [RV207479]
l In virtù del combinato disposto degli artt.
199 e 200 c.p. e dei principi affermati dall’art.
25 Cost., deve escludersi che in tema di applicazione delle misure di sicurezza operi il principio
di irretroattività della legge di cui all’art. 2 c.p.,
sicché le misure predette sono applicabili anche
ai reati commessi nel tempo in cui non erano legislativamente previste ovvero erano diversamente
disciplinate quanto a tipo, qualità e durata. (Fattispecie relativa all’applicazione della confisca prevista dall’art. 12 sexies D.L. 8 giugno 1992 n. 306
— come introdotto all’art. 2 D.L. 20 giugno 1994
n. 399 — ad un reato di usura commesso precedentemente all’entrata in vigore delle predette disposizioni). * Cass. pen., sez. II, 6 marzo 1997, n.
3651 (c.c. 3 ottobre 1996), Sibilia. [RV207140]
l Quando la legge punisce condotte contrarie
a prescrizioni poste con atto amministrativo, che
influisce su singoli casi, l’emanazione di nuovi
atti, o il mutamento del loro contenuto, non costituiscono novazione legislativa rilevante ex art.
2 comma secondo c.p., in quanto non si prospetta
alcuna modificazione di regole generali di condotta. Invero tale atto amministrativo (che, nel caso
in esame, prevedeva i limiti di accettabilità degli
scarichi valevoli per l’insediamento dell’imputato)
integra il precetto penale in un elemento normativo della fattispecie; cioè l’atto amministrativo è
il presupposto di fatto della legge penale incriminatrice, la quale ne sanziona la trasgressione. Ne
deriva che il mutamento dell’atto amministrativo
non comporta una differente valutazione della
fattispecie legale astratta, bensì determina la modifica del precetto e l’instaurazione di una nuova
fattispecie incriminatrice, sicché, regolando le
due norme fatti storicamente diversi, non sorge
problema di successione di leggi. (Nella specie,
relativa a rigetto di ricorso, era stata dedotta
violazione dell’art. 2 c.p. per non avere la corte di
merito ritenuto applicabile la regola della retro-
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 55
Art. 2
attività della legge più favorevole; ciò in quanto il
valore dei solventi organici era conforme ai nuovi,
e più permissivi, limiti fissati dal consorzio interprovinciale successivamente alla commissione del
reato). * Cass. pen., sez. III, 18 ottobre 1996, n.
9163 (ud. 24 settembre 1996), Rizzi. [RV206419]
l Il disposto dell’art. 200, comma 1, c.p. —
secondo cui le misure di sicurezza sono regolate
dalla legge in vigore al momento della loro applicazione — va interpretato nel senso che non
potrà mai applicarsi una misura di sicurezza per
un fatto che, al momento della sua commissione
non costituiva reato, mentre è possibile, fermo
quanto sopra in ordine al presupposto, la suddetta applicazione per un fatto di reato per il quale
originariamente non era prevista la misura; deve
invero considerarsi che il principio di irretroattività della legge penale, di cui agli artt. 25, comma
2 della Costituzione e 2 comma 1, c.p., riguarda le
norme incriminatrici, ossia le disposizioni in forza delle quali un fatto è previsto come reato e non
invece le misure di sicurezza. * Cass. pen., sez.
VI, 6 novembre 1995, n. 3391 (c.c. 29 settembre
1995), Trischitta ed altri. [RV203314]
l Le misure alternative alla detenzione, eccezion fatta per la liberazione anticipata, possono
essere concesse ai condannati per delitti indicati
nell’art. 4 bis della L. 26 luglio 1975 n. 354 solo se
risulti prestata attività di collaborazione ex art. 58
ter della stessa legge. Ciò vale anche se la condanna è intervenuta prima dell’entrata in vigore di tali
restrizioni, introdotte con il D.L. n. 306 del 1992,
convertito nella L. n. 356 del 1992, non operando
in materia il principio dell’irretroattività della
legge penale più sfavorevole, riferibile solo a leggi
penali sostanziali, tra le quali non sono annoverabili le norme che attengono all’esecuzione della
pena e alle misure a questa alternative, comprese
le condizioni per la loro applicazione. * Cass. pen.,
sez. I, 11 ottobre 1995, n. 4421 (c.c. 20 settembre
1995), P.M. in proc. Molinas. [RV202514]
b) Abolitio criminis.
l In materia di successione di leggi penali, in
caso di modifica della norma incriminatrice, per
accertare se ricorra o meno “abolitio criminis” è
sufficiente procedere al confronto strutturale tra
le fattispecie legali astratte che si succedono nel
tempo, senza la necessità di ricercare conferme
della eventuale continuità tra le stesse facendo
ricorso ai criteri valutativi dei beni tutelati e delle
modalità di offesa, atteso che tale confronto permette in maniera autonoma di verificare se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere
demolitorio di un elemento costitutivo del fatto
tipico, alterando così radicalmente la figura di
reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della
stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale
spazio comune alle suddette fattispecie. * Cass.
pen., Sezioni Unite, 12 giugno 2009, n. 24468
(c.c. 26 febbraio 2009), Rizzoli. [RV243585]
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Art. 2
Libro I – Dei reati
l L’abrogazione dell’istituto dell’amministrazione controllata e la soppressione di ogni riferimento ad esso contenuto nella legge fallimentare
(art. 147 D.L.vo n. 5 del 2006) hanno determinato
l’abolizione del reato di bancarotta societaria connessa alla suddetta procedura concorsuale (art.
236, comma secondo, R.D. n. 267 del 1942). Conseguentemente, qualora sia intervenuta condanna
definitiva per tale reato, il giudice dell’esecuzione
è tenuto a revocare la relativa sentenza. * Cass.
pen., Sezioni Unite, 12 giugno 2009, n. 24468
(c.c. 26 febbraio 2009), Rizzoli. [RV243586]
l In caso di abrogazione di una norma incriminatrice, per accertare se le tipologie di fatti in
essa comprese siano riconducibili ad altra disposizione generale preesistente, è necessario procedere al confronto strutturale tra le due fattispecie
astratte, integrando all’occorrenza tale criterio
attraverso una valutazione dei beni giuridici rispettivamente tutelati, al fine di verificare l’eventuale intenzione dell’intervento abrogativo di
non attribuire più rilievo al disvalore insito nella
fattispecie incriminatrice soppressa. * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 12 giugno 2009, n. 24468 (c.c. 26
febbraio 2009), Rizzoli. [RV243587]
l La questione concernente la «abolitio criminis» è pregiudiziale rispetto alla questione — esaminabile in assenza di cause di inammissibilità
del ricorso per cassazione — relativa all’estinzione
del reato per prescrizione. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 15 maggio 2008, n. 19601 (ud. 28 febbraio
2008), Niccoli. [RV239400]
l Al personale militare partecipante alla missione in Iraq si applica anche per i reati commessi
prima della sua entrata in vigore, a norma dell’art. 2 comma 4 c.p., sopravvenuta e più favorevole disciplina dettata dal codice penale militare
di pace, secondo l’art. 2, comma 26 della legge 4
agosto 2006, n. 247 (fattispecie in materia di appropriazione di cosa smarrita di cui all’art. 236
c.p.m.p., commessa in data antecedente all’entrata in vigore della citata legge, per la quale è stata
correttamente esclusa l’applicabilità del più grave
regime sanzionatorio stabilito dall’art. 47 del codice penale militare di guerra). * Cass. pen., sez. I,
14 luglio 2007, n. 25811 (ud. 6 giugno 2007), X.
l La sospensione della chiamata obbligatoria
alla leva, introdotta con L. n. 331 del 2000 e successive integrazioni, non ha abolito il servizio di
leva militare obbligatoria, ma ne ha limitato l’operatività a specifiche situazioni e a casi eccezionali
riferiti anche al tempo di pace, sicchè il reato di
rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza
non è stato abrogato, ma è stato modificato il contenuto del precetto, che non ricomprende più la
condotta penalmente sanzionata dalle precedenti
disposizioni legislative, con la conseguenza che
per i fatti anteriormente commessi, sempre che
non sia stata pronunciata sentenza di condanna
irrevocabile, deve farsi applicazione delle nuove
più favorevoli disposizioni, per le quali la condot-
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56
ta di rifiuto non è più reato. * Cass. pen., sez. I, 23
marzo 2007, n. 12363 (ud. 9 marzo 2007), P.G. in
proc. Ramundo. [RV236224]
l La sospensione del servizio militare di leva,
previsto dall’art. 7 D.L.vo n. 215 del 2001, non ha
determinato la totale abolizione del servizio militare obbligatorio, che continua ad essere previsto in
riferimento a specifiche situazioni e a determinati
casi eccezionali riferibili anche al tempo di pace
ai sensi dell’art. 2 L. 14 novembre 2000 n. 331. Ne
consegue, da un lato, la manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale del citato art. 7 in relazione all’art. 52 Cost. e, dall’altro,
che alla fattispecie di reato di mancata chiamata
alle armi, di cui agli artt. 151 e 154 c.p.m.p., non
essendo stata essa abolita, si applica il quarto e
non il secondo comma dell’art. 2, c.p., secondo
cui «se la legge del tempo in cui fu commesso il
reato e le posteriori sono diverse, si applica quella
le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo
che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile». *
Cass. pen., sez. I, 11 maggio 2006, n. 16228 (ud. 2
maggio 2006), Brusaferri. [RV233446]
l A seguito dell’istituzione del servizio militare professionale, realizzata dalla L. 14 novembre
2000 n. 331, entrata definitivamente a regime il
31 ottobre 2005, deve ritenersi abolito il servizio militare obbligatorio in tempo di pace e, di
conseguenza, abrogato il delitto di rifiuto di prestare lo stesso da parte dei cittadini ad esso tenuti
per chiamata di leva, ai sensi dell’art. 14, comma
secondo, L. n. 230 del 1998. Ne consegue che, ai
sensi dell’art. 2, comma secondo, c.p., da un lato
non è punibile la condotta di chi in precedenza,
quando detto servizio era obbligatorio, ha rifiutato di prestarlo e, dall’altro, vengono a cessare
l’esecuzione e gli effetti penali della condanna
eventualmente subita. (La Corte, nell’enunciare il
principio, ha annullato senza rinvio la sentenza
di condanna dell’imputato «perché il fatto non
è previsto dalla legge come reato»). * Cass. pen.,
sez. I, 2 marzo 2006, n. 7628 (ud. 24 gennaio
2006), Bova. [RV233445]
l Non è nullo il provvedimento di revoca della
sentenza di condanna, per sopravvenuta « abolitio
criminis» del reato, emesso dal giudice dell’esecuzione senza l’avviso alle parti civili dell’udienza
camerale ex art. 666 comma terzo c.p.p., in quanto i soggetti costituiti parte civile nel processo
di cognizione non hanno interesse a partecipare
all’incidente di esecuzione dal quale non potrebbe derivare alcun vantaggio o pregiudizio per le
situazioni soggettive di cui essi sono titolari, dal
momento che il loro diritto al risarcimento permane anche a seguito dell’abrogazione del reato,
trovando applicazione non l’art. 2 comma secondo c.p., ma l’art. 11 delle preleggi. * Cass. pen., sez.
V, 29 luglio 2005, n. 28701 (c.c. 24 maggio 2005),
P.G. in proc. Romiti ed altri. [RV231866]
l Non deve procedersi alla revoca delle sospensioni condizionali precedentemente concesse
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57
Titolo I – Legge penale
con riferimento a condanne per fatti non piú previsti dalla legge come reato, in quanto l’abolitio
criminis fa cessare l’esecuzione e gli effetti penali
della condanna, tra i quali deve annoverarsi l’attitudine della medesima a costituire precedente
ostativo alla reiterazione della sospensione condizionale della pena. (Fattispecie in cui il P.M. aveva
chiesto la revoca della sospensione condizionale
riguardante precedenti condanne per fatti di
emissione di assegni a vuoto, reato depenalizzato
con il D.L.vo n. 507 del 1999). * Cass. pen., sez. V,
29 luglio 2005, n. 28714 (c.c. 4 luglio 2005), P.M.
in proc. Savegnago. [RV231867]
l Quando a seguito di successione di leggi penali, ai sensi dell’art. 2 c.p., venga meno il fatto di
reato posto a fondamento della misura cautelare,
il giudice dell’impugnazione, anche nell’ambito
incidentale del procedimento cautelare e pur nel
rispetto del principio tantum devolutum quantum
appellatum, deve rilevare la eventuale sopravvenuta abrogatio criminis. * Cass. pen., sez. III, 22
aprile 2004, n. 18697 (c.c. 11 marzo 2004), Patriarca, in Riv. pen. 2004, 848.
l La sopravvenuta abolitio criminis, avendo
efficacia ablatoria completa, comporta la cessazione di tutte le conseguenze giuridiche che
si riconnettono alla condanna, ivi compresa l’attitudine di quest’ultima a costituire precedente
formalmente ostativo ad una nuova concessione
della sospensione condizionale della pena. * Cass.
pen., sez. I, 26 marzo 2004, n. 14928 (c.c. 20 febbraio 2004), P.M. in proc. Sampana, in Riv. pen.
2004, 607.
l L’abrogazione della norma incriminatrice
fa cessare l’esecuzione e gli effetti penali della
condanna, tra i quali ultimi deve annoverarsi l’attitudine della medesima a costituire precedente
formalmente ostativo alla reiterazione della sospensione condizionale della pena. Tale effetto si
produce indipendentemente dalla formale dichiarazione di revoca della condanna, quale prevista
dall’art. 673 c.p.p., avendo tale dichiarazione natura meramente dichiarativa. Pertanto, non può
essere disposta la revoca, ai sensi dell’art. 168,
comma quarto, c.p., della sospensione condizionale della pena che sia stata concessa una terza
volta, in apparente violazione dell’art. 164, comma quarto, stesso codice, a soggetto che ne aveva
già fruito in relazione a due precedenti condanne,
quando queste, ancorché non sia per esse intervenuta la revoca ex art. 673 c.p.p., risultino comunque pronunciate per fatti non più costituenti
reato (nella specie, emissione di assegni a vuoto).
* Cass. pen., sez. I, 23 febbraio 2004, n. 7652 (c.c.
11 febbraio 2004), Cunsolo. [RV227192]
l Il giudicato interno formatosi a seguito dell’annullamento parziale della Corte di cassazione
non prevale sull’abolitio criminis, la quale fa venir
meno, prima ancora che la validità e l’efficacia
della norma penale iscriminatrice, la sua stessa
esistenza nell’ordinamento giuridico, sicché il giu-
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Art. 2
dice, formalmente investito della cognizione della
fattispecie, oggetto di abrogazione, deve preliminarmente dichiarare che il fatto non è previsto
dalla legge come reato, in ossequio al precetto di
cui all’art. 2 c.p. Ne consegue che, nell’ipotesi in
cui il fatto di reato, oggetto dell’abolitio criminis,
sia stato giudicato come unito dal vincolo della
continuazione con altro reato, la sentenza, limitatamente a tale capo, va annullata senza rinvio
e dalla pena, a suo tempo determinata a titolo di
continuazione, deve essere scomputato l’aumento
riferibile al reato abrogato. * Cass. pen., sez. VI,
18 giugno 2003, n. 26112 (ud. 16 aprile 2003), Costa A. [RV226010]
l Quando intervenga abolitio criminis dopo
una sentenza assolutoria di primo grado, con la
formula “perché il fatto non sussiste”, il giudice
di appello, di fronte alla non evidenza dell’innocenza dell’imputato, legittimamente pronuncia
l’assoluzione con la formula “perché il fatto non
è previsto dalla legge come reato”, non potendosi
compiere ulteriori indagini in ordine ad un fatto
divenuto privo di rilevanza penale. * Cass. pen.,
sez. IV, 21 maggio 2003, n. 22334 (ud. 16 maggio
2002), Giannangeli E. [RV224836]
l Quando l’abolitio criminis viene dedotta in
sede esecutiva, al giudice è richiesta la valutazione
in astratto della fattispecie oggetto della sentenza
rispetto al nuovo assetto del sistema penale, ciò
anche se la norma incrimintrice non sia stata interamente abrogata, ma sia stata riscritta con una
riduzione del relativo ambito di operatività. In tale
ipotesi, il giudice dell’esecuzione, qualora non ritenga sufficiente l’analisi del capo di imputazione,
può anche scendere all’esame degli atti processuali
per verificare ed accertare, attraverso di essi, la
consistenza ed i contorni della condotta, senza però
valutare di nuovo il fatto, mediante un giudizio di
merito non consentito. (Fattispecie concernente
il reato di cui all’art. 323 c.p., commesso prima
dell’entrata in vigore della legge n. 234 del 1997). *
Cass. pen., sez. VI, 21 maggio 2003, n. 22539 (c.c.
10 marzo 2003), Di Nardo. [RV226196]
l Sussiste l’abolitio criminis del reato di contrabbando doganale (art. 282 D.P.R. n. 43 del
1973) consistente nell’omissione del pagamento
del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente dalla Repubblica Federale
Yugoslava in virtù della sopravvenienza del regolamento comunitario n. 2007 del 2000, integrato e
modificato dal regolamento n. 2563 del 2000 che
ha sottratto tale merce ai diritti di confine sulla
stessa gravanti, in quanto le norme impositive del
dazio costituiscono norme extrapenali integratrici del precetto penale ed, in quanto tali, rientranti
nell’ambito di applicazione dell’art. 2 c.p. * Cass.
pen., sez. III, 27 marzo 2003, n. 14329 (c.c. 4 febbraio 2003), Pertot. [RV224243]
l In caso di abolitio criminis intervenuta
dopo la sentenza assolutoria di primo grado o
per insussistenza del fatto, il giudice di appello
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Art. 2
Libro I – Dei reati
prima di riformare la decisione e dichiarare non
doversi procedere a carico dell’imputato perché
il fatto non è più previsto dalla legge come reato
deve indicare le ragioni per le quali il fatto deve
ritenersi sussistente, atteso che tra le diverse
cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. la
formula «perché il fatto non sussiste» deve prevalere su qualsiasi altra formula, sia perché indicata
prioritariamente nell’elencazione contenuta nel
citato art. 129, sia perché preclusiva di eventuale
azione civile. * Cass. pen., sez. III, 21 dicembre
2001, n. 45562 (ud. 21 novembre 2001), Raguseo
V. [RV220740]
l L’intervenuta abrogazione, per effetto dell’art.
18 della legge 25 giugno 1999 n. 205, dell’art. 341
c.p. ha dato luogo non ad una pura e semplice
abolitio criminis, disciplinata dall’art. 2, comma
secondo, c.p., ma ad un fenomeno di successione
di leggi penali nel tempo, inquadrabile nelle previsioni di cui al successivo terzo comma dello stesso
articolo; ciò in quanto la condotta già qualificata
come oltraggio a pubblico ufficiale dall’abrogata
norma incriminatrice sarebbe stata — ed è rimasta
— punibile, sia pure meno severamente, in assenza
di detta norma, a titolo di ingiuria o di minaccia
aggravate ai sensi dell’art. 61 n. 10 c.p. Ne consegue
che, facendosi espressamente salvi, nella disciplina
dettata dal terzo comma dell’art. 2 c.p., gli effetti
del giudicato, non può darsi luogo a revoca, ai sensi
dell’art. 673 c.p.p., della sentenza di condanna per
il reato di oltraggio a pubblico ufficiale divenuta
esecutiva prima dell’intervento abrogativo. * Cass.
pen., sez. I, 7 giugno 2000, n. 3137 (c.c. 26 aprile
2000), P.M. in proc. Saoud A. In termini, Cass. pen.,
sez. I, 25 maggio 2000, n. 2744, Guerrini. Difforme
la massima che segue. [RV216096]
l L’intervenuta abrogazione, per effetto dell’art. 18 della legge 25 giugno 1999 n. 205, del
reato di oltraggio a pubblico ufficiale, previsto
dall’art. 341 c.p., non ha dato luogo ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo,
quale disciplinato dall’art. 2, comma terzo, c.p.,
ma ad una vera e propria abolitio criminis rientrante, come tale, nelle previsioni di cui al secondo comma dello stesso articolo. Ne consegue che
la permanenza nell’ordinamento penale dei reati
di ingiuria e di minaccia, aggravati (se commessi
in danno di un pubblico ufficiale), ai sensi dell’art.
61 n. 10 c.p. e rispetto ai quali il reato di oltraggio
si poneva in rapporto non di specialità ma di assorbimento, non può costituire valida ragione per
negare la revoca, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., di
una condanna per oltraggio inflitta con sentenza
divenuta esecutiva prima dell’intervento abrogativo. * Cass. pen., sez. I, 7 giugno 2000, n. 3165 (c.c.
27 aprile 2000), Longo. [RV216098]
l In caso di abolitio criminis, poiché tale
evento fa venire meno, ancor più che la validità
e la efficacia della norma penale incriminatrice,
la sua stessa esistenza nell’ordinamento, ogni
giudice che sia formalmente investito della co-
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 58
58
gnizione sulla fattispecie oggetto di abrogazione
ha il compito di dichiarare, ex art. 129, primo
comma, c.p.p., che il fatto non è previsto dalla
legge come reato, in ossequio al precetto di cui
all’art. 2, secondo comma, c.p., per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
una legge posteriore, non costituisce reato. In
altri termini, essendo venuto meno l’oggetto sostanziale del rapporto processuale penale, e cioè
il nesso tra un fatto penalmente rilevante e l’accusato (imputazione-imputato), tale declaratoria
è necessariamente pregiudiziale rispetto ad ogni
altro accertamento (quale quello relativo alle
cause di inammissibilità della impugnazione) che
implichi, invece, la formale permanenza di una
res judicanda; e ciò non diversamente da quanto
è imposto al giudice nella ipotesi di morte dell’imputato, ove pure — in questo caso per il venir
meno della componente soggettiva — il rapporto
processuale è risolto. (Fattispecie avente ad oggetto il reato di cui all’art. 341 c.p., nella quale
la Corte di cassazione, annullando senza rinvio
la sentenza impugnata, ha dichiarato che il fatto
non è previsto come reato, a norma dell’art. 18
della L. 25 giugno 1999, n. 205, pur dando atto
della inammissibilità dei motivi di ricorso). *
Cass. pen., sez. VI, 14 gennaio 2000, n. 356 (ud.
15 dicembre 1999), El Quaret. [RV215285]
l Quando nell’imputazione recepita nel dispositivo non siano indicati con chiarezza gli elementi di illiceità penale sopravvissuti all’abolitio
criminis può e deve essere analizzata la sentenza
revocanda nel suo complesso anche motivazionale allo scopo di verificare quali accertamenti e valutazioni del fatto storico rilevanti siano contenuti in motivazione. Ove, poi, anche gli elementi di
fatto valutati e ritenuti per certi nella motivazione
siano o neutri o dubbi ovvero non rilevanti al fine
di delineare la condotta (e la sua conseguente liceità o illiceità a confronto col parametro normativo abolito o residuo), può il giudice dell’esecuzione passare all’esame degli atti processuali per
verificare ed accertare attraverso di essi la consistenza ed i contorni della condotta. (Fattispecie
in materia di vendita di sostanze stupefacenti). *
Cass. pen., sez. IV, 4 luglio 1996, n. 1397 (c.c. 29
maggio 1996), Baluì. [RV205415]
l Gli effetti delle sentenze irrevocabili e dei
decreti esecutivi, concernenti fatti rientranti nella
previsione della L. 28 dicembre 1993, n. 561 —
che ha trasformato in illeciti amministrativi alcuni reati minori, tra cui quello, nella fattispecie,
di cui all’art. 195 D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156
(per avere l’imputato senza la preventiva autorizzazione installato sulla propria autovettura un
impianto radioelettrico di telecomunicazione)
— sono in generale regolati dal principio, posto
dall’art. 2, comma 2, c.p., dell’iperretroattività
della decriminalizzazione successiva al fatto, ad
eccezione di quelli disciplinati direttamente dalla
stessa legge. (Nella specie la S.C. ha revocato la
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59
Titolo I – Legge penale
sentenza pretorile nella parte relativa all’applicazione della pena dell’arresto, ferma restando la
confisca disposta con la medesima sentenza; ha
dichiarato cessata l’esecuzione della pena detentiva ed ha annullato l’ordine di carcerazione; ha
dichiarato, altresì, cessati gli effetti penali della
stessa sentenza). * Cass. pen., sez. III, 1 giugno
1995, n. 1426 (c.c. 24 aprile 1995), P.M. in proc.
Pischedda. [RV202378]
l L’effetto abrogativo del D.P.R. 5 giugno 1993,
n. 171 — che ha concluso la procedura referendaria diretta all’abrogazione di talune norme del
testo unico in materia di sostanze stupefacenti e
psicotrope approvato con il D.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309 — ha comportato, rispetto alla detenzione di sostanze stupefacenti e psicotrope per uso
personale, una vera e propria abolitio criminis,
quale prevista dall’art. 2, comma 2, c.p. e rilevante ai sensi dell’art. 673 c.p.p., una norma che
opera non soltanto quando una fattispecie legale
criminosa nel suo complesso sia eliminata dal sistema penale, ma anche quando venga resa inapplicabile la norma incriminatrice in uno dei casi
che, in precedenza, rientravano nell’area dei fatti
penalmente sanzionati come reati. Ove, dunque,
ci si trovi in presenza di una condanna definitiva,
la procedura prevista dall’art. 673 c.p.p. non può
essere assimilata ad una impugnazione, per cui è
da intendere precluso qualsiasi nuovo esame delle
prove e degli elementi raccolti emersi nella precedente fase di cognizione, ormai del tutto esaurita;
compito del giudice dell’esecuzione è, infatti,
quello di interpretare il giudicato e di renderne
esplicito il contenuto ed i limiti, ricavando dalla
decisione irrevocabile tutti gli elementi, ancorché
non chiaramente espressi, che si rendano necessari ai fini della disciplina prevista dal più volte
ricordato art. 673. Quindi, pur dovendosi tenere
fermo il principio che il giudicato si è formato in
corrispondenza delle statuizioni racchiuse nel dispositivo della sentenza, qualora non sia possibile
individuare già dal capo di imputazione contestato la finalità per la quale la sostanza stupefacente
era detenuta, al fine di escludere la ipotesi della
detenzione per uso personale, ben può essere
utilizzata la motivazione della decisione, quando
si tratti, non di modificare il dispositivo, ma di
stabilire il significato e la portata di esso, nell’indiscusso presupposto che il rapporto tra parte
motiva e parte dispositiva della sentenza non può
che essere di integrazione. * Cass. pen., sez. VI, 20
agosto 1994, n. 1542 (c.c. 13 aprile 1994), Rosati.
l Per aversi abolitio criminis a seguito di successione di legge penale nel tempo, ai fini dell’art.
2 comma terzo c.p. e dell’art. 673 comma primo
c.p.p., è necessaria l’eliminazione, oltre che del titolo del reato, anche dell’intera fattispecie di rilievo penale. Non è invece rilevante, a tal fine, la modifica, l’introduzione o l’eliminazione di elementi
accidentali o accessori del reato, quali sono le circostanze. (Nella fattispecie la Corte di cassazione
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Art. 2
ha rigettato il ricorso avverso ordinanza che aveva
respinto l’istanza diretta al giudice dell’esecuzione
volta a rideterminare la pena inflitta per i delitti di
cui agli artt. 71 e 74 legge n. 685/1975, previa concessione dell’attenuante di cui all’art. 73 comma
settimo D.P.R. n. 309/90, introdotta con legge successiva al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna). * Cass. pen., sez. VI, 17 giugno 1994,
n. 1490 (c.c. 8 aprile 1994), De Angelis.
l La successione di norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco o anche
soltanto di un elemento normativo della norma
penale di per sé non dà luogo ad una successione di leggi penali e tanto meno determina una
ipotesi di abolitio criminis, occorrendo accertare
se tale successione comporti o meno, rispetto al
«fatto», quella effettiva immutatio legis, che è la
ratio giustificatrice del principio di retroattività
della legge più favorevole sancito dall’art. 2, comma 2, c.p. (Fattispecie in tema di pubblicazione
arbitraria di atti di un procedimento penale —
art. 684 c.p. — in cui la Corte di cassazione, sulla
base del principio di diritto di cui in massima, ha
annullato la sentenza di merito che aveva escluso
la configurabilità del reato sul rilievo che l’art. 114
del nuovo c.p.p., a differenza dell’art. 164 c.p.p.
1930, non contempla più tra gli atti protetti dal
divieto di pubblicazione quello conclusivo della
fase processuale antecedente al dibattimento,
che sostituisce l’ordinanza di rinvio a giudizio del
giudice istruttore). * Cass. pen., sez. VI, 14 giugno
1994, n. 6864 (ud. 9 marzo 1994), P.G. c. Paris.
l In base all’art. 2, secondo comma, c.p. —
richiamato anche dall’art. 1, L. 21 ottobre 1988,
n. 455 («depenalizzazione degli illeciti valutari»)
— l’intervenuta abolitio criminis determina la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della
condanna. Dalla dizione della norma si evince argomentando a contrario che le obbligazioni civili
nascenti dal reato non «cessano» e sono quindi
soggette ad esecuzione. Nella nozione di obbligazioni civili vanno annoverate quelle verso lo Stato
al pagamento delle spese processuali. Tra queste
ultime vanno comprese, oltre quelle anticipate
per la celebrazione del processo e di eventuale
custodia cautelare, anche quelle per l’iscrizione
ipotecaria eventualmente disposta nel contesto
dell’originario processo. * Cass. pen., sez. III, 29
maggio 1993, n. 1029 (ud. 30 aprile 1993), Vago.
Conforme, Cass. pen., sez. V, 2 febbraio 2006, n.
4266 (c.c. 20 dicembre 2005), Colacito.
l Qualora un fatto perda il carattere di illecito penale a seguito di una modifica legislativa
intervenuta successivamente che concerna la
disciplina normativa extra penale di riferimento
per attribuire la qualità di soggetto attivo di un
reato proprio si applica il principio di retroattività
della legge più favorevole affermato dall’art. 2 c.p.
perché per legge incriminatrice deve intendersi
il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini
della descrizione del fatto tra cui, nei reati propri
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Art. 2
Libro I – Dei reati
è indubbiamente compresa la qualità del soggetto
attivo. (Nella fattispecie è stata ritenuta non più
ravvisabile l’ipotesi del reato di peculato nella condotta di un dipendente di una Cassa di risparmio
perché è stata esclusa, a seguito di novatio legis,
l’attribuibilità allo stesso della qualifica di pubblico ufficiale). * Cass. pen., Sezioni Unite, 16 luglio
1987, n. 8342 (ud. 23 maggio 1987), Tuzet.
c) Applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo.
l A seguito della sentenza della Grande Chambre della Corte EDU n. 10249 del 17 settembre
2009 nel caso Scoppola c. Italia, il condannato
alla pena dell’ergastolo con sentenza passata in
giudicato può ottenere in sede esecutiva la riduzione della pena ex art. 442 cod. proc. pen. a condizione che abbia chiesto e sia stato ammesso al
rito abbreviato tra il 2 gennaio ed il 24 novembre
2000 (e, cioè, nella vigenza dell’art. 30, comma
primo, lett. b., L. 479 del 1999) e la decisione sia
stata pronunciata dopo il 24 novembre 2000, con
applicazione del D.L. 341del 2000 che ripristinava
l’ergastolo senza isolamento diurno. * Cass. pen.,
sez. I, 3 giugno 2013, n. 23931 (c.c. 17 maggio
2013), Lombardi. [RV256257]
l In tema di successione di leggi processuali
nel tempo, il principio secondo il quale, se la
legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate
prima della pronunzia di una sentenza definitiva
sono diverse, il giudice deve applicare quella le
cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato,
non costituisce un principio dell’ordinamento
processuale, nemmeno nell’ambito delle misure
cautelari, poiché non esistono principi di diritto
intertemporale propri della legalità penale che
possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 14 luglio 2011, n. 27919 (c.c. 31 marzo
2011), P.G. in proc. Ambrogio. [RV250196]
l Il principio di retroattività della legge più
favorevole non trova applicazione in riferimento
alla successione di leggi amministrative che abbiamo a regolare le procedure per lo svolgimento
di attività, il cui carattere criminoso dipenda
dall’assenza di autorizzazioni. (Nella specie,
l’attività di recupero di rifiuti non pericolosi era
stata avviata dall’imputato previa comunicazione
di inizio attività inviata alla competente Provincia
ma in difetto del nulla osta comunale, necessario
all’epoca dei fatti, e non più richiesto a seguito
dell’entrata in vigore della Legge Reg. Lombardia
n. 8 del 2007). * Cass. pen., sez. III, 22 giugno
2011, n. 25035 (ud. 25 maggio 2011), Pasinetti e
altro. [RV250616]
l In tema di successione di leggi penali nel
tempo, la norma posteriore che abbia sostituito
l’originaria comminatoria di pena detentiva congiunta a pena pecuniaria con quella della sola
pena pecuniaria, deve essere sempre considerata
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60
più favorevole ai fini dell’art. 2, comma quarto,
c.p. (Fattispecie riguardante il reato di cui all’art.
186 c.s., così come modificato dalla L. n. 160 del
2007, la cui formulazione è stata ritenuta, nei casi
in cui prevede l’applicazione della sola sanzione
pecuniaria, più favorevole rispetto a quella in
precedenza introdotta dalla legge n. 214 del 2003,
non rilevando in senso contrario la convertibilità
della sanzione detentiva originariamente prevista
ovvero la sopravvenuta limitazione del regime
dell’impugnazione conseguente al mutamento del
tipo di sanzione o, infine, l’eventualità che la nuova disposizione incriminatrice preveda sanzioni
amministrative accessorie più severe rispetto a
quelle contemplate dalla norma previgente). *
Cass. pen., sez. IV, 12 agosto 2008, n. 33397 (ud.
14 luglio 2008), De Brida. [RV240966]
l In tema di successione di leggi penali, deve
applicarsi quella che prevede il trattamento sanzionatorio ritenuto più favorevole al reo, anche
quando la legge posteriore, che l’ha modificata,
abbia ripristinato le pene più severe previste da
altra legge anteriore che la stessa aveva a sua
volta modificato. (Fattispecie in tema di guida in
stato di ebbrezza consumata prima dell’entrata
in vigore del D.L.vo n. 274 del 2000, che aveva
attribuito alla competenza del giudice di pace il
reato, ma giudicato dopo l’entrata in vigore del
D.L. n. 151 del 2003 convertito nella L. n. 214 del
2003, che ha invece ripristinato l’originaria competenza del giudice ordinario). * Cass. pen., sez.
IV, 18 ottobre 2007, n. 38548 (ud. 21 settembre
2007), De Bernardin. Conforme, Cass. pen., sez.
II, 9 settembre 2009, n. 35079 (ud. 7 luglio 2009),
Sylla. [RV237653]
l L’art. 6, comma secondo, del Trattato istitutivo dell’Unione Europea assicura il rispetto, in
quanto principio generale del diritto comunitario,
dei diritti fondamentali dell’uomo garantiti dalle
tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; tra essi, non rientra, peraltro, la retroattività
della legge penale più favorevole, poiché il valore
da essa tutelato può essere sacrificato da una legge
ordinaria in favore di interessi di analogo rilievo
(quali, ad esempio, quelli dell’efficienza del processo e della salvaguardia dei diritti dei soggetti che in
vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi od
esigenze dell’intera collettività nazionale connessi
a valori costituzionali di rilievo primario). (In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato una
richiesta «ex» art. 234 Trattato UE, di rimessione
della questione alla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea). (Conf. Corte cost. n. 393 del 2006). *
Cass. pen., sez. II, 21 settembre 2007, n. 35257 (ud.
16 maggio 2007), Felicetti e altro. [RV237909]
l È legittimo il provvedimento con cui il
Tribunale di sorveglianza rigetta l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale — proposta
da un condannato al quale sia stata applicata la
recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma quar-
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61
Titolo I – Legge penale
to, c.p., con sentenza passata in giudicato prima
dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005
che all’art. 7 limita la concessione dei benefici
penitenziari ai recidivi — considerato che le
norme che disciplinano le misure alternative alla
detenzione, riguardando le modalità esecutive
della pena, non hanno natura di norme penali
sostanziali e, quindi, non sono ad esse riferibili
le previsioni di cui all’art. 2 c.p. e 25 Cost., con
la conseguenza che sono, in virtù del principio
tempus regit actum immediatamente applicabili.
* Cass. pen., sez. I, 11 ottobre 2006, n. 34040 (c.c.
22 settembre 2006), Helt. [RV235189]
l L’art. 5 della legge 24 febbraio 2006 n. 85 ha
modificato l’art. 292 c.p., prevedendo per l’ipotesi
aggravata di vilipendio alla bandiera una pena
più mite, sicché, attesa la sostanziale continuità
strutturale delle fattispecie criminose disciplinate
dalle leggi penali succedutesi nel tempo, il più
favorevole regime sanzionatorio è applicabile ai
sensi dell’art. 2, comma quarto, c.p. nei processi
pendenti in relazione a fatti commessi nel vigore
della precedente normativa. * Cass. pen., sez. I,
3 luglio 2006, n. 22891 (ud. 6 giugno 2006), Di
Costanzo. [RV234279]
l In caso di successione nel tempo di norme
extrapenali integratrici del precetto penale, deve
ritenersi inapplicabile il principio previsto dall’articolo 2, comma terzo, c.p. qualora si tratti di
modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente
una variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando; ciò si verifica, in
particolare, allorquando la nuova disciplina non
abbia inteso far venir meno il disvalore sociale
della condotta, e quindi l’illiceità penale della
stessa, ma si sia limitata a modificare i presupposti per l’applicazione della norma incriminatrice
penale. (Il principio è stato affermato dalla S.C.
in una vicenda relativa al trattamento da riservare
alla sostanza «norefredina» o «fenilpropanolamina» che, successivamente alla commissione dei
fatti sub iudice relativamente ai quali era stato
contestato il reato di cui all’articolo 73 D.P.R. 9
ottobre 1990 n. 309, era stata ricompresa tra i
«precursori» ossia tra le sostanze suscettibili di
impiego per la produzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Secondo la difesa, da ciò
sarebbe dovuto derivare, in ossequio al disposto
dell’articolo 2, comma terzo, c.p., che la disciplina applicabile avrebbe dovuto essere quella,
più favorevole, di cui all’articolo 70 dello stesso
D.P.R.; la Corte ha invece rigettato la doglianza
con le argomentazioni di cui sopra, evidenziando,
peraltro, che del principio espresso dall’articolo
2, comma terzo, c.p. si sarebbe dovuto semmai
fare applicazione solo nella diversa ipotesi in
cui la nuova disciplina, anziché limitarsi a regolamentare diversamente i presupposti per l’applicazione della norma penale, avesse esclusa
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Art. 2
l’illiceità oggettiva della condotta: ad esempio, nel
caso di una modifica tabellare che avesse portato
ad escludere la natura stupefacente di una determinata sostanza). * Cass. pen., sez. IV, 18 maggio
2006, n. 17230 (c.c. 22 febbraio 2006), Sepe ed altri. Conforme, Cass. pen., sez. III, 18 aprile 2011,
n. 15481, Guttà e altro. [RV234029]
l In tema di sospensione condizionale della
pena nei confronti di persona che ne abbia già
usufruito, la disposizione dell’art. 165, comma secondo, c.p.p., introdotta dall’art. 2, comma primo
lett. a) L. 11 giugno 2004 n. 145, può, nonostante
la sua natura sostanziale, essere applicata retroattivamente, ai sensi dell’art. 2, comma terzo,
c.p., anche in relazione a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina,
siccome previsione più favorevole per l’imputato,
il quale, a differenza che in passato, può scegliere
che il beneficio sia subordinato ad una condizione
da lui ritenuta meno gravosa di ciascuna di quelle che il giudice, ai sensi della legge previgente,
avrebbe dovuto altrimenti obbligatoriamente applicare. (Fattispecie in tema di nuova concessione, ai sensi dell’art. 165, comma secondo, c.p.p.,
come modificato dall’art. 2, comma primo lett. a)
L. n. 145 del 2004, della sospensione condizionale
della pena, già in precedenza applicata, subordinata alla prestazione di attività non retribuita in
favore della collettività per un periodo di tempo
determinato, per fatti commessi anteriormente
all’entrata in vigore della L. n. 145 del 2004). *
Cass. pen., sez. I, 29 dicembre 2005, n. 47291 (c.c.
30 novembre 2005), De Filippo. [RV234093]
l Poichè le sanzioni sostitutive di pene detentive brevi previste dall’art. 53 legge 24 novembre
1981 n. 689 hanno natura di vere e proprie pene, le
norme che le disciplinano hanno natura sostanziale e, in caso di successione di leggi nel tempo, sono
soggette alla disciplina di cui all’art. 2, comma
terzo, c.p.. Ne consegue che la legge sopravvenuta
piú favorevole (nel caso di specie, legge 12 giugno
2003 n. 134) non può essere applicata dal giudice
dell’esecuzione, non potendo estendersi analogicamente il potere riconosciuto al giudice dell’esecuzione dall’art. 671 c.p.p. ai casi previsti dall’art. 673
c.p.p. * Cass. pen., sez. I, 4 luglio 2005, n. 24652
(c.c. 25 maggio 2005), Silvestro. [RV231669]
l Nel novero delle norme integratrici della
legge penale, cui è applicabile il principio di retroattività della legge più favorevole, ai sensi
dell’art. 2, comma terzo, c.p., debbono ricomprendersi tutte quelle che intervengano nell’area
di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola in
senso migliorativo per l’agente; e ciò quand’anche
la nuova norma non rechi testuale statuizione in
tal senso ma, comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per
il nuovo caso regolato, nella struttura della norma
incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di di-
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Art. 2
Libro I – Dei reati
svalore in essa espresso. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che
potesse valere ad escludere la configurabilità del
reato di violazione di domicilio — addebitato ad
un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli introdotto e trattenuto,
per dichiarate finalità ispettive, contro la volontà
del proprietario, in un locale privato adibito a canile — la sopravvenuta emanazione di una norma
regionale che imponeva ai gestori di strutture di
ricovero per animali di consentire l’accesso, senza
bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai
responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche). * Cass. pen., sez. V, 2 marzo 2005, n. 8045 (ud. 4 febbraio 2005), Battaglia
ed altri. [RV230567]
l In virtù del principio del favor rei stabilito
nell’art. 2, comma terzo, c.p., il trattamento sanzionatorio in concreto più favorevole, con riguardo al reato di guida in stato di ebbrezza (art. 186,
comma secondo, c.s.), commesso prima dell’entrata in vigore del D.L.vo n. 274 del 2000 che attribuisce detto reato alla competenza del giudice
di pace, è quello previsto dall’art. 52, comma secondo, lett. c) del citato D.L.vo n. 274 del 2000, il
quale deve essere applicato nella sua integralità,
anche se il reato sia stato giudicato da un giudice
diverso da quello di pace. Ne deriva che, in tal
caso, è illegittima l’applicazione della previsione
sanzionatoria originaria del codice della strada,
in quanto la pena detentiva, ad essa connessa, è,
in ogni caso, meno favorevole di quella pecuniaria, anche se applicata unitamente al beneficio
della sospensione condizionale della pena, la quale, peraltro, una volta individuata la disposizione
più favorevole nell’art. 52 citato, non può trovare
applicazione, giusta l’espressa previsione di cui
all’art. 60 D.L.vo n. 274 del 2000. * Cass. pen., sez.
IV, 6 ottobre 2004, n. 39069 (ud. 3 giugno 2004),
P.G. in proc. Basville. [RV230619]
l In materia di successione nel tempo di leggi
penali, è incontroverso che, una volta individuata
la disposizione complessivamente più favorevole,
il giudice deve applicare questa nella sua integralità, senza poter combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo
dell’altra legge secondo il criterio del favor rei,
perché in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di
legalità. (Nella specie, la Corte ha annullato senza
rinvio la sentenza del Tribunale che, giudicando
del reato di guida in stato di ebbrezza ex art. 186,
comma secondo, c.s., in epoca successiva all’entrata in vigore del D.L.vo 2000, n. 274 — e prima
della legge 1 agosto 2003, n. 214 —, pur applicando il trattamento sanzionatorio più favorevole
previsto per i reati divenuti di competenza del giudice di pace, aveva tuttavia ritenuto di applicare
il beneficio della sospensione condizionale della
pena, nonostante il relativo divieto). * Cass. pen.,
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62
sez. IV, 17 settembre 2004, n. 36757 (ud. 4 giugno
2004), Perino. Conformi: Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2004, n. 41702, Nuciforo; Cass. pen., sez. IV,
30 dicembre 2005, n. 47339 (ud. 28 giugno 2005),
P.G. in proc. Bourzama. [RV229687]
l In tema di diffamazione addebitata al parlamentare, la previsione di cui all’art. 3, comma
quarto, della legge n. 140 del 2003 (Disposizioni
per l’attuazione dell’art. 68 Cost.) — attribuendo
alle Camere la competenza a valutare se i comportamenti posti in essere dai loro membri rientrino
o meno nell’esercizio delle funzioni parlamentari
e siano, quindi, coperti dall’insindacabilità — implica che tale valutazione rivesta carattere pregiudiziale e che il giudice non abbia, al riguardo, alcun potere discrezionale. Ne deriva che egli deve
provvedere, qualora vi sia esplicita eccezione di
parte, alla acquisizione della deliberazione della
Camera cui appartiene il parlamentare, sospendendo il processo e inviando gli atti alla Camera
di appartenenza ai fini della risoluzione della
pregiudiziale costituzionale; tale previsione, costituendo norma penale più favorevole, è applicabile all’imputato, anche se sopravvenuta, in virtù
dell’art. 2, comma secondo, c.p. * Cass. pen., sez.
V, 23 luglio 2004, n. 32354 (ud. 12 luglio 2004),
P.G. in proc. Siciliani. [RV229338]
l In base al principio dell’applicazione della
legge sopravvenuta piú favorevole (art. 2, comma
terzo, c.p.), nel caso di reati attribuiti, in assenza
di aggravanti, alla competenza del giudice di pace,
ai sensi dell’art. 4 del D.L.vo 28 agosto 2000 n.
274, qualora gli stessi siano stati commessi prima
dell’entrata in vigore di detto D.L.vo e, pur essendo
aggravati, l’effetto delle aggravanti sia stato neutralizzato dall’avvenuto riconoscimento di circostanze
attenuanti, la sanzione applicabile dev’essere quella, piú favorevole, prevista dalla normativa sopravvenuta (principio affermato in tema di diffamazione). * Cass. pen., sez. V, 22 giugno 2004, n. 28006
(ud. 18 maggio 2004), Bartoccelli. [RV228712]
l In materia di successione di leggi penali,
l’art. 2 comma terzo c.p. prende in considerazione
tutti i mutamenti legislativi intervenuti, stabilendo che deve applicarsi la legge le cui disposizioni
sono piú favorevoli al reo; pertanto una volta che
sia entrata in vigore una legge piú favorevole, questa deve essere sempre applicata anche se, successivamente, il legislatore ritenga di modificarla in
senso meno favorevole. (Principio applicato dalla
Corte in una fattispecie relativa al reato di guida
in stato di ebbrezza, previsto dall’art. 186 comma
secondo cod. strad., commesso prima dell’entrata
in vigore del D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274, che
ha attribuito tale contravvenzione al giudice di
pace, con conseguente applicazione delle nuove
sanzioni paradetentive della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, e giudicato
dal tribunale dopo le modifiche apportate dal D.L.
27 giugno 2003, n. 151, convertito nella Legge 1
agosto 2003, n. 214, con cui è stata ripristinata
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Titolo I – Legge penale
la competenza del giudice ordinario, con la previsione della pena dell’arresto). * Cass. pen., sez.
IV, 20 maggio 2004, n. 23613 (c.c. 18 marzo 2004),
P.G. in proc. Vilhar. [RV228786]
l In tema di successione di leggi penali, ai fini
dell’individuazione della normativa di favore per
il reo, non si può procedere a una combinazione
delle disposizioni piú favorevoli della nuova legge
con quelle piú favorevoli della vecchia, in quanto
ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella
in vigore, ma occorre applicare integralmente
quella delle due che, nel suo complesso, risulti,
in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, piú vantaggiosa al reo. (Fattispecie relativa
ai delitti previsti dall’art. 4, comma primo, lett. d)
della legge 7 agosto 1982 n. 516 e dall’art. 2 D.L.vo
3 ottobre 2000 n. 74 in tema di dichiarazioni
fraudolente mediante uso di fatture inesistenti,
in relazione alla quale la Corte ha ritenuto piú
favorevole la normativa abrogata, in quanto dalla
sua applicazione integrale discendeva l’intervenuta prescrizione del reato). * Cass. pen., sez. III,
19 maggio 2004, n. 23274 (ud. 10 febbraio 2004),
Wanderling. [RV228728]
l Per i reati attribuiti alla cognizione del
giudice di pace, commessi prima della data di entrata in vigore del D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274 e
giudicati dal giudice togato, devono applicarsi, in
base alla disciplina transitoria prevista dal combinato disposto degli artt. 64 e 63 comma primo del
citato D.L.vo, le nuove sanzioni indicate dall’art.
52 dello stesso D.L.vo, in quanto più favorevoli ai
sensi dell’art. 2 comma terzo c.p. (nella specie si
trattava della contravvenzione di guida in stato di
ebbrezza e la Corte ha individuato la disciplina
più favorevole nella pena pecuniaria prevista dall’art. 52 D.L.vo 274/2000, precisando che nel raffronto tra i due diversi sistemi sanzionatori non
può darsi rilievo alla possibilità di sostituzione
della pena detentiva ex art. 53 legge n. 689/1981,
tenuto conto che la sua applicazione è rimessa
ad una valutazione discrezionale del giudice e,
inoltre, che la stessa sostituzione può essere oggetto di successiva revoca). * Cass. pen., sez. IV,
29 aprile 2004, n. 20156 (c.c. 9 dicembre 2003),
P.M. in proc. Bukavec. [RV228343]
l In tema di assegni bancari, la nuova disciplina relativa all’inosservanza delle sanzioni
amministrative accessorie, introdotta dal D.L.vo
30 dicembre 1999, n. 507, non ha depenalizzato
le violazioni dei divieti commesse nella vigenza
della normativa antecedente, atteso che l’art. 7
della L. 15 dicembre 1990, n. 386, come sostituito
dall’art. 32 del citato D.L.vo, conserva immutata
la sua ratio in relazione al permanere della previsione di illiceità penale della medesima condotta,
consistente nella inottemperanza al divieto temporaneo di emettere assegni; pertanto, con riferimento alle condotte trasgressive del divieto di
emettere assegni, poste in essere in epoca antece-
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Art. 2
dente all’entrata in vigore della nuova disciplina
di cui al D.L.vo 507 del 1999, trova applicazione il
delitto previsto dall’art. 389 c.p., in luogo di quello punito più gravemente dall’art. 7 della L. n. 386
del 1990 e ciò in forza del principio del favor rei
di cui all’art. 2 terzo comma c.p. * Cass. pen., sez.
VI, 20 novembre 2003, n. 44733 (ud. 24 settembre
2003), Nigro. [RV226903]
l L’individuazione, tra una pluralità di disposizioni succedutesi nel tempo, di quella più
favorevole al reo, va eseguita non in astratto, sulla
base della loro mera comparazione, bensì in concreto, mediante il confronto dei risultati che deriverebbero dall’effettiva applicazione di ciascuna
di esse alla fattispecie sottoposta all’esame del giudice. (Nella specie, relativa al reato di violazione
del divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono
manifestazioni sportive — qualificato come contravvenzione e punito con pena esclusivamente
detentiva dall’art. 6 della L. n. 401 del 1989 nel
suo testo originario, ma configurato come delitto
punito con pena detentiva della stessa durata,
alternativa a quella pecuniaria, nella versione di
tale articolo modificata dal D.L. n. 336 del 2001,
convertito con modificazioni nella L. n. 377 del
2001 —, la Corte ha giudicato corretto l’operato
del giudice di merito che aveva ritenuto in concreto più favorevole al reo l’applicazione della
precedente normativa, la quale configurava il
reato come contravvenzione, ma senza prevedere
la pena pecuniaria alternativa a quella detentiva).
* Cass. pen., sez. I, 28 ottobre 2003, n. 40915 (c.c.
2 ottobre 2003), Fittipaldi. [RV226475]
l Il principio del favor rei stabilito dall’art.
2 c.p. non comporta che, in caso di depenalizzazione con trasformazione del reato in illecito
amministrativo e conseguente previsione di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa,
allorché la causa estintiva della prescrizione
sia maturata dopo la depenalizzazione del fatto
debba procedersi alla dichiarazione di estinzione
del reato per decorso del tempo. * Cass. pen., sez.
III, 1 febbraio 2001, n. 3952 (ud. 26 ottobre 2000),
Reggiani G. [RV218532]
l La disciplina della revoca della patente prevista dal nuovo codice della strada è più favorevole all’imputato di quella precedente in quanto,
mentre nella vigenza del codice della strada abrogato spettava alla discrezionalità del giudicante
individuare i casi di particolare gravità che consentivano la revoca dell’autorizzazione alla guida,
l’art. 222, comma terzo, D.L.vo 30 aprile 1992,
n. 285, prevede la possibilità della revoca detta
esclusivamente nell’ipotesi di recidiva reiterata
specifica verificatasi entro il periodo di cinque
anni a decorrere dalla data della condanna definitiva per la prima violazione. * Cass. pen., sez.
IV, 10 ottobre 2000, n. 3881 (c.c. 28 giugno 2000),
Aramini M. [RV217481]
l È da considerare norma più favorevole sopravvenuta, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
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Art. 2
Libro I – Dei reati
2, comma terzo, c.p., anche quella con la quale sia
reso perseguibile a querela un reato precedentemente perseguibile d’ufficio. * Cass. pen., sez. III,
14 giugno 2000, n. 6983 (ud. 27 aprile 2000), P.G.
in proc. R., in Riv. pen. 2001, 77.
l Non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 2, terzo
comma, c.p. quando lo stesso fatto sia punito in
base a due leggi coeve, allorché una di esse identifichi come reato, sanzionandola in modo meno
grave, una delle condotte integranti gli estremi
di un diverso reato previsto dall’altra, se la prima legge rimanga in vigore e la seconda venga
abrogata. In tal caso, non si verifica l’automatica
“espansione” della legge ancora vigente, sia perché il terzo comma dell’art. 2 c.p. — riferendosi
a “leggi posteriori” — prevede l’ipotesi di una
legge successiva rispetto ad altra anteriore (che
non ricorre nella specie), sia perché una diversa
interpretazione susciterebbe dubbi di legittimità
costituzionale, in quanto comporterebbe l’applicazione della norma rimasta in vigore a un fatto
anteriormente verificatosi (art. 25 Cost.), così
violandosi il principio di irretroattività della legge
penale, e urterebbe, inoltre, con l’art. 112 Cost.,
giacché la norma penale coeva ancora in vigore
risulterebbe applicata in mancanza dell’esercizio
della azione penale. In ogni caso, l’applicazione
di tale norma contrasterebbe con la natura del fenomeno della abrogazione, che opera “ex nunc”:
la norma abrogata resta, infatti, vigente, per il
periodo anteriore alla abrogazione, impedendo,
per lo stesso periodo, l’applicazione della legge
rimasta in vigore, onde sarebbe contrario al sistema considerare ampliato, ora per allora, il raggio
di azione di quest’ultima norma. (Nel caso, in cui
era stato impugnato il provvedimento emesso in
sede di incidente di esecuzione di diniego di revoca della sentenza di condanna per il reato di oltraggio, passata in giudicato, la Corte ha revocato
questa sentenza, affermando il principio di cui
in massima, ed escludendo che, a seguito della
abrogazione dell’art. 341 c.p. — che prevedeva il
reato di oltraggio — per effetto dell’art. 18 della L.
25 giugno 1999, n. 205, possa perseguirsi il fatto
per i reati di ingiuria o di minaccia). * Cass. pen.,
sez. VI, 11 febbraio 2000, n. 518 (c.c. 28 gennaio
2000), Marini F. [RV215738]
l Allorché la modifica della competenza per
materia sia posta in maniera autonoma dalla nuova legge — e non indirettamente come nel caso
di diversa determinazione della sanzione edittale
— la relativa norma è di carattere processuale e
non sostanziale, e pertanto trova immediata applicazione in virtù del principio generale vigente
in materia processuale tempus regit actum, onde
non ci si può riferire, al fine di stabilire la competenza per materia, all’art. 2, comma terzo, c.p.,
che riguarda un profilo di diritto sostanziale e
non di diritto processuale. (Fattispecie in tema
di reato di omissione di atti di ufficio contestato
come permanente, con inizio della condotta in
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64
data anteriore all’entrata in vigore della legge
n. 286 del 1990). * Cass. pen., sez. I, 28 gennaio
1998, n. 6789 (c.c. 2 dicembre 1997), confl. comp.
in proc. Della Maggiore. [RV209531]
l In tema di reati concernenti le sostanze
stupefacenti, il concetto di “modica quantità” di
cui all’art. 72 della L. 22 dicembre 1975, n. 685,
è diverso da quello di “fatto di lieve entità” di cui
all’art. 73, quinto comma, D.P.R. 9 ottobre 1990
n. 309: la prima disposizione riguarda infatti solo
un aspetto della detenzione, e cioé quello concernente la quantità della sostanza, mentre la “lieve
entità” cui si riferisce la legge vigente riguarda
il fatto per intero, di cui devono essere presi in
considerazione tutta una serie di parametri quali
i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, la
quantità e qualità delle sostanze. Ne consegue che,
trattandosi di fattispecie non omologabili, non si
pone un problema di applicazione della legge più
favorevole ai sensi dell’art. 2, terzo comma, del
codice penale. (In applicazione di tale principio
la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso
con il quale si deduceva che, avendo il giudice
di primo grado ritenuto la modica quantità delle
sostanze oggetto di spaccio, la Corte d’appello
avrebbe dovuto applicare la sopravvenuta norma
più favorevole di cui al quinto comma dell’art.
73 D.P.R. n. 309 del 1990). * Cass. pen., sez. VI,
2 dicembre 1997, n. 4266 (c.c. 31 ottobre 1997),
Sorzi. [RV209033]
l Il regime di procedibilità d’ufficio per i reati
di violenza sessuale previsto dall’art. 609 septies
c.p., introdotto dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66,
non può produrre effetti sui fatti commessi prima
della sua entrata in vigore. Il problema dell’applicabilità dell’art. 2 c.p., in caso di mutamento nel
tempo del regime della procedibilità a querela, va
positivamente risolto alla luce della natura mista,
sostanziale e processuale, di tale istituto, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità
e di punibilità. Infatti, il principio dell’applicazione della norma più favorevole al reo opera non
soltanto al fine di individuare la norma di diritto
sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche
in ordine al regime della procedibilità che inerisce
alla fattispecie dato che è inscindibilmente legata
al fatto come qualificato dal diritto, specie quando
il legislatore in una determinata materia modifichi profondamente fattispecie, pene, denominazione dei delitti, come è avvenuto in quella dei
reati di violenza sessuale, sottratti all’area della
moralità pubblica e concepiti come reati contro la
persona. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso
del P.M. avverso rigetto di appello contro diniego
di applicazione di custodia cautelare in carcere, la
S.C. ha osservato altresì che la rilevante portata
dell’intervento innovativo e la mancanza di norme
transitorie, certamente non dovuta a disattenzione, denotano inequivocabilmente che si è voluto
dare alla normativa, che ha introdotto un regime
di maggiore afflittività per chi commette abusi ses-
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Titolo I – Legge penale
suali, operatività con esclusivo riferimento a condotte poste in essere dopo la sua entrata in vigore,
sicché il peggioramento del regime di procedibilità per talune ipotesi di reato non può produrre
effetti su preesistenti situazioni la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della
persona offesa dal reato). * Cass. pen., sez. III, 20
agosto 1997, n. 2733 (c.c. 8 luglio 1997), P.M. in
proc. Frualdo. [RV209188]
l La norma dell’art. 30 ter, terzo comma, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (c.d. ordinamento
penitenziario), introdotta dall’art. 1 del D.L. 13
maggio 1991 n. 152, convertito con modificazioni
in legge 12 luglio 1991 n. 203 (in base alla quale,
fra l’altro, nel caso di condanna per taluno dei
delitti previsti dall’art. 4 bis del medesimo ordinamento, la concessione dei permessi è ammessa
solo dopo l’espiazione di metà della pena inflitta,
e non solo di un quarto, come in precedenza),
trova applicazione anche con riferimento a condanne precedenti all’entrata in vigore del citato
D.L. n. 152 del 1991, non dando ciò luogo alla
violazione del principio di irretroattività della
legge penale, stabilito dall’art. 25 Cost. e dall’art.
2 c.p., atteso che tale principio si riferisce unicamente alle norme penali sostanziali e non anche
a quelle inerenti alle modalità di esecuzione della
pena e all’applicazione di misure alternative o
altri benefici in favore del condannato, la cui disciplina resta affidata ai poteri discrezionali del
legislatore ordinario. Tuttavia, poiché la concessione dei permessi-premio, che costituisce parte
integrante del trattamento, è pur sempre legata
alla regolare condotta e all’assenza di pericolosità
sociale del condannato, deve ritenersi che, con la
previsione di un più ampio limite temporale per
la loro fruizione, il legislatore abbia posto una
presunzione legale di pericolosità sociale riferita
ai condannati per uno dei gravi delitti previsti dal
primo comma dell’art. 4 bis. Conseguentemente,
se tale presunzione è stata già superata con la
concessione, sotto il vigore della precedente normativa, di uno o più permessi-premio, è evidente
che l’applicazione della più grave restrizione prevista dalla nuova norma non ha alcun senso e può
rivelarsi addirittura deleteria, perché potrebbe interrompere quel programma di trattamento che,
in conformità dei principi costituzionali, deve pur
sempre tendere alla rieducazione del condannato.
* Cass. pen., sez. I, 19 aprile 1997, n. 433 (c.c. 21
gennaio 1997), Cerra. [RV207344]
l Nel caso in cui la pena per il delitto — nella
specie ritenuto tentato — di atti di libidine violenti,
di cui all’art. 521 c.p., non sia stata fissata nei limiti
minimi, non viene in discussione l’applicazione
della legge 15 febbraio 1996, n. 66. (Norme contro
la violenza sessuale): in tal caso il raffronto tra la
normativa abrogata e quella sopravvenuta deve essere risolto nell’applicare la disposizione del 1930,
che, con riferimento ai massimi edittali irrogabili, è
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Art. 2
più favorevole. * Cass. pen., sez. III, 5 marzo 1997,
n. 2074 (ud. 23 gennaio 1997), Rodà. [RV207284]
l Nel caso di successione di norme incriminatrici nel tempo, tra due disposizioni, delle quali
la prima prevede la pena detentiva e la seconda
la pena alternativa, è sempre più favorevole quest’ultima, consentendo l’inflizione della sola pena
pecuniaria, perché la conversione, ex art. 53 legge
24 novembre 1981 n. 689, della pena detentiva
inflitta necessariamente per effetto della prima
norma, pur potendo in concreto condurre ad una
pena pecuniaria (sostitutiva) meno elevata, oltre
ad essere eventuale, in quanto sempre discrezionale, sarebbe comunque esposta al rischio della
revoca ai sensi del successivo art. 72, ricorrendone le condizioni. È pacifico, infatti, che le cause di
revoca contemplate in tale norma si riferiscono a
tutte le pene sostitutive, ivi compresa quindi quella pecuniaria, giacché consistono nel verificarsi di
quelle condizioni che, se sussistenti al momento
della sostituzione, sarebbero state ostative alla
stessa. * Cass. pen., sez. III, 6 febbraio 1997, n.
1058 (ud. 4 dicembre 1996), Telese. [RV207102]
l Il principio del favor rei stabilito dall’art. 2
c.p. comporta che, in caso di depenalizzazione con
la trasformazione del reato in illecito amministrativo con la previsione dell’obbligo di trasmissione
degli atti all’autorità competente, debba in ogni
caso procedersi alla dichiarazione di estinzione
del reato per prescrizione anche quando la causa
estintiva sia maturata dopo la depenalizzazione.
(Nell’affermare il principio di cui in massima la
Corte ha ritenuto dovesse dichiararsi estinto il
reato per prescrizione con riferimento alle violazioni della normativa sulla mancata consegna
al lavoratore del libretto di lavoro e del prospetto
paga depenalizzate dal D.L.vo 19 dicembre 1994
n. 758 poiché l’applicazione della formula «perché il fatto non è più previsto dalla legge come
reato» avrebbe determinato conseguenze deteriori per l’imputato derivanti dalla trasformazione
del reato in illecito amministrativo). * Cass. pen.,
sez. III, 25 maggio 1996, n. 1948 (c.c. 26 aprile
1996), Romano. [RV205435]
l In tema di successione di leggi penali nel
tempo, ai fini dell’applicazione della legge più favorevole al reo il giudice deve valutare in concreto,
caso per caso, quale sia la soluzione di maggior
favore tenendo presente che la pena detentiva è
sempre, per sua stessa natura, più grave e meno
favorevole della pena pecuniaria, rimanendo a tal
fine irrilevante il criterio di ragguaglio previsto
dall’art. 135 c.p. La pena detentiva deve perciò essere considerata più afflittiva anche quando dall’eventuale conversione di quest’ultima dovesse
derivare una quantificazione pecuniaria inferiore
di quella prevista con l’applicazione della pena
pecuniaria prevista in alternativa alla detenzione.
(Nel caso di specie la Corte ha confermato la sentenza con la quale i giudici di appello avevano,
in applicazione del D.L. 17 marzo 1995, n. 79,
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Art. 2
Libro I – Dei reati
convertito con L. 17 maggio 1995, n. 172, applicato all’imputato, condannato in primo grado
per il reato previsto dall’art. 21 della L. 10 maggio
1976, n. 319, una pena pecuniaria, in alternativa
a quella detentiva, di entità superiore a quella che
sarebbe derivata dalla conversione della pena detentiva irrogata con la sentenza di primo grado). *
Cass. pen., sez. III, 28 febbraio 1996, n. 2143 (ud.
15 dicembre 1995), Misconel. [RV204567]
l Il giudice nel valutare in concreto la norma
più favorevole deve considerare non solo le modificazioni concernenti la pena ma anche l’incidenza sulla prescrizione, quando quest’ultima,
in seguito all’applicazione della nuova disciplina
sopravvenuta, sia applicabile, ed, in genere, sugli altri effetti penali quali la non iscrivibilità sul
casellario giudiziale, ove non venga applicato il
beneficio ex art. 163 c.p. (Ipotesi in cui il termine
prescrizionale non era ancora decorso e l’intervenuta modificazione della sanzione — da pena alternativa a solamente pecuniaria — ed il sensibile
aumento del minimo edittale determinano anche
una consistente diminuzione del termine massimo prescrizionale — da quattro anni e sei mesi a
tre anni — e la non iscrivibilità della condanna nel
certificato giudiziale, sicché, in assenza di esplicita
richiesta di applicazione del beneficio ex art. 163
c.p., l’irrogazione di una pena pecuniaria di poco
superiore a quella stabilita precedentemente in
via alternativa costituisce ipotesi più favorevole).
* Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 1996, n. 1797 (ud.
16 gennaio 1996), Lombardi. [RV205385]
l Le disposizioni in tema di «sostituzione»
delle pene detentive brevi, dettate dagli artt. 53
e seguenti della L. 24 novembre 1981, n. 689, in
quanto costituenti un sistema sanzionatorio «parallelo» a quello «ordinario» hanno un inequivocabile carattere di norme penali sostanziali. Ne
consegue la soggezione di dette disposizioni al
principio generale dettato dal comma 3 dell’art. 2
c.p. che sancisce l’operatività, nel caso di successione di leggi diverse da quella vigente al tempo di
commissione del reato. Pertanto — nell’ipotesi di
reato commesso prima dell’entrata in vigore della
«novella» n. 402 del 5 ottobre 1993 introduttiva
del più gravoso parametro di lire 75.000 per ogni
giorno di pena detentiva sostituita — deve applicarsi il parametro di ragguaglio di lire 25.000 fissato dall’art. 135 c.p. nel testo vigente prima della
suindicata L. 5 ottobre 1993, n. 402. * Cass. pen.,
sez. I, 29 dicembre 1995, n. 12732 (ud. 27 ottobre
1995), Abbatelli. Conformi: Cass. pen., sez. I, 23
agosto 1994, n. 3114, P.G. c. Valentini; Cass. pen.,
sez. III, 24 gennaio 1996, n. 4523, P.G. in proc.
Grissi ed altro; Cass. pen., sez. I, 18 gennaio 1996,
n. 574, P.M. in proc. Ercoli. [RV203349]
l Le sanzioni sostitutive delle pene detentive
brevi, previste dall’art. 53 della L. 24 novembre
1981, n. 689, per il loro carattere afflittivo, per la
loro convertibilità, in caso di revoca, nella pena
sostituita residua, per lo stretto collegamento esi-
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 66
66
stente con la fattispecie penale cui conseguono,
hanno natura di vere e proprie pene e non di
semplici modalità esecutive della pena detentiva
sostituita: le disposizioni che le contemplano,
pertanto, hanno natura sostanziale e sono soggette, in caso di successioni di leggi nel tempo, alla
disciplina di cui all’art. 2, comma 3, c.p., che prescrive l’applicazione della norma più favorevole
per l’imputato. Ne consegue che il principio del
favor rei trova attuazione, per i fatti commessi
anteriormente all’entrata in vigore della legge, anche con riferimento ai nuovi criteri di ragguaglio
fra pena pecuniaria e pena detentiva introdotti
dalla L. 5 ottobre 1993, n. 402, di modifica dell’art. 135 c.p., in base ai quali si effettua, in virtù
del richiamo a quest’ultima disposizione operato
dal suddetto art. 53, L. n. 689 del 1981, il calcolo
della sanzione sostitutiva. * Cass. pen., Sezioni
Unite, 22 novembre 1995, n. 11397 (ud. 25 ottobre 1995), P.M. in proc. Siciliano. [RV202870]
l In tema di falsità ideologica commessa da
pubblico ufficiale o impiegato in atto pubblico
(artt. 479 e 493 c.p.), non danno luogo a successioni di leggi penali i mutamenti di regime giuridico
che hanno via via interessato l’Azienda autonoma
delle ferrovie dello Stato, trasformandola dapprima in ente Ferrovie dello Stato (L. n. 210/1985)
e poi in società per azioni (delibera CIPE 12
agosto 1992, in esecuzione della L. n. 35/1992 e
L. n. 359/1992). L’applicazione del principio di
retroattività della legge penale più favorevole,
sancito dall’art. 2, comma 3, c.p., presuppone una
modifica in via generale — e non in via particolare, riferita al caso concreto — della fattispecie
incriminatrice, cioè di quelle norme che definiscono il reato nella sua struttura essenziale e circostanziata, comprese le norme extrapenali che la
integrano. Esula quindi dall’istituto la successione
di atti o fatti amministrativi che, pure influendo
sulla punibilità o meno di determinate condotte,
non implica una modifica della norma incriminatrice anche integrativa. Le trasformazioni che
hanno interessato l’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato non hanno modificato la fattispecie
incriminatrice descritta negli artt. 479 e 493 c.p. *
Cass. pen., sez. VI, 28 settembre 1995, n. 9927 (ud.
10 luglio 1995), Caliciuri ed altri. [RV202873]
l In tema di individuazione dalla norma più
favorevole al reo, da applicare in caso di successione di leggi nel tempo, la disciplina più favorevole va individuata sulla base di un raffronto
oggettivo fra le norme applicabili e non già in
considerazione della convenienza che ne deriverebbe all’imputato all’esito di una valutazione discrezionale del giudice. Quando, però, una norma
prevede la pena dell’ammenda e quella successiva
quella dell’arresto convertibile astrattamente in
una pena pecuniaria di entità minore dell’ammenda prevista dalla precedente normativa, è
comunque da applicarsi la norma precedente
che non contemplava la pena detentiva. * Cass.
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67
Titolo I – Legge penale
pen., sez. III, 29 agosto 1995, n. 9234 (ud. 4 luglio
1995), Sartorio. [RV202445]
l L’art. 231, comma 1 del D.L.vo 30 aprile
1992, n. 285, recante il nuovo codice della strada,
ha abrogato il codice stradale previgente (D.P.R.
15 giugno 1959, n. 393) e quindi anche l’art. 6 L.
31 maggio 1965, n. 575, che prevedeva il reato di
guida senza patente o con patente revocata ai sensi
degli artt. 82 e 91, secondo e terz’ultimo comma, n.
2 D.P.R. n. 393/59, già modificato per effetto della
L. 3 agosto 1988, n. 237, che aveva soppresso la
misura di prevenzione della diffida. Peraltro, la
condotta di coloro che guidano autoveicoli, senza
avere ottenuto la patente, in quanto privi dei requisiti morali previsti dall’art. 120 c.s. vigente o senza
essere in possesso della patente perché revocata a
causa del difetto di quei requisiti, è sanzionata oggi
dall’art. 116, nn. 13 e 14 del suddetto codice stradale. Da ciò consegue che con l’abrogazione dell’art.
6 L. n. 575/65 non vi è stata abolitio criminis, ma
solo successione di norme incriminatrici, essendo
diversamente disciplinato un fatto considerato
come reato dalla legge precedente. (Fattispecie
nella quale si è applicato come più favorevole, in
virtù del dettato dell’art. 2, comma 3, c.p., l’art. 116
c.s. vigente, atteso il più mite trattamento sanzionatorio). * Cass. pen., sez. V, 7 luglio 1995, n. 7601
(ud. 13 giugno 1995), Soloperto. [RV202238]
l La disciplina delle misure cautelari ha carattere processuale e perciò, in linea di massima,
nella fase delle indagini preliminari il giudice non
può discostarsi dalla contestazione mossa dal
pubblico ministero e non gli è consentita alcuna
valutazione sul suo contenuto. Tuttavia, quando
risulti con evidenza, in base alla sola data del
commesso reato così come precisata nell’imputazione, che debba essere applicata all’indagato,
in base all’art. 2 del c.p., una normativa più favorevole inequivocabilmente individuabile raffrontando la disciplina sanzionatoria precedente
e quella indicata nella contestazione, è alla prima
che il giudice dovrà fare riferimento nel computare i termini di durata massima della custodia
cautelare non potendosi trascurare il carattere
sostanziale dell’afflittività delle misure cautelari
personali e la tutela dello status libertatis con le
relative implicazioni di carattere costituzionale
che lo presidiano. (La Corte ha ritenuto che giustamente il tribunale avesse accolto il ricorso con
il quale si chiedeva la scarcerazione per scadenza
dei termini massimi di custodia cautelare in un
caso in cui all’indagato era stata contestata la violazione dell’art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309,
ma dalla data di commissione del reato emergeva
con evidenza che la norma applicabile era quella
prevista dall’art. 71 della L. 22 dicembre 1975 n.
685 che, ai fini della durata massima della custodia cautelare, prevede un termine più breve che
era già scaduto). * Cass. pen., sez. I, 10 maggio
1995, n. 1783 (c.c. 24 marzo 1995), P.M. in proc.
Faccini. [RV201363]
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Art. 2
l Il principio della retroattività della norma
più favorevole posto dall’art. 2, terzo comma, c.p.,
che assicura al cittadino il trattamento penale più
mite tra quello previsto dalla legge penale vigente
al momento del fatto e quello previsto dalle leggi
successive, purché precedenti la sentenza definitiva di condanna, opera solo con riferimento
all’ipotesi della successione tra fattispecie incriminatrici, accertabile in base al criterio della
continenza, e non è estensibile al caso della successione di norma che degradi un fatto previsto
come illecito penale a illecito amministrativo.
* Cass. pen., Sezioni Unite, 27 giugno 1994, n.
7394 (ud. 16 marzo 1994), Mazza.
l Ai fini dell’applicazione delle disposizioni
di legge sopravvenute, ai sensi dell’art. 2 c.p.,
non è sufficiente che queste siano più favorevoli
all’imputato in astratto, ma occorre che lo siano
altresì in concreto, ossia non soltanto sulla base
della mera comparazione fra le due normative
succedutesi nel tempo, ma anche confrontando
i risultati che deriverebbero dalla effettiva applicazione di esse alla fattispecie concreta; tale valutazione in concreto è necessaria specie quando
la nuova norma, per il suo contenuto, non opera
automaticamente in maniera più favorevole nei
confronti della normativa in vigore al tempo del
commesso reato, ma fa dipendere tale risultato,
che è comunque eventuale, da un giudizio affidato
ai poteri discrezionali del giudice e dalla verifica
dei dati presupposti. Sicché, se è vero che in caso
di successione di leggi penali si deve applicare
integralmente quella che risulta più favorevole all’imputato, valutata nel suo complesso, non è men
vero che tale principio va calato in ciascuna fattispecie concreta, in relazione all’interesse specifico dell’imputato, senza inframmettenze astratte e
sia pure con divieto di applicazione simultanea di
vecchie e nuove disposizioni. (Alla stregua di tale
principio la Corte ha annullato la sentenza pretorile la quale aveva applicato ad un fatto pregresso
la pena pecuniaria, sostitutiva di quella detentiva, in ragione del nuovo e più gravoso criterio
di ragguaglio introdotto dalla L. 5 ottobre 1993,
n. 402, sul presupposto che quest’ultima dovesse considerarsi comunque norma più favorevole
per l’ampliata possibilità di applicazione della
sospensione condizionale della pena, che, nella
fattispecie, non risultava tuttavia né concessa né
richiesta). * Cass. pen., sez. I, 22 giugno 1994, n.
2336 (c.c. 18 maggio 1994), Arata.
l Nel caso di successioni di leggi penali incriminatrici, il principio dell’applicazione della
norma più favorevole trova un limite nella formazione del giudicato, a norma dell’art. 2 terzo
comma, c.p. La cosa giudicata si forma sull’intero
oggetto del rapporto processuale concernente una
singola imputazione, cosicché non è consentita —
salvo l’ipotesi del reato continuato — la scissione
della sentenza per punti, al fine di identificare la
irrevocabilità di un punto, distinguendo quello
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Art. 2
Libro I – Dei reati
concernente la colpevolezza da quello relativo
alla concessione di attenuanti. In particolare il
giudice della esecuzione non può alterare il giudicato ritenendo esistente un’attenuante non ravvisata dal giudice della cognizione ovvero procedendo alla comparazione tra circostanze di segno
opposto, e ciò neppure nel caso di sopravvenuta
disposizione di legge che, ai fini della declaratoria
di estinzione della pena, valorizzi una circostanza
ovvero un determinato esito della comparazione
tra circostanze di segno opposto, in termini non
previsti al momento della decisione di merito. Ne
consegue che il giudice dell’esecuzione non può
concedere l’attenuante di cui all’art. 73 comma
settimo D.P.R. n. 309/90, introdotta dall’art. 14
L. 26 giugno 1990 n. 162 successivamente alla
formazione della irrevocabilità della sentenza,
e rideterminare la pena, sia perché detto potere
non gli è riconosciuto dall’art. 671 c.p.p. sia
perché vi osta l’art. 2 comma terzo c.p., secondo
cui, nell’ipotesi di successione di leggi penali incriminatrici, non può essere applicata la legge
più favorevole, in caso di avvenuta formazione
del giudicato. (Nella fattispecie, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso ordinanza
che aveva respinto l’istanza diretta al giudice
dell’esecuzione volta a rideterminare la pena inflitta per i delitti di cui agli artt. 71 e 74 legge n.
685/1975, previa concessione dell’attenuante di
cui all’art. 73 comma settimo, D.P.R. n. 309/90,
introdotta con legge successiva al passaggio in
giudicato della sentenza di condanna). * Cass.
pen., sez. VI, 17 giugno 1994, n. 1490 (c.c. 8 aprile
1994), De Angelis.
l Il criterio della norma più favorevole al reo
può essere utilizzato solo al fine di individuare la
norma di diritto sostanziale applicabile al caso
concreto, non quella processuale quale è, indubbiamente, quella disciplinante la competenza tra i
diversi organi giudicanti, per la quale, in mancanza di un’apposita norma transitoria, si deve fare
riferimento al principio generale del tempus regit
actum secondo il quale la nuova disciplina processuale, anche se immuta competenza precostituita,
trova immediata applicazione nei procedimenti in
corso alla data della sua entrata in vigore. Ciò, naturalmente, avviene solo nell’ipotesi in cui il giudice non sia stato già legittimamente investito del
relativo giudizio in quanto, in tali casi, essendosi
già radicata la competenza, la nuova disciplina
processuale non ha efficacia. (Fattispecie in tema
d’abuso d’ufficio). * Cass. pen., sez. I, 19 gennaio
1993, n. 5011 (c.c. 2 dicembre 1992), Cuberi.
l In tema di successione di leggi penali e di
individuazione della legge più favorevole ai sensi
dell’art. 2, comma terzo, c.p., il trattamento più
favorevole va scelto in concreto, con la verifica
di tutte le conseguenze che derivano da ciascuna della due norme e, operata la scelta, la normativa va applicata in toto, senza possibilità di
trattamenti combinati. Ne consegue che nel caso
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68
in cui le norme che vengono in rilievo siano l’art.
323 comma secondo c.p., come sostituito dall’art.
13 della L. n. 86 del 1990, e l’abrogato art. 324
dello stesso codice, norma più favorevole deve
considerarsi quest’ultima, che prevede una pena
detentiva inferiore nel minimo (sei mesi rispetto
ai due anni previsti dall’altra norma) anche se
alla pena detentiva aggiunge quella pecuniaria. *
Cass. pen., sez. VI, 11 ottobre 1990, n. 13321 (ud.
18 maggio 1990), Carpagnano.
l L’art. 2, terzo comma, c.p. prevede le ipotesi
in cui una legge posteriore al tempo del commesso reato modifichi la fattispecie incriminatrice anteriore, senza abolire l’incriminazione né crearne
di nuove, e fissa il principio dell’applicabilità della disposizione più favorevole all’imputato, cioè
dell’irretroattività delle modificazioni sfavorevoli
e della retroattività di quelle favorevoli. Ai fini
della determinazione della legge più favorevole,
il giudizio di comparazione tra leggi susseguentesi nel tempo deve avere come unico oggetto il
raffronto tra le disposizioni che disciplinano la
stessa materia, vale a dire il reato contestato e le
sue circostanze, e non può, pertanto, trovare applicazione ai sensi dell’art. 2, terzo comma, c.p.,
nel giudizio di Cassazione relativo di detenzione
e cessione di sostanze stupefacenti (art. 72 L. 22
dicembre 1975, n. 685), l’art. 61, n. 4 c.p. — modificato dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19 — nel caso
in cui non abbia formato oggetto di richieste o di
cessione nel corso dei primi due gradi di giudizio,
in quanto tale norma non prevede, neanche nella
nuova formulazione, una circostanza attenuante
di carattere «speciale» con riferimenti ai reati in
materia di stupefacenti, ma una attenuante «comune». * Cass. pen., sez. VI, 11 ottobre 1990, n.
13348 (ud. 31 maggio 1990), Biscotti.
l La norma di cui all’art. 2, comma terzo, c.p.
riguardante l’applicazione della legge più favorevole
al reo, in caso di successione di leggi nel tempo, deve
essere applicata d’ufficio. Ciò, però, nel presupposto
che ne ricorrano le condizioni di fatto, rispetto alle
quali l’imputato, domandando l’applicazione dello
ius novum a lui più favorevole, ha l’onere dell’allegazione, quando tali condizioni non risultano dagli
atti del processo. * Cass. pen., sez. VI, 17 luglio 1990,
n. 10414 (ud. 12 dicembre 1989), Bettinelli.
l Il principio della retroattività degli effetti
extrapenali, in conseguenza d’una legge che
abbia trasformato in illeciti amministrativi le
condotte punibili, non può operare allorquando il
reato siasi già estinto, posto che diversamente si
sancirebbe la reviviscenza d’una realtà giuridica
in contrasto con lo spirito e la lettera dell’art. 2
c.p., il quale, ispirandosi al favor rei, non può mai
risolversi in un nocumento per l’imputato. (Fattispecie in tema di detenzione di sottoprodotto
della vinificazione, non denaturato con la prescritta sostanza rivelatrice, rientrante nell’amnistia ex art. 1 d.p.r. 18 dicembre 1981, n. 744, e
depenalizzata dall’art. 32, primo comma, della
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69
Titolo I – Legge penale
legge 24 novembre 1981, n. 689, che ha previsto
la sola sanzione amministrativa del pagamento
di una somma di danaro. Si è così, sulla base
dell’enunciato principio, precisato che, essendo
la estinzione del reato intervenuta anteriormente
all’entrata in vigore della legge di depenalizzazione e dovendo l’anzidetta causa estintiva prevalere
su quella di abolitio criminis, era da escludersi la
trasmissione degli atti all’autorità competente per
la irrogazione di sanzioni amministrative; e ciò
in conformità al dettato dell’art. 2, terzo comma,
c.p.). * Cass. pen., Sezioni Unite, 26 aprile 1983,
n. 3802 (ud. 22 gennaio 1983), Marinelli.
d) Leggi eccezionali o temporanee.
l La successione, intervenuta durante il
decorso del termine di vigenza ovvero nella permanenza della situazione eccezionale, di norme,
rispettivamente, tutte temporanee o eccezionali
aventi la stessa ratio e dirette a una migliore messa a punto della normativa destinata a fronteggiare la medesima situazione è regolata non già dalla
disciplina derogatoria prevista dall’art. 2, comma
quinto, c.p., bensì da quella di cui al precedente
comma quarto. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto l’applicabilità della più favorevole disciplina
del c.p. militare di pace al militare partecipante
alle missioni di cui alla L. 4 agosto 2006, n 247
anche in relazione ai fatti commessi nella vigenza
della disciplina anteriore a tale legge che rinviava
al c.p. militare di guerra, affermando pertanto la
sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 47 c.p.m.g.).
* Cass. pen., sez. I, 1 luglio 2008, n. 26316 (ud. 27
maggio 2008 ), Cau. [RV240396]
l La normativa penalistica concernente la
partecipazione italiana alle missioni internazionali all’estero prevista, nella specie, dal D.L. 10 luglio
2003 n. 165, conv., con modif., nella L. 1 agosto
2003 n. 219 e dalla L. 2 agosto 2006 n. 247 ha natura di legge temporanea. (In motivazione, la S.C.
ha escluso che tale normativa abbia natura di legge eccezionale). * Cass. pen., sez. I, 1 luglio 2008,
n. 26316 (ud. 27 maggio 2008), Cau. [RV240397]
l Il regolamento CE n. 3274/93 del 29 novembre 1993, istitutivo del divieto di fornitura di
taluni beni e servizi alla Libia, norma extrapenale
integratrice del precetto penale, costituisce un
complesso di norme eccezionali, in quanto derogatrici al principio della libertà di commercio tra
gli Stati e temporanee, cioè destinate ad operare
per un tempo determinato, e pertanto rientra nella disciplina dettata dal quarto comma dell’art. 2
c.p. Costituisce pertanto reato, indipendentemente dalla vigenza nel tempo del suddetto embargo,
sospeso con il regolamento CE n. 863/99, l’esportazione in Libia, in violazione del divieto comunitario, di merce di cui era vietata l’esportazione
verso detto Stato, sanzionata a norma dell’art. 11
R.D.L. 14 novembre 1926 n. 1923. * Cass. pen.,
sez. III, 27 marzo 2000, n. 3905 (ud. 22 febbraio
2000), Asaad Nagy Nawar. [RV215952]
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Art. 2
e) Disposizioni contenute in un decreto legge.
l In tema di conversione di decreto legge,
all’introduzione di emendamenti nella legge di
conversione non sempre può ricondursi la conseguenza di determinare automaticamente la perdita di efficacia ex tunc del decreto legge, né, correlativamente, quella di attribuire valore ex nunc
al precetto della legge di conversione a mezzo del
quale ha trovato ingresso la modificazione, dovendo, al contrario, aversi riguardo allo specifico
contenuto degli emendamenti e alla reale portata
dei mutamenti al testo del decreto. Pertanto, solo
gli emendamenti sostitutivi (o innovativi) e quelli
soppressivi, disponendo la riscrittura ovvero l’eliminazione della decretazione d’urgenza, hanno
efficacia ex nunc, mentre quelli semplicemente
modificativi, consistendo in una variazione che
non investe il nucleo precettivo fondamentale
della norma del decreto legge, si saldano con quest’ultima in modo continuo, sì che hanno efficacia
ex tunc, decorrente dalla data della normazione
di urgenza. (Fattispecie relativa ai rapporti tra
D.L. n. 59 del 1978 e legge di conversione n.
191 del 1978. In riferimento alla scissione, nella
legge di conversione, dell’unica ipotesi delittuosa
di cui all’art. 630 c.p. — sostituita dall’art. 2 del
decreto legge con l’introduzione della figura del
«sequestro di persona a scopo di terrorismo o di
eversione», — la S.C. ha ritenuto che vi fosse una
mera modificazione del nomen juris, senza alcuna
significativa alterazione degli elementi strutturali
della fattispecie e pertanto ha riconosciuto efficacia ex tunc alla relativa disciplina. In riferimento,
però, al comma quinto dello stesso art. 289 bis,
che detta ex novo una speciale regolamentazione
delle circostanze attenuanti, la S.C. ha ritenuto il
suo carattere totalmente innovativo, riconoscendogli efficacia ex nunc ed escludendo la sua applicabilità nel processo, per essere esso entrato in
vigore quando era definitivamente cessata la condotta criminosa, sì da non poterglisi riconoscere
valore retroattivo, in quanto meno favorevole al
reo). * Cass. pen., sez. I, 24 giugno 1998, n. 7451
(ud. 21 maggio 1998), Maccari. [RV210887]
l Le norme che disciplinano l’applicazione
di misure cautelari hanno carattere processuale,
ma, per la loro influenza immediata sullo status
libertatis, hanno rilevanza sostanziale, con la
conseguenza che, in tale materia, si applicano le
norme sulla successione di leggi nel tempo proprie delle disposizioni sostanziali. Pertanto, in
caso di norme più favorevoli introdotte con decreto legge non convertito, si applicano le disposizioni vigenti nel momento della commissione del
fatto, per effetto dell’art. 77, comma terzo, Cost. e
della sentenza della Corte costituzionale 19 febbraio 1995, n. 51, che ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 2, comma quinto, c.p., nella parte in cui
rende applicabili, nel caso di decreto legge non
convertito, le disposizioni dei commi secondo
e terzo dello stesso articolo (i principi anzidetti
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Art. 2
Libro I – Dei reati
sono stati affermati in una fattispecie relativa
all’art. 2 del decreto legge 14 luglio 1994, n. 440,
non convertito, che aveva introdotto il comma 3
bis nell’art. 275 c.p.p., con il quale si era inibita
l’adozione di provvedimenti di custodia cautelare
per delitti diversi da quelli indicati nel comma 3
dello stesso articolo e dell’art. 380 c.p.p.: la Corte
ha conseguentemente valutato corretta la soluzione dei giudici di merito che non avevano ritenuto
caducati gli effetti di una misura cautelare per
effetto della entrata in vigore del decreto legge
citato). * Cass. pen., sez. VI, 9 giugno 1998, n. 595
(c.c. 19 febbraio 1998), Russo G. [RV211083]
l Una volta decaduto il decreto-legge contemplante un’ipotesi di reato, la condotta illecita posta in essere nel periodo della sua vigenza non
può essere più perseguita e sanzionata, a nulla
rilevando che la norma che ne prevedeva l’illiceità, sanzionandola penalmente, sia stata reiterata in successivo decreto-legge o che una legge
successiva abbia regolamentato i rapporti sorti
sulla base di decreti-legge non convertiti, stante
il divieto di retroattività della legge incriminatrice stabilito dall’art. 25, comma secondo, Cost. *
Cass. pen., sez. I, 21 gennaio 1998, n. 7058 (c.c. 16
dicembre 1997), P.M. in proc. Karomi. Conformi:
Cass. pen., sez. I, 15 giugno 1999, n. 3209, P.M. in
proc. Litim; Cass. pen., sez. I, 17 dicembre 1996,
n. 10821, Barinoski ed altro. [RV209351]
l La mancata conversione, entro il termine
fissato dall’art. 77 Cost., di un decreto legge contenente una previsione di reato comporta il venir
meno della punibilità di quest’ultimo, anche qualora al decreto legge non convertito faccia seguito,
senza soluzione di continuità, un altro contenente
analoga previsione. Tale principio rimane valido
anche a fronte della sentenza della Corte costituzionale 21 marzo 1996 n. 84, essendosi la Corte,
con tale pronuncia, limitata ad affermare soltanto
la permanente validità della propria investitura in
ordine ad una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una disposizione successivamente sostituita da altra di identico contenuto; il che non incide sulla invalidità ex tunc, in
base al disposto di cui al citato art. 77, comma
3, Cost., del decreto legge non convertito, e sulla
conseguente impossibilità giuridica, ai sensi dell’art. 2, comma 1, c.p., di continuare a considerare
punibili, in base ad esso, fatti commessi durante la
sua vigenza, pur quando la previsione di essi come
reato sia ripresa dal nuovo decreto legge, giacché
quest’ultimo, come qualsiasi norma di carattere
penale, non può disporre che per l’avvenire. *
Cass. pen., sez. I, 20 giugno 1996, n. 3506 (c.c. 22
maggio 1996), Sakho. [RV205156]
l Fra diversi decreti legge non esaminati dal
Parlamento e succedutisi nel tempo sulla stessa
materia senza soluzioni di continuità si verifica,
ferma restando la loro precarietà, il fenomeno della
cosiddetta successione di leggi nel tempo, regolato
dall’art. 2 c.p. e ad essi deve ritenersi applicabile
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 70
70
la norma di cui al comma quinto di questo. (Nella
specie relativa ad annullamento senza rinvio di
sentenza di condanna, perché il fatto non era dalla
legge previsto come reato, la S.C. ha osservato che
all’epoca del giudizio di primo grado era in vigore
il D.L. n. 449 del 1994 che aveva depenalizzato il
fatto di reato ascritto ai ricorrenti (scarico effettuato, senza osservare le prescrizioni del provvedimento di autorizzazione in quanto eccedente i
limiti tabellari), sicché costoro avevano acquisito il
diritto alla applicazione della norma di cui all’art.
22 legge n. 319 del 1976, come modificata dall’art.
4 del detto decreto legge, sebbene il medesimo
fatto fosse stato considerato illecito penale con
decreto legge n. 537 del 1994 e altri successivi). *
Cass. pen., sez. III, 3 marzo 1995, n. 3489 (ud. 27
febbraio 1995), Pangrazi. [RV202065]
l Allorché, successivamente alla sentenza che
abbia applicato la pena su richiesta delle parti
con riferimento a una pluralità di fatti legati dal
vincolo della continuazione, decada, per mancata
conversione, il decreto legge che aveva previsto
come reato quei fatti, viene meno il fondamento
della richiesta di patteggiamento nei termini in
cui essa è stata formulata. Ne consegue che, in
mancanza di specificazione, in sentenza, della
violazione ritenuta più grave, ne va disposto l’annullamento con rinvio per la rideterminazione
della pena con riferimento ai residui reati. (Fattispecie relativa a pena patteggiata in relazione, tra
l’altro, anche al reato di volontaria sottrazione
dello straniero al provvedimento di espulsione dal
territorio dello Stato introdotto dal D.L. 13 aprile
1993, n. 107, non convertito nei termini). * Cass.
pen., sez. I, 11 marzo 1994, n. 916 (c.c. 22 febbraio 1994), P.G. c. Bala Ninet.
f) In genere.
f-1) Consumo di gruppo di stupefacenti.
l A seguito del più favorevole trattamento sanzionatorio previsto, dopo la l. n. 49 del 2006, dall’art. 73, comma primo, d.P.R. 309 del 1990 quanto
al minimo edittale per le droghe cosiddette pesanti,
il giudice d’appello deve rimodulare la pena di ufficio anche nel caso in cui il primo giudice, anteriormente alla novella, abbia determinato la pena base,
o sia comunque partito dal suo calcolo, in misura
superiore al minimo edittale. * Cass. pen., sez. VI,
16 dicembre 2013, n. 50614 (ud. 6 dicembre 2013),
P.G. in proc. Chukwumah. [RV257655]
l Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nell’ipotesi del mandato all’acquisto
collettivo ad uno degli assuntori, e nella certezza
originaria dell’identità degli altri, non è punibile
ai sensi dell’art. 73, comma primo bis, lett. a),
D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, anche a seguito delle modifiche apportate a tale disposizione dalla
L. 21 febbraio 2006, n. 49. * Cass. pen., sez. VI,
27 maggio 2011, n. 21375 (c.c. 27 aprile 2011),
Masucci. [RV250064]
20-03-2015 10:08:21
71
Titolo I – Legge penale
l Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato all’acquisto
collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza
originaria dell’identità degli altri non è punibile ai
sensi dell’art. 73, comma primo bis, lett. a), D.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309, anche dopo le modifiche
apportate a tale disposizione dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49. * Cass. pen., sez. VI, 2 marzo 2011, n.
8366 (ud. 26 gennaio 2011), P.G. in proc. D’Agostino. [RV249000]
f-2) Circolazione stradale.
l Dall’entrata in vigore del D.L.vo n. 159 del
2011 (cosiddetto Codice antimafia), il sottoposto
a misura di prevenzione al quale sia stata sospesa,
revocata o negata la patente di guida che viene
colto alla guida di auto o motociclo è punito ai
sensi dell’“art. 73 del medesimo D.L.vo n. 159, norma quest’ultima da considerarsi speciale rispetto
all’art. 116 C.d.S. * Cass. pen., sez. I, 26 giugno
2013, n. 27828 (ud. 13 giugno 2013), Magliuolo,
in Arch. giur. circ. n. 12/2013. [RV255992]
l La fattispecie di cui all’art. 186, comma primo, lett. a), Cod. strada (guida in stato di ebbrezza
con tasso alcoolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8) è stata depenalizzata dall’art. 33, comma
quarto, L. n. 120 del 2010. (La Corte ha anche ritenuto di non dover trasmettere gli atti alla competente autorità amministrativa, in considerazione del
principio di legalità-irretroattività, sancito per gli
illeciti amministrativi dall’art. 1, L. n. 689 del 1981,
richiamata dallo stesso art. 194 Cod. strada, non
rinvenendosi nella L. n. 120 del 2010 una apposita
previsione che possa far ritenere derogato il suddetto principio). * Cass. pen., sez. IV, 3 novembre 2010,
n. 38692 (ud. 28 settembre 2010), La Mantia, in Riv.
pen. n. 2/2011 e Arch. Giur. circ. n. 4/2011, con nota
di Giuseppe Luigi Fanuli. [RV248407]
l In applicazione della regola fondamentale
di cui al comma 2 dell’art. 2 c.p., l’inosservanza
dell’ordine di presentarsi ad un organo di polizia
per l’esibizione di documenti attinenti alla circolazione dei veicoli — accertata prima dell’entrata in vigore del nuovo codice della strada,
emanato con D.L.vo 30 aprile 1992, n. 285, vale
a dire prima dell’1 gennaio 1993 (art. 240 del testo citato) — essendo ora espressamente prevista
come illecito amministrativo dall’art. 180, comma
8, del predetto codice, non realizza più l’ipotesi
criminosa dell’art. 650 c.p. Tale inosservanza non
può neppure essere sanzionata in via amministrativa ostandovi il disposto dell’art. 1, comma
1, L. 24 novembre 1981, n. 689, giacché il codice
della strada non contiene alcuna norma transitoria analoga a quella dettata dall’art. 40 della legge
stessa che deroga al principio di legalità enunciato
in via generale. Ne consegue che in siffatta ipotesi
non deve essere disposta la trasmissione degli atti
all’autorità amministrativa. * Cass. pen., sez. I, 5
aprile 1996, n. 3425 (ud. 20 novembre 1995), P.M.
in proc. Spataro. [RV204327]
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Art. 2
l L’inosservanza dell’ordine impartito dall’autorità per esibire i documenti di circolazione
ricade nella previsione di cui all’art. 180, comma
ottavo, del nuovo codice della strada, di cui al
D.L.vo 30 aprile 1992, n. 285 e la sanzione applicabile è di natura amministrativa. Pertanto, nel
caso di violazione commessa prima dell’entrata
in vigore dell’indicato nuovo codice, deve trovare
applicazione il comma secondo dell’art. 2 c.p., a
tenore del quale nessuno può essere punito per
un fatto che secondo una legge posteriore non è
più sanzionato penalmente. (Fattispecie relativa
ad imputazione ex art. 650 c.p.). * Cass. pen.,
sez. I, 16 aprile 1993, n. 974 (c.c. 9 marzo 1993),
Varriale.
f-3) Reati fallimentari.
l Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti
R.D. 16 marzo 1942, n. 267 non può sindacare
la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al
presupposto oggettivo dello stato di insolvenza
dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti
alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicché le modifiche apportate all’art.
1 R.D. n. 267 del 1942 dal D.L.vo 9 gennaio 2006,
n. 5 e dal D.L.vo 12 settembre 2007, n. 169, non
esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p. sui
procedimenti penali in corso. * Cass. pen., Sezioni Unite, 15 maggio 2008, n. 19601 (ud. 28 febbraio 2008), Niccoli. [RV239398]
l In tema di reati fallimentari, alle procedure
concorsuali e penali avviate prima della data di
entrata in vigore della L. n. 5 del 2006, che ha
modificato la nozione di piccolo imprenditore
contenuta nell’art. 1, comma secondo, L. fall.,
resta applicabile la legge fallimentare previgente,
anche per quanto attiene alla identificazione del
soggetto assoggettabile al fallimento ed alla nozione di piccolo imprenditore, considerato che
l’art. 150 della L. n. 5 del 2006 detta una chiara
disciplina transitoria per la quale «i ricorsi per
dichiarazione di fallimento e le domande di
concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del D.L.vo n. 5 del 2006, nonché
le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti
secondo la legge anteriore». * Cass. pen., sez. V,
17 maggio 2007, n. 19297 (ud. 20 marzo 2007),
Celotti. [RV237025]
l La nuova figura di reato del falso in prospetto, prevista dall’art. 2623 c.c., nel testo introdotto
dall’art. 1 del D.L.vo 11 aprile 2002 n. 61, non
rientra nel novero delle fattispecie di reati societari, la cui consumazione costituisce requisito per
la integrazione del delitto di cui all’art. 223 legge
fall., e quindi la corrispondente condotta non è
più prevista come reato di bancarotta fraudolenta
impropria societaria. (In motivazione la Corte ha
osservato che il reato di falso in prospetto, pur ponendosi in rapporto di continuità normativa con
20-03-2015 10:08:21
Art. 2
Libro I – Dei reati
quello di false comunicazioni sociali delineata
dall’art. 2621 c.c. nel testo antecedente all’entrata
in vigore del citato decreto, è attualmente configurato in una autonoma figura criminosa che
non è stata richiamata fra quelle espressamente
elencate dall’art. 223 legge fall.). * Cass. pen., sez.
V, 16 dicembre 2005, n. 45714 (c.c. 19 settembre
2005), Patti. [RV233205]
l Per la configurabilità del reato di bancarotta
c.d. impropria, previsto dall’art. 223, comma 2, n.
1 del R.D. 16 marzo 1952, n. 267, come modificato dall’art. 4 del D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, si
richiede la sussistenza di un rapporto di causalità
tra il falso in bilancio di cui all’art. 2621 c.c. (o un
altro dei reati societari indicati nella norma incriminatrice) posto in essere dagli amministratori
e il dissesto della società. * Cass. civ., sez. I, 24
settembre 2002, n. 31828 (ud. 15 maggio 2002),
Mazzei. [RV222378]
l Sebbene la nuova disciplina introdotta
dall’art. 4 del D.L.vo 11 aprile 2002, n. 61, abbia ristretto i margini di punibilità del reato di
bancarotta c.d. impropria previsto dall’art. 223,
comma 2, n. 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267,
sussiste continuità normativa fra la nuova e la
vecchia fattispecie, configurandosi una ipotesi
di successione di leggi e non di abolitio criminis,
con la conseguenza che va applicata la norma più
favorevole al reo, previa verifica, limitata all’esame dei dati emergenti dalla sentenza impugnata
e da quella di primo grado, che la concreta contestazione del fatto sia tale da integrare il reato
anche nella sua nuova formulazione (nel caso
di specie, tuttavia, la Corte non ha applicato la
nuova disposizione, in quanto ha ritenuto che, a
seguito del precedente annullamento con rinvio
limitato alla determinazione della pena, si fosse
già formato il giudicato parziale interno sulla responsabilità dell’imputato). * Cass. pen., sez. I, 24
settembre 2002, n. 31828 (ud. 15 maggio 2002),
Mazzei. [RV222379]
f-4) Reati societari.
l In tema di reati societari, non sussiste continuità normativa tra il reato di indebita concessione di prestiti e garanzie ad amministratori,
direttori generali, sindaci e liquidatori di società
commerciali (art. 2624 c.c.) e il reato di infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c., introdotto con il
D.L.vo n. 61 del 2002), in quanto, dall’esame strutturale delle suddette fattispecie incriminatrici,
emerge un’irriducibile divergenza degli elementi
strutturali. Infatti, mentre il reato di cui al previgente 2624 c.c. è delitto di mera condotta e di pericolo presunto, il delitto di cui al vigente art. 2634
è reato di evento, richiedendo la sussistenza di un
danno patrimoniale, intenzionalmente arrecato
alla società, che deve essere, pertanto, previsto e
legato alla condotta da un rapporto di diretta ed
immediata causalità. Diverso è, inoltre, l’elemento soggettivo richiesto dalle due fattispecie, dolo
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 72
72
specifico per il reato di cui all’art. 2634 c.c. e dolo
generico per il previgente art. 2624 c.c. Ne deriva
che, stante la radicale novità introdotta dall’art.
2634 c.c., è applicabile l’art. 2, comma secondo,
c.p., in forza della sopravvenuta, integrale abrogazione della previgente norma incriminatrice. *
Cass. pen., sez. V, 20 luglio 2007, n. 29268 (ud. 20
febbraio 2007), Dal Ben ed altro. [RV237599]
f-5) Servizio militare.
l La causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere è inapplicabile, anche a seguito
dell’entrata in vigore del D.L.vo n. 66 del 2010
(c.d. codice dell’ordinamento militare) che ha
abrogato la L. n. 382 del 1978, al militare che
adempia ad un ordine impartitogli da un superiore gerarchico e la cui esecuzione costituisca manifestamente reato, essendo questi tenuto a non
eseguirlo e ad informare al più presto i superiori.
(In motivazione la Corte ha escluso l’applicabilità
dell’esimente putativa dell’art. 51 c.p., invocata
da un ufficiale dei carabinieri, precisando, da un
lato, che l’erronea convinzione della sua esistenza
si traduce in ignoranza inescusabile della legge
penale e, dall’altro, che la manifesta criminosità
di un ordine costituente reato non può essere
ignorata quando il destinatario sia un ufficiale di
polizia giudiziaria). * Cass. pen., sez. III, 13 maggio 2011, n. 18896 (ud. 10 marzo 2011), Riccio e
altro. [RV250284]
l Il rifiuto del servizio militare per ragioni
di coscienza, posto in essere prima dell’entrata
in vigore della L. 14 novembre 2000 n. 331, ove
non sussistano le condizioni nelle quali, ai sensi
dell’art. 2, comma primo, lett. f), di detta legge,
sarebbe tuttora possibile il reclutamento su base
obbligatoria, deve ritenersi non più idoneo a rendere configurabile il reato di cui all’art. 14 della L.
8 luglio 1998; ciò in applicazione della regola dettata dall’art. 2, comma quarto, c.p., atteso che la
nuova disciplina sul reclutamento, non avendo del
tutto eliminato il servizio militare obbligatorio,
non ha comportato una totale « abolitio criminis»
ma soltanto una riduzione della possibile sfera di
operatività dell’illecito penale. * Cass. pen., sez.
I, 13 luglio 2006, n. 24270 (ud. 18 maggio 2006),
Lampedone. [RV234839]
l La sospensione del servizio militare di leva,
previsto dall’art. 7 D.L.vo n. 215 del 2001, non
ha determinato la totale abolizione del servizio
militare obbligatorio, che continua ad essere disciplinato, in riferimento a specifiche situazioni
e a determinati casi eccezionali riferibili anche al
tempo di pace, ai sensi dell’art. 2 L. 14 novembre
2000 n. 331. Ne consegue che alla fattispecie di
reato di mancata chiamata alle armi, di cui agli
artt. 151 e 154 c.p.m.p., non essendo stata essa
abolita, si applica il quarto e non il secondo comma dell’art. 2 c.p., secondo cui «se la legge del
tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori
sono diverse, si applica quella le cui disposizio-
20-03-2015 10:08:21
73
Titolo I – Legge penale
ni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile». (Nel caso di
specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice dell’esecuzione che aveva rigettato l’istanza
di revoca della condanna per abolitio criminis). *
Cass. pen., sez. I, 22 giugno 2006, n. 21823 (c.c. 11
aprile 2006), Gabriele. [RV234623]
l L’abolizione del servizio militare di leva
ridisegna la fattispecie penale del delitto di rifiuto
della relativa prestazione eliminando il disvalore
sociale della condotta incriminata. Ne consegue
che l’art. 1, comma sesto, della legge 14 novembre
2000 n. 331, deve essere considerato norma integratrice del precetto penale e che, con riferimento
alle situazioni da esso disciplinate, trova applicazione l’art. 2, secondo comma, c.p., sicchè l’abolizione del servizio di leva comporta la non punibilità della condotta di chi in precedenza, allorchè
detto servizio era obbligatorio, ha rifiutato di prestarlo. Tuttavia, in applicazione della normativa
transitoria prevista dal combinato disposto degli
artt. 3, comma primo, legge n. 331 del 2000, 7,
comma primo, D.L.vo n. 215 del 2001 e 1 della
legge n. 226 del 2004, per i giovani nati prima del
1985 e già chiamati alle armi, il servizio militare
resta obbligatorio sino al 31 ottobre 2005, data
di cessazione dal servizio dell’ultimo contingente
chiamato alle armi il 31 dicembre 2004, sicchè,
nei confronti di coloro che versino in tale situazione e rifiutino di prestare il servizio militare di
leva, continuano a ricorrere gli estremi del reato
contestato. * Cass. pen., sez. I, 31 marzo 2005, n.
12316 (ud. 10 febbraio 2005), P.G. in proc. Caruso. [RV231721]
f-6) Reati in tema di paesaggio.
l L’abrogazione integrale della legge 7 marzo
2001 n. 78 (Tutela del patrimonio storico della
Prima guerra mondiale), operata dall’art. 2268,
comma primo, del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66,
con effetto dall’8 ottobre 2010, ha determinato
l’”abolitio” del reato contravvenzionale previsto
dall’art. 10, comma secondo della legge citata per
gli interventi di modifica, restauro o manutenzione che abbiano determinato la perdita, il danneggiamento irreparabile o l’alterazione essenziale
delle vestigia belliche specificate nell’art. 1, comma secondo, lettere a), b), c), e) della stessa legge,
con la conseguenza che la successiva soppressione della norma abolitrice, operata dal D.Lgs.
24 febbraio 2012, n. 20, avendo determinato la
“nuova entrata in vigore” della fattispecie incriminatrice, non può retroagire ai fatti commessi
prima dell’entrata in vigore del decreto da ultimo
citato, ostandovi il principio dell’irretroattività
della pena sancito dall’art. 2 cod. pen. * Cass.
pen., sez. III, 8 novembre 2013, n. 45159 (ud. 16
luglio 2013), Piffer e altro. [RV257622]
l In tema di paesaggio, la disposizione di cui
all’art. 181, comma primo ter, del D.L.vo 22 gennaio 2004 n. 41, introdotta dall’art. 1, comma terzo
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Art. 2
lett. c), della legge 15 dicembre 2004 n. 308, ai sensi del quale le sanzioni penali previste dal comma
primo dello stesso art. 181 non si applicano qualora l’autorità amministrativa accerti la compatibilità paesaggistica di quanto realizzato, si applica, in
presenza delle condizioni prescritte, anche ai fatti
pregressi, ai sensi dell’art. 2, comma secondo, c.p..
* Cass. pen., sez. III, 17 maggio 2005, n. 18205
(ud. 12 aprile 2005), Stubing. [RV231648]
f-7) Oltraggio a pubblico ufficiale.
l L’abrogazione, ad opera dell’art. 18 della
legge 25 giugno 1999 n. 205, del reato di oltraggio a pubblico ufficiale previsto dall’art. 341 c.p.
non dà luogo ad un fenomeno di successione di
leggi penali nel tempo, quale previsto e disciplinato dall’art. 2, comma terzo, c.p., per cui nulla
si oppone, qualora per detto reato sia intervenuta
sentenza irrevocabile di condanna, alla revoca
della stessa a norma dell’art. 673 c.p.p.; revoca
dalla quale vanno, peraltro, ovviamente esclusi
gli eventuali reati connessi o unificati sotto il vincolo della continuazione (nella specie, lesioni) ai
quali l’abrogazione non si riferisce. * Cass. pen.,
sez. VI, 8 novembre 2000, n. 1455 (c.c. 24 marzo
2000), P.M. in proc. Tell., in Riv. pen. 2001, 41.
l Attesa l’affinità tra l’abrogata figura criminosa dell’oltraggio a pubblico ufficiale e quella,
tuttora valida, dell’ingiuria aggravata dalla qualità
di pubblico ufficiale della persona offesa (la quale
si differenzia dalla prima esclusivamente sotto il
profilo della eterogeneità degli interessi giuridici
protetti), ed avuto riguardo alla disciplina dettata
in materia di successioni di leggi penali nel tempo
dall’art. 2, comma terzo, c.p. (la cui operatività
può estendersi anche all’ipotesi in cui la norma
abrogata fosse contemplata nel contesto sistematico repressivo antecedente come fattispecie)
«speciale» rispetto alla coeva fattispecie «generale» rimasta inalterata, con conseguente espansione della sfera di applicazione di quest’ultima
anche ai casi prima rientranti nelle previsioni della prima), deve escludersi che l’abrogazione del
reato di oltraggio a pubblico ufficiale abbia dato
luogo ad una vera e propria abolitio criminis e
che la condanna definitivamente inflitta per detto
reato sia quindi soggetta a revoca ai sensi dell’art.
673 c.p.p. * Cass. pen., sez. I, 29 settembre 2000,
n. 3144 (c.c. 26 aprile 2000), P.M. in proc. Marandin, in Riv. pen. 2001, 41.
f-8) Reati edilizi.
l Costituisce una successione di disposizioni
integratrici della norma penale (art. 20 lett. b, della legge n. 47 del 1985), rilevante ai sensi dell’art.
2 c.p., il mutamento della disciplina relativa alla
costruzione di parcheggi in area pertinenziale
esterna ad un fabbricato (art. 17, comma 90, legge n. 127 del 1997) che esclude la necessità della
concessione per siffatte opere. * Cass. pen., sez.
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Art. 3
Libro I – Dei reati
III, 21 settembre 2000, n. 9893 (ud. 25 maggio
2000), Saccone R. e altro. [RV217866]
l In tema di reati edilizi la richiesta ed il rilascio della concessione in sanatoria nei casi in cui
nei confronti del richiedente sia già intervenuta
sentenza definitiva di condanna sono esclusivamente quelli previsti dall’art. 38 comma 3 della
L. 28 febbraio 1985 n. 47 (annotazione dell’oblazione nel casellario giudiziario e irrilevanza della
condanna ai fini dell’applicazione della recidiva
e della sospensione condizionale della pena). In
nessun caso è possibile richiedere la sospensione
dell’esecuzione della sentenza invocando, ex art.
2 c.p., la cessazione degli effetti della condanna
poiché il condono costituisce semplicemente una
causa sopravvenuta di non punibilità che non
comporta necessariamente l’estinzione della pena
quando sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna. * Cass. pen., sez. III, 3 maggio
1996, n. 1265 (c.c. 15 marzo 1996), Nastro G.
[RV205234]
f-9) Trasporto di oli minerali.
l Sussiste continuità normativa — valutabile,
dopo l’abrogazione del principio di ultrattività
penale (art. 24, comma 1, D.L.vo n. 507 del 1999),
alla luce dell’art. 2 c.p. — tra il reato di irregolarità
nella circolazione (art. 49 D.L.vo 26 ottobre 1995,
n. 504) ed il reato di trasporto di oli minerali
senza il prescritto certificato di provenienza (art.
15 legge n. 474 del 1957), avuto riguardo sia alla
natura di testo unico del D.L.vo n. 504 del 1995
nonché alla permanente continuità di tutela del
bene protetto dalla fattispecie originaria, sia alla
corrispondenza del fatto contestato a quello che
costituisce oggetto della nuova disciplina, sia alla
immutata valutazione legislativa della fattispecie.
* Cass. pen., sez. III, 19 luglio 2000, n. 8352 (ud. 9
maggio 2000), Giuliano G. [RV217133]
f-10) Ricettazione.
l In tema di ricettazione, la provenienza da
delitto dell’oggetto materiale del reato è elemento
definito da norma esterna alla fattispecie incriminatrice, di talchè l’eventuale abrogazione o le
modifiche di tale norma non assumono rilevanza
ai sensi dell’art. 2 c.p., e la rilevanza del fatto, sotto il profilo in questione, deve essere valutata con
esclusivo riferimento al momento in cui è intervenuta la condotta tipica di ricezione della cosa od
intromissione affinchè altri la ricevano. (Nella fattispecie è stata ritenuta la non revocabilità, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., di una sentenza di condanna
per il delitto di ricettazione, sebbene il reato nella
specie presupposto, e cioè l’emissione di assegno
senza autorizzazione della banca trattaria, fosse
stato depenalizzato successivamente al passaggio
in giudicato della sentenza stessa). * Cass. pen.,
sez. II, 22 settembre 2003, n. 36281 (c.c. 4 luglio
2003), P.M. in proc. Paperini. [RV228412]
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f-11) Adesione della Romania alla U.E.
l L’adesione della Romania alla Unione Europea a decorrere dal 1° gennaio 2007 non comporta l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art.
2, commi secondo e quarto, c.p. con riferimento
al reato previsto dall’art. 22, comma dodicesimo,
D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286 commesso, prima di
tale data, in relazione all’occupazione illecita di
cittadini romeni. * Cass. pen., sez. I, 8 febbraio
2008, n. 6392 (ud. 30 ottobre 2007), Giampaolo.
[RV239074]
f-12) Reati doganali.
l In tema di reati doganali, l’art. 562. lett. e)
del regolamento CEE del 4 maggio 2001, n. 993,
che ha esteso a 18 mesi il periodo di tempo durante il quale le imbarcazioni da diporto iscritte nei
registri navali dei paesi, non facenti parte della
Comunità Europea, possono restare nel territorio
doganale comunitario una volta ammesse all’istituto della temporanea importazione per uso privato, previsto dalla Convenzione di Ginevra del 18
maggio 1956, ratificata e resa esecutiva con legge
3 novembre 1961, n. 1553, è norma integratrice
di un elemento normativo della fattispecie di cui
all’art. 216 T.U. n. 43 del 1973, la cui modifica non
può essere sottratta all’applicazione del principio
della successione delle leggi penali posto dall’art.
2 c.p. * Cass. pen., sez. III, 10 ottobre 2002, n.
33934 (c.c. 26 giugno 2002), P.M. in proc. Nanni.
[RV222298]
f-13) Falsità in valori di bollo.
l In tema di falsità in valori di bollo, la legge
sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice solo per quanto riguarda la individuazione dei valori suddetti e non anche i casi in cui
ne è richiesto l’uso; ne consegue che la modifica
o la abrogazione di norme che disciplinano tali
casi, non incidendo sulla struttura essenziale del
reato ma comportando soltanto una variazione
del contenuto del precetto, non configurano successione di leggi penali nel tempo, ai sensi e per
gli effetti di cui all’art. 2 c.p. (Fattispecie relative
all’uso di bollo contraffatto di tassa di concessione
governativa per la patente, la cui apposizione sul
documento di guida non è più richiesta dalla legge). * Cass. pen., sez. V, 13 maggio 2002, n. 18068
(ud. 3 marzo 2002), Versace D. [RV221917]
3. Obbligatorietà della legge penale. – La legge
penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato (42, 2423), salve
le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal
diritto internazionale (10, 68, 90, 1224 Cost.) (1).
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro
che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima (7 ss.) o
dal diritto internazionale (1080 c.n.; 17, 18 c.p.m.p.) (1).
(1) Le eccezioni previste dal diritto pubblico interno riguardano:
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Titolo I – Legge penale
a) il Capo dello Stato;
b) i membri del Parlamento, i consiglieri regionali, i giudici
della Corte costituzionale e i membri del Consiglio superiore della
magistratura.
Le eccezioni previste dal diritto internazionale riguardano:
a) la persona del Sommo Pontefice;
b) i Capi di Stato esteri e i reggenti;
c) i Capi di governo e ministri di Stati esteri o rappresentanti
di questi in conferenze o organizzazioni internazionali e i membri
stranieri di tribunali arbitrali;
d) gli Agenti diplomatici presso il Capo dello Stato, i membri della famiglia dell’agente conviventi, i membri delle missioni
militari e tecniche e le loro famiglie, il personale amministrativo
e le loro famiglie purché conviventi a carico e gli appartenenti al
personale di servizio per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro
funzioni salvo che non si tratti di cittadini dello Stato ospitante o
di persone che abbiano fissato la loro residenza in Italia;
e) i membri del Parlamento europeo;
f) i Consoli, i vice consoli e gli Agenti consolari;
g) i giudici della Corte dell’Aia;
h) i membri delle istituzioni specializzate e i rappresentanti
dell’O.N.U.;
i) i corpi o reparti di truppe straniere, con particolare riferimento ai membri e alle persone al seguito delle forze armate della
N.A.T.O.
l In tema di immunità previste dal diritto
internazionale, poiché alla Repubblica del Montenegro non spetta, nell’ambito della comunità
internazionale, la qualifica di Stato sovrano e di
soggetto autonomo e indipendente (che fa capo
solo allo Stato Unione di Serbia e Montenegro), il
presidente della Repubblica e il capo del governo
del Montenegro non godono delle immunità dalla
giurisdizione penale italiana riconosciute ai capi
di Stato e di governo e ai Ministri degli esteri degli
Stati sovrani e soggetti di diritto internazionale.
(Fattispecie nella quale la Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale del riesame che, a conferma della decisione del g.i.p., aveva rigettato, sul
rilievo di tale immunità, una richiesta, avanzata
nei confronti del Presidente della Repubblica del
Montenegro, di misura cautelare per associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di
t.l.e.). * Cass. pen., sez. III, 28 dicembre 2004,
n. 49666 (c.c. 17 settembre 2004), P.M. in proc.
Djukanovic. [RV230222]
l L’immunità, che comporta la sottrazione
per taluni soggetti all’applicabilità delle sanzioni
penali, costituendo un’eccezione al principio di
obbligatorietà della legge penale, non può che
derivare da disposizioni legislative ed è insuscettibile di interpretazioni estensive ed analogiche,
come del resto avverte l’art. 3 c.p. nel limitarla
ai soli casi stabiliti dal diritto pubblico interno e
dal diritto internazionale. Il diritto internazionale
riconosce l’immunità ai soli capi di Stato per il
fatto che essi rappresentano i rispettivi Stati.
Tutte le altre immunità non possono che sorgere
da specifiche norme legislative, le quali non solo
devono formulare il collegamento tra l’organo e la
COM_662_CodicePenaleCommentato_2015_1.indb 75
Art. 4
sua qualità di rappresentante dello Stato straniero, ma devono altresì indicare se l’esonero è generale, ovvero limitato ai fatti commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Pertanto l’immunità non
può essere riconosciuta al deputato alla sanità
e sicurezza sociale del Congresso di stato di S.
Marino. * Cass. pen., sez. III, 12 maggio 1998, n.
1011 (c.c. 17 marzo 1997), P.M. in proc. Ghiotti
R. [RV210861]
l Le immunità dalla giurisdizione previste
dalle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e consolari, ratificate e rese esecutive
in Italia con L. 9 agosto 1967, n. 804, non sono
limitate ai soli rappresentanti diplomatici veri e
propri. L’art. 43 della Convenzione del 24 aprile
1963 sulle relazioni consolari, infatti, stabilisce,
al primo comma, che anche i «funzionari consolari» e gli «impiegati consolari» non possono
essere sottoposti a giudizio dalle autorità giudiziarie e amministrative dello Stato di residenza
per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni
consolari. (Sulla scorta del principio di cui in
massima la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva dichiarato
l’improcedibilità dell’azione penale per il fatto
compiuto dall’imputato — e ritenuto integrare
la contravvenzione di cui all’art. 674 c.p. — nell’esercizio delle funzioni di sovrintendente del Cimitero militare americano di Nettuno e di membro della missione diplomatica degli Stati Uniti).
* Cass. pen., sez. I, 19 gennaio 1994, n. 469 (ud. 12
novembre 1993), P.M. in proc. Bevilacqua.
4. Cittadino
italiano. Territorio dello Stato (1). –
Agli effetti della legge penale, sono considerati «cittadini italiani» i cittadini delle colonie, i sudditi coloniali
(2), gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi
soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti
nel territorio dello Stato (2423).
Agli effetti della legge penale, è «territorio dello
Stato» il territorio «della Repubblica», quello delle colonie (3) e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello
Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati
come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo
che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a
una legge territoriale straniera (2, 3, 4 c.n.).
(1) Si veda la L. 5 febbraio 1992, n. 91 recante nuove norme
sulla cittadinanza italiana.
(2) I riferimenti ai cittadini delle colonie ed ai sudditi coloniali
devono ritenersi non più operanti.
(3) Il riferimento al territorio delle colonie deve ritenersi non
più operante.
l È perseguibile in base alla legislazione italiana e davanti al giudice italiano la violazione di
norme in materia di prevenzione degli infortuni
sul lavoro accertata a bordo di una nave battente
bandiera straniera, attraccata in un porto italiano, quando detta violazione, ed i conseguenti
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Art. 5
effetti lesivi, non abbiano interessato soggetti
appartenenti alla c.d. «comunità navale» sottoposta, come tale, alla giurisdizione dello Stato cui la
nave appartiene, ma bensì soggetti estranei alla
detta comunità quali, nella specie, lavoratori italiani addetti alle operazioni di carico. (Fattispecie
in cui delle lesioni colpose di un lavoratore, socio
di una cooperativa, caduto dall’alto durante lo stivaggio di una nave è stato ritenuto responsabile
il presidente della cooperativa). * Cass. pen., sez.
IV, 24 giugno 2000, n. 7409 (ud. 2 maggio 2000),
D’Este F. [RV216605]
l In caso di perpetrazione di reato su nave
mercantile che si trovi nelle acque territoriali di
altro Stato, prevale la giurisdizione dello Stato di
bandiera allorché l’illecito concerna esclusivamente le attività e gli interessi della comunità nazionale cui appartiene il natante, mentre prevale quella
dello Stato costiero ove le conseguenze del fatto
compiuto a bordo si ripercuotano o siano idonee
a ripercuotersi all’esterno incidendo su interessi
primari della comunità territoriale. Tali interessi
vanno valutati con riferimento non solo al bene
giuridico tutelato dalla norma di cui si assume la
violazione, ma anche alla situazione verificatasi in
concreto che diviene rilevante per lo Stato costiero
allorquando per le sue connotazioni realizzi una
condizione di effettivo pericolo che, rendendo probabile l’offesa per la pace pubblica del paese o per
il buon ordine del mare territoriale, imponga l’intervento dello Stato costiero. (Fattispecie relativa
a ritrovamento su nave mercantile straniera nelle
acque territoriali italiane di armi da guerra costituenti dotazione della nave stessa regolarmente
iscritte nei libri di bordo e denunciate alle competenti autorità straniere. La Corte di cassazione
ha escluso la giurisdizione del giudice italiano).
* Cass. pen., Sezioni Unite, 26 gennaio 1990, n.
1002 (ud. 16 novembre 1989), Zaid Avraham.
l La legge doganale 25 settembre 1940 n.
7424, art. 33, eleva a dodici miglia marine dalla
costa la zona di vigilanza doganale, comprendendo in essa fino a sei miglia il vero e proprio mare
territoriale, e da sei a dodici la zona contigua, così
che, ai fini della giurisdizione dello Stato italiano,
deve ritenersi commesso entro il territorio dello
Stato italiano il reato di contrabbando commesso entro le dodici miglia dalla costa. * Cass. pen.,
Sezioni Unite, 19 gennaio 1952, Poitral.
5. Ignoranza della legge penale. – Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale
(473) (1).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 24 marzo 1988, n.
364, ha dichiarato l’incostituzionalità di questo articolo, nella
parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della
legge penale l’ignoranza inevitabile.
SOMMARIO:
a) Nozione e ratio;
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76
Libro I – Dei reati
b) Ignoranza inevitabile — Errore scusabile;
c) Buona fede nei reati contravvenzionali;
d) Casistica.
a) Nozione e ratio.
l L’errore di diritto inevitabile esclude la
colpevolezza anche quando cada sulla norma
extrapenale integratrice. * Cass. pen., sez. VI, 24
novembre 2011, n. 43646 (ud. 22 giugno 2011),
S. [RV251044]
l La valutazione dell’inevitabilità dell’errore
di diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della
colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori
esterni che possono aver determinato nell’agente
l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo. (Fattispecie relativa al reato
di concorso della madre dell’infante nel delitto di
cui all’art. 348 c.p., avente ad oggetto la ritenuta
rilevanza dell’ignoranza della natura medica della
circoncisione praticata per motivi rituali e della
conseguente necessità che ad effettuarla sia un
soggetto abilitato all’esercizio della professione
medica, e ciò per essere quella madre di recente
immigrata da un paese straniero in cui tale pratica è diffusa per tradizione etnica, dalla quale la
stessa è risultata essere fortemente influenzata in
ragione del suo basso grado di cultura). * Cass.
pen., sez. VI, 24 novembre 2011, n. 43646 (ud. 22
giugno 2011), S. [RV251045]
l Non può essere invocata l’ignoranza della
legge penale ex art. 5 c.p. — alla luce dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale —
da parte di chi, professionalmente inserito in un
campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del predetto penale,
non si uniformi alle regole di settore, per lui facilmente conoscibili a ragione dell’attività professionale svolta. (Nella fattispecie, la S.C. ha escluso
che l’errore sulla qualifica demaniale di un’area
o terreno, in riferimento al reato di occupazione
abusiva di suolo demaniale marittimo, possa essere invocato da un soggetto, legale rappresentante di una società operante nell’ambito dei cantieri
navali). * Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2004, n.
22813 (ud. 15 aprile 2004), Ferri. [RV229228]
l Deve escludersi che l’errore del pubblico
ufficiale circa le proprie facoltà di disposizione
del pubblico denaro per fini diversi da quelli
istituzionali possa assumere qualsivoglia efficacia
scriminante perché, pur essendo la destinazione
delle somme determinata da una norma di diritto
amministrativo, tale norma deve intendersi richiamata dalla norma penale, della quale integra
il contenuto. Pertanto, l’illegittimità della destinazione, anche se imputabile ad ignoranza dell’agente sui limiti dei propri poteri, non si risolve
in un errore di fatto su legge diversa da quella
penale, ma costituisce errore o ignoranza della
legge penale e, come tale, non vale ad escludere
l’elemento soggettivo del reato di peculato che
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77
Titolo I – Legge penale
consiste nella coscienza e volontà di far proprie
somme di cui il pubblico ufficiale ha il possesso
per ragioni del suo ufficio. Né potrebbe essere
utilmente richiamato il decisum della sentenza
costituzionale n. 364 del 1988 che ha dichiarato
illegittimo l’art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge
penale l’ignoranza inevitabile. Infatti, i soggetti
che esplicano professionalmente una determinata attività rispondono anche in virtù della culpa
levis nello svolgimento dell’indagine giuridica; da
ciò deriva che per la scusabilità dell’ignoranza
(e, dunque, anche dell’errore) occorre che da un
comportamento degli organi amministrativi o
da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale venga tratto il convincimento della
correttezza dell’interpretazione e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. *
Cass. pen., sez. VI, 5 ottobre 1994, n. 10458 (ud.
30 giugno 1994), Diene ed altri.
b) Ignoranza inevitabile — Errore scusabile.
l La valutazione dell’inevitabilità dell’errore di
diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni
che possono aver determinato nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento,
quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo. (Fattispecie relativa al reato di concorso della
madre dell’infante nel delitto di cui all’art. 348 c.p.,
avente ad oggetto la ritenuta rilevanza dell’ignoranza della natura medica della circoncisione praticata
per motivi rituali e della conseguente necessità che
ad effettuarla sia un soggetto abilitato all’esercizio
della professione medica, e ciò per essere quella
madre di recente immigrata da un paese straniero
in cui tale pratica è diffusa per tradizione etnica,
dalla quale la stessa è risultata essere fortemente
influenzata in ragione del suo basso grado di cultura). * Cass. pen., sez. VI, 24 novembre 2011, n.
43646 (ud. 22 giugno 2011), S. [RV251045]
l La scusabilità dell’ignoranza della legge
penale, può essere invocata dall’operatore professionale di un determinato settore solo ove dimostri, da un lato, di aver fatto tutto il possibile per
richiedere alle autorità competenti i chiarimenti
necessari e, dall’altro, di essersi informato in
proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così
adempiendo il dovere di informazione. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto
inescusabile l’ignoranza, da parte del titolare di
uno stabilimento di depurazione e stabulazione
di molluschi, delle procedure di rinnovo delle
concessioni demaniali marittime, invocata per
l’asserita “farraginosità “ della disciplina tale da
giustificare l’emanazione di una norma di interpretazione autentica, nonché” per la difficoltà di
reperire corrette informazioni sul trasferimento
di competenze alla Regione). * Cass. pen., sez.
III, 3 ottobre 2011, n. 35694 (ud. 5 aprile 2011),
Pavanati. [RV251225]
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Art. 5
l L’esclusione di colpevolezza per errore di
diritto dipendente da ignoranza inevitabile della
legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole
conclusione della correttezza della propria interpretazione del disposto normativo. Ne consegue
che in caso di giurisprudenza non conforme o di
oscurità del dettato normativo sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso
che, in caso di dubbio, si determina un obbligo di
astensione dall’intervento, con l’espletamento di
qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la
corretta conoscenza della legislazione vigente in
materia. (Fattispecie in tema di coltivazione per
uso personale di sostanze stupefacenti). * Cass.
pen., sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 6991 (ud. 25
gennaio 2011), Sirignano e altro. [RV249451]
l Deve essere considerato errore sulla legge
penale, come tale inescusabile, sia quello che cade
sulla struttura del reato, sia quello che incide su
norme, nozioni e termini propri di altre branche
del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa, dovendosi
intendere per <<legge diversa dalla legge penale>> ai sensi dell’art. 47 c.p. quella destinata in
origine a regolare rapporti giuridici di carattere
non penale e non esplicitamente incorporata in
una norma penale, o da questa non richiamata
anche implicitamente. (Nella specie, la Corte ha
ritenuto che l’art. 76 D.L.vo n. 115 del 2002, che
disciplina la materia del patrocinio a spese dello
Stato ed è espressamente richiamato dalla norma
incriminatrice di cui all’art. 95 stesso D.L.vo, non
costituisca legge extrapenale). * Cass. pen., sez.
IV, 21 ottobre 2010, n. 37590 (ud. 7 luglio 2010),
P.G. in proc. Barba. [RV248404]
l L’inevitabilità dell’errore sulla legge penale
non si configura quando l’agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto alla quale ha
il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente. (In applicazione di questo principio
la S.C. ha ritenuto legittima la decisione con cui il
giudice di appello ha affermato la sussistenza del
reato di cui all’art. 220, comma secondo, L. fall.
nei confronti del socio accomandatario di una
s.a.s. che aveva invocato l’ignoranza senza colpa
del precetto penale, avendo assunto la qualifica di
amministratore per fare un favore ad un amico).
(Corte cost. n. 364 del 1988). * Cass. pen., sez. V,
3 giugno 2008, n. 22205 (ud. 26 febbraio 2008),
Ciccone. [RV240440]
l La esclusione di colpevolezza per errore di
diritto dipendente da ignoranza inevitabile della
legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale
che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione normativa; ma in caso di giurisprudenza
non conforme o di oscurità del dettato normativo
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Art. 5
Libro I – Dei reati
sulla regola di condotta da seguire non è possibile
invocare la condizione soggettiva di ignoranza
inevitabile, atteso che in caso di dubbio si determina l’obbligo di astensione dall’intervento e
dell’espletamento di qualsiasi utile accertamento
per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia. (Fattispecie relativa
al regime vincolistico successivo alla scadenza
temporale di validità dei programmi pluriennali
di attuazione per le edificazioni in zone oggetto
di pianificazione al momento di entrata in vigore
della legge 8 agosto 1985 n. 431). * Cass. pen., sez.
III, 24 giugno 2004, n. 28397 (ud. 16 aprile 2004),
P.G. in proc. Giordano. Conforme, Cass. pen.,
sez. VI, 23 febbraio 2011, n. 6991 (ud. 20 gennaio
2011), Sirignano e altro. [RV229060]
l L’ignoranza della legge penale, l’agente abbia
fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato della
norma e questa sia stata violata per cause indipendenti dalla sua volontà. Ne consegue che non è sufficiente ad integrare gli estremi della scriminante il
comportamento passivo dell’agente, essendo invece
necessario che questi si attenga con l’ordinaria diligenza all’obbligo di informazione e di conoscenza
dei precetti normativi. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto non scriminare l’agente
dall’aver dichiarato falsamente alla Capitaneria di
porto di essere in possesso dei requisiti morali richiesti dal D.P.R. 9 ottobre 1997, n. 431 per l’ammissione agli esami per il conseguimento della patente
nautica, il fatto che sul modulo prestampato predisposto dalla P.A. fosse richiamato genericamente il
suddetto regolamento, senza citarne gli estremi). *
Cass. pen., sez. V, 31 ottobre 2003, n. 41476 (ud. 25
settembre 2003), Izzo. [RV227042]
l L’errore di diritto scusabile, ai sensi dell’art.
5 c.p. è configurabile soltanto in presenza di una
oggettiva ed insuperabile oscurità della norma
o del complesso di norme aventi incidenza sul
precetto penale. Ne consegue che non è scusabile
l’errore riferibile al calcolo dell’ammontare degli
interessi usurari sulla base di quanto disposto dall’art. 644 c.p., trattandosi di interpretazione che,
oltre ad essere nota all’ambiente del commercio,
non presenta in sé particolari difficoltà. * Cass.
pen., sez. VI, 22 settembre 2003, n. 36346 (ud. 5
febbraio 2003), Delucca. [RV226911]
l La esclusione della colpevolezza nelle contravvenzioni non può essere determinata dall’errore
di diritto dipendente da ignoranza non inevitabile
della legge penale, quindi, dal mero errore di interpretazione, che diviene scusabile quando è determinato da un atto della pubblica amministrazione o
tragga la convinzione della correttezza dell’interpretazione normativa e, di conseguenza, della liceità
della propria condotta. * Cass. pen., sez. III, 21 aprile 2000, n. 4951 (ud. 17 dicembre 1999), Del Cuore
F. Conformi: Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2008, n.
172 (ud. 6 novembre 2007), Picconi; Cass. pen., sez.
III, 30 dicembre 2009, n. 49970 (ud. 4 novembre
2009), Cangialosi ed altri. [RV216561]
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78
l L’errore su legge diversa da quella penale,
idoneo ad escludere la punibilità, è solo quello
che riguarda una norma destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale,
non richiamata né esplicitamente né implicitamente nella norma penale. Non è perciò scusabile
l’errore che incide su precetti e termini di altre
branche del diritto, introdotti ad integrazione
della norma penale, proprio perché essi determinano il contenuto del comando penale. (Nella
fattispecie, relativo alla pretesa dell’imputato di
veder riconosciuto l’errore sulle norme in tema di
società, la Corte ha affermato che la figura dell’amministratore di una società è espressamente
richiamata dagli artt. 2621 c.c. e 223 legge fallimentare che prevedono reati propri). * Cass. pen.,
sez. V, 23 febbraio 2000, n. 2174 (ud. 11 gennaio
2000), Di Patti ed altri. [RV215480]
l In materia di tutela ambientale e in tema
di ignoranza della legge penale, l’affittuario di
un fondo sottoposto al vincolo di cui alla legge
n. 431/1985, che agisca in violazione dello stesso,
non può addurre la carenza dell’elemento soggettivo del reato per il modesto livello d’istruzione o
per l’esecuzione, prolungata nel tempo, di lavori
d’aratura, consistenti, nella fattispecie, nel completo sradicamento di macchia mediterranea,
senza alcun controllo da parte delle autorità preposte alla tutela del vincolo; infatti, l’accertamento dello stato della legislazione è tanto più necessario, quanto minore è la preparazione tecnica
dell’agente. * Cass. pen., sez. III, 18 giugno 1997,
n. 5961 (ud. 3 giugno 1997), Piras ed altro, in Riv.
pen. 1997, 821.
l Il fondamento costituzionale della «scusa»
della inevitabile ignoranza della legge penale
vale prima di tutto per chi versa in condizioni
soggettive di sicura inferiorità e non può certo
essere strumentalizzato per coprire omissioni di
controllo o atteggiamenti indifferenti di soggetti
dai quali, per la loro elevata condizione sociale e
tecnica, sono esigibili particolari comportamenti
realizzativi di obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali; l’ipotesi di un
soggetto sano e maturo di mente che commetta
fatti criminosi ignorandone la antigiuridicità è
concepibile soltanto quando si tratti di reati che,
sebbene presentino un generico disvalore sociale,
non siano sempre e dovunque previsti come illeciti penali, ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale. In relazione a
tali categorie di reati possono essere prospettate
due ipotesi: quella in cui il soggetto si rappresenti
effettivamente la possibilità che il suo fatto sia
antigiuridico e quella in cui tale possibilità non si
rappresenti neppure; mentre nella prima di dette
ipotesi esistendo, in concreto, più che la possibilità di conoscenza dell’effettiva illiceità del fatto,
la concreta previsione di essa, non può ravvisarsi
ignoranza inevitabile della legge penale (dovendo
il soggetto risolvere il «dubbio eventuale» attra-
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79
Titolo I – Legge penale
verso l’esatta conoscenza della specifica norma o,
in caso di soggettiva invincibilità di esso, astenersi dall’azione), nella seconda ipotesi è riservato al
giudice il compito di una valutazione attenta delle
ragioni per le quali l’agente, che ignora la legge
penale, non si è neppure prospettato un dubbio
sulla illiceità del fatto e, se l’assenza di simile dubbio risulti discendere — in via principale — da
personale ed incolpevole mancanza di socializzazione dello stesso, l’ignoranza della legge penale
va, di regola, ritenuta inevitabile. * Cass. pen.,
sez. III, 12 giugno 1996, n. 2149 (c.c. 9 maggio
1996), Falsini. [RV205513]
l In tema di elemento soggettivo del reato, è
configurabile l’inevitabilità dell’ignoranza della
legge penale anche nei confronti di quei soggetti
dotati di particolari conoscenze giuridiche o dediti
ad attività professionali o mestieri, che presuppongono tali condizioni, qualora la normativa,
attinente alla specifica disciplina, oggetto di regolamentazione, presenti rilevanti ed oggettivi connotati di equivocità, che rendano ragionevolmente
oscuro il precetto, contenente il divieto d’agire
ovvero l’ordine di operare. In tal caso non può
essere mosso alcun addebito di rimproverabilità
all’agente, qualunque sia il suo grado di «socializzazione», non potendosi pretendere dal singolo
un’astensione (tra l’altro impossibile nelle ipotesi
di ordine positivo) o una paralisi di attività della
vita di relazione, non dovuta, perché ascrivibili non
alla coscienza d’illiceità della condotta da parte del
privato, ma al cattivo funzionamento dell’apparato
ordinamentale. (Nella specie la S.C. ha ritenuto
che trova piena applicazione il suddetto principio,
reputata estremamente complessa la normativa
[legislazione vigente in materia di sussistenza dei
vincoli paesistici con riferimento ai piani pluriennali di attuazione ed alla possibilità di inquadrare
tra questi ultimi i piani di zona per l’edilizia economica e popolare - Peep] e, nella sua diversificata
formulazione, oggettivamente oscura per gli stessi
tecnici del diritto, come dimostrato dai contrasti
interpretativi in sede cautelare ed in sede di cognizione, ciò in presenza di vari atti dell’assessore all’urbanistica, il quale si era ripetutamente espresso
per la non necessità del nulla osta in riferimento
agli interventi di edilizia residenziale pubblica). *
Cass. pen., sez. III, 27 maggio 1996, n. 5244 (ud. 23
aprile 1996), Gatto. [RV205109]
l Deve ritenersi inevitabile l’ignoranza della
legge penale, quando l’agente sia incorso nella
trasgressione nonostante si sia attenuto correttamente e con l’ordinaria diligenza all’obbligo di
informazione e di conoscenza dei precetti normativi, posto a carico di tutti i consociati quale esplicazione dell’ampio dovere di solidarietà sociale e
l’accertamento di tale diligenza deve essere particolarmente approfondito per chi esercita professionalmente in un determinato settore un’attività
alla quale inerisce la disciplina predisposta dalle
norme violate, sicché non è sufficiente ad inte-
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Art. 5
grare gli estremi della scriminante un comportamento meramente passivo dell’agente, mentre è
necessario che si tratti di un reato di creazione
legislativa e non di una norma corrispondente
ad un’esigenza morale universalmente avvertita.
(Fattispecie in tema di omessa annotazione sulle
scritture contabili di cessioni di beni). * Cass.
pen., sez. III, 3 maggio 1996, n. 4464 (ud. 20 marzo 1996), Stefanelli. [RV204431]
l A seguito della sentenza 23 marzo 1988 n.
364 della Corte costituzionale, secondo la quale
l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a
cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il
criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto «dovere di informazione», attraverso l’espletamento
di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la
conoscenza della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti
coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito
anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento
dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della
scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da
un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione
normativa e, conseguentemente, della liceità del
comportamento tenuto. (Fattispecie relativa a
reati urbanistici, in relazione ai quali la Suprema
Corte ha confermato l’assoluzione pronunciata
dal giudice di merito per mancanza dell’elemento
soggettivo del reato, motivata dalla convinzione
degli imputati dell’assenza del vincolo di inedificabilità, più volte affermata in provvedimenti del
giudice amministrativo, nonché in specifici atti
ufficiali del Ministero dei beni culturali e ambientali e del Comune interessato, e ha conseguentemente ritenuto assorbita, perché irrilevante, la
questione della sindacabilità, da parte del giudice
ordinario, della concessione «macroscopicamente illegittima»). * Cass. pen., Sezioni Unite, 18
luglio 1994, n. 8154 (ud. 10 giugno 1994), P.G. in
proc. c. Calzetta ed altro. Conforme, Cass. pen.,
sez. IV, 18 agosto 2010, n. 32069 (c.c. 15 luglio
2010), P.M. in proc. Albuzza e altri.
l L’incertezza che potrebbe derivare da contrastanti indirizzi giurisprudenziali, nell’interpretazione ed applicazione di una norma, non abilita
da sola ad invocare la condizione soggettiva di
ignoranza inevitabile della legge penale. Al contrario, il dubbio sulla liceità o meno, così originato, deve indurre il soggetto ad un atteggiamento
più attento, fino, cioè (secondo l’esplicito pensiero
espresso nella sentenza della Corte costituzionale
24 marzo 1988, n. 364) all’estensione dell’azione,
se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga l’incertezza sulla liceità dell’azione stessa;
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Art. 5
Libro I – Dei reati
e ciò, perché il dubbio, non essendo equiparabile
allo stato di inevitabile ed invincibile ignoranza,
non esclude la consapevolezza della illiceità. *
Cass. pen., sez. III, 2 luglio 1994, n. 7550 (ud. 1
giugno 1994), Cherubini. Conforme, Cass. pen.,
sez. VI, 27 maggio 1995, n. 6175 (ud. 27 marzo
1995), Bando.
l In tema di ignoranza scusabile della legge
penale, su coloro che esercitano professionalmente un’attività incombe il dovere, nell’ipotesi
di dubbio sulla liceità dell’azione, di astenersi dal
compierla. * Cass. pen., sez. III, 23 giugno 1994,
n. 7287 (ud. 6 maggio 1994), Bonsignore.
l Non può ritenersi inquadrabile nell’ambito
delle situazioni soggettive che, solo eccezionalmente, alla stregua di quanto affermato dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 364/1988
(dichiarativa della parziale incostituzionalità
dell’art. 5 c.p.), consentono di ritenere inoperante
il principio generale, tuttora valido, della inescusabilità della ignoranza della legge penale, la
situazione di chi, sol perché straniero, adduca a
sua giustificazione la diversità della legge italiana
rispetto a quella del suo paese d’origine. (Nella
specie, in applicazione di tale principio, la Corte
ha escluso che potesse attribuirsi rilevanza, in un
caso di violenza carnale presunta, in quanto commessa su soggetto infraquattordicenne, all’assunto difensivo dell’imputato, cittadino marocchino,
secondo il quale in Marocco i rapporti sessuali
con minori sarebbero considerati leciti dalla legge). * Cass. pen., sez. III, 15 marzo 1994, n. 3114
(ud. 7 dicembre 1993), Tabib.
l Si verifica in ipotesi di ignoranza inescusabile della legge penale, nel caso in cui il soggetto,
pur dimostrando di conoscere appieno il precetto
penale non vi si conformi in base a mere notizie
giornalistiche, inerenti alla eventuale imminente
modifica della norma in senso più favorevole. In
tal caso l’agente, deve accertare in modo irrefutabile l’avvenuto cambiamento, attenendosi fino a
quel momento alla disposizione vigente. * Cass.
pen., sez. III, 6 ottobre 1993, n. 9092 (ud. 18 giugno 1993), Santarelli.
l Ai fini della configurabilità dell’ignoranza
scusabile della legge penale, la scriminante della
buona fede può trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui l’agente abbia fatto tutto il possibile per
adeguarsi al dettato della norma e questa sia stata
violata per cause indipendenti dalla volontà dell’agente medesimo, al quale non può essere mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza. Non è sufficiente ad integrare gli estremi
dell’esimente un comportamento meramente passivo, essendo necessario che l’interessato si attivi
per adeguarsi all’ordinamento giuridico. * Cass.
pen., sez. III, 23 luglio 1993, n. 7161 (ud. 3 giugno
1993), Cardia.
l L’inevitabilità dell’ignoranza della legge
penale, che a seguito della sentenza n. 364 del
1988 della Corte costituzionale, rende scusabile
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80
la ignoranza stessa, non va valutata alla stregua di
criteri esclusivamente soggettivi, ma si ricollega
all’effettiva possibilità di conoscere la legge penale ed ai doveri di informazione o di attenzione
sulle norme penali; doveri che sono alla base della
convivenza civile. * Cass. pen., sez. VI, 20 maggio
1993, n. 5225 (ud. 12 marzo 1993), Sicurella.
l L’errore di diritto scusabile, in quanto dovuto ad ignoranza «inevitabile» della legge penale
nella sua esatta delimitazione e nel suo preciso
significato (alla stregua di quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale 24 marzo
1988 n. 364, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p.), è configurabile
solo in presenza di una oggettiva e insuperabile
oscurità della norma o del complesso di norme da
cui deriva il precetto penalmente sanzionato; condizione, questa, che non si verifica nel caso di cui
al combinato disposto degli artt. 2 comma terzo,
11 e 23 della L. 18 aprile 1975, n. 110, in forza del
quale costituisce delitto la detenzione di un’arma
ad aria compressa (nella specie trattavasi di una
carabina), non sottoposta, entro il termine di legge, alle prescritte operazioni di immatricolazione.
* Cass. pen., sez. I, 25 novembre 1992, n. 11360
(ud. 14 ottobre 1992), Zentile.
l Pur obbligando la legge penale italiana
tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano
nel territorio dello Stato, la disposizione dell’art.
5 c.p., a seguito della nota sentenza n. 364 del
1988 della Corte costituzionale, deve intendersi
nel senso che l’ignoranza della legge penale non
scusa tranne che si tratti di ignoranza inevitabile:
statuizione, quest’ultima, che implica il dovere
per le pubbliche autorità, nei congrui casi, di
formulare norme, regolamenti e provvedimenti in
modo riconoscibile per i loro destinatari. (Nella
specie è stata eslcusa la configurabilità della contravvenzione all’art. 15 T.U.L.P.S. nella condotta
di uno straniero inottemperante all’invito a presentarsi in questura, sul rilievo che non risultava
che conoscesse la lingua italiana e che lo stesso
non era stato informato delle conseguenze penali
in caso di inosservanza dell’ordine ricevuto). *
Cass. pen., sez. I, 9 maggio 1992, n. 5436 (ud. 20
marzo 1992), Faicel.
l Si può ritenere inevitabile l’ignoranza della
legge penale, quando l’agente sia incorso nella
trasgressione nonostante che si sia attenuto
correttamente e con l’ordinaria diligenza all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti
normativi, posto a carico in generale di tutti i
consociati quale esplicazione dell’ampio dovere
di solidarietà sociale, ed in particolare di quelli
professionalmente inseriti in un determinato settore di attività al quale inerisce la disciplina predisposta dalle norme violate. * Cass. pen., sez. III,
7 dicembre 1991, n. 12407 (ud. 28 ottobre 1991),
Lisci. Conforme, Cass. pen., sez. III, 17 gennaio
1996, n. 494 (ud. 5 dicembre 1995), Rainone.
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Titolo I – Legge penale
c) Buona fede nei reati contravvenzionali.
l L’ignoranza della legge penale scusa l’autore dell’illecito qualora sia inevitabile, e quindi
incolpevole, facendo venir meno l’elemento soggettivo del reato, anche se contravvenzionale.
Tale condizione deve ritenersi sussistente per
il cittadino comune, soprattutto se sfornito di
specifiche competenze, allorché egli abbia assolto
il dovere di conoscenza con l’ordinaria diligenza
attraverso la corretta utilizzazione dei mezzi di
informazione, di indagine e di ricerca dei quali
disponga. (Fattispecie concernente la riconducibilità alla categoria delle armi di un apparecchio
che trasmette impulsi elettrici). (V. Corte cost., 23
marzo 1988 n. 364). * Cass. pen., sez. I, 9 giugno
2004, n. 25912 (ud. 18 dicembre 2003), Garzanti.
[RV228235]
l In materia contravvenzionale è configurabile la buona fede ove la mancata coscienza della
illiceità del fatto derivi non dall’ignoranza inescusabile della legge, ma da un elemento positivo,
cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un comportamento
dell’autorità amministrativa. (Nella specie l’imputato aveva ritenuto che l’autorizzazione di agibilità dei locali del suo insediamento produttivo
rilasciatogli dal sindaco fosse comprensiva anche
dell’autorizzazione allo scarico dei reflui provenienti dallo stesso insediamento, in tale erronea
convinzione essendo stato indotto dal comportamento dell’autorità amministrativa). * Cass. pen.,
sez. III, 3 marzo 1992, n. 2336 (ud. 31 gennaio
1992), Santori. Conforme, Cass. pen., sez. III, 21
aprile 1989, n. 6160 (ud. 8 marzo 1989), Greco.
u Si veda anche sub art. 42.
d) Casistica.
l In tema di reati contro il patrimonio, ai fini
della configurabilità del reato di cui all’art. 2, L. 23
dicembre 1986, n. 898 (indebito conseguimento di
contributi a carico del Fondo europeo agricolo di
orientamento e garanzia, cosiddetta frode comunitaria), l’eventuale ignoranza da parte del reo del
contenuto della domanda e delle attestazioni effettuate e sottoscritte non esclude il dolo ex art. 5 c.p.
in relazione alla sentenza della Corte cost. n. 364
del 1988, in quanto non si versa in tal caso in una
ipotesi di ignoranza inevitabile della legge penale
essendo noto il disvalore sociale della condotta. *
Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2008, n. 2257 (ud.
30 novembre 2007), Di Stefano. [RV238627]
l Ai fini della configurabilità del delitto di
evasione dagli arresti domiciliari, ritenere che la
notifica di un decreto di citazione per l’udienza
autorizzi implicitamente ad allontanarsi dal luogo
di restrizione, è un errore di diritto, in quanto afferisce alla disciplina degli arresti domiciliari che
integra la fattispecie penale, e pertanto non può
essere scusabile neppure per lo straniero, il quale,
come il cittadino italiano, quando è destinatario
di un regime di arresti domiciliari, deve osservare
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Art. 5
con la massima diligenza la regola fondamentale
dell’assoluto divieto di allontanamento dal proprio domicilio, senza preventiva autorizzazione
del giudice. * Cass. pen., sez. VI, 16 aprile 2004, n.
17687 (ud. 9 gennaio 2004), Caku. [RV228465]
l Ai fini della sussistenza del reato di falso in
scrittura privata non ha alcuna rilevanza il consenso o l’acquiescenza della persona di cui venga
falsificata la firma, in quanto la tutela penale ha
per oggetto non solo l’interesse della persona
offesa, apparente firmataria del documento, ma
anche la fede pubblica, la quale è compromessa
nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sè un vantaggio
o per arrecare ad altri un danno; pertanto anche
l’erroneo convincimento sull’effetto scriminante
del consenso si risolve in una inescusabile ignoranza della legge penale. * Cass. pen., sez. II, 10
novembre 2003, n. 42790 (ud. 24 ottobre 2003),
Del Miglio. [RV227615]
l Nel reato di illegale detenzione di armi e
munizioni l’elemento psicologico nel dolo generico, e cioè nella coscienza e volontà di avere a
disposizione materialmente l’arma o le munizioni
senza averne fatto denuncia, mentre a nulla rileva
l’eventuale buona fede dell’agente ovvero l’erroneo convincimento circa l’obbligo della denuncia
che si risolve in ignoranza della legge penale, inescusabile per il principio generale sancito dall’art.
5 c.p. * Cass. pen., sez. I, 2 aprile 2001, n. 12911
(ud. 19 dicembre 2000), Bortoluzzi. [RV218441]
l Poiché lo scopo della L. 4 aprile 1956, n. 212
(norme per la disciplina della propaganda elettorale) è quello di tutelare la par condicio di coloro
che concorrono nella competizione elettorale,
l’art. 8, comma 3 della legge punisce non solo
chiunque affigge manifesti elettorali fuori delle
superfici globalmente destinate alla propaganda
elettorale, ma a maggior ragione, punisce anche
chiunque affigge manifesti dentro quelle superfici
globali e tuttavia fuori della specifica superficie
assegnata alla lista o al concorrente uninominale
propagandato dal manifesto affisso. (Nella specie, la Suprema Corte ha altresì osservato che
«non può ritenersi errore scusabile sulla interpretazione della norma incriminatrice quello in
cui sarebbero incorsi gli imputati: è nozione di
comune esperienza che gli «attacchini» elettorali
sono adeguatamente edotti sulle norme da osservare per le affissioni; e che se essi violano tali
norme, le violano coscientemente o comunque
per ignoranza non scusabile»). * Cass. pen., sez.
III, 4 ottobre 1995, n. 10132 (ud. 27 giugno 1995),
Sacco ed altro. [RV203086]
l L’ignoranza della legge penale può ritenersi
inevitabile, e quindi scusabile, quando l’agente sia
incorso nella trasgressione nonostante che si sia
attenuto correttamente, e con l’ordinaria diligenza, all’obbligo di informazione e di conoscenza
dei precetti normativi posto in generale a carico
di tutti i consociati. (Fattispecie relativa ad impu-
20-03-2015 10:08:23
Art. 6
Libro I – Dei reati
tato il quale aveva sostenuto la tesi dell’inevitabilità dell’errore assumendo di aver ignorato la legge
penale — specificamente in materia di detenzione
di armi — vivendo in condizioni eremitiche. La
Suprema Corte — nel rigettare il ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza di condanna
— ha enunciato il principio di cui in massima). *
Cass. pen., sez. I, 27 giugno 1995, n. 7323 (ud. 4
maggio 1995), Bindi. [RV201919]
l In tema di reato di maltrattamento di animali (art. 727 c.p.), il cosiddetto «dovere di informazione» cui il comune cittadino è tenuto, è esigibile anche dal cacciatore, che esercita un’attività
normativamente disciplinata e condizionata dal
rilascio di un’autorizzazione e non può, pertanto,
invocare l’ignoranza scusabile della norma penale. (Fattispecie relativa alla detenzione di volatili,
fungenti da richiamo, in minuscole gabbie, ossia
in una condizione incompatibile con la loro natura). * Cass. pen., sez. III, 16 giugno 1995, n. 6897
(ud. 24 aprile 1995), Parussolo. [RV201787]
l In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, nella forma dell’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, non si può invocare
l’errore di fatto, né l’ignoranza della legge penale
sotto il profilo della sua inevitabilità, poiché l’obbligo sanzionato deriva da inderogabili principi
di solidarietà, ben radicati nella coscienza della
collettività, prima ancora che nell’ordinamento.
(Fattispecie nella quale il difetto del dolo era stato
sostenuto dall’imputato adducendo che l’udienza
presidenziale di separazione tra i coniugi era
stata rinviata, senza che alcun provvedimento
fosse stato adottato riguardo al mantenimento). *
Cass. pen., sez. V, 12 maggio 1995, n. 5447 (ud. 26
aprile 1995), De Padua. [RV201328]
l L’ignoranza inevitabile della legge penale è
configurabile solo se emerga che nessun rimprovero, neppure di leggerezza, possa essere mosso
all’imputato per avere egli fatto tutto il possibile
per uniformarsi alla legge. (Fattispecie relativa
ad imputato che aveva scaricato nelle acque di
un canale i reflui derivanti dalla propria attività
produttiva ed era stato assolto dal giudice di merito per avere commesso il fatto in stato di ignoranza inevitabile della legge penale ingeneratogli
dalla oscurità e difficoltà interpretativa della legislazione in materia e dai relativi contrasti giurisprudenziali circa la natura civile o produttiva
degli insediamenti. La Corte di cassazione nell’annullare tale decisione ha osservato che quanto
allegato avrebbe al più potuto ingenerare dubbio
sulla qualifica dell’insediamento di cui l’imputato era a capo, risolvibile con l’ausilio di esperti,
ma non dargli la certezza che si trattasse di un
insediamento civile al quale fosse consentito rimettere in acque superficiali scarichi inquinanti).
* Cass. pen., sez. III, 5 aprile 1994, n. 3959 (ud. 31
gennaio 1994), Gualdi.
l In tema di smaltimento di rifiuti senza autorizzazione, non è invocabile l’errore inescusabile
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sulla illiceità della condotta, quando l’imputato
abbia mostrato consapevolezza della necessità
del provvedimento amministrativo, avanzando
alla competente autorità la relativa istanza. *
Cass. pen., sez. III, 30 luglio 1991, n. 8429 (ud. 5
luglio 1991), Jeanmonod.
l In materia di stupefacenti, è da escludere
ogni ipotesi di ignoranza inevitabile (art. 5 c.p.
a seguito della sentenza n. 364/1988 della Corte
cost.), in considerazione degli interventi normativi del legislatore, ripetuti e risalenti nel tempo (L.
16 gennaio 1933, n. 130, che approvava la Convenzione di Ginevra del 13 luglio 1931 per limitare la fabbricazione e regolare la distribuzione
degli stupefacenti; L.. 22 ottobre 1954, n. 1041, L.
22 dicembre 1975, n. 685, mod. dalla L. 26 giugno
1990, n. 162 e trasfusa nel T.U. 9 ottobre 1990,
n. 309) e dell’enorme rilevanza della materia, con
conseguente larghissima diffusione della comunicazione sociale intorno ad essa. (Fattispecie in
tema di coltivazione di n. 991 piantine di papaver
sonniferum, in cui era stata invocata l’ignoranza
della legge da parte dell’imputato analfabeta). *
Cass. pen., sez. VI, 28 giugno 1991, n. 6931 (ud.
22 febbraio 1991), La Porta.
6. Reati commessi nel territorio dello Stato. –
Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato
(3, 42) è punito secondo la legge italiana (11).
Il reato si considera commesso nel territorio dello
Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce,
è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato
l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.
SOMMARIO:
a) Individuazione del reato commesso in territorio italiano — In genere;
b) Reato concorsuale;
c) Reati commessi via Internet.
a) Individuazione del reato commesso in territorio italiano — In genere.
l In relazione a reati commessi in parte anche all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, è sufficiente che nel territorio
dello Stato si sia verificato l’evento o sia stata
compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone,
perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva
dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività
criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in
Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi
dei concorrenti, a nulla rilevando che tale attività
parziale non rivesta in sè carattere di illiceità, dovendo essa essere intesa come frammento di un
unico “iter” delittuoso da considerarsi come inscindibile. (In applicazione del principio, la Corte
ha ritenuto sottoposto alla giurisdizione italiana
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Titolo I – Legge penale
il delitto di partecipazione ad associazione di
tipo mafioso in riferimento a persona operante
all’estero per conto di una consorteria la cui attività in Italia, posta in essere da altri sodali, era
consistita esclusivamente nello sbarco di casse
di tabacchi lavorati esteri e nella vendita di tali
prodotti di contrabbando, senza esplicazione del
metodo mafioso). * Cass. pen., sez. I, 3 ottobre
2014, n. 41093 (ud. 6 maggio 2014), Cuomo e altri. [RV260703]
l In tema di mandato di arresto europeo, il
motivo di rifiuto della consegna previsto dall’art.
18, comma primo, lett. p), L. 22 aprile 2005, n.
69, sussiste quando anche solo una parte della
condotta si sia verificata in territorio italiano,
purchè tale circostanza risulti con certezza, non
potendosi ritenere sufficiente la mera ipotesi che
il reato sia stato commesso in tutto o in parte in
Italia. * Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2013, n.
20281 (ud. 24 aprile 2013), Vetro. [RV257025]
l In tema di mandato di arresto europeo,
quando la richiesta di consegna riguardi fatti
commessi in parte nel territorio dello Stato ed in
parte in territorio estero, la sussistenza del motivo
di rifiuto previsto dall’art. 18, comma primo, lett.
p), L. 22 aprile 2005, n. 69, deve essere valutata
alla luce dell’art. 31, comma secondo, della Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, il
quale fa salvi eventuali accordi o intese bilaterali
o multilaterali, vigenti al momento della sua adozione e volti a semplificare o agevolare ulteriormente la consegna della persona richiesta. (Fattispecie relativa ad un m.a.e. emesso dall’autorità
tedesca per reati in tema di stupefacenti, alcuni
dei quali commessi in parte in Italia, in cui la S.C.
ha ritenuto applicabile l’art. II dell’Accordo bilaterale italo-tedesco del 24 ottobre 1979, ratificato
con legge 11 dicembre 1984, n. 969, con il quale
le parti avevano limitato l’incidenza del motivo di
rifiuto di cui all’art. 7 della Convenzione europea
di estradizione del 1957, nell’ipotesi in cui la
domanda di consegna avesse riguardato anche
reati non soggetti alla giurisdizione dello Stato di
rifugio, e fosse risultato opportuno far giudicare
tutti i reati nello Stato richiedente). * Cass. pen.,
sez. VI, 10 maggio 2013, n. 20281 (ud. 24 aprile
2013), Vetro. [RV257024]
l Sono punibili, secondo la legge italiana,
come se commessi per intero in Italia, anche i
reati la cui condotta sia avvenuta solo in parte
nel territorio dello Stato o il cui evento si sia ivi
verificato, ancorché si tratti di frammento di condotta privo dei requisiti di idoneità e inequivocità
richiesti per il tentativo. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto commesso in Italia il delitto di cui all’art. 73 d.P.R. n.
309 del 1990, sub specie di offerta, messa in vendita e cessione di sostanze stupefacenti, in quanto
lo scambio della droga, ancorché materialmente
avvenuto in territorio estero, era stato preceduto
da contatti telefonici con i singoli acquirenti i
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Art. 6
quali percepivano la disponibilità alla cessione
della droga in Italia da dove chiamavano). * Cass.
pen., sez. IV, 15 novembre 2012, n. 44837 (ud. 11
ottobre 2012), Pmt in proc. Krasniqi. [RV254968]
l Il reato omissivo colposo si considera commesso nello Stato, in applicazione del principio
di territorialità della legge penale, qualora abbia
avuto luogo in tale territorio anche una sola parte della omissione causativa dell’evento. * Cass.
pen., sez. IV, 1 giugno 2011, n. 22147 (ud. 10 marzo 2011), Bernard. [RV250701]
l In tema di ricettazione, il reato deve ritenersi commesso nel territorio dello Stato qualora in
Italia si sia proceduto alla sola predisposizione,
mediante la creazione di un doppio fondo, del
veicolo utilizzato per importare la merce illecita
successivamente acquistata all’estero, non rilevando in proposito che l’originario programma
criminoso prevedesse l’acquisto di beni, comunque di natura illecita, di genere diverso rispetto a
quelli poi effettivamente acquisiti. (Fattispecie in
tema di ricettazione di armi da guerra acquistate
all’estero in luogo dell’originario programmato
acquisto di una partita di stupefacente). * Cass.
pen., sez. IV, 11 aprile 2008, n. 15280 (ud. 7 marzo
2008), Lentini. [RV239610]
l Ai fini dell’affermazione della giurisdizione
italiana in relazione a reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato
si sia verificata anche solo un frammento della
condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi,
un qualsiasi atto dell’iter criminoso. Connotazione che tuttavia non può essere riconosciuta ad un
generico proposito, privo di concretezza e specificità, di commettere all’estero fatti delittuosi, poi lì
integralmente realizzati, sotto il profilo soggettivo
e oggettivo (fattispecie in tema di mandato di arresto europeo). * Cass. pen., sez. VI, 10 gennaio
2008, n. 1180 (c.c. 7 gennaio 2008), Lichtemberger, in Riv. pen. 2008, 502. Conformi: Cass. pen.,
sez. VI, 29 ottobre 2008, n. 40287 (c.c. 28 ottobre
2008), Erikci; Cass. pen., sez. IV, 22 aprile 2009, n.
17026 (ud. 17 dicembre 2008), Vigi. [RV238228]
l In tema di stupefacenti, nel caso in cui il «corriere» della droga proveniente da uno Stato estero,
sia sbarcato in un aeroporto italiano al solo fine di
transitarvi verso una ulteriore destinazione estera,
il delitto di importazione di sostanze stupefacenti
deve ritenersi comunque consumato in Italia con
conseguente attribuzione della giurisdizione al
giudice italiano, individuato, sotto il profilo della
competenza territoriale, in quello del luogo d’ingresso della droga entro il confine di Stato. * Cass.
pen., sez. IV, 6 settembre 2007, n. 34116 (ud. 13
giugno 2007), Vilardell Bonadona. [RV236943]
l In base al dettato dell’art. 6 c.p., il reato si
considera commesso nel territorio dello Stato
quando l’azione od omissione che lo costituisce
è ivi avvenuta, in tutto od in parte, ovvero si è
verificato nel territorio italiano l’evento che è
conseguenza dell’azione od omissione; pertanto,
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Art. 6
Libro I – Dei reati
la condotta del reato di frode in commercio che
abbia avuto inizio in Italia, con la consegna della
merce da parte dell’imputato al vettore per la spedizione agli acquirenti, in territorio estero, radica
la giurisdizione del giudice italiano. * Cass. pen.,
sez. III, 12 aprile 2005, n. 13151 (ud. 2 febbraio
2005), Vignola. [RV231828]
l Per il principio della territorialità, previsto
dall’art. 6 c.p., è sufficiente che un frammento
dell’iter criminoso si sia verificato in Italia, purché risulti preordinato, con valutazione ex post, al
raggiungimento dell’obiettivo criminoso. Ne consegue che la giurisdizione appartiene all’autorità
giudiziaria italiana, anche se l’omicidio è stato
commesso all’estero allorché l’arma del delitto
e la benzina per bruciare il cadavere siano state
procurate in Italia, in quanto si tratta di condotte
preordinate a raggiungere l’obiettivo criminoso. *
Cass. pen., sez. I, 27 settembre 2004, n. 38019 (ud.
12 maggio 2004), Selvaggi. [RV229734]
l In caso di commissione di un reato su parte
del territorio italiano successivamente ceduto ad
altro Stato in virtù di un trattato di pace, la giurisdizione spetta all’autorità giudiziaria dello Stato cessionario, in quanto la cessione di un territorio sulla
base di un atto legittimo dà luogo — salvo patto
contrario — ad un immediato trasferimento della
sovranità e delle connesse potestà già esercitate sui
luoghi ceduti (in applicazione di tale principio la
Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici
di merito che avevano dichiarato il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana in relazione ad un reato commesso nel 1945 nella città
di Fiume, ceduta dall’Italia alla Repubblica Jugoslava con il trattato di pace del 15 settembre 1947).
* Cass. pen., sez. I, 4 maggio 2004, n. 20925 (ud. 6
febbraio 2004), P.O. in proc. Piskulic. [RV229180]
l Agli effetti della legge penale non può considerarsi commesso, neanche in parte, nel territorio
dello Stato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale di cittadini extracomunitari previsto dall’art. 12, primo e terzo comma, del D.L.vo
n. 286 del 1998, così come modificato dall’art. 11
della L. n. 189 del 2002, allorché, essendosi la
condotta concretata nel trasporto clandestino
degli stranieri a mezzo di un autocarro traghettato su nave non battente bandiera italiana, la
scopera del “carico umano” sia avvenuta in acque
internazionali, in quanto in tale eventualità le
persone trasportate, dal momento della scoperta,
cessano di trovarsi nella disponibilità di fatto del
trasportatore. (Nella specie, la Corte ha ritenuto
che l’occultamento degli stranieri operato dal trasportatore sotto copertura di un apparente carico
di merce era stato commesso per intero all’estero
e che il risultato finale voluto, e cioè quello dell’introduzione dei clandestini in territorio italiano,
non era ricollegabile allo stratagemma a tal fine
escogitato dall’autore del fatto, bensì all’autonoma decisione del comandante della nave di
adottare, in relazione al luogo e al momento del-
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l’accertamento, le misure impostegli dal dovere di
condurla a destinazione per apprestare efficace
soccorso a persone che, per le disumane condizioni di trasporto, versavano in concreto pericolo
di danni all’integrità fisica). * Cass. pen., sez. I, 11
febbraio 2004, n. 5583 (ud. 28 ottobre 2003), P.G.
in proc. Efstathiadis. [RV226953]
l In considerazione della natura istantanea del
reato di ricettazione, il quale si consuma nel momento in cui l’agente ottiene il possesso della cosa,
nessun rilievo può essere attribuito, a fini della
perseguibilità in Italia, al luogo in cui viene accertata la detenzione della res (in applicazione di tale
principio, la Corte ha ritenuto commesso all’estero
il delitto di ricettazione di un bene consegnato al
ricettatore, cittadino italiano, in territorio estero,
annullando senza rinvio la sentenza impugnata, difettando nella specie la condizione di procedibilità
della richiesta del Ministero della giustizia prevista
dall’art. 9 c.p.). * Cass. pen., sez. II, 5 maggio 2003,
n. 20198 (ud. 14 aprile 2003), Torlo. [RV225725]
l Il bene giuridico protetto dall’art. 9 della
legge n. 497 del 1974 è la sicurezza interna dello Stato e la salvaguardia dell’ordine pubblico
interno. Ne consegue che i reati in materia di
armi previsti da tale norma sono rigorosamente
soggetti al principio di territorialità della legge
penale, potendo quindi essere commessi soltanto
da chi abbia posto in essere almeno in parte la
condotta vietata o abbia realizzato l’evento nel
territorio italiano, nei termini specificati dal secondo comma dell’art. 6 c.p. (Nell’applicare tale
principio con riferimento al trasferimento di armi
da guerra da paesi dell’Est Europa alla Liberia
in violazione di risoluzioni dell’Onu, la Corte ha
tra l’altro escluso nel caso di specie l’applicabilità dell’art. 25 della legge 9 luglio 1990 n. 185,
in quanto non estensibile a situazioni realizzate
integralmente all’estero da chi, non iscritto nell’apposito registro, abbia effettuato esportazioni
senza alcun transito nel territorio italiano e senza
che in Italia siano state compiute attività finalizzate al movimento delle armi «estero su estero»).
* Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2002, n. 38401
(c.c. 17 settembre 2002), Minin. [RV222925]
l La preparazione, in territorio italiano, di
un prodotto destinato al mercato estero avente
caratteristiche diverse da quelle dichiarate è
qualificabile come tentativo punibile di frode
nell’esercizio del commercio (artt. 56 e 515 c.p.)
ed è perseguibile, per il principio di territorialità
di cui all’art. 6 c.p., davanti al giudice italiano
(nella specie, trattatasi di condotta costituita
dall’imbottigliamento, in uno stabilimento sito
in territorio italiano, di olio destinato al mercato
britannico, descritto nelle etichette già applicate
sulle bottiglie come proveniente esclusivamente
dalla spremitura di olive di produzione italiana,
mentre una parte di esso era in realtà ricavato
dalla spremitura di olive di diversa provenienza).
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Titolo I – Legge penale
* Cass. pen., sez. III, 6 maggio 2002, n. 16386 (ud.
14 marzo 2002), Del Papa G. [RV221714]
l Deve ritenersi commesso in Italia, ai sensi
dell’art. 6 c.p., il reato di associazione per delinquere (nella specie, di tipo mafioso), e sussiste,
quindi, la giurisdizione del giudice penale italiano,
nell’ipotesi in cui gli associati acquistino in uno
Stato straniero (nel quale l’importazione di tabacchi non sia soggetta ad alcuna imposta) tabacchi
lavorati esteri prodotti in altro Stato straniero
al fine di introdurli, per la vendita, nel territorio
italiano, in violazione di norme doganali, se, in
tale territorio, siano predisposte strutture stabili
per lo scarico, il controllo e lo «stoccaggio» delle
merci illecitamente introdotte e sia organizzata
una rete di corrieri che trasportino in territorio
estero a scopo di riciclaggio la valuta ricavata
dalla vendita in Italia. (Nella specie, concernente
un procedimento incidentale de libertate, la Corte
Suprema ha confermato il provvedimento dei giudici di merito che, allo stato delle indagini, avevano ritenuto che il reato associativo fosse stato
commesso in territorio italiano, essendo emerso
che l’associazione acquistava in Montenegro tabacchi lavorati prodotti in Svizzera e li importava
in Italia, trasportandoli con motoscafi attraverso
il canale d’Otranto e sbarcandoli sul litorale pugliese). * Cass. pen., sez. VI, 1 agosto 2000, n. 2329
(c.c. 16 maggio 2000), Bossert F. [RV217564]
l Deve ritenersi sussistente la giurisdizione del
giudice italiano nei confronti del cittadino straniero che, pur senza essere mai stato in Italia, abbia
collaborato, nella consapevolezza che si dava esecuzione ad un reato delibeato sul territorio della
Repubblica, con un cittadino italiano per l’acquisto di sostanze stupefacenti all’estero in vista della
importazione in Italia, atteso che una porzione del
fatto giuridicamente ascrivibile allo straniero si è,
in tal caso, svolta nello Stato, con conseguente
applicabilità dell’art. 6 c.p., potendosi qualificare
il comportamento della persona che abbia svolto
l’indicata attività all’estero quale concorso nell’esecuzione di un delitto plurisoggettivo, in cui le
singole azioni perdono la loro individuabilità e di
esse ciascun agente risponde per l’intero. * Cass.
pen., sez. VI, 2 giugno 2000, n. 6605 (ud. 11 maggio 2000), Valianos K. [RV217554]
l In relazione a reati commessi in parte anche
all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente, a norma dell’art. 6 c.p., che
nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento o
sia stata compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con
la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva
dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività
criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in
Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione da parte di uno qualsiasi dei
concorrenti, a nulla rilevando che tale attività parziale non rivesta in sè carattere di illiceità, dovendo
essa essere intesa come frammento di un unico
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Art. 6
iter delittuoso da considerarsi come inscindibile;
la circostanza che l’autore (o gli autori) del reato
siano già stati giudicati all’estero per lo stesso fatto
non è di ostacolo alla rinnovazione del giudizio in
Italia, atteso che nel nostro ordinamento, salvo
diversi accordi a livello internazionale, non vige il
principio del ne bis in idem internazionale. (Nella
specie, la Suprema Corte ha ritenuto possibile la
rinnovazione del giudizio in Italia a carico di persone già giudicate in Germania, non essendo intervenuti, tra l’Italia e la Germania, accordi bilaterali di
ratifica né in relazione alla Convenzione Europea
sulla validità internazionale di giudizi repressivi,
resa esecutiva in Italia con legge n. 305 del 1977,
né in relazione alla Convenzione di Bruxelles resa
esecutiva in Italia con legge n. 350 del 1989). * Cass.
pen., sez. VI, 6 aprile 2000, n. 4284 (ud. 16 dicembre 1999), Pipicella ed altri. Conforme, quanto al
principio, Cass. pen., sez. VI, 19 marzo 2009, n.
12142 (ud. 11 febbraio 2009), P.G. in proc. Porcacchia e altri. [RV216833]
l In tema di abusiva organizzazione di scommesse su competizioni sportive svolgentisi in Stati esteri, il principio di ubiquità accolto dall’art. 6
c.p. comporta che quando nel territorio italiano si
effettui anche solo una parte della organizzazione
di pubbliche scommesse, come ad es. la raccolta
delle puntate, trovano applicazione le disposizioni dell’art. 88 T.U.L.P.S. e della legge 13 dicembre
1989, n. 401, e pertanto l’esercizio senza licenza
è punito ai sensi dell’art. 4 lett. c) L. cit., sebbene
il resto dell’organizzazione faccia capo a società
straniere e i giuochi e le competizioni oggetto delle scommesse si svolgano all’estero. * Cass. pen.,
sez. III, 13 gennaio 2000, n. 124 (c.c. 13 gennaio
2000), Foglia P. Conforme, Cass. pen., sez. III, 29
luglio 1999, n. 1963, Barbati. [RV216223]
l In tema di territorialità della giurisdizione
penale, a norma dell’art. 6, comma secondo,
c.p., deve ritenersi commesso nel territorio dello
Stato il delitto di favoreggiamento concretatosi
nella consegna in territorio estero a un latitante
di documenti falsificati, trattandosi di attività
parzialmente maturatasi in Italia, da dove l’agente era partito per raggiungere il latitante, dopo
avere concordato con quest’ultimo le modalità
della consegna attraverso contatti telefonici. *
Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2000, n. 225 (ud.
15 novembre 1999), Moceri. [RV216402]
l In virtù del principio di territorialità della
legge penale di cui al secondo comma dell’art. 6
c.p., il reato si considera commesso nel territorio
dello Stato anche quando l’azione o l’omissione,
che ne costituisce la condotta, si è ivi realizzata
soltanto in parte, dovendosi tale termine intendersi in senso naturalistico, come un momento
dell’iter criminoso che, considerato unitariamente
ai successivi atti compiuti all’estero, viene a integrare un’ipotesi di delitto tentato o consumato.
Pertanto, con riferimento al reato di associazione
per delinquere di tipo mafioso, l’adesione al soda-
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Art. 6
Libro I – Dei reati
lizio criminoso che si è formato e ha operato in
Italia, integra partecipazione a un reato commesso nel territorio dello Stato anche se l’aderente
materialmente rimanga sempre all’estero, ove la
sua condotta di partecipazione all’associazione si
sia svolta per intero, con l’apporto di contributi
apprezzabili alla organizzazione. * Cass. pen.,
sez. VI, 8 marzo 1999, n. 3089 (ud. 21 maggio
1998), Caruana G. e altri. [RV213572]
l Per l’applicabilità del principio di territorialità, di cui all’art. 6 c.p., è sufficiente che in Italia
sia avvenuta una parte dell’azione anche piccola,
purché preordinata — secondo una valutazione ex
post — al raggiungimento dell’obiettivo delittuoso.
Ne consegue che, in tema di traffico internazionale di stupefacenti, se l’accordo tra i coimputati e
la predisposizione dei mezzi occorrenti all’importazione e all’occultamento della droga, realizzati
in Italia, appaiono preordinati all’acquisto e alla
detenzione della stessa, poi effettivamente consumati all’estero, il reato deve ritenersi commesso in
Italia. * Cass. pen., sez. IV, 23 luglio 1997, n. 7204
(ud. 22 maggio 1997), Franzoni. [RV208534]
l A norma dell’art. 6 c.p., che è diretto ad
affermare il principio di territorialità del diritto
penale ed a privilegiare la giurisdizione italiana, è
sufficiente, perché il reato si consideri commesso
nel territorio dello Stato, che quivi si sia verificato
anche solo un frammento della condotta, intesa
in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto
dell’iter criminis. In conseguenza non è necessaria
la richiesta del Ministro di grazia e giustizia per
il delitto di tentata importazione di droga, sequestrata all’estero, ma diretta in Italia, qualora nel
territorio italiano siano avvenuti atti preliminari
e strumentali, quali la domanda di spedizione o il
consenso, in qualsiasi forma espresso, all’inoltro
o alla ricezione della droga, atti che incidono, in
modo rilevante, sull’elemento psicologico del reato.
* Cass. pen., sez. V, 5 febbraio 1997, n. 873 (ud. 14
ottobre 1996), P.M. Colecchia ed altri. [RV206903]
l La regola posta al comma 2 dell’art. 6 c.p.,
secondo la quale, in applicazione del principio
della territorialità della legge penale, il reato si
considera commesso nel territorio dello Stato
quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è
ivi avvenuta in tutto o in parte, va intesa nel senso
che il reato si considera commesso in Italia anche
quando sia stato posto in essere anche uno solo
degli atti del processo criminoso essenziali per la
configurabilità del reato medesimo; nel novero di
tali atti, considerato sotto l’aspetto naturalistico,
vale a dire come frammenti di un’azione più ampia
preordinata al raggiungimento di un determinato
obiettivo, rientra pertanto il conferimento di un
mandato ad uccidere, accettato dal mandatario,
direttamente o per interposta persona, in quanto
costituente il momento iniziale della condotta
produttiva dell’evento dannoso. * Cass. pen., sez.
I, 11 marzo 1996, n. 2640 (ud. 7 dicembre 1995),
D’Agostino ed altri. [RV204359]
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l A norma dell’art. 6 c.p. sono punibili secondo la legge italiana, come fossero commessi
per intero in Italia, anche i reati la cui condotta
è avvenuta solo in parte nel territorio dello Stato
o ivi si è verificato l’evento. Ne risulta che anche i
reati commessi in parte all’estero, al pari di quelli
realizzatisi soltanto nel territorio nazionale, assumono rilevanza penale per l’ordinamento italiano
nella loro globalità, ivi compresa la parte della
condotta realizzata all’estero e, pertanto, debbono essere valutati e puniti dai giudici italiani nella
loro interezza, avendo riguardo pure alle modalità
e alla gravità della parte dell’azione verificatasi al
di fuori dello Stato. Ne consegue che deve tenersi
conto di questa parte della condotta anche ai fini
dell’individuazione dell’inizio della permanenza,
non essendo consentito considerare isolatamente
la frazione della condotta realizzatasi in Italia.
(Nella specie, per un reato permanente la cui
consumazione era iniziata all’estero la Corte ha
escluso l’operatività, quale criterio di riparto fra
i giudici italiani, dell’art. 8, terzo comma, c.p.p.,
dovendosi in tal caso la competenza determinare
secondo il criterio suppletivo di cui all’art. 9 primo
comma c.p.p., con riferimento all’ultimo luogo in
cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione). * Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio 1994, n.
1972 (ud. 17 dicembre 1993), Murdocca.
l In tema di competenza per territorio in ordine a reati permanenti commessi in parte all’estero,
si applica il criterio dettato dall’art. 8, terzo comma, c.p.p. quando la condotta criminosa ha avuto
inizio in una individuata località nel territorio nazionale, proseguendo poi all’estero. Invece, il luogo
d’inizio della permanenza non può fungere quale
criterio di riparto fra i giudici italiani se è ubicato
al di fuori dello Stato. In tal caso, la competenza
si stabilisce secondo il criterio suppletivo di cui all’art. 9 primo comma c.p.p., con riferimento all’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione
o dell’omissione. * Cass. pen., sez. VI, 17 febbraio
1994, n. 1972 (ud. 17 dicembre 1993), Murdocca.
l È sufficiente, perché il reato si consideri
commesso nel territorio dello Stato, che ivi si sia
verificato anche solo un frammento dell’iter criminoso e costituiscono parte dell’azione tutti i movimenti che, attuando una modificazione del mondo
esteriore, possono contribuire alla consumazione
del reato. (Nella fattispecie, trattavasi di imputato
giudicato all’estero dopo essere stato arrestato dalla polizia francese perché sorpreso a trasportare,
diretto in Italia, droga nascosta in un doppio fondo
ricavato nel serbatoio di benzina dell’auto su cui
viaggiava. I giudici, rilevato che il reato era iniziato
in Italia quando era stato deciso il disegno criminoso, progettata ed organizzata l’operazione, preparati i serbatoi di benzina dell’auto, hanno escluso che fosse necessaria la richiesta del Ministero di
grazia e giustizia per giudicare nuovamente nello
Stato l’imputato). * Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio
1993, n. 1544 (ud. 9 dicembre 1992), Romanelli.
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Titolo I – Legge penale
b) Reato concorsuale.
l In relazione a reati commessi in parte anche
all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, è sufficiente che nel territorio dello
Stato si sia verificato l’evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza
che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato
a tutti i compartecipi e a tutta l’attività criminosa,
ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia
stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti, a nulla rilevando che tale attività parziale
non rivesta in sé carattere di illiceità, dovendo
essa essere intesa come frammento di un unico
iter delittuoso da considerarsi come inscindibile.
Ne consegue che anche per il cittadino straniero il
quale, pur essendo stato sempre all’estero, abbia
collaborato con un cittadino italiano per l’importazione in Italia di sostanza stupefacente, nella
consapevolezza che si dava esecuzione a un reato
quivi deliberato, il reato stesso deve considerarsi
commesso nel territorio dello Stato. * Cass. pen.,
sez. VI, 16 luglio 2003, n. 29702 (ud. 10 aprile
2003), Dattilo ed altri. Conforme, Cass. pen., sez.
V, 20 ottobre 2008, n. 39205 (ud. 9 luglio 2008), Di
Pasquale e altro. [RV225486]
l Ai fini della applicazione del principio di territorialità della legge penale (art. 6 c.p.), per azione
deve intendersi il complesso dei comportamenti
consapevolmente finalizzati al raggiungimento
dello scopo o dell’evento delittuoso, sicché fra essi
rientra, nel caso di accordo fra più persone che
con le loro condotte partecipano concorsualmente
al reato, anche tutto ciò che, pur essendo limitato
all’elemento psicologico (il quale rientra tra quelli
essenziali del reato), può essere ricondotto al determinismo volitivo coagulante o influente sulle
condotte dei correi. Ne consegue che un’azione
delittuosa ispirata o rafforzata nella volontà ovvero ordinata da concorrenti morali in Italia, deve
essere considerata penalmente quivi realizzata
ancorché l’esecuzione materiale, l’evento o l’omissione che costituisce il reato siano posti in essere
all’estero da taluno dei concorrenti materiali. E ciò
anche se i contatti organizzativi si siano verificati
solo fra alcuni dei correi e non fra tutti, in quanto il
reato è effetto del contributo di ciascun correo e di
tutti insieme, attesa la comune finalizzazione partecipativa. * Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1994, n.
5617 (ud. 15 febbraio 1994), Di Matteo.
l In tema di reati associativi, per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana
occorre verificare soprattutto il luogo dove si è
realizzata, in tutto o in parte, la operatività della struttura organizzativa, mentre va attribuita
importanza secondaria al luogo in cui sono stati
realizzati i singoli delitti commessi in attuazione
del programma criminoso, a meno che questi,
per il numero e la consistenza, rivelino il luogo
di operatività del disegno. Da ciò consegue che
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Art. 7
la partecipazione di un soggetto ad un sodalizio
criminoso che ha diramazioni e centri operativi
in varie parti del mondo acquista rilevanza ai
fini della giurisdizione se uno o più dei centri
sia operante in Italia perché in caso positivo il
reato dovrà ritenersi interamente punibile secondo la legge italiana e ad opera dell’autorità
giudiziaria dello Stato. Il tutto secondo quanto
si desume dall’art. 6 c.p., una norma che interpreta e definisce l’interesse dello Stato a punire
coloro che, in qualche modo, abbiano posto in essere un’attività illecita che abbia violato le norme
penali, attribuendo così valenza espansiva ad una
frazione di attività commessa nel territorio dello
Stato anche da taluno che partecipi al sodalizio,
in modo che l’applicazione della norma penale si
estenda a tutti i compartecipi ed a tutta l’attività
criminosa dovunque realizzata. * Cass. pen., sez.
VI, 31 luglio 1993, n. 7478 (ud. 9 dicembre 1992),
Carnana. Conforme, Cass. pen., sez. VI, 25 marzo
1998, n. 4378, Cao Len Hout.
l Nell’ipotesi di concorso di più persone
nel reato, alcune delle quali abbiano realizzato
una parte della condotta in Italia ed una parte
all’estero, oppure totalmente all’estero alcune e
totalmente in Italia altre, coloro che attuarono
una collaborazione nella esecuzione del fatto in
territorio estero risponderanno del reato come
se commesso in Italia, perché la loro condotta è
considerata come un aspetto o come una frazione
di un tutto che ha trovato la sua attuazione anche nel territorio dello Stato e, ai sensi dell’art. 6
c.p., suscita l’interesse punitivo dello Stato e ne
determina l’intervento e la persecuzione in sede
penale. * Cass. pen., sez. VI, 31 luglio 1993, n.
7478 (ud. 9 dicembre 1992), Carnana.
c) Reati commessi via Internet.
l Il giudice italiano è competente a conoscere
della diffamazione compiuta mediante l’inserimento nella rete telematica (Internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso
in cui il sito web sia stato registrato all’estero e
purché l’offesa sia stata percepita da più fruitori
che si trovino in Italia; invero, in quanto reato di
evento, la diffamazione si consuma nel momento
e nel luogo in cui i terzi percepiscono la espressione ingiuriosa. * Cass. pen., sez. V, 27 dicembre
2000, n. 4741 (c.c. 17 novembre 2000), P.M. in
proc. ignoti. [RV217745]
7. Reati commessi all’estero. – È punito secondo la
legge italiana (112) il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati (10
c.p.p.):
1) delitti contro la personalità dello Stato italiano
(1) (241 ss.);
2) delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di
uso di tale sigillo contraffatto (467);
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Art. 8
Libro I – Dei reati
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel
territorio dello Stato, o in valori di bollo o in carte di
pubblico credito italiano (453 ss.);
4) delitti commessi da pubblici ufficiali (357) a
servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i
doveri inerenti alle loro funzioni (61, n. 9, 314 ss.);
5) ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge (2) (269, 5014, 537, 5912, 604, 6424; 17, 18
c.p.m.p.; 1080 c.n.) o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana (3).
(1) La parola: «italiano» è stata aggiunta dall’art. 1, comma
2, del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, convertito, con modificazioni,
nella L. 15 dicembre 2001, n. 438.
(2) Si veda anche l’art. 48 della L. 24 gennaio 1979, n. 18, recante disposizioni in tema di elezione dei rappresentanti dell’Italia
al Parlamento europeo, il quale stabilisce che per i reati, previsti
dalla suindicata legge, commessi dal cittadino o dallo straniero in
territorio estero, si applichi la legge italiana.
(3) Si veda l’art. 22, primo comma, della L. 27 maggio 1929,
n. 810 che ha reso esecutivo il trattato fra la Santa Sede e l’Italia
stipulato l’11 febbraio 1929, il quale stabilisce che a richiesta della
Santa Sede, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione
dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo
quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel territorio italiano,
nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle
leggi italiane.
l  È perseguibile secondo la legge italiana,
ai sensi dell’art. 7, n. 4 c.p. l’appuntato dei carabinieri, in servizio presso una sede diplomatica
italiana all’estero, che si attivi, dietro compenso,
per procurare visti d’ingresso illegale in Italia a
cittadini extracomunitari. * Cass. pen., sez. VI,
25 novembre 2008, n. 43848 (c.c. 24 settembre
2008), P.M. in proc. Di Nuzzo. [RV242230]
l Il reato commesso all’estero non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per
il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai
sensi degli artt. da 7 a 10 del c.p., comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa
la giurisdizione dello Stato italiano. * Cass. pen.,
sez. VI, 25 luglio 2006, n. 25889 (ud. 23 giugno
2006), Manzato. [RV234843]
l Ai fini della perseguibilità secondo la legge
italiana dei reati commessi in territorio estero da
parte di pubblici ufficiali a servizio dello Stato,
con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla loro funzione, non è necessario
un rapporto stabile di servizio con la pubblica
Amministrazione, ben potendo rientrare nella
previsione normativa anche lo svolgimento di
compiti temporanei e/o di una missione occasionale. (Principio affermato con riferimento a
concussione commessa all’estero da contrattiste
dell’Amministrazione degli affari esteri). * Cass.
pen., sez. VI, 5 maggio 2004, n. 21088 (ud. 10 febbraio 2004), Micheletti ed altro. [RV228872]
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l Ai fini della perseguibilità secondo la legge
italiana dei reati commessi in territorio estero da
parte di pubblici ufficiali a servizio dello Stato,
abusando dei poteri o violando i doveri inerenti
alla loro funzione, secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 4, c.p. non è necessario un rapporto stabile di servizio con l’amministrazione,
ben potendo rientrare nella previsione normativa
anche lo svolgimento di una missione occasionale.
(Fattispecie relativa a missione di aiuti in Albania).
* Cass. pen., sez. VI, 29 novembre 2000, n. 4089
(c.c. 6 novembre 2000), Tenaglia L. [RV217909]
l In tema di reati commessi all’estero e di
rinnovamento del giudizio (artt. 7 e seguenti,
11 c.p.), la qualificazione delle fattispecie penali
deve avvenire esclusivamente alla stregua della
legge penale italiana, a nulla rilevando che l’ordinamento dello Stato nel cui territorio il fatto è
stato commesso non preveda una persecuzione
penale dello stesso fatto. Le norme in questione
prevedono, infatti, limitatamente ai casi da esse
contemplati e in presenza di alcune condizioni,
la perseguibilità dei fatti penalmente rilevanti
«secondo la legge italiana» al di là dei limiti territoriali, senza richiedere che tali fatti siano penalmente perseguiti anche nel territorio dello Stato
in cui sono stati commessi. (Nella specie, relativa
a rigetto di ricorso, premesso che il principio della
doppia incriminazione, invocato dal ricorrente è
sancito dalla legge penale esclusivamente in tema
di estradizione, è stato ritenuto del tutto indifferente che l’evasione e il porto e detenzione illegale
di armi siano o non siano perseguiti penalmente
nell’ordinamento della Confederazione elvetica).
* Cass. pen., sez. II, 16 marzo 1992, n. 2860 (ud. 6
dicembre 1991), Buquicchio.
8. Delitto politico commesso all’estero. – Il cittadino o lo straniero (3, 4), che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati
nel n. 1 dell’articolo precedente, è punito secondo la
legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia
(112, 128, 129; 10, 342 c.p.p.).
Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la querela
(120-127; 336 ss. c.p.p.).
Agli effetti della legge penale, è delitto politico
ogni delitto, che offende un interesse politico dello
Stato, ovvero un diritto politico del cittadino (48-54
Cost.). È altresì considerato delitto politico il delitto
comune determinato, in tutto o in parte, da motivi
politici (241 ss.).
l In tema di estradizione per l’estero, ai fini
dell’individuazione dell’ambito di operatività del
divieto di estradizione di cui agli artt. 10, comma
quarto, e 26, comma secondo Cost., il reato va
considerato politico anche quando, indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta
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Titolo I – Legge penale
illecita, vi sia fondata ragione di ritenere che,
proprio per la “politicità” della condotta illecita,
l’estradando possa essere sottoposto nello stato
straniero richiedente ad un processo non equo o
all’esecuzione di una pena discriminatoria ovvero
ispirata da iniziative persecutorie per ragioni
politiche che ledono diritti fondamentali dell’individuo quali il diritto al rispetto del principio di
uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il
divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso il divieto di estradizione con riferimento a condanna pronunciata all’esito di processo celebrato
nel rispetto dei diritti fondamentali per reati in
materia di armi asseritamente commessi al fine di
tutelarsi contro iniziative di appartenenti ad altri
gruppi etnici all’interno di uno Stato democratico). * Cass. pen., sez. VI, 31 gennaio 2014, n. 5089
(c.c. 23 gennaio 2014), Suljejmani. [RV258148]
l La qualificazione di un delitto come politico
data dall’art. 8 c.p. va letta alla luce dell’art. 10
cost., secondo il quale l’ordinamento giuridico
italiano si conforma alle norme del diritto internazionale, tra le quali si pone in particolare la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4
novembre 1950, che obbliga gli Stati al rispetto di
alcuni diritti fondamentali nei confronti di ogni
persona sottoposta alla loro giurisdizione. Ne
consegue che vanno definiti come politici i delitti
di oggettiva gravità, commessi in danno di cittadini italiani residenti in Argentina, in esecuzione
di un preciso piano criminoso diretto all’eliminazione fisica degli oppositori al regime senza il
rispetto di alcuna garanzia processuale e al solo
scopo di contrastare idee e tendenze politiche
delle vittime, iscritte a sindacati, o partiti politico o ad associazioni universitarie, in quanto tali
delitti non solo offendono un interesse politico
dello Stato italiano, che ha il diritto ed il dovere
di intervenire per tutelare i propri cittadini, ma
anche i diritti fondamentali delle stesse vittime. *
Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2004, n. 23181 (ud.
28 aprile 2004), Suarez. [RV228663]
l Un reato comune è soggettivamente politico, ai sensi dell’art. 8, comma terzo, c.p., allorchè
sia qualificato da un movente di natura politica,
nel senso che l’agente sia stato determinato, in
tutto o in parte, a delinquere al fine di incidere
sull’esistenza, costituzione e funzionamento dello
Stato ovvero favorire o contrastare idee o tendenze politiche proprie dello Stato, o anche offendere
un diritto politico del cittadino, sì che non è sufficiente ad escludere la natura politica del delitto
comune la circostanza che esso sia stato commesso per motivi in parte o non prevalentemente
politici. (In applicazione di tale principio la Corte
ha disposto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza del Tribunale di Roma, costituito ex art.
309 c.p.p., rilevando che l’omicidio in territorio
afgano della giornalista italiana Maria Grazia Cu-
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Art. 8
tuli, e degli altri che si trovavano con lei, era stato
commesso non solo a scopo di rapina, ma anche
per dimostrare all’opinione pubblica mondiale
che la coalizione militare straniera, tra la quale
l’Italia, che in vario modo si opponeva al regime
dei talebani, non aveva acquisito il controllo del
paese). * Cass. pen., sez. I, 8 aprile 2004, n. 16808
(c.c. 23 marzo 2004), P.M. in proc. Mohmmad ed
altro. [RV228826]
l Un reato comune è soggettivamente politico, ai sensi dell’art. 8, comma 3, c.p., allorché sia
qualificato da un movente strettamente politico, il
che si verifica quando il colpevole abbia agito per
conseguire fini e scopi che investano la collettività
sociale e incidano sull’esistenza, costituzione e
funzionamento dello Stato o siano diretti a contrastare o consolidare idee e tendenze politiche e
sociali, mentre non è sufficiente che il reato abbia
ricadute sull’ordinamento italiano, se tali effetti
non siano direttamente vouti e perseguiti. (In
applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto
che l’eccidio delle Fosse Ardeatine — per cui era
stato condannato un ex ufficiale delle SS — non
ha connotazione politica, in quanto ordinato
al fine di mantenere e rafforzare la supremazia
militare dell’esercito tedesco sulle organizzazioni
partigiane e sui resti dell’esercito italiano, così
determinando un esito della guerra in atto (dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943) favorevole alla
Germania, costituendo le ricadute della strage
sulla costituzione e sul funzionamento dello Stato italiano un semplice effetto collaterale). * Cass.
pen., sez. I, 12 settembre 2003, n. 35488 (c.c. 27
giugno 2003), Priebke. [RV226389]
l La perseguibilità dei reati contro le leggi e
gli usi della guerra commessi all’estero è prevista
negli articoli 13 e 231 c.p.m., secondo cui per tali
reati, ove commessi in danno dello Stato italiano o
di un cittadino italiano o di uno Stato alleato o di
un cittadino di questo, non esistono limiti territoriali e le relative norme si applicano anche ai militari stranieri. Ne consegue che al delitto di cui agli
artt. 13 e 185 commi 1 e 2 c.p.m. guerra (concorso
in violenza come omidicio aggravato e continuato
in danno di cittadini italiani) non è applicabile la
previsione dell’art. 8 c.p. e, di conseguenza, tale
delitto non può essere ricondotto alla categoria
dei delitti politici, ex art. 8, comma 3, c.p.. In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto che
non sia applicabile l’indulto, di cui all’art. 2 D.P.R.
n. 922 del 1953 — previsto per i reati politici e
connessi nonché «per i reati inerenti a fatti bellici
commessi da coloro che abbiano appartenuto a
formazioni armate» (e non agli appartenenti alle
Forze armate, cfr. sent. Corte cost. n. 298 del
2000) — nei confronti di un ex ufficiale delle SS.,
condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine. *
Cass. pen., sez. I, 12 settembre 2003, n. 35488 (c.c.
27 giugno 2003), Priebke. [RV226388]
l In tema di estradizione per l’estero, la nozione di reato politico a fini estradizionali trova
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Art. 9
Libro I – Dei reati
fondamento non nell’art. 8 c.p., nel quale il reato
politico è definito in funzione repressiva, bensì
nelle norme costituzionali, che lo assumono in
una più ampia funzione di garanzia della persona
umana, finalizzata a limitare il diritto punitivo
dello Stato straniero. Per quanto concerne il
cittadino straniero in Italia, la Costituzione non
fornisce una nozione rigida di reato politico, ma
la subordina alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute. Tra tali norme si pongono le convenzioni internazionali sottoscritte e
ratificate dallo Stato italiano, ed in particolare
la Convenzione europea sul terrorismo del 1977,
nella quale, indipendentemente dalle loro finalità,
sono definiti non politici determinati atti delittuosi (in applicazione di tale principio, la Corte ha
ritenuto corretta la decisione del giudice di merito con la quale veniva dichiarata l’estradabilità
in favore della Francia di un cittadino tunisino
con riferimento alla condotta di partecipazione
ad associazione criminale diretta al compimento
di atti terroristici diretti all’eversione dello Stato
francese, con modalità violente comprensive dell’uso di materie espodenti e attentati alla vita e
all’integrità fisica di cittadini ignari). * Cass. pen.,
sez. VI, 23 luglio 2003, n. 31123 (c.c. 19 giugno
2003), Baazaoui. [RV226520]
l Nell’evoluzione della normativa internazionale, approdata — come atto tra i più significativi
— alla Convenzione europea contro il terrorismo,
ratificata dall’Italia con L. 26 novembre 1985, n.
719, emerge l’intento di contemperare non tanto
la nozione in sè di reato politico, quanto la sua
rilevanza a fini estradizionali, con la necessità
di tutelare valori umani universali che possono
risultare gravemente offesi da delitti di ispirazione politica; il che si verifica o quando il delitto
abbia determinato un pericolo collettivo per la
vita, l’integrità fisica e la libertà delle persone
ovvero quando abbia colpito o messo in pericolo
persone estranee ai moventi politici che l’hanno
ispirato, ovvero, ancora, quando è stato realizzato
con mezzi crudeli e con perfidia. Elementi, tutti,
che lo Stato italiano, nel formulare la riserva
all’atto della ratifica riguardo alla convenzione
dell’estradizione per reati politici, si è impegnato
a considerare. Ne deriva che la nozione di reato
politico a fini estradizionali trova la sua definizione nel bilanciamento tra il valore insito nel principio costituzionale del rifiuto di consentire alla
persecuzione dei cittadini e dello straniero per
motivi politici e quello dei valori umani primari
— consacrati nella Carta costituzionale — quando l’aggressione di tali valori abbia quei caratteri
di gravità individuabili alla stregua dei criteri ora
ricordati. * Cass. pen., sez. I, 24 marzo 1992, n.
767 (c.c. 17 febbraio 1992), El Jassem.
9. Delitto comune del cittadino all’estero. – Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il
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quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte (1)
o] l’ergastolo (22), o la reclusione (23) non inferiore nel
minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato (42; 10
c.p.p.).
Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una
pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della
giustizia (128, 129; 342 c.p.p.), ovvero a istanza (130;
341 c.p.p.) o a querela (120-127; 336 ss. c.p.p.) della
persona offesa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti,
qualora si tratti di delitto commesso a danno delle
Comunità europee, di uno Stato estero (2) o di uno
straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro
della giustizia, sempre che l’estradizione (13; 697 ss.
c.p.p.) di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia
stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha
commesso il delitto (112).
(1) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt. 10
agosto 1944, n. 224.
L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che
non è ammessa la pena di morte.
Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di
morte per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle
militari, e l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena
di morte prevista dal codice penale militare di guerra e dalle leggi
militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal
codice penale.
(2) Le parole: «a danno di uno Stato estero», sono state sostituite dalle attuali: «a danno delle Comunità europee, di uno Stato
estero» dall’art. 5 della L. 29 settembre 2000, n. 300.
SOMMARIO:
a) In genere;
b) Richiesta del Ministro di grazia e giustizia;
c) Presenza nel territorio dello Stato.
a) In genere.
l In tema di estradizione per l’estero, la condizione di reciprocità, prevista dall’art. 7 della
Convenzione europea di estradizione del 13 dicembre 1957, nel caso in cui il reato motivante la
domanda d’estradizione sia stato commesso fuori
del territorio della Parte richiedente, consente il rifiuto dell’estradizione se la legislazione della Parte
richiesta non autorizza la «perseguibilità» di un
reato dello stesso genere commesso fuori del suo
territorio. Ne consegue che, facendo riferimento
la norma alla sola punibilità, non rilevano le condizioni previste dal codice penale per la procedibilità dei reati commessi all’estero (in applicazione
di tale principio la Corte ha ritenuto corretta la
decisione della Corte d’appello che aveva ritenuto
sussistenti le condizioni per l’accoglimento della
domanda di estradizione avanzata dalla Repubblica di Germania per il reato di importazione di stupefacente commesso in Ecuador ed Olanda, non
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Titolo I – Legge penale
ritenendo rilevante che per tale reato in Italia l’art.
9 c.p. richiede, come condizione di reciprocità, la
presenza del reo nel territorio). * Cass. pen., sez.
VI, 14 maggio 2003, n. 21251 (c.c. 1 aprile 2003),
Schumann. [RV226042]
l Sono utilizzabili ai fini della decisione, perché non in contrasto con i principi fondamentali
e inderogabili dell’ordinamento giuridico italiano, ed in particolare con le garanzie costituzionali del diritto di difesa e del contraddittorio, le
prove dichiarative assunte all’estero nella fase dibattimentale mediante rogatoria internazionale,
con l’assistenza e la rappresentanza defensionale,
ma senza la presenza dell’imputato, detenuto in
Italia, la cui istanza di trasferimento temporaneo,
pur regolarmente inoltrata dallo Stato richiedente, sia stata respinta dallo Stato richiesto in base
alla normativa pattizia. (Nella specie la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia
penale firmata il 20 aprile 1959). * Cass. pen., sez.
I, 28 aprile 2003, n. 19678 (ud. 3 marzo 2003),
Figini, in Riv. pen. 2003, 848. [RV225744]
l L’iscrizione nei registri dello stato civile, quale cittadino italiano, in forza dell’art. 5
comma primo legge 21 aprile 1983 n. 123, ha
efficacia meramente dichiarativa: dell’essersi cioè
realizzata la fattispecie complessa, prevista dalla legge per l’acquisto, in forza di essa soltanto,
della cittadinanza. Ove in sede penale si accerti
che taluno si sia falsamente attribuita la qualità
di figlio di madre o di padre italiano, ben può il
giudice penale rilevarlo — per negare a costui la
cittadinanza italiana, così fraudolentemente e
solo apparentemente conseguita — nell’esercizio
del potere-dovere posto dall’art. 2 comma primo
c.p.p., il quale fissa la regola dell’autonoma cognizione del giudice penale per quanto concerne
le questioni strumentali rispetto alla decisione finale, salva l’eventuale sospensione del processo a
norma dell’art. 3 c.p.p. Ne consegue che, accertata la falsa attribuzione della cittadinanza italiana,
per il caso di delitto comune commesso all’estero,
non può farsi applicazione dell’art. 9 bensì, se ne
ricorrono le condizioni, del successivo art. 10 c.p.
* Cass. pen., sez. I, 4 aprile 1995, n. 3624 (ud. 12
gennaio 1995), Shoukry. [RV201931]
l Ai fini della punibilità per reati commessi dal cittadino all’estero, al giudice penale non
è consentito alcun sindacato, neanche in via
incidentale, sulle ragioni di acquisto e di perdita
della cittadinanza che avvengono secondo i casi e
con le modalità prescritte dalla legge speciale in
materia. * Cass. pen., sez. I, 16 gennaio 1991, n.
(c.c. 31 ottobre 1990, n. 3699), Shoukry.
b) Richiesta del Ministro di grazia e giustizia.
l La richiesta di procedimento di cui agli artt.
9, terzo comma, c.p. e 342 c.p.p. — al pari del
rifiuto di dar corso ad una rogatoria dall’estero
o per l’estero e del decreto di estradizione —
seppure connotata da una larga discrezionalità,
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Art. 9
riveste natura giuridica di atto amministrativo,
sottoposto all’obbligo di motivazione e alla gerarchia delle fonti normative e perciò suscettibile di
sindacato da parte del giudice amministrativo per
i tipici vizi di legittimità propri del procedimento
amministrativo. Tale provvedimento infatti non
può essere definito come atto politico, in quanto
non inerisce all’esercizio della direzione suprema
degli affari dello Stato né concerne la formulazione in via generale e al massimo livello dell’indirizzo politico e programmatico del Governo,
conseguendo invece essa ad una scelta vincolata
al perseguimento dei fini determinati di politica
criminale e connotata altresì dal requisito dell’irretrattabilità. Ne consegue che l’esercizio del
potere di firma di tale provvedimento può essere
delegato dal Ministro della giustizia al dirigente
dell’articolazione ministeriale competente in
materia — direttore generale o capo dipartimento
— secondo le specifiche direttive dell’organo di
vertice politico (ad es. quella di informare il Ministro della natura e del contenuto del singolo atto).
* Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2003, n. 19678 (ud. 3
marzo 2003), Figini. [RV225745]
l Qualora, a seguito di richiesta del Ministro
di grazia e giustizia ai sensi dell’art. 9 c.p., si sia
proceduto contro un soggetto per il delitto di cui
all’art. 590 c.p. commesso in territorio estero e vi
sia stata condannata del predetto a pena pecuniaria, è da escludere che sia venuta meno la condizione di punibilità prevista dall’art. 9 citato, rappresentata dall’irrogazione della pena detentiva; in
quanto la pena restrittiva della libertà personale,
dalla legge considerata per rendere perseguibile il
delitto comune commesso dal cittadino all’estero,
è quella astrattamente stabilita dal codice e non
quella in concreto comminata. Pertanto, in caso
di sanzioni alternative, la procedibilità dell’azione
non può essere compromessa dall’avvenuta inflizione della sola pena pecuniaria. * Cass. pen.,
sez. IV, 7 febbraio 1995, n. 1179 (ud. 16 novembre
1994), Boldrini.
l La condizione di procedibilità della richiesta
del Ministro di grazia e giustizia, ex art. 9, secondo comma, c.p., non può ritenersi integrata nel
caso in cui la richiesta non sia stata sottoscritta
personalmente dal ministro bensì da un funzionario del suo dicastero, senza neppure il rilascio di
una specifica delega. Tale soluzione è imposta sia
dal tenore dell’art. 342 c.p.p., che espressamente
richiede la sottoscrizione dell’autorità competente, sia dal carattere di discrezionalità politica
dell’atto, la cui adozione non può, pertanto, che
essere riservata all’organo politicamente responsabile indicato dalla legge o, al più, delegata ad
altro soggetto politico quale un sottosegretario di
Stato. * Cass. pen., sez. I, 23 maggio 1994, n. 1837
(c.c. 22 aprile 1994), Giraldi.
l La condizione di procedibilità prevista
dall’art. 9 c.p. (delitto comune del cittadino all’estero) si realizza con la richiesta del Ministro
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Art. 10
Libro I – Dei reati
di grazia e giustizia: quest’ultimo, però, è preso in
considerazione non già come persona, ma quale
organo politico rappresentante del governo nella
specifica materia. Sicché, non trattandosi di reati
di natura politica o comunque aventi riferimento
alla suprema direzione della cosa pubblica, la richiesta può essere effettuata, su delega, da altro
organo della stessa amministrazione della giustizia. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso,
era stata dedotta la violazione dell’art. 9 c.p. per
esser stata la richiesta avanzata dal direttore generale degli affari penali del Ministero e non già
dal Ministro di grazia e giustizia). * Cass. pen.,
sez. III, 27 maggio 1993, n. 5364 (ud. 15 aprile
1993), Albante. Conforme, Cass. pen., sez. II, 8
aprile 1999, n. 1117, D’Ambrosio.
c) Presenza nel territorio dello Stato.
l  Ai fini della punibilità dei delitti comuni
commessi dal cittadino in territorio estero, il
requisito della presenza sul territorio dello Stato
deve necessariamente sussistere al momento
dell’esercizio dell’azione penale, a nulla rilevando
che venga meno in un momento successivo. *
Cass. pen., sez. II, 10 giugno 2008, n. 23304 (ud.
19 marzo 2008), Dumas e altro. [RV242047]
l La condizione di procedibilità prevista
dall’art. 9, comma terzo, c.p. è realizzata quando l’Autorità giudiziaria estera, non avvalendosi
della facoltà di chiedere l’estradizione, trasmetta
all’autorità giudiziaria italiana tutti gli atti di
indagine compiuti e chieda di dare seguito alla
procedura penale in Italia. * Cass. pen., sez. I, 27
settembre 2004, n. 38019 (ud. 12 maggio 2004),
Selvaggi. [RV229735]
l La condizione della presenza nel territorio
dello Stato posta, ai fini della punibilità dei delitti
comuni del cittadino all’estero, dal primo comma
dell’art. 9 del codice penale, è, a maggior ragione richiesta anche per i delitti previsti dal secondo comma che rispetto a quelli previsti dal primo comma
sono di minor gravità, con la conseguenza che il
termine per la richiesta di procedimento è quello
di tre anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel
territorio dello Stato e non già quello di tre mesi
dal giorno in cui l’autorità ha avuto notizia del fatto
che costituisce reato. * Cass. pen., sez. IV, 25 ottobre 1991, n. 10743 (ud. 17 aprile 1991), Boccardo.
l La presenza del cittadino nel territorio dello
Stato, nel caso di delitto comune commesso dal
medesimo cittadino all’estero è condizione di
procedibilità e non di punibilità. La carenza dei
requisiti obiettivi, siano essi sostanziali o processuali (tra questi ultimi, appunto, le condizioni
di procedibilità) atti a legittimare l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, si
traduce in infondatezza dell’azione la quale trova
la sua naturale ed esclusiva sanzione non nella
nullità formale dei singoli atti del procedimento
già compiuti, ma nel rigetto, da parte del giudice
della presenza punitiva che, mediante l’azione, il
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92
pubblico ministero ha inteso far valere, con l’unica
differenza che, ove difettino i requisiti sostanziali,
il rigetto sarà definitivo, mentre ove difettino quelli processuali l’azione penale potrà eventualmente
essere riproposta. * Cass. pen., sez. I, 13 giugno
1991, n. 6698 (ud. 10 maggio 1991), Di Bella.
l La sussistenza o meno della condizione di
procedibilità richiesta dalla legge penale quale
quella della presenza del cittadino nel territorio
dello Stato in caso di delitto comune commesso
all’estero, va valutata non in riferimento al momento in cui viene iniziata l’azione penale, ma
con riferimento al momento della definizione del
giudizio di merito, di primo o anche di secondo
grado. È pertanto necessario e sufficiente che i
presupposti sui quali la condizione si fonda sussistano in quel momento, a nulla rilevando la loro
originaria carenza, una volta che quest’ultima
non sia stata rilevata all’atto della definizione giurisdizionale di alcune delle fasi processuali, tanto
da consentire la prosecuzione del procedimento.
(Fattispecie di ritenuta illegittimità della declaratoria di improcedibilità originaria dell’azione
penale, pronunciata dal giudice d’appello, pur
apparendo dagli atti che la condizione della presenza del cittadino, imputato di reato comune
commesso all’estero, si era comunque verificata
anteriormente alla sentenza di primo grado). *
Cass. pen., sez. I, 13 giugno 1991, n. 6698 (ud. 10
maggio 1991), Di Bella.
l Al fine dell’applicabilità della legge penale
italiana nel caso di delitto comune del cittadino
italiano all’estero è necessaria la condizione della
presenza del colpevole nel territorio dello Stato
italiano sia nelle ipotesi previste dal primo comma
dell’art. 9 c.p., sia, pur se non espressamente enunciata, in quelle configurate nel secondo comma
dello stesso articolo. * Cass. pen., sez. II, 22 giugno
1990, n. 9093 (ud. 8 marzo 1989), Trivellato.
10. Delitto comune dello straniero all’estero. – Lo
straniero, che, fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8,
commette in territorio estero, a danno dello Stato o di
un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce [la pena di morte (1) o] l’ergastolo, o la reclusione
non inferiore nel minimo a un anno, è punito secondo la
legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato (42), e vi sia richiesta del Ministro della giustizia
(112; 128, 129; 342 c.p.p.), ovvero istanza (130; 341 c.p.p.)
o querela (120-127; 336 ss. c.p.p.) della persona offesa.
Se il delitto è commesso a danno delle Comunità
europee, di uno Stato estero (2) o di uno straniero, il
colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta
del Ministro della giustizia (112, 128, 129), sempre che:
1) si trovi nel territorio dello Stato (42, 1282);
2) si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena
[di morte (1) o] dell’ergastolo, ovvero della reclusione
non inferiore nel minimo a tre anni;
3) l’estradizione (104 Cost.; 13; 697 ss. c.p.p.) di lui
non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata
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93
Titolo I – Legge penale
dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene.
(1) La pena di morte per i delitti contemplati nel codice penale, è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo dal D.L.vo Lgt. 10
agosto 1944, n. 224.
L’art. 27, ultimo comma, della Costituzione, così come modificato dall’art. 1 della L. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, ha stabilito che
non è ammessa la pena di morte.
Il D.L.vo 22 gennaio 1948, n. 21, ha soppresso la pena di
morte per i delitti previsti da leggi penali speciali diverse da quelle
militari e l’art. 1 della L. 13 ottobre 1994, n. 589, ha abolito la pena
di morte prevista dal codice penale militare di guerra e dalle leggi
militari di guerra, sostituendola con la pena massima prevista dal
codice penale.
(2) Le parole: «a danno di uno Stato estero» sono state sostituite dalle attuali: «a danno delle Comunità europee, di uno Stato
estero» dall’art. 5 della L. 29 settembre 2000, n. 300.
SOMMARIO:
a) Condizioni di procedibilità;
b) Casistica.
a) Condizioni di procedibilità.
l Nel caso di delitti commessi all’estero da
uno straniero in danno di un cittadino italiano, la
presenza del colpevole nel territorio dello Stato,
richiesta dall’art. 10 c.p. per la loro perseguibilità
in Italia, costituisce condizione di procedibilità la
cui sussistenza è richiesta anche ai fini dell’applicazione di misure cautelari da adottarsi nella fase
delle indagini preliminari. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha annullato
senza rinvio il provvedimento del tribunale che,
in accoglimento di gravame proposto dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 310 c.p.p., aveva
disposto l’applicazione della custodia in carcere
nei confronti di taluni soggetti, non presenti nel
territorio nazionale, cui si addebitava l’omicidio,
commesso in Afghanistan, di una giornalista
italiana). * Cass. pen., sez. I, 30 ottobre 2003, n.
41333 (c.c. 11 luglio 2003), Mohammad ed altri,
in Arch. nuova proc. pen. 2004, 47. [RV225751]
l In tema di reati commessi all’estero, al di
fuori dei casi tassativamente indicati all’art. 7 c.p.,
è condizione indispensabile per il perseguimento
dei reati commessi all’estero dallo straniero che
questi risultino punibili come illeciti penali oltre
che dalla legge penale italiana anche dall’ordinamento del luogo dove sono stati consumati,
ancorché con nomen iuris e pene diversi (in applicazione di tale principio la Corte ha annullato
senza rinvio il provvedimento coercitivo impugnato riguardante la cessione di armi da guerra
avvenuta esclusivamente in territorio estero in
violazione dell’embargo stabilito da risoluzioni
dell’Onu, non tradottesi peraltro all’interno
dell’ordinamento italiano in norme vincolanti).
* Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2002, n. 38401
(c.c. 17 settembre 2002), Minin. [RV222924]
l La presenza dello straniero nel territorio
dello Stato, richiesta dall’art. 10 c.p. ai fini della
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Art. 10
perseguibilità in Italia del delitto comune commesso all’estero dal medesimo straniero in danno
dello Stato o di un cittadino italiano, è normativamente strutturata come condizione di procedibilità ed è quindi da considerare soggetta a tutte le
regole proprie di siffatta condizione. * Cass. pen.,
sez. I, 8 marzo 1993, n. 377 (c.c. 29 gennaio 1993),
Shoukry Tarek.
l Per la perseguibilità in Italia di un reato
commesso all’estero in danno di un cittadino
italiano, in ordine al quale vi sia stata la richiesta di procedimento del Ministro della giustizia
occorre anche la querela della persona offesa
ove si tratti di reato che se commesso in Italia
sarebbe procedibile a querela. * Cass. pen., sez.
I, 13 gennaio 1993, n. 4144 (c.c. 19 ottobre 1992),
Shoukry Tarek.
l La richiesta, l’istanza e la querela risultano
regolate nel sistema penalistico quali condizioni
che non attengono alla struttura del fatto-reato
o alla sua punibilità, bensì alla procedibilità dell’azione penale. Anche la presenza del colpevole
nel territorio dello Stato, richiesta dall’art. 10 c.p.
per la «punibilità» di taluni reati commessi all’estero dallo straniero è normalmente strutturata
come condizione di procedibilità, soggetta quindi
alle regole proprie di queste, e l’inizio di tale presenza costituisce, quindi, il dies a quo di decorrenza del termine (non soggetto a sospensioni o
ad interruzioni) per l’esercizio dell’azione penale.
* Cass. pen., sez. I, 13 gennaio 1993, n. 4144 (c.c.
19 ottobre 1992), Shoukry Tarek.
l L’art. 90, terzo comma, c.p.p., prevede che
qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà ed i diritti previsti
dalla legge sono esercitati dai prossimi congiunti
(art. 307, quarto comma, c.p.) della medesima.
Tra tali diritti rientra anche quello di proporre
l’istanza prevista dall’art. 10, primo comma, c.p.,
per la perseguibilità di taluni delitti comuni commessi all’estero da uno straniero. (Fattispecie in
tema di omicidio pluriaggravato commesso da
uno straniero in danno di una cittadina all’estero). * Cass. pen., sez. I, 13 gennaio 1993, n. 4144
(c.c. 19 ottobre 1992), Shoukry Tarek.
l Non è configurabile alcuna improcedibilità
nel caso in cui lo Stato estero, nel cui territorio
siano stati commessi i reati non solo non si avvalga della facoltà di richiedere l’estradizione, ma
porti a conoscenza dello Stato italiano, nel cui
territorio si trovi il reo, l’esistenza dei delitti, collaborando alla raccolta delle prove e dimostrando
così d’avere rinunciato a punire direttamente l’autore dei fatti. * Cass. pen., sez. I, 24 ottobre 1989,
n. 13988 (ud. 14 luglio 1989), Hamdan.
b) Casistica.
l Integra il delitto di sequestro di persona
(art. 630 c.p.), punibile secondo la legge italiana,
la condotta di cittadini turchi di nazionalità curda che — superando con violenza gli agenti della
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Art. 11
Libro I – Dei reati
questura — penetrino all’interno del Consolato
Generale della Grecia, rinchiudendo il Console
nel suo Ufficio, al fine di fargli spedire un fax
al Primo Ministro della Repubblica Ellenica, in
quanto la legge penale da osservare nei locali, ancorché inviolabili, di un consolato estero in Italia
è, anche a seguito della Convenzione di Vienna,
quella che si applica in qualsiasi parte del territorio italiano, qualunque siano le norme dello Stato
ospitato e indipendentemente dall’immunità riconosciuta agli addetti ed all’inviolabilità dei locali
strettamente riservati all’esercizio delle funzioni
diplomatiche, le quali non implicano affatto l’extraterritorialità delle sedi diplomatiche. * Cass.
pen., sez. V, 4 ottobre 2010, n. 35633 (ud. 25 giugno 2010), Taskiran e altri. [RV248894]
l Nel caso di delitto commesso in territorio
estero da uno straniero in danno di altro straniero, la presenza del colpevole nel territorio dello
Stato, richiesta dall’art. 10 c.p. per la sua perseguibilità in Italia, deve essere sussistente prima
della richiesta di rinvio a giudizio, a nulla rilevando l’eventuale allontanamento dello straniero
in un momento successivo all’avveramento della
citata condizione di procedibilità. * Cass. pen.,
sez. I, 25 gennaio 2006, n. 2955 (ud. 7 dicembre
2005), El Hallal. [RV233424]
l In materia di falso, il concorso nel reato, che
esclude la punibilità della diversa ipotesi criminosa prevista dall’art. 489 c.p. (uso di atto falso),
deve configurarsi in termini di concreta punibilità.
Ne consegue che, se la falsificazione è stata commessa all’estero e non vi sia la richiesta del Ministro della giustizia ex art. 10 c.p., il soggetto che
abbia prodotto o concorso a produrre l’atto falso
risponde, ricorrendone le condizioni, del reato di
uso dello stesso, ai sensi dell’art. 489 c.p. (Fattispecie relativa alla contraffazione dei dati anagrafici
su un passaporto di Paese straniero e su un visto
di ingresso in Italia, esibiti alla frontiera). * Cass.
pen., sez. V, 4 gennaio 2006, n. 65 (c.c. 25 ottobre
2005), P.G. in proc. Hugi. [RV232714]
l Poiché la competenza territoriale a conoscere di un reato associativo si radica nel luogo in
cui la struttura criminosa destinata ad agire nel
tempo diventa concretamente operante, a nulla
rilevando il luogo di consumazione dei singoli
reati oggetto del “pactum sceleris”, per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana
occorre verificare in quale luogo si è realizzata
l’operatività della struttura medesima, dovendosi
attribuire importanza secondaria al luogo in cui
sono stati realizzati i singoli delitti commessi in
attuazione del programma criminoso a meno che
non rivelino essi stessi, per il loro numero e consistenza, il luogo di operatività predetto. (In applicazione di tale principio la Corte ha escluso la
giurisdizione del giudice italiano con riferimento
all’imputazione di associazione per delinquere
elevata — in assenza di richiesta del Ministro di
giustizia — a carico di un cittadino americano
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94
che, a mezzo di posta elettronica, offriva in vendita organi umani a scopo di trapianto). * Cass.
pen., sez. II, 7 aprile 1999, n. 993 (c.c. 25 febbraio
1999), Cohan. [RV212974]
l Il giudice dell’incidente de libertate non può
rivalutare autonomamente una questione pregiudiziale e strettamente connessa alla definizione
del merito già esaminata dal giudice della cognizione e da costui risolta con la relativa sentenza.
Invero con il procedimento incidentale in materia
cautelare non può porsi in discussione una questione che, pur attenendo anche alla legittimità
della misura cautelare, sia stata, per la sua confluenza nel giudizio di merito, già decisa dal giudice competente, con possibilità di riforma ormai
rimessa unicamente al giudice di cognizione del
successivo grado. (Fattispecie relativa ad un reato
di omicidio volontario commesso all’estero, in cui
nel giudizio di merito di primo grado il giudice
aveva escluso la necessità, per la procedibilità in
ordine al reato suddetto, della richiesta o istanza
di cui all’art. 10 c.p., avendo ritenuto che il prevenuto fosse cittadino italiano e che quindi fosse
sufficiente la sua presenza nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 9 stesso codice; la Cassazione
ha ritenuto corretta la decisione del tribunale che,
in sede di appello avverso l’ordinanza che aveva
respinto la richieta di revoca della misura della
custodia cautelare in carcere, aveva escluso che
potesse addivenirsi alla richiesta di revoca, fondata sulla pretesa insussistenza della condizione
di procedibilità di cui al comma 1 dell’art. 10 c.p.,
sul rilievo che appunto la questione era già stata
affrontata e risolta in senso sfavorevole all’imputato nel giudizio di merito). * Cass. pen., sez. I, 8
giugno 1994, n. 2128 (c.c. 9 maggio 1994), Tarek.
11. Rinnovamento del giudizio. – Nel caso indicato
nell’art. 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello
Stato, anche se sia stato giudicato all’estero (138, 201;
730 ss. c.p.p.).
Nei casi indicati negli articoli 7, 8, 9 e 10, il cittadino
o lo straniero, che sia stato giudicato all’estero, è giudicato nuovamente nello Stato, qualora il Ministro della
giustizia ne faccia richiesta (128, 129; 342 c.p.p.).
SOMMARIO:
a) Giurisprudenza costituzionale;
b) Reati commessi nel territorio dello Stato
(comma primo);
c) Delitti commessi all’estero (comma secondo).
a) Giurisprudenza costituzionale.
l L’art. 11 comma secondo, c.p., in quanto
consente la rinnovazione del giudizio per determinati fatti già giudicati all’estero, non contrasta
con gli artt. 10 comma primo e 24 comma secondo
Cost., asseritamente violando il principio dell’irripetibilità del giudizio penale, da osservare, quale
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Titolo I – Legge penale
norma internazionale generalmente riconosciuta
ai sensi del citato art. 10 comma primo Cost. e
ponendosi altresì in contrasto con il diritto inviolabile dell’uomo ad un processo giusto. * Corte
cost., 8 aprile 1976, n. 69.
b) Reati commessi nel territorio dello Stato
(comma primo).
l Il processo celebrato all’estero nei confronti
del cittadino non preclude la rinnovazione del
giudizio in Italia per gli stessi fatti, in quanto
nell’ordinamento giuridico italiano non vige il
principio del “ne bis in idem” internazionale,
prevedendo l’art. 11, comma primo, c.p. la rinnovazione del giudizio nei casi indicati dall’art.
6 c.p., cioè quando l’azione o l’omissione che costituisce il reato è avvenuta in tutto o in parte nel
territorio dello Stato (La Corte ha, altresì, escluso
l’applicabilità dell’art. 50 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea, essendo
stata la condanna emessa in Croazia ed avendo
quel Paese sottoscritto il trattato di adesione
all’Unione Europea in data 9 dicembre 2011 con
decorrenza 1° luglio 2013, data successiva alla
celebrazione del processo in Italia). * Cass. pen.,
sez. II, 1 ottobre 2013, n. 40553 (ud. 21 maggio
2013), Tropeano. [RV256469]
l A seguito dell’entrata in vigore in data 26 ottobre 1997 delle disposizioni contenute nella Legge n. 388/93 attuativa dell’accordo di Schengen, il
cui articolo n. 54 stabilisce che: «una persona che
sia stata giudicata con sentenza definitiva in una
parte contraente non può essere sottoposta ad un
procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra parte contraente, a condizione che, in caso di
condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di sede di esecuzione attualmente o, secondo la Legge della parte contraente di
condanna, non possa piú essere eseguita» trova
applicazione il principio del ne bis in idem stabilito, con riguardo a sentenze penali pronunciate in
Europa, sia dall’art. 53 della Convenzione europea
sulla validità internazionale dei giudizi repressivi,
resa esecutiva in Italia con Legge 16 maggio 1977,
n. 305, che dalla Convenzione di Bruxelles del 25
maggio 1987, resa esecutiva in Italia con Legge 16
ottobre 1989, n. 350, sull’Accordo di Schengen del
14 giugno 1985, recepito con la Legge 30 settembre
1993, n. 388. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato il provvedimento che dichiarava inapplicabile
il principio del ne bis in idem, non riconoscendo
allo stesso la natura di principio o consuetudine
di carattere internazionale e per questo necessariamente recessivo nei casi in cui sia ravvisata
la giurisdizione dell’A.G. in base alle norme di
diritto interno, quando manchi una Convenzione
depositata e ratificata tra gli Stati interessati). *
Cass. pen., sez. I, 23 giugno 2004, n. 28299 (c.c. 3
giugno 2004), Desiderio. [RV228779]
l Poiché nell’ordinamento italiano non vige il
principio del ne bis in idem internazionale, la sen-
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Art. 11
tenza penale emessa in un Paese extra-europeo nei
confronti di un cittadino italiano non impedisce
la rinnovazione del giudizio in Italia per lo stesso
fatto, sempre che il cittadino si trovi nel territorio
italiano ed il Ministro della giustizia ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 11, comma secondo c.p.
Il pregresso riconoscimento della sentenza penale
straniera sullo stesso fatto — eventualmente richiesto dal Ministro della giustizia nel caso in cui
non esista trattato di estradizione con lo Stato
estero ex art. 12, comma secondo, c.p. — non preclude il possibile esercizio dell’azione penale in
Italia, in quanto l’istituto del riconoscimento non
comporta il recepimento integrale della decisione
straniera, ma produce i limitati effetti tassativamente indicati e non è in relazione di alternatività
od incompatibilità con la rinnovazione del giudizio, soprattutto quando il Ministro della giustizia
non abbia potuto esercitare contestualmente —
per circostanze oggettive — l’eventuale opzione
tra i due istituti. (Nel caso all’esame della S.C., il
riconoscimento della sentenza penale emessa dalla Corte Suprema del Sud Africa era stato richiesto quando l’imputato si trovava ancora all’estero
per l’espiazione della pena colà inflittagli, mentre
le condizioni per richiedere il rinnovamento del
giudizio, per il delitto di omicidio volontario commesso all’estero, erano divenute sussistenti solo
in seguito al suo rientro in Italia). * Cass. pen.,
sez. I, 17 marzo 2004, n. 12953 (ud. 5 febbraio
2004), Di Blasi. [RV227852]
l Il principio del ne bis in idem stabilito con riguardo alle sentenze penali pronunciate dai Paesi
dell’Unione Europea dall’art. 54 della legge 30 settembre 1993, n. 388, attuativa della Convenzione di
applicazione dell’Accordo di Schengen, presuppone l’identità del fatto. Nel caso di partecipazione all’estero ad un’associazione criminale (nella specie:
delitto di banda armata, per la partecipazione alla
struttura “estero” delle Brigate Rosse) formatasi ed
operante in Italia, da parte di un cittadino italiano,
tale condotta è rilevante ai fini della giurisdizione
penale italiana, risultando il reato associativo non
solo commesso in Italia ma caratterizzato dal programma criminoso di compiere atti di violenza
con fini di eversione dell’ordine democratico dello
Stato italiano. Ne consegue che non può ritenersi
ostativa la sentenza definitiva pronunciata nel Paese straniero a carico del predetto in relazione alla
responsabilità per la fattispecie generale di delitto
associativo (nella specie association de mailfaiteurs
in quanto il fatto già giudicato è del tutto diverso
da quello in relazione al quale viene esercitata la
giurisdizione penale in Italia. * Cass. pen., sez. VI,
12 marzo 2004, n. 12098 (ud. 3 novembre 2003),
Giunti. [RV228481]
l Il ne bis in idem non costituisce principio né
consuetudine di diritto internazionale e, pertanto, ove sia ravvisata la giurisdizione in base alle
norme di diritto interno, queste devono cedere il
passo a quelle internazionali solo in virtù di con-
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Art. 11
Libro I – Dei reati
venzione fra gli Stati, ratificata, resa esecutiva e
depositata, la quale vincola unicamente gli Stati
contraenti e nei limiti del patto tra essi raggiunto.
La Convenzione europea tra gli Stati membri delle comunità europee, relativa all’applicazione del
principio del ne bis in idem, firmata in Bruxelles
il 25 maggio 1987 e ratificata dall’Italia con L. 16
ottobre 1989, n. 350, non è ancora in vigore sul
piano internazionale, non essendo avvenuto il deposito degli strumenti di ratifica, di accettazione
o di approvazione da parte di tutti gli Stati membri delle Comunità europee alla data dell’apertura
della firma, così come previsto dall’art. 6, comma
2, della Convenzione. La predetta Convenzione
trova tuttavia applicazione nelle relazioni tra
Italia, Danimarca e Francia dal 16 giugno 1992,
in quanto questi sono gli unici Stati che hanno
depositato il proprio strumento di ratifica, come
risulta dal comunicato del Ministero degli esteri,
pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 135 del 10 giugno 1992. Ne consegue che la predetta Convenzione non può trovare applicazione nei rapporti con
Stati diversi, quale la Confederazione Elvetica. *
Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1994, n. 5617 (ud.
15 febbraio 1994), Di Matteo.
l Nell’ordinamento giuridico italiano non
esiste il principio del ne bis in idem rispetto a
sentenze straniere, in quanto l’art. 11 c.p. impone
espressamente di giudicare nello Stato il cittadino o lo straniero che ivi abbia commesso reato,
anche se sia stato già giudicato all’estero. Di ciò è
conferma nell’art. 138 stesso codice il quale, per
l’ipotesi di giudizio seguito all’estero e rinnovato
in Italia, prevede come legittima l’esecuzione della
pena inflitta dall’autorità giudiziaria italiana, disponendo che vi venga sempre computata la pena
scontata all’estero. * Cass. pen., sez. VI, 8 maggio
1993, n. 621 (c.c. 3 marzo 1993), Palazzolo.
c) Delitti commessi all’estero (comma secondo).
l Il processo celebrato all’estero nei confronti
del cittadino non preclude la rinnovazione del
giudizio in Italia per gli stessi fatti, in quanto
nell’ordinamento giuridico italiano non vige il
principio del “ne bis in idem” internazionale, prevedendo l’art. 11, comma primo, cod. pen. la rinnovazione del giudizio nei casi indicati dall’art. 6
cod. pen., cioè quando l’azione o l’omissione che
costituisce il reato è avvenuta in tutto o in parte
nel territorio dello Stato (La Corte ha, altresì,
escluso l’applicabilità dell’art. 50 della Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, essendo stata la condanna emessa in Croazia ed avendo quel Paese sottoscritto il trattato di adesione
all’Unione Europea in data 9 dicembre 2011 con
decorrenza 1° luglio 2013, data successiva alla
celebrazione del processo in Italia). * Cass. pen.,
sez. II, 1 ottobre 2013, n. 40553 (ud. 21 maggio
2013), Tropeano. [RV256469]
l Un processo celebrato nei confronti di cittadino straniero in uno Stato con cui non vigono
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accordi idonei a derogare alla disciplina dell’art.11
cod. pen. non preclude la rinnovazione del giudizio
in Italia per gli stessi fatti, non essendo il principio
del “ne bis in idem” principio generale del diritto
internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno. * Cass. pen., sez. I, 13 maggio 2013,
n. 20464 (ud. 5 aprile 2013), N. [RV256162]
l Non è ostativa alla celebrazione del giudizio, in base all’art. 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, la precedente
condanna riportata per lo stesso fatto in uno Stato aderente alla suddetta Convenzione, quando la
relativa pena non sia stata eseguita, né sia in corso di esecuzione, anche se sia ancora eseguibile.
* Cass. pen., sez. VI, 2 ottobre 2006, n. 32609 (ud.
25 settembre 2006), Manieri. [RV234766]
l Il processo celebrato all’estero nei confronti
del cittadino italiano non preclude la rinnovazione
del giudizio in Italia per lo stesso fatto, in quanto
nell’ordinamento giuridico italiano non vige il
principio del ne bis in idem internazionale. La
richiesta del Ministro di grazia e giustizia, quale
condizione di procedibilità in Italia, nei confronti
del cittadino o dello straniero già giudicato all’estero, è imposta, a norma degli artt. 11, secondo
comma, c.p., soltanto nelle ipotesi, espressamente
richiamate dalla disposizione, previste dai precedenti artt. 7, 8, 9 e 10 che concernono il delitto
commesso interamente all’estero. Ai sensi dell’art.
11, primo comma, c.p., non è richiesta, invece,
alcuna condizione di procedibilità per la rinnovazione del giudizio in ordine al reato commesso in
Italia. E, invero, il reato si considera commesso
nel territorio dello Stato, ai sensi dell’art. 6, secondo comma, c.p., quando è ivi avvenuta, in tutto o
in parte, l’azione o l’omissione che lo costituisce. *
Cass. pen., sez. V, ord. 5 ottobre 1998, n. 3362 (c.c.
29 maggio 1998), Bortesi. [RV211504]
l Il principio del ne bis in idem stabilito, con
riguardo a sentenze penali pronunciate in Europa,
dall’art. 53 della Convenzione europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, resa esecutiva in Italia con legge 16 maggio 1977 n. 305,
non trova applicazione con riguardo a sentenze
pronunciate in Germania, giacché fra il detto Paese e l’Italia non è ancora intervenuta ratifica della
Convenzione summenzionata; né a tale lacuna
può sopperirsi mediante richiamo alla Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, resa esecutiva
in Italia con legge 16 ottobre 1989 n. 350 sull’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, recepito
con legge 30 settembre 1993 n. 388, non essendosi
formato, né per l’una né per l’altro, un incontro
bilaterale di volontà fra l’Italia (che ha dato esecuzione all’Accordo di Schengen). Rimane, quindi,
in tale situazione, applicabile la regola generale di
cui all’art. 11 c.p., secondo cui è consentita la rinnovazione in Italia del giudizio relativo a fatti per
i quali l’imputato sia stato già giudicato all’estero.
* Cass. pen., sez. I, 10 settembre 1997, n. 4625 (c.c.
3 luglio 1997), Sesta. [RV208348]
20-03-2015 10:08:25
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