Centro per la Filosofia Italiana
IL CONTRIBUTO
ANNO
XXXI, NUMERO 2
2009
IL CONTRIBUTO
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Gli scritti apparsi su questo numero
possono essere pubblicati altrove
purché se ne dichiari la fonte.
INDICE
QUESTO FASCICOLO
pag.
5
Giuseppe Prestipino
L’antistoricismo anticipazione filosofica della crisi?
pag.
7
Roberto Mapelli
Nichilismo attivo e rigenerazione di civiltà. Leopardi
e Freud interpreti della crisi
pag.
19
Daniele Cananzi
Perché la violenza: la prospettiva di Sergio Cotta
pag.
31
Pio Colonnello
Teorie politiche latino americane. Temi e prospettive
pag.
41
Gianpaolo Bartoli
Lineamenti di filosofia giuridica e politica nell’opera
di Luigi Pareyson
pag.
53
Giovanni Franchi, Possono le società fare a meno di Dio? pag.
75
DISCUTIAMO…
RECENSIONI
Giuseppe Cantarano
Massimo Cacciari, Hamletica
pag.
3
83
Indice
4
Giuseppe Prestipino
Aa.Vv., Annuario Kainos IV, Nudità
pag.
88
Paolo Fornari
Massimo Borghesi, L’era dello spirito. Secolarizzazione
ed escatologia moderna
pag.
93
Marcella Serafini
José Antonio Merino, Per conoscere Giovanni Duns Scoto pag.
98
Abstracts
pag.
105
Informazioni del Centro per la filosofia italiana
pag.
107
Regole editoriali
pag.
109
La nostra collana
pag.
111
Libri ricevuti
pag.
113
QUESTO FASCICOLO
Apre il fascicolo il saggio di Giuseppe Prestipino sull’antistoricismo
che realizza anche un singolare e ideale dialogo con Roberto Mapelli,
autore del saggio su Leopardi e Freud. Si tratta di due interventi che discutono, ciascuno dal suo punto di vista, temi di grande attualità come
la crisi della cultura. Questo numero, pur non avendo un carattere monografico, dà spazio ad un aspetto della filosofia, vale a dire la filosofia politica e giuridica. Il saggio su Pareyson è incentrato sugli aspetti
giuridico–politici della sua profonda e varia riflessione, mentre il saggio di Daniele Cananzi, che riprende l’introduzione alla giornata de “La
Nottola di Minerva” del 23 maggio u.s. sul tema Violenza e sicurezza,
traccia la prospettiva di Sergio Cotta, altro noto filosofo del diritto italiano. Sempre nell’ambito della filosofia politica interviene il saggio di
Pio Colonnello sui temi e le prospettive delle teorie politiche
latino–americane.
Gli interventi pubblicati nello scorso numero su Ragione scienza e fede hanno sollecitato alcune discussioni. Si inizia in questo numero con
la riflessione di Giovanni Franchi che si pone la domanda se le società
possano fare a meno di Dio.
Sono presenti, in fondo, alcune recensioni, ma si dovrebbe dire discussioni, di libri recenti.
5
L’ANTISTORICISMO ANTICIPAZIONE FILOSOFICA
DELLA CRISI?
Giuseppe Prestipino
1. Fine della storia o fine del mondo?
Se nell’alto Medioevo si diffuse, come si suol dire, la mitologia
negativa e apocalittica dell’anno Mille o, in altri termini, la sindrome
di fine millennio, nella modernità prende piede la sindrome di inizio
secolo (i tempi storici si accorciano) come fede, invece, nelle «magnifiche sorti e progressive» che tuttavia, di secolo in secolo, interrompano la continuità del loro tempo lineare ascendente per segnare
il salto radioso di una discontinuità protesa, oggi, persino a far tabula rasa di tutto il passato storico. È fin troppo facile mostrare, in termini hegeliani, che la presunta discontinuità assoluta si rovescia nel
suo contrario, ovvero nel culto di un ritorno alla “vera” modernità, e
quindi nella metafisica del continuo assolutizzato. Un fenomeno
esemplare è proprio nella psicosi di questo nostro Duemila, atteso e
poi salutato come un felice oblio del passato, ma di fatto vissuto come il gran ritorno alla “verità” del verbo liberista o come trionfo, appunto, del neo–liberismo. La sindrome moderna di inizio secolo non
sempre si è diffusa in coincidenza con una latente o incipiente crisi
economica. Oggi la coincidenza è palese: la crisi economica si accompagna a una crisi di civiltà. Ma in altri inizi di secolo la crisi di
civiltà poté apparire sciolta da ogni vincolo con la crisi economica.
E perciò il trauma poté manifestarsi, soprattutto, in alcuni pensatori
o in alcune correnti culturali. Resta una constatazione: se nell’anno
Mille serpeggiava la temuta fine del mondo, nell’affacciarsi del
Duemila è benvenuta la fine della storia. Il “trapasso di secolo” affascina poeti e romanzieri, da Stendhal a Calvino. Ma, ora come allora, il “vizio” filosofico mi pare possa essere ravvisato nell’anti–storicismo o nei suoi equivalenti.
7
Giuseppe Prestipino
8
Gli Stati Uniti di America sono divenuti il centro del neo–liberismo
mondializzato. Perciò sono stati il luogo di una cultura che, pur con alcune eccezioni, ha rovesciato il positivismo e l’economismo nella metafisica e persino nella teologia. La filosofia analitica in genere, e statunitense in specie, si può forse dire, aveva in comune con certo anti–storicismo europeo e anzi accentuava, come scrive André Tosel, un’«assenza di senso storico» che, da un pragmatismo agnostico, poteva sfociare
nell’estremo opposto del “fondamentalismo” globale professato da chi
si considerava eletto da Dio «(“God bless America”) per condurre la
guerra della civiltà occidentale in un presente assolutizzato», nel quale
il terrorismo recitava, a sua volta, la parte di una, assoluta, causa sui1. La
distruzione della ragione, di Lukács, era un esempio di deprecabile settarismo culturale, ma forse pre–vedeva giusto nel denunciare un pragmatismo analitico che avrebbe potuto rovesciarsi nel misticismo o nella
teologia a buon mercato. Peraltro, se dobbiamo diffidare del pragmatismo agnostico, possiamo utilmente ripensare l’operazionismo critico a
partire da Dewey, come accenneremo in seguito. Con La distruzione della ragione, Lukács si proponeva di indagare le radici culturali di una crisi e di una “decadenza” da lui ritenute irreversibili nella civiltà borghese2. Ma la sua contrapposizione tra razionalismo e irrazionalismo non è
la più pertinente per descrivere le crisi della modernità. In questo stesso fascicolo de “Il Contributo”, Roberto Mapelli vede in Leopardi il pessimismo o nichilismo attivo come risposta amara agli inizi retrivi del
XIX secolo e a una crisi che invece trova (secondo me) la sua risposta
ottimistica nella teoria di De Maistre come, sul piano politico, nel progetto della Santa Alleanza e, sul terreno popolare, nel sanfedismo.
Mapelli vede poi in Freud, dopo un’altra crisi profilatasi negli inizi torbidi del XX secolo, il disagio della civiltà e insieme la cauta speranza di
una rigenerazione (ma, aggiungerei, un risvolto apocalittico è in
Spengler, mentre un tormento esistenziale tendenzialmente “salvifico”
è in Heidegger). Qual è il Leopardi o il Freud, domando, in questo smar1
André Tosel, Un monde en abîme. Essai sur la mondialisation capitaliste, Ediytions Himé,
Paris 2008, pp. 238–9.
2
Gyorgy Lukács, quasi come il da lui criticato Sartre, considera quelle tendenze dell’arte moderna sintomo di un mondo in decadenza o in decomposizione. Ma a Sartre quell’arte, proprio
perché sintomo di una “situazione” asociale e innaturale, sembra “bella”, a Lukács no. Su quel
punto di vista sartriano, cfr. Aniello Montano, Sartre e le arti, l’arcael’arco edizioni, Napoli 2008.
L’antistoricismo anticipazione filosofica della crisi?
9
rito inizio del XXI secolo e nella sua crisi mondiale? Non mi pare che
vi siano grandi pensatori. Vi è, da una parte, un tendenziale catastrofismo, peraltro ragionato, in alcune correnti ambientaliste, che alla consolatrice “fine della storia” sostituiscono una allarmante “fine del mondo”. E vi sono, dall’altra parte, i rifugi identitari in un ventaglio di
espressioni variegate, che vanno dall’egoistico e iper–individualistico
“si salvi chi può” alla post–moderna fuga dalle grandi narrazioni (da
ogni grand récit), ai localismi delle piccole patrie o delle comunità etniche3, agli integralismi o ai fondamentalismi neo–teocratici come “secolarizzazione” delle grandi dottrine monoteistiche, ripiegatesi su un redivivo spirito di crociata o di lotta agli infedeli.
Ritengo che alla crisi si debba invece guardare, sul piano teorico,
con il gramsciano “storicismo della discontinuità” e, sul versante esistenziale con “il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà” raccomandati da Romain Rolland e da Antonio Gramsci.
Mapelli cita Cesare Luporini interprete del leopardiano nichilismo attivo. Nelle mie considerazioni che seguono, dapprima prendo spunto da
uno studio più ampio di Mapelli dedicato appunto al pensiero di
Luporini, per accennare infine alle moderne relazioni tra ragione
(scienza) e fede.
2. Il “cancro” dell’anti–storicismo
Premetto che il marxismo teorico ristagnava in Italia, nell’ultimo dopoguerra, e non assimilava neppure l’ultimo Lukács, l’ultimo Bloch e
lo stesso Althusser, dopo la Scuola di Francoforte o dopo Sartre, dei
quali neppure uno studioso come Luporini «tiene conto esplicitamente»4. Un tentativo di fare nuova teoria marxista era nell’ultimo Mario
Rossi, ma era ignorato o “compatito” come un’ingenua ricaduta nel de-
3
Cfr. André Tosel, op. cit., p. 137: Tosel esamina criticamente le teorie postmoderne della
storia, ricondotta a récits ossia a genere letterario (come nel primo Croce), teorie forse inconsciamente solidali con l’odierno fenomeno delle storie locali in quanto «reazione di difesa» contro la nuova mondializzazione.
4
Così Roberto Mapelli, in Cesare Luporini e il suo pensiero, Edizioni Punto Rosso, Milano
2008, p. 206.
Giuseppe Prestipino
10
precato ontologismo. Luporini accennava a teorizzare5 la «funzionalità» delle forme ideologiche rispetto alla «vita reale», un concetto che
si ritrovava nell’ultimo Mario Rossi6, ma non era approfondito da
Luporini come lo sarebbe stato, invece, nel cosiddetto “marxismo analitico” britannico. Non vi è autonoma elaborazione teorica, ma si fa
strada un anti–storicismo che non ammette distinzioni tra i diversi storicismi. Una impropria generalizzazione che caratterizza proprio
Luporini dopo gli anni Cinquanta. Nel Luporini ancora storicista, il
rapporto tra struttura e sovrastruttura è visto come una totalità, forse in
senso hegeliano7, ma certamente con implicito richiamo al “blocco storico” gramsciano. Se il richiamo fosse esplicito e fosse approfondito in
sede teorica, il Luporini del dopo anni Cinquanta sarebbe divenuto un
po’ meno anti–storicista, o meglio avrebbe potuto distinguere tra storicismi diversi e avrebbe indicato proprio in Gramsci il teorico sia di tendenze dialettiche diacroniche che di sistemi “organici” (definibili “sincronici” dagli strutturalisti). Luporini disapprova, nello storicismo di
Engels, l’«empirismo–positivismo di far stare insieme la moltitudine
dei fatti empirici […] con un nascosto ricorso a un essenzialismo o quasi–essenzialismo (essenzialismo atipico, potremmo dirlo) di marca hegeliana»8. Per questa presunta “proliferazione” incontrollata dello storicismo onnivoro “immaginato” da Luporini, egli crede di poter diagnosticare «il cancro dello storicismo»9.
Anche Mapelli sembra riferirsi a tutti gli storicismi quando, commentando Luporini, prende spunti da Costanzo Preve e usa concetti
gramsciani, senza citare Gramsci, per ripudiare «ogni» storicismo:
5
Cfr. La concezione della storia di Marx, in Aa.Vv., Marx un secolo dopo, Editori Riuniti,
Roma 1984, pp. 193–94.
6
Mario Rossi, Cultura e rivoluzione. Funzionalismo storico e umanismo operativo, Editori
Riuniti, Roma 1974.
7
Roberto Mapelli, op. cit., p. 46.
8
Cesare Luporini, Marx secondo Marx, in Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma
1974, p. 268.
9
Marx secondo Marx, cit., p. 273. Lo storicismo sarebbe «semplice emergenza del passato» e avrebbe funzione ideologica «conservatrice e continuazionista e giustificatoria».
Riconducendo il presente al passato, non comprenderebbe che il presente è «strutturato», è «sistema di forme più o meno reciprocamente funzionali» (in Aa.Va., La filosofia dal ’45 a oggi, a
cura di Valerio Verra, ERI, Torino 1976, pp. 468–9). Dell’antistoricismo in Luporini ho scritto
nel mio Tradire Gramsci, Teti Editore, Milano 2000.
L’antistoricismo anticipazione filosofica della crisi?
11
Ogni storicismo assume la storia come ente razionale, presuppone a priori l’esistenza di un continuum temporale […]. Questa concezione, intrecciandosi con
una considerazione di giudizio (che è sempre anche una preoccupazione politica), legittima una lettura della storia universale come Progresso.
O quando scrive che dal 1945 alla fine degli anni Cinquanta Luporini
è storicista, ma rifiuta un «caposaldo della storiografia storicista, quello di individuare nelle filosofie solamente l’espressione di un’epoca»10.
È quello, invece, un caposaldo dell’idealismo hegeliano e dello
Historismus tedesco, dai quali differiscono altri storicismi, pur senza fare ritorno alla “filosofia perenne”. Lo stesso Luporini scrive sul marxismo di Gramsci: «Negando ogni “filosofia perenne”, esso esclude anche da sé tale pretesa arcaica»11; infatti, il suo storicisno è da Gramsci
detto «storicismo assoluto» proprio perché «esclude anche da sé tale
pretesa arcaica». Ma gli altri storicismi si pongono ben diversamente il
problema della continuità–discontinuità tra le epoche, o tra il prima e il
dopo nella storia. Oscillano tra un “continuismo” che fa del presente solo un prolungamento del passato e una discontinuità assoluta tra i diversi tempi passati. E infatti, secondo Leopold von Ranke, ogni epoca ha la
sua irripetibile auto–identità, «ogni epoca è vicina a Dio». È vero che,
in un certo storicismo, il presunto teleologismo dei fini immanenti nella storia si tramuta in (o deriva da) un altrettanto arbitrario determinismo storico, e viceversa. È forse anche l’altra faccia di un certo Marx
(che non è l’unico Marx). Ma lo storicismo assoluto di Gramsci evita
ogni caduta sia nel determinismo che nel teleologismo delle filosofie
della storia positivistiche o idealistiche.
Fulvio Papi, nella Prefazione al libro di Mapelli, corregge implicitamente lo stesso Luporini (e alcuni suoi interpreti) quando, con una opportuna differenziazione tra storicismi diversi, afferma: Luporini va «al
di là di una concezione storicistica di tipo evoluzionistico–lineare».
Scrive peraltro lo stesso Luporini, condividendo un aspetto dell’eredità
hegeliana: la storia non è «semplice divenire, ma è svolgimento. L’idea
dello svolgimento comporta che ciò che viene dopo contenga in qualche modo ciò che è venuto prima: che non solo il dopo abolisca il pri-
10
11
Roberto Mapelli, op. cit., pp. 35–6.
Cesare Luporini, in Dialettica e materialismo, cit., p. 342.
Giuseppe Prestipino
12
ma, in quanto esso è attuale e il “prima” non lo è più, ma che ne sia il risultato e contenga l’antecedente non più nella sua attualità che è sparita, ma appunto come risultato»12. Siamo in questi enunciati, malgrado
l’intenzione, nel solco di uno storicismo ben diverso da quello di Ranke.
E infatti Marx diceva che ogni generazione «sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni
precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze», senza tuttavia che sia lecito fare del “dopo” «lo scopo della storia precedente»13.
Alcuni anni dopo il dibattito su storicismo e dialettica, una nuova
discussione si apre sul concetto di formazione economico–sociale con
vivaci polemiche, in specie, tra Emilio Sereni e Luporini. Quest’ultimo
chiarisce la propria interpretazione di Marx in contributi che spaziano
dal 1954 al 1972. Premetto: Marx non vuol negare che si possano «disporre le categorie economiche nell’ordine in cui sono state storicamente determinanti», ma vuol precisare che la propria analisi verte sulla «moderna società borghese» e che pertanto l’ordine di quelle categorie gli si presenta nella («inversa») «relazione in cui esse si trovano
l’una con l’altra» quando, appunto, egli analizza la società borghese14.
Ciò non toglie che l’ordine logico delle categorie “in generale” (prescindendo cioè dal loro ordine logico nell’analisi della società borghese) tenda a dotare la storiografia di un criterio per l’ordine delle sue
periodizzazioni. Marx non smentisce recisamente Engels, come ritiene Luporini; smentisce che i due “ordini” debbano in ogni caso coincidere, ossia che l’ordine nella società borghese debba sempre ricalcare o riepilogare, come per “ontogenesi” da “filogenesi”, l’ordine delle
«grandi epoche» in altra sede tratteggiate dallo stesso Marx. Ma si
guardi alla merce, o alla manifestazione più semplice della forma capitalistica. La merce, con la quale ha inizio Il Capitale di Marx, è altresì un fenomeno più antico della forma capitalistica, un fenomeno
che resta (benché modificato) nella forma capitalistica e che, in que-
12
Dialettica e materialismo, cit., p. 23.
Karl Marx, Friedric Engels, L’Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 30.
14
Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it., La Nuova
Italia Editrice, Firenze 1968, p. 35.
13
L’antistoricismo anticipazione filosofica della crisi?
13
st’ultima forma, diventa appunto “fenomeno” (come Erscheinung, apparenza) dietro il quale si “nasconde” una più profonda “essenza”. Si
può dunque ritenere sia che Marx intenda cominciare dal fenomeno capitalistico più semplice, sia che prenda le mosse dalla manifestazione,
o premonizione, capitalistica più antica. Almeno in tal caso l’esposizione logica e lo svolgimento storico coinciderebbero. Peraltro, è presumibile che logica (= filosofia) e storia non coincidano puntualmente in tutti i rispettivi “corsi” o svolgimenti, ma si corrispondano soltanto nelle “grandi linee” (come dice Engels) di quegli svolgimenti, ossia
in quanto le “epoche storiche” siano concepibili anche come forme logico–storiche. O, meglio, viceversa: in quanto la storiografia si giovi,
per le sue periodizzazioni, della filosofia o della discontinuità ipotizzata dalla filosofia nella transizione tra ogni forma e quella successiva, discontinuità non dunque concepibile come un “riflesso” della realtà storica, ma come un modello adattabile alla periodizzazione storiografica.
La «cosa sensibilmente sovrasensibile», che è la merce per Marx, è
giustamente detta una sorta di “sintesi a priori” da Luporini15. In quanto
un concetto astratto si applica a un esperire sensibile. Infatti, il carattere astratto attribuito dal capitale al lavoro (e perciò al suo prodotto, calcolato nella quantità–tempo di lavoro), viene trasferito anche alla merce, ossia a un concreto sensibile, quando lo scambio tra merci è trattato
(sul modello del giudizio di uguaglianza algebrica a = b) come un’astrazione logica. Un tale trattamento è ancor più pronunziato, e isolato, nel
denaro o nel suo non essere più una merce in atto o in potenza, perché
il denaro assume soltanto le sembianze di “equivalente universale”. In
altri termini, dobbiamo condurre fino alle intrinseche conseguenze il
paragone con la “sintesi a priori”. E dobbiamo concordare con Luporini
là dove suggerisce che quel trattamento (del lavoro, della merce e del denaro) è “vero” perché “funziona”, ossia perché è un «peculiare operativismo»16. E funziona, d’altro canto, nell’analisi scientifica dello stesso
Marx, la finzione–astrazione di “forza–lavoro”, che non è certo un concreto (esclusivamente) sensibile. Ad analoghe considerazioni si presta il
15
Cesare Luporini, Dialettica e materialismo, cit., pp. 191–2.
Cesare Luporini, Introduzione a Karl Marx, Friedrich Engels, L’Ideologia tedesca, Editori
Riuniti, Roma 1967, p. LXXXIII.
16
Giuseppe Prestipino
14
concetto marxiano17 del capitalista come «personificazione» o «incarnazione» di un rapporto che possiamo intendere, ancora, come rapporto tra
concetti astratti: nella specie, tra un’astrazione–capitale e un’astrazione–lavoro sans phrase. Tornano qui a proposito alcuni termini impiegati per indicare che cosa accade del reale quando è pensato come «oggetto di pensiero» e come una «pratica teorica» (Althusser): il reale non è
“rispecchiato” ma è «trasposto» (Marx) o «trasferito e tradotto» (Marx
e Gramsci) nel «sovrasensibile», ossia nel «cervello degli uomini» o nella scienza come “lavoro” e “fatica” (Hegel) del pensiero. E, così tradotto, può “funzionare”, a sua volta, come teorema “operativo” capace di
trasformare il reale, secondo un operazionismo che accomuna, grosso
modo, Dewey e Gramsci.
L’ultimo Luporini vorrebbe forse ritornare ad alcuni motivi del primo Luporini, di quello esistenzialista, pur cercando di conciliare due autori tipici della sua riflessione post–esistenzialista (Marx e Leopardi).
Riaffiora in lui un certo interesse per la problematica ontologica sottostante quella storico–economica e storico–sociale, ma è un interesse non
dichiarato esplicitamente. Egli accetta da Marx che lo sviluppo delle
forze produttive sia il «momento soverchiante» (ubergreifendes
Moment) del modo capitalistico e dichiara che quello sviluppo sarebbe
un continuum18 sottostante i mutamenti discontinui delle forme (sociali,
ideali ecc.). Un continuum sottostante? Non ricade così nel principale
errore che egli attribuisce a ogni storicismo? A dir vero, il Marx dei
Manoscritti 1861–6319 aveva indicato anche nello sviluppo delle forze
produttive stadi diversi in una successione discontinua. Quando
Luporini considera il materialismo (che «evoca il senso della fissità e ripetizione della cosa») fondamento di ogni dialettica delle forme storico–sociali, dialettica che invece «evoca un movimento puro di un procedere che passa (o scatta) attraverso determinazioni opposte»20, non
privilegia egli stesso il continuum, identificato con il materiale–naturale, non solo come il presupposto della storia discontinua, ma come la to-
17
Cfr. Karl Marx, Prefazione del 1867 a Il Capitale, l. I, Editori Riuniti, Roma 1980,
p. 34.
18
Cesare Luporini, Marx secondo Marx, in Dialettica e materialismo, cit., p. 219.
Karl Marx, Manoscritti 1861–63, a cura di L. Calabi, Editori Riuniti, Roma 1980.
20
Cesare Luporini, Introduzione a Dialettica e materialismo, cit., p. VIII.
19
L’antistoricismo anticipazione filosofica della crisi?
15
talità che la abbraccia21? Anche la critica da lui rivolta (ma in forma dubitativa) alla «risoluzione gramsciana», nella quale sembrerebbe «perduta la componente naturalistica del marxismo»22, parrebbe dettata da
una preferenza di segno contrario, ossia da un naturalismo “leopardiano”, se si considera che, nell’ultimo Luporini, la natura è proprio il sostrato continuo di ogni mutazione sociologica, antropologica o psicologica degli esseri umani. Per giunta, una certa «fisicità» continua è replicata, secondo Luporini, persino da ciascuna forma storico–sociale nella sua “rottura” rispetto alle altre. Ogni determinata forma, secondo lui
e secondo Althusser, sorge per una rottura dalla precedente, e per una ricombinazione quasi casuale di diversi elementi, tesi certamente condivisibile; d’altro canto, essi ritengono, ogni forma è “statica” o senza fasi evolutive al suo interno (quindi costituisce un continuum?), tesi molto meno condivisibile.
3. Logica dialettica, periodizzazione storica e storia politica
Per Marx vi è in ogni formazione storica23 un «momento soverchiante»
(ubergreifendes Moment): «In tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell’influenza delle altre. È una illuminazione generale in cui tutti gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro particolarità»24. Marx restringe troppo i possibili agenti
dell’illuminazione generale, riferendosi soltanto alla produzione e ai suoi
differenti modi, non anche ad altri agenti possibili (società, cultura, eticità), che anche quando non sono “soverchianti”, o non caratterizzano la data epoca, possono tuttavia segnarne alcune fasi o sotto–fasi. Nelle società
di dominio, schiavista o feudale o “asiatica” ecc., infatti, non è una deter-
21
«il modo di concepire questa natura […] deve essere tale da rendere a sua volta pensabile concettualmente, in forma ad essa omogenea, il posteriore mondo umano–sociale» (Cesare
Luporini, Introduzione a Dialettica e materialismo, cit., p. X). In tali formulazioni è estremizzata o assolutizzata la frase di Marx sulle «condizioni originarie della produzione», che non sono «risultati della produzione» esse stesse.
22
Cesare Luporini, Dialettica e materialismo, cit., p. 64.
23
Roberto Mapelli osserva opportunamente (in nota 10, a p. 166) che il plurale evidenziato
da Lenin, nelle «formazioni economiche delle società», si trova anche in Marx.
24
Karl Marx, Lineamenti, cit., p. 34.
Giuseppe Prestipino
16
minata produzione, ma sono i rapporti sociali il «momento soverchiante».
Luporini lo dice forse generalizzando troppo e insieme troppo poco, perché estende il “soverchiare” dei rapporti sociali a tutte le forme precapitalistiche, da un lato, e restringe il ruolo dei rapporti sociali, dall’altro, nel
loro determinare la produzione soltanto, ovvero nel «garantire il mantenimento (riproduzione) dei rapporti economici». Scrive infatti:
Tutte le forme precapitalistiche, dominate dal valore d’uso, tendono a riprodursi direttamente in quanto forme sociali. Sono cioè i rapporti sociali come tali,
e la loro eventuale forma politica, a garantire il mantenimento (riproduzione)
dei rapporti economici che stanno alla loro base25.
Non a caso accenna, per i mondi premoderni, a una eventuale forma
politica. Infatti, il politico vero e proprio nasce con la modernità, pur
non essendo in essa il «momento soverchiante», ma una forma subordinata a quel (nuovo «soverchiante») «sovrasensibile» che è l’astrazione
intellettiva della razionalità (capitalistica) o, appunto, della sia pur “disincantata” ragione moderna.
Disincantata. La politica moderna si emancipa dalla religione, come
vuole Machiavelli? La differenza tra la fede nell’ascesa (o l’ascesa certificata dalla fede) e la, invece, “disincantata” ipotesi delle opposte alternative sempre incombenti — o verso un “alto” o verso il “basso” —,
nel corso storico, è anche la differenza tra la religione, in specie il protestantesimo, e la politica moderna. Peraltro, l’incontro–scontro tra fede e ragione non coincide con quello tra religione e politica, perché la
fede non è estranea al razionalismo moderno. Di fede si nutre anche
l’Illuminismo, almeno in quella sua componente che è il deismo o il culto dell’Ente supremo (come culto della Ragione appunto) e persino nell’altra sua componente che è l’a–teismo (in quanto convinzione della
non–esistenza di Dio, ossia credenza in una “verità” non dimostrabile).
Per la ragione moderna sono possibili le «più diverse combinazioni (per
esempio con la religione e perfino con la superstizione)»26; anche quando, secondo Leopardi, l’essere umano «ha permesso alla ragione di svi-
25
Cesare Luporini, Critica della politica e critica dell’economia politica in Marx, articolo
pubblicato da “Critica marxista”, XVI, 1, 1979, p. 36.
26
Cesare Luporini, Giacomo il filosofo, in “L’Unità” del 19 luglio 1987.
L’antistoricismo anticipazione filosofica della crisi?
17
lupparsi troppo, di diventare troppo autonoma»27. L’ottimismo illuminista, fatta eccezione forse per Voltaire e pochi altri, nutriva la sua fede in
un sicuro e infallibile Progresso, nuova divinità terrena, inteso come
progresso della ragione innanzi tutto. La scienza odierna è ancora animata da una simile fiducia metodologica nel suo progresso. La politica
moderna concepita da Machiavelli, invece, ha una delle sue radici nel
moderno pessimismo che, secondo la visione leopardiana, nutre ancora
una sua “certezza”, ma come certezza del moderno correre verso la barbarie. Diversamente, nella versione gramsciana (“pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”), la politica ragionata giudica che
possano vincere, a seconda delle circostanze e dell’iniziativa umana, o
la barbarie o una nuova e superiore civiltà. Potremmo forse aggiungere
che lo storicismo conservatore distende sul passato uno sguardo ottimista, laddove lo storicismo gramsciano comprende meglio, e più a fondo,
il passato perché il suo sguardo è pessimista («pessimismo dell’intelligenza»), ma indirizza verso il futuro possibile un suo «ottimismo della
volontà» come volontà etico–politica di «riforma intellettuale e morale». Si suol dire che Marx sarebbe stato un freddo “a–moralista”, nelle
sue intenzioni di scienziato sociale o di economista, e invece un indignato fustigatore di ingiustizie e di cinismi, nel suo profondo animus di storico e di filosofo. Converrebbe dire, meglio, che ha potuto comprendere la logica e la storia autentiche del capitale proprio perché è stato animato dall’ispirazione etica propria del suo presente storico e della sua
“parte” politica. Non a caso, Gramsci ammira in Marx il «sarcasmo appassionato». E un indignato sarcasmo può spronare il politico più intransigente e lo storico più rigoroso a riscoprire la “verità” dei fatti presenti o passati anche attraverso le altrui menzogne o gli altrui silenzi.
Per Luporini il politico (o il rapporto dirigenti–diretti) non è lo statuale, ma «lo contiene come specificazione»28. E, osservo, lo Stato nasce sul finire del moderno capitalismo, che avverte il bisogno di affidare alcuni suoi compiti al potere statuale, per opporre rimedio alla sua crisi organica sempre più acuta. Lo Stato si affaccia, così, come Stato totalitario. Anche il capitale come razionalità semplice, per rivivere o per
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Cesare Luporini, Leopardi moderno, in “l’Espresso”, 1 marzo 1987, p. 112.
Cesare Luporini, Critica della politica e critica dell’economia politica in Marx, in “Critica
marxista”, XVI, 1, 1979, p. 31.
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Giuseppe Prestipino
sopravvivere, deve farsi capitale–scienza (o razionalità complessa), che
è come dire generale–universale, ma ancora nei modi di un “soggetto”,
o di un sapere–potere, singolare–privato. Sullo Stato bisogna precisare
che quel suo manifestarsi novecentesco non è generalizzabile o almeno
che quella sua pretesa di “totalità” assume significati diversi nelle diverse teorie filosofico–politiche dei grandi pensatori. Rousseau, che ritiene libero e incontaminato ciascun individuo prima del contratto sociale,
giudica lo Stato come un possibile rimedio ai mali sociali, se soltanto
nello Stato (e nel conformarsi alla «volontà generale») il cittadino può
ridiventare libero. Questo stesso concetto (ma senza il mito dell’individuo pre–sociale e perciò felice) è in Hegel, il quale tuttavia dissocia la
totalità statuale dalla pacifica “cosmopoliticità” di estrazione kantiana,
sia perché giudica salutare e insopprimibile la guerra, sia perché vede
incarnata nel singolo Stato di volta in volta trionfante una missione “cosmico–storica” universalmente umana, reinterpretando la vecchia teoria
della traslatio Imperii. Una tale dissociazione ha indotto molti interpreti a considerare, erroneamente, contraddittorio il liberalismo di Hegel e
persino a considerarlo una anticipazione del totalitarismo novecentesco.
Teorico di quest’ultimo è invece il neo–hegeliano Gentile. E Gramsci?
Gramsci è, nella sua concezione dello Stato, scolaro di un Hegel emendato da Rousseau e da Kant. Scolaro di Hegel perché giudica lo Stato,
in specie lo Stato prefigurato per il futuro, come Stato etico e come Stato
educatore nel segno della libertà e dell’autogoverno, ma senza il distacco tra governanti e governati. È continuatore di Rousseau, d’altronde
(come sostiene Coutinho), il Gramsci teorico della «volontà collettiva»,
che soltanto in una fase preliminare, e agonistica, può essere interpretata da un «moderno Principe». È kantiano perché anche il suo ideale non
utopico guarda a un ordine universalmente umano come esito di un internazionalismo solidale, inscindibile però dal radicalmente nazionale
del nuovo soggetto storico. Peraltro, il concetto hegeliano di una nazione che si impone sulle altre con la sua potenza, quando le circostanze
storiche le offrano la possibilità, quel concetto si ritrova in Gramsci, non
certo come auspicio per l’avvenire, ma come diagnosi del passato e del
presente storico, quando scrive che egemonia e/o dominio non sono
esercitati soltanto da una classe sociale sulle altre, o da una cultura sulle altre, ma anche da uno Stato sugli altri (o da una regione su altre regioni), nel mondo pre–capitalistico così come in quello capitalistico.