Donwload

annuncio pubblicitario
ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
QUADERNO
NUMERO 2004/1
L’AVVOCATO
DEL MINORE
W W W. A I A F - A V V O C A T I . I T
Con questo Quaderno, dedicato all'"Avvocato del minore",
l'AIAF inaugura una nuova iniziativa editoriale, una collana di
pubblicazioni periodiche, a supplemento della Rivista.
I Quaderni raccoglieranno gli atti dei nostri Convegni e gli
interventi tenuti da avvocati, docenti universitari, magistrati,
sociologi, psichiatri, psicologi, mediatori familiari, etc., ai Corsi
di formazione e aggiornamento professionale promossi dall'AIAF
sui temi del diritto di famiglia e minorile.
Il contributo di questi Autori, unito alla quotidiana operatività
dei Colleghi soci AIAF nelle locali sedi giudiziarie, ha
consentito un'approfondita, specifica ed aggiornata elaborazione
della materia, avendo come riferimento l'evolversi delle
problematiche delle persone e della famiglia nella società,
l'attività del legislatore, gli orientamenti interpretativi della
giurisprudenza e della dottrina.
Ne è scaturito un patrimonio di sapere che è collettivo, e che
oggi l'AIAF sente il dovere di portare fuori dai propri ambiti
associativi, per una divulgazione informativa e formativa sempre
più ampia.
Un ringraziamento sentito a tutti coloro che hanno consentito
questo risultato.
Milena Pini
Direttore della Rivista AIAF
AVVERTENZE
Gli Autori dei testi pubblicati, avendo collaborato
con l'AIAF al fine di sostenere la Sua attività associativa, di promozione culturale e formativa nel
campo del diritto di famiglia e minorile, hanno
autorizzato l'AIAF all'utilizzo del loro contributo,
a mezzo stampa o con ogni altro tipo di supporto, compreso cd-rom o altri supporti elettronici,
senza richiedere alcun corrispettivo e con rinuncia a richiedere e percepire da parte della stessa
Associazione, i diritti di autore conseguenti all'eventuale pubblicazione, utilizzazione economica,
distribuzione e commercializzazione, a mezzo
stampa o altro tipo di supporto elettromagnetico.
Conseguentemente, l'AIAF a tutela degli Autori e
dei loro elaborati, comunica ad ogni effetto di
legge, che l'utilizzo del materiale che viene
messo a disposizione dell'Utente è permesso solamente per scopi personali e privati, e ne è vietata
la riproduzione anche parziale.
In caso di violazione di tale divieto, AIAF e i singoli Autori si riservano il diritto di agire in sede
giudiziaria per il risarcimento dei danni subiti.
ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
QUADERNO
NUMERO 2004/1
L’AVVOCATO
DEL MINORE
IL QUADERNO RACCOGLIE I TESTI
DELLE RELAZIONI TENUTE DURANTE IL
“CORSO DI FORMAZIONE PER
L’AVVOCATO DEL MINORE”
(L. 149/2001)
LUCCA, VILLA BOTTINI
21.09.02-22.06.03
IL CORSO È STATO ORGANIZZATO
DALL’AIAF TOSCANA, CON
CONTRIBUTI E PATROCINI DI:
COMUNE DI LUCCA
ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LUCCA
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI
LUCCA
CENTRO PER LA FORMAZIONE E
L’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE DEGLI
AVVOCATI DEL CONSIGLIO NAZIONALE
FORENSE
IRC – CENTRO DI RICERCA INNOCENTI
PER L’UNICEF - FIRENZE
ORDINI DEGLI AVVOCATI DI FIRENZE, PISA,
LIVORNO E SIENA
DOTT. A.GIUFFRÈ EDITORE SPA
SUPPLEMENTO AD
AIAF RIVISTA
ANNO IX - N° 1,
GENNAIO-APRILE 2004,
NUOVA SERIE QUADRIMESTRALE
Redazione
GALLERIA BUENOS AIRES 1,
20124 MILANO
TEL. E FAX 02.29535945
EMAIL: [email protected]
WEB: WWW.AIAF-AVVOCATI.IT
Direttore responsabile
MILENA PINI
Comitato di redazione
GIAN ETTORE GASSANI
NICOLETTA MORANDI
ANTONINA SCOLARO
Stampa
TIPOGRAFIA
QUATRINI A. & FIGLI SNC
V. S.LUCIA 43-47,
01100 VITERBO
Spedizione
POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. - 70% DCB VITERBO
SOMMARIO
7
Introduzione
CARLA MARCUCCI
(PRESIDENTE AIAF TOSCANA)
I bambini nel tempo dei diritti_
9 Il minore come soggetto processuale
GIUSEPPE MAGNO
(CONSIGLIERE DI CASSAZIONE)
23 La grammatica dei diritti dell’infanzia
ELIGIO RESTA
(ORDINARIO DI SOCIOLOGIA
DEL DIRITTO,
UNIV. ROMA TRE)
30 I diritti dei minori: ieri, oggi, domani
PAOLO CENDON
(ORDINARIO DI DIRITTO PRIVATO, UNIVERSITÀ
DEGLI
STUDI
DI
TRIESTE)
44 Come parlare ai bambini
LAURA VISMARA
(ASSEGNISTA RICERCA UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA)
Il bambino e la sua famiglia_
53 Paternità, maternità e filiazione – I procedimenti di stato
ANGELO VACCARO
(PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI
POTENZA)
85 La famiglia normale ed il suo ciclo vitale - La genitorialità –
Coppia e famiglia nel processo di separazione Formazione, sviluppo e crisi del rapporto di coppia
LILIA GAGNARLI
(PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA,
DIDATTA DELL’ISTITUTO DI
TERAPIA FAMILIARE
DI
FIRENZE)
87 La potestà genitoriale: titolarità, contenuti ed esercizio
FRANCESCO DONATO BUSNELLI
(ORDINARIO DI DIRITTO CIVILE – SCUOLA SUPERIORE DI STUDI UNIVERSITARI E DI PERFEZIONAMENTO “S.ANNA” DI PISA)
107 Il “trauma” della separazione nell’infanzia
GIULIA DEL CARLO GIANNINI
(L.D. IN NEUROPSICHIATRIA INFANTILE)
129 Il minore conteso
FRANCESCO CANEVELLI
(PSICHIATRA, PRESIDENTE
DELLA
SOCIETÀ ITALIANA
DI
MEDIAZIONE FAMILIARE)
Il minore tra protezione e tutela_
168 I Giudici che si occupano di minori
MAGDA BRIENZA
(PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI
ROMA)
172 L’esecuzione dei provvedimenti concernenti la persona del minore
MAGDA BRIENZA
(PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI
ROMA)
186 L’affidamento familiare consensuale
MARIA ANTONIETTA GUIDA
(GIÀ GIUDICE TUTELARE IN MILANO,
PSICOLOGA)
193 Idoneità genitoriale e procedure di controllo della potestà
Ordini a tutela del minore
PIERCARLO PAZÈ
(PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
PRESSO IL
TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI
TORINO)
210 La tutela civile dei diritti della personalità e giusto processo
GUSTAVO SERGIO
(PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
PRESSO IL
TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI
VENEZIA)
224 L’affidamento familiare secondo la L. 149/01
Essere “genitori” ed essere “figli” nell’affidamento familiare
ONDINA GRECO
(PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA CENTRO STUDI E RICERCHE SULLA FAMIGLIA UNIVERSITÀ CATTOLICA DI MILANO)
5
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
230 L’adozione secondo la L. 149/01 (aspetti sostanziali e procedurali
con particolare riferimento alle novità introdotte dalla riforma)
LUIGI FADIGA
(PRESIDENTE DELLA
SEZIONE FAMIGLIA DELLA
CORTE D’APPELLO
DI
ROMA)
L’avvocato del minore_
260 La capacità del minore in relazione all’esercizio dei suoi diritti
FRANCESCA GIARDINA
(STRAORDINARIO DI DIRITTO
CIVILE
UNIVERSITÀ
DEGLI
STUDI
DI
PISA)
277 Cronaca e pubblicità del processo penale.
La tutela del minore vittima del reato
GUSTAVO SERGIO
(PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
PRESSO IL
TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI
VENEZIA)
292 Il “dilemma dell’avvocato del minore” nell’esperienza americana
CARLA MARCUCCI
(PRESIDENTE SEZIONE TOSCANA AIAF)
318 Minori in difficoltà: scenari tipici, rappresentazioni, bisogni
FRANCESCO CANEVELLI
(PSICHIATRA, PRESIDENTE
DELLA
SOCIETÀ ITALIANA
DI
MEDIAZIONE FAMILIARE)
346 Deontologia e responsabilità sociale: l’avvocato e il minore
ALARICO MARIANI MARINI
(VICE PRESIDENTE DEL CENTRO PER LA FORMAZIONE E L’AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE DEGLI AVVOCATI DEL C.N.F.)
Quale avvocato per il minore. Proposte per un modello italiano_
356 The Child-in-Context: the Peters’ Model
JEAN KOH PETERS
(CLINICAL PROFESSOR
AND
SUPERVISING ATTORNEY - YALE LAW SCHOOL, NEW HAVEN,U.S.A.)
369 Legal Representation of Children in Australia and England
DAVID TRUEX
(SFLA ACCREDITED SPECIALIST FAMILY LAWYER, LONDON, U.K.)
381 Il curatore processuale - ovvero, l’avvocato del minore?
MARIA ENRICA MAZZA TEUBNER
(AVVOCATO SPECIALISTA IN DIRITTO
6
DI FAMIGLIA,
FRANCOFORTE,GERMANIA)
I
n questi ultimi anni la promulgazione di due leggi, la L. 28 marzo 2001, n. 149
e la L. 20 marzo 2003, n. 77, aveva fatto ben sperare che anche in Italia fosse
finalmente maturata ed accolta l'idea che un bambino debba avere voce nei
giudizi nei quali si discuta e decida delle sue relazioni più significative e, quindi, in definitiva della sua esistenza.
La legge di riforma dell'adozione è in vigore ormai da quasi tre anni mentre la
Convenzione di Strasburgo per l'Italia lo é dal 1 novembre 2003, ma la rivoluzione copernicana che ci attendevamo dai cambiamenti che l'una e l'altra impongono nel modo stesso di concepire il bambino - non più minore, nel senso di soggetto/oggetto che soggiace all'adulto, bensì persona, cittadino, seppur in crescita
- pare molto lontana dal realizzarsi.
L'illusione della consumazione di un così importante passaggio, epocale, da un
bambino "parlato" ad uno "ascoltato", è durata solo il tempo necessario per rendersi conto di cosa ne è stato di queste norme, piene di buone intenzioni, dopodiché al suo posto è subentrato lo sconforto nella consapevolezza che tutto è solo
apparentemente cambiato, ma in effetti
niente è realmente cambiato.
Tutta la parte processuale della legge
149, peraltro assai confusa e lacunosa, è
stata congelata, non è mai diventata operativa, e bisogna veramente essere molto
ottimisti per sperare ancora che quello al
30 giugno 2004 sarà l'ultimo differimento della sua più volte inutilmente preannunciata operatività.
Di cosa ne è stato della portata della Convenzione di Strasburgo del 1996 sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, nella attuazione che l’Italia intende darne con la
sua ratifica, ci rendiamo conto se andiamo a verificare le ipotesi normative alle
quali l’ordinamento italiano applicherà i principi della convenzione europea.
Al momento del deposito dello strumento di ratifica, il 4 luglio 2003, nel dichiarare, come richiede la Convenzione, a quale tipo di giudizi verranno applicati i
principi in essa contenuti, l’Italia non ha, infatti, compreso tra essi quelli di
divorzio, separazione, affidamento dei figli, adozione, esercizio della potestà,
come invece hanno fatto gli altri paesi ratificanti, ma solo quei giudizi in riferimento ai quali il nostro ordinamento aveva già previsto che il sedicenne avesse
pieno titolo a parteciparvi o perché legittimato all’azione o perché chiamato ad
esprimere un consenso all’attività dell’adulto e, quindi, in definitiva casi rispetto
ai quali non si presentano rilevanti difficoltà in ordine alla interpretazione della
volontà di tale soggetto.
La Convenzione dovrà poi applicarsi a quei giudizi che hanno ad oggetto l’annullamento ad istanza del figlio di atti relativi al patrimonio compiuti dai genitori
(Artt. 322 e 323 cod. civ.), e quindi in riferimento a questioni meramente patrimoniali per le quali era già possibile la nomina di un curatore speciale in caso di
conflitto di interessi tra genitori e figli di qualsiasi età (artt. 320 e 321 cod. civ.).
Possiamo dunque affermare che siamo abbastanza fuori tema rispetto all’oggetto
della Convenzione di Strasburgo che, nello specificare quali siano i procedimenti giudiziari che riguardano i bambini, si riferisce espressamente a “i procedimenti familiari, segnatamente quelli che riguardano l’esercizio delle responsabilità
dei genitori ed in particolare, la residenza ed il diritto di visita ai bambini”.
È proprio quindi il caso di dire che in Italia abbiamo fatto tanto rumore per nulla.
Alla luce delle brevi osservazioni che precedono l’iniziativa che l’Aiaf Toscana
ha realizzato a Lucca, avviata nel settembre 2002, sull’onda lunga dell’entusiasmo conseguente alle attese sollecitate dalla legge 149, e conclusasi nel giugno
2003, accompagnata dalla rassicurante idea che l’allora freschissima autorizza-
INTRODUZIONE
AVV.
CARLA
MARCUCCI
PRESIDENTE AIAF TOSCANA
7
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
zione alla ratifica della Convenzione di Strasburgo avrebbe finalmente dato un
riconoscimento non solo formale al bambino nel processo civile, potrebbe apparire un’esperienza un po’ donchisciottesca.
Ma come spesso succede in tutte le imprese di tal genere, questa esperienza ha
lasciato in tutti noi che vi abbiamo partecipato il senso di aver ricevuto molto, di
aver scambiato idee e pensieri che dovranno sedimentare e maturare ma che ci
hanno già dato qualcosa di nuovo e di prezioso.
Certamente già il fatto di riunirci sistematicamente, con cadenza di due volte al
mese lungo tutto un anno accademico, ci ha fatto sentire di essere tornati un po’
a scuola, non solo ad imparare ma anche a pensare insieme, cosi costruendo nel
contempo una circolarità di idee e di esperienze che ha unito gli ordini forensi,
tutti presenti attraverso gli iscritti provenienti dalle varie città toscane, nel comune interesse per questo tema.
È stato un appuntamento piacevole, interessante, anche molto faticoso, il cui
risultato oggi vogliamo condividere con tutti coloro che sono interessati all’argomento che ci ha tanto impegnato ed appassionato.
Come sempre, l’esperienza vissuta è ben diversa e più arricchente delle pagine
semplicemente lette ma questo materiale, che i vari relatori hanno messo generosamente a disposizione, rappresenterà certamente un seme dal quale potranno
germogliare pensieri ed iniziative ulteriori. Solo una tappa in un lungo percorso
che ci vedrà impegnati, come associazione e come singoli, in obiettivi sempre più
ambiziosi perché è vero che “non si smette mai di imparare”.
Vorrei approfittare di questa ulteriore occasione per ringraziare ancora una volta,
anche a nome dei soci dell’Aiaf Toscana e degli iscritti al corso, tutti coloro che,
credendo nell’iniziativa, l’hanno patrocinata e/o sovvenzionata: l’Ordine degli
Avvocati di Lucca ed il Comune di Lucca, gli Ordini forensi di Firenze, Pisa,
Livorno e Siena, il Centro per la Formazione e l’Aggiornamento Professionale
degli Avvocati del Consiglio Nazionale Forense, la Fondazione Cassa di
Risparmio di Lucca, la casa editrice Dott. A. Giuffrè Editore s.p.a., il Centro di
Ricerca Innocenti per l’Unicef - Firenze IRC .
Desidero rinnovare i ringraziamenti ai numerosi relatori, appartenenti a diverse
professionalità, che hanno ben inteso il ruolo particolare di docenti per un pubblico di avvocati, e a coloro che, pur non comparendo in questo quaderno per non
essere intervenuti con una relazione, hanno svolto un ruolo altrettanto importante nell’ambito del corso o dei convegni, inaugurale e conclusivo, presiedendo le
varie sessioni e coordinando i lavori.
Fra questi il mio grazie va all’Avv. Luisella Fanni, componente del Consiglio di
Presidenza dell’Aiaf, all’Avv. Alberto Belli, Presidente del Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Lucca, al Dott. Giuseppe Quattrocchi, Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Lucca, al Dott Pasquale Andria, Presidente
dell’Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, alla
Professoressa Roberta Clerici, Ordinario di diritto internazionale presso
l’Università degli Studi di Milano.
Mi scuso con tutti gli altri, che non posso citare singolarmente per ragioni di spazio, che hanno voluto essere vicini a noi durante l’esperienza formativa, anche
con un semplice saluto, attestando con tale presenza la loro condivisione degli
obiettivi perseguiti con il corso.
E spero che ci potremo ritrovare insieme un giorno, non troppo lontano, a discutere dell’attuazione che ha avuto in Italia la figura dell’avvocato del “minore”
piuttosto che a prefigurare quella che potrebbe avere.
Vorrebbe dire che anche da noi qualcosa sarebbe finalmente davvero accaduto.
LUCCA, 12 APRILE 2004
8
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
1. PREMESSA
A
SOMMARIO
1. Premessa
2. Dalla protezione dell’infanzia al
riconoscimento della titolarità di diritti
3. L’esercizio dei diritti del minore nelle
controversie familiari
4. Il minore come parte nei giudizi di
separazione e divorzio dei genitori
5. La difesa dei diritti del minore nei casi di
sottrazione internazionale
gli inizi del secolo scorso fu avvertita, negli Stati
Uniti d’America e nei principali Paesi europei,
l’esigenza di attribuire ad organi giudiziari o
para-giudiziari specializzati la competenza a trattare e
decidere le questioni relative a quei comportamenti
dei minorenni che oggi definiremmo “devianti”. Si
pensava, infatti, che le particolari caratteristiche di
una personalità in piena fase evolutiva, come quella
del minore di età, dovessero essere tenute in considerazione da specialisti del
settore, allo scopo di pervenire a decisioni confacenti sia alle esigenze di
tutela sociale sia a quelle di corretto sviluppo della personalità del soggetto.
L’organo istituito sulla base di questa
avvertita necessità - giudice minorile
o tribunale per i minorenni - ebbe pertanto una connotazione essenzialmente correzionale o penale e le procedure
adottate per i giudizi davanti a tale
organo (valga per tutte, come esempio,
l’Ordonnance sur l’enfance délinquante, approvata in Francia nel 1945)
furono di carattere penale.
Non esattamente la stessa tendenza fu
seguita in Italia, ove già la legge istitutiva del tribunale per i minorenni,
all’articolo 32, attribuiva al neo-istituito organo giudiziario minorile una
serie di competenze nel campo civile, essenzialmente in materia di esercizio
della potestà dei genitori (all’epoca, “patria” potestà), di tutela e di adozione.
Lo spettro delle competenze civili del tribunale per i minorenni è stato poi
sempre più ampliato, fino a comprendere tutti gli affari elencati dall’articolo
38 delle disposizioni di attuazione del codice civile, quale si legge dopo le
più recenti modifiche legislative.
L’attribuzione di competenze di ordine civilistico al giudice minorile, però, se
risolve in radice i problemi sorgenti dalla necessità di assicurare sempre al
minore una considerazione competente ed univoca - sia che si presenti come
vittima di abusi e bisognoso di protezione sia che (di solito, egli stesso) assuma comportamenti devianti -, apre la strada, per altro verso, ad una complessa
problematica che il Legislatore italiano, finora, non ha compiutamente risolto.
A differenza del minore imputato, i cui diritti sono ben noti e sufficientemente tutelati, quello che compare - o che dovrebbe comparire - davanti al giudice civile, nei casi previsti dal citato articolo 38 o nell’ipotesi di divorzio dei
genitori o in altre ipotesi aggiunte di recente, è una figura quasi inconsistente sul piano processuale: fin troppo protetta, in un senso - per così dire socio-familiare, cioè da parenti e da assistenti sociali, ma quasi totalmente
priva di tutela giuridica.
Protetta, ma non tutelata. L’apparente ossimoro si spiega considerando che,
per l’effettiva tutela giuridica degli interessi del minore in materia civile,
davanti all’organo giudiziario competente, sarebbe necessario:
IL MINORE COME
SOGGETTO PROCESSUALE
DOTT.
GIUSEPPE
MAGNO
CONSIGLIERE DI
CASSAZIONE
9
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
1° che sia riconosciuta direttamente al minorenne (e non, per esempio, al
genitore, in quanto esercente la potestà) la titolarità di alcuni diritti;
2° che di tali diritti egli abbia il libero esercizio, anche davanti al giudice,
attraverso adeguati strumenti di rappresentanza e di assistenza;
3° che egli, rappresentato ed assistito convenientemente, abbia accesso ad
una difesa tecnica autonoma, disponga cioè di un proprio avvocato difensore, abilitato ad introdurre e gestire le necessarie procedure, a parità di condizioni con gli altri difensori.
In mancanza anche di uno soltanto di questi presupposti, che fanno del minore un “soggetto” e non più un “oggetto” processuale, la terzietà e l’imparzialità del giudice in materia civilistica minorile sono sopraffatte dalla necessità di salvaguardare ex officio i diritti dell’indifeso ed assumono inevitabilmente una deriva protezionistica, che mal si addice ad un organo giudiziario
e che può giungere fino al punto di farne porre in dubbio la stessa natura giurisdizionale.
Come cercherò di spiegare in seguito, il primo dei presupposti indicati - titolarità di diritti da parte del minorenne - è stato realizzato, specialmente
mediante la ratifica della Convenzione di New York del 1989, sulla quale
dovrò soffermarmi brevemente.
Il secondo obbiettivo - esercizio dei diritti, da parte del minorenne, davanti
al giudice - potrebbe essere agevolmente raggiunto mediante la ratifica della
Convenzione di Strasburgo del 1996, alla quale pure farò qualche accenno.
Il terzo obbiettivo - concernente la difesa tecnica del minorenne nel giudizio
civile - può essere centrato solo se si dispone di organismi efficienti di protezione dell’infanzia, di un albo di avvocati specialisti e di una valida normativa per la difesa del minorenne a spese dello Stato.
Di organismi per la protezione e promozione dei diritti dell’infanzia, come un
“garante”, si parla da tempo, ma in termini che sembrano ancora alquanto
vaghi. Si apprezza, invece, un certo fervore - e questo Corso ne è un esempio
- sul fronte della specializzazione dei professionisti legali: forse si riuscirà,
sull’onda di questo entusiasmo, a creare appositi albi - già inutilmente previsti dalla legge per la difesa d’ufficio del minorenne in materia penale -, in cui
iscrivere gli specialisti della difesa autonoma del minorenne nel processo
civile. L’occasione propizia è fornita dall’articolo 17 della legge 29 marzo
2001, n.134, istitutiva del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti: e
poiché tali debbono considerarsi, nella loro stragrande maggioranza, i minorenni, occorrerebbe soltanto curare che, al momento di sbloccare l’intera normativa - tuttora sterilizzata perché la difesa dei non abbienti non costituisce
attualmente una priorità politica -, gli albi previsti dalla norma ora citata
comprendano distintamente gli specialisti nella difesa minorile.
In mancanza di tale previsione, non si darà un effettivo esercizio dei diritti
del minore in sede civile e resterà lettera morta, in particolare, la disposizione contenuta nell’articolo 37, terzo comma, della legge 28 marzo 2001,
n.149, che prevede la difesa a spese dello Stato nelle procedure concernenti
l’esercizio della potestà dei genitori, cui si riferisce l’articolo 336 c.c.. È
autoevidente, infatti, che l’espressione contenuta nel terzo comma citato (“i
genitori e il minore sono assistiti da un difensore”) va interpretata sciogliendo l’ellissi che vi si nasconde, nel senso che, come ciascun genitore potreb10
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
be essere rappresentato da un distinto difensore, in caso di conflitto d’interessi, così anche il minorenne deve poter disporre del proprio difensore, al
fine di accampare in giudizio le proprie giuste ragioni, eventualmente in contrasto con quelle dei genitori, dai quali altrimenti - cioè fuori dall’ipotesi di
conflitto - sarebbe rappresentato. Questa conclusione, d’altra parte, corrisponde pienamente alle previsioni del codice di procedura civile in materia
di nomina del curatore speciale (articoli 78 e seguenti), le quali hanno avuto,
finora, scarsa o stereotipata applicazione in campo minorile, ma la cui importanza si rivela attuale e concreta alla luce dei nuovi indirizzi sulla titolarità e
sull’esercizio dei diritti dei minori.
2. DALLA PROTEZIONE DELL’INFANZIA
AL RICONOSCIMENTO DELLA TITOLARITÀ DI DIRITTI
l cambiamento di rotta, verificatosi dapprima sul piano del diritto internaIautonoma
zionale, dalla protezione dell’infanzia al riconoscimento della titolarità
di diritti in capo al minorenne, merita un sommario accenno.
Nel Preambolo della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, del
20 novembre 1989, ratificata con legge 27 maggio 1991, n.176, si riconosce
testualmente che “il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo
della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare, in un clima di
felicità, di amore e di comprensione”.
Questa formula non ha, ovviamente, un contenuto giuridico immediatamente
precettivo; non tanto perché è inserita nel Preambolo, quanto perché esprime
un’aspirazione, un desiderio universalmente condiviso, purtroppo frustrato
dai troppi casi di maltrattamento, di sfruttamento e di sradicamento abusivo
dei fanciulli. Vale, in ogni caso, a far comprendere in limine che, se esiste il
dovere di garantire al fanciullo uno sviluppo armonioso e completo della personalità nell’ambito della sua famiglia, ciò significa che egli ne ha diritto. Si
passa così dal concetto di “protezione” dell’infanzia, accolto nelle varie
Carte precedenti, a quello di riconoscimento di diritti propri del fanciullo.
Il nostro Legislatore traduce correttamente, infatti, il concetto nei termini
giuridici seguenti: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia”: dove, come si vede, la comune aspirazione a
tutelare lo sviluppo del fanciullo, ancorandolo al proprio contesto familiare
d’origine, si è trasformata non solo nel diritto-dovere dei genitori di provvedere alle esigenze dei loro figli e nel dovere dell’Ente pubblico di sostenere
la famiglia nell’assolvimento di questo compito (doveri già sanciti dalla
nostra Costituzione, all’articolo 30), ma soprattutto nel diritto personale del
bambino di esigere tutto ciò.
Questa novità è resa più evidente dal confronto con la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo che, sul presupposto della “mancanza di maturità fisica e intellettuale” del fanciullo, sanciva la “necessità di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo
la nascita”. L’articolo 2 della Convenzione del 1989 esordisce invece impegnando gli Stati a rispettare ed a garantire i diritti dei fanciulli enunciati nella
medesima. Ciò equivale a riconoscere, anche specificamente nei confronti
dei fanciulli, che la titolarità dei diritti consegue al semplice fatto di apparte11
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
nere al genere umano; perciò essi non vengono concessi, ma debbono essere
solo rispettati e garantiti, e la loro sussistenza non dipende dalla maggiore o
minore capacità e possibilità del titolare di esercitarli personalmente.
La Convenzione riveste dunque una grande importanza, perché impegna gli
Stati a rispettare, attuare e garantire effettivamente i diritti di ogni fanciullo
“che dipende dalla loro giurisdizione” (articoli 2 e 4). Sul significato esatto
e sulla portata integrale di quest’ultima espressione non si è ancora riflettuto
abbastanza; sembra lecito affermare, tuttavia, che i diritti elencati debbano
essere garantiti non solo ai fanciulli cittadini, ma a tutti quelli cui uno Stato
pretende fondatamente di applicare norme del proprio ordinamento. Possono,
pertanto, invocare il rispetto della Convenzione non solo i fanciulli residenti
legittimamente nel territorio dello Stato ratificante, ma anche quelli entrati
clandestinamente, posto che certamente dipendono (se non altro per le procedure di rimpatrio) dalla giurisdizione dello Stato sul cui territorio si trovano.
L’elencazione dei diritti riconosciuti universalmente al fanciullo è abbastanza lunga e comprende, essenzialmente, quelli relativi alla vita, all’identità
personale, alla cittadinanza, ad essere allevato ed a non essere separato dai
propri genitori, alla libera espressione e comunicazione delle proprie opinioni (se dotato di discernimento sufficiente), a professare liberamente una fede
religiosa, ad associarsi liberamente, al rispetto della vita privata, ad essere
informato, istruito ed educato, alla protezione contro ogni forma di violenza,
ad essere adottato da una famiglia idonea (se privo della propria), all’acquisizione (nei casi appropriati) dello statuto individuale di rifugiato, a godere
di speciali benefici in caso di handicap, alla protezione della salute, alla sicurezza sociale, ad un livello di vita adeguato ai propri bisogni, al riconoscimento dello statuto di appartenenza a minoranze etniche, religiose o linguistiche, al riposo, al tempo libero, al gioco, alla protezione contro lo sfruttamento economico, lavorativo e sessuale, contro l’uso illecito di stupefacenti
e contro i rapimenti, ad essere sottoposto ad un procedimento penale speciale se incolpato di reato (con esclusione della pena di morte e della prigione a
vita), al reinserimento sociale ed alla riabilitazione fisio-psichica.
Il riconoscimento al minorenne della titolarità diretta di alcuni diritti induce
a considerare, in primo luogo, la necessità di dotarlo di strumenti di assistenza e di rappresentanza idonei a metterlo nella condizione di esercitarli adeguatamente, superando anche il divario esistente nei confronti dell’adulto,
normalmente capace di tutelare in modo conveniente i propri interessi. A tal
fine, è stata attribuita al minorenne una posizione costante di maggior favore, di vantaggio iniziale, nelle leggi, nei giudizi e nelle procedure amministrative che lo riguardano; posizione di vantaggio significata dall’espressione “interesse superiore” o “preminente” del fanciullo: preminente, s’intende,
rispetto a quelli degli altri soggetti in gioco. Questo vantaggio, attribuito in
funzione dell’interesse superiore del fanciullo (articolo 3), s’inquadra nei termini di un antico istituto del diritto processuale civile, meglio conosciuto
come favor, e, come tutti i favores, sta ad indicare un aspetto della mens
legis, ossia una politica del legislatore, che si traduce in una precisa regola
ermeneutica per l’interprete del diritto.
In secondo luogo, l’abilitazione all’esercizio di propri diritti comporta principalmente - quando il fanciullo appare dotato di sufficiente capacità di discerni12
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
mento - quello di poter esprimere su ogni questione d’interesse, nel corso di procedure giudiziarie ed amministrative, opinioni e desideri che debbono essere
tenuti nel debito conto (articolo 12). Il che equivale a dire, in termini processual-civilistici, che la mancata motivazione, in ordine al rigetto di una richiesta
espressa dal fanciullo in sede di ascolto, costituisce motivo di gravame. Inoltre,
essendo evidente la necessità del fanciullo di essere assistito e, quando è il caso,
rappresentato nelle procedure che lo riguardano, i relativi compiti debbono essere compresi fra quelli dei genitori e tutori (articolo 5) ovvero debbono essere
svolti da soggetti ed organi ad hoc (articolo 12, 2° comma).
Questo tipo di evoluzione, verificatasi grosso modo durante gli ultimi vent’anni nelle sedi deputate alla creazione del diritto convenzionale internazionale, ha indotto notevoli mutamenti, in parte ancora inavvertiti, sul piano del
diritto interno, attraverso le leggi di ratifica. Un effetto, certo non secondario, di tale evoluzione consiste nella necessità di attuare la partecipazione
diretta del minorenne al processo vertente su questioni che personalmente lo
concernono, allorché la decisione giudiziaria è suscettibile di ledere taluno
dei diritti di cui egli è unico titolare.
Le forme ed i limiti della partecipazione del minorenne al processo saranno
solo sommariamente indicati in questa sede, in relazione a poche categorie di
litigi. Importa, invece, principalmente sottolineare la vastità e la delicatezza
del nuovo campo d’azione del professionista legale che, nell’assumere realmente e pienamente la funzione ed il ruolo di “avvocato del minore”, non
solo viene a distinguersi dal difensore dell’esercente la potestà genitoriale,
ma può trovarsi in contrasto con esso, essendo concettualmente diversi e non
sempre compatibili fra loro gli interessi dei rispettivi clienti.
Per concludere sul punto, sembra opportuno ribadire alcuni concetti, suscettibili peraltro di ben più approfondita riflessione:
1° non si dà autonoma rilevanza all’interesse del minore, se questo non si
traduce in diritti autonomamente esercitabili dal minore stesso e difendibili, a ministero del professionista legale, davanti all’organo giudiziario
competente;
2° il difensore del minorenne, per svolgere adeguatamente il suo compito,
deve avere una preparazione specialistica e deve poter riconoscere il
minorenne come suo unico cliente, ottenendo il pagamento dell’onorario
da lui stesso o dall’ente che ne garantisce il patrocinio gratuito;
3° senza una difesa indipendente del minore, non può funzionare correttamente l’organo giudiziario, specializzato o ordinario, che decide su questioni d’interesse minorile.
3. L’ESERCIZIO DEI DIRITTI DEL MINORE
NELLE CONTROVERSIE FAMILIARI
a Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a
Lavverte
Strasburgo il 25 gennaio 1996, è stata stipulata - come espressamente
il Preambolo - in ossequio all’articolo 4 della Convenzione del 1989,
il quale “esige che gli Stati Parti adottino tutte le misure legislative, amministrative e d’ogni altro genere necessarie per l’attuazione dei diritti riconosciuti” al minorenne. In particolare, la Convenzione di Strasburgo vuol dare
13
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
puntuale applicazione al richiamato articolo 12, 2° comma della
Convenzione del 1989, giacché ha lo scopo “di promuovere, nell’interesse
superiore dei fanciulli, i loro diritti, di attribuire loro dei diritti processuali e
di agevolarne l’esercizio, facendo in modo che essi possano, personalmente
o per mezzo di altre persone od organismi, essere informati ed autorizzati a
partecipare alle procedure giudiziarie che li riguardano” (articolo 1, 2°
comma). Un obiettivo non secondario è anche quello di favorire una certa
uniformità fra i diversi ordinamenti nazionali, “Considerando che lo scopo
del Consiglio d’Europa è quello di ottenere una più stretta unione tra i suoi
membri” (dal Preambolo).
Lo strumento internazionale in parola non contempla, tuttavia, qualsiasi procedura, bensì soltanto “quelle in materia familiare e, in special modo, quelle
concernenti l’esercizio delle responsabilità dei genitori, con particolare riferimento alla residenza ed al diritto di visita riguardo ai figli” (articolo 1,
comma 3). Il campo si restringe quindi, per quanto riguarda l’ordinamento
italiano, alle attività processuali di competenza del giudice minorile - sia in
materia di controllo sull’esercizio della potestà dei genitori sia in materia di
sottrazione internazionale dei minori, ai sensi della legge n.64 del 1994 - ed
a quelle di competenza del giudice ordinario, per l’affidamento dei figli
minorenni in occasione della separazione o del divorzio dei genitori.
La Convenzione di Strasburgo abilita il fanciullo ad intervenire nel corso di
queste procedure sia per esservi ascoltato ed informato sulle possibili conseguenze dell’attuazione dei suoi desideri e su quelle di ogni decisione (articolo 3) sia - al limite - per esercitarvi le prerogative tipiche della parte processuale, qualora gli Stati ritengano opportuno concedere anche tale possibilità.
Ma l’obbiettivo fondamentale non consiste nella mera attribuzione ai minorenni di alcuni poteri processuali, più o meno incisivi, quanto piuttosto nel
tentativo di spostare l’attenzione delle parti e del giudice, in caso di conflitto familiare, dalle ragioni degli adulti, spesso rumorosamente accampate, a
quelle del minorenne, di solito inascoltate perché sottaciute o esposte con
voce troppo flebile; ma non meno valide e degne di considerazione per lo sviluppo armonioso della sua personalità, attraverso il mantenimento di stabili e
sereni rapporti affettivi con entrambi i genitori. Non sembra trascurabile,
peraltro, il contributo oggettivo che l’intervento del fanciullo in giudizio può
dare alla comprensione delle dinamiche sfociate nella crisi della coppia.
La partecipazione del minorenne al giudizio non è vista, dunque, in chiave di
contrasto con le pretese dei genitori, bensì è strettamente finalizzata a rendere effettivo il godimento dei suoi propri diritti sostanziali, attraverso una
nuova strategia di attenzione verso la componente più debole del nucleo familiare. In questo senso, il punto 7 della relazione di accompagnamento della
Convenzione (rapport explicatif) chiarisce che questa “agevola l’esercizio dei
diritti sostanziali dei fanciulli, rafforzando o creando diritti processuali”.
Più in generale, ed ancora più profondamente, l’operazione consistente nel
dare voce a chi, per definizione, non ne ha (infans è, etimologicamente, colui
che non parla) è di quelle che acquistano un grande rilievo metaforico, come
annota Eligio Resta. Infatti, un processo in cui “hanno voce” tutti i titolari dei
diritti e delle posizioni giuridiche in gioco, compreso il bambino, è sicuramente più equo, ma anche più equilibrato e più ricco di spunti per la decisio14
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
ne, a beneficio di tutte le parti e, in definitiva, della società. Come sostiene
Francesco Tonucci a proposito di assetti urbanistici, se la città sarà costruita
in modo da essere più adatta ai bambini, risulterà più vivibile anche per i
grandi. La stessa cosa si può dire del processo, giacché non si può dimenticare che il catalogo delle parti fisiologicamente deboli comprende, oltre ai
minorenni, i non abbienti in genere, gli ignoranti e, spesso, anche le donne;
vale a dire almeno la metà del genere umano.
Alcune osservazioni sembrano ulteriormente utili, con riferimento ad alcuni
particolari litigi familiari.
La Convenzione parte dal punto di vista che il minorenne, purché dotato di
una certa capacità di discernimento, definita dai singoli ordinamenti statali,
abbia sempre interesse a partecipare al giudizio in cui si dibattono argomenti
di natura familiare che lo riguardano, per esservi ascoltato, per manifestare la
sua opinione o, eventualmente, per esercitarvi il ruolo di parte autonoma.
Tale punto di vista è esatto - a mio parere, con limitate eccezioni -, se riferito all’ascolto del minorenne. La concessione a quest’ultimo della facoltà di
essere parte, tuttavia, non corrisponde ad un grado di considerazione più elevato, in termini processuali, rispetto alla semplice possibilità di esprimere
opinioni in sede di ascolto. Potersi esprimere davanti al giudice e costituirsi
parte in giudizio non costituiscono, puramente e semplicemente, una differente gradazione di peso specifico processuale.
Essere parte in giudizio significa avere una posizione del tutto distinta da
quella di qualsiasi altro soggetto che interviene per attestare circostanze, per
deporre come persona informata sui fatti od anche per esprimere un punto di
vista o un’aspirazione, sia pure non indifferente o finanche determinante per
la decisione. La parte (ovvero chi ha un interesse giuridicamente riconosciuto ad essere tale) - e soltanto essa - ha il potere d’introdurre una procedura,
di proporre istanze, di contrastare o di sostenere quelle altrui, di addurre
mezzi di prova, di prendere conclusioni e d’impugnare la decisione. Tutto ciò
in perfetta autonomia rispetto alle altre parti.
Per esercitare le prerogative di parte processuale, ognuno ha bisogno di una
difesa tecnica ossia del ministero di un avvocato. Il minorenne, data la sua
particolare vulnerabilità, necessita di un difensore dotato di equilibrio non
comune e di buone conoscenze in campo psicologico.
Si deve aggiungere che l’avvocato può ben essere persona particolarmente
preparata, capace di assolvere da sola anche ai doveri di consiglio prudente,
di assistenza e di rappresentanza in giudizio, per il soddisfacimento di tutti i
diritti processuali del minorenne ai sensi degli articoli 3, 4 e 5 della
Convenzione; ma più comunemente si verificherebbe - si ritiene - l’ipotesi di
una pluralità di soggetti “consulenti”: organi, persone o enti che assistono il
minore nella sua vicenda familiare, che lo consigliano ed eventualmente lo
rappresentano anche in giudizio, fermo restando che egli dev’essere difeso
tecnicamente da un avvocato specialista. Tutto ciò comporta la predisposizione di efficienti, complessi e costosi apparati, impegnati a tempo pieno nella
gestione delle liti familiari, con una propensione a stare dalla parte dei fanciulli: apparati capaci di realizzare la mediazione (pure raccomandata dalla
Convenzione, all’articolo 13), di identificare e sostenere i reali interessi della
prole minorenne, fino a far intervenire, se necessario, i propri membri e gli
15
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
avvocati specialisti in giudizio.
Sono realizzabili, in breve tempo, apparati di questo genere? I disegni di
legge in discussione davanti alle Camere durante la XIII Legislatura non ne
facevano cenno. L’entità molto contenuta dello stanziamento previsto lasciava tuttavia comprendere che essi non erano affatto contemplati. Lo stesso
interesse di ambienti normalmente sensibili ai problemi minorili sembra piuttosto concentrato sulla ipotetica creazione di “difensori dell’infanzia” che,
naturalmente, nulla hanno in comune con gli enti e le categorie professionali, idonei ad affrontare la complessa realtà dell’assistenza e della difesa tecnica del minorenne in giudizio.
A conclusione di questa parte, non si può evitare d’insistere sull’importanza
di spostare l’attenzione dal tema della riforma legislativa - certamente necessaria, ma non sufficiente per l’effettivo funzionamento di qualsiasi sistema a quello dell’organizzazione e dell’incremento dei mezzi “materiali” (strutture, servizi, formazione - compresa quella degli avvocati, da inserire in albi
speciali -, patrocinio gratuito, ecc.) indispensabili per l’attuazione pratica
della riforma stessa. La maggior facilità (e visibilità) dell’innovazione legislativa rischia, infatti, di far prevalere questa parte dell’operazione, riducendola ad un “manifesto di buone intenzioni” che non incide efficacemente
sulla situazione precedente.
Allo stato attuale della nostra legislazione, le modifiche di carattere ordinamentale necessarie per adeguarsi totalmente allo spirito della Convenzione - se
tale è la volontà del Legislatore - non sono molte né molto significative, tanto
che la Convenzione potrebbe essere ratificata anche “a legislazione interna
invariata”, se non si desidera concedere da subito quegli ulteriori diritti e poteri processuali che essa non impone obbligatoriamente agli Stati ratificanti, ma
si limita a suggerire come “concedibili”. Se, però, s’intende cogliere l’occasione della ratifica per compiere ulteriori progressi nel campo del diritto minorile
interno, allora bisogna dedicare una particolare cura alla diffusione della cultura di protezione dell’infanzia, al rafforzamento degli organismi ed alla specializzazione dei professionisti cui il minorenne deve potersi utilmente rivolgere per l’attuazione dei diritti che la legge si limita ad enunciare.
4. IL MINORE COME PARTE NEI GIUDIZI
DI SEPARAZIONE E DIVORZIO DEI GENITORI
isogna chiedersi, a questo punto, se interessa veramente al minorenne
B
essere parte nei giudizi per la separazione o il divorzio dei suoi genitori.
In generale, bisogna rispondere di no. Essere riconosciuto quale titolare di
diritti e potersi esprimere liberamente al riguardo è molto importante e significativo; assumere la qualità di parte significa prendersi sulle spalle una
grave responsabilità, soprattutto per l’impostazione delle tattiche e delle strategie processuali, fatte sostanzialmente di dure contrapposizioni e di opportune (talvolta strumentali) alleanze, senza delle quali la causa si perde con
tutte le conseguenze relative, fra l’altro, alla sopportazione delle spese. Ora,
non si può immaginare che il minorenne venga coinvolto nella lite mediante
la presentazione di domande che non hanno alcuna possibilità di essere
accolte o che non siano adeguatamente sostenute. Né vale obiettare che, in
16
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
questo genere di controversie, non c’è un vincitore ed un perdente, dato che
si deve ricercare principalmente la migliore sistemazione possibile dei rapporti, nell’interesse della famiglia e della prole minorenne. In realtà, questo
è l’obbiettivo che il giudice deve avere presente, ma l’esperienza insegna che
le parti, dal canto loro, sono agguerritissime e che ciascuna tenta di tirare la
decisione dalla propria parte, mostrando spiccata sensibilità per le questioni
concernenti l’affidamento della prole e gli aspetti economici.
Il tentativo di contemperamento degli interessi va fatto nell’ambito della procedura di mediazione, laddove non si presentano particolari rischi per il
minorenne, dato che nessuno, in questa fase non processuale, riveste la qualità formale di “parte”, con le conseguenti contrapposizioni. La procedura
giudiziaria dovrebbe iniziare soltanto nei casi in cui la mediazione, di fatto,
non abbia avuto buon esito, e cioè quando la controversia assuma aspetti e
toni di patente inconciliabilità. L’occasione per il fanciullo di intervenire
come parte nel giudizio scatterebbe, quindi, soltanto in presenza di controversie non risolte in sede di mediazione ed il suo interesse dev’essere valutato, pertanto, con riferimento alle residue situazioni di accesa conflittualità.
In situazioni del genere, intervenire significa prendere posizione, pro o contro uno dei genitori oppure contro entrambi; significa, in ogni caso, avere una
pretesa propria, che riguarda la sistemazione futura (alloggiativa, scolastica,
economica, affettiva) all’interno del nuovo assetto familiare. Questa pretesa
non può mai toccare il fondo della controversia, riguardante le ragioni, le
modalità ed alcune conseguenze della separazione o del divorzio, in quanto
queste circostanze sono attinenti a diritti personalissimi dei coniugi; tuttavia
essa non può prescindere totalmente dalle posizioni accampate in giudizio
dai coniugi-genitori perché, ad esempio, la richiesta di affidamento del figlio
avanzata da uno dei due è sovente accompagnata dall’allegazione dell’incapacità o dell’immoralità dell’altro, sicché la domanda di affidamento ad uno
dei genitori comporta, anche indirettamente, il sostegno delle ragioni di lui e
l’opposizione a quelle dell’altro.
Queste prese di posizione, indispensabili quando s’interviene in giudizio, non
convengono al figlio minorenne, sia perché lo espongono ad assunzioni di
responsabilità ed a frustrazioni troppo gravi per la sua età sia perché, soprattutto, il suo maggior interesse non può non consistere nella conservazione di
buoni rapporti con entrambi i genitori, la qual cosa postula l’estraneità alla
contesa fra gli adulti. Certamente, poi, non è trascurabile il fatto che le decisioni - se costituirsi oppure no, se proporre determinate domande e fino a
qual punto sostenerle in caso di contrasto con uno dei genitori - sarebbero
prese da persone estranee alla famiglia che, anche se animate dalla massima
correttezza e lealtà professionale verso il minorenne, non potranno prescindere totalmente dai condizionamenti della propria mentalità.
Le questioni di famiglia, viste da un estraneo, non sono percettibili nell’interezza delle loro implicazioni affettive; il bambino sarebbe quindi portato ad
assumere posizioni valide, probabilmente, da un punto di vista processuale, ma
troppo asettiche ed insignificanti, o deleterie, sul piano affettivo. E tutto ciò
nella migliore delle ipotesi, quando i servizi necessariamente coinvolti siano
perfettamente funzionanti e costituiti da persone professionalmente e moralmente all’altezza del compito. Allo stato attuale, invece, non esistono i presup17
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
posti (albi di specialisti, cattedre ed istituti per la formazione adeguata di personale in numero sufficiente su tutto il territorio nazionale, provvidenze relative al gratuito patrocinio) idonei a fondare una previsione positiva di fattibilità.
La conclusione, circa l’opportunità di concedere al minorenne il potere di
costituirsi parte nelle controversie sopra indicate, è, dunque, sostanzialmente negativa; ma, d’altra parte, non totalmente negativa.
Bisogna infatti considerare che le più gravi difficoltà in questo campo s’incontrano allorché nel litigio familiare sono coinvolti figli ancora piccoli: non
tanto da non poter esprimere una propria opinione, ma abbastanza per assumere decisioni personali sufficientemente meditate e mature. Si potrebbe
giungere quindi a conclusioni parzialmente diverse, riguardo alla possibilità
di costituirsi parte in giudizio, se si considera la posizione dei figli minorenni appartenenti alla fascia d’età più elevata, compresa fra 16 e 18 anni.
In effetti, è alquanto difficile negare l’idoneità e l’interesse - quindi, potenzialmente, il diritto - del sedicenne di proporre le proprie richieste nell’ambito di una questione che, pur circoscritta essenzialmente agli adulti, tende a
produrre pesanti conseguenze sulle sue abitudini e prospettive di vita. È certamente molto importante e significativo per lui il fatto di essere almeno consultato e di sapere che la propria opinione, specie se adeguatamente motivata, sarà tenuta nella debita considerazione, ma ciò potrebbe non essere sufficiente. Infatti, tanto per fare un esempio, egli, in mancanza della qualità di
parte, non avrebbe modo (in senso giuridico-processuale) di dolersi di una
decisione che, erroneamente, avesse trascurato di considerare in maniera adeguata una sua giusta pretesa. Una prima limitazione, riguardo alla possibilità
di costituirsi in giudizio, dovrebbe essere quindi rappresentata dall’età, nel
senso che il relativo potere andrebbe concesso solo ai sedicenni, in conformità ad analoghe concessioni nel campo familiare (ad es., in materia matrimoniale e di filiazione). In questo modo sarebbe utilmente evitato, fra l’altro, il
problema del riconoscimento, caso per caso, del possesso di una capacità di
discernimento sufficiente.
Con riferimento specifico alla costituzione del figlio minorenne nei giudizi di
separazione e divorzio dei genitori, si tratta anche di circoscriverne l’intervento alle questioni di suo stretto interesse (affidamento, diritto di visita,
residenza, mantenimento, frequenza di corsi scolastici, ecc.), escludendo, per
quanto possibile, che le relative richieste e le argomentazioni utilizzate per
sostenerle interferiscano con le posizioni accampate dai genitori per la tutela
dei diritti e degli interessi di cui sono titolari esclusivi. Insomma, in questo
genere di cause, il figlio è un terzo, “diversamente” interessato alla controversia ed ai suoi possibili esiti. Discende da ciò una ulteriore limitazione,
fondamentale ed indispensabile, relativa al campo d’azione assegnato al
minorenne in questi giudizi, da circoscrivere rigorosamente alla tutela dei
suoi interessi strettamente personali, senza possibilità di valida ingerenza,
anche indiretta, nelle questioni concernenti i motivi, le modalità e le (altre)
conseguenze della separazione o del divorzio.
L’azione concessa al sedicenne, in riferimento ai giudizi di separazione e
divorzio dei genitori, è opportuno che sia chiaramente limitata, inoltre, quanto all’ammissibilità, nel senso che essa non deve potersi esperire autonomamente, in via principale, ma soltanto come intervento nel corso del giudizio
18
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
instaurato dai genitori. In altre parole, il figlio minorenne, oltre a non poter
proporre domande relative intrinsecamente alla separazione od al divorzio,
non deve neppure poter introdurre la causa indipendentemente dall’azione
dei genitori, sia pure soltanto per avanzare domande relative a suoi (presunti) interessi, come ad esempio quello di convivere con uno dei due. Si vuol
dire che non dev’essere data al figlio la possibilità, quando i genitori non
danno inizio ad una causa di separazione o di divorzio, di esercitare un’azione che, pur essendo relativa a suoi personali diritti ed interessi (come l’affidamento), presuppone che una tale causa sia in corso; il che equivarrebbe per assurdo - a dare al figlio minorenne il potere di avviare la procedura di
separazione dei genitori.
In questi casi, allorché i genitori non abbiano alcuna intenzione di separarsi o
di divorziare, ma il figlio minorenne (di qualsiasi età) pretenda con motivate
ragioni di convivere con uno di essi - abitanti, in ipotesi, in paesi diversi - o
di avere una particolare regolamentazione dei rapporti di visita con l’altro o
un maggiore contributo per il proprio mantenimento, ecc., la questione va
risolta “in famiglia” e, se ciò risulta difficile o impossibile, facendo ricorso
agli strumenti di mediazione familiare e, in ultima analisi, alle procedure giudiziali non contenziose di soluzione dei conflitti familiari (articolo 145 c.c.).
Infine, bisogna chiedersi in qual modo può interagire la volontà del figlio
minorenne, costituitosi nel giudizio di separazione o di divorzio, con quella
degli stessi genitori di riappacificarsi o, comunque, di trovare una soluzione
concordata ai loro problemi ed a quelli concernenti la sistemazione della prole.
Per una risposta coerente del sistema a questa domanda, si deve ricordare che
l’ordinamento favorisce in tutti i modi la riappacificazione tra i coniugi, non
solo mediante tentativi di conciliazione e predisponendo facili procedure di
omologazione degli accordi, ma accettando finanche di porre nel nulla il giudicato sulla separazione se i coniugi tornano a vivere insieme, in base ad una
semplice dichiarazione od anche al mero fatto del ricongiungimento (articolo 157, c. c.).
Questa tendenza dell’ordinamento, ispirata al favor matrimonii, dev’essere
mantenuta, ovviamente, anche quando il figlio minorenne partecipi al giudizio di separazione o di divorzio. Ciò comporta che non dev’essergli consentito di proseguire il giudizio dopo la conciliazione dei genitori né di contrastare l’omologazione della separazione consensuale né di proporre impugnazione in tali casi. In presenza di conciliazione dei genitori o di omologazione della separazione consensuale, le ragioni eventuali del figlio, attinenti alle
materie di suo personale interesse, debbono trovare adeguata considerazione
nelle sedi appropriate e, se persistono discordanze fra le parti in merito ad
esse, la discussione può proseguire in sede non giudiziaria (mediazione) o
non contenziosa (procedura ex articolo 145 c.c.). Se la conciliazione, anche
di fatto, dei coniugi avvenga in epoca posteriore alla formazione del giudicato, i capi della sentenza relativi ai rapporti fra genitori e figli minorenni debbono anch’essi decadere ed essere posti nel nulla, anche se il figlio fu parte
nel giudizio; l’eventuale disaccordo in merito all’oggetto di tali capi dev’essere risolto nel modo suddetto.
In sintesi, la definizione della capacità del minorenne di costituirsi parte nei
giudizi di separazione o divorzio dei genitori può essere espressa nei termini
19
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
seguenti: il minore sedicenne, rappresentato, assistito e difeso da professionisti competenti la cui retribuzione fa carico all’ente pubblico (salvo eventuale regresso, se il patrimonio del minore lo consente), può intervenire
anche nelle controversie giudiziarie relative alla separazione ed al divorzio
dei genitori, iniziate da questi ultimi, limitatamente alla proposizione di
domande riguardanti l’affidamento, il diritto di visita, la residenza, il mantenimento, l’istruzione, l’amministrazione dei beni di sua proprietà ed altre
questioni di stretto ed esclusivo interesse dello stesso minorenne. Egli
comunque non ha possibilità di opporsi o di impugnare le soluzioni concordate fra gli adulti ed omologate dall’autorità giudiziaria competente né può
invocare i capi della sentenza che decidono sulle sue domande, dopo l’avvenuto ricongiungimento, anche soltanto di fatto, dei genitori.
5. LA DIFESA DEI DIRITTI DEL MINORE NEI CASI DI
SOTTRAZIONE INTERNAZIONALE
na parte sempre meno trascurabile dei litigi familiari riguarda il c.d.
U
“legal kidnapping”, consistente nel comportamento di un genitore od
anche di un’altra persona avente un rapporto giuridicamente valido col bambino, che lo sottrae indebitamente all’altro genitore ovvero alla persona cui è
legalmente affidato, per portarlo o per trattenerlo arbitrariamente all’estero;
ovvero che impedisce illecitamente i rapporti del bambino a lui affidato con
l’altro genitore, normalmente residente all’estero.
L’articolo 11 della Convenzione di New York del 1989 dispone nel senso che
gli Stati debbono adottare provvedimenti idonei ad impedire il “legal kidnapping”. A tal fine, gli Stati debbono favorire la conclusione di accordi bilaterali o multilaterali oppure debbono aderire ad accordi esistenti.
I princìpi generali scaturenti dalla Convenzione di New York, applicabili in
materia di “legal kidnapping”, sono i seguenti:
- la tutela dei diritti e la protezione degli interessi del fanciullo sono, anche
in questo campo, preminenti su qualsiasi altro diritto o interesse eventualmente in contrasto (articolo 3);
- la possibilità di superare le difficoltà, derivanti dalla diversità degli ordinamenti giuridici in gioco, è ravvisata nella stipula di appositi accordi internazionali, bilaterali o multilaterali, o nell’adesione a quelli esistenti, e nella
loro corretta attuazione (articolo 11).
Le principali convenzioni plurilaterali che l’Italia, sia pure con un certo ritardo, ha ratificato in questo settore appartengono a due differenti categorie:
- quelle di carattere strumentale, che servono a stabilire quali siano, di volta
in volta, la legge applicabile, la giurisdizione competente e le modalità di
esecuzione dei provvedimenti e
- quelle di carattere operativo, contenenti essenzialmente la disciplina di una
procedura semplice e rapida, comune a tutti gli Stati ratificanti, per la realizzazione concreta dei diritti del bambino, arbitrariamente condotto o trattenuto oltre frontiera.
Sono esempi importanti della prima categoria la Convenzione concernente la
competenza delle autorità e la legge applicabile in materia di protezione dei
minori, stipulata a L’Aja il 5 ottobre 1961, alle cui clausole è ormai intera20
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
mente informato il nostro ordinamento interno di diritto internazionale privato, grazie all’estensione operata dall’articolo 42 della legge 31 maggio 1995,
n.218, e quella denominata “Bruxelles 2”, da cui è scaturito il Regolamento
del Consiglio dell’U.E., sulla competenza, il riconoscimento e l’esecuzione
delle decisioni in materia matrimoniale e di potestà dei genitori. Questo
Regolamento tende a realizzare, uno “spazio giudiziario europeo”, coincidente con l’intero territorio dell’U.E., all’interno del quale le pronunzie del
giudice nazionale competente sono dotate di forza esecutiva.. I criteri in base
ai quali si stabilisce la competenza, però, differiscono alquanto nei due strumenti internazionali citati, sicché l’interprete può trovarsi a dover risolvere
conflitti fra norme astrattamente applicabili al caso concreto.
Alla seconda categoria appartengono la Convenzione europea fatta a
Lussemburgo il 20 maggio 1980 e quella stipulata a L’Aja il 25 ottobre dello
stesso anno. Entrambe intendono favorire la rapida restituzione del bambino
sottratto o trattenuto e la corretta esecuzione del diritto di visita, ma utilizzano sistemi assolutamente differenti, in quanto la prima intende facilitare il
riconoscimento e l’esecuzione all’estero di un provvedimento di protezione
del minore, e quindi tutela il suo diritto a veder rispettato l’affidamento in
qualsiasi Stato ratificante, mentre la seconda, più semplicemente, mira
all’immediato ripristino, nel tempo massimo di sei settimane, della situazione normale del bambino, presso la persona e nel luogo ove viveva abitualmente prima di essere indebitamente sottratto o trattenuto.
Entrambe le Convenzioni, al pari di molti altri strumenti internazionali contemporanei, utilizzano un organismo di collegamento agile e funzionale
denominato Autorità Centrale, istituito in ogni nazione e dotato di competenze amministrative e para-giudiziarie, il cui compito consiste nel favorire l’attuazione pratica dei diritti tutelati, specialmente gestendo un canale diretto di
comunicazione con l’analogo organismo dello Stato cointeressato.
L’Italia, purtroppo, non ha stipulato finora accordi bilaterali, pure suggeriti
dall’articolo 11, 2° comma, della Convenzione di New York, benché se ne
avverta l’impellente necessità, soprattutto nei riguardi degli Stati da cui proviene la maggior parte dei nostri immigrati. Molti di questi Stati, che adottano come propria legislazione interna la “sharija”, direttamente ispirata ai precetti del Corano ed applicata, specie in materia di famiglia, da tribunali confessionali, non sono disponibili a fare transazioni di alcun genere riguardo
alla prevalenza di tali precetti su qualsiasi altra norma, anche di carattere
internazionale, come quelle contenute nella Convenzione di New York, che
pure hanno ratificato.
Al fine di pervenire alla conclusione di simili trattati bilaterali, occorre trovare, di comune accordo, un nuovo criterio di collegamento, diverso dalla nazionalità del padre (che non corrisponde all’interesse del bambino nella maggioranza dei casi) e dalla residenza abituale (inaccettabile per la controparte). È
una ricerca molto difficile, ma non esistono altre strade valide per superare le
attuali differenze culturali e ordinamentali, fermi restando i princìpi dell’interesse del bambino e della libertà matrimoniale. Non si registra, purtroppo, un
impegno costante e significativo, su questo tipo d’impostazione del problema,
da parte delle nostre autorità amministrative, tecniche e diplomatiche.
Naturalmente, per ragioni di coerenza, il criterio di raccordo va cercato senza
21
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
pregiudizio del diritto riconosciuto al minore di manifestare liberamente la sua
opinione, ed anzi proprio nel quadro di tale diritto e di quello ad essere parte
nel relativo giudizio. Al professionista legale chiamato a difendere gli interessi del bambino nei casi di “legal kidnapping” risulta comunque indispensabile,
oltre ad una buona conoscenza degli atteggiamenti psicologici tipici delle persone coinvolte in questo genere di controversie, quella delle convenzioni e
delle norme di diritto interno ed internazionale applicabili, e la cognizione di
alcuni elementi essenziali del diritto di famiglia dei paesi islamici.
Il difensore del bambino deve inoltre farsi carico, in questi casi, di un dovere di particolare celerità, richiesto dalla Convenzione (L’Aja 1980, articoli 2,
11) e dalla natura dell’affare. È interessante notare come, riguardo alle procedure di applicazione di questa Convenzione, l’Italia è titolare di un primato tanto più prezioso quanto assolutamente inedito, con riferimento alla celerità dell’intero sistema nazionale di amministrazione della giustizia: infatti,
secondo uno studio comparato riferito all’anno 1999, curato da ricercatori
dell’Università di Cardiff, il 59% delle istanze inviate all’Italia è sfociato o
nel ritorno volontario o nel rimpatrio ordinato dal giudice, contro il 50%
della media di tutti i Paesi; quanto al tempo necessario per la decisione, il
documento di Cardiff annota testualmente: “L’Italia è stata più veloce delle
medie complessive di 84 giorni per un rientro volontario, di 107 giorni per un
rientro deciso dal giudice e di 150 giorni per un rigetto da parte del giudice.
In parte questa rapidità di conclusione è dovuta al fatto che non si sono avuti
ricorsi. La cosa più significativa è che, con 33 giorni per un rientro volontario, l’Italia è stata oltre due volte più veloce di tutti gli altri Paesi”. Le ragioni che rendono particolarmente graditi simili apprezzamenti sono intuibili.
Occorre naturalmente evitare che l’intervento in giudizio del difensore del
bambino sortisca l’effetto indesiderato di farci perdere questo raro primato.
A parte ciò, sembra giunto il momento di dare concretezza ed effettiva preminenza, sul piano specificamente processuale, all’interesse del bambino, la
cui voce è rimasta finora praticamente inascoltata, essendo sovrastata dalla
rumorosa contesa fra i suoi genitori, unici veri attori processuali.
L’interpretazione delle aspirazioni o dei bisogni del bambino non può essere
ulteriormente assunta nei termini ufficiosamente stabiliti dal giudice, giacché
l’interesse di una delle parti, anche quando prevale su quello delle altre parti
in causa, deve essere esposto e provato, mediante validi atti processuali ed in
pieno contraddittorio, da un professionista legale preparato ed indipendente.
Ciò non serve soltanto al bambino, quanto piuttosto al corretto svolgimento
dei giudizi, attraverso il recupero della condizione d’imparzialità del giudicante, imprescindibile fondamento della nostra civiltà giuridica.
Il tema della relazione è trattato più ampiamente nel testo:
Giuseppe Magno, Il minore come soggetto processuale - Commento alla
Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, Giuffré Editore,
Milano, 2001
22
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
V
edo che il titolo di questa sessione del Convegno è dedicato al tempo dei
diritti. Vi confesso che ci siamo divertiti molto con il mio amico e collega Giacomo Maramao a tradurre quella opera complicata che è “Sein
und Zeit”, cioè “Essere e Tempo” di Heidegger, in una versione molto ironica che era “Essere è tempo meteorologico” e quindi ci risiamo, cioè siamo di
fronte a perturbazioni, a rumori del tempo, esattamente come il tempo dell’infanzia.
Voglio partire dalle cose che adesso diceva il Presidente Magno, del quale
condivido l’impostazione, il tono, anche perché lui è stato, oltre che un testimone, un attore diretto delle politiche, non soltanto giudiziarie-infantili.
Voglio ripartire da alcuni punti che mi sembrano interessanti.
Su alcuni consento in maniera quasi totale, per esempio il processo di sovranazionalizzazione dei diritti che ha una storia, una ragione su cui tornerò fra
un attimo, ma soprattutto la questione
del modello di giudice rispetto ai conflitti che riguardano i minori.
Voglio partire da un caso concreto: il
caso che lui ha citato della separazione fra coniugi.
Contrariamente a quanto lui diceva, io
sono per una polemica aperta, avvocati, magistrati per un dibattito franco e
sincero. Ritengo che le regole dell’ermeneutica debbano essere fondamentalmente costruite su un fatto: mettere
sul tavolo i propri pregiudizi, soltanto così ci si chiarisce. Sono per una chia- PROF.
ELIGIO
ra e visibile polemica.
Ritengo che nella questione citata, nell’esempio citato della presenza del RESTA
minore in un procedimento giudiziario che riguarda la separazione dei coniugi, noi ritroviamo tutti i paradossi con i quali dobbiamo quotidianamente ORDINARIO DI SOCIOLOGIA
DEL DIRITTO, UNIV. ROMA TRE
convivere. Perché? Perché da una parte, mi sembra sacrosanto, oltretutto ci
vincolano legislazioni internazionali, che si dia voce al bambino.
Lo ho anche scritto molte volte: infanzia è quel tempo della vita in cui non si
parla o si parla male, per cui è un bel passo in avanti che una legge dica che
il minore ha il diritto alla parola. È già una grande conquista.
D’altro canto, però, ritengo che il posto dei minori non sia nelle aule dei tribunali e che bisogna pensare ad un diritto alla parola, ad un dare la voce
all’infanzia, prima e fuori del processo.
Certo, ben venga anche la voce nel processo quando e come deve essere data
al minore, con garanzie, ma anche con un meccanismo di filtro protettivo.
Nello stesso tempo, però, non credo che sia il luogo più idoneo in cui si possa
esercitare la vita del bambino. Lo dico francamente. Il posto del minore non
è nelle aule dei tribunali. Ed una cultura che sia attenta ai diritti dei minori
deve essere sostanzialmente in linea con questa lettura, cioè bisogna ridurre
lo spazio del minore all’interno delle aule giudiziarie quando proprio non se
ne può fare a meno.
Ritengo, invece, che noi italiani ci mettiamo del nostro, finiamo per attrarre
tutto come se fosse una cartina moschicida intorno al processo ed ai poteri * Correzione redazionale
LA GRAMMATICA
DEI DIRITTI DELL’INFANZIA *
23
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
degli attori che li si realizzano.
Lo dico da molto tempo, e capirete quanto sono romantico e disperato, l’ho
detto per quatto anni ai colleghi magistrati in Consiglio Superiore della
Magistratura, bisogna far fare una forte cura dimagrante alla giurisdizione in
questo Paese.
Bisogna evitare che al giudice si diano poteri di cui il giudice volentieri
farebbe a meno. Diversamente deve svolgersi il ruolo dell’avvocato, il quale
può intervenire, anzi, deve intervenire con maggiore responsabilità fuori e
prima del processo. Questo è uno dei nodi fondamentali. Non è avvilente la
posizione dell’avvocato che non arriva a giudizio ma è invece una forte valorizzazione del suo ruolo.
Quindi la prima approssimazione al tema è una forte cura dimagrante dei
poteri compositivi dei conflitti da parte del giudice.
Io lo dico con una formula netta: il giudice non è il soggetto che deve comporre i conflitti perché per questo è meno attrezzato di altri. Il giudice deve
dire l’ultima parola sulle liti e dire l’ultima parola è una cosa che ne arricchisce lo spazio virtuoso piuttosto che contenerne il ruolo.
Spesso si offendevano i giudici ed io cercavo di schermarmi dietro citazioni
un po’ colte. Citavo Anassimandro che diceva che il diritto è contabilità, sperando con questo di schermarmi dalle accuse dei giudici, e capirete quanto
sono romantico e disperato.
Noi ci troviamo di fronte ad un’idea della giurisdizione onnivora, che mangia tutto, che attrae su di sé tutto, per cui siamo costretti poi a riparare costantemente ai guasti di questa giudiziarizzazione costante.
Non è un caso che da un po’ di tempo a questa parte, ma la storia è risalente
già al secolo scorso, si legge la storia, la storia complessiva, la storia grande,
la storia di grandi racconti come attraversata da un processo di tribunalizzazione.
Tutto viene tribunalizzato, anche i fatti storici. Pensate a cos’è il revisionismo storico, come se fosse un processo con attori in cui ci sono ruoli giudiziari definiti. Chi è il giudice della storia? Io credo che questa idea del ridimensionamento dello spazio della giurisdizione sia a favore del giudice ed a
favore di una pulizia linguistica dei nostri rapporti collettivi, in cui al giudice viene ridato un ruolo degno di colui che è in grado di dire l’ultima parola,
sulle cose di cui può parlare.
Questo è un primo elemento di una grammatica del parlare. Quindi il minore, il diritto di parola, sacrosanto prima e fuori del processo, anche nel processo quando vi è costretto, quando vi è tirato per le orecchie e lì bisogna
essere dei grandi giurisprudenti per evitare che si dia al minore questa possibilità che ritengo tragica, questo potere di giudizio di cui il minore fa volentieri a meno.
Che cosa è la separazione fra coniugi quando ci sono dei figli? È un sistema
a tre in cui ci sono i due confliggenti e la terza persona. Si trasforma nel
momento in cui ci sono dei ruoli formalizzati da sistema a tre a sistema con
terzo, in cui il terzo è il minore che poi diventa parte, ma questo è un altro
discorso, che nel giudizio ha un potere sconfinato di giudicare sulla vita dei
genitori.
Io non so se facciamo bene nel caricare di responsabilità la figura del mino24
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
re che per tutta la vita avrà il senso, o di colpa o di sofferenza o addirittura
di onnipotenza, di aver deciso sul destino della sua famiglia.
Non so se facciamo bene e vorrei che su questo ci fosse un dibattito pubblico aperto.
Io non so se gli psicologi sono in grado di dirmelo, quale psicanalista, quello di Palo alto o quello della scuola di Cosenza, quello che viene dalla cultura indiana o quello che viene dal nocciolo duro della cultura occidentale, non
lo so ma intanto vorrei saperne un po’ di più della questione e vorrei che tutte
queste cose venissero discusse non nel luogo dei potenti e dei sapienti che
delegano la scrittura di disegni di legge e li presentano al Paese, come se
fosse la manna, ma vorrei che venisse fuori da un dibattito pubblico che ha
sempre riguardato tutto, tranne che la questione vera dell’infanzia, che ha
estromesso la questione dell’infanzia.
Del resto, lo vediamo nella comunicazione pubblica. Non ci sono prime pagine dei giornali che non ripresentino questa figura centrale del minore, vittima ma più spesso attore della violenza. Guardate, su Cogne si è consumata
una comunicazione malata.
Si parla moltissimo dell’infanzia nelle prime pagine dei giornali ma si parla
in maniera malata.
Sarebbe molto meglio che si parlasse molto meno dell’infanzia, se la comunicazione deve essere malata così com’è ed ispirata ad un’idea un po’ voyeuristica, lo dico così, scandalistica. L’ho usato molte volte questo termine,
questo termine impegnativo. L’infanzia è “scandalon”. In greco “scandalon”
vuol dire l’esercizio dello zoppicare, essere inciampati nella famosa pietra di
inciampo. Non è un caso che lo “scandalon” fosse anche la pietra dello scandalo cioè la pietra con cui viene lapidata la cosiddetta meretrice, ma qui i giochi ci porterebbero lontano.
La comunicazione su questi temi è malata ed io chiedo ad un Paese civile di
cominciare a regolare così come le leggi impongono. C’era un articolo molto
bello della convenzione di Strasburgo che poco fa ricordava il Presidente
Magno che impone ai Paesi di fare in modo che ci sia una comunicazione corretta, che ci siano saperi adeguati, che ci sia un processo che noi definiamo
sinteticamente specializzazione ma è qualche cosa che passa attraverso la
vita quotidiana. Il contrario dello scandalo è l’attenzione alle questioni dei
minori nella vita quotidiana, nella normalità, non nell’eccezione di un attimo
che attira la nostra capacità di comprensione e che produce, sapete che cosa?
Soltanto una attivazione momentanea e la dimenticanza un attimo dopo e
soprattutto produce un esercizio di delega ai competenti, come se la questione dell’infanzia fosse un po’ come nella cultura nostra, contemporanea che
medicalizziamo tutto.
Girate per l’edicola del nostro Paese e troverete mille riviste dedicate allo
star bene, essere sani, al come vivere in forma, al fitness e queste cose. La
medicalizzazione è un effetto della delega che significa soprattutto la deresponsabilizzazione nella vita quotidiana.
L’infanzia ha bisogno di un’altra attenzione. Ha bisogno di quella che nel
mondo greco, ma non nel nostro mondo, era la clinica. Clinica è una parola
bellissima, viene da che è il verbo dell’inclinarsi, cioè del ripiegarsi su, del
prendersi cura. La clinica non è il sapere che dall’alto ti giudica ma la clini25
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
ca è qualche cosa che ha bisogno di con-vivenza quotidiana, del prendere sul
serio, del dare la parola, dell’ascoltare. Tutto il contrario di un giudizio che
dall’alto ti giudica. Quindi lo dico perché questo è uno degli approcci che,
secondo me, una formazione seria di attori deve avere rispetto all’infanzia.
Bisogna ridurre lo spazio onnivoro delle competenze.
Noi ci troviamo di fronte ad un modello di giudice, al quale deleghiamo tutto,
persino, come vado ripetendo da un po’ di tempo, la felicità degli individui.
No, non abbiamo bisogno di questo giudice, anche perché un giudice di questo tipo poi, alla fine, produce più danni di quanti in realtà non ne posso fare.
Bisogna che il giudice, così come tutti gli altri attori di un processo giudiziario, subisca un processo di depurazione linguistica.
Il linguaggio di cui è competente e non altri linguaggi. Questo, detto fra
parentesi, ci porta al dramma della agenda politica.
Non invoco la richiesta di illuminismo del legislatore. Mi accontenterei di
molto meno. Mi accontenterei che il legislatore facesse meno pasticci. Si tratta di questo quando si mette mano a disegni di legge in cui per decreto si abolisce una cosa cui io tengo molto. Nelle questioni riguardanti il giudizio dell’infanzia non ci può essere un semplice monologo: il monologo del giudice.
Ci deve essere una poli-fonia di voci. Ci deve essere la polifonia di chi si cura
dell’interesse giuridico e giudiziario, ed è sacrosanto il giusto processo, detto
in parole gergali, ma soprattutto c’è bisogno di tante voci che tengano presente le mille sfaccettature dei conflitti di cui il minore è il punto di riferimento, e non sono conflitti che possono essere ridotti ad articoli di legge.
Non sono conflitti che possono essere stabiliti con l’accetta di chi definisce
gli interessi e la contabilità fra gli inter-essi. Interesse vuol dire esattamente
questo, non aggiunge nulla alla struttura relazionale. Vuol dire lo stare
“inter” “fra”, è una tautologia che soltanto qualche volta aggiunge qualcosa
al nostro linguaggio, quindi bisogna cominciare a ridurre lo spazio della giurisdizione e a garantire che nella giurisdizione intervengano altre voci.
Invece vengono azzerate, chiuse per decreto.
C’è un gioco di maggioranza nei collegi giudicanti che farà sì che ci sia sempre la prevalenza non soltanto della decisione, perché questa è sacrosanta, ma
dell’impostazione della causa da parte del sapere giuridico, di un monologo
giudiziario che mi spaventa. Quindi questo è uno dei punti fondamentali:
rimettere polifonia all’interno del processo. Questo significa ridare spazio ai
saperi diversi.
Voglio raccontarvi un episodio. Anche con Pino Magno c’è stato un minimo
di discussione accesa su questo.
Al Consiglio superiore molti esponenti della cultura giudiziaria minorile
hanno chiesto che i giudici onorari, di cui nessuno voleva fare a meno, per
tanti motivi, alcuni nobili, altri meno nobili, questo lo sappiamo ma non
voglio parlare delle miserie, hanno chiesto che ci sia una formazione dei giudici onorari. Tutti quanti “ah sì”, quando si parla di formazione, tutti sono
disponibili ed hanno risposto tutti sì.
Io ho votato contro, perché quale formazione dobbiamo assicurare ai giudici
onorari? Quella della cultura del giudice modello bonsai, cioè bisogna dare
allo psicologo lo stesso potere del giudice, o bisogna pensare allo psicologo
come psicologo che nessuna giustizia dovrà e potrà formare. Ovviamente
26
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
sono rimasto solo con il mio voto contrario ma non me ne dispiace. Io credo
che su questo bisogna fare chiarezza.
La polifonia deve essere polifonia. Devono essere saperi diversi, non deve
essere un componente del collegio in più.
Non bisogna pensare al giudizio minorile come ad un qualche cosa che deve
essere liquidato. Io sono abituato all’arroganza di una cultura giudiziaria che
ha sempre lavorato sul minorile come il modello miseria/nobiltà. La nobiltà
è il giudizio degli adulti. La miseria è il giudice minorile.
Negli incarichi direttivi vi potrei raccontare mille micro-storie. Negli incarichi direttivi, per esempio, è facilissimo il passaggio dagli adulti ai minori,
tanto un minimo di specializzazione minorile gli adulti comunque l’hanno
avuto. Basta che siano stati per un breve periodo di tempo nelle sezioni di
Corte di Appello che si occupavano anche dell’appello minorile ed adesso
succederà la stessa cosa. Invece è difficilissimo il passaggio a contrario cioè
chi è stato giudice minorile “ah, ma no questo ha fatto il giudice minorile,
mica può andare a dirigere la Procura generale della Repubblica!”.
È un sistema che funziona soltanto a senso unico, da una parte all’altra. È un
processo di colonizzazione dell’ordinamento giudiziario. Strano, perché il
Governo ha scelto un’altra strada. A volte penso addirittura che possano
avere un minimo di furbizia, poi mi ricredo subito, ma qual è il senso dei
disegni di legge, civile e penale, sulla riforma della giustizia minorile?
Contrariamente ad una lunga storia, in cui si lavorava sul processo ma si
rimandavano le riforme ordinamentali, questi due disegni di legge lavorano
esclusivamente sulla struttura dell’ordinamento giudiziario, cioè ruoli, collocazioni, compiti, meccanismi di trasferimento dei giudici minorili.
C’è un’attenzione che io definisco con una formula retorica meto-mimica
cioè si parla del contenente per il contenuto. Si ha quest’attenzione molto
specifica ai giudici piuttosto che al sistema giudiziario. Che cosa c’è di strano in questo disegno di legge? Che dice di rendere funzionali o di voler rendere funzionale alla giustizia minorile, che invoca questo processo di chiusura delle polifonie attraverso una istituzione di sezione specializzata, e poi
andiamo a leggere l’articolato e dice “prevalentemente specializzata”. Cosa
vuol dire prevalentemente? E soprattutto quando il Consiglio Superiore della
Magistratura dovrà decidere chi collocare all’interno delle sezioni specializzate si troverà di fronte due problemi: il primo è che queste sezioni potranno
essere istituite soltanto dove c’è un buon rapporto fra giudici e controversia,
cioè soltanto nelle grandi aree metropolitane, il secondo è costituito dai criteri in base ai quali scegliere la specializzazione. Quali devono essere? Basta
che un giudice abbia scritto tre pagine sui rapporti patrimoniali fra i coniugi
ed è automaticamente specializzato. Io non sono d’accordo, perché immette
un elemento di discrezionalità stupida e fa perdere veramente il punto di vista
della priorità degli interessi del minore all’interno della struttura giudiziaria.
Quando viene presa sul serio, vedete che il tempo si rasserena, il tempus non
è soltanto tempestas ma è anche qualche altra cosa, io credo che nella questione del minorile sta sfuggendo una tendenza di lungo periodo e che in
fondo anche la giustizia minorile finisce per essere l’anticipazione di molte
delle cose che poi la giustizia degli adulti dovrà necessariamente cominciare
a condividere.
27
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Tanto per incominciare una maggiore vicinanza del rapporto fra decisione ed
implementazione delle decisioni che nel tribunale per i minorenni è la caratteristica anche se è un problema e lo sappiamo tutti, lo sappiamo benissimo
ma la giustizia degli adulti è una giustizia costruita melanconicamente intorno al tempo del rimando continuo, della non decisione.
Ecco perché per esempio è importante il giusto processo. Vorrei che fra i pregiudizi da chiarire questo venisse fuori in maniera chiara. Il giusto processo
non è soltanto contra-ddittorio, è anche questo. Giusto processo vuol dire
“tempi ragionevoli”ed i tempi ragionevoli della giustizia minorile non sono
tempi così dilatati come la corte d’Europa di Strasburgo ci dice. Non possono essere sei anni.
I tempi ragionevoli del giusto processo minorile devono avere a che fare con
una dimensione incommensurabile che è il tempo della vita dell’infanzia.
Questo è un caso tipico di colonizzazione culturale, in cui la vita del minore,
se entra nelle istituzioni, dovrà necessariamente essere sacrificata alle esigenze dei tempi delle istituzioni, ed il tempo della vita dell’infanzia è molto
più accelerato. È un tempo in cui bastano pochi mesi perché il processo di
crescita avvenga.
Allora quale deve essere il ruolo del giudice poi alla fine? ed in questo non
vedo alcuna differenza rispetto all’etica deontologica dell’avvocato, anzi,
quale deve essere? Io lo dico con molta franchezza: bisogna evitare danni
ulteriori. Basta non fare danni, che è una cosa degnissima. Non bisogna guardare al giudice o all’avvocato come quei soggetti che devono ridare la felicità, ma devono evitare i danni ulteriori, che la necessità della vita produce.
Qual è l’interesse superiore del bambino in una causa di separazione?
L’interesse prevalente del bambino è che i genitori, non solo non si separino
ma siano anche felici e diano felicità. Basta Catalano per questo. Lo ricordate quel personaggio di “Quelli della notte”: è meglio essere sani e felici che
malati ed infelici. Certo, che cosa è l’affidamento congiunto se non l’esercizio, paradossale, la risposta paradossale ad un paradosso. Perché sarebbe
bene che fossero felici però non lo sono ed allora facciamo come se nell’educazione dei bambini lo fossero. È un bellissimo esercizio che si chiama, gli
psicologi la conoscono bene questa struttura, si chiama “ fare come se”. È il
gioco della rappresentazione.
Uno studioso francese ha usato una formula che ritengo molto felice. Il vero
delitto perfetto è esattamente il linguaggio che ci fa dimenticare la realtà. Ce
la fa sostituire attraverso la clinica dei diritti per cui noi abbiamo dimenticato di avere la salute, la qualità della vita, la solidarietà e l’abbiamo sostituita
con il diritto alla salute, il diritto alla qualità della vita, il diritto alla solidarietà cioè trasferiamo sempre melanconicamente ad un’altra sfera e ci ricade
anche la legislazione. C’è un articolo della Convenzione di Strasburgo che è
molto bello, è l’articolo 1.
Ve lo cito perché chi si vuole divertire a fare grammatica sulla legislazione
troverà un campo da arare enorme. Dice il punto 2 dell’articolo 1 della
Convenzione di Strasburgo: “Oggetto della presente convenzione è promuovere, nell’interesse superiore dei minori, i loro diritti”.
A parte il fatto che sugli interessi superiori ci sono fiumi di inchiostro che ci
raccontano dei paradossi. Nella Corte Suprema americana, fino agli inizi del
28
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
novecento interesse superiore del minore era essere affidato al padre; dal
1900 in poi, fino al 1960, è stato essere affidato alla madre, poi c’è stato il
movimento femminista molto forte negli Stati Uniti e si è cominciato a pensare che interesse del minore fosse essere affidato qualche volta anche di
nuovo al padre, poi è insorto il caretaker. E pensate che qualche volta l’interesse superiore del bambino viene interpretato come interesse superiore del
bambino cioè interesse superiore è sempre qualche altra cosa su cui l’esercizio ermeneutico del giudice, meglio sarebbe buttare i dadi, viene esercitato in
questa maniera. Poi dice: “Concedere loro diritti azionabili”. Cosa sono i
diritti se non quelli che devono essere fatti valere? C’è un senso di colpa in
quell’”azionabile”. Perché? Per il fatto che il minore deve essere sempre rappresentato da qualcuno? Va beh, ma questo lo sappiamo, fa parte delle regole processuali valide da sempre. Ma allora perché azionabili? Perché si sa è,
qui è un po’ il dramma della nostra storia, e su questo io concludo, si sa da
sempre che diritti che possono essere allocati attraverso le parole sono facili.
È facile evocare, formalizzare i diritti. Il problema è un altro ed è esattamente questo: noi abbiamo attraversato il secolo scorso che è stato il grande secolo dei diritti dell’infanzia, eppure il risultato è che essi mai sono stati così
tutelati e mai così vilipesi, violati in solitudine, e qui le due cose non tornano. Ecco, io ritrovo il senso di colpa dell’azionabile.
La clinica dei diritti di cui parlavo: c’è sempre bisogno di un secondo livello del linguaggio che ci deve ricordare quello che abbiamo dimenticato.
Perché io ci tengo a questo? Perché c’è stata anche una lettura teorica molto
forte di alcuni nostri colleghi, appartenenti alla sinistra giuridica america,
che ha finito per leggere i diritti dell’infanzia come il prototipo su cui
costruire un modello assiomatico dei diritti umani. Questi sono i diritti da cui
non si può prescindere.
Ma che cosa sono i diritti umani? Un bel paradosso. Sono quei diritti che soltanto l’umanità può violare ma soltanto l’umanità può tutelare ed allora, spogliata la retorica, tolta la crosta metafisica dai diritti dell’infanzia e dai diritti umani, che cosa rimane? Rimane il dovere degli Stati e la responsabilità di
ognuno nei confronti dei minori e questo vale per i genitori qualsiasi, vale per
il senso comune ma vale soprattutto per le culture che se ne devono interessare.
29
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
1.
C
omincerei con un’osservazione, forse abbastanza banale, ma che mi
viene sempre spontaneamente alla mente, nel momento in cui comincio
ad occuparmi di soggetti fragili e ad immaginare cosa racconterò: e il
tema - accennato anche questa mattina opportunamente da Eligio Resta - è
quello del fatto che nel caso dei bambini esiste una contraddizione intrinseca
forte, come in relazione a poche altre categorie di persone “deboli”.
(a) Da un lato, si segnala la grande quantità di diritto scritto che esiste nei
confronti dei soggetti deboli, e dei minori in particolare. Possiamo aprire la
Costituzione, ecco che troviamo l’articolo 30; apriamo il Codice civile, ci
imbattiamo nell’art. 147 e poi in tante altre norme significative. Scorriamo le
leggi speciali, le convenzioni internazionali; e risulta che in tutte queste
norme, soprattutto da un po’ di anni a
questa parte, grondano indicazioni
prescrittive, falsarighe calde, appassionate - perfino troppe, ci diceva stamattina Magno (ricordando le parole
suadenti ed “impossibili” che rintoccano nella Convenzione di New York
ed anche in altri contesti).
Da un lato, dunque, l’assalto normativo di cui sopra, questa grande ricchezza.
(b) Dall’altro - se, invece, chiudiamo i codici ed apriamo il giornale o accendiamo la televisione - un inventario impressionante di cattiverie, di malagrazie nei confronti dei bambini di tutti i tipi: violenza fisica, violenza psichica,
bocciature sbagliate, maltrattamenti, disagi, conflitti, abbandoni e via di questo passo.
I DIRITTI DEI MINORI:
IERI, OGGI, DOMANI
PROF.
PAOLO
CENDON
ORDINARIO DI
DIRITTO PRIVATO,
UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI TRIESTE
2.
cco, si ha l’impressione di una divaricazione enorme fra questa duplice
ESembra,
serie di elementi; e proprio da questo io partirei.
in effetti, uno dei campi in cui il diritto non ce la fa proprio ad
influenzare la realtà; e si ha anzi l’impressione che più gli anni passano, più
aumenta l’enfasi verbale, una corsa sempre più utopistica, generosa del legislatore.
Penso anche a certe leggi regionali, di cui abbonda da un paio di decenni la
nostra esperienza italiana. Nelle leggi regionali, in particolare, il legislatore
- forse proprio perché consapevole di questa sfida impossibile di far stare
meglio i bambini - si abbandona non di rado ad una specie di libro dei sogni.
Parole, parole. Importanti sicuramente, molto importanti, non sono cose da
trascurare: si tratta di cose rispettabili, ammirevoli per molti versi. Ma ecco
il problema. Il diritto che aumenta sempre di più la sua tavola di riferimenti,
di parole d’ordine; e la realtà vivente che a sua volta aumenta ogni giorno la
quantità di cattiverie, di cose orribili che leggiamo quotidianamente nei giornali.
30
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
Ecco, mi domando, come mai tutto questo?
Anche Resta stamattina accennava ai “diritti azionabili”. Però, cosa possiamo fare? È così difficile per il diritto, per noi, occuparci di bambini. Questo
mi sembra il punto: la difficoltà del tema. La difficoltà per il giurista, soprattutto.
È difficile probabilmente per tutti - per gli psicanalisti, per gli psichiatri. Si
tratta di uno dei nodi più forti, delle scommesse più difficili. Ma per il diritto, in particolare, è ancora più difficile.
Quali le ragioni di queste difficoltà?
3.
va osservato come non sia sempre facile, per il diritto, scoprire il
AC’ènzitutto,
male.
il male che in qualche caso è del tutto evidente: il bambino bastonato,
violentato, il bambino nella lavatrice. Oppure questi aborti terribili, nel
bagno di casa. In generale tutti i casi in cui è colpito il diritto alla vita, all’integrità fisica. Di tutto questo il diritto si accorge di solito.
Se invece la soglia non è così tragica, se l’inventario del male mette di fronte ad esiti meno cruenti o dolorosi, tutto per i giurista può diventare difficile. Non essere amati, non essere capiti, non essere ben vestiti; quelle mille
forme di maltrattamento che la psicologia ha identificato in tanti anni: in
famiglia, nella scuola, magari nelle piccole bande che si creano dappertutto
per le strade. La ragnatela diffusa delle sofferenze, delle prevaricazioni:
soprusi, mancanze dei familiari, vuoti, fallimenti degli adulti. Tutto questo
non si vede tanto facilmente. Non si vede oggi, comunque. C’è l’impressione di un sommerso enorme di cui non si parla mai, di cui conosciamo poco,
se non in casi tipici che quasi non ci riguardano.
Stamattina non ho sentito parlare di questo. Questo 99% del male di cui non
sappiamo neanche che c’è. Possiamo certo indovinare, alzando gli occhi, che
dietro qualche finestra, probabilmente anche a Lucca, c’è qualche bambino
che piange infelicemente; o comunque qualche bambino che sembra sia contento, a cui in realtà poi la madre non sa o non può parlare; il padre che non
c’è, i fratelli lontani, la nonna inesistente o distante. L’invisibilità insomma,
l’impercettibilità dei problemi in certi casi.
4.
ltri passaggi chiave - faccio solo un esempio, ma mi pare che stamattina
Acompiere
ne siano stati fatti parecchi - riguardano il fatto che spesso le scelte da
nei confronti del bambino sono scelte tragiche. Occorre scegliere
tra due mali ugualmente temibili, e non si sa cosa debba prevalere, come si
debba procedere.
Il caso classico mi pare che sia quello del figlio della donna drogata o della
donna malata di mente: in cui c’è spesso un conflitto fra due servizi diversi i servizi della psichiatria, i quali vogliono che il bambino rimanga con la
mamma (perché, se la mamma perde anche quel bambino, è condannata per
sempre); ed invece i servizi dei minori, i quali dicono di no.Ecco la scelta
31
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
delicata, intrigante.
Sempre si crea un danno scegliendo, è pur vero: ma nel nostro caso il danno
sembra ancora maggiore. Il diritto è particolarmente in difficoltà fra due beni
che si contrappongono, e non è sempre scontato che sia il bene del minore a
dover prevalere.
5.
na ragione ulteriore di difficoltà mi pare sia la seguente, anch’essa accenU
nata stamattina. Si è fatto riferimento a quella che io chiamo la “bambinologia”, e cioè al fatto che spesso i bambini “rendono” tantissimo agli adulti, ai loro sistemi di comunicazione, di commercio, di produzione, e di scambio.
Si fanno ad esempio convegni come questo, il che va benissimo; si tengono
poi corsi d’insegnamento, il che va pure bene: si inventano master. Poi
soprattutto, si fanno trasmissioni televisive, si pubblicano e si diffondono
libri, riviste, manualetti, guide, dispense. Trasmissioni strappalacrime, suggestive, La realtà è che i bambini “vendono” moltissimo. Da un po’ di tempo
c’è stato un boom sempre crescente: i giornali popolari, i film, le telenovelas, le tavole rotonde, i processi.
Dalla mattina alla sera - si comincia credo alle sei di mattina (qualche volta
mi sveglio, accendo la televisione per riaddormentarmi) - si parla di questo
bambino che non deve mangiare il sedano ma l’insalata, che non deve accettare caramelle dagli sconosciuti ma neanche essere impaurito o isolato da
divieti sistematici, che non deve andare di qua e di là. Poi si va avanti a fasi
alterne tutta la giornata.
Questa “bambinologia” è positiva o è negativa? La risposta non può essere
netta probabilmente. Credo ci siano delle luci e delle ombre.
Non mancano i vantaggi probabilmente: perché molte cose che non sapevano
dieci anni fa oggi le sappiamo. Ma al tempo stesso ho l’impressione che ci sia
soprattutto un tornaconto, un eccesso di opportunismo nei gestori della trasmissione, della piccola posta, del libro. Certe volte siamo molto infastiditi di
vedere nelle vetrine sempre questi stessi nomi che vediamo in televisione.
Temo che ci sia un effetto di “mitridatizzazione”, potrei dire, questo lessico,
questi riscontri che ci addormentano, ci stancano, ci abituano, ci assuefano
un po’ al problema.
6.
oi c’è il problema, forse minore ma comunque interessante, rappresentato
P
dal fatto che continuiamo a parlare dei bambini come se si trattasse di
un’unica categoria.
I bambini in realtà sono tanti tipi - e non è detto (ecco il punto) che ciò che
vale per una sottocategoria vada bene per un’altra.
Ci sono, per esempio, i bambini e le bambine; ed è spesso una differenza non
da poco. Ci sono i bambini sani ed i bambini malati. Ci sono (questo è già più
risaputo, anche se non portato sempre fino alle estreme conseguenze) i bambini che hanno da 1 a 7 anni, e per i quali varrà un certo tipo di diritto; quel32
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
li fra i 7 e i 14, ed ecco un altro tipo di diritto; quelli poi da 14 a 18, non sono
più bambini, e ecco un altro di tipo di statuto, ancora.
Ci sono i minori capaci e quelli incapaci di intendere e di volere. I fanciulli
che vivono dentro la famiglia e quelli che vivono fuori. I giovani poveri,
quelli mediamente poveri e quelli ricchi. I bambini di città e quelli di campagna, i bambini bianchi e quelli extracomunitari. I bambini con i capelli neri,
con i capelli biondi, con i capelli rossi.
I bambini che comprano ed i bambini ai quali le cose vengono comprate. Ed
ecco qui le questioni dei consumi, dei farmaci, dei prodotti, dei giocattoli,
della televisione. Ci si spalanca tutto un mondo di opzioni diverse, di diversi livelli di autonomia, di diverse necessità di protezione - tutti passaggi
destinati a risentire della circostanza che si tratti di una o di un’altra fra le
dette categorie.
7.
ltro punto significativo - che colpisce forse di più l’immaginario di chi sia
Aferenza
in là negli anni, ma che tocca un po’ qualsiasi osservatore - è l’enorme difche si riscontra fra giochi, passatempi, usi del tempo libero, modalità di svago, divertimenti, del tempo passato e di quello presente.
È sempre stato così, in effetti, i cambiamenti nel modo di divertirsi non sono
mai mancati. Ma la forbice appare oggi più marcata. Basta entrare in una sala
giochi (a me è capitato di entrarci l’altro giorno, per caso; ma chi è entrato
anche solo un anno fa appare già in forte ritardo). Quello che si vede è veramente strano.
Io, come esperienze o come ricordi di cose viste o raccontate, sono ancora
fermo a un certo mondo (me lo sono segnato dalle mie letture, un mondo che
era però quello mio, almeno forse di mia nonna, fino ad un po’ di tempo fa):
le ombre cinesi, i pupazzi di carta, le decalcomanie, i soldatini, le fionde,
ricordate? Le lanterne magiche, le bambole, la cerbottana, l’arco, la trottola,
le automobiline a pedali, i monopattini (che sono oggi tornati di moda). Il
cerchietto, il trenino, le figurine, il castagnaccio, la liquirizia, i lupini.
Si potrebbe continuare a lungo, anche con i fumetti: Tom Mix, Ridolini,
Bonaventura, Tin Tin, Bibì, Bibò e Capitan Cocoricò.
Ricordo, per esempio, una cosa che a me sembrava modernissima quando
uscivo da scuola, il massimo della tecnologia. Il cliente che sparava e l’orso
che, colpito dalla cellula del fucile in un certo punto, si alzava sulle zampe e
si metteva a fare “uuuu-uuuu”. Oggi credo che solo nei negozi di anticaglie
si potrebbe trovare un marchingegno del genere.
Ecco, invece il mondo di oggi, che è molto diverso. Le play station, il piercing, la televisione interattiva, il telefonino; gli sms, l’extasy, i siti di chat, i
palmari, il web per tutto, le tecnologie di ogni genere. Certamente una realtà
molto diversa.
8.
contrasto non da poco (che apre una curva anche pessimistica, per certi
Unversi,
certo problematica): il contrasto che c’è tra
33
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
(a) da un lato, una serie di crescite di autonomia anche riconosciute che c’è
per quanto riguarda i minori; il bambino che può sempre di più fare, comprare, acquistare, transigere, anche rispondere dei danni (Cresce costantemente
questa fascia di autonomia possibile tanto è che ormai tra poco riformeremo
anche il codice civile, ci metteremo proprio quello che tutti già pensano, cioè
che gli atti di tipo esistenziale il bambino li può compiere senza che gli si
possa dire di no. Oggi teoricamente si insegna ancora in università che il
minorenne se fa un contratto annullabile, allora l’altro potrebbe dirgli “no,
non te lo do perché il contratto è annullabile” e cose di questo tipo. In realtà,
non c’è ancora nel codice. Non è entrato ancora nel codice perché i soggetti
deboli e per gli incapaci ci deve essere comunque una fascia, ci sarà tra l’altro se passerà, come sembra, l’amministrazione di sostegno, c’è una norma
significativa che dice “tutti gli incapaci, deboli, sfigati del mondo comunque
possono comprare il pane, il latte, il giornale, i francobolli, il tram” ecc. questa cosa del resto abbastanza ovvia verrà proprio suggellata e poi ce ne sono
tante altre e si dice “ah, i minori sostengono il mercato. Sono loro che comprano tutto, influiscono sui desideri della famiglia, sui consumi.” I minori
hanno in pugno il destino economico quindi autonomia, autosufficienza, indipendenza e quindi il diritto che deve riconoscere da un lato questo tipo di
autonomia che cresce),
(b) dall’altro lato l’impressione che i giochi siano fatti, che il muro di Berlino
è ormai caduto, che c’è un unico modello a questo mondo, che tutti i bambini sono in realtà uguali, che l’unica autonomia possibile dei bambini è quella di scegliere di andare a vedere un film con Brad Pitt oppure con George
Clooney, se comprarsi il piercing azzurro chiaro o quello azzurro scuro; i calzoni di Calvin Klein oppure quelli di Giorgio Armani. Si ha l’impressione, in
sostanza, che a questa forma di autonomia, di possibilità, di libertà corrisponde un massimo di omogeneità, di omologazione del desiderio, della scelta e
che quindi che ci sia o non ci sia questa autonomia è del tutto inutile. Un forte
contrasto.
La società in cui viviamo omologa totalmente gli adulti: c’è un unico modello, un unico martellamento ed un unico binario, tutti facciamo esattamente le
stesse cose, ci vestiamo esattamente nello stesso modo, diciamo le stesse
parole. Questa tendenza nei bambini è ancora più forte. C’è un unico bambino in Italia, e gli altri dieci milioni si assomigliano tutti quanti, quindi in contrasto un po’ con il discorso che facevo prima.
9.
llora, rispetto a tutto questo, il diritto come si può muovere?
AIn prima
battuta un taglio di intervento potrebbe essere questo (che è realistico quanto meno, poi vedremo subito se possiamo accontentarci): tagliare i
mali possibili che capitano ai bambini in due parti: i mali patologici e quelli
fisiologici..
Sui mali patologici il diritto è attrezzato per intervenire in qualche modo. I
mali forti che creano disastri forti, in quel caso il diritto può fare qualcosa.
E poi ci sono i mali più diffusi, più umbratili, più acquatici, più medusacei,
34
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
più inafferrabili, più sfuggenti, più sparpagliati, più diffusivi. Rispetto a tutti
questi mali qua il diritto è molto in difficoltà nel fare qualche cosa.
10.
vedendo questo per esempio rispetto ai diritti, ecco caliamo questa
Afuorillora
generica indicazione: “patologia, ok, il diritto può fare qualcosa, tirare
la rivoltella e fare qualche cosa; malessere della società dei consumi del
terzo millennio: è molto difficile”.
Calando questo tipo di schema rispetto alle varie situazioni, per esempio nel
diritto. Si è parlato stamattina di diritti, per esempio con i diritti classici,
chiamiamoli così: diritti borghesi, diritti napoleonici, quelli che hanno 200
anni o forse alcuni anche 2000, i diritti assoluti, il diritto assoluto della proprietà, enfiteusi, superficie, anche i bambini possono avere questi diritti naturalmente, e poi i diritti assoluti della personalità, l’integrità fisica, salute, vita
naturalmente, nome, onore, immagine, identità, ecco questi diritti forti diciamo che il bambino è protetto pressappoco come i grandi quindi finché viene
colpita una prerogativa di questo tipo che ha un suo statuto modellato sulla
proprietà e quindi abbastanza ricco di cittadelle, di strumenti difensivi, così
come la proprietà, in questo allora il diritto se la cava facilmente. Può escogitare facilmente delle risposte efficienti e poi però, ecco il punto, gli altri
diritti quelli della fase più sporca, più opaca, più sfuggente, più gelatinosa
che sono i diritti sociali, potremmo usare questa espressione di cui si parla
anche a lungo: il diritto, non dico addirittura alla felicità, ma il diritto al trasporto, il diritto alla casa, il diritto all’assistenza, il diritto all’ambiente, il
diritto alla scuola.
Ecco, se cominciamo a nominare queste parole che sono anche queste dei
diritti, anzi sono i diritti che stanno più a cuore, o stanno altrettanto a cuore
quanto i primi, a porsi di più ai soggetti deboli, categoria complessa di cui
parleremo fra un attimo, di cui i bambini sono certamente in testa, questi
diritti di carattere sociale, movimentistico, relazionale, colloquiale, dialettico, espansivo, sono diritti senza i quali la vita non è vita, soprattutto per un
soggetto debole però un soggetto debole è appunto un soggetto che non ce la
fa da solo ad esercitare pienamente questi diritti di solito. É debole proprio
in quanto anche i primi, ma anche i secondi, ha bisogno che ci sia un puntello, un sostegno, una maniglia che gli consenta di fare questo.
Rispetto a questo non è che il diritto possa fare moltissimo. Quindi, finché il
bambino verrà ucciso ci sarà una reazione giuridica, se il bambino verrà colpito seriamente pure in questo caso ci sarà forse ma se ciò che non funzionerà sarà il trasporto, la scuola, l’ambiente, la città, la bellezza ma anche di più,
l’amore in casa, l’ascolto, la comprensione, il dialogo, il rispetto, tutte queste cose qua sono molto più difficili per il diritto.
11.
appunto anche in famiglia. Come si fa per esempio a non dire costanteCso osìmente
questo, che se le cose non funzionano in molte famiglie, molto spesperché le cose non funzionano per il padre e per la madre, che lavorano
35
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
male, sono disoccupati, sono maltrattati, tutto è difficile, tutto è complicato.
Allora quando ci sono queste condizioni sociali difficili è ovvio che quel bambino sia in pericolo. Come pretendere che la donna che lavora a un milione e
340 mila come bidella o lava scale e torna a casa con i trasporti disorganizzati, poi voglia bene a questo bambino? O che il padre, che magari è vagamente alcolizzato, semi-disoccupato, sbeffeggiato, mobbizzato e che so che cosa,
torni a casa e si prenda il bambino e giochi con lui a qualsiasi cosa?
È molto difficile talvolta. Allora si fa vivo un certo senso di forte impotenza.
Non dico di avere la stessa posizione psicologica di Resta, stamattina (che mi
è parso un po’ pessimista). Io magari non sono completamente pessimista; ma
non voglio neanche fare troppo l’ottimista. Mi rendo conto che le risposte, lo
Statuto, la filigrana, noi possiamo immaginare è molto difficile e abbiamo
cominciato da poco tempo. È inutile fingere che sia facile. Queste condizioni circostanti che riguardano gli adulti, che riguardano soprattutto il territorio, la casa, la piazza, il condominio, la scuola, il trasporto, l’assistenza, la
cura, la cultura di cui parleremo fra un attimo che lo circonda; queste sono
cose che contano moltissime. Forse contano ancora di più di altre - su queste
cose possiamo fare molto poco.
12.
discorso per quanto concerne i consumi - e qui entro un po’ su un terSbe tesso
reno non dico più mio, perché non ne so poi tanto in realtà, ma che dovrebessere nostro.
In tutto ciò c’è anche un suggerimento a questo corso di Lucca.
In generale chiunque studi i bambini, questo è un Leit-motiv forte, non
dovrebbe mettere al centro del discorso il bambino che è bastonato, che sta
male, che è diviso fra i due genitori. Questo succede purtroppo, ma per dieci
bambini ai quali questo succede ce ne sono novanta per i quali questo non
succede e che succede, che cosa? Succede quello che dicevo prima: la televisione a tutto piano, i giornali di un certo tipo, il linguaggio che è di un certo
tipo, la scuola, l’asilo, la piazza, i trasporti, l’assistenza, questo tipo di referenze borghesi/sociali, territoriali ecco, il territorio del bambino.
Là è il vero punto per tutti, anche per i bambini fortunati. Ecco in qualche
modo, non dico un rimprovero ma certamente un invito a questo corso, che è
troppo polarizzato sul fatto che il bambino partecipa al il processo, ha genitori che litigano tra loro, lui deve dire la sua o non lo deve dire ecc. Sì questo è importante, ma è più importante la veste in cui il bambino è in qualche
modo un beneficiario del tipo di rivoluzione o comunque di adattamento
della società che noi dobbiamo immaginare, sul terreno dei diritti sociali in
cui non è tanto questo di chiedergli “tu vuoi respirare calcestruzzo o preferisci il benzene, tu vuoi andare nel tram n. 14?”
Non è questione di chiederglielo, è che dobbiamo fare la nostra parte. La
società deve fare la sua parte. È un po’ quella esagerazione, quella ipertrofia
che si ha quando si parla dei diritti dei malati in cui sembra che l’unico problema sia quello del consenso. Con Francesco Bilotta ho finito di scrivere un
libro sulla morte che adesso pubblichiamo su “Politica dei diritti”, i diritti di
chi sta per morire. Anche lì ci siamo accorti di questo. Il problema non è tanto
36
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
il consenso, domandare a lui “che cosa vuoi, come voi che sia il mondo? Vuoi
che ti curiamo o che non ti curiamo? Vuoi la puntura cosi ?” Non è questo il
punto. Non è soltanto questo.
Il punto è che il medico deve fare il suo mestiere, l’ospedale deve funzionare, le siringhe devono essere pulite, l’infermiere deve sapere fare la sua parte.
13.
il punto, il nodo centrale delle cose. C’è una battaglia di tipo geneÉle, questo
rale, politica molto cadenzata e baricentrata sul versante borghese, sociapolitico. E il punto del bambino che ha una famiglia che litiga è un aspetto, non dico secondario, ma certo un aspetto soltanto.
Prendiamo il nodo dei mass-media. Ecco la nostra attenzione da giocare;
ecco un caso in cui esiste una normativa davvero minuziosa. Poche cose sono
così analiticamente disciplinate come la televisione, i giocattoli, i farmaci, i
mass-media per esempio. Eppure la televisione è spesso un disastro, per i
bambini soprattutto. Non vorrei fare neanche troppo il pessimista, ma non
tanto perché ci sia troppa violenza oppure del sesso (di cui mi importa poco).
La violenza magari un po’ di più. Ma il vero punto è che la televisione è spesso stupida, diseducativa, omogeneizzante.
Quello è il vero male: l’omologazione, la mancanza di spessore, la mancanza
di respiro, la mancanza di vapori, di movimentazione. E questo riguarda anche
la pubblicità, riguarda lo sport, riguarda l’ambiente, riguarda la scuola.
In tutti questi casi è possibile cogliere un versante più cinematografico, più
scioccante dei grandi mali, e poi un’insieme di disagi in cui la noia si mescola alla mancanza di ascolto, al disamore, ai piccoli soprusi, alla solitudine.
Alle difficoltà di far camminare una pratica adeguata del territorio. E questo
deve stare al centro della nostra attenzione.
14.
llora adesso, rispetto a tutto questo che fare? come muoverci? Ecco io
Ariprendere
darei queste indicazioni. Sul terreno culturale, prima di tutto. Voglio
un accenno che è stato fatto stamattina, quando si è detto che i
bambini sono di tutti quanti, che la loro esistenza riguarda ognuno di noi.
Responsabilità collettiva di tutti noi sul conto dei bambini, ecco il punto;
certo i genitori devono fare la loro parte ma tutti dobbiamo farla la nostra
parte. I bambini sono di tutti quanti ed io vorrei subito uscire, non vorrei che
vi sembrasse troppo mediocre o deludente il tipo di indicazione operativa che
vorrei dare ma per esempio mi sembra che una norma giuridica da introdurre, da applicare con forza subito, è questa: responsabilità per omissioni di
chiunque di noi, vedendo un bambino che sta male, non fa niente.
Ognuno di noi deve prendere il telefono ed avvertire i servizi sociali, avvertire il Pubblico Ministero, ammesso che funzioni, avvertire qualcuno da qualche altra parte, efficiente. Se non lo fa, questa è una cosa che abbiamo messo
adesso in questa legge sull’amministrazione di sostegno che sta per passare,
lì c’è scritto per gli infermi di mente che chiunque venga a conoscenza delle
difficoltà esistenziali di una persona che sta male deve avvertire, il giudice,
37
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
il Pubblico Ministero, i servizi.
Se non lo fa, adesso in parlamento è stata tagliata l’ultima parte ma insomma, c’era nella vecchia, c’è una responsabilità diretta ma la responsabilità è
in nuce. Se c’è l’obbligo di agire ci sarà anche la responsabilità, cioè chiunque oggi quando passerà questa legge, che sta per passare in queste ore, spero
alla Camera, chiunque oggi sappia che c’è il suo vicino di pianerottolo o la
persona della casa di fronte o la vecchia zia che vive a Borgo Collefegato che
sta male e non ce la fa a gestire i suoi diritti perché ha dei problemi psichici
di un qualche tipo, deve darsi da fare. Deve quanto meno telefonare ai servizi, al Sindaco e se non lo fa sarà responsabile. Questa cosa deve valere per i
bambini, ecco un’indicazione operativa. Chiunque di noi può andare in giro
con la lampada e vede dei bambini che stanno male, che soffrono, ha il dovere di avvertire. Non può dire “ci penserà qualcuno”, questo è impossibile,
responsabilità collettiva.
15.
u un altro punto non mi sembra necessario insistere troppo perché è fin
Sseppellita
troppo ovvio. Poteva essere di moda qualche anno fa ma direi che è stata
abbastanza nel ridicolo. No ai miti anti-psichiatrici sul conto dei
bambini, no cioè all’idea “Ma lasciamoli crescere come vogliono. Lo sanno
loro come andare come dei piccoli carciofi in libertà!” É chiaro che non è
così: educazione, istruzione, ammaestramento. Certo in un certo modo naturalmente ma grande dovere di intervento di accompagnare il bambino in un
itinerario anche scolastico.
16.
erzo punto - lo si è detto (ma anche qui avrei delle precisazioni da fare) TIl diritto
quello del no all’autosufficienza del diritto.
non basta da solo a gestire i problemi dei bambini: occorre si intrecci opportunamente con la psichiatria, con la psicologia, con l’antropologia,
con l’economia; e insieme tutte queste discipline devono cercare un pacchetto prescrittivo che funzioni.
Io aggiungerei (più debolmente, se volete, ma molto pragmaticamente): no
soprattutto alla pretesa del civilista di fare tutto da solo - pretesa che invece
esiste presso non pochi civilisti, presso tanti professori di diritto delle università. I modelli giuridici, lo strumento operativo chiamato a gestire il bambino, è in effetti un aggeggio complesso, proprio sotto il profilo del diritto: in
cui il comparto civile si intreccia fortissimamente con quello amministrativo,
anche con il diritto tributario. E vanno immaginati degli insiemi - come
vedremo fra un attimo - in cui il diritto civile offre soltanto un centro, un’indicazione leader, ma che andrà poi organizzata con tutti gli altri diritti.
17.
così a quello che è il punto cruciale del discorso. Mi sono sforArriviamo
zato venendo qui a Lucca di immaginare un punto di aggregazione fra tutti
38
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
i punti di vista possibili.
Ebbene, mi sembra che questo punto potrebbe essere trovato cercandolo nel
cuore di due esperienze di ricerche che sono state portate avanti di recente:
l’una riguardante i soggetti deboli, l’altra relativa al danno esistenziale.
Nel repertorio dei soggetti deboli c’è un fatto che io chiamo l’elemento della
“contagiosità”: una contagiosità - va precisato - di natura sia interna che
esterna, e che non può non essere tenuta in conto da chi si occupa di problemi del genere. Chi comincia a occuparsi dei problemi di un soggetto debole
(che so, degli infermi di mente) non può fermarsi là: non si può dire: “ gli
infermi di mente ok, gli handicappati fisici no però, basta, ho già dato”;
oppure “le donne disoccupate sì, gli emigrati no invece; i nani si, i giganti no,
gli alcolisti no”. Contagiosità, si deve andare avanti fatalmente. Una volta
che hai cominciato non ti puoi più fermare.
E poi c’è anche una contagiosità interna. Nel senso che - se tu cominci ad
occuparti per esempio dei problemi della responsabilità civile dell’infermo di
mente; mettiamo, la riforma dell’art. 2046, dell’art.2047 c.c., così come
hanno fatto in Francia - non è che puoi dire “Mi fermo. Ho già fatto la mia
parte, non voglio occuparmi anche della famiglia”. No, ci si devi occupare
anche della famiglia dell’infermo di mente. Poi ci si dovrà occupare anche
dei contratti dell’infermo di mente; e subito dopo del lavoro dell’infermo di
mente. Ci si deve occupare di tutto; una volta che uno ha cominciato non può
fermarsi.
Tornando a me, allora: nella ricerca del modo di inserire gli infermi di mente
entro una galassia più ricca e più ampia; cercando i compagni di strada, e
domandandomi se aveva senso una confluenza unitaria delle categorie che ho
nominato e di altri insieme; e rispondendo che c’è in effetti un interesse scientifico ad immaginare tutte queste categorie di soggetti deboli insieme; e
domandandomi quale potesse essere il filo conduttore; ebbene, mi sembrò di
trovarlo in questo dato, che in qualche modo ho anticipato prima: è debole chi
non ce la fa a realizzare da solo la propria combinazione esistenziale.
La preferenza cadde su questa espressione “combinazione esistenziale”: che
voleva dire che ciascuno di noi, con una gamba o con due, con un occhio o
con due, con mezza testa o con una testa intera, comunque desidera delle cose;
ha una struttura psicologica, morale, storica, familiare di un certo tipo: sceglie
delle cose che vorrebbe fare o che vorrebbe avere o che vorrebbe essere.
Cerca nella vetrina dei beni della Costituzione: distilla, seleziona un collier
di beni che gli piacciono:”voglio diventare Napoleone Buonaparte, poi
voglio avere un’automobile rossa e poi voglio vincere il premio Nobel. Tu
invece…”, ecco la combinazione esistenziale.
È debole, allora, chi non ce la fa da solo a realizzare tutto questo; per il fatto
che c’è una mancanza forte di tipo istituzionale, oppure un handicap fisico,
oppure un disagio psichico, qualcosa che impedisce alla persona - per un
venti, un trenta o più per cento - di realizzarle. E il fuoco era appunto in quella combinazione esistenziale, in quel progetto di sé che uno aveva fatto.
C’è questo tipo di uscita, di modulazione lessicale che è uscita da quelle
esperienze; e uno tra i frutti più significativi è stato il danno esistenziale.
39
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
18.
ue parole su quest’ultimo, allora.
D
Il tentativo era, sin dalle origini, quello di trovare un filo conduttore persuasivo fra una serie di sentenze che in campi molto diversi (per esempio quello della tutela dell’ambiente, ma anche della famiglia, della tutela dei diritti
della personalità, nell’ambito del lavoro, delle immissioni, e così via) offrivano l’esempio di una vittima colpita nello svolgimento delle proprie attività realizzatrici. Qualcuno danneggiato cioè per il fatto che la qualità della sua
vita era peggiorata, e ciò appunto come conseguenza della avvenuta violazione di un diritto soggettivo - che non era mai però la vita, la salute, l’integrità fisica o psichica.
Era, per esempio, il diritto all’ambiente, il diritto all’identità personale; oppure il diritto alla compagnia della madre, il diritto al sostegno del padre, il diritto alla serenità familiare, il diritto al godimento di posizioni soggettive
comunque non di tipo cruento. Il soggetto leso era risarcito non tanto per le
sofferenze che aveva patito; anche queste contano naturalmente: ma la forza
del danno esistenziale (delle intuizioni al riguardo) era quello di portare dentro il diritto della responsabilità civile tutti i risvolti della la quotidianità: la
filigrana della vita giorno per giorno, la banalità domestica, scolastica, lavorativa, l’anonimato delle cose grandi e piccole. Il gioco dei rapporti sociali, la
normalità dei rapporti correnti con la madre, con il padre, con la scuola, con i
negozianti; e poi con i compagni dello sport, con il tempo libero, con gli
hobby, con le amatorialità, con le ricchezze della natura, e così via.
Questo ventaglio di riferimenti non c’era prima, se non marginalmente, entro
la responsabilità civile. Neppure nel resto del diritto. C’era la sofferenza,
c’era il danno morale, il pianto, le lacrime, il patimento, la disperazione; tutti
elementi che contano, certamente; e che contano però fino ad un certo punto.
Molto di più conta la normalità, la quotidianità, l’intrattenere i rapporti con
gli altri in modo civile, manifesto, avere il padre, avere la madre, avere i fratelli, avere la propria dignità e giorno per giorno espandere queste forze, questa ricchezza all’interno della casa, del quartiere, della scuola, del lavoro, del
parco in maniera civile, urbana, feconda. Ecco l’idea quindi della florealità,
della fioritura, l’espansione, il germoglio, il rigoglio. Queste sono le parole
chiave tutte tagliate secondo una curvatura fortemente sociologico/territoriale, questo è il linguaggio che porta dentro come conseguenza della violazione, del sopruso fatto ad un diritto soggettivo diverso dalla salute. Anche il
danno biologico è stato esistenzializzato perché in realtà come conseguenza
di una lesione fisica, il punto non è tanto e soltanto l’aspetto patrimoniale
oppure l’aspetto statico del danno biologico. Quello che conta poi è quello
che non facciamo più, la diversa qualità della vita, i diversi rapporti sociali
così come siamo costretti ad impostarli..
19.
a noi se raccogliamo insieme le indicazioni di questa combinazioTornando
ne esistenziale, di questo progetto esistenziale che è un po’ il fuoco del
40
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
debole, insieme a questo elemento della quotidianità ce ne è abbastanza, mi
pare, per fondare, per lanciare, per proclamare oggi la nascita di un nuovo
diritto della persona che noi pensiamo di battezzare “diritto alla realizzazione personale”, la cui matrice prescrittiva è ovviamente secondo il comma dell’articolo 3 della Costituzione “è compito della Repubblica di rimuovere gli
ostacoli che di fatto…” diritto che vive, attenzione, prima di lapidarmi sotto
accuse di utopismo, diritto che vive di moltissime indicazioni legislative che
ci sono, perché ci sono molte leggi che già tratteggiano esattamente questo
sound che vi sto raccontando, cioè l’espansione. C’è la legge 104 per esempio, la legge sull’handicap, ce ne sono delle altre in cui c’è un conteggio, un
inventario molto preciso ed analitico di beni di posizione che l’handicappato
per esempio deve conquistarsi e questa è una falsariga che può essere utilizzata un po’ per tutti quanti i soggetti deboli, quindi il diritto alla realizzazione, il diritto che un bambino ha a realizzarsi, ad avere un certo progetto che
al 50% avrà una specie di generalità, di accomunamento con quello di tutti
quanti, poi ci sarà un 50% di peculiare, di particolare, di idiosincratico. C’è
questo diritto a realizzarsi ed il diritto deve fare in modo, il diritto oggettivo,
deve fare in modo che questo si realizzi. Allora questo mi pare che consenta
di recuperare in un certo modo, dare un senso diverso, meno statico, meno
contabile come si diceva questa mattina, tante posizioni.
20.
è poi il momento della soggettività da recuperare in cui forse paradossalC’
mente i momenti di autonomia che più mi colpiscono non sono tanto
quelli di tipo consumistico/produttivo, il bambino che può comprare, che può
non so, firmare la cambiale a 17 anni, mettiamo. Ma le scelte per esempio
sulla medicina, in cui lui deve decidere; anche quelle sulla famiglia.
Famiglia, medicina, i terreni non patrimoniali sono quelli più significativi.
Mentre quelli patrimoniali mi sembrano francamente più magnetizzati da
questa specie di avvolgimento, di pervasività consumistica, vedo invece
molto forti, momenti di tipo non patrimoniali: scolastico, educativo, culturale, affettivo, sessuale e naturalmente anche medico.
21.
ispetto poi a questo quadro del consumismo, che è un po’ un martellamenR
to per me, io penso che ci sia un’indicazione invece che in questa chiave
di diritto alla realizzazione personale si può dare ed è quello che dobbiamo
garantire al bambino che ci sia intorno a lui una circolazione di modelli. Non
dobbiamo credere che i giochi siano completamente fatti, che ci sia un unico
paradigma possibile chiuso, ferreo, immutabile, identico per tutti, che siamo
già in tempi di clonazione. Non siamo ancora a questo.
C’è indubbiamente una tendenza ai un certo tipo di massificazione e di omogeneizzazione ma c’è anche all’interno di questo una circolazione di modelli diversi. Parole d’ordine di vario genere: c’è il volontariato, c’è la cultura,
c’è la bellezza, c’è il cinema, c’è lo sport, c’è il turismo. Tutte queste cose
qui sono cose che dobbiamo garantire al bambino, quindi la chiave di volta è
41
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
che il bambino per come è in famiglia, per come è nella scuola, per esempio,
non sia in condizione asfittica e naturalmente sarà compito dei servizi di cui
parlerò fra un attimo garantire questo.
22.
fondamentale dei servizi sorvegliare i bambini, vedremo quali
Èallacompito
sono questi servizi, e garantire questa circolazione di modelli. Rispetto
televisione, rispetto allo sport, rispetto all’ambiente, rispetto alla pubblicità, rispetto agli assalti, tutti di questo tipo, il nostro compito di giuristi è
garantire la circolazione di modelli. Impedire che ce ne sia un unico che assume il sopravvento.
Anche con le famiglie questo è molto forte. In fondo il male maggiore della
famiglia forse non è tanto quello, in certi casi, di bastonare il figlio, ma di
dare una cultura monistica, settorializzata, immobile, glaciale che impedisce
questa circolazione di modelli.
Il servizio che riscontra una famiglia così cieca, analfabeta, chiusa come ce
ne sono molte, morta in definitiva, ecco il compito di ridare fiato, far circolare questi modelli. Sarà il bambino a pensare, il bambino poi è molto difeso, io credo. Sa difendersi da solo rispetto a questi assalti della stupidità, del
sesso, della pornografia, della cretineria però bisogna dargli questi modelli,
bisogna metterlo in condizioni di accorgersi che ci sono varie parole d’ordine e questo non è facile.
23.
on il danno esistenziale - anche qui è una cosa che andrà avanti in questa
Cdiritto;
direzione - ci sono sentenze importanti, che stanno cambiando il nostro
e che hanno valore, oltre che in se stesse, per il fatto che danno protezione a singole situazioni di sofferenza: per il fatto che introducono questa
cultura della normalità.
Certo, tutto è più facile per il diritto quando il danno esistenziale è arrecato
da un esterno alla famiglia: tipo l’uccisione del padre, della madre, il ferimento, la violenza sessuale alla bambina. Sentenze che conosciamo e che
abbiamo anche commentato.
È assai più difficile immaginare un ricorso alla responsabilità, soprattutto per
danno esistenziale, nel caso - mettiamo - di un’azione intentata dal figlio nei
confronti dei genitori. È pure difficile immaginare un coniuge contro l’altro,
marito e moglie che si citano in giudizio per i danni, anche se queste cose
stanno avvenendo.
Le prime sentenze sono cominciate e continueranno. C’è stata già una sentenza, per esempio, molto significativa - la 7713 del 2000 - che ha condannato un padre il quale per alcuni anni non aveva mantenuto il suo bambino. È
stato condannato il genitore non soltanto a corrispondere i soldi del mantenimento, ma anche una certa posta a titolo di danno esistenziale. In quella direzione le cose potrebbero camminare.
42
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
24.
sono un’altra risposta importante al male; e a tutto questo deve
IOggiservizi
andare anzi il fuoco maggiore della nostra attenzione.
si parlava di cattive risposte giudiziali. Certo il processo non funziona,
va bene solo per i casi patologici. Invece la questione maggiore si pone per
la “fisiologia” del male, per il guasto pervasivo: le stupidità in agguato, le
mediocrità croniche, le opacità persistenti. È il servizio che deve intervenire
e lì dobbiamo fare i nostri sforzi.
Quali servizi, in che forma? Quale scuola di formazione, con quanti soldi, in
che modo? Lo studioso di bambini dovrebbe diventare un mezzo amministrativista, un mezzo economista: aprirsi comunque a tante altre discipline ulteriori al diritto.
D’altronde, questi servizi possono essere di tanti tipi. Per esempio, non so se
in Toscana - ma immagino di sì - avete la figura di un tutore dei minori, come
è stato fatto in Friuli Venezia Giulia. Si tratta di immaginare un Centro al
quale andranno segnalate, via via, situazioni che non siano proprio cruente,
ma appaiano situazioni di disagio, di difficoltà, di abbandono, di stasi.
Un tutore dei minori in grado di contattare i vari servizi che esistono ed attivarli: cercare una risposta a queste condizioni di abbandono del figlio senza
passare allo strumento del processo. Anche i servizi scolastici sono una cosa
molto importante. Immaginare la scuola che in molti casi è l’unica cosa che
c’è come un terminale, come un avamposto che esiste, che dovrebbe essere
in grado di percepire segnali di malessere, di disagio che riguardano non soltanto fatti scolastici o magari fatti di difficoltà del piccolo immigrato, ma
anche fatti che hanno a che fare con la famiglia.
25.
a stessa tutela esecutiva: c’è stata una sentenza a Roma - qualche tempo fa
Lbambino
- che ha condannato la pubblica amministrazione a pagare la retta ad un
handicappato, il quale aveva bisogno di una scuola di sostegno che
non aveva trovato nella scuola pubblica. Esisteva un istituto privato che era
in grado di dargli questo servizio, la sentenza del giudice ha imposto
all’Assessore alla pubblica istruzione “paga tu questa cosa qua”.
È una cosa abbastanza strana: il giudice ordinario che condanna la pubblica
amministrazione a difendere un diritto della personalità del minore in questo
caso. Una prestazione di tipo giudiziario posta a carico dell’Assessore e decisa però non dalla p.a.: è una cosa che ci può imbarazzare; siamo abituati alla
divisione dei poteri, di qua c’è il giudiziario, di qua c’è l’amministrativo,
sono cose ben diverse. Invece in questo caso c’è un provvedimento del giudice ordinario, non è neanche la prima volta: la tutela esecutiva quando sia in
gioco un diritto della persona.
Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi; però mi pare chiaro che c’è
una necessità di immaginazione applicativa che va in tante direzioni. E dobbiamo farcene carico tutti quanti.
Grazie
43
AIAF
QUADERNO NUMERO
L’
interpretazione soggettiva degli eventi da parte del bambino, forgiata
dal suo modo di percepire e comprendere, è centrale al modo in cui i
vissuti e le esperienze vengono integrate.
Ciò implica che gli adulti, genitori e figure professionali, devono dimostrare
un’autentica disponibilità nei confronti del bambino, cioè un’attenzione ai
suoi vissuti e a i suoi reali bisogni, per garantirgli una adeguata immagine di
sé e una capacità di controllo personale degli eventi, attraverso l’acquisizione di una competenza sociale, affettiva e cognitiva che gli consenta di utilizzare le opportunità presenti nell’ambiente.
L’intima connessione tra qualità delle relazioni sociali, competenze cognitive e differenze affettivo-emotive del bambino e la capacità di reazione di
quest’ultimo allo stress viene colta dal modello teorico dell’attaccamento.
Il comportamento di attaccamento del bambino piccolo a sua madre o a un
suo sostituto significativo è sotteso da
un sistema comportamentale di base,
particolarmente evidente nella prima
infanzia, ma presente durante tutto
l’arco dello sviluppo, la cui funzione è
quella di garantire la protezione del
piccolo attraverso la ricerca e il mantenimento della vicinanza con una
figura specifica.
Aspetto centrale di questa teoria è il
postulato secondo cui i primi legami
d’attaccamento sono organizzati in
modelli operativi del sé in relazione
con gli altri.
L’origine del concetto di Modello Operativo Interno (MOI) risale a Craik, il
quale, occupandosi di intelligenze artificiali, intendeva i Modelli Operativi
Interni come strutture mentali che conservano la configurazione temporale e
causale dei fenomeni del mondo reale (Bretherton 1992), esse servono all’individuo per reagire alle situazioni future prima che si presentino e decidere
quale comportamento attuare proprio perché possono essere usati come se
fossero modelli in scala ridotta.
Bowlby riprende la metafora di Craik e teorizza l’origine dei Modelli
Operativi Interni nell’interazione continua del bambino con il caregiver (=
colui che si prende primariamente cura del bambino) attraverso cui il piccolo si forma delle rappresentazioni che comprendono il Sé e la figura di attaccamento. Poiché derivano da modelli di interazione diadica queste rappresentazioni sono sempre complementari in modo tale che al modello di una figura di attaccamento positivo (un genitore attento che si prende cura del bambino) corrisponde una rappresentazione del Sé positiva, come di una persona
degna di ricevere cure e amore.
Il fatto che questi Modelli siano Operativi significa che non sono statici ma
che vengono utilizzati per assimilare esperienze legate al Sé e all’ambiente,
le strutture mentali sono costantemente rielaborate per adattarle a nuove
esperienze di attaccamento e questa rielaborazione continua comporta una
progressiva differenziazione e complessità crescente.
COME PARLARE
AI BAMBINI
DR.SSA
LAURA
VISMARA
ASSEGNISTA RICERCA
UNIVERSITÀ LA SAPIENZA ROMA
44
2004/1
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
In quest’ottica anche i Modelli Operativi di attaccamento insicuro non sono
propriamente disfunzionali perché risultano dall’adattamento del Sé alla specifica relazione di attaccamento con il caregiver. La loro caratteristica dinamica fa sì che essi si possano modificare anche se il cambiamento dei i
modelli derivanti da relazioni non soddisfacenti appare, anche a fronte di
ricerche recenti, più difficile da ottenere.
L’approfondimento e lo sviluppo di questi aspetti sono attualmente molto fervidi e utilizzano come principale strumento di ricerca l’Adult Attachment
Interview, strumento parallelo alla Strange Situation messo a punto da Mary
Ainsworth per osservare l’interazione comportamentale della diade madrebambino.
Gli autori di questo strumento hanno reso operativi i concetti teorici della
teoria dell’attaccamento costruendo uno strumento di osservazione standardizzato della coppia madre-bambino, utilizzato sia per la ricerca sia per la
diagnosi, che permette di raggiungere una misura dell’attaccamento condivisibile e generalizzabile ad altri contesti culturali. La Strange Situation è un
paradigma di osservazione del comportamento del bambino in cui la diade
viene sottoposta a situazioni strutturate in cui il bambino viene separato dalla
figura di attaccamento. Questo strumento è stato ormai ampiamente diffuso
in tutto il mondo ed ha dimostrato validità transculturale. L’osservazione
delle reazioni alla separazione e al ricongiungimento durante le diverse fasi
dell’osservazione ha portato alla definizione dei quattro stili di attaccamento: lo stile di attaccamento sicuro, quello insicuro evitante, quello insicuro
ambivalente e la tipologia disorganizzata.
L’ideazione dell’Adult Attachment Interview, l’intervsita semi-strutturata
costruita da Mary Main, ha permesso di avere uno strumento che indaga i
Modelli Operativi Interni degli adulti e di poter svolgere numerose ricerche
tese ad individuare correlazioni tra lo stile di attaccamento dei bambini e le
rappresentazioni dei loro genitori rispetto ai propri legami di attaccamento. I
risultati di numerose ricerche hanno confermato le ipotesi dei ricercatori
riguardo alla trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento, molto spesso cioè un figlio che ha uno stile di attaccamento sicuro ha un genitore a sua
volta sicuro mentre un genitore che risulta insicuro nella codifica dell’AAI
ha molto spesso un figlio insicuro rispetto all’attaccamento. Le modalità in
cui avviene questa trasmissione non sono ancora chiare ma è evidente ormai
che lo stile di attaccamento dei genitori influenza lo stile di attaccamento dei
figli attraverso le modalità di interazione quotidiana in cui i bambini si adattano allo stile dei genitori. Fattori sicuramente importanti sono la capacità
metacognitiva del genitore, la sua capacità di pensare ai pensieri del bambino, e la coerenza narrativa nel raccontare la propria infanzia.
Secondo Main e Goldwyn la capacità metacognitiva può essere colta attraverso l’analisi del trascritto dell’AAI dalla quale emerga la presenza di affermazioni riguardanti la verifica e il riferimento dei propri processi di pensiero e di ricordo durante l’intervista. Influenzate dalle ricerche cognitive della
teoria della mente (Astington, Harris, Olson, 1988), Main e Goldwyn definiscono capacità metacognitiva: 1) il riconoscimento delle diversità rappresentazionali (quello che gli altri sanno, io posso non saperlo; quello che io so,
gli altri possono non saperlo; quello che pensano gli altri od io può essere
45
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
falso) e 2) il cambiamento rappresentazionale (quello che penso oggi può
essere diverso da quello che pensavo ieri o che penserò domani). Il rapporto
tra attaccamento e metacognizione è molto complesso, anche perché, come
afferma la stessa Main (1991) “è difficile stabilire se la sicurezza abbia positivamente influenzato il funzionamento metacognitivo oppure il funzionamento metacognitivo abbia positivamente influenzato la sicurezza”.
Peter Fonagy e il gruppo di ricerca dell’University College di Londra hanno
sviluppato invece gli aspetti intersoggettivi della metacognizione, intimamente collegati alla rappresentazione di sé studiata in campo evolutivo
(Damon, Hart, 1988). La capacità di mentalizzare riguarda la capacità di
vedere se stessi e le altre persone in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri) e di ragionare sui propri e gli altrui comportamenti in termini di stati mentali, attraverso il processo della riflessione.
Tale funzione permette di “distinguere la realtà interna da quella esterna, le
modalità di funzionamento immaginarie da quelle reali, i processi intrapersonali (mentali ed emotivi) dalle comunicazioni interpersonali” (Fonagy,
1997). Perché un individuo possa raggiungere la mentalizzazione propria del
complesso funzionamento riflessivo, è necessario che la persona integri
modalità di esperienze diverse, connesse alla realtà interna ed esterna.
Secondo Fonagy perché ciò si verifichi, è necessario che il caregiver percepisca il bambino come un “agente mentale” sin dalle sue prime fasi di vita,
mostrandosi sensibile e percependo correttamente gli stati mentali del figlio
nel corso delle loro interazioni. L’autore ha operazionalizzato il concetto di
Funzione Riflessiva attraverso la costruzione di una scala di valutazione
applicabile all’AAI di Main e Goldwyn. Il riferimento esplicito agli stati
mentali in esempi che rappresentano sé e gli altri come individui che pensano e provano sentimenti ed emozioni; l’anticipazione della reazione di un
altro, che prende in considerazione la percezione che l’altro ha del proprio
stato mentale; la sensibilità alle caratteristiche degli stati mentali, quando si
manifesta esplicita consapevolezza del potere limitato dei desideri e dei pensieri (es., riconoscere che i desideri possono non essere realizzati); la sensibilità alla complessità e diversità degli stati mentali come, per esempio, viene
mostrato dall’esplicito riconoscimento della possibilità di più prospettive
relative ad un medesimo evento; i tentativi di connettere determinati stati
mentali a specifici comportamenti osservati come avviene quando si afferma
che le persone possono esprimere emozioni diverse da quelle che in realtà
provano e possono intenzionalmente desiderare di ingannare al fine di proteggere il Sé; la considerazione della possibilità del cambiamento negli stati
mentali con implicazioni sul comportamento conseguente, come quando si
riconosce la possibilità di un cambiamento di atteggiamento nel futuro sono
tutti aspetti che indicano la presenza di un’attivazione della capacità riflessiva.
Attraverso la codifica della scala della Funzione Riflessiva e dello stile di
attaccamento emergenti dall’AAI, è stato possibile constatare che la funzione riflessiva interviene nello sviluppo dell’attaccamento sicuro del bambino.
Un bambino, infatti, potrà sentirsi sicuro solo quando il caregiver è in grado
di capire e pensare al proprio bambino in maniera adeguata, facendolo sentire sicuro in relazione al suo complesso funzionamento psichico.
46
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
DIMENSIONI DELLA FUNZIONE RIFLESSIVA
La capacità del genitore di riflettere
A
sugli stati mentali degli altri ha grande
- Consapevolezza della natura degli stati mentali
influenza sullo sviluppo delle strutture
- L’opacità degli stati mentali
del Sé del bambino (Winnicott, 1958,
- Gli stati mentali sono suscettibili di mascheramento
Bion, 1967; Kohut, 1977). Il caregiver
- Riconoscimento delle limitazioni degli insight
riflette sulle esperienze mentali del
- Gli stati mentali sono legati all’espressione di giudizi
bambino e gliele ri-presenta, tradotte
normativi appropriati
nel linguaggio delle azioni fisiche a
- Consapevolezza della natura difensiva di alcuni stati mentali
lui comprensibile. Il ruolo del genitore
B
è di fornire uno “specchio sociale
- Sforzo esplicito di estrapolare gli stati mentali sottostanti il
creativo” (Fonagy, 1993), che colga
comportamento
- Attribuzione accurata di stati mentali agli altri
per il bambino gli aspetti della sua
- Considerare la possibilità che i sentimenti riguardanti una
attività aggiungendo una prospettiva
situazione possano non essere connessi ai suoi aspetti
organizzativa. Se il genitore è suffiosservabili
cientemente sintonizzato, il bambino
- Riconoscimento delle diverse prospettive
ha l’illusione che il processo di rifles- Prendere in considerazione il proprio stato mentale
sione è avvenuto in lui; ciò oltre a fornell’interpretare il comportamento dell’altro
nirgli una comprensione di se stesso,
- Valutare gli stati mentali dal punto di vista del suo impatto
aumenta il suo senso di efficacia.
sul comportamento di sé e/o dell’altro
L’abilità di prendere in considerazione
- Freschezza di ricordo e pensiero sugli stati mentali.
gli stati mentali dell’altro nel pianifiD
care e strutturare le azioni è probabil- Riconoscimento degli aspetti evolutivi degli stati mentali
- Lo sforzo di comprendere il livello di sviluppo del bambino
mente acquisita in modo attendibile a
e le sue capacità in costante evoluzione
partire dai 3 anni di età (Wimmer,
- Prendere una prospettiva evolutiva
Perner, 1983). Il livello più avanzato
- Prendere una prospettiva intergenerazionale, facendo
di funzione riflessiva, consistente
connessioni tra generazioni
nella capacità di pensare sui pensieri
- Considerare i cambiamenti degli stati mentali tra passato e
di un’altra persona rispetto ai pensieri
presente, e futuro
di una terza, non viene acquisita prima
- Considerare i processi transazionali tra genitore e bambino
dei 6 anni (Flavell, 1982). In adole- Comprendere i fattori che evolutivamente determinano la
scenza, con l’acquisizione del pensieregolazione affettiva
ro operativo formale, si assiste ad un
- Consapevolezza delle dinamiche familiari
ulteriore cambiamento del sé riflessiE
- Stati mentali in relazione all’intervistatore
vo. Lo sviluppo del ragionamento
astratto, dell’attenzione e della flessibilità cognitiva ha una considerevole influenza sulla Funzione Riflessiva così
come sulla cognizione sociale. L’individuo, nel corso della fanciullezza sviluppa progressivamente la capacità di inferire ed assumere la prospettiva
degli altri, che a conclusione della tarda adolescenza, gli dà la possibilità di
comprendere il mondo fisico e psichico che lo circonda in modo più ricco e
complesso (Anthony, 1997). La capacità di avvalersi del ragionamento per
concetti ipotetici sembra permettere la riorganizzazione del quadro cognitivo-affettivo delle proprie relazioni di attaccamento e la possibilità di sviluppare un modello di attaccamento più stabile ed integrato, che fornisce un
senso di continuità personale.
A consolidare tale prospettiva, in tempi relativamente recenti, ha assunto un
ruolo di sempre maggiore rilevanza il paradigma teorico e di ricerca dell’infant research, che ha affrontato il problema partendo dall’integrazione di
47
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
alcuni principi della teoria dell’attaccamento, della tradizione dinamica e
della teoria sistemica. Tale modello ha sottolineato, con osservazioni accurate e puntuali, come la madre e il bambino interagiscano fin dai primi minuti
di vita portando ciascuno il proprio contributo nella relazione. La matrice dei
significati personali e interpersonali è quindi una matrice relazionale.
L’approccio interattivo-cognitivista si occupa in maniera particolare di rintracciare i precursori dello sviluppo delle capacità cognitive nelle primissime
interazioni del bambino con le altre persone. Questo approccio rivolge un’attenzione particolare al problema del significato e dell’intenzionalità e pone al
centro l’interrelazione tra elementi sia a livello di analisi del comportamento
intraindividuale che interindividuale. In questo modo rifiuta decisamente
ogni modello meccanicistico.
Oltre a ciò gli autori applicano alcuni dei principi della teoria dei sistemi
all’osservazione della diade madre-bambino che viene considerata un sistema aperto, che si autoregola, in cui non solo c’è la possibilità di una continua autocorrezione rispetto agli scopi ma lo scambio di informazioni avviene sia all’interno del sistema che con l’esterno, con il sistema più ampio in
cui la diade è inserita. È inevitabile quindi che l’osservazione si allarghi per
coinvolgere anche la famiglia, dando una maggior importanza al padre tanto
a lungo trascurato.
Secondo Stern (1995) anche da un punto di vista clinico, quando si ha a che
fare con bambini piccoli, è assolutamente centrale l’osservazione dell’interazione, soprattutto di quella tra madre e bambino, perché in essa si esprimono
e si costruiscono le rappresentazioni e le fantasie di entrambi e sono queste
fantasie e rappresentazioni a influenzare il comportamento dei singoli membri della diade. Allo stesso modo questo è il luogo in cui emerge un eventuale sintomo e quindi è questo il contesto in cui esso va osservato e valutato.
La madre, così come il padre, ha una serie di rappresentazioni del bambino e
si sé come madre già da prima della nascita del figlio e addirittura del suo
concepimento; queste rappresentazioni sono costruite da vari elementi relativi alla rappresentazione che il genitore ha di sé, del proprio coniuge e anche
da vari elementi della storia della propria famiglia di origine; pertanto il
genitore si muove costantemente tra l’interazione comportamentale e la vita
rappresentazionale. Il bambino organizza in sei diversi formati le differenti
caratteristiche dell’evento esperito nel momento emergente e li connette in
una rete costruendo lo schema di essere con, rappresentazione di esperienza
di interazione con qualcuno (Stern 1994); la rete di schemi di essere con a sua
volta permette di elaborare le fantasie, i ricordi, le narrazioni e anche il
momento presente. Queste rappresentazioni vengono inferite osservando il
comportamento del bambino.
Vari autori hanno cercato di rintracciare le caratteristiche che fanno di un’interazione tra una madre e il suo bambino uno scambio diadico funzionale e
piacevole. In particolare Tronick (1989) parte dall’ipotesi che la modalità di
funzionamento del sistema costituito dalla diade abbia un’influenza determinante sull’efficacia con la quale il bambino persegue i propri obiettivi, sul
modo in cui sperimenta le emozioni di segno diverso e sugli esiti del suo sviluppo. Per analizzare l’interazione l’autore considera i parametri di reciprocità, sincronia e coerenza aggiungendo però che essi non sono sempre otti48
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
mali nemmeno in un “buono scambio”: ad esempio la coordinazione non è
presente per più del 30% del tempo dell’interazione. Diviene quindi fondamentale nella realizzazione di un felice scambio la capacità di riparare l’errore interattivo (Tronick 1989) e di passare in modo fluido e indolore da stati
coordinati affettivamente positivi a stati non coordinati affettivamente negativi e di nuovo a stati coordinati. Il bambino sperimenta così affetti negativi
di breve durata e reversibili, le sue esperienze di riparazione aumentano le
sue capacità di autoregolazione, le sue competenze affettive e la sua percezione di essere in grado di rimediare agli errori interattivi con la collaborazione di un partner altrettanto disponibile, competente e interessato ad avere
una felice interazione con lui. Al contrario, nelle interazioni anormali in cui
l’esperienza del fallimento è cronica, per il bambino la regolazione degli
affetti negativi diventa l’obiettivo centrale rischiando di trasformarsi nell’adozione di comportamenti difensivi che, come conferma la ricerca sull’attaccamento, possono diventare patologici.
Molti studi negli ultimi vent’anni hanno sottolineato e dimostrato l’importanza delle emozioni e della reciprocità affettiva per l’adattamento reciproco
nella relazione tra madre e bambino e per lo sviluppo di quest’ultimo. Molti
autori considerano ormai la condivisione degli affetti fondamentale per uno
sviluppo armonioso sia affettivo che cognitivo. In particolare la “sintonizzazione affettiva” che inizia prima del compimento del primo anno con il riferimento sociale è considerata (Stern 1985) una tendenza adattiva biologicamente determinata che ha un ruolo fondamentale nello sviluppo della teoria
della mente. Poiché secondo Emde (1991) il bambino viene al mondo predisposto sia all’autoregolazione che all’interazione, la mancanza della condivisione degli affetti positivi può costituire un fattore di rischio per il successivo sviluppo; infatti il nucleo affettivo del Sé struttura l’esperienza dandole
continuità e la segnalazione delle emozioni permette al bambino di comunicare i propri bisogni, in questo modo le emozioni positive sperimentate e
riconosciute grazie alla disponibilità emotiva e alla risposta empatica dell’adulto fungono da mediatori nella progressiva organizzazione dell’esperienza.
Analogamente Trevarthen (1984, 1997) chiama “intersoggettività” la coordinazione affettiva in cui madre e bambino colgono reciprocamente le manifestazioni affettive del partner e forniscono una risposta complementare; l’intersoggettività insegna al bambino a comprendere le emozioni manifestate
dagli altri e a usare le espressioni emotive per regolare l’interazione affettiva, elementi chiave per regolare le relazioni interpersonali e le rappresentazioni mentali di esse.
Stern (1995) traccia l’evoluzione dei compiti interattivi partendo dai primi
due mesi dopo la nascita in cui l’interazione è quasi unicamente orientata alla
regolazione delle attività fisiologiche, mangiare e dormire, e prosegue con
l’interazione sociale faccia a faccia senza giocattoli, poi con il gioco con gli
oggetti, seguito dalla vera e propria intersoggettività, qui intesa come la comprensione da parte del bambino dell’esistenza di contenuti mentali della
madre, per giungere infine, con l’acquisizione del linguaggio e di una maggiore mobilità e indipendenza, alla negoziazione delle regole sociali. La
conoscenza delle tappe dello sviluppo del bambino è molto importante per
capire, di volta in volta, quali siano i compiti che la diade deve assolvere e
49
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
valutare quindi se l’interazione tra i partner è adeguata all’età e alle caratteristiche del piccolo.
Da quanto presentato si rileva quanto sia importante dare ascolto ai bambini
anche in età molto precoce, seppure tenendo conto del periodo evolutivo specifico.
L’individuo, infatti, elabora l’informazione attraverso due processi:
- l’ELABORAZIONE PRIMARIA, cioè le informazioni sul grado di negatività, minaccia e rilevanza della situazione relativamente a sé per verificare se essa è pericolosa oppure no.
Essa implica la capacità innata del bambino, mantenuta anche nelle fasi
evolutive successive, di codificare i messaggi non verbali (espressione del
viso, tono della voce, intensità delle
emozioni);
e:
- l’ELABORAZIONE SECONDARIA, cioè le informazioni per comprendere il conflitto e far fronte ad
esso. A questo livello il bambino si
pone le domande:
1) Cosa sta succedendo?;
2) Chi è il responsabile?;
3) Che possibilità ho per affrontarlo con successo?
In considerazione di queste competenze, quindi, di fronte al conflitto fra gli
adulti si rivela necessario analizzare, come proposto da Grych e Fincham (in
Di Blasio, 2000), le reazioni dei figli, rivolgendo loro delle domande che li
pongano in una situazione di maggiore chiarezza e prevedibilità. Le reazioni
dei bambini, infatti, hanno una caratteristica di processualità e dinamicità;
l’esito negativo delle reazioni, pertanto, deve considerarsi connesso a) al
conflitto stesso (tipologia) e b) alla mancanza o alterazione delle informazioni (per il figlio) che si connette alla difficoltà di elaborare psicologicamente
ciò che accade nella famiglia (Di Blasio P., 2000).
Nell’ambito di questa prospettiva, quindi, l’adulto ha il compito doveroso di
aiutare il bambino ad esprimersi, riconoscendo i suoi bisogni e le sue richieste e rispondendovi in modo adeguato, o, comunque, riparando agli inevitabili errori interattivi ed interpretativi che caratterizzano sempre la relazione
caregiver-bambino, e ancora di più, le relazioni tra adulto e minore in una
situazione di crisi quale è la relazione genitore-figlio durante il processo di
separazione e divorzio.
BIBLIOGRAFIA
Ainsworth M.D.S., Blehar M.C., Waters E., Wall S. (1978) Patterns of
attachment: A psychological study of the Strange Situation. Hillsdale NJ:
Erlbaum.
50
I BAMBINI NEL TEMPO DEI DIRITTI
Anthony, B.J. (1997) Cognitive development in adolescence. In J.D. Noshpitz,
J. Wiley (a cura di) Handbook of Child and Adolescnt Psychiatry, New
York.
Asington, J.W., Harris, P.L., Olson, D.R. (a cura di) (1988) Developing
Theories of Mind. University Press, New York.
Bion W.R. (1967) A theory of thinking. In Second thoughts. London:
Heinemen.
Bowlby, J. (1973) Attaccamento e perdita. Vol.2. La separazione dalla madre,
Bollati Boringhieri, Torino 1975.
Bowlby, J. (1988) Una base sicura, Raffaello Cortina Editore, Milano 1989.
Bretherton, I. (1992) Modelli operativi interni e trasmissione
intergenerazionale dei modelli di attaccamento in Ammaniti, M., Stern,
D.N. Attaccamento e psicoanalisi, Editori Laterza, Roma 1992.
Damon, W., Hart, D. (1988) Self-understanding in childhood and adolescence.
Cambridge: Universities Press, Cambridge.
Di Blasio P. (2000) Psicologia del bambino maltrattato, Il Mulino, Bologna
Emde, R.N. (1991) Emozioni positive in psicoanalisi, in Riva Crugnola,C. (a
cura di.) La comunicazione affettiva tra il bambino e i suoi partner,
Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
Emde, R.N. (1991-b) Gli sviluppi della teoria dell’attaccamento e le influenze
delle relazioni sulle relazioni, in Ammaniti, M., Stern, D.N. Attaccamento
e psicoanalisi, Editori Laterza, Roma 1992.
Flavell, JH (1982) On cognitive development. Child Development, 53, pp. 110.
Fonagy, P., Steel, M., Steel, H., Leigh, T., Kennedy, R., Matton, G., Target, M.
(1995) Attaccamento, Sè riflessivo e disturbi borderline in Riva Crugnola,C.
(a cura di.) La comunicazione affettiva tra il bambino e i suoi partner,
Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
Kohut H. (1977) The restoration of the self. New York: Int. Univ. Press.
Main, M. (1995) Discorso, predittivtà e studi recenti sull’attaccamento in Riva
Crugnola,C. (a cura di.) La comunicazione affettiva tra il bambino e i suoi
partner, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
Main, M., Hesse, E. (1992) Attaccamento disorganizzato/disorientato nell’infanzia e stati mentali dissociati dei genitori in Ammaniti, M., Stern, D.N.
Attaccamento e psicoanalisi, Editori Laterza, Roma 1992.
Reddy,V., Hay,D., Murray,L., Trevarthen,C. (1997) La comunicazione
nell’infanzia: regolazione reciproca degli affetti e dell’attenzione, in Riva
Crugnola,C. (a cura di.) La comunicazione affettiva tra il bambino e i suoi
partner, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
Stern, D.N. (1985) Il mondo interpersonale del bambino, Boringhieri, Torino
1987.
Stern, D.N.(1994) One way to build a clinically relevant baby. Infant Mental
Healt Journal, 15, 1994, pp. 9-25.
Stern, D.N.(1995) La costellazione materna, Bollati Boringhieri, Torino 1995.
Stern, D.N., Hofer,L., Haft, W., Dore, J. (1984) La sintonizzazione affettiva, in
Stern, D.N. (1998) Le interazioni madre-bambino, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1998.
Sullivan, H.S. (1931) Scritti sulla schizofrenia, Feltrinelli, Milano 1993.
Trevathen, C. (1984) Le emozioni nell’infanzia: regolatrici del controllo e delle
relazioni interpersonali in Riva Crugnola, C. (a cura di) Lo sviluppo
affettivo del bambino. Raffaello Cortina Editore, Milano 1993.
Tronick, E.Z. (1989) Le emozioni e la comunicazione affettiva nei bambini, in
Riva Crugnola,C. (a cura di.) La comunicazione affettiva tra il bambino e i
51
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
suoi partner, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
Tronick, E.Z., Cohn, J.F. (1989) Infant-mother face-to-face interaction:Age e gender differences in coordination and the occurrene miscoordination. Child
Development, 60, pp. 1-13.
Schaffer R. (a cura di) (1977) L’interazione madre-bambino oltre la teoria
dell’attaccamento, Franco Angeli Editori, Milano 1984.
Wimmer, H., Perner, J. (1983) Credenze su credenze: rappresentazione e
funzione di vincolo dalle false credenze nella comprensione dell’inganno
da parte dei bambini. Tr. It. In: Camaion L. (a cura di) La teoria della
mente. Laterza, Bari, 1995.
Winnicott, D.W. (1958) La preoccupazione materna primaria, in Dalla
pediatria alla psicoanalisi, Psycho-G. Martinelli e co., Firenze 1991.
52
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
1.
P
SOMMARIO
1.
2.
3.
4.
5.
Premessa
Le azioni di stato; generalità
L’azione di contestazione della legittimità
L’azione di reclamo della legittimità
L’azione di disconoscimento della
paternità
6. L’azione per la dichiarazione giudiziale
della paternità e della maternità
7. L’azione di impugnazione
del riconoscimento.
rofondi mutamenti si sono verificati nel corso di
alcuni decenni in ordine alla nozioni sociologiche e
psicologiche della famiglia; mutamenti che si possono dire intervenuti con una certa rapidità, se paragonati
alla staticità delle condizioni pregiuridiche e giuridiche
esistenti fino ai primi decenni del secolo scorso.
Questi mutamenti sono stati tanto rilevanti da avere inciso, modificandoli a livello sostanziale, sui concetti giuridici di paternità, maternità e filiazione.
Indubbiamente ancora oggi padre, madre e figlio sono coloro ai quali il diritto riconosce ed attribuisce il corrispondente status; però non esiste più, come
in passato, la coincidenza tra la nascita di un essere umano come frutto dell’unione sessuale di un uomo e di una
donna e gli stati di genitori e figli.
Già il migliorare delle condizioni
socio-economiche aveva determinato,
nel corso del tempo, modificazioni
notevoli nell’idea stessa della funzione del figlio nel gruppo umano; pian
piano i figli hanno cessato di essere
considerati come elementi della prosperità familiare, come forza lavoro,
come mezzi per aumentare la ricchezza del gruppo familiare, e ciò soprattutto con il passaggio dalla famiglia
allargata alla famiglia nucleare; il valore utilitario del figlio si è trasformato
nel tempo in un valore essenzialmente affettivo ed emotivo.
L’evento che ha determinato la trasformazione più radicale si è verificato nel
1967 con l’approvazione della legge 5 giugno 1967 n. 431 sull’adozione speciale; per la prima volta si è riconosciuto, a livello giuridico, che si può essere figli dell’affetto come si è figli di sangue, che si può essere buoni genitori anche se il figlio non è il frutto dei contributi genetici di quel padre e di
quella madre, che non sono i legami di sangue quelli che generano legami
tanto profondi tra genitori e figli.
Inoltre, nel periodo anteriore alla legge n. 431 del 1967 aveva cominciato a
prendere piede l’adozione di minori nati all’estero, allora di competenza
della corte d’appello; nel periodo successivo, passata la competenza al tribunale per i minorenni, il fenomeno si estese e, poiché la legge del 1967 non
conteneva una disciplina in proposito, furono i tribunali per i minorenni ad
inventarsi una regola particolare e cioè quelle della necessità di una preventiva dichiarazione di idoneità.
È noto che successivamente la normativa sull’adozione è stata modificata con
la legge 4 maggio 1983 n. 184, che disciplinò, per la prima volta, anche l’adozione internazionale, istituzionalizzando la dichiarazione di idoneità; oggi
l’adozione nazionale è disciplinata, con rilevanti modifiche, dalla legge 28
marzo 2001 n. 149, mentre l’adozione internazionale è disciplinata dalla
PATERNITÀ, MATERNITÀ
E FILIAZIONE.
I PROCEDIMENTI DI STATO
DOTT.
ANGELO
VACCARO
PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI POTENZA
53
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
legge 31 dicembre 1998 n. 476 che ha contemporaneamente ratificato la
Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993.
Dal 1967 ad oggi l’adozione internazionale ha avuto un notevole sviluppo,
per cui si può dire che attualmente supera quantitativamente quella nazionale.
Si deve poi tenere presente che nel 1975, sotto la spinta del mutar dei costumi e della cultura, è stata approvata (legge 19 maggio 1975 n. 151) la riforma del diritto di famiglia, in adeguamento, sia pur tardivo, della legislazione
ordinaria ai principi costituzionali.
La riforma del 1975 ha determinato un autentico ribaltamento dei principi di
cui era intriso il codice del 1942: dall’autoritarismo alla distribuzione del
potere, dalla disparità all’eguaglianza, dalla prevalenza dell’interesse della
famiglia alla prevalenza degli interessi dei singoli e in specie dei soggetti
deboli.
Che si sia trattato di un adeguamento ai principi costituzionali è indubbio; gli
art. 2 e 3 della Costituzione attribuiscono valore primario alla personalità
individuale e quindi all’esigenza di tutela della dignità e dell’autonomia della
persona; il riconoscimento della famiglia operato dall’art. 29 comma primo
Costituzione va pertanto inteso nel senso che la famiglia, in quanto formazione sociale, in quanto valore impersonale, va tutelata principalmente come
elemento di protezione e di sviluppo dei soggetti che la compongono e non
può in alcun modo rappresentare una causa di compressione dei valori personali che, anche per suo mezzo, si sono voluti assicurare; ne consegue che il
superiore interesse familiare e sociale, individuato implicitamente dall’art.
29 Costituzione, interesse la cui attuazione tutela la famiglia unitariamente in
tutti i suoi componenti, prevale sull’interesse dei singoli componenti solo in
quanto, e nella misura in cui, si pone come strumento di protezione della personalità individuale.
Quando fu approvata la riforma del diritto di famiglia, gli studi di biologia e
di genetica erano già molto avanzati ma la riforma non ne tenne conto; oggi
questi studi e la loro applicazione pratica sono a un punto tale da suscitare
quanto meno qualche timore per il futuro.
A prescindere dalla clonazione che è quella che suscita maggiori apprensioni, si può immaginare uno scenario possibile: oggi la natalità è in diminuzione, non solo in Italia ma anche all’estero, mentre aumentano in contemporanea le istanze di coppie che intendono adottare, ed esiste la possibilità di far
nascere bambini in provetta, per cui si può pensare che si potrebbe far nascere in questo modo bambini da dare in adozione ed è ovvio che la coppia finirebbe per scegliere le caratteristiche del bambino, sesso, colore degli occhi,
dei capelli, ecc.; non è uno scenario molto rassicurante, perché non accettare
il bambino per quello che è, ma volerlo con determinate caratteristiche,
volerlo cioè per quello che si vuole che sia, è, un elemento che, quantomeno,
induce a dubitare dell’idoneità della coppia.
La necessità di una legge che disciplini la materia è indubbia; e ci si deve
augurare che si tratti di una legge seria, applicabile a tutti nel senso che
tenendo conto delle istanze che salgono dal sociale non conculchi totalmente le aspettative di una estesa minoranza di persone.
Comunque, la fecondazione assistita, nelle sue forme diverse da quella omo54
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
loga, è un ulteriore elemento di fatto che è valso a scardinare il rapporto di
sangue tra genitori i figli.
È opportuno anche considerare che si vanno estendendo i fenomeni delle
famiglie monoparentali, cioè con un solo genitore, delle famiglie di fatto,
cioè con genitori non uniti in matrimonio, delle famiglie formate da genitori
divorziati con figli del primo matrimonio.
Ed allora è evidente che quando si parla di famiglia e necessario stabilire
prima di quale famiglia si parla, non esistendo più un’unica base di partenza;
anche perché la diversità delle situazioni di fatto incide sulle dinamiche interne che chiunque voglia valutare il fenomeno deve necessariamente tenere
presenti, in quanto la famiglia è un fenomeno molto poco giuridico; per cui
qualsiasi valutazione in merito, qualsiasi decisione o difesa, non può essere
fondata soltanto su canoni giuridici.
La tutela dei diritti del minore è, nei fatti, possibile soltanto se il giudice e
l’avvocato del minore tendono ad accertare la “verità reale”, non una verità
limitata dalle prospettazioni delle parti adulte (come nell’ordinario rito contenzioso), e tengono conto anche della personalità dei soggetti, della dinamiche familiari, della capacità degli adulti di rendersi conto dei reali bisogni dei
minori, ossia dei bisogni che devono essere soddisfatti al fine di una tutela
dei loro diritti.
La tutela dei diritti dei minori è, nei fatti, possibile se il giudice e l’avvocato
del minore sono in condizione di apprezzare i rischi ed i danni che una determinata situazione familiare comporta per il minore, soltanto se sono in grado
di apprezzare le conseguenze dei provvedimenti chiesti e pronunciati.
Non solo per il giudice ma anche per l’avvocato del minore si può dire che è
indispensabile certo una solida preparazione che ne garantisca la specializzazione in diritto in generale ed in diritto familiare e minorile in particolare, ma
anche una preparazione che, senza renderli specializzati in discipline diverse
dalla propria, il che sarebbe impossibile pretendere ed ottenere, li ponga in
condizione di ascoltare il minore anche nel senso di rendersi conto dell’esistenza di messaggi non espressi, non verbali, di apprezzare le possibili conseguenze sia della situazione di fatto vissuta dal minore che dei diversi provvedimenti, di valutare la validità delle proposte e dei progetti dei servizi territoriali e la fondatezza delle opinioni e delle prospettazioni degli esperti di
altre discipline, di stabilire una corretta comunicazione interpersonale con i
soggetti interessati al processo ed in particolare con i minori.
Un’ultima notazione da evidenziare è che quando si parla di filiazione si deve
distinguere la filiazione come status dalla filiazione come rapporto; lo status
di figlio è una situazione giuridica che si acquista solo con la nascita (indipendentemente dal fatto che i genitori siano viventi, deceduti o anche ignoti); la filiazione come rapporto è invece quella particolare situazione giuridica che consiste nel legame anche giuridico, e quindi nel rapporto giuridico,
tra genitore e figlio, entrambi viventi.
Ritengo, infine opportuno precisare che la legge (art. 236 cod. civ.) parla
anche di possesso di stato, il quale in mancanza dell’atto di nascita è sufficiente a dimostrare la qualità di figlio legittimo; questa nozione è un residuo
del passato, di un’epoca nella quale per catastrofi, calamità, guerre era possibile la distruzione o la perdita di atti dello stato civile; oggi esistono norme
55
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
e mezzi tecnici per la conservazione degli atti tali da rendere di scarsa utilità la nozione in parola; però il legislatore ha fatto bene a conservarla perché
la legge deve prevedere, nei limiti del possibile, anche le ipotesi meno probabili; il possesso di stato deve risultare da fatti concludenti ed in particolare dalle tre condizioni già previste nel diritto romano, ossia nomen, tractatus,
fama ( art. 237 cod. civ.).
2.
uando si parla di azioni di stato ci si riferisce a volte alle azioni che
Q
riguardino la filiazione legittima; però è certo che sono azioni di stato
anche quelle relative alla filiazione naturale.
In tutti i casi, infatti, la azioni in parola sono il mezzo, previsto dalla legge,
per verificare, rispetto ad una data realtà, la mancanza ovvero l’esistenza dei
requisiti che la legge prevede per la costituzione di uno status.
Le azioni che interessano la filiazione legittima sono tre: la contestazione
della legittimità, il reclamo della legittimità, il disconoscimento della paternità; quelle relative alla filiazione naturale sono due: la dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità e l’impugnazione del riconoscimento.
È evidente che il diritto ad agire può essere azionato o perché pur esistendo
i presupposti della filiazione non ne è provata l’esistenza con l’atto di nascita o il possesso di stato, ovvero, al contrario, allorché nonostante esista l’atto di nascita o il possesso di stato si contesta lo status.
Le azioni tendono, quindi, ad ottenere una pronuncia sullo status diretta ad
eliminare i dubbi sulla posizione che un soggetto deve avere nell’ambito
della famiglia.
Nella legislazione attuale prevale, sia pur con limitazioni, il favor veritatis,
in quanto la legge tende a favorire la verità di fatto rispetto alla verità formale.
L’evoluzione dell’attuale normativa in materia di filiazione legittima e naturale costituisce chiaro indice della progressiva rilevanza e della mutata considerazione che nella coscienza sociale, e quindi legislativa, hanno acquisito
negli anni i diritti inviolabili del singolo, il principio di pari dignità e di eguaglianza tra tutti i cittadini, il principio di responsabilità “oggettiva” conseguente alla procreazione (art. 30 comma primo Cost) e quindi, conseguenzialmente, l’importanza assunta da modelli di convivenza familiari diversi
dai legami fondati sul vincolo coniugale.
In materia di azioni di stato la prospettiva adottata dalla legge non è mai stata
neutra, essendo sempre stata specchio del modello di famiglia coerente con
i valori di volta in volta dominanti. Si spiega così che da una concezione di
famiglia “forte” sia sempre derivata una disciplina in materia di contestazione della legittimità la più ristretta, nell’evidente intento di impedire qualunque turbamento degli assetti consolidati della famiglia (Cossu).
La riprova di ciò è contenuta sia nel codice napoleonico che in quello italiano del 1865 che escludevano qualsiasi possibilità di contestazione in caso di
coincidenza tra il possesso di stato e le risultanze degli atti dello stato civile.
Nel codice del 1865 l’unico temperamento previsto a tale rigidità era offerto
dalla supposizione di parto o dalla sostituzione di neonato.
56
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
La disciplina legislativa prevista dal codice del 1942 in materia di filiazione,
era anche essa chiaramente ispirata ad una ideologia impegnata alla tutela ed
alla difesa della filiazione originatasi nell’ambito del rapporto matrimoniale,
con conseguente sacrificio di posizioni soggettive astrattamente contrastanti
con detto status.
Il disfavore per i nati fuori dal matrimonio si evinceva dalla stessa espressione usata, “figli illegittimi”, e notevoli erano i limiti posti all’accertamento
della verità biologica, ritenuta pericolosa per la famiglia legittima, come
limitati erano i diritti riconosciuti in capo ai figli naturali rispetto ai figli
legittimi.
Ciò in quanto l’unico modello di convivenza familiare legalmente riconosciuto e da rafforzare era quello matrimoniale, idoneo ad assicurare da un lato
ordine sociale e morale, e, dall’altro, a garantire l’ordinato assolvimento dei
doveri di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, con il conseguente disfavore per le unioni non coniugali e per figli da esse nati.
Con la legge di riforma del diritto di famiglia, invece, si è pervenuto ad una
sostanziale parificazione della condizione giuridica patrimoniale e personale
dei figli legittimi e dei figli naturali riconosciuti o giudizialmente dichiarati,
essendo venuta meno l’ideologia che vedeva con disfavore la possibilità di
ricerca illimitata della paternità e maternità naturale.
È stato osservato che con ogni probabilità la riforma del diritto di famiglia
non ha inciso sulle azioni di stato in quanto avendo profondamente modificato il regime della filiazione naturale ultronei sarebbero stati interventi nella
materia in esame.
È evidente che la ricerca della genitorialità, nella sua evoluzione storica, evidenzia sempre il contenuto ideologico che è sottinteso al tipo di famiglia
codificato; infatti quando la legge predispone una disciplina rigida della
ricerca della paternità, risulta sempre codificato un modello di famiglia forte,
una forte difesa della famiglia legittima, e viceversa.
Si discute, in dottrina, se le azioni di stato siano azioni dichiarative o azioni
a carattere costitutivo.
La teoria più convincente è quella che le qualifica come azioni a carattere
costitutivo, tenuto conto che accanto alla funzione dichiarativa (tipica delle
azioni di mero accertamento), esse fanno sorgere nuove situazioni giuridiche
che prendono vita, indubbiamente, con effetto erga omnes, dal momento in
cui passa in cosa giudicata la sentenza che le accerta, ma retroagiscono,
hanno cioè effetto ex tunc, perché l’ordinamento giuridico non può consentire che una persona abbia due status diversi in periodi diversi.
In dottrina qualcuno ha ritenuto che la sentenza che accoglie la domanda ha
natura costitutiva, per cui opererebbe con effetti ex nunc; la giurisprudenza,
invece, molto più correttamente, ha affermato che le azioni in parola tendono ad ottenere una pronuncia che accerti il vero status familiae del soggetto,
in contrasto con quello che risulta dagli atti dello stato civile e che, in conseguenza, l’accertamento del vero status non può che travolgere, con effetto ex
tunc, lo status formale risultante dagli atti dello stato civile ed i rapporti che
ad esso si connettevano.
Le azioni di stato presentano alcune caratteristiche comuni; sono indisponibili, come indisponibile è la situazione giuridica sostanziale (lo status) che ne
57
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
sta alla base; dalla indisponibilità derivano: la irrinunciabilità, la non transigibilità delle controversie e la loro non compromettibilità per arbitri perché
le azioni sono inalienabili ed imprescrittibili.
Tali caratteri hanno la loro ragione di essere in quanto le azioni di stato è
attribuito il fine sostanziale di rendere lo status quanto più vicino è possibile
alla realtà biologica.
È opportuno precisare che, tenuto conto delle caratteristiche sopra evidenziate, tra le azioni di stato non possono essere comprese le azioni di rettificazione degli atti (nella specie di nascita) dello stato civile previste dagli artt. 454
e 455 cod. civ.,le quali attengono agli errori materiali o alla aggiunta di un
dato omesso o alla eliminazione di un dato impreciso, e quindi non tendono
ad un mutamento (acquisto o perdita) dello status; si può dire che la sentenza di rettificazione dell’atto di nascita non si pronuncia sullo stato ma, bensì
sul titolo.
3.
azione tendente a contestare la legittimità è prevista dall’art. 248 cod. civ.
L’
ed è rivolta a rimuovere lo stato di legittimità risultante dall’atto di nascita,
L’azione non ha lo scopo di contestare il legame di sangue tra il figlio e colui
che dall’atto di nascita risulta il padre, ma ha ad oggetto la mancanza di altri
presupposti dello stato di legittimità; si applica ai casi in cui si discutono
aspetti della legittimità diversi dalla paternità ed ha, quindi, carattere residuale.
Essendo evidente la diversità dei presupposti, si può dire con certezza che
questa azione, che è imprescrittibile, non può essere promossa in alternativa
a quella di disconoscimento della paternità ed a maggior ragione dopo che
siano inutilmente trascorsi i termini di decadenza stabiliti per l’azione di
disconoscimento.
La legittimazione attiva spetta non solo a coloro che dall’atto di nascita risultano come genitori, ma a chiunque vi abbia interesse; l’interesse non è necessario che sia patrimoniale, potendo essere anche soltanto di natura morale.
Legittimati passivi sono il figlio e coloro che risultano genitori ed essi sono
litisconsorti necessari; se sono morti l’azione si propone nei confronti degli
ascendenti e dei discendenti dei genitori, del coniuge e dei discendenti del
figlio.
Quando l’azione deve essere proposta nei confronti di persone minori o incapaci è prevista la nomina da parte del giudice di un curatore; qualora il figlio
e coloro che risultano genitori sono morti e manchino altri legittimati passivi l’azione si propone nei confronti di un curatore nominato dal giudice, sempre che esista un interesse patrimoniale o morale dell’attore.
In dottrina si è dubitato della legittimazione attiva del vero padre naturale sul
fondamento dell’idea che non potendo questi riconoscere il figlio, per il
divieto di effettuare un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio
legittimo, non sarebbe possibile verificare preventivamente l’esistenza dell’interesse ad agire.
Questa tesi non può essere condivisa, perché in contrasto con i principi costi58
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
tuzionale (in particolare l’art. 30) e con la lettera della legge che attribuisce
la legittimazione attiva a chiunque vi abbia interesse ed è evidente l’interesse del padre naturale a contestare la legittimità per potere in seguito riconoscere il figlio.
Così pure non si può negare la legittimazione attiva dei veri genitori, i quali
hanno sicuramente un interesse personale e diretto ad agire; non varrebbe
osservare che se si tratta di persone legalmente unite in matrimonio si finisce
con l’attribuire loro una specie di azione di reclamo di legittimità del figlio
non prevista dalla legge, in quanto, in questo caso, si finisce con il costituire
un nuovo stato di legittimità; questa osservazione non potrebbe valere per
escludere la legittimazione attiva dei veri genitori all’azione di contestazione della legittimità; le conseguenze che si producono derivano da norme dell’ordinamento giuridico che sono norme a carattere sostanziale, e non da una
pretesa ed inesistente norma processuale; in realtà la sentenza che chiude il
giudizio inevitabilmente pronuncia non soltanto negando la filiazione che
risulta dall’atto di nascita ma affermando la vera filiazione dedotta in giudizio, e poiché la sentenza deve essere trascritta nei registri dello stato civile
sorge automaticamente un nuovo stato ed un nuovo rapporto di filiazione
legittima.
L’azione ha come suo presupposto l’esistenza dello stato di figlio legittimo;
si richiede cioè che il soggetto di cui si tratta sia nato vivo, risulti iscritto nei
registri dello stato civile come figlio legittimo o abbia il possesso di stato di
figlio legittimo; in caso contrario non esisterebbe la materia del contendere.
Mi sembra evidente che legittimato attivo possa essere anche il figlio, sia per
la maggiore considerazione che con la riforma del diritto di famiglia ha
assunto il favor veritatis, sia per l’evidente interesse del figlio a vedersi riconosciuto il sua vero status.
È ovvio che il figlio che voglia chiedere il riconoscimento del suo vero stato
di legittimità, deve prima contestare la legittimità risultante dall’atto di
nascita; altrimenti non può proporre l’azione di reclamo della legittimità nei
confronti dei veri genitori; io ritengo che le due azioni possano essere proposte contestualmente, nello stesso giudizio, contraddittori necessari essendo le
due coppie di coniugi, quella che si assume non vera, ma risulta dal titolo, e
quella che si assume vera, ma non risulta dal titolo.
Mi sembra poi non validamente contestabile che il figlio possa proporre l’azione di contestazione anche se non intende chiedere il riconoscimento di una
diversa legittimazione o si riserva di farlo in un secondo tempo; può cioè
agire anche solo per assumere lo stato di figlio di ignoti; qualche dubbio può
sorgere a causa di quanto dispone l’art. 239 cod. civ., il quale prevede, con
riferimento alle ipotesi di supposizione di parto e di sostituzione di neonato,
che il figlio può reclamare, anche in contrasto con l’atto di nascita conforme
al possesso di stato, uno status diverso “dando la prova della filiazione”, ed
è ovvio che questa filiazione di cui parla la norma, la filiazione che si deve
provare, non può che essere “l’altra filiazione”, ossia quella vera e diversa da
quella risultante dell’atto dei nascita; io credo che le due ipotesi siano da
tenere distinte, nel senso che si può agire solo ai sensi dell’art. 248 cod. civ.,
ossia in via di mera contestazione, ed in tal caso non è di applicazione necessaria la norma dell’art. 239 cod. civ.; la legge va interpretata in rapporto al
59
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
mutare dei tempi e della cultura, e si deve tenere conto degli sviluppi delle
tecniche di accertamento dell’incompatibilità genetica e del maggior peso
attribuito oggi al favor veritatis; nemmeno si può negare che esista un interesse, che può essere solo morale, del figlio ad acquisire il suo vero status,
sia pure quello di figlio di ignoti, in quanto ci si deve rendere conto delle
dinamiche psicologiche che possono scatenarsi, in negativo, allorché il figlio
apprenda di fatto che il rapporto di filiazione in cui è coinvolto è fondato su
una falsità.
Prima della riforma del diritto di famiglia il codice civile conteneva un’elencazione dei casi in cui l’azione di contestazione poteva essere promossa,
però, soprattutto in dottrina, si riteneva che l’elencazione non fosse tassativa;
il legislatore del 1975, adeguandosi a questa opinione ha eliminato l’elencazione, per cui si può fondare l’azione su qualsiasi motivo valido.
Le ipotesi che si possono indicare sono: 1) supposizione di parto, allorché il
figlio non sia nato da colei che è indicata come madre, sia certo cioè l’evento nascita ma diverso il soggetto che ha partorito; 2) sostituzione di neonato,
allorché il figlio denunziato come legittimo sia diverso fisicamente da quello che è stato partorito; 3) contestazione del rapporto matrimoniale, come
contestazione sia della sua legittimità sia della sua esistenza; si pensi ad
esempio alle ipotesi che un matrimonio non sia stato in realtà celebrato,
oppure sia stato celebrato con rito solo religioso senza trascrizione nei registri dello stato civile; 4) contestazione della legittimità del matrimonio, ipotesi questa che presuppone che il matrimonio sia stato celebrato e trascritto
ma sia privo dei requisiti di validità necessari perché possa avere effetti nell’ordinamento giuridico; in questa ipotesi si deve tenere presente l’art. 128
cod. civ., il quale dispone che il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del
matrimonio valido nei confronti dei figli (matrimonio putativo), però se è
stato contratto in malafede gli effetti del matrimonio valido si producono solo
se non ricorrono le ipotesi dell’incesto e della bigamia; ne consegue che in
queste due ipotesi non si può proporre azione di contestazione della legittimità perché una volta dichiarato nullo il matrimonio non v’è più alcuna legittimità da contestare. Precisare e cass.
4.
azione per reclamare la legittimità è prevista dall’art. 249 cod. civ. e preL’
suppone la mancanza di un titolo di stato o l’esistenza di un titolo di stato
non conforme alla realtà biologica e genetica. La legittimazione attiva spetta
al figlio e l’azione è imprescrittibile rispetto a lui. Se il figlio è morto senza
proporre l’azione la legittimazione spetta ai suoi discendenti, si noti non agli
eredi, però solo se il figlio è morto entro i cinque anni dal raggiungimento
della maggiore età.
Nel caso di incapacità o minore età del figlio l’azione deve essere proposta
in suo nome e vece, da che lo rappresenta legalmente ovvero dal tutore o dal
curatore.
La legittimazione passiva spetta ai genitori o ai loro eredi.
L’azione mira a conseguire lo stato di figlio legittimo che non risulta né dai
registri dello stato civile, né dal possesso dello stato di figlio legittimo.
60
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
È ovvio che questa azione costituisce una deroga alla regola (art. 238 cod,
civ.) secondo la quale nessuno può reclamare uno stato contrario a quello che
gli attribuiscono l’atto di nascita di figlio legittimo ed il possesso di stato
conforme all’atto di nascita; è evidente il rapporto tra questa azione e quella
di contestazione della legittimità.
Pur se la legge usa una terminologia molto generica, per cui non esistono
limiti prefissati, le ipotesi in cui può proporsi l’azione possono essere indicate come segue: 1) mancanza dell’atto di nascita e del possesso di stato; 2)
supposizione di parto o sostituzione di neonato; 3) atto di nascita che indichi
il figlio sotto falso nome senza indicare i veri genitori; 4) atto di nascita che
indichi l’interessato come figlio di ignoti; 5) nascita del figlio dopo i trecento giorni dall’annullamento, o dallo scioglimento o dalla cessazione degli
effetti civili del matrimonio, ovvero anche dalla data della di pronuncia della
separazione giudiziale o di omologazione di quella consensuale o di comparizione davanti al giudice (art. 234); in tutti questi casi la presunzione legale
(art. 232 cod. civ.) esclude l’attribuzione della legittimità; con la riforma del
diritto di famiglia è stata prevista esplicitamente la possibilità per il figlio di
proporre azione di reclamo della legittimità, al fine di dimostrare che il concepimento è avvenuto in costanza di matrimonio essendosi trattato di gravidanza prolungata.
L’azione non può essere esercitata nel caso in cui il soggetto reclamante, o
per conto del quale si aziona il reclamo, sia stato in precedenza adottato; l’adozione fa cessare tutti i rapporti giuridici con la famiglia di origine, salvo i
divieti matrimoniali; e non è possibile reclamare uno stato di legittimità del
quale la legge ha previsto la eliminazione anche se già esistente prima dell’adozione.
5.
azione per il disconoscimento di paternità è prevista dagli artt. 244 e
L’
segg. con riferimenti agli artt 233 e 235 cod. civ.; tende a rimuovere lo
stato di figlio legittimo nei casi in cui si assume che la legittimità non corrisponde alla realtà dei fatti, ossia alla realtà del concepimento; l’azione è
ammessa solo in alcuni casi tassativamente indicati nel primo comma dell’art. 235 cod. civ.: mancata coabitazione (n. 1), impotenza coeundi o generandi del marito (n. 2), adulterio della moglie ovvero occultamento della gravidanza e della nascita da parte della stessa (n. 3), con riferimento in tutti i
casi al periodo compreso tra i trecento e i centottanta giorni prima della
nascita, ossia al periodo legale del concepimento.
A queste si aggiunge però l’ipotesi prevista dall’art. 233 cod. civ., ossia quella della nascita del figlio prima che siano trascorsi centottanta giorni dalla
celebrazione del matrimonio, che si differenzia sia perché questo è il suo
unico presupposto, sia per il regime probatorio in parte diverso.
La mancanza di coabitazione non si riferisce alle ipotesi in cui esistano ostacoli tali da rendere impossibile la coabitazione, per cui basta la prova certo
del fatto storico della non convivenza, anche se questa era in teoria possibile.
L’impotenza normalmente o c’è o non c’è, però non si può escludere che
61
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
insorga in un secondo momento anche successivo al matrimonio, così come
non si può escludere un’impotenza temporanea dovuta per esempio all’assunzione di farmaci.
Il n. 3) dell’art. 235 primo comma cod. civ. contiene in realtà due ipotesi
separate ed autonome, perché la norma usa la congiunzione disgiuntiva “o”:
a) la prima ipotesi è quella dell’adulterio, in relazione alla quale si deve precisare che non si richiede una relazione stabile o comunque di una certa
durata, basta un solo rapporto sessuale extramatrimoniale, anche privo di
qualsiasi coinvolgimento affettivo; ci si può chiedere se l’ipotesi dello stupro sia assimilabile all’adulterio; la risposta sembra debba essere positiva,
perché sono identici i presupposti di fatto e di diritto, perché la legge tende
a favorire la verità reale rispetto alla verità legale, perché il termine adulterio ha assunto un significato ampio che prescinde da ipotesi di colpa
della donna e perché il fatto che oggi anche la donna può esercitare l’azione conferma questo assunto
b) la seconda ipotesi è quella in cui la donna riesce a nascondere al marito la
gravidanza e la nascita, in relazione alla quale è sufficiente osservare che
essa ha, nel tempo presente, scarso rilievo pratico e che può dirsi integrata soltanto se sussistono entrambi gli occultamenti; la legge, infatti, intende dare rilievo al comportamento complessivo della donna ed intende tutelare la totale ignoranza della situazione che invece non esiste qualora una
delle due circostanze, gravidanza o nascita, sia conosciuta.
Legittimato attivo è innanzitutto il padre; l’azione può essere promossa anche
dalla madre e dal figlio però solo nei casi in cui può essere proposta dal
padre; l’azione può essere anche promossa da un curatore speciale del figlio
nominato dal giudice davanti al quale è proposta l’azione, a richiesta del
figlio stesso se ha compiuto i sedici anni o del pubblico ministero se di età
inferiore.
La legge prevede che in caso di morte del padre o della madre la legittimazione, attiva e passiva, si trasmette ai loro ascendenti o discendenti e che nel
caso di morte del figlio si trasmette al coniuge ed ai discendenti.
L’ultimo comma dell’art. 247 cod. civ. prevede poi che se mancano i soggetti indicati dalla legge come legittimasti passivi l’azione può essere proposta
nei confronto di un curatore nominato dal giudice.
I termini di decadenza sono: per la madre, sei mesi dalla nascita; per il padre,
un anno dalla nascita ovvero dal giorno in cui è tornato nel luogo delle nascita o in quello della residenza familiare, nell’ipotesi in cui fosse lontano,
oppure dal giorno in cui è venuto a conoscenza della nascita; per il figlio, un
anno dal raggiungimento della maggiore età o dal giorno in cui è venuto, successivamente, a conoscenza dei fatti.
Poiché si tratta di termini di decadenza, essi hanno natura sostanziale non
processuale; però la Corte di cassazione (sent. 3 luglio 1999 n. 6874) ha ritenuto che i detti termini pur avendo natura sostanziale hanno rilevanza processuale, per cui ad essi è applicabile la sospensione dei termini durante il periodo feriale (legge n. 742/1969) soprattutto perché è necessario munirsi di difesa tecnica.
La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 244 cod. civ.
nella parte in cui non prevede che il termine decorra dal giorno in cui il mari62
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
to è venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie (sent. 6 maggio 1985 n.
134) e nella parte in cui non prevede che il termine decorra dal giorno in cui
il padre o la madre sono venuti a conoscenza dell’impotenza di generare dell’uomo(sent. 14 maggio 1999 n. 170).
Se il legittimato attivo è interdetto per infermità di mente i termini sono
sospesi fino a che dura lo stato di interdizione, l’azione tuttavia può essere
promossa dal tutore (art. 245 cod. civ.).
In quest’ultimo caso si potrebbe, forse, pensare che i termini decorrano utilmente per il tutore, che è persona capace (dalla nascita, dalla conoscenza dei
fatti o dalla nomina del tutore stesso) per cui decorsi i termini l’azione non
potrebbe essere promossa dal tutore, ferma restando la sospensione nei
riguardi del diretto interessato; ma questa eventuale idea non sembra avere
molto senso, perché contraria alla logica ed ai principi dell’ordinamento giuridico; non è possibile che per il rappresentante, che non agisce mai in proprio, valga una disciplina diversa da quella che vale per il rappresentato, per
cui la sospensione dei termini se opera per il rappresentato opera anche per il
rappresentante; l’eccezione posta dal legislatore, che consente al tutore di
proporre l’azione anche durante la sospensione, è fondata sulla considerazione che l’infermità di mente potrebbe non cessare mai, per cui rimarrebbe
insoddisfatto l’interesse del rappresentato all’accertamento del suo vero status. Per determinare il momento iniziale della sospensione si deve fare riferimento alla data di proposizione della domanda di interdizione, perché il
giudizio di interdizione è un procedimento camerale sostanzialmente contenzioso che si chiude con sentenza e gli effetti della sentenza di interdizione
retroagiscono al momento della domanda.
Quella prevista dall’art. 245 cod. civ. è l’unica ipotesi di sospensione in
quanto l’azione è sottoposta a termini che sono di decadenza non di prescrizione
Presupposto per l’esercizio della azione è che il figlio risulti legittimo dai
registri dello stato civile.
Il presunto padre naturale non è legittimato all’azione di disconoscimento; in
proposito è stata sollevata questione di costituzionalità; la Corte
Costituzionale (sent. 27 novembre 1991 n. 429) ha dichiarato inammissibile
la questione di costituzionalità dell’art. 244 cod. civ. affermando che l’inclusione o l’esclusione del padre naturale tra i soggetti legittimati ad agire sono
riservate al legislatore, in quanto implicano scelte di politica legislativa
discrezionali, anche perché sarebbe necessario disciplinare l’ipotesi della
legittimazione di un estraneo al nucleo familiare in modo almeno parzialmente diverso dalle altre ipotesi.
L’art. 235 cod. civ. dice che “la sola dichiarazione della madre non esclude la
paternità”; questa previsione appare giusta perché ammettere il contrario
significherebbe attribuire alle dichiarazioni della donna, che è parte processuale, il valore di prova privilegiata; le dichiarazioni della madre possono
però essere liberamente valutate dal giudice come elemento di prova concorrente con le altre prove.
Le prove sono quelle comuni, comprese le indagini genetiche oggi molto frequenti in sede giudiziaria; la dizione letterale del comma primo n. 3) dell’art.
235 cod. civ. sembra attribuire solo al marito la possibilità di essere “ammes63
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
so a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, o ogni altro fatto tendente ad escludere la paternità”; però la legge va integrata in via di interpretazione ammettendo che anche la madre ed il figlio possano chiedere tutte le prove
indicate nel detto n. 3) dell’art. 235, altrimenti si sarebbe in presenza di una
incostituzionalità della norma.
La sentenza che decide in ordine al disconoscimento di paternità fa stato erga
omnes, per cui, sia in caso di rigetto che in caso di accoglimento lo status del
figlio resta definitivamente stabilito.
Va segnalato che la Corte Costituzionale (sent. 3 febbraio 1994 n 13) ha
affermato il diritto del disconosciuto di chiedere al giudice di mantenere il
proprio cognome, e ciò sul presupposto che il cognome costituisce parte integrante della personalità e quindi diritto fondamentale del singolo.
Problemi sono sorti nell’ipotesi di procreazione assistita, che si ha quando,
mediante l’ausilio di tecniche biogenetiche e con l’assistenza medica, si addiviene alla procreazione.
Bisogna innanzitutto distinguere l’inseminazione omologa da quella eterologa; è noto che la prima si verifica allorché si usa il seme del coniuge o del
partner stabilmente convivente per immetterlo nell’utero e determinare la
fusione con il gamete femminile, mentre per la seconda si usa il seme di un
donatore estraneo alla coppia.
Nessun dubbio esiste, nonostante alcune resistenze di natura morale, in ordine alla liceità delle tecniche di inseminazione omologa; si deve, invero, tenere presente che i coniugi possono liberamente disporre del proprio corpo,
perché non si cagiona una diminuzione permanente dell’integrità fisica, che
non si lede alcun principio di ordine pubblico o di buon costume (art. 5 cod.
civ.), che essendo il concepimento avvenuto con seme del coniuge, vi è coincidenza tra verità legale e verità reale.
Anche nel caso dell’inseminazione eterologa si discute della liceità della tecnica; direi, in sintesi che anche in questa ipotesi si può liberamente disporre
del proprio corpo, che l’ipotesi non contrasta con la norma posta dall’art. 5
cod. civ. perché non appare violato un qualche principio di ordine pubblico o
di buon costume, e che i rischi paventati (uso del seme di un fratello) esistono anche nell’ipotesi dell’adozione, in relazione alla quale il legislatore li ha
superati; le uniche remore sono quindi di ordine culturale, morale, religioso.
In entrambi i casi si può parlare di esercizio della libertà sessuale e del diritto alla procreazione riconosciuto, implicitamente, dagli artt. 29 e 31 Cost.
Naturalmente la diversità di fatto non poteva non incidere in ordine all’azione di disconoscimento di paternità; è ovvio che se nel caso dell’inseminazione omologa non si può certo parlare di disconoscimento di paternità a causa
della coincidenza tra verità reale e verità legale, lo stesso non può dirsi, invece, per l’ipotesi dell’inseminazione eterologa.
Da anni si discute in dottrina e giurisprudenza circa la possibilità per il marito che abbia prestato il suo consenso all’inseminazione eterologa di esperire
successivamente l’azione di disconoscimento di paternità.
La Corte costituzionale (sentenza 26 settembre 1998 n. 347) ha dichiarato
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’alt. 235 comma
primo n. 2 cod. civ., in riferimento agli arti. 2, 3, 29, 30 e 31 della
64
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Costituzione, nella parte in cui non preclude l’azione di disconoscimento di
paternità del padre che abbia prestato il consenso all’inseminazione artificiale della moglie.
La Corte ha, in sostanza, fondato la propria decisione su un unico argomento: la norma in questione ammette il disconoscimento di paternità in tassative ipotesi, quando le circostanze indicate dal legislatore facciano presumere
che la gravidanza sia riconducibile, in violazione del reciproco dovere di
fedeltà, ad un rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge, per cui essa
attiene esclusivamente all’ipotesi in cui la generazione sia conseguenza di un
rapporto adulterino; anche la previsione dell’art. 235 n. 2 riguarda esclusivamente un rapporto adulterino, mentre nel caso dell’inseminazione eterologa
tale rapporto non esiste.
Si è osservato che la Corte non ha tenuto presente che l’adulterio può non
consistere soltanto in rapporti sessuali con altri, ma potrebbe aversi anche
con una attività generativa, diversa dal rapporto sessuale, praticata senza il
consenso del marito; in conseguenza, pur ponendo a base della norma l’ipotesi dell’adulterio nel senso più ampio che il termine a assunto oggi, avrebbe
potuto dichiarare fondata la questione di costituzionalità dell’art. 235 c.c.
nella parte in cui prevedendo l’ipotesi dell’impotenza del marito, come presupposto del disconoscimento, non ha escluso la possibilità di chiedere il
disconoscimento in presenza di un’inseminazione eterologa avvenuta con il
consenso del marito; consenso che comporta, appunto, l’inesistenza dell’infedeltà della moglie, e quindi dell’adulterio in senso ampio, non soltanto dal
punto di vista della sessualità ma anche da quello della procreazione, considerata la scissione, nel caso dell’inseminazione artificiale, tra l’atto sessuale
e l’atto procreativo.
La giurisprudenza di merito, sulla questione in esame, è nettamente divisa.
Alcune sentenze affermano la possibilità della revoca del consenso maritale
e la possibilità per il marito di proporre azione di disconoscimento, mentre
altre negano tale possibilità.
È importante tenere presenti due sentenze che sono le più complete come
motivazione e sono di segno diametralmente opposto: quella del Tribunale di
Cremona del 17.2.1994 e quella del Tribunale di Napoli del 24.6.1999.
La sentenza del Tribunale di Cremona ha ritenuto ammissibile l’azione di
disconoscimento, sul fondamento delle seguenti argomentazioni:
1) al consenso prestato dal marito non può essere attribuito alcun effetto giuridico sull’azione di disconoscimento; infatti ove si ritenga che il dovere
di fedeltà derivante dal matrimonio, ex art. 143 secondo comma cod. civ.
non va riferito alla sola sfera sessuale ma comprende anche quella generativa, il consenso alla inseminazione artificiale eterologa si tradurrebbe in
un consenso alla violazione di quel dovere con la conseguenza che, in
quanto relativo ad un dovere indisponibile e non derogabile dalla volontà
delle parti, il consenso sarebbe certamente illecito e come tale privo di
qualunque rilevanza giuridica;
2) il vigente ordinamento, a parte l’istituto speciale dell’adozione, non contempla alcun rapporto giuridico di filiazione che sia svincolato dal presupposto di un corrispondente rapporto biologico di sangue, con la conseguenza che solo la diretta derivazione genetica è idonea a costituire un
65
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
vero rapporto giuridico di filiazione;
3) non esiste una specifica norma che al consenso riconnetta l’efficacia di
escludere l’azione di disconoscimento di quel rapporto biologico di sangue che costituisce l’imprescindibile presupposto di ogni rapporto giuridico di filiazione;
4) al consenso non può essere attribuito il significato di una implicita preventiva rinuncia all’azione di disconoscimento perché il diritto all’esercizio
delle azioni relative allo status personale è indisponibile e, di conseguenza, la rinuncia all’azione sarebbe comunque inefficace;
5) pertanto in caso di impotentia generandi del marito, il consenso da lui prestato all’inseminazione artificiale eterologa della moglie non è idoneo ad
escludere l’azione di disconoscimento, legittimata proprio dalla predetta
impotentia generandi.
La sentenza del Tribunale di Napoli afferma, invece, con un’interpretazione
evolutiva dell’art. 235 cod. civ, l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento di paternità nell’ipotesi di inseminazione eterologa effettuata con il
consenso del marito; i motivi che fondano questa sentenza possono riassumersi come segue:
1) è possibile ritenere che il presupposto comune ai casi previsti dall’art. 235
cod. civ. è l’assenza, all’interno della coppia, del rapporto biologico, si
presuppone, cioè, necessariamente, l’adulterio che però va inteso o come
rapporto sessuale, nelle ipotesi di procreazione naturale, ovvero come
mancanza di un valido e consapevole consenso e quindi di assunzione
volontaria di responsabilità paterna, da parte del marito, nelle ipotesi di
procreazione assistita;
2) comunemente si individua la ratio dell’azione di disconoscimento, nella
violazione del dovere di fedeltà, e tale violazione si può oggi configurare,
con un’interpretazione teleologica dell’art. 235 cod. civ., non solo se la
donna abbia generato un figlio con un’altra persona, ma anche se la nascita sia conseguente ad una inseminazione artificiale decisa in modo del
tutto autonomo, ed in conseguenza l’estensione dell’azione di disconoscimento al caso di inseminazione eterologa in cui manca il valido consenso
offre una giusta tutela al genitore che si vedrebbe imposto un figlio che
non è suo sia dal punto di vista biologico che dal punto di vista della
responsabilità per la nascita;
3) viceversa se vi sia stato il consenso all’inseminazione eterologa la mera
carenza del rapporto biologico non giustifica la possibilità di offrire analoga tutela al padre che, revocando il consenso originariamente espresso,
otterrebbe la caducazione della filiazione legittima, facendo valere proprio
quello stato di impotenza che costituisce la ragione giustificativa della
stessa inseminazione eterologa; in tal caso il ricorso a tale tecnica è stato
oggetto di un comune progetto di vita dei genitori e non può certamente
configurare una violazione dei doveri coniugali;
4) il presupposto dell’azione di disconoscimento, pertanto deve essere individuato non più nella sola assenza del rapporto biologico tra il presunto
padre ed il figlio, e quindi, in modo restrittivo, nel rapporto sessuale della
moglie con un terzo, ma nell’assenza di qualsiasi partecipazione del padre
al fatto che ha dato origine alla nascita;
66
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
5) viene così evidenziata l’insufficienza del mero substrato biologico al fine
dello status di filiazione e si conferma la rilevanza che assume la componente volitiva nei casi di fecondazione eterologa, in quanto il concetto giuridico di paternità deve essere collegato non esclusivamente al dato biologico, ma anche al principio di responsabilità per la procreazione e, di conseguenza, all’aspetto comportamentale sociale ed affettivo;
6) In definitiva la derivazione biologica non può ritenersi un criterio esclusivo per la determinazione dei rapporti di filiazione, perché la manifestazione di volontà del padre all’inseminazione eterologa costituisce un atto di
responsabilità sostanzialmente equiparabile a quello della generazione per
via naturale, quantomeno sotto il profilo della valutazione giuridica dell’improponibilità dell’azione di disconoscimento;
7) per ammettere tale azione nelle ipotesi di fecondazione eterologa, in cui
manca il legame biologico, deve esservi allora necessariamente la contestuale assenza anche del dato volitivo, perché in mancanza di tale coincidenza, l’azione deve ritenersi priva di uno dei suoi indefettibili presupposti.
Sulla questione è intervenuta la Corte di cassazione, chiamata a decidere sull’appello avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia che aveva confermato la sentenza del Tribunale di Cremona.
La Corte, con sentenza in data 16 marzo 1999, richiamando la decisione della
Corte costituzionale, ha affermato:
1) l’inseminazione artificiale posta in essere con il consenso del marito non
è adulterio della moglie, esprime anzi un progetto di maternità basato proprio sul rifiuto di ricorrere all’infedeltà coniugale per procreare;
2) in ordine alla possibilità di ammettere che il marito, pur avendo prestato il
proprio consenso all’inseminazione, possa proporre azione di disconoscimento, si deve tenere presente che l’azione, secondo i principi generali, è
strumento di tutela di posizioni soggettive, cioè mezzo per reagire contro
un’aggressione in corso o potenziale e che, in conseguenza, l’azione
medesima ove fosse attribuita, per rimuovere o modificare giudizialmente
un rapporto, al soggetto che lo ha liberamente determinato, si tradurrebbe
in un’iniziativa contro lo stesso titolare, non conosciuta dall’ordinamento,
e comunque estranea al diritto di difesa, quando non venga in discussione
la validità dell’atto volitivo;
3) l’impossibilità per il marito di esperire l’azione di disconoscimento, anche
sulla base delle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale alla luce
degli artt. 2, 30, e 31 della Costituzione, deriva dalla considerazione che
le dette disposizioni costituzionali, attinenti alle proiezioni dei diritti
inviolabili della persona, ed in particolare del minore, nella società e nel
nucleo familiare in cui si trova collocato per scelta altrui, sono le linee
guida che devono orientare non solo il legislatore ordinario ma anche l’interprete;
4) l’attribuzione del diritto di agire in disconoscimento al padre, anche quando abbia prestato a suo tempo consenso alla fecondazione artificiale della
moglie con seme altrui, priverebbe il bambino, nato anche per effetto di
tale consenso, di una delle due figure genitoriali e del connesso apporto
affettivo ed assistenziale, trasformandolo per atto del giudice in “figlio di
67
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
nessun padre”, stante l’insuperabile impossibilità di ricercare ed accertare
la reale paternità a fronte del programmato impiego di seme di provenienza ignota;
5) la nascita di un figlio senza padre può essere subita dall’ordinamento solo
ove discenda da vicende di vita non controllabili e non più emendabili;
una norma che permettesse il sorgere di detta condizione per mezzo di una
statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato, o concorso a determinare, la nascita con il personale impegno di
svolgere il ruolo di padre, contrasterebbe con i cardini dell’assetto costituzionale e con il principio di solidarietà al quale gli stessi rispondono;
6) pertanto, la Corte conclude affermando che il consenso del marito all’inseminazione eterologa, espresso in modo certo, anche per comportamento
concludente, non rientra in alcuna delle ipotesi di ammissibilità dell’azione di disconoscimento previste dall’art. 235 cod. civ.; il consenso, si dice,
costituisce, allora, una nuova forma di procreazione non basata, come
quella naturale, sul rapporto sessuale, ma sulla volontà.
Questa decisione pone la nostra legislazione, sul piano interpretativo. in linea
con le legislazioni internazionali.
In realtà, le motivazioni che stanno alla base dell’inseminazione sono infatti
identiche a quelle di coloro i quali offrono la propria disponibilità per l’adozione e si identificano nel desiderio di avere un figlio che sia tale a tutti gli
effetti, superando un’impossibilità di carattere biologico; né si può dire che,
nel caso dell’inseminazione, tali motivazioni sussistano per uno solo dei
coniugi, in quanto la coppia deve essere considerata unitariamente nel suo
desiderio e nella sua impossibilità di procreare in via naturale.
Il dato biologico, piuttosto che il fondamento unico della genitorialità, è il
criterio primario per l’identificazione dei soggetti responsabili degli obblighi
genitoriali, fino a che ad esso non si sovrapponga un criterio diverso, derivante, come avviene nell’adozione e come, a buon diritto, si può dire che
avvenga nel caso di procreazione artificiale, dalla volontà dei soggetti.
Credo si possa dire che l’inseminazione eterologa, posta in essere per volontà di entrambi i coniugi, è tutt’altro che adulterio in quanto è un progetto di
genitorialità comune alla coppia e fondato sui sentimenti che vivono all’interno di essa.
Il desiderio di avere un figlio in quanto espressione di esigenze umane profonde ed in quanto sublimazione e completamento dell’amore coniugale,
merita riconoscimento e tutela, nello spirito degli articoli 2 e 3 della
Costituzione, in particolare nella parte in cui si auspica il pieno sviluppo
della persona umana,
Quello che è importante è che la scelta della coppia di avere un figlio sia libera e consapevole e che l’ordinamento sappia rispettare la maturità e la dignità delle persone, riconoscendo loro il diritto di compiere questa scelta.
6.
a dichiarazione giudiziale di paternità e di maternità è articolata in due
Lammissibilità
autonomi procedimenti (o, se si preferisce, fasi); quello preliminare di
dell’azione previsto dall’art 274 cod. civ. e quello successivo
68
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
di merito, previsto dall’art. 269 cod. civ., all’esito del quale può pronunciarsi la dichiarazione.
Legittimato attivo è soltanto il figlio; se egli muore l’azione può essere iniziata dai discendenti, legittimi, legittimati o naturali (sia riconosciuti che giudizialmente dichiarati), però non oltre due anni dalla morte del figlio; l’azione è invece imprescrittibile riguardo al figlio; l’azione può essere proseguita
dai discendenti se il figlio muore nel corso del giudizio; i discendenti possono esercitare il diritto di agire o di proseguire l’azione in quanto hanno un
interesse diretto, agiscono cioè iure proprio non iure hereditatis.
Secondo alcuni poiché la norma fa espresso riferimento al termine di due
anni per l’inizio dell’azione si deve ritenere che entro il detto termine deve
essere instaurato il giudizio di merito non bastando la promozione della fase
preventiva dell’ammissibilità; più esatta mi sembra la tesi, sostenuta in sentenze della Suprema Corte (Cass. 20\11\1993 n. 3127) secondo la quale, in
forza della ritenuta unitarietà tra le due fasi del procedimento si deve ritenere sufficiente la proposizione del giudizio di ammissibilità entro il detto termine biennale.
Qualora il figlio sia minorenne, l’art. 273 cod. civ. prescrive che nel suo interesse l’azione può essere proposta l’azione dal genitore esercente la potestà
o dal tutore; la giurisprudenza è consolidata nel senso che nel ricorso non è
necessario che il genitore dica espressamente di agire nell’interesse del
minore, bastando che detta volontà si deduca dal contesto dell’atto (Cass.
Sez. Unite 1371\92 e Cass. 1571\1983).
Il potere del genitore è stato qualificato ora come un’estensione del potere di
rappresentanza spettante ex lege (Cass. 3416\1992), ora quale ipotesi di
sostituzione processuale, avendo il sostituto anche un personale interesse
all’esercizio della funzione processuale: questa seconda tesi appare preferibile in particolare dopo la sentenza additiva n. 341\1990 della Corte
Costituzionale che, imponendo la necessaria valutazione della conformità
dell’azione all’interesse del minore, ha escluso che detto interesse potesse
porsi con carattere di presunzione legale (Cass. 2970\1993).
Il tutore deve essere autorizzato dal giudice (quello competente per il giudizio) alla proposizione dell’azione; pur dovendosi ritenere che la concessione
dell’autorizzazione comporta la necessaria valutazione dell’interesse del
minore, è ovvio che l’autorizzazione non elimina la necessità di proporre il
preventivo giudizio di ammissibilità; data la coincidenza di competenza, si
può ritenere che la domanda di autorizzazione possa essere proposta dal tutore con lo stesso ricorso per la dichiarazione di ammissibilità dell’azione, con
la precisazione che sull’autorizzazione il giudice deve pronunciarsi prima
non contemporaneamente alla decisione sull’ammissibilità dell’azione, in
quanto l’autorizzazione è presupposto di proponibilità del giudizio di ammissibilità, peraltro reclamabile innanzi alla Corte d’appello ai sensi dell’art.
739 CPC. Il giudice, nel rilasciare l’autorizzazione può nominare anche un
curatore speciale indipendentemente da una specifica richiesta in tal senso
(art. 273 cod. civ.), e ciò, evidentemente, sia al fine di garantire una migliore tutela dell’interesse del minore affiancando al tutore il curatore, e sia al
fine di ovviare ad eventuale negligenza o trascuratezza del tutore; la nomina
del curatore speciale pertanto può intervenire anche nel corso nel giudizio
69
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
ove se ne ravvisi la necessità.
L’art. 276 cod. civ. attribuisce la legittimazione passiva al presunto padre,
alla presunta madre, e, in ipotesi di loro decesso agli eredi, i quali sono litisconsorti necessari data l’identità di interesse a non veder pregiudicata la
rispettiva posizione patrimoniale; se erede universale è lo stesso reclamante
l’azione deve proporsi nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice (argomento ex artt. 247 cod. civ. e 78 cod. proc. civ.).
Se però esistono prossimi congiunti che non sono eredi in quanto l’art. 276
comma secondo cod. civ. stabilisce che “alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse”; inoltre, in forza di questa regola i prossimi congiunti, pur se non sono legittimati passivi, perché non eredi, possono intervenire
nel giudizio con intervento adesivo dipendente sulla base dell’eventuale interesse, anche solo di natura morale, che essi abbiano quale membri della famiglia legittima, a che un estraneo non consegua lo status di figlio naturale.
Se il legittimato passivo è incapace dovrà stare in giudizio in persona del suo
rappresentante legale in applicazione delle norme generali; e questo vale
anche nell’ipotesi di minore ultrasedicenne, come tale legittimato a riconoscere con atto volontario il figlio naturale (art. 250 cod. civ.), perché vi è una
sostanziale differenza tra il potere discrezionale di operare volontariamente il
riconoscimento e la capacità di stare in giudizio.
L’attuale testo dell’art. 269 cod. civ., al primo comma, ammette l’azione in
tutti i casi in cui è ammesso il riconoscimento, con eliminazione dei divieti
frapposti dalla normativa previgente.
In conseguenza i limiti sostanziali di proponibilità previsti per l’azione
discendono direttamente dalla normativa specificamente prevista per il riconoscimento (artt. 250 e segg. cod. civ.); non è, quindi ammessa l’azione qualora al soggetto risulti già attribuito lo status di figlio legittimo o legittimato,
ed ovviamente adottivo, (art. 253 cod. civ.), lo stesso vale se il legittimato
attivo risulti dai registri dello stato civile figlio naturale di persona diversa
dal legittimato passivo; in queste ipotesi, al fine di poter esercitare l’azione
diretta ad accertare il vero rapporto di procreazione, devono essere preliminarmente esperiti i rimedi giuridici volti a dimostrare la difformità dello status filiationis attuale dalla realtà sostanziale del rapporto di procreazione.
L’azione non è ammessa nei confronti del presunto genitore quando questi
abbia meno di sedici anni (argomento ex art. 250 ultimo comma)
Così come non è ammessa l’azione per la dichiarazione giudiziale relativamente a figli nati da relazione incestuosa (vincolo di parentela in linea retta
all’infinito ed in linea collaterale entro il secondo grado, vincolo di affinità
in linea retta) ad eccezione che nell’ipotesi in cui il rapporto di parentela od
affinità fosse ignorato all’epoca del concepimento e dell’ipotesi in cui il
matrimonio da cui deriva l’affinità sia stato dichiarato nullo (art. 251 cod.
civ.).
Altro limite dell’azione è previsto dal secondo comma dell’art. 273 cod. civ.
nell’ipotesi di minore ultrasedicenne, perché l’azione non può essere promossa in mancanza del suo consenso; nel caso in cui l’azione sia già stata legittimamente promossa essa non può proseguire se il figlio compie i sedici anni
nel corso del giudizio e non presta il suo assenso (ciò in analogia a quanto
stabilito per il riconoscimento dall’art. 250, II co. CC).
70
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
La giurisprudenza più recente (Cass. 3721\1998) individua nel consenso e
nell’assenso del minore ultrasedicenne un requisito del diritto di azione che
integra la legittimazione del genitore, per cui la sua mancanza deve essere
rilevata anche di ufficio dal giudice; rilevante al fine dell’accertamento dell’esistenza del consenso o dell’assenso è il momento della decisione; è ovvio
che il giudizi si chiude con una pronuncia non di merito ma processuale, che,
accertata l’inesistenza all’origine o il sopravvenuto venir meno di una condizione di procedibilità. dichiara l’improponibilità o l’improcedibilità dell’azione; è ovvio che l’azione può essere riproposta dal rappresentante legale,
ove il consenso venga successivamente prestato dall’ultrasedicenne, o proprio da quest’ultimo una volta raggiunta la maggiore età.
La prestazione del consenso in corso di causa sana comunque l’originario
difetto di legittimazione.
Si deve ritenere che il consenso e l’assenso non possano essere dedotti da
comportamenti concludenti o dalla mancanza di una chiara manifestazione di
dissenso, ma devono risultare espressamente.
Le limitazioni poste dalla legislazione ordinaria all’accertamento del rapporto di filiazione, traggono legittimazione costituzionale dall’ultimo comma
dell’art. 30 Cost. che testualmente consente che “la legge detti le norme ed i
limiti per la ricerca della paternità”.
Sul piano dei rapporti personali alla dichiarazione giudiziale di maternità e
paternità naturale consegue l’insorgenza dei diritti e dei doveri individuati,
nell’interesse della prole, in persona dei genitori (artt. 147 e 261 cod. civ.),
con l’unica limitazione costituita dalla rispetto dei membri della famiglia
legittima e della conseguente disciplina dettata dall’art. 252 cod. civ. per l’inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima del genitore.
Invero la legislazione vigente parifica la filiazione naturale riconosciuta o
dichiarata a quella legittima, legittimata e adottiva, anche sul piano dei diritti ereditari con l’unico limite costituito dal diritto di commutazione riconosciuto ai figli legittimi peraltro attuabile solo in ipotesi di mancata opposizione dei figli naturali (art. 536 e 537 CC).
Il nuovo sistema, ha, inoltre, stabilito che la prova della maternità e della
paternità può essere fornita con ogni mezzo e che la paternità e la maternità
naturale possono essere giudizialmente dichiarate in tutti i casi in cui è
ammesso il riconoscimento; in conseguenza esistono limiti solo per i figli
incestuosi, come risulta dagli artt. 251 e 278 cod. civ.; secondo alcuni, gli
stessi limiti si estenderebbero alla possibilità di proporre azione per il mantenimento, però questa interpretazione, tenendo conto della lettera dell’art.
279 cod. civ., a me non sembra corretta.
L’azione giudiziale di paternità e maternità è lo strumento giuridico mediante il quale il figlio, nato fuori del matrimonio e non riconosciuto da entrambi genitori o da uno dei genitori, può ottenere l’accertamento del suo status
filiationis con una sentenza che dichiari la filiazione naturale e che produca
gli stessi effetti e le stesse conseguenze del riconoscimento volontario.
Tra i due istituti la differenza sostanziale consiste nel fatto che il riconoscimento è fondato su di un atto di volontà del genitore mentre l’azione per la
dichiarazione giudiziale ne prescinde.
L’equiparazione tra i due istituti voluta dal legislatore evidenzia una maggio71
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
re attenzione all’interesse del minore, costituisce riaffermazione, nella legislazione ordinaria, del principio costituzionale di tutela del minore, ed attua il
precetto, contenuto nell’art. 30 della Costituzione, di responsabilità per la
procreazione, del principio che dalla procreazione discendono precise
responsabilità per i genitori naturali.
Riconoscimento e dichiarazione giudiziale sono due modi autonomi di acquisto dello status di figlio naturale, in quanto l’azione non tende a rendere coercibile il diritto del genitore di riconoscere il figlio.
Poiché il fatto della generazione non è, di per se, produttivo dello status, la
sentenza con cui è pronunziata la dichiarazione di paternità o maternità naturale, al pari del riconoscimento, non solo accerta il fatto naturale, ma costituisce lo status giuridico del figlio; l’azione, quindi, come del resto tutte le
azioni di stato, ha natura sostanzialmente potestativa.
Sennonché il senso della così detta paternità responsabile sta a significare
che la stessa, oltre ad essere una genitorialità voluta e riconosciuta, deve
anche essere una genitorialità degli affetti, educativamente stimolante, presente.
In conseguenza, affermare che è sempre nell’interesse del minore essere riconosciuto da un padre che lo rifiuti, è un’affermazione per lo meno discutibile.
È quindi necessario esaminare che cosa si debba intendere, in questa sede,
per interesse del minore.
Va premesso che l’obbligo per il giudice di valutare l’interesse del minore
non era previsto dalla legge; è stata la Corte Costituzionale che con sentenza, chiaramente additiva, (sent. 20 luglio 1991 n. 341) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274 c.c. nella parte in cui, se si tratta di minore infrasedicenne, non prevede che l’azione promossa dal genitore, che esercita la potestà, sia ammissibile solo quando sia ritenuta dal giudice rispondente all’interesse del minore.
Indubbiamente è, spesso, difficile valutare concretamente quale contenuto
dare all’espressione interesse del minore, che sembra divenuta una mera
clausola di stile, al punto che i presunti padri, al di là delle possibili difese
sul problema squisitamente biologico, hanno per lo più adottato, in linea del
tutto strumentale, come ultima difesa, per ritardare od ostacolare i procedimenti in parola, “il non interesse del minore”.
Ci si deve chiedere, allora, quali criteri e quali parametri debbano essere
posti a fondamento della valutazione relativa alla sussistenza dell’interesse
del minore nel giudizio che ci riguarda.
Due le tesi estreme contrapposte: la prima afferma che l’interesse sarebbe
sempre ravvisabile per il solo fatto di far acquisire al minore un padre, l’altre esclude sempre tale interesse perché il minore vedrebbe attribuirsi un
padre che non intende riconoscersi ed affermarsi come tale.
Per sfuggire una prospettiva meramente formalistica si deve accertare la
situazione reale in cui il minore è collocato per potere valutare ed accreditare le evidenze capaci di integrare l’interesse del minore.
Alcune sentenze di merito individuano dei criteri guida per la valutazione
dell’interesse: l’aspetto personale (il bisogno psicologico-affettivo di avere
un padre, di sapere comunque chi egli sia); l’aspetto sociale (l’utilità di esse72
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
re individuato e conosciuto come figlio di una certa persona, tenendo anche
conto dell’ambiente in cui il minore vive, della sua identificazione, e quindi
della sua età); l’aspetto economico (l’utilità che il minore sia aiutato, nel
mantenimento e nella crescita, anche sul piano economico); l’aspetto familiare-relazionale (situazione in cui si trova o potrebbe venire a trovarsi il minore)
Altre sentenze di merito hanno sostenuto che l’interesse del minore è sempre
sussistente anche soltanto quando l’azione è determinata da esigenze economiche.
La Cassazione ha ritenuto che l’interesse deve essere riferito alle esigenze
globali, presenti e future, di formazione, arricchimento della personalità del
minore, nel contesto familiare e socio economico di appartenenza e deve
essere ancorato a fatti concreti, quali il benefico ampliamento della sfera
affettiva, sociale ed economica del minore, che può essere escluso dall’accertata condotta del presunto padre gravemente pregiudizievole al figlio, tale da
fondare una pronuncia di decadenza della potestà parentale, ovvero dalla provata esistenza di gravi e fondati rischi per l’equilibrio affettivo e psicologico
del minore, per la sua educazione e per il suo inserimento nel contesto lavorativo e sociale.
Sono piuttosto numerose le sentenze, sia di merito che di legittimità, nelle
quali si afferma che il rifiuto affettivo costante e l’assenza di prospettive di
collaborazione in senso parentale dei genitori non sono sufficienti a far ritenere che l’azione non corrisponda all’interesse del figlio, il quale, comunque,
riceve dal solo fatto di sapere e di far sapere chi è suo padre un vantaggio sul
piano personale e sociale; anche perché, si dice, la possibilità per il figlio di
vedere affermate le proprie radici biologiche, soddisfa l’antico bisogno di
conoscere la propria identità, evitando crisi ed angosce esistenziali che, a
volte, affliggono coloro che non conoscono entrambe le figure genitoriali.
L’accertamento della sussistenza dell’interesse del minore rientra nei poteri
d’ufficio del giudice, quali che siano, quindi anche se sono mancate, le allegazioni sul punto delle parti. Però il giudice ha anche l’obbligo di accertare
se esista l’interesse del minore, e non può basarsi solo sul mero esame, sulla
sola audizione delle parti, ma deve assumere adeguate informazioni ed attuare una vera e propria inchiesta, per cui in mancanza il provvedimento conclusivo della fase preliminare sarebbe affetto da nullità.
L’esistenza dell’interesse del minore non è una condizione dell’azione, vale
a dire una condizione che rende possibile l’esercizio del potere decisorio del
giudice e che, come tale, può utilmente sopravvenire anche nel corso del giudizio di merito; si tratta invece di un presupposto processuale, assimilabile
agli altri requisiti necessari per la valida costituzione e svolgimento del rapporto processuale; per cui l’accertamento deve essere effettuato esclusivamente nella fase di ammissibilità e non nella successiva fase di merito, rimane interno al giudizio di ammissibilità e si esaurisce con esso.
Si può dire che il legislatore del 1975, ha sopravvalutato i diritti patrimoniali del minore e sottovalutato i bisogni personali, specie relazionali, in quanto
il figlio naturale vanta un vero e proprio diritto all’accertamento, in ogni
caso.
Solo l’intervento della Corte Costituzionale ha consentito l’inserimento tra i
73
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
poteri del giudice della valutazione della corrispondenza all’interesse del
minore, però la Corte non poteva dettare una nuova norma.
Tutto resta affidato alla evoluzione giurisprudenziale, sulla quale aleggia
sempre la considerazione che il riconoscimento di una paternità o di una
maternità attraverso un procedimento contenzioso e non attraverso un atto
spontaneo di assunzione dei propri doveri, difficilmente comporterà per il
minore l’acquisizione di un ambiente familiare sereno, capace di comprendere ed appagare il suo bisogno di affetto e di dargli quella sicurezza interiore
indispensabile per una crescita armonica.
La prova della paternità e della maternità “può essere data con ogni mezzo”;
un’unica limitazione prevede la norma: la sola dichiarazione della madre e la
sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale (art. 269 comma
4° c.c.); però sia la dichiarazione della madre sia l’esistenza di rapporti con
colui che si assume essere il padre possono essere liberamente valutati dal
giudice insieme alla altre prove; tra le quali hanno un loro valore anche le
presunzioni giuridicamente valide.
È noto che affinché la presunzione sia giuridicamente valida è necessario che
un fatto ignoto sia desumibile da fatti noti, secondo un procedimento logico,
lineare fondato sull’id quod plerumque accidit (Cassazione 11.6.92 n. 7189),
ed in dottrina si ritiene che, ancora oggi, tra gli elementi presuntivi, possono
assumere efficacia probatoria la fama ed il tractatus; in proposito si deve
tenere presente che il rapporto di filiazione naturale viene esteriorizzato con
manifestazioni meno appariscenti e più discrete, rispetto al rapporto di filiazione legittima; in conseguenza possesso di stato, tractatus e fama, vanno
valutati come elementi di giudizio rilevanti ai fini della prova del rapporto di
filiazione tra la persona che reclama la paternità naturale e quella alla quale
la paternità si chiede sia attribuita.
Per quanto attiene alle prove genetiche si è verificata una notevole evoluzione in merito alla loro valutazione come mezzo di prova man mano che il progresso scientifico ha evidenziato un sempre maggiore grado di attendibilità e
di certezza delle stesse.
Si afferma unanimemente che la moderna scienza “dell’ereditarietà” occupa,
tra le posizioni biologiche, una collocazione centrale unificante.
Ed il concetto di “ereditarietà” assume una sua specifica rilevanza non solo
nel suo ambito scientifico, biologico e medico, non solo nei controversi problemi sociali e culturali implicanti differenze sessuali, razziali, di classe, ma
anche a livello giuridico, non potendo il giudice ignorare i progressi della
scienza, e nel corso degli ultimi cinquanta anni si è ampiamente dimostrato
che l’informazione ereditaria viene trasmessa da una generazione all’altra
grazie all’acido deossiribonucleico (DNA).
Non tutte le indagini genetiche e prove ematologiche forniscono identici
gradi di certezza; la prova dei gruppi sanguigni consente di escludere la
paternità, ma non di affermarla in positivo, qualora sia stato dimostrato che
non vi è incompatibilità tra i gruppi sanguigni del presunto padre e del figlio,
per cui si tratta di un elemento di prova deve essere necessariamente integrato e va valutato nel contesto di tutti gli elementi acquisiti agli atti.
Le prove biologiche, basate sul sistema HDL (prove di isto-compatibilità) e
74
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
le prove del DNA, consentono di affermare in positivo la paternità; il grado
di certezza che esse assicurano, pur essendo basato sulla probabilità, è molto
elevato potendo raggiungere il 99,99%.
In ordine all’ammissibilità di tali mezzi di prova nell’azione giudiziale di
riconoscimento di paternità o maternità naturale non ci sarebbe nemmeno la
necessità di riferirsi, per analogia, all’art. 235 comma 2°, n. 3 cod. civ., il
quale in relazione al disconoscimento di paternità, richiama, come mezzo di
prova, le prove biologiche; certo questo esplicito richiamo consente di ritenere che, anche nel giudizio che ci riguarda, è possibile disporre tali prove
ematologiche poiché non avrebbe ragion d’essere un’ammissibilità diversa a
seconda del giudizio nel quale la prova deve essere disposta; però anche indipendentemente da questo riferimento la prova sarebbe ammissibile perché i
progressi della scienza devono sempre essere a disposizione del giudice se gli
possono fornire elementi di giudizio.
Se la prova in esame deve effettuarsi in persona del convenuto ed è richiesta
dallo stesso non sorge alcun problema; se invece viene chiesta dalla controparte è necessario che il soggetto su cui deve effettuarsi l’esame presti il proprio consenso, perché la volontà di sottoporsi al prelievo ematico, per eseguire gli accertamenti sul DNA, non è coercibile né esiste sanzione per l’eventuale atteggiamento di rifiuto.
Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce però
un comportamento valutabile ex articolo 116 comma 2° cod. proc. civ., ed è
giurisprudenza costante, che il rifiuto rientra tra gli argomenti idonei a formare il convincimento del giudice, ma deve essere valutato in concorso con
altre acquisizioni probatorie.
L’esame in parola è possibile anche post mortem e nessun problema sorge
allorché degli eredi chiamati in causa prestino il loro consenso; in assenza di
tale consenso si discute se esista il così detto “diritto sul cadavere” o sia prevalente il diritto “all’identità biologica”; ritengo che debba ritenersi prevalente il diritto alla ricerca dello status.
Spesso viene proposta la così detta exceptio plurium concubentium, ossia l’esistenza di rapporti sessuali plurimi della madre al tempo del concepimento;
l’esistenza di tali rapporti è determinante ai soli fini di ridurre l’efficacia probatoria della documentata relazione tra madre e convenuto, ma non esclude
la paternità; il giudice dovrà esperire ulteriori indagini e, quasi obbligatoriamente, ricorrere alle prove biologiche.
È ovvio che se il convenuto non dimostra la pluralità di rapporti non si può
porre a carico di chi agisce in giudizio l’onere di fornire la prova della insussistenza dei fatti; inoltre la prova dovrà essere dichiarata inammissibile qualora venga richiesta senza indicazione specifica degli altri uomini, perché
implicherebbe altrimenti un giudizio morale dei testi da escutere, sulla condotta della donna e non già la dimostrazione dei rapporti intimi.
La competenza per materia è regolata dall’art. 38 disp. att. cod. civ., modificato dall’art. 68 l. 184\1983; oggi la competenza spetta al Tribunale per i
minorenni o al Tribunale ordinario a seconda che il figlio sia minorenne o
maggiorenne.
Questa regola ha determinato una serie di problemi a causa della diversità del
rito che regge il procedimento davanti alle due autorità giudiziarie, camerale
75
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
per il procedimento di competenza del giudice minorile, contenzioso per il
procedimento di competenza del giudice ordinario; si è innanzitutto dubitato
della costituzionalità della norma, e sono poi sorti notevoli contrasti sia in
ordine alla competenza territoriale del Tribunale per i minorenni, sia in ordine alle norme procedurali applicabili davanti allo stesso Tribunale; indipendentemente dalla nuova regola di competenza per materia si sono avuti contrasti anche in ordine ai rapporti tra le due fasi, quella di ammissibilità e quella di merito.
Si tratta di questioni che è opportuno esaminare separatamente.
La prima questione è facilmente risolvibile: la Corte Costituzionale con sentenza di rigetto n. 193 del 1987 ha avallato la legittimità della scelta operata
dal legislatore, evidenziando in motivazione che il complesso dei poteri
demandati al giudice minorile quando l’azione riguardi un minore, costituiscono sufficiente motivazione della ripartizione di competenza.
D’altronde l’insegnamento della Corte Costituzionale è stato sempre nel
senso di affermare la piena discrezionalità del legislatore nella scelta del procedimento attraverso il quale attuare una posizione di diritto sostanziale.
Il secondo ordine di problemi ha determinato il sorgere di due tesi nettamente contrapposte: una prima tesi individuava il criterio che doveva applicarsi,
per radicare la competenza territoriale del tribunale per i minorenni, con riferimento al luogo di residenza del minore; questo criterio, si è detto, va privilegiato per il ritenuto inscindibile collegamento esistente tra competenza per
territorio e competenza per materia intese entrambe a garantire la migliore
tutela degli interessi del minore; una seconda tesi affermava, invece, che i
criteri attributivi della competenza territoriale dovevano essere, trattandosi di
procedimento contenzioso siccome attinente allo status, quelli di cui agli artt.
18 e segg.. cod. proc.civ., comuni a tutti i procedimenti contenziosi.
La Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 1373 del 1992, ha composto
il contrasto giurisprudenziale affermando, in considerazione del carattere
contenzioso del procedimento, carattere che non è venuto meno per l’assoggettamento del procedimento al rito camerale, che sia per la fase preliminare
sia per quella di merito, la competenza territoriale per procedimenti relativi a
minori va determinata sulla base della residenza e del domicilio del convenuto; la tutela dell’interesse del minore, si dice, risulta garantita dalla attribuzione della competenza ad un giudice specializzato e pertanto possono operare i criteri generali disciplinanti la competenza territoriale senza pregiudizio per il detto interesse.
È opportuno precisare che si tratta, sicuramente, di competenza territoriale
inderogabile, come si desume dagli artt. 28 (non derogabilità competenza per
territorio per i procedimenti in camera di consiglio) e 70 comma primo n. 3
cod. proc. civ. (cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, per le
quali è previsto l’intervento necessario del pubblico ministero) richiamato
dal predetto art. 28.
Nell’ipotesi in cui nel passaggio dalla fase preliminare alla fase di merito,
cambino i presupposti di fatto attributivi della competenza per materia o per
territorio, si deve ritenere che la fase di merito possa svolgersi innanzi ad un
giudice diverso da quello che ha trattato la precedente fase relativa all’ammissibilità dell’azione (raggiungimento maggiore età, trasferimento residen76
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
za del convenuto, errata valutazione della autorità giudiziaria competente
nella prima fase).
La definizione del rapporto esistente tra le due fasi in cui si snoda la procedura per l’accertamento giudiziale della paternità e maternità naturale ha
determinato anch’essa contrasti giurisprudenziali.
Secondo un primo orientamento il decreto di ammissibilità doveva qualificarsi quale condizione dell’azione la cui esistenza, come tale, non doveva necessariamente precedere l’inizio della fase di merito, essendo sufficiente che
intervenisse prima della decisione di primo grado; ciò al fine di evitare che i
tempi per pervenire ad una pronuncia di merito si allungassero a dismisura
per la previsione di una fase preliminare tutto sommato solo strumentale alla
fase successiva e di contenuto assolutamente ridotto, dovendosi effettuare nel
corso della stessa un giudizio sommario e probabilistico (Cass. 7518 del
1987).
La tesi contraria affermava che il decreto di ammissibilità doveva inquadrarsi nella categoria dei presupposti processuali costituendo elemento integratore del potere giuridico di richiedere l’accertamento del rapporto di filiazione
e quindi del diritto azione, ponendosi così come requisito indispensabile ai
fini della valida costituzione del rapporto processuale, e, in quanto tale,
doveva necessariamente precedere il giudizio di merito (Cass. n. 1571 del
1983, n. 5443 del 1981).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 1398 del 1990) sottolineando la ratio del preventivo giudizio di ammissibilità, che ha funzione di
filtro nei riguardi di azioni temerarie ed infondate, nonché la diversità di
oggetto dei due giudizi, ha confermato la validità del secondo orientamento,
individuando nel decreto di ammissibilità un presupposto processuale che
deve precedere il giudizio di merito e la cui assenza determina l’inesistenza
per il reclamante del potere processuale di richiedere l’accertamento del rapporto di filiazione.
Più complicato il discorso relativo al rito da applicare, davanti al tribunale
per i minorenni, in seguito alla proposizione della domanda di dichiarazione
giudiziale di paternità e maternità; la giurisprudenza e la dottrina hanno
oscillato, per molto tempo, tra due opposte tesi che determinavano soluzioni
nettamente divergenti e che si fondavano, sul piano del diritto positivo, prevalentemente su contrastanti interpretazione dell’art. 38 delle disposizioni di
attuazione del codice civile.
Credo di poter dire che questi contrasti sono stati la conseguenza della difficoltà, per molti, di abbandonare l’idea che nei procedimenti giudiziari debba
esistere necessariamente correlazione tra forma e sostanza, tra struttura e
contenuto.
Un primo orientamento ha sostenuto che l’art. 38 dopo aver elencato al primo
comma una serie di provvedimenti relativi ai minori di competenza del tribunale per i minorenni, delinea al secondo comma, con criterio tendenzialmente residuale, la competenza del tribunale ordinario, al fine di ripartire la competenza tra i due organi giudiziari per i casi non espressamente previsti e che
non rientrano nell’ordinaria disciplina del rito; mentre il terzo e quarto
comma non hanno riferimento a tutte le ipotesi di cui ai due commi precedenti, ma richiamano il procedimento camerale ed il sistema del reclamo soltan77
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
to per le ipotesi in cui si sia in presenza di procedimenti di volontaria giurisdizione, per cui solo in tali casi sono applicabili; con la conseguenza che per
tutti i procedimenti a sostanza contenziosa deve essere applicato l’ordinario
rito contenzioso di cognizione.
Secondo un diverso orientamento, fondato su una interpretazione dell’art. 38
disp. att. cod. civ. che afferma l’applicabilità del terzo comma a tutte le ipotesi previste dai due commi precedenti, il rito camerale si applica indipendente dalla sostanza contenziosa o non del procedimento e dalla natura decisoria
o non del provvedimento.
Questa tesi, prevalente in giurisprudenza, è quella che appare sicuramente
preferibile; l’opinione contraria è invero fondata sostanzialmente su di un
unico argomento: il terzo comma dell’art. 38 prevedendo il rito camerale si
riferiva, nelle struttura originaria dell’articolo, ad ipotesi di procedimenti non
contenziosi, quali erano quelle indicate inizialmente nel primo comma, e ad
esse deve essere riferito anche dopo le modifiche che hanno inserito nel
primo comma l’indicazione dell’art. 250 cod. civ. (art. 219 L 19-5-1975 n.
151) e dell’art. 269 primo comma se trattasi di minori (art. 68 L. 30-5-1983
n. 184), in quanto le dette indicazioni si configurano come norme sulla competenza e non sul rito ed in mancanza di una chiara scelta del legislatore per
il rito camerale deve applicarsi il principio generale dell’ordinamento processuale di correlazione necessaria tra forme processuali contenziose e tutela
giurisdizionale dei diritti e status; sennonché nessun artificio dialettico può
valere a dimostrare che la dizione letterale del terzo comma dell’articolo 38,
“in ogni caso il tribunale provvede in camera di consiglio”, possa ritenersi
sganciata dai primi due commi, ed in particolare da una parte del primo
comma, perché cosi rimarrebbe sospesa nel vuoto non sapendosi a cosa riferire l’espressione “in ogni caso”, e possa avere un significato diverso dal
richiamo del rito camerale per tutte le ipotesi ( appunto “in ogni caso”) previste nei commi primo e secondo; certo la lettera del secondo comma non è
molto felice nel punto in cui si riferisce alla “competenza di una diversa autorità giudiziaria”, però, siccome l’articolo si riferisce soltanto alle autorità
giudiziarie ordinarie e non esistono autorità giudiziarie ordinarie diverse dal
giudice per i minorenni e dal giudice per gli adulti, è anche facilmente comprensibile che la detta espressione vale soltanto ad escludere la competenza
del giudice per i minorenni; vero è inoltre che nel rapporto tra il terzo comma
ed il secondo comma restano escluse le ipotesi rientranti nella competenza
del tribunale ordinario nelle quali si debbano applicare le disposizioni del rito
a forma contenziosa previsto da specifiche disposizioni di legge, però tale
esclusione non si può affermare anche per il rapporto tra il terzo comma ed il
primo non esistendo norme che prevedano il rito contenzioso per i procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni; in realtà quella che si contrasta è un esempio tipico di interpretazione “pregiudiziale”, la quale facendo leva su una presunta “dimenticanza” del legislatore e partendo da un principio dogmatico ed astratto, che non trova una sua affermazione specifica ed
assoluta in una norma, adegua ad esso l’applicazione concreta della legge
finendo con il modificare la volontà legislativa quale risulta dalla lettera e
dalla logica interna dell’articolo 38 citato; il che sarebbe possibile solo ove
si potesse ritenere costituzionalizzato il principio di correlazione tra forma e
78
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
sostanza, mentre invece qualsiasi discussione in merito, almeno in sede di
applicazione giurisprudenziale della legge, è destinata a cadere di fronte alla
costante e coerente giurisprudenza della Corte costituzionale il cui insegnamento è stato sempre nel senso di affermare la piena discrezionalità del legislatore nella scelta del procedimento attraverso il quale attuare una posizione
di diritto sostanziale.
Nell’ambito dell’orientamento che ritiene applicabili le disposizioni del rito
camerale, interpretando la legge nel senso reso palese dal significato letterale delle parole ed in attuazione del principio di indifferenza costituzionale
della forma rispetto alla sostanza, si sono delineate in giurisprudenza due
posizioni: quella sicuramente minoritaria e meno recente che ritiene applicabile il rito camerale nella sua integrità senza modificazioni; l’altra che, ferma
restando l’applicabilità del rito camerale, afferma la necessità di integrazioni
desunte dall’applicazione analogica di disposizioni del rito ordinario, quali
ad esempio quelle relative alla competenza territoriale, ai termini ed a volte
anche alla forma delle impugnazioni, alle modalità di assunzione dei mezzi
di prova, all’applicazione di specifiche disposizioni formali relative all’istruttoria (quali ad es. quelle relative alla consulenza tecnica).
In questa situazione, ed in conseguenza di essa, la Corte di cassazione è intervenuta, a sezioni unite, (sent. 19 giugno 1996 n. 5629 e sent. 5 agosto 1996
n. 7170) stabilendo, con riferimento specifico all’ipotesi della dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità naturale di minori, ma con argomentazioni che rendono la sentenza estensibile a tutte le ipotesi in cui si controverta
in materia di diritti soggettivi e di status, che: il giudizio, sia di primo che di
secondo grado, è soggetto al rito camerale a norma dell’art. 38 disp. att. cod.
civ. e non al rito contenzioso ordinario; la forma dell’appello, in applicazione della previsione generale di cui all’art. 737 cod. proc. civ., è quella del
ricorso, non della citazione, però il termine per l’impugnazione non è quello
di dieci giorni previsto dall’art. 739 comma secondo cod. proc. civ., bensì
quello proprio delle sentenze di rito ordinario di trenta giorni dalla notificazione, o di un anno dalla pubblicazione, secondo la previsione degli artt. 325,
326 e 327 cod. proc. civ., calcolando il termine iniziale alla data di notifica
del provvedimento, o di pubblicazione dello stesso con il deposito in cancelleria, ed il termine finale non alla data di notifica del ricorso bensì alla data
di deposito del ricorso notificato nella cancelleria dell’ufficio giudiziario di
secondo grado; l’assunzione dei mezzi prova può essere delegata dal collegio
ad uno dei giudici che lo compongono, fermo restando che la competenza in
ordine all’ammissibilità ed alla rilevanza dei mezzi di prova appartiene
esclusivamente all’organo collegiale.
La sentenza delle Sezioni unite conferma l’indirizzo consolidato in ordine
alla forma ed ai termini delle impugnazioni in materia di separazione e divorzio, (Cass. 13 dicembre 1994 n 10614) per cui, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, esiste oggi, in materia di separazione, divorzio, dichiarazione
giudiziale di paternità o maternità, una disciplina unica in virtù della quale la
forma è quella propria del rito camerale, per le modalità di assunzione delle
prove si applica il principio generale secondo il quale un giudice può essere
delegato alla raccolta degli elementi probatori, mentre per i termini dell’appello e per la competenza territoriale si applicano le disposizioni del rito di
79
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
cognizione ordinario; ciò vale, senza possibilità di dubbi, anche per l’ipotesi
prevista dall’art. 250 comma 4° cod. civ., essendo identici i presupposti: procedimento camerale in cui si controverte in materia di diritti soggettivi e di
status familiari, che si chiude con un provvedimento (sentenza) avente carattere decisorio e che in quanto tale è ricorribile in cassazione ai sensi dell’art
111 Cost.; vale parimenti, dovendosi decidere (con decreto decisorio) su una
pretesa creditoria e sul corrispondente obbligo, con conseguente regolamentazione del relativo rapporto giuridico obbligatorio, nell’ipotesi prevista dall’art. 279 primo comma cod. civ., che rientra nella competenza del tribunale
per i minorenni a norma dell’art. 34 disp. att. cod. civ.
L’orientamento giurisprudenziale e di parte della dottrina favorevole, in aderenza al costante insegnamento della Consulta, all’applicabilità del rito
camerale nelle ipotesi considerate innesta nel processo camerale correttivi
tratti dall’applicazione analogica di norme del rito ordinario, per cui si inquadra nello stato d’animo della giurisprudenza, sicuramente non recente, tendente a rivalutare il momento giurisprudenziale del diritto, sia in conseguenza di particolari caratteri della produzione legislativa, sia in conseguenza di
ritardi legislativi e di carenze nella legislazione.
Si determina, così, un procedimento che è un misto di rito camerale e rito
contenzioso, in conseguenza, si dice (sent. n. 5629 del 1996), della volontà
legislativa di inserire le dette ipotesi “tra i cd. procedimenti a contenuto
oggettivo, caratterizzati dal rilievo riconosciuto ai poteri del giudice”.
È noto che con la definizione procedimenti a contenuto oggettivo ci si riferisce ad una particolare categoria di procedimenti nei quali si tende all’attuazione in concreto di una tutela, di situazioni giuridiche private, che la legge
appresta non soltanto al fine di garantire la correttezza dell’autodeterminazione privata, la regolamentazione dei rapporti giuridici e l’ordinato svolgersi della vita sociale, bensì anche al fine di soddisfare un interesse pubblico e
superindividuale che sta o viene meno secondo che sia realizzato o violato
l’interesse del singolo cui quello pubblico si connette; interesse pubblico che
è più o meno importante, in una scala di graduazione che giunge fino all’attribuzione della legittimazione attiva al pubblico ministero o del potere di
iniziativa di ufficio al giudice (art. 336 cod. civ.) nelle ipotesi in cui maggiore è la rilevanza legislativamente riconosciuta all’interesse medesimo o
minore il grado di soddisfacimento dello stesso. Si tratta di procedimenti che
hanno ad oggetto una pluralità di interessi e che proprio per questo l’ordinamento ritiene di non poter “soggettivare”; di procedimenti quindi nel corso
dei quali, pur avendo essi ad oggetto diritti lesi o comunque insoddisfatti per
attività od omissioni di soggetti diversi dal destinatario della tutela, la situazione va conosciuta e valutata dal giudice in considerazione ed accertamento
anche di altri interessi che l’ordinamento considera strettamente collegati a
quelli facenti capo al singolo soggetto destinatario, diretto o indiretto, della
tutela.
In effetti, l’adesione alla tendenza alla creazione della regola in via di interpretazione giurisprudenziale è resa indispensabile, e quindi va condivisa,
dalla considerazione che, nelle ipotesi in cui il procedimento è a sostanza
contenziosa avendo ad oggetto diritti soggettivi o status, il rito camerale
minorile, se non opportunamente integrato, non reggerebbe al vaglio di costi80
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
tuzionalità, in quanto l’attuazione del diritto di difesa (art 24 Cost.) e del
principio del contraddittorio (art. 111 Cost.) è possibile solo con un’interpretazione, detta appunto costituzionalizzatrice, la quale comporta, per gli specifici adattamenti ritenuti necessari, aggiunte estranee al dato normativo di
base tali da determinare un iter del procedimento camerale diverso da quello
disegnato sia dalle norme di carattere generale che dalle norme relative ad
ipotesi particolari.
In conseguenza, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, esiste oggi una
disciplina unica che riafferma l’idoneità della procedura camerale ad essere
utilizzata al fine della tutela giudiziale dei diritti soggettivi, con i dovuti
adattamenti in tema di diritto di difesa e contraddittorio, facoltà di prova,
sistema d’impugnazione, stabilità della decisione.
Il che non costituisce una novità, in quanto l’ordinamento conosce vari casi
in cui la procedura in camera di consiglio è disposta anche in presenza di elementi della giurisdizione sostanzialmente contenziosa, e casi in cui il procedimento contenzioso ordinario è utilizzato anche per rapporti non contenziosi; si tratta di una scelta legislativa non sindacabile a livello costituzionale
per il principio di indifferenza costituzionale della forma rispetto alla sostanza del procedimento.
7.
possibile proporre azione di impugnazione del riconoscimento, ai sensi
Èviziato
degli artt. 263 e segg. cod. civ., solo quando il riconoscimento stesso è
per difetto di veridicità (art. 263 cod. civ.), per violenza (art. 265 cod.
civ.), per l’incapacità derivante da interdizione (art. 266 cod. civ.).
Se il fondamento dell’azione è il difetto di veridicità l’azione è imprescrittibile, e non è rilevante, nemmeno nel caso in cui l’azione sia promossa dall’autore del falso riconoscimento, che egli fosse a conoscenza della non veridicità del riconoscimento stesso.
Oltre che da colui che ha effettuato il riconoscimento l’azione può essere promossa da colui che è stato riconosciuto al raggiungimento della minore età o
anche prima se v’è autorizzazione del Tribunale per i minorenni che nomina
un curatore speciale (su richiesta del minore ultrasedicenne, del pubblico
ministero, del tutore o del genitori che ha validamente riconosciuto, art. 264
c. c.); nel caso di difetto di veridicità legittimato attivo è chiunque vi abbia
interesse; se il legittimato attivo è interdetto l’azione può essere promossa dal
tutore.
Se l’autore del riconoscimento muore senza aver promosso l’azione, ma
prima che sia scaduto il termine annuale, legittimati sono gli ascendenti, i
discendenti o gli eredi (art. 267 cod. civ.).
Legittimati passivi, considerato che ogni riconoscimento è autonomo e l’impugnazione di uno dei riconoscimenti non coinvolge quello dell’altro genitore, saranno: se ha agito il genitore il figlio, a cui dovrà essere nominato dal
tribunale, se minorenne, un curatore speciale; se ha agito il figlio il genitore
che ha operato il riconoscimento; se ad agire è un terzo legittimati passivi
saranno sia il figlio che il genitore. L’altro genitore, in ciascuno dei casi
indicati, potrà, se riterrà, intervenire in giudizio.
81
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
L’interesse di cui deve essere portatore colui che agisce può essere sia di
natura morale che patrimoniale, purché rivesta il carattere dell’effettività e
dell’attualità.
La competenza a decidere appartiene al tribunale ordinario del luogo in cui
si trova il minore, anche se da alcuni è stato sostenuto che competente
dovrebbe essere il tribunale del luogo in cui è stato effettuato il riconoscimento.
Il regime delle impugnazioni in materia di riconoscimento di figlio naturale
non ha subito modifiche sostanziali a seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975, per cui permane nell’impianto normativo l’affermazione della
prevalenza della famiglia legittima, in quanto l’azione può essere proposta
anche a distanza di molto tempo dal riconoscimento ed esiste una vasta
gamma di legittimati attivi, al contrario di quanto è prevista per il disconoscimento di paternità.
Si viene, così, a determinare una incertezza, se non permanente almeno di
lunga durata, in ordine allo stato di figlio naturale, il quale può perdere il proprio stato anche a distanza di molto tempo dal riconoscimento, con tutte le
conseguenze di ordine psicologico e pratico, che, soprattutto su un minore,
tale cambiamento può determinare.
Nessun termine è previsto per l’impugnazione per difetto di veridicità essendo l’azione imprescrittibile nei riguardi di tutti i legittimati attivi; negli altri
casi è previsto il termine di un anno, che decorre dal momento in cui è cessata la violenza ovvero dalla sentenza che revoca lo stato di interdizione; se
autore del riconoscimento è un minorenne il termine comincerà a decorrere
non dalla cessazione della violenza, ma dal raggiungimento della maggiore
età se la violenza è cessata in precedenza.
Qualora la violenza non sia cessata o l’interdizione non sia stata revocata
prima della morte della persona che ha effettuato il riconoscimento si deve
ritenere che il termine di un anno decorra per i suoi ascendenti, discendenti
ed eredi dalla data della morte.
È stato osservato che nel caso dell’interdizione quando la morte intervenga
prima della revoca non v’è più alcun termine cui fare riferimento; a me sembra, per non ammettere disparità non spiegabili, che, venuta meno la legittimazione del rappresentante legale, la legittimazione stessa passi ai soggetti
indicati dall’articolo 267 cod. civ. ed, in questo caso, in mancanza di termine speciale, e per non far restare sempre sospesa la minaccia dell’annullamento, si dovrebbe applicare il principio generale della prescrizione quinquennale, propria di tutte le azioni di annullamento.
Allorché legittimato attivo sia il tutore non vi è limite per proporre l’azione.
Nel corso del giudizio il giudice ha la facoltà di pronunciare i provvedimenti nell’interesse del figlio (la legge non specifica, però sembra chiaro che si
debba trattare di provvedimenti temporanei); la lettera della norma (art. 268
cod. civ.) è talmente ampia da consentire al giudice di adottare misure che
rispondano sia alle esigenze morali che a quelle materiali del figlio.
(Si è osservato che il giudice, avuto riguardo all’esclusivo interesse del
figlio, potrebbe, ad esempio, disporre in ordine all’esercizio della potestà e
alla convivenza, facendo eventualmente tornare il figlio minore a convivere
con l’altro genitore che lo abbia già riconosciuto. L’impugnazione del rico82
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
noscimento potrebbe, inoltre, essere annotata, per ordine del giudice stesso,
sugli atti iscritti o trascritti dai quali risulti il riconoscimento impugnato, così
come potrebbe essere disposta la sospensione della trascrizione o della annotazione del riconoscimento impugnato.).
Nell’ipotesi in cui sia accolta l’impugnazione si deve distinguere il caso del
difetto di veridicità da quello di violenza o interdizione.
Nel primo caso alla perdita dello stato da parte del figlio consegue anche
l’impossibilità da parte di colui che aveva effettuato il riconoscimento di proporne uno nuovo considerato che l’accoglimento dell’impugnazione accerta
la falsità della filiazione.
Negli altri due casi, invece, pur determinandosi la perdita dello stato da parte
del figlio, poiché non è messa in discussione la veridicità della filiazione, ma
la genuinità e libertà della volontà espressa nella dichiarazione con cui si
effettua il riconoscimento, nulla impedisce che colui il quale aveva effettuato il riconoscimento impugnato, possa riproporlo.
L’azione di impugnazione del riconoscimento è stata diversamente qualificata a seconda delle teorie che si seguono in relazione alla natura giuridica del
riconoscimento.
Coloro che ritengono il riconoscimento un negozio giuridico, inquadrano l’azione di annullamento nell’ambito della patologia del negozio e, più specificamente, nell’ambito dei vizi dell’oggetto, ritenendo che l’oggetto sia rappresentato appunto dal riconoscimento.
Coloro che, invece, ritengono il riconoscimento un atto di accertamento
costitutivo, collocano l’impugnazione per difetto di veridicità nell’ambito
delle azioni di stato.
È stato osservato che l’esistenza di una norma deputata a porre nel nulla il
riconoscimento, in particolare per il difetto di veridicità, conferma la natura
di atto di accertamento dello stesso e consente di ritenere irrilevanti gli stati
soggettivi dell’autore stesso; in effetti l’ordinamento non da rilievo ad altri
vizi della volontà, come l’errore, il dolo e quello connesso all’incapacità di
intendere e di volere non risultante da interdizione, ai quali non ricollega
alcuna conseguenza escludendoli dal novero dei casi tassativi nei quali può
attivarsi l’azione di impugnazione del riconoscimento.
Alcuni autori hanno ritenuto che all’impugnazione del riconoscimento sia
applicabile la disposizione di carattere generale contenuta nell’art. 428 cod.
civ., per effetto della quale gli atti compiuti da persona che, sebbene non
interdetta, sia stata incapace d’intendere e di volere al momento dell’atto,
sono annullabili ad istanza della stessa, qualora le abbiano causato grave pregiudizio; questa tesi non può essere condivisa considerato che l’art. 266 cod.
civ. contiene una disciplina specifica che rende inapplicabile l’art. 428 cod.
civ. e che diversi sono i presupposti che fondano i due istituti: nell’ipotesi
prevista dall’art. 428 cod. civ., infatti, è richiesto per l’annullamento la sussistenza di un grave pregiudizio, nell’altro caso, invece, non è richiesta la
sussistenza di alcun pregiudizio particolare per l’autore del riconoscimento,
essendo determinante il vizio del volere che è rappresentato dalla condizione
d’interdizione.
In riferimento alla norma che prevede l’impugnazione del riconoscimento per
difetto di veridicità più volte sono state sollevate questioni di legittimità
83
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
costituzionale, tutte rigettate dalla Corte Costituzionale la quale ha sempre
ritenuto conforme ai principi costituzionali una regolamentazione tendente a
ricondurre alla verità situazioni che da questa si discostavano.
Per quanto attiene all’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e per interdizione non mi sembra che vi sia nulla di particolare da segnalare; per quanto attiene all’impugnazione per violenza è opportuno precisare
che è necessario rifarsi alle norme di cui agli articoli 1434 e segg cod. civ.;
si avrà, quindi, violenza quando si determinerà in una persona di media energia psichica il timore di esporre se stessa o i membri della propria famiglia a
un danno di considerevoli proporzioni. anche la violenza nei confronti dei
terzi potrà essere considerata ma, ai sensi dell’art. 1436 cod. civ., la valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.
Nel caso di impugnazione per difetto di veridicità sono ammissibili tutti i
mezzi di prova, ad eccezione della confessione e del giuramento.
Sempre in relazione al difetto di veridicità, la Corte Costituzionale (sentenza
n. 158 del 1991) ha osservato che i vincoli del presunto genitore nei confronti del presunto figlio, venutisi a determinare con il falso riconoscimento, non
causano violazione di norme costituzionali; in quanto l’inderogabilità dei
doveri di solidarietà nella formazione sociale costituita dalla famiglia, di cui
agli articoli 29 e 30 Cost., non è invocabile quando il legame familiare venga
meno perché privato del fondamento della verità della filiazione.
84
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
LA FAMIGLIA
-
“È un’organizzazione di relazioni primarie fondata sulla differenza di
genere e sulla differenza tra generazioni e che ha come obiettivo e progetto intrinseco la generatività.” (Cigoli)
Nasce e si costituisce all’interno di un CONTESTO socio-culturale
Il campo emozionale della famiglia è sempre trigenerazionale
La capacità della famiglia di cambiare e di adattarsi alle situazioni, mettendo in gioco modelli interattivi nuovi distingue una famiglia “normale”
da una “patologica”
Obiettivo della famiglia è riuscire a realizzare i compiti specifici di ogni
stadio del Ciclo Vitale
Lo stress familiare è più intenso ai punti di transizione da uno stadio
all’altro; difficoltà compaiono in occasione di interruzioni o disorganizzazioni nella evoluzione del ciclo di
vita familiare
FILM CONSIGLIATI:
Il padre di famiglia,
La famiglia,
Sul lago dorato
LA COPPIA
-
LA FAMIGLIA NORMALE ED IL
SUO CICLO VITALE FORMAZIONE, SVILUPPO E CRISI
DEL RAPPORTO DI COPPIA LA GENITORIALITÀ COPPIA E FAMIGLIA NEL
PROCESSO DI SEPARAZIONE
La prima fase cruciale della costruzione della coppia è la scelta del
partner
La seconda fase cruciale è il processo di differenziazione dalle
famiglie di origine
Nella relazione coniugale il patto di
reciprocità consiste nell’incontro
con la differenza dell’altro
Il compito di sviluppo nella relazione coniugale è che ciascuno si prenda cura dell’altro nella sua unicità e differenza
Il patto viene meno quando i bisogni dei due partners sono disattesi, quando ciascuno tenta di realizzare un dominio sull’altro
Differenza tra coppia coniugale e coppia genitoriale
FILM CONSIGLIATI:
John e Mary,
La famiglia,
Donne con le gonne,
I vitelloni
DR.SSA
LILIA
GAGNARLI
PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA,
DIDATTA DELL’ISTITUTO DI
TERAPIA FAMILIARE DI FIRENZE
LA GENITORIALITÀ
-
Il desiderio di un figlio nasce per l’uomo e per la donna dal riconoscimento di una mancanza: per l’uno di ammettersi finito nel tempo, per l’altra di
sentirsi incompleta nello spazio
85
AIAF
-
QUADERNO NUMERO
2004/1
La coppia sarà capace di accettare un nuovo bambino quando è stata capace di accettare le parti nuove che l’altro apporta
È cruciale che la coppia possa desiderare dei figli senza che siano indispensabili e che i genitori possano quindi proiettare sui figli un desiderio
che non sia un bisogno
Compito dei genitori è individuare uno stile educativo autorevole in grado
di mantenere equilibrio tra gli atteggiamenti estremi della trascuratezza o
dell’autoritarismo o dell’iperprotettività senza norme
La cornice che il patto genitoriale assicura ai figli si fonda sulla protezione dal pericolo e sulla spinta affettuosa ad esplorare il mondo
Con la nascita di un bambino tutti i membri della famiglia, sia nucleare
che allargata, ‘salgono’ di una generazione: difficoltà ad accettare questo
salto - rischio da evitare essere coetanei
FILM CONSIGLIATI:
Fanny e Alexander,
L’attimo fuggente,
Mignon è partita,
Voglia di tenerezza
PROCESSO DI SEPARAZIONE
Come coniugi:
- Continuare ad avere fiducia nel valore del legame ed in se stessi come
degni di legame
- Elaborare il divorzio psichico e le perdite relative alla separazione
- Riconoscere il proprio contributo al fallimento coniugale
Come genitori:
- Continuare ad essere entrambi genitori
- Rispettarsi reciprocamente nei ruoli di padre e madre
- Favorire l’accesso dei figli all’altro genitore e alla sua famiglia di origine
- Instaurare un rapporto di cooperazione
- Ridefinire i rapporti con le rispettive famiglie di origine
FILM CONSIGLIATI:
Kramer contro Kramer,
Spara alla luna
86
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
1.
I
l tema che mi è stato assegnato, è un tema che non amo; e dirò anche perché,. Non lo amo perché è un tema che ancora affonda le sue basi in una
serie di equivoci. La riforma del 1975 ha semplicemente cambiato una
bella parola, “patria potestà”, in una brutta parola, “genitoriale”
Intendiamoci; era assolutamente necessario che fosse affermato il principio
di eguaglianza tra i genitori, e quindi occorreva adeguare anche questo istituto ai motivi che hanno indotto il legislatore a prendere atto che il vecchio
sistema, quello fondato sulla autorità del marito, titolare della potestà, maritale e patria, fosse sostituito da una titolarità e da un esercizio che spettasse
in modo assolutamente eguale ai genitori; solo che è rimasta la parola più
brutta, cioè “potestà”.
Sembrerebbe quasi che la preoccupazione del legislatore del ‘42 sia stata
quella di adeguarsi al principio di
eguaglianza, ma senza nessuna sensibilità per il primo dei due termini,
“potestà”.
Questo controsenso di un istituto che è
stato riformato in ordine alle persone
che ne sono titolari e che lo esercitano,
ma che non è stato riformato in ordine
al contenuto, impone all’interprete
una grossa opera di riconsiderazione
dell’insieme; ed è per questo che esso
può risultare un ottimo banco di prova
per coloro, ed in primo luogo gli avvocati, “familiaristi”, che si trovano nella
necessità di utilizzare comunque una serie norme, quelle del Titolo IX, (del
libro I del codice civile), sulla cosiddetta “potestà dei genitori”, in modo tale
da adeguarla alle esigenze della situazione attuale, a cominciare da una correlazione con la Costituzione.
In vero, un istituto così autoritario come la potestà genitoriale, non trova conforto nelle norme della Costituzione. Le norme della Costituzione si occupano del problema, del rapporto genitori-figli, ma non menzionano la potestà.
L’art. 30 parla di un dovere e diritto dei genitori, di mantenere, istruire ed
educare i figli; ed evidentemente questa norma può essere completata pensando di individuare un diritto dei figli minori a essere educati, istruiti e mantenuti. Si delinea quindi non tanto quello schema potestà-soggezione che
ancora oggi l’art. 316 cc. evoca, ma uno schema di rapporto più articolato.
In secondo luogo, la disciplina codicistica ha a che fare con un minore che,
in altre occasioni, ho chiamato un minore “imbalsamato”;: ossia, l’art. 316
non fa differenza tra il neonato e il diciassettenne: sono, entrambe tali situazioni, accomunate da questo concetto di soggezione.
L’autorevole civilista che ha introdotto la moderna dottrina del diritto della
famiglia, Antonio Cicu, faceva questa riflessione: in fondo, “se noi potessimo parlare del minore come oggetto, potremmo dire che i genitori hanno un
diritto di proprietà sul minore”. Il minore è, appunto, oggetto. Lo si dice
LA POTESTÀ GENITORIALE:
TITOLARITÀ, CONTENUTI
ED ESERCIZIO
PROF.
FRANCESCO
DONATO
BUSNELLI
ORDINARIO DI DIRITTO CIVILE –
SCUOLA SUPERIORE DI STUDI
UNIVERSITARI
E DI PERFEZIONAMENTO
“S.ANNA” DI PISA
87
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
anche in altre trattazioni dottrinali: un manuale che ancora va per le mani
degli studenti parla del minore come “colpito da incapacità generale e totale
di agire “ (F.Messineo), come se ci fosse un morbo che lo assale di fronte al
quale non si può difendere.
La Costituzione non prevede niente di tutto questo, mentre il Codice, pur
riformato nel 1975, sembrerebbe ricondurre tutto alla potestà dei genitori,
perché tale è la rubrica del Titolo IX. Sembrerebbe quindi inevitabile che i
che i principi costituzionali dovessero essere veicolati attraverso l’istituto
autoritario della potestà dei genitori.
Ora, dico subito che la mia opinione non è assolutamente affine a certe concezioni, per così dire, liberatorie, che ci sono pervenute dall’ambiente di
oltreoceano; ossia le idee, lato sensu libertarie, che contrappongono allo
schema della potestà dei genitori, dove appunto c’è l’autorità dei genitori e
la soggezione del minore, la situazione esattamente contraria.
I figli andrebbero tutelati nella loro assoluta capacità, libertà e diritti correlativi; i genitori sarebbero per così dire a loro servizio.
Orbene, questa concezione non è accettabile nel nostro ordinamento perché è
una concezione che postula quella che in un sapido libretto è stata definita la
“morte della famiglia” là dove l’individualismo richiede un sacrificio delle
dimensioni comunitarie, delle quali è espressione la famiglia, così che il
minore diventa portatore di libertà, di diritti, che non entrano in rapporto, in
dialogo, in relazione con i genitori.
Ecco, noi assistiamo oggi a questa polarizzazione di fondamentalismi: da una
parte quel fondamentalismo che sembrerebbe essere rimasto con il mero
ritocco dell’eguaglianza tra i genitori nel nostro Codice Civile, dove tutto è
potestà dei genitori e niente è libertà dei figli; e il polo opposto che ci proviene da riflessioni nelle quali, passando attraverso la eliminazione della
famiglia come comunità e guardando agli individui, si vede nel minore un
soggetto portatore di tutte le stesse libertà e di tutti gli stessi diritti che possono avere gli altri individui.
Entrambe queste posizioni, la prima che sembrerebbe trovare radici nel
Codice, la seconda che invece è estranea ai nostri principi anche costituzionali, mi lasciano veramente perplesso, posto che il discorso difficile dei rapporti genitori-figli va, secondo me, visto sulla base di una serie di valutazioni articolate che cercherò di proporre.
2.
nzitutto non è pensabile ricorrere a questo concetto che il Codice sembra
Aminore.
ancora somministrarci in modo monolitico, a prescindere dalla età del
Occorre finalmente prendere atto che il minore non esiste, ma esistono delle persone che possono essere e sono già dai documenti internazionali,
qualificati come neonato, come fanciullo, come adolescente (i francesi parlano a questo proposito dei “grands enfants” per definire gli adolescenti che
stanno per diventare maggiori di età); e determinati aspetti delle regole che
possono andar bene per una certa fascia di età, possono non andar bene per
un’altra fascia.
Poi occorre tener conto di un altro aspetto: non si può evitare la ricerca di una
88
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
volontà individuale dei minori. Quando si parla di soggezione e si bolla questa situazione con una incapacità legale assoluta, si intende dire che la volontà del minore è irrilevante, il che cozza non soltanto contro l’evidenza della
realtà sociale, ma cozza anche contro una serie di determinazioni normative
che impongono una revisione di quello che io chiamerei un dogma, ossia il
dogma del minore come oggetto della potestà dei genitori. Nella recente
legge sull’adozione. (L. 149/2001), il giudice è obbligato a sentire l’adottando, anche al di sotto dell’età per la quale è previsto il suo consenso; e lo deve
sentire in relazione alla sua “capacità di discernimento”. Orbene, questo principio della capacità di discernimento, non si può conciliare facilmente con la
incapacità legale assoluta: abbiamo paradossalmente un soggetto bifronte,
che da una parte è legalmente incapace, in modo assoluto, e dall’altra parte
ha una capacità, sia pure di semplice “discernimento”. Ma anche all’interno
del nostro Codice riformato nel ‘75, noi abbiamo una norma che spesso viene
trascurata, l’art. 147: il quale dice che il matrimonio impone ad ambedue i
genitori l’obbligo di mantenere, istruire, educare la prole, tenendo conto
delle “capacità”, oltre che delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni, dei
figli. È ancora il paradosso di un soggetto, il minore, che è incapace, ma ha
delle capacità. Questo conflitto è dunque interno alla stessa sistematica del
Codice: come fa un soggetto ad essere assolutamente incapace e avere delle
capacità? Sì potrà obiettare che quando si parla di capacità al plurale si vuol
fare riferimento a capacità naturali, al fatto appunto che il minore manifesta
delle attitudini; ma allora la replica è semplice: non esiste forse nel Codice
una norma (l’art. 428)che prende in considerazione il soggetto capace di
intendere e di volere anche se non è legalmente capace?
Non solo, ma il minore appare “maltrattato” dal Codice attuale, perché, ai
fini dell’imputabilità del fatto illecito, guarda caso, è responsabile, sol che
sia capace di intendere e di volere; certo, c’è la responsabilità solidale di
coloro che ne hanno la protezione, i genitori, ma è responsabile. Però è incapace per tutto ciò che può significare una scelta di vita: per questo è incapace. Quindi lo si “penalizza” attraverso una responsabilità, ma gli si preclude
la possibilità di esprimere le proprie scelte. Ecco allora che l’istituto della
potestà dei genitori deve essere, a livello di interpretazione, riletto, evitando
di ritenere in partenza che, per così dire, la potestà e la soggezione siano lo
schermo che nasconde tutto il diverso atteggiarsi del rapporto genitori-figli.
Quindi bisogna disarticolare l’istituto in due direzioni: da una parte, per così
dire, in una direzione verticale, la potestà dei genitori avrà un ruolo diverso
a seconda dell’età del minore; e in secondo luogo in una direzione orizzontale, occorre vedere quali sono le situazioni soggettive che vengono in considerazione e, per esempio, distinguere tra situazioni patrimoniali e situazioni
personali, perché non sembra logico che l’istituto funzioni nello stesso modo
quando, per esempio, si tratti di vendere o acquistare un appartamento di proprietà del minore e quando si tratti di fare una scelta in ordine a un intervento sanitario o chirurgico.
89
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
3.
presupposti per questa riconsiderazione indubbiamente ci sono. Li possiaInell’”alfa”
mo cogliere, guarda caso: e anche questo sembra un paradosso, proprio
e nell’”omega” della disciplina dettata dal Titolo IX del libro I del
Codice Civile.
Con questo termine apparentemente omogeneizzante di potestà dei genitori,
l’art. 315 c.c., riformato dice che il figlio deve “rispettare” i genitori (e ciò
era affermato anche nella formulazione originaria della norma ove però si
aggiungeva che deve anche “onorare” i genitori: si parlava di norma minus
quam perfecta); ma con la riforma si aggiunge che il figlio deve “contribuire”, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento
della famiglia finchè convive con essa.
Il discorso è molto impegnativo, perché siamo di fronte a un figlio il quale
deve contribuire, non è più pertanto in una situazione di soggezione: è membro della famiglia, perché l’obbligo di contribuzione lo troviamo anche nella
disciplina dei diritti e doveri tra i coniugi; e, allora, diventa particolarmente
interessante prendere atto che l’obbligo di contribuzione riguarda i coniugi
tra di loro, ma riguarda anche il rapporto genitori-figli. Si pongono quindi le
basi per la ricostruzione di una comunità, una comunità i cui membri sono
tenuti ad osservare obblighi e diritti; dunque l’immagine, per così dire alla
Cicu, di un minore oggetto, quasi oggetto di un diritto di proprietà, si scolora di fronte a una norma di questo tipo. Certo questa norma riguarderà per lo
più i “grands enfants”, (o i figli che hanno raggiunto la maggiore età); però
potrebbe anche riguardare il fortunato ereditiero lattante, il quale, viene
assoggettato ad una logica di contribuzione in ragione delle sostanze.
La norma di chiusura, che qui interessa è l’art. 333 c.c., una norma dalle
potenzialità infinite, che già è stata “scoperta” dalla giurisprudenza, ma forse
ancora non a sufficienza.
La norma dell’art. 333 è nata come sanzione, sanctio minor rispetto alla decadenza dalla potestà; in altri termini, secondo la logica originaria del Codice
Civile, il genitore, in questo caso originariamente il padre, è certo onnipotente, però se abusa, lo si sanziona, perché la logica era proprio quella: grande
potere ma con una possibilità di essere sanzionati; e c’erano due ordini di
sanzione: quella più drastica, prevista dall’art. 330, che permane, ed è appunto la decadenza dalla potestà; poi c’era la sanzione minore, che si evinceva
l’art. 333, quando il genitore ha abusato ma non in misura tale da doversi
applicare la decadenza.
L’art. 333 dice che il giudice potrà, secondo le circostanze, adottare “i provvedimenti convenienti”; si tratta quindi di una norma che lascia al giudice la
scelta dei provvedimenti. Proprio questa previsione in bianco, questa clausola generale, che consente al giudice di assumere i provvedimenti convenienti, è stata alla base di una delle giurisprudenze pretorie delle nostre Corti, tra
le più significative. La giurisprudenza ha infatti avviato un processo di trasformazione della valenza dell’art. 333 da norma sanzionatoria, (rispetto agli
abusi del genitore esercente la potestà), a norma di controllo del rapporto
genitori-figli.
In altri termini, così come esiste una norma, che consente di far intervenire il
90
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
giudice nei conflitti tra i due genitori (l’art. 316), così la giurisprudenza ha
inventato, attraverso una rilettura dell’art. 333, una norma sui conflitti tra
genitori e figli; così che l’art. 333, ormai, non ha più soltanto e tanto una funzione sanzionatoria, ha una funzione che consente al giudice di esaminare le
situazioni conflittuali tra genitori e figli, soprattutto là dove il figlio, avendo
la capacità di intendere e di volere, è in grado di esprimere determinate scelte che si contrappongono alle scelte dei genitori.
La conclusione di questo processo “rivoluzionario”, che è veramente molto
importante e ancora non utilizzato in modo consapevole dagli operatori, la
abbiamo nel 2001, attraverso interventi legislativi che ancora non sono stati
sufficientemente, inseriti nella sistematica: alludo alla legge n. 149 e alla
legge 154.
La formulazione originaria dell’art. 333 poteva, nell’ambito dei provvedimenti convenienti, consentire al giudice di disporre l’allontanamento del
minore dalla residenza familiare: cioè, di fronte ad un abuso la sanzione poteva essere quella di allontanare il figlio e collocarlo altrove, per sottrarlo agli
abusi. La legge n. 149/2001 ha introdotto la previsione dell’allontanamento
del genitore o convivente che “maltratta o abusa del minore”: il diritto del
minore può essere tutelato, questa volta, non allontanando lui, ma allontanando il genitore. Quindi il minore rimane in quello che resta della famiglia: è il
genitore che abusa a doversi allontanare.
4.
eraltro, se l’art. 333 può essere, unitamente all’articolo 147, e insieme
P
all’art. 315, uno dei capisaldi per impostare la rivisitazione della potestà
dei genitori, che senso ha prevedere una norma che giudichi sui conflitti,
quando manca una legittimazione processuale ad agire del minore?
Il problema si è posto a livello giurisprudenziale, quando il giudice Dogliotti,
sollevò una questione di costituzionalità proprio su questo punto: in altri termini, mentre per le questioni di carattere patrimoniale, quando sorga conflitto tra genitori e figli si può provvedere alla nomina di un curatore speciale,
niente si dice laddove invece si tratti di una questione di bilanciamento, o di
conflitto, tra le sfere personali.
Il giudice Dogliotti - il caso era complesso e drammatico -, ritenne di interpellare la Corte Costituzionale, attraverso la questione di legittimità costituzionale proprio dell’art. 333, e di altre norme, che non prevedono, di fronte
ad una esigenza di risolvere il conflitto, un potere processuale da parte di uno
dei soggetti. Certo, c’è l’iniziativa del Pubblico Ministero, ma evidente che
non si può affidare al solo Pubblico Ministero la protezione indiretta di un
interesse che è squisitamente personale.
La Corte Costituzionale è stata abbastanza “piratesca” in quella occasione
perché, molto astutamente, ha esaminato il modo con il quale il giudice aveva
sottoposto la questione: il giudice Dogliotti aveva osservato, all’incirca: “non
sembra facile trovare nella legislazione ordinaria un istituto che consenta di
dare voce alla posizione del minore in un eventuale conflitto con i genitori”;
e la Corte Costituzionale aveva risposto all’incirca: “cerca meglio”; si era
dunque “lavata le mani” del problema stesso, che però permane, specialmen91
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
te ora che, alla luce dell’intervento legislativo del 2001, l’art. 333 ha assunto veramente un ruolo di norma cardine per risolvere gli eventuali conflitti.
5.
uesto, inventario normativo ci consente di procedere ad un tentativo di
Q
disarticolazione di quell’istituto che, appunto, sembrerebbe monolitico in
partenza.
Sotto l’apparente comune denominatore della potestà dei genitori, si possono
individuare tre profili, tra di loro ben distinti, ai quali possiamo dare, per convenzionale spiegazione, altrettanti nomi: almeno un profilo protettivo; un
profilo educativo; e un profilo potestativo.
Soltanto quest’ultimo, a mio avviso è sussumibile, in senso pieno, nella potestà dei genitori è come vedremo e essenzialmente legato alle vicende di carattere patrimoniale: nelle vicende di carattere patrimoniale si può dire infatti
che il profilo potestativo, cioè quello che si ricollega all’esercizio della potestà con relativa soggezione, è funzionale e funzionante.
Del resto tutto questo lo possiamo anche arguire dall’articolarsi delle norme
del Titolo IX che abbiamo sott’occhio, perché queste norme hanno una sorta
di cesura importante tra le norme che precedono l’art. 320 e le norme che lo
seguono; non a caso la previsione di un curatore speciale è inserita in mezzo
alle norme che seguono l’art. 320; e quindi è abbastanza corretta l’interpretazione di coloro che la riferiscono a conflitti di carattere patrimoniale; che
più significano una prospettiva strettamente potestativa.
Però le questioni patrimoniali nei rapporti genitori-figli non sono le più
importanti.
In altri termini, il caso del minore proprietario è un caso assai limitato rispetto alle altre vicende possibili.
6.
perciò dagli altri profili, identificabili come il profilo protettivo
CDi omincerei
e il profilo educativo.
profilo protettivo noi possiamo parlare in due direzioni, e tutte e due queste direzioni sono, a ben vedere, fuori dalla diretta riferibilità alla potestà dei
genitori.
Tipicamente improntato al profilo protettivo è l’art. 2048 cc. in materia di
responsabilità civile, dove si parla appunto della responsabilità dei genitori,
oltre che di quella dei precettori, dei maestri d’arte, eccetera.
Nell’interpretazione di questa norma, per un certo tempo la giurisprudenza ha
ritenuto che la stessa fosse essenzialmente improntata ad una responsabilità
per colpa e questo era, diciamo, il prodotto di una impostazione più generale, per cui tutta la responsabilità aquiliana era, doveva essere, una responsabilità per colpa. Si pensi che per l’art. 2049 c.c. si parlava di una colpa presunta del datore di lavoro, del padrone, del committente, che peraltro non
poteva vincere questa presunzione assoluta.
Ebbene, per un verso c’è stata l’erosione di questo principio della colpa,
come principio assolutamente inderogabile; ma quello che è interessante
92
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
nella giurisprudenza sull’art. 2048 è un’altra cosa: mentre in un primo tempo
i giudici erano abbastanza larghi nel consentire la prova contraria dei genitori rispetto alla imputazione del danno, nel senso che il genitore che riusciva
a provare di avere dato una educazione conforme ai principi, di avere vigilato nei limiti del possibile, otteneva l’esonero dalla responsabilità civile, oggi
la giurisprudenza tende a trasformare l’art. 2048 in una norma improntata ad
una responsabilità oggettiva. Per superare la responsabilità occorre addurre il
factum principis, la non coabitazione del minore, ossia ipotesi che mettano in
evidenza come la “rapportualità” è venuta meno. Qui non siamo di fronte
tanto ad una potestà dei genitori, quanto di fronte ad una garanzia: i genitori
sono assunti dall’art. 2048 come garanti; la “ratio” è quella di dare al terzo
danneggiato la possibilità di un garante quando il danno venga provocato da
un minore. In questa prospettiva, in cui i genitori figurano come protettori del
minore a prescindere dal loro concreto atteggiamento nella singola vicenda,
siamo al di fuori dalla potestà; siamo di fronte, a una logica di responsabilità civile che, laddove vi è un soggetto che non dà sufficienti garanzie di risarcimento del danno, impone la presenza di un garante.
Per quanto riguarda invece gli atti leciti, ecco, si può dire che il profilo protettivo riguarda anche gli atti non patrimoniali le decisioni sulla vita, sulla
salute, eccetera, del minore fino a quando il minore non abbia una sua capacità di relazionarsi ai genitori.
Nella giurisprudenza recente, abbiamo casi drammatici, in ordine per esempio all’alternativa tra terapie tradizionali del tumore e terapia Di Bella.
È chiaro che se si tratta, come nei casi più recenti, di bambini in età tale da
non potere esprimere una loro consapevole volontà, i genitori operano come
protettori: in tali casi, peraltro, non sussiste una potestà nel senso tecnico perché la potestà nel senso tecnico, implica una rappresentanza: l’art. 320, che
apre la parte più strettamente dedicata alla potestà, inizia a parlare di rappresentanza e amministrazione mentre qui non abbiamo né una rappresentanza
né un’amministrazione.
I genitori, in questo caso, se debbono essere chiamati a decidere, non decidono come rappresentanti; decidono come educatori,, come persone che, in quel
momento, hanno l’obbligo di manifestare una scelta, che non è una scelta per
un altro, è una scelta della comunità familiare.
Questo spiega il fatto che l’art. 147, anche in questi casi, vincola i genitori
che dovranno decidere a tener conto delle capacità, inclinazioni naturali,
aspirazioni dei figli.
Teniamo altresì presente che l’art. 147 viene da lontano, perché nella redazione originaria del Codice del ‘42, si leggeva che i genitori debbono educare, istruire, mantenere la prole, secondo il “sentimento nazionale fascista”;
poi, caduto il regime fascista, il nostro legislatore, all’indomani del nuovo
corso democratico, sostituì questo riferimento al sentimento nazionale fascista con il riferimento ai “principia della Morale”.
Su quella prospettiva il genitore era rappresentante del minore e quindi esercitava la potestà, perché doveva vedersela con lo Stato. In fondo, fra sentimento nazionale fascista e principi della morale, non cambia molto, può cambiare, come dire, l’aspetto politico; però c’è sempre un genitore che rappresenta il figlio in ordine a scelte per le quali egli risponde nei confronti dello
93
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Stato, cioè di una terza persona, in termini di “ordine pubblico”.
Il grande cambiamento si è avuto quando si è tolto il riferimento tanto al sentimento nazionale fascista, quanto ai principi della morale, si è fatto riferimento a quelli che sono gli autentici aspetti rilevabili dalle caratteristiche
particolari della persona del minore: ecco allora che il genitore diventa, in
questo caso, protettore del minore, ma non rappresentante, perché non ha da
confrontarsi con una terza persona rispetto alla quale serva la rappresentanza.
Per questi aspetti relativi a scelte personali, c’è una soglia che il legislatore
non ha ritenuto di fissare in modo rapido.
Altri legislatori lo hanno fatto ma hanno creato dei problemi il legislatore
tedesco distingue la minore età sotto i sette anni, dai sette ai quattordici e poi
dai quattordici ai diciotto; ma, questa segmentazione è purtroppo rigida, in un
terreno dove invece è molto preferibile una flessibilità.
Ebbene, dicevo, questo profilo protettivo nelle scelte personali cede il
campo, quando il minore diventa capace di scelte personali, al profilo educativo.
7.
educativo è diverso dal profilo protettivo, perché nella misura in
Iconlcuiprofilo
il minore sia capace di scelte personali, i genitori devono confrontarsi
il minore stesso; e quindi l’educazione diversa di una educazione rapportuale, non è più una semplice protezione; ma, anche il minore deve rapportarsi con il genitore che ha il dovere ma anche il diritto di educare, mantenere e istruire, e quindi il minore non può dirsi affrancato da un confronto con
i diritti del genitore.
Il problema consiste allora nel rinvenire la possibilità di quello che si potrebbe chiamare il “concerto”, figura del diritto amministrativo che può essere
richiamata qui, ossia trovare un criterio di armonia, talvolta con un provvedimento atipico del giudice in ordine allo scontro tra due opinioni diverse,
oppure, in caso di impossibilità di raggiungere l’armonizzazione, legittimando il giudice a decidere in ordine alla soluzione del conflitto.
Sotto questo profilo parlare di profilo educativo, significa far emergere quell’aspetto di rapportualità, il cui inizio non ha una data precisa, anche perché
è chiaro che nella crescita di un minore non possono enunciarsi delle generalizzazioni, si possono fare solo delle approssimazioni; però il giudice deve
valutare se il profilo deve essere quello protettivo invece quello educativo..
Quando i genitori di quella povera bambina, colpita da una forma di leucemia gravissima, avevano interrotto la terapia chemioterapica, perché, erano
stati in qualche modo conquistati dalla pubblicità per la terapia alternativa Di
Bella, essi adducevano che anche la bambina di nove anni aveva espresso la
volontà di affrontare la terapia alternativa. Orbene il giudice, ha ritenuto il
profilo protettivo prevalente rispetto a quello educativo e ha detto ai genitori che non proteggevano la salute della bambina, lasciando una terapia chemioterapia, che almeno: come si legge in motivazione dava, sulla base delle
statistiche, il 60% di possibilità di guarigione, rispetto ad una terapia alternativa rispetto alla quale, a livello sperimentale, non si hanno sicurezza di risul94
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
tati.
In questo caso il Tribunale, giustamente, ha fatto prevalere il profilo protettivo, dicendo che i genitori non avevano esercitato questo potere in modo
adeguato, e ha disatteso il profilo educativo perché una bambina di nove anni
non è in grado responsabilmente di assumere una decisione di questo genere,
che invece una ragazza di quattordici, quindici, sedici anni, potrebbe responsabilmente assumere.
Quindi, il rapporto educativo, subentra, al profilo protettivo. E qui si aprono
dei problemi veramente molto difficili, perché sono problemi per un verso di
composizione del conflitto tra genitori e figli, per altro verso problemi di dissidio tra i genitori in ordine all’educazione e quindi al come rapportarsi col
minore.
Ora, per quanto riguarda il primo profilo noi abbiamo visto che l’art. 333
consente di trovare dei criteri e delle soluzioni.
Un caso interessante è quello di una sedicenne, da tempo sentimentalmente
legata ad un giovane affetto da malformazione fisica, la “gobba”, che decide
di abbandonare la casa dei genitori per seguire il giovane “dedito a stabile e
onesto lavoro di barbiere”. I genitori chiedono al giudice tutelare di obbligarla a tornare nella loro casa, con un ricorso ai sensi dell’art. 318 c.c., quello
che consente ai genitori di richiamare a casa il figlio, qualora se ne allontani
senza permesso, ricorrendo, se necessario, al giudice tutelare, quel giudice
tutelare inteso un tempo come “braccio secolare” dei genitori, secondo la
logica, appunto, della potestà genitoria.
Giustamente il Tribunale per Minorenni di Bari ha respinto il ricorso, ritenendo che la condotta dei genitori è “paternalistica, repressiva e ingiustificata”:
forse il Tribunale poteva dire qualcosa di meno se vero, ma comunque è certo
che a quei genitori non faceva piacere la prospettiva di un genero con la
gobba, e per di più dedito al mestiere, nobilissimo peraltro, di barbiere.
Altro caso da prospettare è quello del diciassettenne- questa è una sentenza
del Tribunale per i minorenni di Bologna, che si allontana dalla casa dei genitori a seguito di un contrasto avuto con gli stessi per una relazione sessuale
intrattenuta con una sua professoressa quarantatreenne. I genitori ricorrono al
giudice e il Tribunale dà ragione al figlio, dicendo che la “relazione eterosessuale, quale che sia l’oggetto d’amore, costituisce un’esperienza di vita
necessitata e liberante”.
Questo è un campione di quel polo fondamentalista liberatorio di cui parlavo
prima, che spesso ci proviene da oltre Oceano, dove si accusano i genitori di
essere come secondini che tarpano le libertà dei figli mentre i figli debbono
essere protetti anche in simili stravaganze; per cui questa sentenza sembra
non essere stata oggetto di un giudizio adeguato proprio sotto il profilo dell’art.333.
Per quanto riguarda invece l’altro aspetto, quello del conflitto tra i genitori,
abbiamo due ipotesi, tutte e due previste dall’articolo 316 c.c.
Tale norma al quarto comma, dice che se sussiste un incombente pericolo di
grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti
e indifferibili. Per la verità questa norma, che è l’unica a mantenere una
disparità di trattamento tra padre e madre, non riguarda necessariamente un
conflitto tra i genitori, ma improntata alla necessità di far fronte ad una
95
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
urgenza. Di questa norma non c’era assolutamente bisogno e, probabilmente,
se andasse sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale ne verrebbe
fuori una decisione di illegittimità costituzionale. Infatti in questi casi è evidente che l’urgenza fa sì che debba essere interpellata il primo dei genitori
che viene a essere contattato. Se, per esempio, la madre accorre al pronto
soccorso, per un incidente occorso al figlio, mentre il padre non si trova è
ragionevole disattendere questa norma, ritenendola superata da un riferimento diretto alla normativa costituzionale, per cui in definitiva, posto che la
Costituzione non fa differenza tra i due genitori - anzi, postula, articolo 29,
articolo 3, un principio di eguaglianza - la madre sia legittimata a decidere
questo.
Un medico il quale, per il fatto che non si trovi il padre, rallenti nel tempo
l’intervento, sarebbe suscettibile di essere considerata responsabile dei danni
da ritardo.
L’altra norma è quella che riguarda i casi diversi dall’urgenza, in cui vi sia un
conflitto tra i genitori. In questo caso, secondo il comma successivo della
stessa norma il giudice, sentiti i genitori e il figlio, se maggiore degli anni
quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse
del figlio e dell’unità familiare; se il contrasto permane, il giudice attribuisce
il potere di decisione a quello dei genitori che nel singolo caso ritiene più
idoneo a curare l’interesse del figlio. Questa è invece una norma ragionevole, non tanto per i “suggerimenti” del giudice, quanto piuttosto per il potere
che il giudice ha di indicare quale genitore sia la persona più adatta per prendere una decisione. Ma ci dobbiamo chiedere: posto che l’art.316 fa parte,
per così dire, di quella che abbiamo chiamato l’introduzione e quindi, è fuori
dallo stretto ambito fuoco della potestà genitoriale, perché riguarda l’aspetto
protettivo quando dall’aspetto protettivo si passa all’aspetto educativo?
Richiamo il caso del motociclista diciassettenne, il quale, avendo riportato in
un incidente stradale con la motocicletta un ematoma cerebrale, che non ha
interessato direttamente il cervelletto ma che potrebbe nel tempo portare a
conseguenze serie se non asportato Il chirurgo ritiene opportuno l’intervento
operatorio anche se l’intervento non è urgente, perché non c’è pericolo di
vita; il diciassettenne esprime la volontà di essere operato, i genitori si
oppongono. Questo è un quesito drammatico che il legislatore non aiuta a
risolvere; ecco, allora, l’importanza, dal punto di vista sistematico, di circoscrivere il più possibile la potestà dei genitori: se nell’incidente ha riportato
questo ematoma un bambino di cinque anni ovviamente il profilo è quello
protettivo; se l’ha subito il diciassettenne, siamo di fronte a un rapporto educativo per cui, secondo me, è vero, prima che il giudice intervenga a fare il
bilanciamento degli interessi, il medico ha il dovere, di seguire la volontà del
minore, una volta accertatosi che il minore è in grado di esprimere una scelta con capacità di intendere e di volere.
È chiaro che il discorso ci porterebbe lontano: qualche medico potrebbe chiedere quali possono essere le conseguenze sul piano penale: Io rispondo in
questi casi la certezza del diritto è una mito che noi dobbiamo dimenticare, e
ognuno di noi, se vuole esercitare un ruolo nella società di oggi, deve addossarsi determinati rischi, perché è assolutamente impensabile che il medico
abbia una protezione a tutto campo in ordine a qualsiasi attività.
96
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Oggi viviamo un’epoca in cui il diritto non consente più quelle certezze, ma
forse consente un maggiore adeguamento alla giustizia del caso concreto a
cominciare dalla situazione del minore che cessa di essere oggetto per diventare persona.
8.
eniamo adesso all’aspetto potestativo, dove la potestà dei genitori eserciV
ta il suo precipuo ruolo. Anche qui noi ci troviamo di fronte ad un discorso che merita di essere ridimensionato rispetto alla prospettiva tradizionale.
La prospettiva tradizionale era nel senso che ci fossero tre postulati assolutamente, incontrovertibili. Prima regola: la invalidità degli atti compiuti dal
minore; seconda regola:, la validità piena e definitiva degli atti compiuti
dagli esercenti la potestà, ossia i genitori; terza regola: la validità piena e
definitiva degli atti compiuti dal figlio una volta compiuta la maggiore età.
Orbene di questi tre postulati soltanto il terzo è da ritenersi oggi intoccabile,
ed è del resto una verità lapalissiana. Quanto alla prima regola, vorrei raccontare una vicenda che mi è capitato di conoscere. Mi ricordo che un notaio mi
aveva interpellato perché un ragazzo, figlio di emigranti e residente negli
Stati Uniti, era venuto per vendere un piccolo terreno di sua proprietà; questo ragazzo doveva stipulare l’atto il giorno del suo compleanno, del diciottesimo compleanno; aveva il biglietto aereo di ritorno per la mattina successiva.
Facendo ricorso al formalismo terribile dei giuristi dovetti dire che l’atto
sarebbe stato invalido, perché la maggiore età si ha solo al compimento del
diciottesimo anno; ossia alle ore 24.00 del giorno del compleanno; però lo
rassicurai subito consigliandolo di stipulare comunque l’atto, perché tanto
non è vero che l’atto è definitivamente invalido, è solo annullabile. Chi può
annullare l’atto compiuto dal minore? Il minore stesso, raggiunta la maggiore età o i suoi eredi o aventi causa; ma in questo caso, ovviamente il problema non si poneva, perché non era pensabile questo tipo di impugnazione.
Potrebbero impugnarlo i genitori; ma l’istanza dei genitori, in quanto diretta
promuovere un giudizio relativo ad un atto di straordinaria amministrazione
concernente beni del minore, sembrerebbe aver bisogno della preventiva
autorizzazione del Giudice Tutelare: il quale dovrebbe verificare, caso per
caso, le “ragioni di necessità o utilità evidenti del figlio” (art. 320, comma 3)
che hanno indotto i genitori a promuovere il giudizio. Resta fermo, comunque, che gli atti impugnati possono ( e non debbono) essere annullati (arg. ex
art. 322). Quindi il giudice, di fronte a un tentativo di invalidazione dell’atto
ad opera dei genitori, in odio al minore che ha manifestato chiaramente la
volontà di mantenerlo in essere, potrà decidere negativamente in ordine
all’annullamento pretestuosamente richiesto.
In definitiva, l’atto posto in essere dal minore non è necessariamente destinato a cadere; è sottoposto ad una invalidità condizionata sempre alla salvaguardia dell’interesse del minore. Il minore, certo, se vorrà lo potrà impugnare; ma i genitori non hanno la stessa libertà. Dunque, anche nell’esercizio
della potestà il genitore non è assolutamente libero di comportarsi a suo piacimento.
97
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Quanto alla seconda regola, va detto che l’atto a contenuto patrimoniale
posto in essere dai genitori come rappresentanti legali del minore non si sottrae del tutto alla possibilità alla possibilità di una impugnazione.
L’art. 320, comma 6, infatti, ipotizza l’insorgenza di un “conflitto di interesse patrimoniale” tra genitori e figli, e prevede la nomina di un curatore speciale per la tutela dell’interesse dei figli; e se a questa nomina non si provvede, gli atti compiuti dal genitore - secondo le indicazioni della migliore dottrina - potranno essere annullati a norma dell’art. 322” (A.C. Pelosi).
Quindi, se il genitore si azzarda a stipulare, nell’esercizio della sua potestà,
un atto rispetto sul quale il minore, capace di intendere e di volere, non è
assolutamente d’accordo, non è detto che questo atto rimanga valido, perché
l’art. 322 fornisce, proprio per la mancata osservanza delle “norme dei precedenti articoli”, la possibilità di un’impugnazione: impugnazione che potrà
essere esercitata dal minore stesso, una volta raggiunta la maggiore età.
Su ultima analisi si può sostenere che questi dogmi della assoluta invalidità
del contratto stipulato dal minore e della assoluta validità del contratto stipulato dagli esercenti la potestà dei genitori sono drasticamente ridimensionabili.
C’è un’altra norma che sembra essere fatta apposta per “penalizzare” il minore. È noto che se il minore ha dolosamente celato la propria minore età il contratto è valido (art.1426). Orbene, se fosse vera la premessa, che il minore è
assolutamente incapace, non dovrebbe farsi distinzione, perché il minore può
raccontare una frottola ma è incapace; perché, allora, sanzionarlo impedendogli di impugnarlo?
La conclusione, dopo tutto questo ventaglio di ipotesi, è abbastanza semplice, anche se difficile da attuare.
Parlare di potestà dei genitori è fuorviante, perché sembra ricondurre all’unico schema potestà /soggezione la varietà delle ipotesi che abbiamo visto.
Certo è che quello che viene sussunto nel Codice sotto l’etichetta “potestà dei
genitori” è un territorio difficile, dove si intersecano profili di diverso genere, profili protettivi, profili educativi, profili potestativi, ma una cosa è certa:
in un terreno di questo genere il giudice deve avere delle linee guida, non può
essere astretto a dei comandi specifici che lo trasformino in un braccio secolare dei genitori. Se il minore si allontana, il giudice dovrà valutare le ragioni del suo allontanamento; non potrà fungere, appunto, da gendarme che riaccompagna a forza il figlio nella casa dei genitori.
Tuttavia le vicende giurisprudenziali sono vicende talvolta drammatiche, talvolta terribili e bisogna allora evitare che questa rilettura del Codice voglia
significare “penalizzazione” dei genitori, dopo che per molto tempo sono
stati “penalizzati” i minori.
In altri termini, una lettura libertaria della posizione del minore, quale appunto quella che ogni tanto si trova nelle sentenze e soprattutto nella letteratura
di oltre oceano, è molto pericolosa; se mi è consentito un paragone, è come
nella responsabilità medica, nell’ambito della quale si è passati da una situazione in cui i medici erano, per così dire, intoccabili (si trovano delle sentenze nella cui in motivazione il medico che aveva lasciato le pinze nella pancia
del paziente veniva in qualche modo giustificato), ad una situazione di accanimento nei confronti della professione medica proprio perché oggi si consi98
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
dera, il medico, come dicono i nordamericani, quale servant rispetto alla realizzazione dei diritti del paziente.
9.
opo aver parlato della fisiologia, dobbiamo adesso occuparci della patoloD
gia, che poi è forse l’argomento che più direttamente interessa gli avvocati. E parlando di patologia anzitutto dobbiamo considerare che l’Italia, a
differenza di molti altri Paesi, presenta la singolarità del doppio istituto,
separazione e divorzio, che si giustifica storicamente, invero, la separazione
era in origine l’unico istituto a cui si poteva ricollegare la crisi della famiglia;
il divorzio è un istituto sopravvenuto, molto contrastato, tanto è vero che non
è stato introdotto nel codice ma è rimasto nel “limbo” di una legge speciale
che peraltro, con un sistema per così dire di “rincorsa”, viene a intersecarsi
con la disciplina della codicistica della separazione.
Devo dire che, per quanto concerne la potestà dei genitori, lo scenario normativo cambia, perché le norme di riferimento diventano più specificamente
l’art. 155 c.c. e, in particolare l’art. 155, comma 3; e, per quanto riguarda la
disciplina del divorzio, l’articolo 6, comma 4.
Se noi leggiamo l’art. 155, vediamo che per un verso si insiste molto sull’esercizio esclusivo della potestà da parte del genitore a cui sono affidati i figli,
ma poi si aggiunge che le decisioni di maggior interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori, salvo che sia diversamente stabilito.
A quale esercizio esclusivo della potestà ci si riferisce quando poi le decisioni di maggiore importanza, salvo se diversamente stabilito, debbono essere
adottate da entrambi i genitori? L’unica spiegazione possibile è che da una
parte si parla di esercizio della potestà nel senso ristretto, avendo riguardo
essenzialmente agli aspetti patrimoniali, quindi al profilo potestativo; mentre, per quanto riguarda gli aspetti essenzialmente educativi e protettivi, che
sono poi quelli che hanno un maggior interesse per i figli, perché toccano
appunto la salute, la vita, la libertà, gli aspetti personali, occorrono decisioni
adottate da entrambi i genitori.
Quindi, come dicevo, ho l’impressione che la norma dell’art. 155, comma 3,
e anche la corrispondente norma in materia di disciplina del divorzio, per un
verso conservino questo tasso di ambiguità in ordine all’individuazione della
potestà, ma offrano una conferma che la potestà, intesa come, situazione soggettiva a cui corrisponde la soggezione, sia da ritenersi essenzialmente limitata alle ipotesi dei rapporti patrimoniali.
La diversità che si ha nel momento patologico è anch’essa una diversità che
viene ad essere ridimensionata: quando la famiglia entra in crisi, quando i
coniugi intendono separarsi, e poi quando intendono divorziare, il rapporto
con i figli, necessariamente, non può più rimanere rapporto dei due genitori
con i figli, ma si traduce in rapporti separati. In questo senso l’affidamento a
uno dei genitori, per così dire, rompe la compagine familiare, e la sostituisce
con rapporti bilaterali. Quindi, secondo una lettura tradizionale, si potrebbe
dire che l’elemento di maggiore distinzione tra famiglia a livello fisiologico,e famiglia a livello patologico sta nel fatto che non c’è più un rapporto
unitario genitori-figli, ma una duplicazione dei rapporti (genitore affidatario99
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
figli, genitore non affidatario-figli). Ma anche questa osservazione, che sembrerebbe essere inderogabile, è venuta meno con la legge di modifica del
divorzio che ha introdotto la figura dell’affidamento congiunto. Ricordo che
proprio qui a Lucca, si svolse un convegno organizzato all’indomani della
riforma che aveva proposto l’affidamento congiunto; e ricordo che vi fu allora una discussione che, per così dire, tagliò generazionalmente il pubblico dei
presenti e soprattutto avvocati e magistrati, nel senso che gli avvocati e i
magistrati della mia generazione gridarono allo scandalo: come è possibile si sentì dire - che genitori che non hanno più dialogo, possano essere destinatari di un affidamento congiunto, quasi che, in definitiva, si facesse finta
che la crisi della famiglia non sia intervenuta? E si parlò di una moda americana, che non aveva senso nelle nostre tradizioni.
L’introduzione dell’affidamento congiunto ha portato all’attenzione di tutti
una esigenza di trasformazione della professione dell’avvocato “familiarista”.
L’affidamento congiunto ha senso soltanto qualora vi sia la disponibilità dei
genitori a scindere la loro veste di coniugi, e quindi la crisi del loro rapporto
coniugale, dalla loro veste di genitori-educatori; e questa scissione non è una
scissione impossibile; solo che è una scissione che va coltivata, che va aiutata, che va educata.
Da qui l’esigenza di introdurre istituti che in questo momento stanno entrando nella prassi, ma anche nella nuova legislazione, come la mediazione familiare. In altri termini,occorre avviare una educazione dei coniugi in crisi,
incoraggiandoli ad affrontare con un affidamento congiunto la possibilità di
mantenere nei confronti del figlio quello che era l’assetto prima della crisi
matrimoniale. Direi che questa introduzione dell’affidamento congiunto non
è poi così sconvolgente, vale soprattutto a dare consistenza a quella realtà
normativa che è costituita dalle decisioni di maggiore importanza. Chi ha
esperienza in questo campo sa che purtroppo questa possibilità di assumere
decisioni particolarmente importanti per il minore non si riusciva ad ottenere da coniugi in lite continua, magari sobillati da un avvocato vecchio stile;
e, a questo punto, ovviamente, quella parte dell’articolo 155 che prevede,
appunto, che le decisioni di maggior interesse per i figli siano adottate da
entrambi i coniugi (comma 3), finiva con lo scomparire o diventare un qualcosa scarsamente rilevante.
Con l’affidamento congiunto l’obiettivo diventa proprio quello di puntualizzare le decisioni di maggior interesse, atteso che l’esercizio del profilo puramente potestativo può essere importante, ma non ha la stessa importanza
degli altri profili.
In definitiva, attraverso l’affidamento congiunto, si potrebbe dire che non si
fa una innovazione rivoluzionaria; si dà risalto e maggiore sviluppo a un
qualcosa che la legge già aveva, per così dire, “in nuce”.
Diverso è l’affidamento alternato, che pure la riforma della legge sul divorzio prevede e che invece non ha avuto fortuna, proprio perché, nonostante si
parli in un unico contesto di affidamento congiunto e affidamento alternato,
si tratta di istituti che vanno nella direzione esattamente opposta: l’affidamento alternato tende a esaltare l’autonomia di un coniuge rispetto all’altro,
solo segmentando nel tempo l’esercizio del relativo potere, mentre l’affida100
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
mento congiunto tende, invece, a riavvicinare i coniugi in ordine all’esercizio congiunto delle decisioni di maggiore interesse.
Soprattutto quando il minore comincia ad esprimete proprie scelte personali,
l’affidamento congiunto, quando è possibile, risolve molti problemi, posto
che evita al minore una situazione per così dire di ballottaggio tra l’uno e
l’altro genitore, con la possibilità di sentirsi dire, su scelte di particolare
importanza, dall’uno una soluzione dall’altro una esattamente opposta, con il
rischio di una accentuazione del senso di ribellione e di opposizione che il
minore coltiva in sé e che va in una direzione, esattamente opposta a quella
che dovrebbe essere quella privilegiata della “ratio” di queste norme: la
“ratio” di queste norme: che consiste nel creare il minor disturbo possibile al
minore, alla sua crescita, in relazione alla crisi del matrimonio.
Certo, se ci ponessimo la domanda se qualcuno è contrario al best interest of
child, che io credo che nessuno direbbe che è contrario alla realizzazione dell’interesse prioritario del minore; se però dovessimo poi andare a vedere
come si intende questo interesse prioritario del minore, probabilmente ci
divideremmo in opinioni che possono essere assai divergenti. Ho letto recentemente il libro di una psicologa italo - americana; la quale, con una indagine sperimentale arriva alla conclusione secondo cui i figli di coppie separate
riescono meglio rispetto ai figli di coppie unite in matrimonio: conclusione
che viene motivata con una serie di esempi che però sono tendenziosi, perché
è chiaro che ci sono tante ipotesi border-line, in cui la famiglia è apparentemente unita, ma vi è semplicemente una crisi non evidenziata, per cui il
minore risente di questa crisi, anche se la crisi non è esplosa, e non ha dato
luogo a separazione o divorzio. Se noi prendiamo questi casi e li confrontiamo con i casi in cui i bambini sono stati temprati dalla vicenda che ha portato alla separazione dei i propri genitori, i risultati possono anche essere in
quel senso. Tuttavia è estremamente discutibile la tesi in sé, perché questo
significherebbe che è meglio lasciare che i genitori si dividano nei loro rapporti, personali con i figli perché - questa è la testi - i figli sono più temprati se prendono atto della crisi dei loro genitori. Sembra invece che sia ancora valido il principio che ci deriva dalla Costituzione, secondo cui separati o
divorziati o meno, i genitori sempre tali rimangono e debbono essere incoraggiati ed assumere un intento e una direzione comune nei confronti dei figli.
C’è una decisione abbastanza interessante, di cui ha parlato anche la stampa
perché, appunto, ha fatto un certo scalpore: una donna, madre di un ragazzo
tossicomane, prende la decisione di separarsi dal marito, non perché vi sia
una vera e propria intollerabilità sopravvenuta della convivenza familiare,
ma perché ritiene che, essendo il marito non adatto a tener conto di questa
situazione, (questa sì, patologica) del figlio che crea problemi a casa, chiede
soldi, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare, sia opportuno
separarsi per meglio tutelare il figlio. Del resto, l’art.151 c.c. lo consente,
perché la separazione può essere chiesta o quando vi è intollerabilità della
prosecuzione della convivenza, o - ed è un aut questo, non un vel - o quando
sia tale da arrecare grave pregiudizio all’educazione della prole.
Per quanto riguarda, dunque, la patologia e il riflesso della patologia del
matrimonio sulla potestà intesa nel senso più ampio che abbiamo detto, la
norma cardine è quella dell’articolo 155, terzo comma 3. La Corte di
101
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Cassazione lo ha anche specificato con una sentenza del 2000: ma le conclusioni non cambiano in senso radicale se le impostiamo, appunto, alla luce
della valorizzazione delle decisioni particolarmente importanti per il minore
che si debbono assumere congiuntamente, e se siamo d’accordo sul fatto che
queste decisioni sono quelle che contano, posto che, riguardano essenzialmente le scelte personali.
10.
il problema semmai che si può porre è quello del dosaggio che il legisSvantielatore
consente in ordine al rapporto un’autonomia privata e vincoli deridirettamente dalla legge. Perché qui noi abbiamo una situazione, giurisprudenziale che, come è noto, porta a far divergere la disciplina della separazione da quella del divorzio e crea degli aspetti che difficilmente possono
essere giustificati in termini di parità di trattamento. In dottrina, per un verso
c’è un indirizzo che tende a sviluppare sempre di più la possibilità di favorire gli accordi dei coniugi nel momento della patologia, anche con riguardo
alle determinazioni relative ai figli.
Nella separazione consensuale questa regola è scolpita molto bene perché il
legislatore distingue, in ordine alla separazione consensuale, l’ipotesi in cui
vi siano figli dall’ipotesi in cui i figli non ci sono, e prevede una modalità
particolare in ordine al recepimento dell’accordo, in quanto, come è noto, il
secondo comma dell’articolo 158 c.c. stabilisce che il giudice, quando ritiene che l’accordo dei coniugi non dia sufficiente garanzia in ordine alla protezione del figlio, può indicare le modifiche da adottare nell’interesse dei
figli e, se queste modifiche vengono adottate, si arriva all’omologazione. Ma
quando non ci sono figli l’omologazione cos’è, un semplice timbro che viene
messo sull’accordo, posto che l’accordo non può essere indagato, sul merito?
Il controllo può essere di legittimità o di merito; quando non si sono i figli
mancherà un controllo di merito, ma ci sarà un controllo di legittimità.
Se il giudice si accorge che c’è un vizio del volere o una incapacità di intendere o di volere al momento in cui l’accordo era stato stipulato potrà ovviamente negare l’omologazione, che quindi non è un semplice timbro, ma limitata ad un controllo di legittimità; mentre quando c’è la prole, si ha un controllo che si estende al merito. Questo controllo di merito, ecco il punto che
qui interessa lascia molto più libero il giudice, è un controllo che il giudice
opera all’insegna della massima discrezionalità: e allora, quando i figli sono
in grado di esprimere le proprie opinioni, dovrà essere condizionato alla
audizione dei figli? La legge non dice niente anche perché, la separazione
consensuale è confinata in una norma marginale che chiude la serie delle
disposizioni in materia di separazione.
In anni passati, la separazione consensuale era veramente marginale rispetto
all’esperienza comune; la normalità era fatta di separazioni giudiziali.
Oggi la separazione consensuale tende a divenire la separazione prevalente;
e giustamente, perché questo significa per i coniugi risparmio di tempo,
risparmio economico, e così via. Però la norma è rimasta una norma molto
laconica; allora la domanda che resta, e che l’interprete deve in qualche modo
esaminare, è questa: il giudice può rifiutare l’omologazione se il figlio mino102
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
re risulti essere capace di scelte personali, dissente? Oppure, il giudice è
tenuto a tener conto, come diceva la nostra collega inglese, Simonetta
Hornby il termine è diventato internazionale dei “whishes”,dei desideri, o dei
“feelings”, espressi dal minore?
In altri termini, quale ruolo può assumere la espressione di opinione, di
volontà del figlio in ordine all’accordo di separazione consensuale?
Credo che il problema dovrà essere approfondito, specialmente ora che con
la recente legge di riforma dell’adozione, si è stabilito un principio, che difficilmente può essere inteso come un principio da confinare nello stretto settore della adozione, secondo cui in ragione della “capacità di discernimento”
il minore dovrebbe essere sentito ed il giudice dovrebbe tenere conto delle
relative indicazioni. Quindi, questo aspetto di complicazione dell’art.158,
comma 2, va ancora una volta orientato nella direzione che abbiamo visto: la
norma non dovrebbe riguardare la potestà dei genitori intesa nel senso tradizionale per cui i minori non hanno voce in capitolo; e gli accordi dovrebbero essere calati nel concreto del rapporto con i figli.
Il discorso diventa più problematico quando abbiamo a che fare col divorzio,
perché quell’orientamento ancora granitico della Suprema Corte, che consiste nel non voler attribuire rilevanza agli accordi tra i coniugi in vista dell’assetto che intendono darsi in relazione al divorzio, finisce con il coinvolgere
anche le determinazioni concernenti i figli; e la motivazione che la Corte di
Cassazione continua a dare - ossia, non potrebbe l’autonomia dei coniugi
scalfire l’assetto legislativo degli status - trascura sempre la situazione
riguardante i figli. Per i figli la legge, anche la legge rinnovata sul divorzio,
non va al di là della possibilità di un affidamento congiunto, ma in ordine
all’assetto più generale, non sfocia nella possibilità di un accordo che il giudice possa valutare tenendo conto anche delle opinioni dei figli. Si arriva al
divorzio ancora una volta passando al di sopra della espressione dei desideri, delle iniziative dei figli. Quindi, in termini di patologia possiamo, in conclusione, mettere in evidenza che, per un verso, sono stati fatti dei passi in
avanti sotto il profilo, ancora in progress, di una educazione dei coniugi a
mantenere la dimensione comunitaria in quanto genitori, ma in ordine al rapporto educativo ben poco è stato fatto, posto che gli interrogativi evidenziati
per la fisiologia del matrimonio si ripropongono tali e quali: le decisioni particolarmente importanti per i figli saranno decisioni che, oltre a coinvolgere
entrambi i coniugi separati o divorziati, dovranno anche tener conto dei desideri, delle espressioni, di attitudini dei figli? Non si dice nulla a questo proposito. Ecco allora che qui diventa molto importante evitare quello che, in
certo senso, la giurisprudenza purtroppo tende a fare, quando come nella sentenza della Suprema Corte che citavo prima, tende a creare uno spartiacque
tra disciplina della fisiologia e disciplina della patologia.
Quando si passa dalla famiglia unita alla famiglia in crisi le norme di riferimento cambiano e le norme di riferimento essenziali diventano, come si diceva, l’art.155 del Codice e l’art.6 della legge sul divorzio.
Queste norme, peraltro, possono essere inserite nel sistema e sottoposte ad
una interpretazione evolutiva alla luce di quelle norme che avevamo individuato per la fase fisiologica e che consentono di proporre una lettura evolutiva dei rapporti tra genitori e figli. In altri termini, l’art.147 non deve esse103
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
re ritenuto una norma limitata all’ambito della fisiologia del matrimonio, per
cui quando la famiglia entra in crisi non ha più una ragion d’essere; l’art.333
non cessa di avere la sua rilevanza, posto che è sempre una norma che riguarda il conflitto tra genitori e i figli, per cui, quale che sia l’assetto che viene
dato a livello di divorzio, certamente l’art.333 sopravvive e sopravvive non
tanto e non soltanto per punire gli abusi minori del genitore che esercita la
potestà; ma può essere invocato anche quando il conflitto sia tra il genitore
che non esercita la potestà nel senso in cui ne parla l’articolo 155, comma 3,
e il figlio.
Quindi, l’art.333 può operare anche in queste situazioni; purché lo si distolga definitivamente dalla sua veste di sanzione per l’esercizio abusivo della
potestà e lo si ricolleghi invece ad un discorso di rapporto tra i genitori e i
figli.
In altri termini, le norme che hanno consentito una rivisitazione dei rapporti
tra genitori e figli per la fisiologia della famiglia, non debbono, secondo me,
essere dimenticate nel momento in cui si affronta la patologia.
11.
ultimo aspetto che voglio evidenziare è un aspetto ancora molto magmaL’
tico; è quello che riguarda le convivenze, in particolare le convivenze
more uxorio.
Qui siamo di fronte ad una situazione che il legislatore non ha toccato se non
del tutto marginalmente: l’articolo 317 bis c.c. certamente ha un suo rilievo
perché prevede che ai genitori che hanno riconosciuto entrambi il figlio l’esercizio della potestà spetta congiuntamente, qualora siano conviventi.
Però questa norma non va al di là di una previsione in qualche modo scontata. Quello che è interessante è invece la frase immediatamente successiva nel
secondo comma: “si applicano le disposizioni dell’art.316”.
Questo significa che si applicano secondo la giurisprudenza prevalente,
anche le norme che seguono l’art.316. D’altra parte non dobbiamo dimenticare un’altra norma che è particolarmente importante per ragioni di cerniera
che è l’art.261: 317 bis e 261 sono due norme di cerniera.
L’art.261 dice che il riconoscimento comporta dal parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli avrebbe nei confronti dei figli
legittimi: norma importantissima, in primo luogo perché fa riferimento non
più soltanto alla potestà, ma più genericamente e più utilmente a tutti i doveri e i diritti che il genitore ha nei confronti dei figli, mutuando dunque quella dimensione costituzionale che, come dicevo, è ictu oculi più ampia rispetto alla potestà dei genitori: ma è importante anche perché attraverso la
norma-cerniera dell’art.261 consente di prendere in considerazione tutta una
serie di norme, a cominciare dall’art.147 che prima evocavamo, fino ad arrivare - e la giurisprudenza ci sta arrivando - all’art.155.
In altri termini, di fronte al silenzio apparente del legislatore in ordine ai problemi relativi alla crisi della convivenza more uxorio, - crisi che qui si presenta in termini essenzialmente affidati all’autonomia privata - diventa molto
importante verificare quali strumenti ha il giudice in ordine al rapporto genitori-figli. E, quindi, soltanto attraverso un’operazione, per così dire ingegne104
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
ristica, di collegamento tra norme diverse - 317 bis, 261, 147 e seguenti attraverso questa rete normativa, si può arrivare ad una conclusione abbastanza soddisfacente che, in termini molto approssimativi, significa estendere le discipline e le tutele per il figlio in presenza di una convivenza in crisi,
dalla famiglia fondata sul matrimonio alla convivenza “more uxorio”.
Nell’esperienza giudiziale è sempre più frequente vedere che il giudice procede, di fronte a una convivenza “more uxorio” in crisi, con gli stessi criteri
con cui procede, per quanto riguarda i figli, in presenza di una separazione o
di un divorzio: l’affidamento, l’affidamento congiunto o meno i problemi che
ne possono conseguire.
Il campo dunque è ancora estremamente aperto; per così dire, è una terra di
nessuno, tra la patologia matrimoniale e la contrattualistica: è una terra di
nessuno che deve però essere in qualche modo arata; e gli strumenti per farlo
ormai li abbiamo; e li abbiamo nel senso di legare anzitutto, la disciplina
della patologia a quella della fisiologia; e poi, attraverso queste norme-cerniera, di utilizzare la disciplina dettata per la famiglia legittima anche alle
convivenze.
Non ci aiutano i progetti di legge presentati in materia di convivenza “more
uxorio” dove, con la preoccupazione di equiparare la convivenza “more uxorio” alla famiglia fondata sul matrimonio, si dimenticano proprio quegli
aspetti di patologia, perché si ha timore di imbavagliare la convivenza e quindi si ritiene che la patologia della convivenza vada assolutamente lasciata
alla dimensione contrattuale tra i conviventi, senza tener conto che il figlio
di una convivenza “more uxorio” non ha nessun peccato da scontare.
12.
altro aspetto che ancora in Italia non ha avuto una riflessione sufficiente
L’
è il fenomeno di quello che gli inglesi chiamano il “remarriage”; e che
con un neologismo si comincia ad individuare come il fenomeno delle c.d.
“famiglie ricomposte”.
Tempo fa un mio amico ingegnere, mi ha prospettato il seguente caso: io vivo
con mia moglie e abbiamo due figli; il primo è il figlio che mia moglie aveva
avuto dal precedente matrimonio, seguito da divorzio, il secondo è il figlio
che abbiamo avuto insieme, però la nostra famiglia è caratterizzata appunto
da marito, moglie, due bambini che vivono senza nessuna differenza nella
stessa casa, con le stesse abitudini, gli stessi principi. Il figlio che mia moglie
ha avuto dal primo matrimonio va incontro a un problema sanitario molto
serio, un intervento chirurgico da fare o non fare: quale ruolo ho io in ordine
alla decisione da prendere?
Gli ho dovuto rispondere che, praticamente la sua posizione era uguale alla
mia, che non ho mai visto questo bambino: in altri termini un “quisque de
populo”, si direbbe con linguaggio aulico, perché non esiste nel nostro sistema nessuna norma che prenda in considerazione questo fenomeno, che però
è un fenomeno di crescente importanza.
Gli americani, che sono bravi nei soprannomi, anziché chiamarlo padre lo
chiamano “daddy”, oppure con qualche nomignolo, e tuttavia nelle questioni, portate all’attenzione delle corti, i giudici hanno una possibilità di valuta105
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
zione, attraverso l’istituto, tipico del common law, del “next friend”, cioè la
persona vicina in concreto, che noi non abbiamo.
D’altra parte, è veramente assurdo e iniquo che per una decisione di vitale
importanza per un bambino, che ha bisogno del profilo protettivo una persona che è considerata come padre, non possa esprimere la sua opinione: la giurisprudenza più interessante è quella in materia di adozione in casi particolari: l’adozione del figlio del coniuge. La giurisprudenza più recente è arrivata
a dire che una opposizione dell’altro genitore, quando appaia pretestuosa,
può essere disattesa. Ma, intendiamoci, se l’altro genitore è ancora in grado
di manifestare correttamente la propria volontà può avvalersi della norma
dell’articolo 6 della legge sul divorzio. Comunque, i casi che normalmente
vengono prospettati e che comunque sono i più interessanti, sono quelli in cui
il figlio ha come figura paterna di riferimento, il nuovo marito della madre.
In ogni caso il fenomeno delle “famiglie ricomposte”, dovrà prima o poi
essere preso in considerazione anche nel nostro ordinamento, posto che sono
molto frequenti i casi in cui il fenomeno stesso si verifica.
Al riguardo mi sia consentito di concludere con un aneddoto spassoso.
Sono stato invitato qualche tempo fa a Stoccolma da un mio collega, professore di diritto civile, che mi ha presentato il suocero, è uno dei più importanti, anziani, professori svedesi che ha avuto grandi premi e che io ricordavo
essere l’autore negli anni settanta di un saggio di critica delle convivenze
more uxorio, saggio che terminava con questa frase che denotava il suo spirito conservatore: “pas par ce voie s’il vous plait”. (Ricordo che la frase che
era stata poi ripresa dal professor Trabucchi, nella sua relazione a Villa
Bottini a Lucca, quando parlò dei rapporti difficili tra genitori e figli, qualche anno fa).
Orbene quando in questo circolo esclusivo di Stoccolma il mio collega mi
presentò il suocero io ebbi la pessima idea di ricordargli quell’articolo, non
sapendo che il genero veniva da due precedenti matrimoni, prima di sposare
sua figlia, e dal primo matrimonio aveva avuto tre figli, dal secondo matrimonio un figlio, dal terzo matrimonio altri due figli; ma la terza moglie, alias
la figlia dell’anziano professore conservatore, aveva già avuto due figli da un
precedente matrimonio; morale, otto figli in tutto, variamente distribuiti.
Un modello di famiglia “pluriricomposta” dunque. Ma questa “scoperta” mi
valse la infastidita risposta del vecchio professore che mi disse: da venti anni
non mi occupo più di diritto della famiglia!!
106
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
I PARTE
SOMMARIO
IL BAMBINO DI FRONTE ALLA
SEPARAZIONE DEI GENITORI
I parte - Il bambino di fronte alla
separazione dei genitori
I
II parte - La funzione peritale dalla
l punto essenziale di quanto dirò è che un bambino che
“parte dei bambini”
venga coinvolto in una causa di separazione dei genitori,
non è mai indifferente a quest’avvenimento che suscita
III parte - Presentazione dei casi
sempre in lui una serie di stati emotivi di intensità variabile;
ma non necessariamente l’avvenimento acquisisce un carattere “traumatico”,
cioè in grado di determinare manifestazioni più o meno intense ed anche
patologiche. È necessario, perché ciò avvenga, che la separazione provochi
delle modificazioni intrapsichiche che l’Io del bambino non è in grado né di
tollerare, né di elaborare, esprimendole con dei riadattamento psico-comportamentali che lo limitano sia nella
sua vita di relazione che di esperienza.
Trauma significa infatti “lesione
determinata dall’azione violenta di
agenti esterni in una condizione di
impotenza” e nel caso di un trauma
psichico “emozione o esperienza emotiva violenta che incide profondamente e drammaticamente sulla vita del
soggetto subìta passivamente”.
La separazione diventa perciò traumatica quando viene vissuta come “perDR.SSA
dita” di uno o di entrambi i genitori; una perdita che il bambino subisce in GIULIA
condizioni di impotenza, passivamente e che, talvolta, l’ambiente può non DEL CARLO
capire e addirittura aggravare quando ne interpreta erroneamente le manife- GIANNINI
stazioni: dove il bambino richiede un rafforzamento di presenza e di sicurezza, si può rispondere con un allontanamento del genitore in oggetto perché L.D. IN NEUROPSICHIATRIA
INFANTILE
“causa del suo star male”.
Qualche AA. parla, addirittura, di una “doppia perdita” in quanto, oltre alla
perdita della presenza continuativa di un genitore, si ha la perdita di uno status personale, cioè della condizione di figlio di una coppia.
Le condizioni che entrano in causa nel favorire la trasformazione della separazione in una situazione traumatici vanno ricercate:
- negli antefatti legati alla coppia, compresa la personalità dei genitori, in
quanto ogni separazione è preceduta da un cattivo funzionamento del
nucleo familiare che può avere una durata variabile. In genere sono più
drammatiche quelle non previste, ma non necessariamente più deterioranti i rapporti rispetto ad un cattivo funzionamento cronico;
- nelle modalità con cui avviene la separazione ed il ruolo che viene fatto
assumere ai figli nel senso che essi possono essere utilizzati come rivendicazione all’interno della contesa. In particolare mi riferisco a quelle
situazioni in cui uno dei coniugi lascia inaspettatamente l’altro il quale,
per vendicarsi, gli rende difficile o addirittura gli nega il rapporto con i
IL “TRAUMA” DELLA
SEPARAZIONE
NELL’INFANZIA
107
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
figli;
nella posizione che assumono i rispettivi avvocati dei coniugi che determina l’esito della separazione stessa.
Carlo BRUTTI in un convegno proprio qui a Lucca organizzato da Maffei e
coll. nell’oramai lontano 1986 a proposito della “Perizia psichiatrica e nuove
prospettive nella gestione della separazione dei coniugi”, distingue nel comportamento degli avvocati una funzione “mediatrice” da una funzione “professionale”.
“Una prima variabile - cito testualmente le sue parole - è rappresentata dalla
posizione che assumono i rispettivi avvocati dei coniugi: se essi entrano nel
gioco soltanto come controfigure dei rispettivi clienti, inevitabilmente si trovano a sostenerne l’interminabile conflitto. Se, al contrario, si assumono la
responsabilità di orientarne le scelte e le soluzioni in uno spirito di onesta
ricerca e secondo criteri di ragionevolezza, possono favorire una pacata risoluzione della vertenza”. È evidente però che il poter dotare anche il minore
di una avvocato che sia dalla sua parte può facilitare scelte più equilibrate.
- ed infine lo stadio evolutivo del bambino in quanto in fasi diverse di sviluppo le modalità di reagire alla separazione ed alla perdita sono notevolmente
diverse tra loro.
È su questo aspetto che io mi soffermerò in particolare perché permette di
parlare delle tappe dello sviluppo infantile, delle modalità con cui si svolgono i rapporti tra genitori e figli ed anche dei processi mentali che li accompagnano. Ovviamente, per renderci conto dello sconvolgimento che questi
processi subiscono nelle separazioni-perdite, come vedremo nella terza parte.
Mi avvarrò come referente teorico della psicoanalisi freudiana, rivista attraverso la mia lunga attività peritale, di oltre trent’anni, e attraverso una numerosa casistica nell’ambito della osservazione e della psicoterapia di bambini
in stato di disagio psichico riferibile alla scissione del nucleo familiare.
Innanzi tutto si deve fare una distinzione tra una situazione di perdita che
avvenga in un’epoca molto precoce della vita quando essa non può essere
ancora vissuta come mancanza dell’altro, dell’oggetto affettivamente e primariamente investito e significato, la “madre assente”, ma come perdita di
una parte di sé. Manca ancora, in questa prima fase, la struttura mentale rappresentativa per poter elaborare l’evento ed il trauma non è né rappresentabile, né pensabile (=trauma primitivo).
Non si tratta cioè di dover elaborare il lutto di un oggetto posseduto ed ora
perduto e che può essere sostituito nel tempo (i sostituti paterni e materni),
ma di ciò che D. Winnicott in un breve articolo del 19 giugno 1959 ha definito “Niente al centro”, ad indicare il vuoto, l’assenza, il non essere.
Winnicott pediatra, psicoanalista inglese, una delle persone più competenti
nel settore psichiatrico infantile, che ha con notevole capacità descritto questa prima fase della vita, parla di un periodo di “illusione” in cui l’altro, non
essendo ancora percepito come altro-da-sé fa ancora parte del sé; tutto ciò
che l’altro fa non proviene dall’esterno, ma dall’interno del sé per cui l’illusione si carica di onnipotenza; nella normale fase di sviluppo l’illusione deve
cedere il posto alla “disillusione” che è l’acquisizione della consapevolezza
della esistenza nel mondo esterno di un oggetto da cui dipendere per la propria sopravvivenza. Ma finchè questo non avviene, la perdita dell’altro è per-
-
108
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
dita di una parte di sé.
E poiché l’avvenimento della perdita non può essere mentalizzato, i sintomi
sono ancora vissuti a livello somatico, rappresentati da irrequietezza, insonnia, disappetenza, crisi di collera e così via. Siamo cioè nell’ambito di quelle importanti manifestazioni psicosomatiche che possono addirittura esitare
nel marasma infantile classicamente descritto da R. Spitz.
Questo tipo di trauma nella mia casistica non è rappresentato in quanto le
separazioni avvengono comunemente a distanza di anni dalla nascita dei figli
ed anche perché da sempre e giustamente, si è teso a salvaguardare il rapporto madre bambino nelle prime epoche della vita. Esso si ritrova invece nelle
adozioni in cui i vissuti abbandonici precoci persistono latenti nonostante la
presenza di figure genitoriali sostitutive, ripresentandosi col loro potenziale
patogeno particolarmente in adolescenza (psicosi con frammentazione e perdita di parti del sé).
Nella fase successiva, fase edipica (tra i tre e i 5-6anni), quando il rapporto
si è trasformato da “diadico” (madre-bambino) in “triadico” (padre-madrebambino) e l’assetto mentale rappresentativo è stato raggiunto, la separazione dei genitori può provocare una serie di situazioni emotive conflittuali nel
mondo interno del bambino (= nevrosi) che, comunemente hanno alla base
una scissione della coppia genitoriale con mantenimento della fedeltà emotiva ad uno di essi ed esclusione dell’altro dalla propria vita mentale.
È una situazione questa che si verifica anche nell’evoluzione normale, nella
fase c.d. edipica in cui il bambino in preda ad intensi sentimenti ambivalenti
di amore e di odio, fantastica di poter scindere la coppia e di situarsi stabilmente nel rapporto con uno dei due genitori, il padre per la bambina e la
madre per il bambino, eliminando l’altro, il “rivale”. In condizioni normali,
l’unione stabile della coppia è in grado di aiutare il bambino a superare questi sentimenti, ma quando, come in ogni separazione, la coppia entra in crisi
e si scinde realisticamente, non si tratta più di una fantasia desiderativa, ma
è la realtà che la prevarica: è allora necessario, da parte dei bambini, una
nuova elaborazione dei rapporti che talvolta diventa molto difficile in quanto i genitori possono rafforzare questa situazione nell’errata convinzione che
l’essere i preferiti del figlio sia espressione dell’essere il “genitore migliore”.
Senza considerare, poi, che l’ingresso all’interno della famiglia di altri personaggi (i nuovi partner dell’uno o dell’altra) complicano ulteriormente le
vicende emotive infantili.
La patologia più frequente, conseguente alla scissione della coppia è, in questo periodo, il rifiuto di uno dei genitori che può essere, ma non necessariamente, il genitore non affidatario. Si è sentito molto parlare, a questo proposito, di “plagio”, attribuendo al genitore prescelto una azione suggestiva sul
bambino; ma in realtà, o almeno nella mia esperienza, si associa sempre, in
queste situazioni, una disponibilità emotiva da parte del figlio a scegliere un
solo genitore rifiutando l’altro, di cui si deve tenere conto.
Le dinamiche di rafforzamento del legame a due, con difficoltà a mantenere
un equilibrato legame triangolare, che è uno dei comportamenti più frequenti, come ho già detto, nei casi di separazione, è molto patogeno per una personalità ancora in formazione quale è quella infantile. Basta riflettere che per
l’acquisizione della “identità sessuale”, che non è il necessario accompagna109
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
mento della anatomia degli organi sessuali, il bambino necessita di entrambi
i genitori: uno dello stesso sesso con il quale identificarsi ed uno di sesso
opposto dell’amore e dell’approvazione del quale ha bisogno per accettare ed
essere fiero della propria identità. Il messaggio inconscio da parte del padre
alla figlia è: “sii come tua madre ed io ti amerò come amo ed ho amato lei”
e da parte della madre al figlio: “sii come tuo padre”. Ma se i genitori sono
divisi ed inconciliabili ed il messaggio è “se tu sarai come lui o come lei, io
ti odierò come odio lui o lei”, il bambino sarà costretto ad operare una scissione con alternative e patologiche formazioni che si muovono nella direzione della strutturazione nevrotica della personalità.
Analogamente, anche la “identità generazionale” può essere compromessa
nelle separazioni in quanto i figli possono assumere il ruolo del genitore
assente, nei confronti del genitore con cui vivono, e sentirsi impegnati in un
ruolo che pur non essendo il proprio, non può che essere accettato.
Vorrei aggiungere, come convinzione personale, che il “vantaggio emotivo”
che la scissione della coppia parentale determina nel senso di facilitare la realizzazione di “desideri proibiti”, pur essendo di qualità nevrotica, è tale da
essere risolvibile con difficoltà e talora si procrastina indebitamente nel
tempo, come vedremo più avanti, nonostante il suo carattere di restringimento dell’ambiente emotivo ad un solo genitore.
Scrive Winnicott: “Certamente l’optimum per un bambino è quello di avere
entrambi i genitori: in tal modo egli è sicuro dell’amore dell’uno anche quando odia l’altro. Questo fatto di per sé stesso serve a garantirgli una maggiore
stabilità” (Winnicott). Una asserzione molto importante perché evidenzia
ulteriormente la necessità di una coalizione parentale nei confronti dei figli
in quanto i rapporti che noi stabiliamo con loro non sono statici, ma continuamente mutevoli, soggetti a tensioni e burrasche che i genitori conoscono
bene anche quando il nucleo familiare è integro.
Quando la separazione avviene nella fase di latenza (dai 6 ai 10 anni), periodo in cui il bambino ha già saldamente interiorizzato le figure genitoriali e si
sta disponendo ad affrontare, con l’ingresso nella scuola, il mondo esterno, i
disagi emotivi sono in apparenza molto più limitati esprimendosi con mutamenti del tono dell’umore, disattenzione, mancanza di concentrazione a
scuola, malesseri fisici senza arrivare ad una conclamata patologia nevrotica.
In questa fase il bambino, che ha appena superato lo stadio edipico in cui prevaleva il “principio del piacere” deve cominciare a fare i conti con il “principio di realtà”: detto in termini brevi deve rinunciare ai “desideri proibiti”
a cui ho fatto cenno per diventare grande identificandosi al genitore dello
stesso sesso. L’Io che è l’istanza del rapporto con il mondo esterno e con la
realtà, domina l’Es che è il polo pulsionale della personalità, ma per mantenere questa sorta di quiete funzionale al suo adattamento al mondo esterno,
latenza significa appunto quiete rispetto alle pulsioni (l’epoca di glaciazione
descritta da Freud), mette in atto una serie di meccanismi di difesa che nei
casi di aumento delle tensioni emotive possono rafforzarsi con meticolosità,
eccesso di ordine ed indifferenza (apparente) verso la separazione stessa.
In un recente articolo del 2001, su “Le modalità di difesa del bambino in età
di latenza di fronte alla separazione dei genitori”, I. Della Giustina e I. De
Rénoche, citano, tra i meccanismi di difesa che, correlati a questa fase evo110
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
lutiva vengono maggiormente potenziati, la rimozione, la sublimazione e l’idealizzazione.
La rimozione è una sorta di allontanamento dall’ambito della coscienza del
problema, per cui esso, rimosso nell’inconscio, viene mantenuto separato dal
resto dello psichismo, mentre nella sublimazione le energie psichiche vengono investite in settori diversi da quello familiare ad es. scuola, sport, amicizie od altro,ottenendo soddisfazioni in grado di compensare le frustrazioni
subite (spostamento meta pulsionale).
L’idealizzazione, a sua volta, è un processo psichico per cui le qualità dell’oggetto, in questo caso la storia familiare, vengono valorizzate con un procedimento in un certo senso analogo a quello che si attua nella costruzione
del “romanzo familiare” (1). Proprio mentre il mondo familiare viene rimesso in discussione e svilito, nasce l’esigenza di un mondo perfetto, di figure
ideali senza difetti e senza macchia, in cui poter ancora credere ed avere fiducia.
In questo modo si attenuano anche il senso della colpa, della condanna e del
castigo che la separazione continua a trascinare con sé (i bambini spesso sentono di essere la causa della separazione) nonostante che, nell’attuale contesto sociale, la famiglia nucleare classica non costituisca più la norma e nonostante coesistano modelli familiari diversificati. L’idealizzazione si verifica
per una sorta di scissione (splitting) tra “oggetto buono” e “oggetto cattivo”:
nel primo vengono proiettati tutti i propri sentimenti positivi (amore, fiducia,
riconoscenza), nell’altro tutti i propri sentimenti negativi (rancore, odio, frustrazione, delusione). È la proiezione di questi sentimenti che qualifica, dal
punto di vista emotivo, la bontà o la cattiveria dell’oggetto, al di là delle sue
reali qualità. Ovviamente la scissione-idealizzazione è un meccanismo esasperato che si muove tra poli antitetici, estremizzati e che si oppone all’ammissione di qualsiasi bontà nell’oggetto cattivo e di qualsiasi cattiveria nell’oggetto buono, ma è indispensabile per conservare la certezza di un genitore da cui si è talmente amati per cui non si dovrà mai temere di essere abbandonati.
La scelta del genitore “buono” e “cattivo”, in questo contesto difensivo, non
persegue un giudizio obiettivo: i bambini possono sentirsi traditi dal genitore che è costretto ad allontanarsi da loro e pensare che se ne vada perché non
li ama più, o possono giudicare cattivo il genitore che sta assieme a loro
incolpandolo di aver allontanato da lui l’altro e così via. Ma se tutto questo
appartiene ad una dinamica normale, peraltro comune anche nei bambini che
vivono in famiglie integre, talvolta l’idealizzazione diventa un meccanismo
molto patologico che rasenta il delirio.
Ho trovato di recente, in una coppia di fratelli di 14 e 11 anni, l’idealizzazione positiva di uno dei genitori che arrivava sino alla negazione di palesi e
gravi mancanze dello stesso e di idealizzazione negativa dell’altro che non
teneva minimamente conto della realtà dei fatti. Ma, come ho già detto, più
comunemente non si arriva a questi risultati; in genere di fronte ad una realtà che non soddisfa e frustra i desideri ci si può difendere mediante la “compensazione in fantasia” (A, Freud): una specie di meccanismo riparatore consolatorio mediante il quale viene ripristinata, in una dimensione fantastica,
l’unità familiare spezzata, ricostruendo la situazione emozionale pregressa.
111
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
“Essa può permettere al bambino, scrivono Della Giustina e Rénoche, di
posticipare nel tempo l’accettazione dolorosa dell’evento, continuando a sperare nel ripristino, in un tempo futuro, della unità familiare, allontanando con
gradualità la realtà del distacco[...] Il ruolo difensivo della fantasia consiste
nel costruire un mondo a misura delle forze emotive del bambino e nell’aiutarlo a superare gli ostacoli in attesa di tempi migliori”. Ovviamente, il
rimandare l’elaborazione della separazione, mediante la compensazione in
fantasia, non fa altro che rimandare la scompenso al momento in cui la realtà si impone.
Ho avuto in trattamento psicoterapico una ragazzina di 11 anni i cui genitori
si erano separati quando ella aveva appena due anni e da quell’epoca viveva
con la madre mantenendo però degli ottimi rapporti con il padre. Lo scompenso nevrotico a cui ella era andata incontro, rappresentato da svogliatezza,
depressione, pianto e comportamenti aggressivi verso la madre che tentava di
sottomettere a tutte le sue esigenze di “piccola bambina rabbiosa”, era comparso quando il padre aveva reso nota la sua decisione di contrarre un nuovo
matrimonio con la donna con cui, peraltro, viveva da molti anni senza però
che ella fosse mai entrata a far parte, sia pure in veste di amica, della vita
della ragazzina che sembrava averla ignorata totalmente.
Durante il trattamento fu possibile far emergere la fantasia, mai sottoposta al
giudizio di realtà, che i genitori di qualche tempo avrebbero ripreso a vivere
insieme contraendo un nuovo matrimonio. La delusione aveva provocato perciò un crollo della sua difesa e la realtà si era presentata per lei inaccettabile. Persino quando era riuscita, sia pure con molta sofferenza a distaccarsi
dalla sua fantasia e ad elaborarla essa continuava a riemergere senza che ne
fosse consapevole: aveva consigliato al padre di sposarsi nello stesso giorno
in cui si era sposato con sua madre e a scegliere come viaggio di nozze lo
stesso iter turistico. Dopo il matrimonio, però, la sua gelosia era esplosa e la
ragazzina si era definitivamente staccata dal padre rifiutandosi di mantenere
con lui quei rapporti di cui sino ad allora sembrava aver gioito. E contemporaneamente interrompeva il trattamento psicoterapico che l’aveva costretta a
tener conto della realtà e ad accettare gli accadimenti dolorosi della vita.
Talvolta viene anche segnalato, ma non fa parte della mia casistica, il meccanismo della regressione in uno o più settori della vita: solo restando piccoli
ed indifesi i bambini possono continuare a garantirsi la stabilità del mondo
che li circonda, a cercare gratificazioni senza rischiare di essere travolti dalle
guerre familiari. “L’obiettivo della regressione è fermare il tempo al momento che precede la separazione, che è ancora il momento delle sicurezze e delle
certezze. Il futuro si presenta minaccioso ed incerto, mentre il passato appare come un approdo conosciuto su cui ancorarsi”.
Mentre nella fase precedente la conflittualità edipica (che a cose normali
deve essere rimossa come ho già detto per un migliore adattamento alla realtà), non può essere “rimossa” a causa della scissione realistica della coppia
parentale che mantiene attivi i meccanismi della ambivalenza nei confronti
delle figure genitoriali, in questa fase, di latenza, la “rimozione” è rafforzata
ed il bambino evitando di fare i conti con la realtà della separazione in apparenza può apparire con un basso grado di conflittualità e con una minore problematicità, mentre in realtà il suo mondo interno appare perturbato, pervaso
112
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
da paure reali ed irreali, da fantasie di riconciliazione e di superamento onnipotenti, da sensi di colpa e di svalorizzazione di sé. “Sotto una sintomatologia apparentemente poco significativa, si nascondono distorsioni affettive
che presentano talora caratteri strutturati ed aspetti più o meno invasivi. Di
fatto, le modalità difensive impiegate provocano un grosso dispendio dinamico per l’energia psichica e alla fine rappresentano un prezzo molto elevato
per il futuro equilibrio del bambino. Talvolta infatti si fissano nella personalità e tendono a ripresentarsi nelle fasi successive della crescita. Se utilizzate in modo massiccio, inoltre, comportano una limitazione eccessiva delle
funzioni dell’Io e ostacolano il perseguimento di finalità individuali soddisfacenti diventando patologiche e fonte, a loro volta, di sofferenze. Per questo, nell’approccio psicologico con il bambino in età di latenza” concludono
gli AA. “è molto importante individuare il tipo e la quantità di difese impiegate: esse infatti sono segnali indicativi e predittivi, in grado di fornirci una
efficace chiave di lettura non solo della situazione in atto, ma soprattutto
delle sue possibilità evolutive”.
Nella fase pubero-adolescenziale il rimaneggiamento profondo con il proprio
sé e con le figure parentali dell’infanzia che essa comporta (“crisi di identità
adolescenziale”) trova una maggiore espressione nella scissione della coppia,
ma soprattutto nel conflitto genitoriale: ciò può provocare un distacco precoce dai genitori o anche un eccesso di attaccamento regressivo ad uno di loro
contro i sentimenti di perdita.
Ma, è evidente, quando le manifestazioni assumono caratteri patologici, essi
non possono, a questa età, essere considerate esclusivamente determinate
dalla separazione dei genitori, bensì da difficoltà preesistenti che gli avvenimenti esterni tendono solo a rendere manifeste.
Nella mia esperienza, i soggetti che nell’infanzia hanno vissuto dolorosamente la separazione dei genitori possono avere, in adolescenza, molti dubbi
sulla validità delle relazioni affettive, una sorta di sfiducia nella vita e nell’amore, che ha molto a che fare con i comportamenti genitoriali da loro vissuti e peraltro criticati, ma che talvolta essi ripropongono anche se nella piena
convinzione di essere gli unici depositari del proprio destino.
II PARTE
LA FUNZIONE PERITALE DALLA “PARTE DEI BAMBINI”
uando viene richiesto un parere peritale nelle cause di separazione per
Q
l’affidamento della prole o perché, ad affidamento avvenuto, stanno sorgendo difficoltà nei figli a mantenere un rapporto equilibrato con uno dei
genitori, affidatario o non, il perito neuropsichiatra infantile preferisce, in
genere, porre l’attenzione sulla situazione emotiva dei bambini e non su quella degli adulti, ovviamente se non nei casi di patologia conclamata, in quanto è solo da un esame attento delle loro condizioni psicologiche e dei loro
bisogni psico-emotivi funzionali alla crescita che può nascere la decisione
sulla migliore soluzione possibile. Questo perché il conflitto che ha portato
alla rottura dei rapporti tra i coniugi è spesso tale da non permettere ad
entrambi di mantenere una posizione serena, equilibrata e stabile.
Aggressività, rabbia, rancore, delusione e quanto altro si riversa infatti nella
113
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
contesa nella quale l’affidamento dei figli può assumere il ruolo di conferma
o disconferma della bontà dell’uno sull’altra e viceversa che può, anche
inconsapevolmente, offuscare le capacità di giudizio.
Ciò non esclude, però, che si debba tenere conto anche dei genitori, di come
essi sono o sono stati, del tipo di rapporto che hanno instaurato coi figli, della
loro capacità di comprenderli e di favorirli nella crescita, ma, soprattutto
della loro disponibilità a garantire stabilità e sicurezza facilitando ogni contatto con l’altro genitore e rendendolo il più libero possibile nel pieno rispetto delle esigenze del bambino (A. Freud in “Al di là dei migliori interessi del
bambino”).
Vorrei, a questo proposito, leggere come chiarificatrice la premessa ad una
relazione peritale a cui ho preso parte molti anni fa, pur non essendone direttamente coinvolta, da parte di un collega a cui ho chiesto l’autorizzazione
alla citazione. Scriveva il perito:
“In risposta ai quesiti postimi dal Giudice a proposito della controversia che
oppone tra loro i coniugi nei riguardi dei figli, tutta la mia relazione sarà centrata sulla situazione dei figli ed escluderà di proposito ogni riferimento sia
alla situazione psicologica dei genitori che alle relazioni tra questa e la situazione psicologica dei figli. Quando il grado di litigiosità e di astio reciproco
tra coniugi raggiunge livelli quali quelli esistenti, ho potuto spesso rilevare
come sia estremamente pericoloso per il buon andamento del rapporto con i
figli, fornire un parere peritale, fonte di successivi contrasti e discussioni a
non finire. Ognuno dei due coniugi finisce per trarre, dalla conoscenza del
parere peritale espresso sull’altro, argomenti a favore del proprio punto di
vista, trovando conferme a quanto pensato sull’altro e negando come non
vero il parere peritale espresso nei propri confronti.
In queste situazioni si può tentare di porre l’attenzione sulla situazione oggettiva dei figli, specie nei casi in cui la migliore soluzione possibile può nascere solo da un esame delle loro condizioni psicologiche. È ovvio che prendere questa posizione significa anche avere constatato, durante i colloqui con i
genitori che essi, nonostante la loro estrema litigiosità ed il coinvolgimento
dei figli nella loro problematica, hanno conservato, ognuno indipendentemente dall’altro, una possibilità di rapporto educativo con i figli. Sono invece, a mio avviso - scrive il perito - profondamente errate le ipotesi dei due
coniugi, relative alle cause del rifiuto opposto dai bambini al rapporto colla
madre. Queste ipotesi non sono frutto di una osservazione attenta ed affettiva della vita psicologica dei figli, ma di un coinvolgimento di essi nella loro
problematica relazionale: il padre sostiene che i figli non vogliono stare colla
madre perché questa li ha trascurati, li ha picchiati, perché non è una “madre”
ecc.; la madre sostiene che i figli non vogliono stare con lei perché il padre
ed i nonni paterni li hanno sottomessi al loro volere.
A mio avviso, nessuna di queste ipotesi è valida, e non lo sarebbe neppure se
alcune delle accuse che l’un coniuge rivolge all’altro, potessero essere dimostrate come vere. È la situazione psicologica profonda dei due bambini ad
essere diversa da come entrambi i genitori se l’immaginano ed è su questa
che deve essere concentrata la nostra e la loro attenzione (il riferimento è ai
genitori) per poter decidere il meglio per loro”.
Ma, detto questo, quale è l’atteggiamento che il perito deve tenere nella scel114
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
ta del genitore affidatario, se non vuol partire da presupposti pregiudiziali
quali l’affidamento sempre e comunque alla madre?
Quando la funzione peritale si apre con il preciso intento di riuscire a capire,
mettendosi dalla parte dei bambini, ciò che essi desiderano, temono, od anche
rifiutano nei genitori, spesso ci si trova di fronte al non poter scegliere il
“genitore migliore”, ma solo “l’alternativa meno dannosa”, come ha scritto
A. Freud a proposito di affidamento dei figli ai genitori separati.
Si parla in questo caso di “genitore psicologico” intendendo con questo termine quello che è meglio in grado di garantire ai figli stabilità e sicurezza e
che, nel pieno rispetto dell’altro coniuge, faciliti il rapporto dei bambini con
lui, rendendolo il meno vincolato possibile a rigide norme ed orari. In altri
termini si può dire che il genitore psicologico è colui che è in grado di tutelare davanti al figlio l’immagine dell’altro genitore.
Nell’ambito degli affidamenti, come è noto, è sempre stata privilegiata e giustamente la madre, almeno per i figli piccoli, anche se è altrettanto importante la presenza della figura paterna: ciò nonostante questa non è una regola
inderogabile in quanto non è raro che in alcune condizioni possa essere il
padre a garantire la maggiore stabilità per i figli.
Nella mia esperienza, in alcuni casi in cui una situazione di crisi materna rendeva difficili non solo i rapporti coniugali, ma anche la cura dei figli, è stato
possibile alleviare il disagio e ripristinare dei buoni rapporti tra i bambini e
la madre, attraverso un affidamento al padre con garanzia per la madre di
poter stare vicino ai bambini, ma priva di quelle responsabilità di gestione
della loro vita che ella non era in grado di ottemperare.
Sempre a mio parere è invece discutibile la posizione pregiudiziale per la
quale i figli devono usufruire in maniera paritetica di rapporti con entrambi i
genitori per cui l’affidamento, preferibilmente congiunto deve tenere conto
del diritto dei genitori alla parità e non della qualità del loro rapporto con i
figli. È una posizione questa che, pur avendo alla sua base il rispetto del diritto del bambino ad entrambi i genitori, diventa talvolta molto discutibile: sulla
fine degli anni ‘80 ho avuto modo di esaminare una situazione di separazione di giovani genitori che, entrambi molto immaturi, avevano scelto per la
loro bambina di 29 mesi un affidamento paritetico, quattro giorni con l’uno e
quattro con l’altro. Avevano cercato di evitare alla bambina il senso di estraneità nel passaggio dall’uno all’altro mediante un raddoppiamento di oggetti, giocattoli e suppellettili del tutto identici tra loro. Il padre sosteneva la
validità di questa separazione, mentre la madre, che aveva chiesto una revisione dell’affidamento, ne notava gli effetti negativi legati soprattutto sulla
capacità di applicazione scolastica (all’epoca della perizia la bambina aveva
7 anni e 10 mesi). Infatti, mentre da un punto di vista strumentale si era proceduto alla identità di tempo e luogo, gli atteggiamenti dei genitori rispetto
alla educazione della bambina erano antitetici: il padre preferiva stare alzato
alla sera e dormire al mattino, la madre era più abituata ad alzarsi presto e ad
andare a letto “coi polli”; per la scuola volevano entrambi che la bambina si
organizzasse da sola, senza il loro aiuto, ma nel pieno rispetto delle diversità di ménage familiare. E la bambina?. In accordo a quanto detto in precedenza sulla fase di latenza, ella non sembrava avere difficoltà legate a questa
sistemazione, ma nei test psicodiagnostici in cui si cerca di indagare i rap115
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
porti con l’uno o con l’altro genitore, sembrava avere difficoltà a viverli
come diversi tra loro, differenziati, ognuno con un proprio riferimento gestaltico in quanto è ovvio che le richieste che facciamo ai nostri genitori sono
differenziate non solo longitudinalmente nell’arco della vita, ma anche trasversalmente differenziando i compiti del padre e della madre che in un buon
ménage devono tendere ad essere complementari.
Ancora meno accettabile è l’affidamento presupponendo che i figli possano
diventare, nei casi di patologia genitoriale, con la loro presenza ed il loro
affetto i possibili curatori del genitore: si tratta di una chiara inversione di
ruolo che oltre a non competere loro, può pesare sulla loro evoluzione.
Pur tenendo conto, dunque, dei diritti dei figli ed anche dei genitori, non si
devono però dimenticare i bisogni infantili di protezione, sicurezza ed amore,
né tanto meno il loro diritto a crescere in un ambiente in cui gli adulti siano
in grado di andare incontro ai loro bisogni pur nel rispetto delle personali esigenze. (v. perizia Maffei-Monti; v. incartamento Noemi Sadiki).
È ovvio che non tutte le manifestazioni dei bambini di genitori separati,
dipendono dall’avvenimento che si sta verificando o che si è verificato. È
necessario infatti differenziare:
- ciò che non ha niente a che fare colla separazione della coppia parentale,
in quanto espressione solo di un pregresso conflitto interno (nevrosi infantile) o di una difettosa strutturazione della personalità (psicosi, strutture
borderline, disarmonie evolutive ecc.), anche se tali patologie possono
essere aggravate dalla sopravvenuta scissione familiare;
- ciò che può essere determinato dalla separazione della coppia parentale
quali le crisi di angoscia abbandonica con insonnia, pavor nocturnus,
incubi ecc., nei confronti dell’uno o dell’altro genitore, in genere il genitore affidatario che il bambino teme di perdere avendo la consapevolezza
di aver già perduto il genitore che si è allontanato da casa, e di rimanere
solo. Sono situazioni queste facilmente comprensibili, reattive agli avvenimenti esterni e non interni che, anche se vanno trattate con molta delicatezza perché le crisi di angoscia sono comunque cariche di sofferenza,
sono facilmente elaborabili con l’aiuto dell’adulto che il bambino teme di
perdere e quindi, transitorie;
- ciò che può essere non un vissuto diretto del bambino, ma medianto dalla
reciproca svalutazione della coppia parentale, spesso trasferita al bambino
nel sottaciuto intento di recuperare l’autostima mandata in crisi dagli
avvenimenti, per essere considerato l’unico genitore “valido”, o per vendicarsi del “torto subito” dichiarando le colpe reali o immaginarie del partner. Il bambino è allora obbligato per un problema di alleanza emotiva
con il genitore privilegiato di cui in quel momento ha bisogno, a celare gli
stati d’animo verso l’altro genitore che può essere apertamente rifiutato,
ma profondamente desiderato.
L’indagine, data l’età dei bambini, la loro immaturità e le modalità originali
con cui essi raccontano la loro storia e parlano dei propri rapporti affettivi,
deve tenere conto oltre che delle manifestazioni o sintomi rivelatori del disagio, quelli a cui ho fatto cenno riferiti alle diverse fasi evolutive, anche delle
fantasie espresse nel gioco, nel disegno, nei sogni (conoscenza della teoria
dei simboli e delle metafore), nonché di ciò che il bambino racconta tenendo
116
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
però presente che il livello verbale, a cui si fa prevalente riferimento nell’età adulta, è molto influenzabile dall’ambiente esterno, soggetto alle variabili
del contesto e presume una capacità di riflessione cosciente e critica ancora
molto limitata nell’infanzia.
Ma è ovvio che questo fa parte di una formazione specialistica dello psichiatrica infantile e dello psicologo dell’età evolutiva di cui potremo avere alcuni esempi parlando in concreto dei casi.
III PARTE
PRESENTAZIONE DEI CASI
- UNA BAMBINA RIFIUTA LA MADRE
- UN BAMBINO RIFIUTA IL PADRE
- UNA BAMBINA RIFIUTA IL PADRE
UNA BAMBINA RIFIUTA LA MADRE
IOVANNA è una bella bambina di 7 anni, intelligente, vivace, che si preG
senta al colloquio e nella stanza dei giochi molto disinvolta. È adeguata
perfettamente alla situazione e ben consapevole dei motivi della visita del
perito. Risponde a ciò che le viene domandato con sicurezza ed è pronta a
chiudere un discorso quando questo la porterebbe su argomenti che lei preferisce evitare. Non si lascia cioè mai andare del tutto al gioco, non si concede
mai momenti di rilassamento, ma è, al contrario, vigile ed attenta. Sostiene
sempre la tesi che la “signora” (è il termine che usa regolarmente e senza mai
sbagliare per indicare la propria madre) è sempre stata cattiva con lei, che
non le ha mai voluto bene, che l’ha sempre picchiata, che ha sempre cercato
di fare del male al padre persino “quando ha tentato di ammazzarsi perché,
così, mettevano il papà in prigione”. Non le aveva mai voluto bene e quando
poteva sembrarlo, lo faceva apposta perché voleva prenderla e portarsela via.
Giovanna sa anche che dagli incontri con il perito potrebbe risultare che lei
debba andare a stare colla madre ed è appunto prontissima a non far trapelare alcuna incertezza. In questo suo atteggiamento è piuttosto rigida e in continua difesa.
Quando la incontro nella stanza dei giochi è molto vivace e divertita, ma
mantiene comunque sempre vigile la propria attenzione.
Durante il gioco della sabbia (c’è una cassetta con sabbia ed il bambino deve
costruire una scena con materiale vario che gli viene messo a disposizione)
rappresenta una casa ed una fattoria bene ordinate, ma da cui è stata esclusa
la presenza di una mamma in modo che il luogo risulti abitato solo da un
padre, da alcuni figli e da gente che lavora. Mantiene la calma e non si irrita
per l’irruenza disturbante del fratellino, anch’egli presente e partecipante a
questo gioco, comportandosi nei di lui confronti come una buona “mammina”. È da notare che in questi giochi non è mai comparsa una figura materna
minacciosa, e questo fatto ha rafforzato in me, scrive il perito, la convinzione già espressa, che mi trovavo di fronte più ad un diniego (meccanismo di
difesa della serie nevrotica) della realtà della figura materna come tale che
117
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
alle conseguenze di una esperienza reale drammatica e negativa, come si
sarebbe potuto pensare in base a quanto riferito dal padre (ricordiamo che in
questo caso ci sono riferimenti a percosse ed abusi fisici da parte della madre
sui figli). Giovanna non trasmette tra l’altro l’atmosfera di una bambina che
abbia subito particolari violenze reali; nei casi di maltrattamenti reali i bambini hanno una sorta di rassegnazione, di dolore che non è assolutamente
riscontrabile in lei, che appare invece, come già detto, piuttosto determinata
e sicura”.
Ometterò la parte concernente la somministrazione dei test proiettivi (test di
Goodenough o disegno dell’omino; disegno della famiglia, favole della Duss,
C.A.T., Blacky test), quei test, cioè, che utilizzano il meccanismo mentale
della proiezione per indagare, indirettamente, il mondo interno del soggetto,
e mi limiterò alla sintesi conclusiva che fu fatta dal perito:
“Dall’esame dei reattivi mentali praticati risulta che, da un punto di vista psicologico profondo, la bambina è nel pieno della c.d. fase edipica. Questa è
classicamente caratterizzata dalla presenza di quattro sentimenti ed esattamente amore per il padre, amore per la madre, odio per il padre ed odio per
la madre. Questi quattro sentimenti sono in genere tutti presenti in varie combinazioni ed ogni fase edipica individuale è caratterizzata dal particolare tipo
di composizione di questi stessi sentimenti. Questa fase edipica in cui tutta la
vita psicologica profonda del bambino è presa da problemi relativi al nucleo
familiare, viene superata con il sorgere di interessi verso il mondo esterno e
l’accantonamento dei desideri tipici della fase stessa. Ma perché questi desideri possano essere superati occorre che i due genitori da un lato pongano un
divieto sereno alla realizzazione di essi e dall’altra permettano al bambino di
introiettare sia i propri aspetti positivi che gli aspetti buoni della loro relazione. I sentimenti negativi non devono essere espulsi, ma in qualche modo integrati con quelli positivi ed al fine di tutto questo è essenziale che i sentimenti negativi e positivi che i bambini provano, trovino di fronte a sé genitori con
una vita psicologica autonoma e non esclusivamente legata alla vita psicologica dei figli stessi. Occorre cioè che i genitori sappiano instaurare un chiaro dislivello generazionale, non lasciandosi coinvolgere dalla tematica dei
figli, ma offrendo a questo una via di uscita verso lo sviluppo della indipendenza. Non lasciarsi coinvolgere dalla tematica dei figli non significa, ovviamente, non avvertire i loro problemi, ma avvertirli e considerarli come problemi “loro”, come problemi appartenenti a personalità autonome e indipendenti. Occorre cioè che i genitori sappiano far vivere ai figli i sentimenti di
amore e di odio che essi provano, in uno spazio non realistico, ma in uno spazio di fantasia che evita di assoggettarsi ai desideri dei figli. Questa possibilità di far accettare ai figli la realtà dei dislivelli generazionali, è in genere
funzione della accettazione del proprio dislivello generazionale nei confronti dei propri genitori.
Ciò significa che le manifestazioni di questa bambina, di Giovanna, sono
determinate dalla sua situazione psicologica profonda. Non si tratta, cioè, di
una reazione ad eventuali cattivi atteggiamenti della madre o del padre, ma
di una utilizzazione di questi eventuali cattivi atteggiamenti ai fini di una
tematica inconscia che i genitori non sanno riconoscere.
Questi sono cioè implicati nelle vicende di Giovanna non tanto e/o non solo
118
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
per i loro eventuali errori, quanto per il fatto di essere inconsapevolmente utilizzati all’interno di una dinamica che pensano essere determinata esclusivamente dagli errori dell’uno o dell’altro e che è invece tipica dell’età della
bambina. Il problema dei genitori risiede nel non saper vedere e saper fronteggiare questa situazione e nell’utilizzarla invece ai fini del loro personale
conflitto. La situazione psicologica di Giovanna è da questo punto di vista
molto in pericolo, anche se non del tutto compromessa. Il grave pericolo che
la sovrasta deriva dal fatto di trovarsi in una situazione che le offre la possibilità di poter realizzare “realmente” i più profondi desideri edipici.
Giovanna si trova cioè nella situazione di essere riuscita a cacciare la madre
di casa e di avere realizzato con il padre un rapporto di tipo ottimale, ottenuto attraverso l’allontanamento della madre, ed il suo divenire “mammina” del
proprio fratellino. L’affermazione di sé è avvenuta tramite l’annullamento del
dislivello generazionale e la negazione del proprio stato di figlia. Questi
genitori non sono riusciti ad escludere i figli dalle loro polemiche e dai loro
litigi e non hanno avuto occhi per vedere che ella procedeva alla affermazione di sé stessa addirittura attraverso la negazione del suo stato di figlia della
propria madre: Giovanna non vuole andare colla madre ed oppone una resistenza violenta di fronte ai tentativi che la mamma ha fatto di condurla con
sé.
Ho ascoltato, scrive il perito, portata dal nonno paterno, una registrazione
(sic!) di ciò che avviene la domenica mattina nella abitazione del nonno stesso quando arriva la madre e le manifestazioni sono in effetti clamorose. Alla
luce di quanto sopra esse risultano comunque comprensibili perché Giovanna
non può non avvertire che il ritorno della madre significherebbe la fine della
illusione della propria potenza e la crescita nel confronto colla realtà. A mio
avviso la domenica si attacca al padre e poi, quando non sente questo sicuro,
al nonno in quanto avverte i due come gli estremi baluardi, le estreme difese
della situazione in cui, illusoriamente, può ritenere di essere vincitrice.”
In una situazione del genere qualunque soluzione sembra destinata al fallimento in quanto se da un lato non si può eliminare la madre, affidando la
figlia al padre, sapendo che ciò offre solo dei vantaggi che possono costituire un nucleo patogeno per lo sviluppo successivo, dall’altra è pressoché
impossibile pensare ad un intervento di affidamento alla madre contro il
parere del padre diventato così importante nella vita di questa ragazzina,
pena uno scompenso acuto. La terza soluzione, quella salomonica di affidamento per sei mesi al padre e per sei mesi alla madre, non sarebbe più agevole delle precedenti, ma almeno servirebbe a sancire nei genitori i reciproci
diritti e doveri nei confronti dei figli, e nei figli veicolerebbe il messaggio
che essi avranno a che fare per tutta la loro vita con due genitori e non con
uno solo di loro…
Forse, tutto sommato, è meglio sempre tentare di non arrivare a queste situazioni estreme, cercando di prevenirle sia con una precoce consultazione genitoriale in fase di avvio delle pratiche di separazione, sia avendo bene integrato dentro di sé, da parte di tutti coloro che hanno a che fare con la separazione stessa, la consapevolezza del diritto dei figli ad entrambi i genitori.
119
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
UN BAMBINO RIFIUTA IL PADRE
NTONIO è un bambino di poco più di sei anni, che vive affidato alla
Agiudizio
madre dopo la separazione dei genitori avvenuta quando aveva 15 mesi. Il
peritale viene richiesto perché, da alcune settimane il bambino si
rifiuta di andare con il padre con crisi di pianto e pantoclastiche che hanno
messo tutti in allarme; lo stesso padre lo ha sentito gridare: “No, con papà
no…”.
Questo comportamento viene definito dal babbo “innaturale” perché in passato Antonio si dimostrava contento di stare con lui ed anche se mostrava una
certa riluttanza a manifestazioni affettive di fronte alla madre, in sua assenza
era affettuoso sia con lui che con i nonni paterni. Il padre ritiene che il rifiuto sia stato motivato dalla madre che tenderebbe a volerlo escludere come
padre in un nuovo ménage familiare che si sta costruendo.
La madre, a sua volta, non ha mai notato in tutti questi anni che il bambino
potesse avere problemi circa la separazione, anzi “sembrava essersene fatto
una ragione del loro vivere separati e diceva: “tu hai la tua casa e il mio papà
ha casa sua”. Il rifiuto che ora Antonio oppone ad andare con il padre l’ha
trovata impreparata, in un momento in cui avrebbe anzi voluto, dato il suo
nuovo compagno, essere un po’ libera dalle cure del bambino ed attribuisce
il comportamento del figlio al fatto di avergli, padre e nonni, parlato male di
lei, “di esserselo fatto nemico parlandole male di lei”. Accusa il marito di
essere “immaturo”, ancora troppo dipendente dai genitori per essere capace,
a sua volta, di comportarsi come padre.
Nei dati anamnestici emergono alcuni elementi di rilievo, tenendo conto della
realtà infantile:
- la madre da qualche tempo ha un nuovo compagno con il quale avrebbe
deciso di andare a convivere assieme al figlio, cambiando quindi abitazione e paese. A questo avvenimento non viene però attribuita alcuna importanza in quanto, dice la mamma, Antonio è molto affezionato al suo nuovo
partner ed anzi, se alla sera non lo vede, lo chiama per telefono;
- il padre ha fatto richiesta ed ha ottenuto dal Giudice, la possibilità di tenere il bambino con sé per tempi più lunghi, soprattutto nei fine settimana,
data l’età e la piena disponibilità dimostrata da Antonio a stare con lui.
Tutta l’osservazione, fatta nei modi tradizionali, è stata impostata al fine di
capire come il bambino viva la sua situazione di rapporto con i genitori e
quale sia lo stato emotivo che gli fa rifiutare di andare con il padre e le sue
cause.
Riferirò solo sul gioco dello S.T. che è costituito dal dare ai bambini una scatola dove si trovano moltissimi oggetti (animali, personaggi adulti, bambine
e bambini tra cui un baby nel port-enfant, alberi e fiori, frutta, piccoli oggetti di vario uso quotidiano, legnetti da costruzione, ecc.) con cui possono essere costruite scene usando come spazio rappresentativo il coperchio della scatola.
“Dopo aver guardato con me tutto il materiale, comincia a prendere dei pezzi
che dispone sul coperchio della scatola. Improvvisamente prende la mucca in
mano, ritira tutti gli oggetti già sistemati, mette l’animale al centro della
scena e ricomincia a costruire aggiungendo altri animali ed il treno.
120
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Interviene la mamma, ancora presente nella stanza dato il rifiuto del bambino a rimanere da solo, dicendo che per tutti quegli animali ci vuole un “guardiano”, ma Antonio non sembra ascoltare e continua nel suo gioco: dispone
un bambino nell’angolo in basso a destra ed uno lateralmente a sinistra su
una sedia a sdraio; al centro, appoggiato alla mucca, un uomo; il piccolo
baby, tolto dal port-enfant, viene collocato sul bordo laterale a sinistra.
Dietro mia richiesta, racconta la storia di questi personaggi: “Una sera c’era
una festa… ha fatto questa festa “quello” che ha questi animali (l’uomo al
centro). Due bambini stanno con l’uomo (indica il baby ed il bambino a
destra)… un bambino no (quello sulla sedia a sdraio)… sta in una casa dall’altra parte, però vicino. L’uomo è un papà, ma non c’è la mamma; la
mamma è morta, era andata via in bicicletta, l’hanno investita ed è morta… i
bambini ed il papà si trovano male, toccava far da mangiare al papà, ma era
un po’ più cattivino; loro volevano che ci fosse anche la mamma. Il bambino
solo non aveva né papà, né mamma, ma presto andava a stare con lui (indica
l’uomo al centro, papà degli altri due bambini).”
Alla richiesta di che animale si tratti quello a cui l’uomo è appoggiato (la
mucca), il bambino risponde “un miccio… non si sa se è un miccio o una
mucca… a me sembra un miccio”.
Ciò che emerge in questo scenotest è sostanzialmente la mancanza della
madre, “morta”, di cui il bambino tende anche a negare l’esistenza nel suo
classico simbolo, la mucca, attraverso la risposta “miccio”. Una risposta che
è assurda per un bambino che vive in campagna e che ha senz’altro dimestichezza con gli animali.
Ci si può chiedere che cosa stia rappresentando questo bambino, e sembra
abbastanza plausibile rispondersi che rappresenta “il suo timore di essere privato della madre”. In realtà, Antonio aveva cominciato col sistemare la
mucca al centro della scena con altri animali ed è stata proprio la mamma che
ha suggerito di metterci “un guardiano” per controllare ciò che succede,
facendo irrompere la figura paterna in un contesto di rappresentazione della
madre. Ma, nello sviluppo normale, è proprio l’intervento del padre che si
pone come “separatore” nel rapporto madre/figlio reciprocamente uniti tra
loro. Nelle separazioni questa funzione viene realisticamente attuata in quanto la presenza del papà può avvenire solo in assenza della mamma ed è forse
di questo che Antonio sta parlando: il suo timore di perdere la mamma se c’è
il papà, la minaccia di ritrovarsi privo di lei ed il bisogno di ricorrere ad un
nucleo adottivo paterno da cui però la madre è definitivamente scomparsa.
Quando nel proseguo della osservazione il bambino viene fatto incontrare
con il padre ed i rapporti padre/figlio sembrano migliorare con la rassicurazione che nessuno lo priverà della madre, Antonio costruisce un altro scenotest che appare, nei contenuti, molto diverso dal precedente. Mette al centro
del coperchio un uomo, la mucca, un bambino e pone il baby sulla testa della
mucca. Cerca di mettere a cavalcioni della mucca un altro bambino che però
gli cade. Dice: “C’è montato quello piccolino con il letto… ci sta più bene”.
Mette ancora sulla scena le due bambine ed il treno, ma a questo punto, trovata la pelliccia-tappeto nella scatola, smonta rapidamente tutto ciò che ha
fatto e ricomincia daccapo: mette sul tappeto la mucca con il baby, il treno,
un bambino, un altro bambino e la donna vestita da passeggio. Fuori dalla
121
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
pelliccia la sdraio con sopra una bambina. Tutto attorno, pezzetti di legno di
varie altezze e colori. “È una cena di animali e qui, indica i legnetti sparsi
sulla scena, è per far saltare gli animali. Sulla pelliccia ci sono quelli che
sono andati a vedere la scena, “è una mamma con i bambini”. Chiedo se non
ci sia il papà: “Si, dice, due papà” e aggiunge due uomini. Il bambino stesso
mi fa notare che prima non c’erano le mamme, ma solo un papà ed i bambini, mentre ora c’è anche la mamma e c’è anche un bimbo e due papà. “La
scena più bella, dice, è quando c’è un papà, una mamma e c’è anche un
bimbo”. Antonio sembra arrivare lentamente ad un assetto mentale più adeguato alla sua realtà attuale di bambino con una madre e due padri: il padre
reale che, giustamente rivendica il diritto di continuare ad essere suo padre,
ed un padre aggiuntivo (sostituto paterno?) che potrebbe essere l’uomo con
cui la madre lo porterà a vivere.
Interessante segnalare che, quando al bambino fu richiesto di raccontare al
padre cosa aveva voluto rappresentare con questa scenetta, evitò di parlare di
babbi, mamme e bambini e disse solo che era “una scena di animali che saltano agli ostacoli”. Il padre gli fece notare, molto acutamente, che forse erano
ostacoli troppo alti e Antonio ammise che “non sapeva se ce l’avrebbero
fatta”. A livello metaforico gli ostacoli da saltare sono gli ostacoli emotivi
della sua difficile relazione con un papà ed una mamma separati, che non sa
ancora se sarà in grado di superare.
Quanto detto, confermato anche dai risultati dei test proiettivi somministrati
al bambino (disegno libero, favole della Duss, C.A.T.), mise bene in evidenza che le difficoltà di Antonio ad andare con il padre andavano ricercate nella
sua paura a distaccarsi dalla madre con emergenza di angosce di perdita della
stessa, peraltro già comparse a tre anni, come riferito in anamnesi, quando
era stato tentato un inserimento alla scuola materna ed il bambino aveva
smesso di mangiare e di dormire.
Antonio sembra dunque trovarsi in una situazione emotiva in cui non sta sperimentando una piena sicurezza nel rapporto colla propria madre, ossia non
sembra sentire dentro di sé una figura materna stabile e protettiva a cui potersi rivolgere in sua assenza, e che nessuno gli potrà mai togliere. E questo, mi
rendo conto, può sembrare anche paradossale nella misura in cui Antonio è
affidato alla madre che lo ha sempre tenuto con sé ed esprime un rifiuto ad
incontrare il padre verso il quale peraltro non sembra esistere, nella sua
mente, alcun pregiudizio, né timore. Ma non lo è conoscendo quanto complesse siano le relazioni emotive bambino-madre, bambino-genitori e con
quanta facilità esse possano entrare in crisi.
Lo sviluppo armonico e sereno di un bambino, come è già stato detto, presuppone la capacità di elaborare gli intensi stati emotivi di amore, odio, gelosia,
invidia, nei confronti delle figure significative della propria vita, di prenderne coscienza, di pensarli piuttosto che di agirli; ma perché ciò avvenga è indispensabile un ambiente familiare sereno e la presenza stabile di entrambi i
genitori; cosa questa che Antonio non ha avuto e la sua storia di bambino che
il padre ha conteso alla madre ha senz’altro influito nel non permettergli di
maturare a pieno la fiducia nella stabilità del suo rapporto con la mamma che
ha origine nel periodo delle cure primarie, fase in cui i suoi genitori erano
invece impegnati nella loro separazione, ma si rafforza durante tutta l’infan122
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
zia quando i bambini non sono costretti ad oscillare tra l’uno e l’altro non
solo fisicamente, ma anche emotivamente. Ricordiamo che nelle separazioni
che avvengono per contrasti insanabili, l’idealizzazione comporta che se un
genitore è “buono”, l’altro deve essere necessariamente “cattivo”.
A ciò si deve aggiungere che è proprio la non completa fiducia nella stabilità e persistenza dell’altro che provoca un attaccamento possessivo ed esclusivo, a volte carico di rabbie e di rancori che possono attivarsi per avvenimenti apparentemente di poco conto, ma che i bambini vivono come minacce di perdita.
La condizione di fondo sopra descritta in Antonio c’è sempre stata, ma è
esplosa a sei anni e mezzo per due motivi:
- il bambino ha saputo della presenza nella vita della madre di un altro
uomo con cui ella intende ricostituire un nucleo familiare andando a vivere con lui, assieme ad Antonio, in una nuova casa. Nonostante la simpatia
che egli può provare per questa persona, sicuramente, come tutti i bambini, teme di perdere l’esclusività del rapporto colla madre (sino ad allora
nel letto colla mamma c’è sempre stato lui) e questo non è facile da accettare neppure per un bambino con una maggiore fiducia di base;
- al padre è stato concesso di avere il bambino con sé più a lungo. Ambedue
questi avvenimenti possono avere agito facendo esplodere ciò che era
latente: il timore di perdere la madre e ciò provoca un rifiuto verso il padre
che diventa colui che realizzerebbe di fatto, per il bambino, questa separazione. C’è sicuramente in Antonio un desiderio di stare anche col padre,
ma tale desiderio è senz’altro meno intenso della sua paura e contrasta con
essa.
È ovvio che in questi casi, oltre ad evitare qualsiasi atto di forza è necessario appoggiare le decisioni di affidamento con una psicoterapia che permetta
la risoluzione di questo conflitto padre-madre-bambino, e la ripresa dell’evoluzione verso un più stabile assetto della personalità.
Vorrei aggiungere qualcosa che all’epoca della perizia non si era ancora verificata: il padre, con un blitz della migliore tradizione, un giorno rapì letteralmente il bambino mentre usciva dalla casa dello psicoterapeuta che aveva
cominciato a curarlo per cercare di fargli prendere coscienza della sua conflittualità nei confronti delle figure genitoriali e lo portò a vivere nella casa
dei nonni paterni rifiutandosi di restituirlo alla madre. Antonio sembrò accettare passivamente questo avvenimento, che suscitò un vero e proprio scoop
giornalistico, ed accettò, apparentemente senza difficoltà di essere ripreso in
atteggiamenti molto affettuosi con il padre, ma a distanza di qualche tempo
scappò inaspettatamente dalla casa del padre percorrendo, in bicicletta, una
ventina di chilometri per tornare dalla madre. Non so quale possa essere stata
l’evoluzione successiva di questo, come della maggior parte dei casi che si
incontrano a livello peritale, ma sicuramente c’è molto da riflettere.
UNA BAMBINA RIFIUTA IL PADRE
i tratta ancora di una bambina di 7 anni, MARIELLA, figlia di genitori
Sfamiliare
separati da quando ella aveva quattro anni, che ha vissuto in un ambiente
da subito in pieno disaccordo sulla sua educazione: liberale, per123
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
missiva, quella del padre, più rigida e normativa quella della madre. Queste
difficoltà si facevano risentire soprattutto nell’area della educazione sessuale in quanto il padre (siamo alla fine degli anni sessanta) “preferiva non
nascondere niente alla bambina, farsi vedere da lei nudo, liberamente girando per casa o quando la notte l’andava a consolare nei suoi risvegli frequenti; la moglie si opponeva verbalmente a tutto questo, senza però ottenere
alcun risultato”.
Nei primi tempi dopo la separazione la bambina era sempre molto allegra e
gioiosa, felice di vedere e di stare con il padre, ma in seguito, a detta della
madre, quando ritornava dall’averlo incontrato si mostrava tesa, nervosa,
stanca, non voleva mangiare, non voleva giocare e le diceva cose cattive, la
picchiava e la morsicava. Prendeva la roba la nascondeva o la rompeva per
farle dispetto. La madre era convinta che questa fosse una reazione all’aver
visto il padre e con una certa insistenza l’interrogava su ciò che era successo
o aveva fatto a casa del padre che, peraltro viveva con la nonna paterna. Dopo
qualche tempo Mariella cominciò a parlare di “giochi al buio, colla nonna
paterna, di lei senza mutandine, del padre senza mutande che si toccavano…
ed anche di un uomo grasso che la toccava lì (indicando i genitali)…”; questi racconti portarono la madre a sospettare, appoggiata anche dal parere di
una propria sorella, medico, che ci fosse un abuso sessuale per cui il padre fu
autorizzato a vedere la figlia solo nella sua casa e in presenza oltre che della
madre anche di altri familiari, zia e baby-sitter. A detta del padre, in conseguenza di questo nuovo assetto la bambina cominciò a diventare “formale”,
perdendo spontaneità e slancio nei suoi confronti, sino a rifiutarsi di andargli
in braccio od anche di avvicinarsi a lui: un vero e proprio rifiuto che lo faceva soffrire molto. Durante le visite rimaneva attaccata alla mamma o alla zia
e poiché c’erano state minacce da parte del padre a prendere la bambina colla
forza, questo provocò persino l’intervento dei carabinieri, ovviamente con
molta paura e sgomento da parte della piccola che divenne sempre più ostile
all’incontro con il papà.
Come ben potete immaginare l’indagine peritale fu molto lunga e dibattuta
(si tratta di una perizia fatta oltre trent’anni fa quando ancora non si parlava
né apertamente, né frequentemente di abusi sessuali) per cui mi riferirò solo
ad alcuni paragrafi del commento fatto dal C.T.U., neuropsichiatra infantile
fiorentino, su cui potremo poi impostare la discussione.
Dall’osservazione era stato confermato che la bambina di fronte al proprio
padre entrava in uno stato di angoscia di tipo panico con pianto silenzioso,
immobilità, scomparsa di qualsiasi interesse per ciò che stava facendo, arresto di ogni attività, che si risolveva solo parzialmente quando il padre si
allontanava. Il rifiuto per il padre non veniva verbalizzato clamorosamente
come nei casi precedenti, Giovanna per la madre, Antonio per il padre, ma
“agito” ed “espresso” in maniera preverbale con la mimica ed i gesti: quel
suo immobilizzarsi con lo sguardo perso nel vuoto ed una espressione di
panico se il padre si avvicinava. Non solo, ma la presenza del padre che era
stato fatto entrare, dopo alcune sedute, nella stanza di osservazione, aveva
turbato lo svolgimento anche delle sedute successive in quanto la bambina
che nei primi incontri si era mostrata serena e sicura, autonoma nel rapporto
con i periti, aveva preteso costantemente la presenza fisica della mamma.
124
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Nessuna rassicurazione era stata possibile né da parte della madre, né dei
periti, neuropsichiatri infantili e psicologi. Riusciva ad uscire dal suo stato di
inibizione e blocco solo attraverso un gioco aggressivo, gettare e cercare di
rompere i giocattoli, o mostrandosi aggressiva verso la mamma, in pieno
accordo con quanto ci era stato riferito circa il suo comportamento quando
tornava da casa del padre, come se solo così potesse attenuare la tensione
emotiva che la sconvolgeva bloccandola.
Dal punto di vista clinico, questa situazione, del tutto patologica, doveva
essere considerata come una “nevrosi di angoscia” che si scatenava in tutta la
sua intensità quando compariva la figura paterna. Non si trattava cioè di una
semplice “reazione” sia pure “nevrotica” di fronte al padre, bensì di una vera
e propria nevrosi in cui lo stato di angoscia era tale da comportare un completo blocco delle prestazioni con inibizione delle attività di gioco, ma anche
di pensiero; una angoscia di intensità tale da non poter essere detta, ma solo
espressa con il comportamento.
In una modalità di reazione nevrotica di fronte al padre ci si sarebbe potuti
aspettare un semplice rifiuto a livello cosciente, come avviene spesso quando, nelle separazioni, uno dei partner deve essere rifiutato perché in contrasto con il genitore con il quale il bambino vive. In questo caso persiste però,
profondamente nel bambino il desiderio del ricostituirsi della globalità familiare, comprensiva anche del genitore assente e, nei test proiettivi e nel gioco,
si ritrovano cariche profonde desiderative che emergono anche sotto forma di
simboli, come abbiamo visto nel caso di Antonio e come è stato segnalato dal
C.T.U. nel caso di Giovanna. In questa bambina invece, le tematiche del
gioco erano tutte molto regressive e concernenti soprattutto la sfera orale (far
da mangiare, offrire il pranzo ai presenti, apparecchiare, sparecchiare ecc.),
mentre era scomparsa la figura paterna e con lui tutte le figure maschili; al
contrario, attorno ai bambini si davano da fare “quattro mamme” che nella
realtà e a detta di MARIELLA, erano la mamma, la nonna materna, la zia e
la baby-sitter. Nei test proiettivi le situazioni triangolari padre-madre-bambino provocavano un blocco emotivo, cui faceva seguito una serie di rifiuti. Al
test di Rorschach, inoltre, la bambina dava una serie di risposte che confermavano a pieno la sua grave situazione emotiva legata ad una notevole problematica sessuale con polarizzazione sui simboli maschili e shock alla tavola paterna.
In questo caso si poteva quindi parlare, confortati anche dal risultato ai test,
di vera e propria nevrosi strutturata che escludeva, pertanto, una eventuale
influenza suggestiva da parte dell’ambiente prospettata e sostenuta sia dal
padre che dai nonni paterni. MARIELLA viveva il padre alla stessa stregua
con cui il soggetto con nevrosi fobica, vive l’oggetto fobogeno: timore, angoscia e terrore a cui si può sfuggire solo con l’evitamento, data la impossibilità ad essere rassicurati. Il padre era cioè vissuto come oggetto minaccioso ed
aggressivo nei suoi confronti e quindi da evitare!
Il Giudice, nei quesiti al C.T.U. aveva posto la domanda se il racconto fatto
dalla bambina, che la madre e la zia materna avevano interpretato come abusi
sessuale, “poteva essere frutto di una sua invenzione” magari favorita dall’ambiente materno o, al contrario, se si trattasse di fatti realmente accaduti.
Doveva quindi essere accertato dal punto di vista psichico se la bambina
125
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
avesse realmente subito una violenza sessuale dato che non c’era alcun
riscontro clinico - intendi visita ginecologica - della stessa. O, in assenza di
questa, avesse “vissuto”, per problemi personali legati alla fase evolutiva in
cui era avvenuta la separazione, il proprio rapporto con il padre in una fantasia di rapporti sessuali con lui. Non si poteva infatti escludere che, trattandosi di un padre molto stimolante sul piano erotico, i giochi del nascondersi e
del ritrovarsi che la bambina faceva con lui, la eccitassero molto stimolando
la sua fantasia erotica. Peraltro c’è da dire che in MARIELLA era presente,
in quel periodo una intensa masturbazione che la madre tendeva ad ostacolare e di cui parlò solo dietro precisa richiesta del C.T.U..
Una diagnosi di abuso sessuale in un bambino, anche se non deve mai essere esclusa o facilmente negata, ha bisogno però di essere posta con molta cautela. Sulla rilevanza della sessualità infantile e sull’argomento della realtà o
fantasia degli abusi sessuali subiti nell’infanzia si può citare S. FREUD che
dopo aver descritto, nel 1893, alla base della nevrosi isterica un trauma sessuale (“la seduzione sessuale di un bambino da parte di una persona adulta,
più spesso il padre”), nel 1897 riconosce il suo errore di interpretazione del
materiale a sua disposizione ed afferma “...che le scene di seduzione non
erano mai avvenute nella realtà, ma erano solo delle fantasie create dall’immaginazione ... desideri realizzati nella fantasia...”. E poiché, come vi ho
detto nella prima parte a proposito degli aspetti psicologici della fase edipica, in questo periodo prevale ancora il principio del piacere rispetto al principio di realtà, è ovvio che il bambino può confondere ciò che è avvenuto con
ciò che ha desiderato o fantasticato. Peraltro i fatti che madre e zia riferivano al padre, sarebbero avvenuti durante o poco dopo la separazione, e non
contestualmente al racconto fatto.
La mia esperienza nel tempo mi ha sempre più rafforzato nella convinzione
che quando un bambino riferisce di essere stato oggetto di pratiche sessuali
o comunque fa giochi sospetti o dice cose che lo possano far pensare, questo
non deve aprioristicamente indurre a “credere” nella realtà dell’abuso: i giochi erotico-sessuali infantili sono una modalità molto frequente di esprimere
e di elaborare le fantasie sessuali che si creano sotto la pressione tipica della
fase fallica dello sviluppo.
Quando una coppia è normalmente unita, la presenza costante di entrambi i
genitori mitiga le fantasie di desiderio del bambino, ma, soprattutto, quando
vi è una reciproca fiducia tra i coniugi, le fantasie non vengono mai confuse
con la realtà dei fatti.
Quando i genitori sono divisi ed inconciliabili, le cose dette da un bambino
possono invece provocare il turbamento della madre, toccando la sua pregressa esperienza sessuale ed innescando una inchiesta sulle “attività perverse” del padre, inchiesta talora altrettanto aggressiva ed intrusiva sulla psiche
infantile quanto la violenza fisica che si teme il bambino abbia potuto subire.
Ciò può tendere a fissare nella mente infantile un falso trauma costruendo un
ricordo sgradevole, là dove c’era solo piacevolezza.
Si assiste ad una vera e propria confusione dei linguaggi tra i bambini e gli
adulti: i primi parlano il linguaggio dei desideri e della fantasia, i secondi il
linguaggio di fatti aprioristicamente temuti. Riprendo da una più recente relazione peritale: “Non vi è alcun dubbio che nel gioco che la bambina sta
126
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
facendo ella stia esprimendo una fantasia sessuale che la madre ha trasformato immediatamente in un abuso sessuale da parte del padre…. L’accusa al
padre viene fatta d’embleé, senza dubbi od incertezze, sulla base del preconcetto che “era prevedibile” che lui avrebbe commesso gli atti di cui è imputato: “Da lui me lo sarei aspettato, dice, ma quando la bambina sarebbe stata
più grande, non a questa età…”; e questa affermazione sembra veramente
nascondere una angoscia personale di violenza sessuale che già si era manifestata con una precocissima informazione data alla figlia, prima ancora dei
4 anni, sulla possibilità di subire abusi sessuali da parte degli adulti”.
Si tratta cioè, in questi casi, della proiezione di fantasmi genitoriali che sono
la risultante di esperienze vissute dagli adulti nella loro storia personale e
non bene integrati, con una identificazione massiccia alla “dimensione abusata” portata dal bambino, che deve essere attentamente controllata ed evitata.
Il C.T.U. nella ricostruzione della storia di Mariella andò proprio in questa
direzione.
Dopo aver parlato della situazione patologica rilevata ed avere negato la possibilità di essere stata suggestivamente provocata dall’ambiente materno,
scrive: “Ma c’è qualcosa di più sottile, di più sfumato avvenuto al confine fra
il livello inconscio e quello cosciente, che ci autorizza ad ammettere, influenze in senso psicologico, provenienti dall’ambiente e rielaborate dalla bambina. Mariella non ha raccontato subito i presunti fatti accaduti con il padre ma
dopo un intervallo di tempo di alcuni mesi se non di anni. Questo apre una
fondata serie di dubbi circa la possibilità che i fatti siano realmente accaduti
e riguardo la veridicità dei racconti da lei fatti. La bambina, abbiamo visto, è
aderente alla realtà al momento attuale, ma quando i fatti si sarebbero verificati era molto più piccola ed i ricordi della prima infanzia sono soggetti ad
alterazioni, rielaborazioni, modifiche in varie combinazioni. In questo gioco
interviene la suggestionabilità del bambino al fine di compiacere gli adulti ed
ottenere da essi una piena accettazione di loro stessi. La bambina in pieno
periodo edipico si trova immersa in una situazione familiare gravemente
patogena. È molto attaccata al padre, ma a poco a poco perde questa fonte di
protezione. Non può spontaneamente trovare l’aiuto della madre perché
sarebbe stata necessaria una buona armonia coniugale che non esiste; il suo
rapporto colla madre è ambivalente: di odio e di amore nello stesso tempo.
Per sopravvivere ha la necessità di procacciarsi l’amore e l’approvazione
della madre con ogni mezzo le si presenti. E a questo punto, l’ambiente educativo completamente sbagliato nel quale si trova, permeato dalla animosità
della causa in corso, eccessivamente preoccupato per tutto ciò che riguarda il
sesso, [ma anche, aggiungerei, molto polarizzato su di esso] inizia una serie
di errori che si ripercuotono sulla bambina. Tutto ciò che riguarda la grave
problematica emotivo-affettiva della bambina e che si manifesta in aggressività, “stranezze” al ritorno dalle visite al padre, masturbazione, viene distorto in una prospettiva carica di sessualità, giungendo persino alla visita ginecologica (peraltro negativa, come già detto). Certamente si proiettano sulla
bambina una infinità di problemi sessuali personali non risolti. In questo
clima, in maniera non necessariamente finalizzata, con la quale si intende la
suggestione esterna, sono iniziati i racconti di Mariella. Gradatamente la
127
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
bambina ha percepito che tali racconti erano gratificanti per i familiari, ha
scoperto il mezzo che stava cercando attraverso il quale ricevere una perfetta accettazione ed ha iniziato a “vivere” il proprio rapporto con il padre come
aggressivo. Ciò spiega l’intervallo di tempo tra i fatti e l’inizio della loro narrazione; ed anche il motivo per cui i racconti della bambina non sono avvenuti in una volta sola, o in poche volte, ma a più riprese ed anche recentemente, dopo l’incontro con “l’oggetto fobico”. […] I fatti la cui narrazione e
descrizione è attribuita alla bambina non possono essere dovuti a sua invenzione, ma sono invece frutto di un clima psicologico, vissuto dalla madre e
dai suoi familiari, che, pur non deliberatamente, ha suggestionato la psiche
della bambina in un momento particolare del suo sviluppo. Mariella non ha
inventato; ha “vissuto” come realtà i fantasmi del difficile momento della sua
vita, suggestionata dalla atmosfera psicologica che la madre aveva creato
attorno a lei sia pure non volontariamente né consapevolmente”.
Allora, trent’anni fa, come ho già detto, c’era molta meno dimestichezza con
questi fatti, mentre al momento attuale è sempre più frequente andare incontro ad accuse di violenze ai figli fatte da uno dei genitori nelle separazioni
conflittuali. C’è da pensare che in questi casi il genitore che accusa non sia
più, come i genitori di Mariella, così sprovveduto, ma parli anche un linguaggio di comodo per riuscire ad escludere, rapidamente e completamente dalla
vita del figlio l’altro genitore, in modo da poter creare nuovamente un nucleo
familiare con un nuovo partner come se fosse l’unico padre del proprio
figlio!
Ho presentato questo caso non, ovviamente per ricevere consensi sulla posizione presa, ma per aprire il versante delle alterne possibilità che si possono
riscontrare nei casi in cui c’è il sospetto di abuso sessuale…
Ma, detto questo è però necessario sottolineare che esiste anche la posizione
opposta: di voler negare ciò che il minore esprime per evitare l’angoscia
rispetto alla percezione di pericoli realmente esistenti, ed anche questo, è
ovvio, deve essere altrettanto evitato rendendosi disponibili all’ascolto, al di
là delle parole, di ciò che i bambini hanno da dirci nel loro linguaggio.
128
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
R
ingrazio l’avvocato Marcucci perché sono sempre molto contento di
intervenire ogni qualvolta l’uditorio è composto da avvocati perché
sono vari anni che il mio sforzo, sia come direttore del Centro per l’età
evolutiva sia come presidente della Simef, è legato proprio al massimo coinvolgimento possibile degli avvocati, ed ovviamente degli avvocati che si
occupano del diritto di famiglia, nella direzione di un certo modo di concepire gli eventi della vita familiare e nell’informazione capillare e nel pieno
coinvolgimento degli avvocati all’interno del processo di mediazione familiare.
Quindi l’essere qui con voi in questa giornata, a parlare di separazione, a parlare di figli nella separazione, e, per quello che potremo, di mediazione, per
me è un’occasione particolarmente gradita.
Avremo modo nella giornata, soprattutto nel pomeriggio, di scambiare più
direttamente alcune opinioni su quello
che facciamo.
Questa mattina, tenendomi aderente al
tema che mi è stato assegnato, vorrei
proporvi alcune riflessioni, che vanno
anche un pochino al di là del titolo “il
minore conteso”, e che riguardano in
generale i figli nella separazione; la
condizione dei figli nella separazione
che, ripeto, merita un allargamento del titolo perché, come credo tutti avrete DOTT.
constatato nella vostra esperienza, non sempre i figli nella separazione sono FRANCESCO
oggetto di contesa. Questa è soltanto una situazione ma ci sono anche altre CANEVELLI
tipologie. Non è detto che il figlio nella separazione sia conteso, può essere
tante altre cose che vedremo insieme, per cui questa mattina vi proporrò alcu- PSICHIATRA, PRESIDENTE DELLA
ni scenari, alcuni modi di intendere i figli all’interno dei processi di separa- SOCIETÀ ITALIANA DI
MEDIAZIONE FAMILIARE
zione.
Il mio primo criterio è questo: l’utilità, offrire cioè delle chiavi di lettura che
nel vostro lavoro, sempre più in interfaccia con il lavoro di psicologi, psichiatri, operatori dei servizi, mediatori familiari, possano anche portare ad un
minimo di linguaggio comune nell’intenderci su certi fenomeni.
Non credo assolutamente al fatto che tutti dobbiamo parlare la stessa lingua.
Questa è un’aberrazione. È bene che ogni disciplina mantenga la sua lingua,
mantenga i suoi criteri di osservazione, le sue valutazioni. È anche vero che
questo è un campo in cui ci incontriamo tra diverse professionalità. È allora
assolutamente urgente ed indispensabile che ci sforziamo di avere, quanto
meno, alcuni elementi di linguaggio comune, per intenderci nel lavoro che
facciamo, perché è sempre più una certezza che nel campo del diritto di famiglia l’incontro, non solo tra molte professionalità, ma proprio tra molti operatori, è un’esigenza assolutamente fondamentale.
Ecco che, allora, da questo mio discorso di stamattina sul figlio nella separazione dovrebbe poi nascere anche in maniera più precisa, almeno me lo auguro, che cosa si intende, o cosa si dovrebbe intendere con tutela, con il concetto di tutela dei figli nella separazione.
Anche questo è un concetto a volte abusato, o usato male, a volte usato in senso
eccessivamente protezionistico nei confronti del bambino, dimenticando alcu- * Correzione redazionale
IL MINORE CONTESO *
129
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
ni aspetti, fondamentalmente uno di cui parleremo stamattina cioè il fatto che
il bambino, il figlio in generale perché spesso si parla del bambino mettendo
insieme anche l’adolescente, è un soggetto attivo. Collabora molto attivamente con alcune sue posizioni al determinarsi di quello che avviene nei percorsi
di separazione, per cui anche sul concetto di tutela dobbiamo intenderci.
La migliore tutela possibile del minore è, infatti, quella che possono mettere
in campo i suoi genitori in primo luogo, e questo è il concetto di base, ma non
voglio andare troppo avanti su questo perché altrimenti poi non rispetto il
mio programma.
Facciamo un passo indietro, e ritorniamo appunto a questo figlio che assiste,
se vogliamo tenerlo così in questa dimensione di oggetto, ma che poi partecipa attivamente alla separazione dei suoi genitori.
Qui devo necessariamente fare - cercherò di farlo il più breve tempo possibile perché probabilmente sono cose conosciute ma che secondo me vale la
pena sempre richiamare - un minimo di excursus su quella che è stata la storia della ricerca, la storia delle concettualizzazioni che sono state fatte da
diversi anni ormai sulla condizione del figlio nella separazione, perché come
in tante altre cose della vita non sempre la si è pensata nella stessa maniera
rispetto a questo fenomeno.
Allora credo che una premessa su come siamo arrivati ad alcune considerazioni attuali sia doverosa.
Credo che oggi, da questo punto di vista, ci sia una condivisione pressoché
unanime sul fatto che certamente la separazione dei genitori è un evento ad
elevata quantità di stress emotivo rispetto ai figli.
Ciò vale qualunque sia l’atteggiamento culturale od ideologico che si voglia
avere nei confronti del fenomeno della separazione, quindi sia che lo si consideri, come in alcuni contesti socio-culturali viene proposto, addirittura
come un evento normativo, cioè come un evento atteso e prevedibile ormai
nei percorsi di vita delle persone, oppure, al versante opposto, che lo si consideri ancora un evento patologico nella vita relazionale delle persone.
Comunque, sia che la consideriamo ad un estremo o all’altro o in tutto quello che c’è in mezzo, sicuramente dal punto di vista del figlio la separazione
rappresenta un evento ad elevato livello di stress.
Non è però sufficiente dire questo perché quando parliamo di elevato livello di stress facciamo un riferimento quantitativo, mentre dobbiamo approfondire che qualità di stress la separazione propone ai figli e su questo, ripeto, mi rifaccio a quello che è successo nella storia, nelle teorie psicologiche,
anche se in maniera molto sintetica.
Una prima fase della ricerca e della concettualizzazione sulla separazione
proponeva, rispetto ai figli, quella che si può definire proprio una sorta di
“sindrome da separazione” cioè la descrizione di una serie di sintomi, quindi
un atteggiamento di tipo solamente clinico, psico-patologico, in cui il figlio
che viveva la separazione dei genitori veniva connotato come portatore, o
come potenziale portatore, di una serie di sintomi. Legati a cosa fondamentalmente? Legati alla deprivazione, legati alla condizione di perdita di una
figura genitoriale.
Spesso veniva usata in questo periodo storico la metafora del lutto relativamente alla separazione, considerata analoga tout court ad un’esperienza di
130
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
lutto in cui appunto il trauma per il figlio era sovrapponibile a quello della
perdita di una figura genitoriale. Questo passaggio era un passaggio immediato, quindi una fase centrata su considerazioni di tipo strutturale.
Strutturale nel senso in cui la famiglia veniva a modificarsi nella sua struttura ed il figlio veniva quindi a perdere delle risorse.
Questa perdita di risorse veniva connotata come in realtà era ed è spesso tuttora, come perdita fondamentalmente del padre ed in base a quest’idea della
perdita del padre all’interno dell’esperienza di separazione veniva sottolineata una serie di effetti negativi, fondamentalmente riconducibili a tre livelli:
disadattamento sociale, disadattamento psico-sessuale, disadattamento scolastico. Questa triade di livelli era legata strettamente al venire al mancare di
una funzione e spesso di una persona con la qualifica della genitorialità.
A questa prima fase, così molto rigidamente connotata ne è seguita un’altra,
centrata più sulla relazione, potremmo dire una fase “relazionale” dello studio sui fenomeni della separazione e sui loro effetti sui figli e questa fase
centrava l’attenzione soprattutto sul tema del conflitto.
Gli effetti fondamentali, gli effetti dannosi della separazione sui figli, sono
fondamentalmente legati alla conflittualità permanente che il figlio respira
nel nucleo familiare così modificato.
In altri termini, in qualche modo veniva connotata la situazione del minore
nella famiglia separata come quella di chi subisce un deterioramento globale
della qualità della vita, della qualità delle relazioni significative, quindi, da
una perdita strutturale, connotata nel primo periodo di studio, ad una più di
tipo qualitativo, di deterioramento della qualità della vita, legata al dover
assistere nel tempo a fenomeni di conflittualità tra i genitori.
L’ulteriore sviluppo della concettualizzazione degli studi ha incrementato la
complessità delle osservazioni nella consapevolezza che variabili così semplicistiche, quali il venire a mancare di una persona o di una figura, la presenza di elementi conflittuali, erano troppo riduttive rispetto alla complessità dei fenomeni osservabili in tutte le vicende della vita e in quelle della separazione in particolare.
In altri termini si è cominciato a considerare la separazione, come pure altri
fenomeni della vita, come un processo psico-sociale multidimensionale.
L’ottica della multidimensionalità, così come è entrata in moltissime branche
della scienza, delle scienze umane in particolare, ha preso il sopravvento
anche rispetto agli studi sulla separazione.
Cosa ci propone un’ottica multidimensionale? Ci propone la validità contemporanea di tutti gli aspetti che abbiamo fin qui considerato.
Non è superata l’idea che può derivare un effetto dannoso dalla perdita di una
figura genitoriale o dal clima di conflittualità permanente. Ci mancherebbe
altro! È che sono aspetti eccessivamente limitati se pensiamo di far riferimento soltanto a questi. L’idea della multidimensionalità ci propone appunto
accanto a questi aspetti, che non vengono scartati, la considerazione per altri
aspetti quali, ad esempio, la percezione individuale dei fenomeni, cioè come
il soggetto partecipa ai fenomeni che lo riguardano, quindi in un’ottica che,
come dicevo all’inizio, comincia a spostare anche il figlio rispetto alla separazione da semplice oggetto che riceve una serie di messaggi, torti, mancanze ecc. a soggetto che partecipa alla costruzione di quello che accade intorno
131
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
a lui ed in lui e dà un senso, attribuisce significati attivamente all’esperienza
che vive.
Non è una differenza da poco come vedremo.
In altri termini, la considerazione multidimensionale è una considerazione
che inserisce l’elemento dell’evolutività all’interno dei fenomeni, non li considera semplicemente come eventi statici, che una volta che sono accaduti
restano così per sempre, una sorta di ferita rispetto alla quale si può soltanto
formare una cicatrice e nulla più ma che inserisce il dinamico, inserisce la
possibilità che gli scenari cambino e che gli scenari cambino anche in senso
positivo, oltre che in senso negativo, inserisce il concetto, tipicamente evolutivo, dei compiti di sviluppo che le persone e le famiglie hanno nel corso del
loro ciclo di vita.
Il tema dei compiti di sviluppo è un tema estremamente importante. Sapete
che la definizione di ciclo di vita di un individuo, di una famiglia, è quella
definizione che rende conto di come nelle tappe fondamentali della vita,
ognuno di noi individualmente, ed i nuclei familiari nel loro insieme, è/sono
in qualche modo confrontato/i con diversi e specifici compiti di sviluppo,
cioè con una serie di aspettative di risposta a bisogni che sono tipici di quella fase e non di altre.
La separazione propone nuovi compiti di sviluppo alle famiglie ed agli individui, quindi questo tipo di concettualizzazione è molto più dinamica e rende
conto fondamentalmente di questi aspetti. In particolare, rende conto del
fatto di come ogni evento della vita propone compiti di sviluppo nuovi, in
ordine ad un miglior adattamento alle nuove circostanze di vita e per migliorare, quando si parla di miglior adattamento, si intende un qualcosa che ha a
che fare con vincoli e con risorse e su questo mi fermo un attimo per spiegare meglio.
Ognuno di noi, rispetto a nuove circostanze della vita, ha il problema di
modificare i propri atteggiamenti, di modificare i significati che dà alla propria esperienza in ordine appunto alle novità che gli vengono proposte e questo lo fa in una condizione in cui ci sono degli ostacoli e delle possibilità.
Quali sono gli ostacoli e quali sono le possibilità? Gli ostacoli e le possibilità sono sia interne alla persona, quindi fanno riferimento al mondo personale, sia esterne e fanno riferimento al mondo ambientale.
Un tipo di ostacolo ai migliori adattamenti è rappresentato dalle condizioni
personali di impossibilità di fare qualcosa di diverso da quello che si è sempre fatto, dalla impossibilità o dalla difficoltà di vedersi diversi da quelli che
si era e da come ci si è sempre conosciuti. Questo è un tipico vincolo ad un
miglior adattamento, basato su caratteristiche personali. È come dire, facendo una metafora di tipo biologico per spiegarmi meglio: nell’evoluzione delle
specie ogni specie, oltre che essere condizionata dal suo ambiente, è condizionata dal proprio patrimonio genetico.
Ci sono alcune cose che il nostro patrimonio genetico ci consente di fare,
altre cose che non ci consente di fare. Quelle che non ci consente di fare sono
dei vincoli. Non possiamo improvvisamente metterci a camminare a testa in
giù perché il mondo si è capovolto. Non lo possiamo fare, poi, piano piano,
forse nei secoli qualcuno, un soggetto ci riuscirà, trasmetterà questa capacità
alla sua progenie e faremo un mondo di persone che camminano a testa in giù
132
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
però ci sono alcuni vincoli, alle possibilità adattive che in qualche modo sono
legati alle condizioni stesse dell’esperienza, delle possibilità del soggetto.
Altrettanto questi vincoli sono rappresentati dall’ambiente circostante. Come
vedremo parlando di separazione, ci sono modalità con cui i genitori gestiscono le loro questioni nella separazione che rappresentano, di fatto, degli
ostacoli potenti, dei vincoli pesanti al miglior adattamento dei figli, per cui il
figlio si trova nell’impossibilità di utilizzare, ad esempio, le figure genitoriali come risorse per un suo migliore adattamento e si trova davanti, come
vedremo tra poco nella mattinata, dei ruoli già ben predeterminati che può
incarnare e non può incarnarne altri perché il modo in cui i genitori gestiscono la separazione è un vincolo che lui non può ignorare.
Al tempo stesso però le persone individualmente e le relazioni tra le persone
sono anche delle risorse. Ogni situazione di stress, ogni situazione che propone delle novità, così come ci procura delle difficoltà di nuovo adattamento ci procura delle nuove possibilità di risorsa ed è importante che noi manteniamo anche questa considerazione, all’interno delle nostre letture dei percorsi di separazione, perché i percorsi di separazione, come tutti quei percorsi che nella vita propongono necessità di nuove collocazioni delle figure
significative, propongono anche delle risorse, non soltanto degli ostacoli:
nuove possibilità da utilizzare, nuove persone da incontrare quindi operatività nuove, possibilità di nuovi significati dell’esperienza per i figli, come per
gli adulti.
In questo non sono diversi i bambini e gli adolescenti dagli adulti: le modalità adattive dei bambini, degli adolescenti, degli adulti alle novità della vita
sono le stesse, anzi i figli le hanno più elastiche rispetto agli adulti. Il problema è quanti vincoli mettiamo loro davanti, non è la capacità adattiva intrinseca del bambino o dell’adolescente.
Ecco, allora in questo senso credo che noi dobbiamo cercare di uscire un
pochino dalla visione ristretta del minore, come qualcuno che subisce un
qualcosa e basta nella separazione. Dobbiamo, e lo stiamo facendo abbondantemente, superare le teorie molto semplicistiche del danno, del lutto, del
conflitto che riducono la separazione unicamente ad un evento traumatico per
certe condizioni. Dobbiamo chiederci in maniera più attenta qual’è il tipo di
stress, il tipo più specifico di stress che la separazione propone ad un figlio
che è riduttivo descrivere in termini soltanto di lutto o soltanto di conflitto.
Per esempio, è importante sottolineare come lo stress che viene proposto ad
un figlio nella separazione non è tanto legato né alla perdita né al conflitto.
Può essere legato anche a questo ma è soprattutto legato alla diversa collocazione delle figure genitoriali sia nelle sue modalità relazionali quotidiane, sia
nel suo mondo interno cioè nei significati che attribuisce a quello che ha di
fronte. Questo è un tema molto più complesso della semplice perdita o del
semplice conflitto, perché si tratta di un’operazione globale complessiva di
ricollocazione delle figure adulte al suo interno e nelle relazioni reali di tutti
i giorni che rappresenta sicuramente un compito di sviluppo da una parte di
elevata complessità che non è assimilabile alla “semplice” elaborazione di un
lutto ma che presenta degli elementi spesso di ambiguità, di complessità
molto più elevata.
Ad esempio, solo per citare uno dei compiti più problematici che le persone,
133
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
non solo i soggetti in età evolutiva, ma le persone vivono, anche i due coniugi
nella separazione, quella di come ricollocare relazioni che da una parte propongono un’assenza, ma al tempo stesso propongono una permanente presenza.
Questa doppia realtà della separazione, il determinarsi di una mancanza ma il
permanere di una presenza in termini diversi, è uno dei temi più complessi, più
difficili nell’elaborazione di una separazione, sia per gli adulti che per i figli.
Quindi altro che conflitto, altro che semplice perdita. Si tratta di un compito
di sviluppo di elevata complessità che riguarda anni di vita e quindi non l’immediata reazione allo stress acuto del momento della separazione in cui, ripeto, il tema è come affrontare questi aspetti ambivalenti, questi aspetti duplici
che continuamente propone l’esperienza di separazione. La dislocazione
fuori dalla famiglia di alcune figure, ma al tempo stesso il mantenimento di
relazioni che, anche quando sono molto diluite, comunque si sanno presenti.
Non è necessario che, ad esempio, il bambino senta con una certa regolarità
anche solo per telefono un genitore; non è un fatto solo quantitativo.
Il bambino sa che quel genitore esiste, non è una questione se lo sente tutti i
giorni, se lo vede più o meno ecc. È il problema di che senso dà, che significati dà quel figlio, al fatto che quel genitore è in quest’altra posizione per lui,
dove ovviamente gli aspetti concreti, come vedremo, contano perché poi non
è vero che non è differente se lo vede tutti i giorni o lo sente al telefono una
volta l’anno. È importantissimo, e questo è un aspetto ma c’è anche un altro
aspetto: l’aspetto interiore cui comunque occorre dare un significato, un
senso nuovo al fatto che quel genitore, comunque lo si senta o non lo si senta,
esiste, non è morto ma esiste in una dimensione diversa, con possibilità di
rapporti completamente diversi, tutti da scoprire, tutti da inventare.
Questa, direi, è la tipicità, la specificità dello stress della separazione che,
ripeto, riguarda sia gli adulti che i bambini. Non è diverso, anche i due coniugi hanno questo problema. Hanno il problema di come ricollocarsi vicendevolmente vivendo insieme due vissuti spesso estremamente contraddittori. Il
fatto che è finita una cosa ma non è finita affatto. Una dimensione di fine che
però non è una fine e sappiamo benissimo, nei vostri studi questo avviene
tutti i giorni, quanto questo tipo di esperienza sia dolorosa, lacerante, irritante, mettete tutti gli aggettivi che volete, e quanto crei sconcerto, difficoltà,
problematiche anche a distanza di anni.
Ecco, se questo è il panorama generale su cui mi muovo, adesso entriamo di
più nel merito del bambino, dell’adolescente, di quali sono in maniera anche
più organizzata, più metodica, le variabili, gli aspetti su cui dobbiamo, secondo me, concentrarci quando pensiamo al figlio nella separazione, quali sono
le chiavi di lettura.
Coerentemente con tutto quello che ho detto fin qui, vi proporrò due fondamentali chiavi di lettura rispetto alle quali collocare la situazione del figlio
nella separazione, con l’avvertenza ovviamente che, come tutte le volte che
si parla di tipologie, di caratterizzazioni ecc., si fanno delle assolutizzazioni,
si fanno delle riduzioni, si propongono degli schematismi che hanno, da una
parte, l’utilità degli schematismi e, dall’altra, un po’ la rigidità, la riduttività
degli schematismi, che però a mio avviso sono utili proprio per avere delle
griglie di valutazioni dei fenomeni che stiamo osservando, dal punto di vista,
appunto, del figlio nella separazione.
134
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Le griglie che vi propongo sono appunto due e dovrebbero incastrarsi tra
loro, dovremmo formare una sorta di due assi attraverso i quali si forma effettivamente una griglia.
Il primo asse si basa sul punto di vista del minore, discorso che so che vi è
stato già proposto anche se con modalità di letture e con teorizzazioni diverse, ma che riguarda le fasi dello sviluppo del minore. Fasi dello sviluppo del
minore, viste in che senso? Viste proprio nel senso che dicevo prima, come
vincoli e come risorse.
È fondamentale la fase dello sviluppo nella quale il bambino, l’adolescente, il
giovane adulto vive la separazione dei genitori. Perché la fase dello sviluppo
determina cosa? Determina appunto quei vincoli e quelle possibilità in ordine
al suo migliore adattamento. Ci sono fasi dello sviluppo in cui certe cose non
si possono fare, per certe cose intendo certe operazioni mentali, perché si è
fermi giustamente su certi bisogni, ma se ne possono fare altre, appunto quelle compatibili con le competenze acquisiste in quella fase dello sviluppo.
Avere quindi in testa una griglia che definisce quali sono gli aspetti che più
probabilmente un bambino che vive lo stress della separazione ad una certa
età, ad una certa fase dello sviluppo piuttosto che un’altra, metterà in campo,
credo che sia un asse assolutamente fondamentale proprio come lettura delle
possibilità e delle non possibilità che questo bambino o adolescente si trova
ad avere.
C’è poi il secondo asse, altrettanto fondamentale, che rappresenta quello che
a questo figlio propongono i genitori, perché, dicevamo prima, il bambino è
un soggetto attivo, quindi partecipa attraverso quelle che abbiamo definito le
sue competenze, le sue possibilità ma è anche un soggetto che in qualche
modo dipende da quello che gli viene proposto per trovare il suo migliore
adattamento per cui, se i genitori gli presentano una certa immagine del loro
rapporto, del rapporto con lui, del mondo, questo rappresenterà un vincolo,
una strada quasi obbligata da percorrere piuttosto che un’altra.
La seconda tipologia che proporrò è quindi quella delle cosiddette “modalità
di gestione della separazione” da parte dei genitori, intese come schema che
necessariamente il bambino si trova a dover utilizzare per il suo adattamento
alla separazione stessa.
Quindi, ripeto, due assi fondamentali: le fasi dello sviluppo del figlio, di cui
adesso cominceremo a parlare, e le modalità di gestione della separazione da
parte dei genitori.
Allora cominciamo con i lucidi.
La suddivisione ed il tipo di considerazione che farò delle caratteristiche di
ogni fase dello sviluppo, è assolutamente indispensabile premetterlo, è un
tipo di considerazione che fa riferimento alle teorie di tipo psico-sociale,
quindi alle teorie relazionali fondamentalmente, ma anche alle teorie cui
facevo riferimento prima, quelle del ciclo di vita della famiglia, dei compiti
di sviluppo tipici di ogni fase dello sviluppo.
Da questo punto di vista, al centro dell’attenzione porrò soprattutto quale sia la
funzione genitoriale più tipica in ogni fase dello sviluppo. È chiaro che si tratta di uno schematismo: le funzioni genitoriali sono tante e persistono in tutte le
tappe dello sviluppo, ma ci sono alcune funzioni genitoriali che emergono in
maniera preminente in alcune fasi dello sviluppo proprio come compiti che i
135
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
genitori hanno in maniera prioritaria perché hanno un figlio di quell’età.
Credo che con gli esempi sarà più facile capire. Perché dico questo? Perché
è chiaro che un bambino, un soggetto in età evolutiva che vive la separazione dei genitori, secondo l’età in cui vive quest’esperienza sentirà particolarmente minacciata quella funzione genitoriale, quella che è prevalente in quel
momento, quella che emerge da tutte le altre come più significativa per lui in
quel momento ed in base a questo terrà una serie di comportamenti, di possibilità adattive.
Su questo vado subito a mettere il primo lucido così credo che si chiarisca
quello che voglio dire.
Prima infanzia: il bambino nella prima infanzia definita, secondo criteri tradizionali di tipo psico-sociale, da zero a cinque anni, cioè la fase che precede l’inserimento scolastico, che precede l’età scolare in senso stretto. É vero
che i bambini cominciano ad andare alla scuola materna ben da prima ma
questo viene ancora connotato con la prima infanzia, proprio perché comunque la scuola materna non mette in campo tutta una serie di richieste, di bisogni, di competenze che sono tipiche invece della fase successiva. Se pensiamo al bambino in prima infanzia e lo pensiamo appunto alla luce di qual è la
qualità del rapporto genitoriale, la qualità emergente, preminente, che viene
attribuita alla funzione genitoriale, il tema della protezione è il tema centrale. La figura adulta, la figura genitoriale in prima infanzia, è una figura che
fondamentalmente è connotata da caratteristiche, da funzioni di tipo protettivo, dove per tipo protettivo intendo fondamentalmente riferirmi a quello che
Bowlby definisce con il concetto di “base sicura”, cioè alla teoria dell’attaccamento in cui il comportamento di bisogno, il comportamento di ricerca del
bambino della figura adulta è supportato in modo complementare dal comportamento protettivo, accudente del genitore.
Questo schema, attaccamento/accudimento è lo schema tipico della prima
infanzia. Uno schema assolutamente prevalente nella prima infanzia dove
con prevalente non intendo dire che non si attivino altri schemi comportamentali in quell’età. Certo che si attivano. Cominciano ad attivarsi schemi
agonistici, il rifiuto, il no e quant’altro, le prime esperienze, le piccole esperienze di prima socializzazione ecc., ma l’elemento emergente è quello della
funzione protettiva, richiamato frequentemente, richiamato con la massima
frequenza.
L’attivazione di una minaccia, come l’esperienza della separazione, va a toccare la sicurezza del mantenimento di quella funzione dell’adulto per il bambino. Il bambino con le famose antenne, che tutti quanti gli riconosciamo,
immediatamente si allerta rispetto alla percezione di una figura adulta meno
disponibile a questa funzione protettiva e rispetto a questo mette in atto una
serie di comportamenti.
Questi comportamenti, ripeto, sono dettati dall’emergere di un’insicurezza
rispetto alla protettività e fanno proprio riferimento alla minaccia che è quella della paura della perdita, proprio in senso protettivo.
Sul piano comportamentale, che è l’ultima casella, sul piano comportamentale questo spesso viene messo in atto attraverso una serie di comportamenti di
richiamo che sono proprio i comportamenti di richiamo alla vicinanza, di
richiamo alla protezione.
136
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Come dire: sono i test che il bambino fa rispetto a vedere se la figura adulta
è disponibile per lui e quanto, e sono tutti quei tipici comportamenti che noi
spesso definiamo con un termine generico, regressioni, per usare un termine
ma che in realtà non sono altro che quei piccoli passi indietro rispetto alle
competenze acquisite che denotano proprio il testare la disponibilità della
figura adulta ad intervenire immediatamente a protezione.
I piccoli episodi di enuresi sono un classico in questa fascia di età, il ritornare indietro sul controllo degli sfinteri è un evento assolutamente normale in
una fase di questo genere che ha proprio il significato di un richiamo all’accudimento più stretto, alla presenza più vicina del genitore di cui si percepisce un distanziamento, una minore qualità protettiva. Credo che su questo
possiamo andare avanti.
Cosa accade nella seconda infanzia? La seconda infanzia è caratterizzata dal
punto di vista della figura adulta, della figura genitoriale, dall’emergere più
in primo piano delle funzioni di orientamento.
Potremmo parlare di funzioni normative dell’adulto, cioè dell’adulto genitore ovviamente, che si propone e che viene vissuto un po’ come il modello da
seguire e da imitare, colui o colei che in qualche modo detta le fasi dell’esperienza, detta le regole dell’esperienza.
In questa fascia di età entra in maniera molto forte il mondo esterno, dove per
molto forte intendo entra il mondo esterno con tutte le richieste di prestazioni
che il mondo esterno fa. Èla fase tipica in cui il bambino comincia ad essere
sollecitato a mantenere livelli prestazionali che siano soddisfacenti per lui, per
i suoi genitori, per il suo ambiente scolastico, per il suo ambiente di amici.
Per prestazioni si intende una serie di elementi, non soltanto la prestazione
scolastica in senso stretto, ma anche la prestazione sportiva, l’essere riconosciuto nel club dei pari e quant’altro, in cui l’elemento normativo, inteso come
cosa gli viene richiesto, è assolutamente in primo piano e l’adulto genitore è
la figura di riferimento proprio rispetto all’orientamento in questo mondo.
Si potrebbe dire, in altro modo, che il bambino affronta il mondo accompagnato dalla bussola che gli fornisce il genitore. Il genitore svolge una funzione di bussola che indica la direzione, ed il riferimento a questa bussola è continuo, importante, fondamentale.
Rispetto a questa funzione orientante, ecco allora una possibile esperienza di
minaccia nel momento in cui il bambino ne percepisce il venire meno e, ripeto, il venir meno non vuol dire lo sparire perché qui parliamo di soggetti in
età evolutiva dove questo venir meno è anche una piccola percezione di
diversità.
Non è che nella separazione il genitore cessa da oggi a domani di essere protettivo, di essere orientante e tutto quello che vedremo dopo nelle altre fasce
di età, ma c’è il problema di cali di qualità, di variazioni di qualità del modo
in cui l’adulto esercita queste sue funzioni che sono estremamente significative per il bambino, e che vengono immediatamente colte ed essendo colte
attivano una serie di comportamenti, una serie di aspettative, di bisogni.
L’effetto, la conseguenza di una minaccia a questa funzione orientante dell’adulto, è quella di un’insicurezza legata appunto al ruolo di guida.
Vedete che qualità diversa, anche prima parlavamo di insicurezza rispetto
alla protettività. Adesso parliamo di insicurezza rispetto al ruolo guida del137
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
l’adulto, la famosa bussola che ad un certo punto comincia a non segnare
tanto più il Nord, comincia a ballare in varie direzioni e che ha come effetto
immediato che cosa? La paura dell’esposizione all’esterno, sempre rifacendosi alla teoria dell’attaccamento, alla teoria di Bowlby, la famosa concettualizzazione di Bowlby della base sicura che è la risorsa attraverso la quale il
bambino può permettersi di esplorare il mondo, avendo acquisito la sicurezza dell’adulto dentro di lui nella fase della protettività e la presenza comunque di una guida che può permettersi di tenere un pochino più lontana, da un
punto di vista fisico, ma che sente che l’accompagna comunque.
Questo è il concetto fondamentale di base sicura la cui minaccia determina
una maggiore insicurezza proprio nell’affrontare il mondo esterno dove questa insicurezza, la metto tra parentesi perché, è molto interessante, a volte si
carica di aspetti come la vergogna.
La vergogna è legata a quale elemento? È legata ad un elemento di insicurezza che si teme poi condannata, mal giudicata da altri.
È lo sguardo del gruppo che ci fa sentire inadeguati, quindi a partire da una
percezione di propria inadeguatezza, l’esposizione al gruppo che può cogliere questa inadeguatezza è fonte di un’emozione molto penosa, soprattutto in
questa fascia di età così attenta ai livelli prestazionali, ai confronti.
I bambini della seconda infanzia sono quelli che fanno le graduatorie. A che
punto sto io nel basket, nel pallone, nella scuola ecc., o negli occhi carini o
nel vestirmi eccetera. Il confronto scatta immediatamente ed un confronto
che si sente inadeguato è facilmente fonte di un’emozione penosa che è quella della vergogna, con una serie di conseguenze comportamentali che sono
quelle che poniamo sempre nell’ultima casella del lucido, che anche qui possono essere di polarità opposta perché l’utilità di queste chiavi di lettura è che
poi non danno soluzioni di tipo meccanicistico perché noi non sappiamo a
priori, e non possiamo saperlo ed è giusto che non lo sappiamo, se un bambino in questa fascia di età risponderà comportamentalmente a questo tipo di
emozioni, a questo tipo di sensazioni con un maggior ritiro o con una maggiore spinta aggressiva nei confronti del gruppo.
Non lo sappiamo veramente, quello che però è importante per noi è l’osservazione di questi comportamenti, perché poi noi, quando osserviamo le cose,
partiamo sempre da quest’ultimo punto, facciamo il percorso al contrario.
Noi cosa vediamo? Vediamo un bambino che comincia ad aver paura di andare a scuola, che la mattina vomita, che gli viene il mal di testa, che mette in
atto tutta una serie di comportamenti di ritiro dall’esperienza esterna oppure
vediamo un bambino che comincia a picchiare i compagni, che comincia a
rispondere male alla maestra, che fa lo strafottente, che diventa iperattivo,
che cioè comincia a mettere in atto una serie di comportamenti che nell’asse
tipico di quell’età, cioè l’asse legato alla maggiore conoscenza del mondo,
maggiore confronto con gli altri, diventa inadeguato, in un modo o nell’altro.
Per noi l’importante è dare una lettura coerente con questo tipo di situazione.
Un bambino che fa questo a 8, 9 anni non è come quello che fa un adolescente a 14, che magari ha un comportamento simile. È fondamentale questa
distinzione. È fondamentale riferire questo a quelle che sono le caratteristiche proprie di quella fase dello sviluppo e di quale funzione genitoriale sente
minacciata più specificamente quel bambino, rispetto alla quale quel compor138
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
tamento è di nuovo comportamento di richiamo ad una figura genitoriale, che
riassuma su di sé il ruolo di bussola, di orientamento che viene minacciato
dall’esperienza di separazione, per le condizioni in cui magari il genitore
vive l’esperienza di separazione.
Passiamo al lucido successivo. Parliamo della pre-adolescenza.
Una parentesi su questo. È molto importante in questo tipo di ottica che vi sto
proponendo tenere distinta la pre-adolescenza dall’adolescenza, che spesso
invece si trovano esposte in una concettualizzazione unica, che non fa questo
tipo di distinzione. Personalmente, invece, trovo la distinzione estremamente utile ed estremamente importante per tutta una serie di motivi.
Innanzitutto perché basta farsi la propria esperienza (non solo di avere figli o
non avere figli ma anche di figli di amici, parenti o quant’altro) che sono
fasce di età, quella da 11 a 13 e quella da 14 a 18, estremamente diverse per
tutta una serie di motivi e quindi metterle tutte insieme nel calderone dell’adolescenza fa diventare l’adolescenza questa roba mostruosa che spesso ci
viene presentata.
Fatto così già comincia ad essere un po’ meno mostruosa. Dobbiamo centrare degli aspetti più specifici ed anche il tipo di problema evolutivo che ha il
ragazzo ed il tipo di problema genitoriale, il tipo di compito genitoriale che
propone alle figure adulte è abbastanza diverso.
La pre-adolescenza si connota fondamentalmente nella fase delle trasformazioni somatiche. Questa è la pre-adolescenza, cioè la ridefinizione del sé corporeo, diremmo in termini psicologici o di tipo psico-sessuale che è tipica in
questa fascia di età. La fase successiva, quella dell’adolescenza, è problema
della ridefinizione dell’identità complessiva del ragazzo a partire dalle trasformazioni che sono già avvenute.
Quindi la distinzione è una distinzione fondamentale su questo punto, proprio
perché il compito di sviluppo tipico della pre-adolescenza per il ragazzo è
quello della definizione del sé corporeo quindi di accompagnare, elaborare le
trasformazioni fondamentalmente fisiche che attraversa. La funzione fondamentale in questa fase d’età del genitore l’abbiamo definita come funzione di
rispecchiamento, ovverosia il genitore è colui o colei, e qui la differenza di
genere comincia a diventare ancora molto più importante di prima ovviamente, colui o colei nel quale il ragazzo si specchia, prende a modello rispetto ad
un elemento molto specifico che non è tanto il riferimento normativo di cui
si parlava nella fase precedente, ma proprio è il riferimento a come è fatto e
come sto diventando io.
È una funzione molto sottile spesso, a volte più chiara, più esplicita a volte
molto, molto implicita, molto nascosta. Non tutti i pre-adolescenti fanno i
giochi di ruolo sessuale con i genitori, o si mettono i vestiti della madre, o
fanno cose di questo genere. Alcuni lo fanno, altri non lo fanno, ma laddove
questo accade, è più chiaro quello che sta succedendo, ma comunque succede in ogni caso, questo guardare al genitore come modello di riferimento
somatico e quindi con l’idea di acquisire quelle caratteristiche somatiche
piuttosto che altre.
Il papà che purtroppo è “pelato”, ma io come sarò? Sarò come mio padre, oppure la mamma che ha certe caratteristiche fisiche ecco, questi sono gli elementi
in gioco in questa fase molto delicata, cioè come il genitore rimanda con mag139
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
giore tranquillità, maggiore serenità, con allarme, tutto quello che volete, il
senso di questa modificazione somatica che avviene sotto i suoi occhi.
Il problema del venir meno di nuovo - lo schema è sempre lo stesso - del sentir minacciata questa funzione provoca l’allarme e l’insicurezza anche qui,
rispetto al fatto che queste trasformazioni possono non essere riconosciute,
passare inavvertite, non essere colte, apprezzate da un interlocutore attento
che per essere tale non è necessario stia ore a parlare con il figlio, la figlia
delle trasformazioni somatiche ma è l’occhio che fa da specchio e con che
occhio papà o mamma guardano ai miei cambiamenti.
Il venir meno, o l’essere più insicuro, di questo occhio è immediatamente
avvertito dal ragazzo o dalla ragazza e provoca una serie di effetti che fondamentalmente possiamo riassumere nell’idea di un’esperienza di un vuoto,
cioè di una mancanza di una superficie specchiante che possa rimandare un
qualche segno, un qualche segnale rispetto a questo processo di trasformazione e questo - anche qui di nuovo la strada può essere duplice sul piano comportamentale, come dicevamo prima - questo può provocare una maggiore
accentuazione del tema della trasformazione o il tentativo di blocco del tema
della trasformazione.
Se non ho qualcuno che mi guarda mentre sto cambiando posso cercare di
bloccare il mio cambiamento, quindi cercare di congelare le trasformazioni
somatiche.
I ragazzi sono bravissimi a fare questo, cercano di dissimularle, mantengono
l’atteggiamento prevalentemente infantile. Negli estremi le ragazze possono
diventare anoressiche, ma non volevo parlare di patologie, da bravo psichiatra ci sono caduto (è un estremo ma lasciamolo stare un attimo) ma un tipo di
livello comportamentale può essere quello che cerca di annullare, di dissimulare la trasformazione. Sono ancora un bambino sia negli atteggiamenti esteriori, nei comportamenti, sia anche proprio nel cercare fisicamente nel modo
di vestirmi, nel modo di conciarmi, di eliminare da me, cacciare da me questa figura.
L’altro modo, il modo opposto: non c’è nessuno che mi guarda, va beh, chi se
ne frega, mi faccio guardare soltanto dai miei amici ed accelero tutto quello
che in me ci può essere di trasformazione somatica. Comincio a vestirmi da
più grande, accentuo con il trucco determinati aspetti, faccio il macho, vado
in palestra tutti i giorni in modo che mi vengano i muscoli di un certo tipo
ecc., cioè tutte quelle trasformazioni che sono appena accennate, ancora incerte, vanno un giorno avanti, l’altro giorno indietro, vengono dirottate, accelerate verso l’accelerazione della trasformazione. Anche qui con funzioni, visto
che parliamo di fisiologie, me lo ricordo io per primo, di richiamo: “Ma si
accorgerà mamma che mi sto mettendo dieci chili di trucco in faccia? Mi dirà
qualche cosa?” “Si accorgerà papà che ho un muscolo che forse stavolta faccio una partita a tennis e magari lo batto e faccio il matto pur di riuscirci”
oppure rimarrà assolutamente disattento, non coglierà minimamente questo
oppure mi chiudo, faccio il bambino, la bambina. Porto ancora i codini, le
treccine magari anche se ho 12, 13 anni perché questo mi consente di non
espormi a qualcosa che percepisco come insicuro, come probabilmente non ci
sarà, che non verrà colto, esperienza particolarmente penosa ovviamente.
Proseguiamo. Nell’adolescenza, cioè fra i 14 - 18 anni, perché è importante
140
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
mettere un limite al livello superiore dell’adolescenza. Oggi si sentono dire
un mucchio di sciocchezze su questa storia dell’adolescenza. L’adolescenza
è una fascia dello sviluppo limitata nel tempo. Ha una fine, perché psicologicamente ha una fine.
Questo discorso dell’eterna adolescenza è un altro tipo di discorso che confonde il compito di sviluppo dell’adolescente da quello reale proprio della
ridefinizione di sé, della propria identità, della propria persona con quello del
distanziarsi fisicamente dalla propria famiglia di origine.
Non è un compito evolutivo dell’adolescente quello di andarsene da casa.
Non è lo svincolo da casa il compito evolutivo dell’adolescente.
Il compito evolutivo dell’adolescente è quello di differenziarsi, di identificarsi come persona separata, diversa dalle persone che lo circondano, che lo
hanno sempre circondato, con cui si è prevalentemente identificato. Questo è
il suo compito di sviluppo, quell’altro sarà dopo e quindi è bene che, concettualmente, noi sappiamo che l’adolescenza ha un inizio ed una fine. Non è
indefinita nel tempo, anche se poi potremmo dire che ci sono gli eterni adolescenti, ma questo è un altro discorso.
Un conto sono i comportamenti e un conto sono le fasi dello sviluppo psicologico. Nell’adolescenza qual è la funzione adulta, la funzione genitoriale
che balza in qualche modo in primo piano?
È quella del riconoscimento, vedete la leggera ma importante diversa accentuazione da quella di prima. Prima parlavamo di rispecchiamento ed adesso
parliamo di riconoscimento.
Che differenza c’è tra rispecchiarsi e riconoscersi? Rispecchiarsi ha ancora a
che fare, come dicevo prima, con l’assunzione di un’identità uguale.
L’identità contiene questo significato, la accentuiamo dicendo uguale cioè
“come”. Sono come mamma, sono come papà.
Qui il problema è un altro. Il problema è come posso essere io stesso riconosciuto come tale da mio padre e da mia madre quindi riconosciuto con le mie
somiglianze e con le mie differenze che entrambe c’entrano, entrambe sono
importanti, ma poi fondamentalmente riconosciuto come qualcuno di diverso
da e di diverso da nel complesso dell’essere, non soltanto se porto i capelli in
un modo, gli occhi in un altro o sono grosso, o sono magro o quant’altro,
quindi questa funzione di adulto, di genitore che in qualche modo ha il compito di dare riconoscimenti al ragazzo cioè di segnalare come lo vede, come
la vede. Ed attenzione, qui una cosa molto importante è presentare se stesso
e se stessa come si è perché una caratteristica fondamentale che l’adolescenza propone ai genitori è che non vanno più bene i modelli. Devono entrare in
campo le persone.
L’adolescente non ha bisogno del papà modello che gli dice “ok così va bene,
così va male”, non sa assolutamente che farsene.
Ha bisogno di un papà persona, di una mamma persona che presentino se
stessi nel momento in cui si rapportano a lui o a lei nel segnalare come lo
vedono e, quindi, attenzione agli equivoci.
Non è che i genitori degli adolescenti non devono più segnalare al ragazzo
come lo vedono, come la vedano, come la pensano su quello che lui o lei sta
facendo ma lo devono fare presentando se stessi. Lo devono fare attraverso
un’autenticità: io sono così, utilizzando molto di meno o per nulla, se possi141
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
bile, i filtri del modello, i filtri della “funzione” genitoriale.
C’è un altro modo interessante di concettualizzare questo tema del riconoscimento come funzione genitoriale in adolescenza che è un po’ quello della
funzione di limite, purché ci capiamo sul concetto di limite.
Che vuol dire il concetto di limite rapportato ad un genitore rispetto al figlio
in adolescenza? Vuol dire che rispetto al problema dell’adolescente di definire i propri confini, dove sono ancora io, dove non sono più io, questo intendiamo il confine del “sé”, la funzione limitante del genitore è “io sono così.
Io arrivo fino a qua e non arrivo più in là. Io ti posso dire questo ma quest’altro è roba tua, di cui parlarmi ma che non sto vivendo io. Non posso viverlo
io al posto tuo”.
Quindi per incarnare in maniera efficace la funzione limite nei confronti di
un adolescente proprio in questo significato, cioè chi aiuta a costruire i propri limiti, l’adulto fondamentalmente deve presentarsi, e qui va il gioco di
parole, come limitato: io posso definire te con certi limiti proprio perché sono
io limitato. Non sono onnipotente nei tuoi confronti e l’uscita positiva dall’adolescenza è proprio questo cioè la ricollocazione del genitore non nell’area
dell’onnipotenza, ma nell’area della potenza, cioè nell’area in cui può fare
delle cose proprio perché non può farne altre. Proprio perché non posso farle
tutte, allora posso farne alcune. Quest’idea del limitato che limita, quindi chi
limita in quanto limitato, è l’idea chiave dell’aiuto che l’adulto può dare alla
crescita dell’adolescente.
Perché avevo qualche esitazione ad usare il concetto di limite? Perché a volte
da un punto di vita psico-educazionale questo concetto viene visto come l’adulto che deve mettere le regole, così per citare un luogo comune, articoli di
giornali e quant’altro. “Il problema dell’adolescenza è che non ha l’adulto
che mette le regole”.
Attenzione a questo discorso nel senso che per regole intendiamo norma calata che in qualche modo deve essere proposta, deve essere rispettata, non ci
siamo con il compito di sviluppo dell’adolescente.
Se per regole intendiamo regole di vita, modalità di vita incarnata e presentata nella sua realtà, nella sua autenticità stiamo facendo un altro discorso,
molto più pertinente, allora il problema non è di dare i decaloghi agli adolescenti, non sanno che farsene.
Sbagliamo proprio tappa del ciclo evolutivo se consideriamo il limite, come
qualcuno che ti chiuda la porta di casa in modo che non puoi uscire. Non è
questo il tema. Il tema è se la persona dell’adulto può costituirsi, incarnando
lei o lui, il limite. Tema di non semplice soluzione ma che riguarda, mette in
gioco le persone e non le regole. Il problema di una difficoltà nel processo di
riconoscimento reciproco che poi, di fatto, si tratta di un percorso di riconoscimento reciproco, è quello di una possibile percezione, di un mancato o di
un incerto, insicuro riconoscimento reciproco e qui di nuovo, vedete, lo schema si ripete, anche se con modalità e con significati diversi, ancora questo
può portare a due tipi di scelte adattive, di soluzioni adattive: la rinuncia o
l’esagerazione.
Nella difficoltà di percepire l’altro come presente, come riconoscente, come
limite se vogliamo usare il concetto di prima, posso costruirmeli in più da
solo i limiti, quindi chiudermi nella possibilità di riconoscermi soltanto per
142
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
conto mio, l’autoreferenzialità tipica degli adolescenti che non è né patologica né disfunzionale. Hanno bisogno di tutte e due. È tipico dell’adolescente
stare ore chiuso in camera e poi trascorrere due pomeriggi di fila che non si
vede mai, solo con gli amici e sono due parti di una dinamica assolutamente
fisiologica. Il riconoscimento ottenuto tramite la semplice autoreferenzialità
ed il riconoscimento ottenuto soltanto con lo sguardo degli amici addosso.
Due facce delle stesso processo assolutamente fisiologiche. Il problema può
essere l’esasperazione di una di queste due facce. Se l’altro non mi riconosce, se l’altro ha difficoltà a riconoscermi, lo posso fare soltanto chiuso nella
mia stanza e posso essere soltanto io il riferimento per me stesso; oppure
posso trovarlo soltanto fuori, in tutte le esperienze esterne possibili ed immaginabili, anzi con una ricerca magari frenetica di esperienze nelle quali mi
posso riconoscere, posso ottenere riconoscimento non da un altro ma dall’esperienza in sé e per sé, dall’oggetto, dalla cosa, da una qualunque realtà
esterna che mi possa in qualche modo gratificare sotto il segno del riconoscimento. L’esasperazione di questi due fronti, che sarebbero di per sé del tutto
fisiologici nello sviluppo dell’adolescente, il fronte interno ed il fronte esterno se vogliamo dire così, può essere una conseguenza della difficoltà nel trovare l’altro adulto disponibile a questo riconoscimento dove, ripeto, anche
qui ancora non stiamo parlando di sviluppi patologici o disfunzionali di per
sé. Stiamo parlando di tentativi di richiamo dell’altro alla sua funzione: che
fa mio padre se comincio a tornare a casa alle due di notte tutte le sere? Mi
chiude con dieci mandate le porte di casa, che fa? oppure mi mette lì inchiodato, mi parla per cinque ore, mi mette un pistolotto che non finisce più però
si vede che non gliene importa niente che sta lì annoiato con la faccia appesa che sta pensando all’avvocato che lo aspetta nello studio per discutere la
separazione con mamma? Per citare un esempio a caso.
L’occhio anche qui, il modo, perché se voi chiedete a me: ma quale è giusto,
fare il pistolotto o chiudere a chiave? Non lo so, nessuna delle due cose e
tutte e due, probabilmente. Il problema è se questo dà una possibilità di riconoscere l’altro come portatore di istanze, bisogni, problemi.
Spesso noi diciamo, quando lavoriamo terapeuticamente in queste situazioni,
per esempio, è capace l’adulto di fare domande all’adolescente, cioè di interrogarlo sul suo stato dove il fare domande è già nell’ottica di dire: c’è un
riconoscimento di un qualcosa che è solo tuo e che non è mio, di cui mi puoi
mettere a parte se vuoi, che cosa ti piace tanto di questa esperienza che stai
facendo fuori. È possibile che un padre, che un genitore chieda una cosa del
genere ad un figlio, oppure si ponga solo il problema se chiudere la porta di
casa a chiave oppure chi se ne frega, anche se torna la mattina dopo, non fa
niente. Ecco, ripeto, queste forme di richiamo sono tipiche dell’adolescenza.
Spesso un nostro errore è quello di considerarle già come un comportamento
di autonomizzazione a sé stante. Gravissimo errore considerare questo comportamento come un tentativo di autonomizzazione precoce.
È un errore perché non tiene conto del bisogno fondamentale che è sempre
quello del riconoscimento che la figura adulta genitoriale possa avere nei
suoi confronti, quindi è semplicemente un ripiego adattivo, che può essere
disfunzionale nel tempo.
Infine, l’esperienza della giovinezza, il cui compito di sviluppo è esattamen143
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
te quello di cui prima si parlava a proposito dell’adolescenza in modo improprio, cioè l’effettiva autonomizzazione rispetto alle figure familiari significative dove l’elemento chiave diventa la funzione di reciproca personificazione, ossia la considerazione dell’altro come una persona formata con la quale
si entra in rapporto come persona.
Questo presuppone tutto un meccanismo precedente, il rispecchiamento ed
anche il riconoscimento per l’appunto, ma arriva adesso alla concettualizzazione, all’incarnare la visione dell’altro, il quale effettivamente è un’altra
persona, dove questo concetto di persona è un concetto molto interessante
perché poi, vogliamo usare un altro termine: qual è poi la funzione anche più
pratica in cui questo si manifesta, in cui l’adulto poi interviene.
A me piace ricordarla un po’ come una funzione di radicamento cioè l’adulto rispetto al giovane adulto, il genitore rispetto al giovane adulto svolge un
po’ quella funzione di rappresentare il punto di appartenenza, la radice e questo è molto importante perché nessuno si autonomizza senza al tempo stesso
mantenere il suo senso di appartenenza a qualche cosa, a qualcuno, a qualche
situazione.
Fa parte della buona autonomia la definizione di una buona appartenenza e la
funzione dell’adulto, soprattutto in questa fascia di età, che tende a non finire mai, è la funzione del rappresentare l’esperienza dell’appartenenza.
Un’esperienza dell’appartenenza che, per esempio, tollera che ci sia una
distanza, e tollera serenamente che ci sia una distanza, o che si mantiene a
sua volta sufficientemente tranquilla, sufficientemente buona da non sentire,
da non essere sentita come richiamo colpevolizzante alla distanza.
Qui credo che sia inevitabile citare quelle che si chiamano le separazioni a
“nido vuoto”, le separazioni di persone che hanno già i figli giovani adulti,
spesso magari anche usciti di casa.
Spesso le persone si chiedono quando sia peggiore la separazione per un
figlio, con un figlio piccolino poverino, no aspettiamo un attimo. Non ci
separiamo quando è troppo piccolo che poi dopo… Guardate quelli che reagiscono peggio sono questi qua, cioè il sentire in qualche modo minacciata il
sentire “rovinata” da un qualche elemento conflittuale, da elementi di disagio, di sofferenza di uno o dell’altro genitore, da una separazione, appunto,
l’esperienza che rappresenta fisicamente la propria appartenenza è sconcertante, spesso disorientante rispetto a questi giovani che stanno lasciando
casa, che stanno costruendo, ad esempio, i loro legami affettivi.
Questo spesso noi lo vediamo come effetto negativo rispetto alla possibile
costruzione di nuovi legami affettivi. I ragazzi giovani che vivono l’esperienza di separazione dei loro genitori ormai ad una certa età hanno proprio un
vissuto di minaccia a questo senso fondamentale di appartenenza tranquilla
che consente loro di andare per il mondo in maniera più tranquilla ed anche
qui avvertono, e di nuovo torniamo alla doppia possibilità, o il senso dell’espulsione: “Basta, in quella casa non ci voglio più rientrare, ormai mi autonomizzo precocemente, magari vado a fare un matrimonio che dopo non si
rivelerà il migliore possibile. Affretto i tempi di una maternità o di una paternità. Faccio l’incidente di percorso, come si dice”. Spesso questi incidenti di
percorso hanno proprio un senso psicologico profondo. Un tentativo forzato,
forzoso di creare delle autonomie, laddove questo invece non è sostenuto da
144
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
un effettivo processo in questo senso. Oppure, di nuovo, il rientro allarmato,
il rientro preoccupato dentro casa. Il rinchiudersi, essere di nuovo intrappolato in dinamiche che si sente di dover curare, di dover alleviare, di dover in
qualche modo risolvere con un senso di colpevolizzazione.
Questo volevo sottolineare: il vissuto di confusione, tipico di questa fascia di
età, nel momento in cui una minaccia come la separazione viene ad essere
posta a questa funzione che, anche se sembra così marginale, in realtà è molto
importante dei genitori che, rimanendo a casa, costituiscono comunque l’elemento radicante dell’esperienza anche in questa fascia di età.
Non parliamo poi di tutte le situazioni, socialmente attuali, di prolungamenti indeterminati della permanenza, della convivenza tra i genitori e questi giovani adulti. In caso di separazione dei primi, a maggior ragione i secondi
risentono di questo tipo di minaccia nel senso che si confondono completamente i ruoli. Vengono richiamati magari a ruoli precedenti, a fare i figli in
maniera indefinita nel tempo e quant’altro.
Realtà questa attuale proprio per la tendenza a permanere spesso in casa a
lungo per vari motivi dei quali non parlerò perché è un discorso che ci porterebbe altrove. Anche in questo caso possono ricorrere le due possibilità, o di
un’accentuazione impropria dello svincolo o di un blocco delle istanze di
svincolo.
Dunque ho concluso questa prima parte che mirava a presentarvi uno schema, una griglia, o meglio un’asse della griglia, ossia quella vista dal punto di
vista del figlio, nel senso della individuazione delle diverse condizioni che il
figlio vive nelle varie fasi dello sviluppo e del tipo di minaccia che può
avvertire alle sue condizioni di sviluppo a seconda che si trovi in una o nell’altra delle fasi dello sviluppo stesso dall’intervenire di una separazione.
Bisogna però chiarire una cosa. Quanto detto non è valido soltanto quando la
separazione avviene in quella fase dello sviluppo. Chiaro che vale in quel
caso ma vale anche quando, a separazione magari già avvenuta in tempi precedenti, in altra fase dello sviluppo c’è un riaccentuarsi di un qualche elemento che verrà vissuto con le modalità tipiche di quella età. Un bambino che
ha vissuto “bene”, o è riuscito ad un buon adattamento, la separazione dei
suoi genitori quando era in prima infanzia, nel momento in cui, per qualche
vicenda del processo di separazione, viene riattualizzata una conflittualità,
dei disagi o qualunque altra cosa quando egli si trova in adolescenza, per fare
un esempio, vivrà quel tipo di esperienza con le caratteristiche proprie dell’adolescente. Quello che è importante in questo schema è che tipo di percezione si ha del tipo di minaccia alla funzione del genitore che il figlio vive
secondo la fase evolutiva in cui si trova.
Se poi questa minaccia sia la separazione all’inizio o la separazione avvenuta a 10 anni, ma che si riattualizza per una serie di motivi, è secondario.
Quello che è importante è osservare un soggetto in età evolutiva e avere in
mente in quella fase quali dinamiche di sviluppo, quali bisogni, avrà prevalentemente attivi piuttosto che altri rispetto alla figura adulta.
Adesso dovremo passare all’altra griglia, all’altro asse della griglia cioè cosa
fanno questi genitori nel momento in cui si separano e nel corso della loro
esperienza di separazione, cioè che tipo di binari propongono ai figli, binari
nei quali i figli dovranno in qualche modo incanalarsi per cercare poi le loro
145
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
strategie attive, le loro condizioni di migliore possibile adattamento alla
separazione dei genitori.
Per fare questo dobbiamo introdurre questo concetto, su cui dovremo spendere un pò di tempo, delle modalità di gestione della separazione.
È un concetto che consideriamo della massima importanza perché è un concetto che tende a superare quelle che sono alcune semplificazioni insoddisfacenti.
Quale semplificazione soprattutto tende a superare questa concettualizzazione? Quella della conflittualità fondamentalmente, cioè quello che diciamo
sempre: è il problema della conflittualità che permane, che si cronicizza nella
separazione.
Quello che vi dico è: attenzione a parlare sempre genericamente di conflittualità.
Come vi dicevo all’inizio, attenzione, non è che il bambino è sempre conteso nelle separazioni. Può essere tante cose che appunto stiamo piano, piano
vedendo.
Entrare un pochino di più approfonditamente nei vari modi che le persone
hanno di gestire la loro separazione non vuol dire rinnegare il fatto che ci sia
una conflittualità ma vuol dire approfondire quali sono le forme che questa
conflittualità prende perché in base a queste diverse forme poi i figli dovranno regolarsi per gestire la loro vicenda complessiva, il loro rapporto con i
genitori e, secondo le forme che prende la conflittualità, saranno i genitori
stessi ovviamente a gestire il loro rapporto con i figli in determinate maniere piuttosto che in altre.
Tra l’altro questo è un sistema utile, lo troviamo utile anche per un’altra considerazione molto semplice: non è vero che c’è sempre evidente la conflittualità.
Come prima dicevo: non è vero che il bambino è sempre conteso nelle separazioni, non è vero che c’è sempre la conflittualità. A volte non c’è proprio,
a volte è mascherata ecc., e vedremo anche questo, quindi quando parliamo
di modalità di gestione a cosa intendiamo riferirci? Intendiamo riferirci alle
modalità di interazione tra i due coniugi, o ex coniugi, che sono coordinate
da entrambi, quindi sono portate avanti da entrambi proprio nel loro modo di
comportarsi reciproco l’uno con l’altro.
Sono innanzitutto delle risposte adattive. Che vuol dire, sono risposte adattive? Vuol dire che a partire dall’esperienza della separazione, che è esperienza centrata fondamentalmente sul vissuto personale di novità in senso positivo o negativo che sia che la separazione comporta, le successive modalità,
le successive risposte adattive alla separazione non è vero che possono essere soltanto individuali.
C’è una quota di risposta alla separazione che fa riferimento ancora al rapporto, all’interazione tra i due. I due continuano ad interagire, lo sappiamo
bene. Continuano ad interagire anche se non si sentono mai direttamente.
Vedremo che una delle modalità sarà la sistematica interazione attraverso
terzi, ma comunque l’interazione tra i due è sempre attiva ed allora, proprio
perché l’interazione è sempre attiva, è per noi fondamentale differenziare con
quali modalità è attiva questa interazione perché queste modalità definiranno
la cornice di riferimento anche per i figli. Quindi sono risposte adattive nel
146
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
senso che sono il modo in cui le due persone, a partire dall’esperienza di
separazione, organizzano la loro interazione. Non tutta la loro vita, intendiamo. Organizzano il rapporto tra di loro, quello che rimane del rapporto tra di
loro.
Con altre persone si comporteranno in tante altre maniere ma il rapporto tra
di loro rimane definito da alcune caratteristiche e per questo diciamo che
sono le modalità che segnano il passaggio dall’evento al processo cioè segnano quel passaggio in cui, a partire dalla cesura, dalla frattura dell’esperienza
nel qui ed ora della separazione, le persone si organizzano nel tempo.
Vado oltre su questo, implicano il confronto, questo mi comporta l’apertura
di un’altra parentesi: noi parliamo di diverse polarizzazioni emotive e temporali adottate dai due partner. Ci perdo due minuti soltanto, che vuol dire? è
tipico di ognuno di noi, nel momento in cui si affronta un evento stressante
nella propria vita, cercare di affrontarlo con un’emozione ed una temporalità
prevalente. Che vuol dire?
Vuol dire che tra tutte le emozioni possibili noi ne “scegliamo” una a cui dare
maggior risalto rispetto alle altre: la rabbia, il dolore, la tristezza, la gioia.
Questo fa parte tipicamente dell’adattamento immediato a situazioni stressanti dove noi abbiamo bisogno di selezionare l’informazione e comportarci
in un modo univoco. Questo spiega perché le persone, soprattutto in imminenza di separazione, tendono a comportarsi un po’ sempre nella stessa
maniera. C’è chi è solo triste, c’è chi è solo rabbioso, c’è chi è solo contento
e così via. Sceglie nel panorama, nella gamma possibile di emozioni, una prevalente.
La temporalità, la polarizzazione temporale: anche qui descrive il fatto che,
oltre a scegliere un’emozione prevalente, scegliamo una dimensione temporale prevalente: passato, presente, futuro.
Ci sono persone che, di fronte all’esperienza critica scelgono di vivere soltanto nel passato, valgono solo i ricordi. La vita di oggi non viene minimamente considerata. Non parliamo nemmeno della progettualità, c’è solo il
ricordo, il rimpianto e quant’altro.
La polarizzazione sul presente è quel tipo di atteggiamento che consente soltanto di uscire a far la spesa, tornare, cucinare ed andare a dormire, non consente di parlare, di riattivare i ricordi né in qualche modo di progettare il
futuro.
La polarizzazione sul futuro è la fuga in avanti, il tentativo di non considerare l’esigenza di oggi né i ricordi, la storia, ma semplicemente proiettarsi in
maniera ipomaniacale sul futuro.
Questo è uno schema, per dire cosa? Per dire che le polarizzazioni emotive e
temporali sono tipiche di ogni individuo, ed ogni individuo se le sceglie per
conto suo.
Il problema è che nel tempo, proprio perché c’è comunque un’interazione tra
i due, devono in qualche modo cercare di incrociarsi e lo fanno con le modalità che vedremo, quindi sono modalità di gestione, sono frutto di una costruzione. Sono costruite da entrambi e hanno ovviamente, anche se non sempre,
una certa continuità con quello che faceva la coppia prima della separazione,
cioè come gestiva il rapporto e la conflittualità nel periodo precedente la
separazione.
147
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Tendono a diventare stabili nel tempo, coinvolgono i contesti di appartenenza che le rinforzano piuttosto che disincentivarle. Non sono, ripeto, e qui
rimane la mia concettualizzazione di fondo di oggi, disfunzionali in sé tranne una, vedremo quale, ma lo divengono nel momento in cui si irrigidiscono,
diventano ripetitive senza lasciare spazio ad altre modalità, si estendono a
tutto il campo relazionale.
Adesso che espongo quali sono forse tutto questo diverrà più chiaro.
Innanzitutto le elenco semplicemente, poi vedremo come ci si incastrano i
figli. Parliamo di quello che fanno gli adulti, ripeto, questo è l’elenco delle
modalità di gestione che anche qui, come tutte le tipologie, ognuno di voi ne
potrebbe dire altre cinque, altre dieci, un’altra, una di meno.
Ci è sembrato utile individuare queste cinque che ci sembrano poter in qualche modo comprendere un po’ tutte le modalità che abbiamo riscontrato nelle
persone: negoziazione, congelamento, esasperazione, spostamento e vittimizzazione ed adesso le consideriamo una per volta con le loro caratteristiche.
Negoziazione. La cosa importante di questa modalità di gestione è rassicurarci sul fatto che esiste in natura. Non è solo teorica. Ci sono per fortuna, e lo
sappiamo bene, anzi probabilmente sono la maggior parte. I casi che riportano i giornali sono invece, per fortuna, la minoranza ma ci sono un sacco di
coppie che riescono ad affrontare la loro separazione in termini negoziali. Gli
avvocati hanno la massima esperienza di questo, più degli psicologici, perché
di solito questi ultimi vedono invece quelli che non ci riescono, ma sicuramente non si tratta di un modello semplicemente teorico.
Ci sono, è una modalità di gestione del conflitto, della separazione presente,
diffusa. Molte persone, per fortuna ripeto, riescono a gestire la loro separazione con modalità negoziali. Quali sono le caratteristiche di una modalità
negoziale?
La modalità negoziale prevede innanzitutto che ci sia un riconoscimento, non
semplice ma comunque possibile. L’ex partner non è sparito dall’orizzonte,
come magari si desidererebbe, ma continua ad essere interlocutore e non solo
interlocutore, addirittura necessariamente interlocutore privilegiato riguardo
ad alcune questioni.
Queste questioni sono quelle che riguardano la rottura del rapporto, è importante questo perché la coniugalità permane sempre come filo conduttore dell’esperienza delle persone. Non è vero che se, dichiariamo che la coniugalità
tra me e te non c’è più, allora questa dimensione sparisce dalla nostra mente.
Non è un computer la nostra mente in cui c’è un file che possiamo cancellare quando vogliamo.
A volte queste metafore americane che tendono a presentarci la mente come
un computer ci distolgono dalla realtà, invece la realtà è un’altra: questi file
stanno lì e ci stanno eccome e ci rimangono sempre. Il nostro problema è
ricollocarli, non è cancellarli. E poi, ovviamente, c’è, in maniera più evidente, il problema della gestione della genitorialità.
Questi sono i temi sui quali in un rapporto negoziale si continua a dare riconoscimenti all’altro di interlocutorietà privilegiata perché c’è poco da fare: è
quello l’ex coniuge, è quello o quella il padre o la madre dei figli e questo
riconoscimento, nonostante la separazione, riesce ad essere mantenuto.
Quindi la dimensione negoziale presuppone innanzitutto questo tipo di pos148
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
sibilità.
Questo non implica che i coniugi che si separano devono essere i migliori
amici, queste sono cose un po’ televisive che a volte ci fanno confondere
circa il senso della negozialità.
La negozialità non è andare tutti insieme a mangiare la pizza o andare a fare
i Natali tutti insieme. Questa non è negozialità, vedremo poi cosa è, quindi
non sono gli attori che continuano ad avere questi buoni rapporti con tutti e
con chiunque. No, non implicano, ripeto, un buon rapporto con l’altro. Le
immagini negative dell’altro sono, non solo compatibili ma necessarie,
immanenti, sono lì. L’altra è una persona con cui si è vissuta una negatività.
Il problema della negozialità è se questa negatività debba abbracciare tutto il
campo dell’esperienza o possa permettere quello che si diceva prima, cioè il
mantenimento di un privilegio di interlocutorietà su alcune questioni, tanto è
vero che l’area della percezione negativa, l’area di conflittualità ovviamente
deve essere necessariamente limitata perché, se è estesa a tutto il campo, è
ovviamente impossibile mantenere un interlocutore privilegiato.
Il fatto che si possa anche mostrare non significa immaginare che l’altro sia
immediatamente pronto a saltarci addosso ed ad approfittarne quindi è possibile anche in un rapporto negoziale dichiarare “su questo non ce la faccio, su
questo mi sento in difficoltà. Ho bisogno di aiuto” e cose di questo genere. È
possibile, anzi, è necessario manifestare divergenze.
Negozialità non vuol dire annullamento del conflitto. Vuol dire un modo di
gestire il conflitto dove la divergenza è dichiarata, è esplicita. Vuol dire altresì, è quello che dicevo prima, che comunque i tempi, gli spazi condivisi, sono
limitati cioè non è la confusione rispetto a quello che è successo: non si capisce se stiamo ancora insieme, se siamo separati e quant’altro, ma c’è una
chiarezza sulla condizione dei temi e degli spazi, c’è il rispetto di aree intoccabili. Io parlo con te di cosa sta facendo nostro figlio ma certamente non ti
permetto di venirmi a chiedere se ho un nuovo partner o altro di questo tipo.
Quindi la negozialità presuppone che ci siano delle aree toccabili e delle aree
intoccabili e che questo sia condiviso e c’è ovviamente, lo dicevo prima, la
possibilità di un livello, benchè minimo ma comunque presente, di accettazione della realtà della separazione. Siamo separati e questa è una realtà che in
qualche modo stiamo accettando tutti e due ma ciò non vuol dire che la stiamo
accettando esattamente nella stessa maniera, esattamente con lo stesso vissuto.
Sapete benissimo, lo sappiamo tutti, che c’è sempre uno che la sente più
come subita, l’altro che la sente più come agita, promossa, non tanto sulle
carte ma soprattutto nei vissuti. Ma questo non vuol dire che non è possibile
allora riconoscere il fatto che siamo in questa nuova dimensione.
Queste erano le premesse per una possibilità negoziale. Vedremo poi che questi sono un po’ anche gli obiettivi che si pone la mediazione familiare, ovviamente.
Interessante questo tipo di modalità successiva, il congelamento, che è un po’
quella che ci siamo molto preoccupati di definire proprio in relazione a tutte
quelle situazioni, e sono tante, sono veramente tante. Non so la vostra esperienza ma la mia è che sono tante, ed in esse non c’è un dato emergente di
conflittualità visibile.
Quindi questa categoria del congelamento è stata pensata proprio grazie
149
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
all’insoddisfazione che la diagnosi generica del problema della conflittualità
nella separazione ci proponeva.
Ci sono un sacco di separazioni dove questo dato della conflittualità non c’è
ma dove, per esempio, ugualmente succedono molti problemi sui figli.
Che intendiamo per congelamento? Credo che il termine sia abbastanza efficace nella sua rappresentatività. Congelamento è il blocco sistematico di qualunque manifestazione esteriore della conflittualità. La conflittualità esplicita è un mostro da esorcizzare. Bisogna nasconderla, è pericolosa. È pericoloso litigare, è pericoloso far vedere che non si va d’accordo. Bisogna mantenere rapporti civili. Questa è spesso la frase, lo slogan che sovrasta a questo
tipo di modalità. Noi manteniamo comunque rapporti civili. In molti casi è
vero, in molti altri è meno vero.
Che cosa succede in questa modalità? L’ex partner è sicuramente un interlocutore possibile. Ci si parla, si va anche a mangiare la pizza insieme perché
la confusione dei livelli è tipica di questa modalità. Siccome dobbiamo evitare ogni manifestazione della nostra divergenza, del nostro contrasto, allora
è bene anche andare a mangiare la pizza fuori così i figli ci vedono che stiamo tranquilli, siamo bravi genitori, anche da separati. Non è che sto dicendo
che tutti i genitori separati vanno a mangiare la pizza fuori con i figli. Spesso
è così, poi ci sono anche quelli che lo fanno con più chiarezza all’interno
delle modalità negoziali.
Al tempo stesso, nonostante l’altro sia un interlocutore possibile ci sono rigide, molto rigide, limitazioni sulla possibilità di confronto e di scambio sia sul
piano dei contenuti, sia su quello delle emozioni, cioè c’è il gelo.
La percezione che avete davanti nel momento in cui i coniugi si parlano è che
camminino sui carboni ardenti, si muovano sulla lama.
Come c’è un accenno ad un qualcosa che possa indurre una maggior attivazione conflittuale si richiude tutto. Il richiamo, la regola è non mostrare la
divergenza.
Non a caso queste persone affidano al terzo la tutela di un contesto asettico,
quindi è molto marcato il meccanismo della delega.
È tipico nell’esperienza degli avvocati, credo, in queste modalità di gestione
curare una separazione consensuale in cui un avvocato può percepire, ad
esempio, l’odio, il rancore, la presenza sommersa di sentimenti profondamente negativi ed ostili ma che non vengono assolutamente esplicitati, anzi,
viene sollecitata l’assunzione sul terzo, soprattutto sul terzo professionista, di
controllo della situazione, della soluzione della situazione “mi prepari le condizioni di separazione” e questo viene accettato anche quando non è accettato affatto più profondamente.
È la situazione tipica della pseudo consensualità quella delle situazioni di
congelamento. Quello che voi potete notare, infatti, per esempio, se fate questo tipo di esperienza, è la sostanziale differenza, spesso dicotomica, inconciliabile, che le persone vi propongono se fate un colloquio congiunto e se
fate due colloqui individuali.
Nei colloqui individuali vi rappresentano una serie di sentimenti, di ostilità,
di negatività di paure nei confronti dell’altro che assolutamente non vengono
minimamente ribadite nel colloquio di coppia (se lo fate dopo), o che non
erano minimamente state accennate (se lo avevate fatto prima), proprio tro150
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
vandomi di fronte due realtà completamente diverse ed incompatibili anche
tra di loro.
Ovviamente tutto ciò ha una funzione. Stiamo parlando di meccanismi adattivi, di meccanismi che le persone adottano, né per cattiveria né per patologia di nuovo, ma perché questo sanno fare nel loro rapporto, perché questo è
il miglior adattamento possibile che riescono a trovare tra di loro, quindi è
forte il potere analgesico.
D’altra parte lo sappiamo tutti che il freddo fa passare il dolore. Quindi congelare in qualche modo è mettere a tacere o alleviare la dolorosità di un’esperienza, quindi è valida la funzione adattiva nell’immediato della separazione,
perché anche c’è un’alta accettabilità sociale quindi si viene connotati come
persone brave.
Un’altra spia tipica del congelamento qual è? La difficoltà di presentare la
separazione ai figli. Sono le persone queste che raccontano un sacco di balle
ai figli rispetto alla realtà della loro separazione. Papà sta sempre in ufficio,
papà sta dalla nonna perché la nonna sta tanto male ecc. fino a che il ragazzino prima o poi si accorge di un qualche elemento che non gli torna ma la
difficoltà di presentare la separazione, o se non la separazione, le emozioni,
quello che è accaduto, la spiegazione della separazione è una difficoltà tipica delle persone che adottano una modalità congelata di gestione della loro
separazione, proprio perché è difficile immaginare di poter presentare la
negatività.
Le emozioni negative sono estremamente temute, si teme che il figlio non
riesca a comprenderle. Queste sono poi le giustificazioni formali. Mi ricordo
di una bambina di 3 anni che dopo mesi di questa storia, forse aveva anche
meno di 3 anni, 2 anni e mezzo, che dopo mesi che il papà stava sempre in
“ufficio” la notte, chiede: “Ma come mai non c’è più lo spazzolino da denti
di papà?”, perché poi ovviamente, come dicevo prima le antenne dei figli
sono rivolte ai particolari della quotidianità, che non tornano, e questo particolare dello spazzolino da denti è stato l’elemento dal quale la bambina è
riuscita ad un certo punto a tirar fuori tutto il non detto della madre e del
padre rispetto a quello che stava succedendo a casa.
Gli effetti negativi di questa modalità di gestione sono apprezzabili soltanto
nel tempo, molto a lungo nel tempo perché, ripeto, è una modalità apparentemente di estremo buon adattamento, cioè è la modalità rispetto alla quale il
terzo, l’estraneo, l’osservatore potrebbe dire “però come hanno affrontato
bene la loro separazione queste persone!”. I figli stanno a posto, tutto funziona regolarmente, si parlano, si telefonano pure. I figli parlano con il padre, le
cose funzionano, il tutto però con esperienze più profonde, più reali che i
figli continuano a fare di percezione di ostilità che non sanno dove collocare
ciò che non combacia con le percezioni ufficiali che vengono presentate.
Tra l’altro questa modalità, così rigida ed infiocchettata, spesso comporta sul
piano pratico della vita quotidiana l’allontanamento di un genitore. La diluizione estrema del rapporto con uno dei due genitori è uno dei casi più frequenti quando c’è una modalità di questo genere proprio perché il fantasma
è la negatività dell’incontro, la negatività del potersi mettere a litigare. Anche
se non l’hanno mai fatto, i genitori hanno questo fantasma sempre in testa
perché sono persone che non vivono mai il conflitto ma, proprio perché non
151
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
lo vivono, ce l’hanno continuamente in mente.
Esasperazione. La parola dovrebbe parlare da sé, scusate il bisticcio. È esattamente la modalità opposta a quella precedente. L’esasperazione è la situazione in cui la conflittualità è assolutamente diretta, non filtrata, non mediata, espressa direttamente, spesso con modalità di escalation.
Nella negoziazione il partner è un interlocutore privilegiato, nel congelamento il partner è un interlocutore possibile, nella esasperazione il partner è l’unico interlocutore possibile cioè l’oggetto del desiderio continua ad essere
lui/lei.
Anche qui credo che tutti voi abbiate esperienza di situazioni di questo genere dove, a dispetto di una realizzata separazione, spesso ottenuta dopo anni di
crisi perché poi queste persone non si separano tanto facilmente proprio perché hanno in mente l’altro più di ogni altra cosa, ma anche a dispetto di
un’avvenuta separazione continua ad esserci una modalità di ricerca spasmodica dell’altro, attuata con tutti i mezzi possibili ed immaginabili.
I comportamenti dell’altro, infatti, vengono letti continuamente come richiamo e, soprattutto, provocazione. L’altro provoca e basta ed alle provocazioni
bisogna rispondere immediatamente senza filtri, senza possibilità di attesa
sennò si perdono punti e quindi la provocazione e la contro-provocazione
sono all’ordine del giorno.
Si tratta ovviamente di una forma molto particolare di agonismo. È l’agonismo per l’agonismo. È l’espressione della lotta di potere nella sua forma più
pura.
L’oggetto non è un qualcosa da conquistare ma l’oggetto è la lotta. La lotta è
l’elemento per cui si lotta, tanto che non c’è un premio immaginato, tanto
che i segnali di debolezza dell’altro non fanno sferrare il colpo finale ma
fanno rallentare. Questo vi dimostra che l’oggetto è la lotta, è il mantenimento della lotta.
È un’esperienza mia tipica che quando avete in una stanza, una stanza di
mediazione, di terapia o quello che sia, di consulenza, due persone che adottano questa modalità di gestione e davanti a voi fanno cose turche, parolacce
inaudite e cose di questo tipo, nel momento in cui è presente l’esperto, il
terzo, succede che, nel momento in cui per qualche motivo o volontariamente vi allontanate dalla stanza, calano di tono perché non c’è più lo spettatore.
Lo spettatore ha una funzione in questi casi anche di contenimento, colui che
guarda questo tipo di scena ha una funzione estremamente importante. In
questi casi l’abbandono del campo da pare dell’altro è il vero tradimento.
Queste magari sono persone che si fanno le corna in modo inaudito, hanno
collezioni intere di corna che sono vissute semplicemente come provocazione, quindi come incentivo a fare altre cose, ma il vero tradimento è lo smettere, allontanarsi dal campo di gioco.
Spesso, ripeto, c’è una spartizione rigida delle aree su cui operare le provocazioni, un classico anche questo. Lui provoca sempre con le corna, lei provoca trascurando la casa, trascurando i figli, facendoli restare senza la cena,
con i panni sporchi e quant’altro cioè c’è una caratteristica distribuzione
spesso delle aree su cui operare le provocazioni, poi in realtà sono sempre
provocazioni. Spesso, e questa è un’annotazione di colore se volete ma che
vi può aiutare quando fate un po’ la storia di questi rapporti, è riscontrata in
152
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
questi casi un’esperienza di innamoramento con alte quote di proiettività.
Noi per alte quote di proiettività intendiamo gli innamoramenti che restano
appesi al cielo in qualche maniera cioè che non vanno poi a riscontro delle
caratteristiche reali dell’altro nel tempo susseguente alla formazione del rapporto e rimangono così, su immagini assolutamente mitiche, idealizzate dell’altro che era quello che avrebbe soddisfatto tutti i bisogni, risolto tutti i problemi, esaltato la propria vita ecc. ecc. Spesso sono questi i toni presenti proprio agli inizi della storia della coppia.
In tutte queste cose poi vedremo che succede ai figli nelle varie situazioni,
quindi non mi ci fermo adesso su questo.
Ulteriore modalità: lo spostamento. È una modalità anche questa caratteristica che potete riconoscere in tantissime vostre situazioni. Credo che fate facilmente diagnosi, mi passate l’espressione medica di questa modalità, se guardate la voluminosità dei vostri fascicoli: più è alto il fascicolo, più è probabile che si tratti di spostamento perché la caratteristica tipica dello spostamento qual è? È quella di agire la conflittualità tramite terzi.
Le due persone non hanno una conflittualità diretta, non si parlano direttamente, anzi, cercano spesso e volentieri di evitare di parlarsi direttamente ma
affidano sistematicamente la gestione della loro conflittualità a terzi.
Questi terzi possono essere chiunque e vanno dai più vicini ai più lontani: i
figli, le famiglie di origine, il portinaio, la parrucchiera, lo psicologo, l’assistente sociale, l’avvocato, i periti, chi più ne ha più ne metta, fino al formarsi di veri e propri eserciti contrapposti, perché la caratteristica dello spostamento è proprio la formazione degli schieramenti.
C’è crescente, sempre più forte, la percezione dell’altro come un nemico,
quindi siamo fuori da ogni possibilità di interlocutorietà, l’altro è un nemico
ed è un nemico da cui bisogna difendersi.
Questa è una cosa molto caratteristica della modalità in esame, cioè non troverete mai una persona che, usando questa modalità, vi dica che deve attaccare l’altro. La giustificazione è sempre che bisogna difendersi dall’altro
“avvocato, ma se non faccio questo l’altro ci mangia” per cui dobbiamo fare
di più o dobbiamo fare almeno altrettanto perché altrimenti l’altro ci divora
in un boccone. Quindi c’è una costante attribuzione all’altro di una pericolosità da nemico. Il vissuto rispetto alla propria posizione è quella centrata su
aspetti difensivi e tanto più si ha bisogno di difesa, tanto più si reclutano
terzi, per questo non bastano mai. Bisogna sempre portare nuovi testimoni a
proprio favore, nuovi medici che certifichino, nuovi vicini di casa che in
qualche modo testimoniano della bontà propria e della cattiveria dell’altro
ecc., cioè ogni tassello alimenta quest’idea difensiva di rinforzare il proprio
schieramento.
L’emozione prevalente in questi casi è la paura. Queste persone sono terrorizzate, in realtà sono terrorizzate che una mossa dell’altro possa prima o poi
essere la mossa decisiva e quindi vivono costantemente nella paura, proprio
perché ritengono che l’altro conosca i propri punti deboli. Quindi l’idea della
vulnerabilità all’altro è massima e quindi l’evitamento del confronto diretto
con l’altro è proprio funzione di questa massima paura di esposizione ad una
possibile vulnerabilità.
È una visione del mondo molto caratteristica, centrata su questa assoluta dico153
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
tomia amico/nemico, vincente/perdente. I rapporti sono tutti connotati da questo. È interessante notare come nelle forme più estreme di spostamento, è proprio la divisione del mondo che avviene in questi termini. Non è data la neutralità. È la famosa situazione in cui chi non è con me è contro di me. Non è
data la terza possibilità. Se una persona non mi dimostra amicizia, alleanza,
consolazione, quello che volete, è sicuramente un avversario. Quindi si tratta
di una vita particolarmente piena di paure e di paranoie nei casi estremi.
Tutta la storia del rapporto vi viene proposta in questi termini: in termini di
alleanza, di coalizione, di offese ricevute, di schieramenti ecc., di chi è intervenuto in un caso, ripeto, vi portano pacchi di scritti, di cassette, di registrazioni, di tutto e di più e la vicenda separativa è veramente condotta secondo
una logica di guerra.
Attenzione, spesso si può confondere questa con la modalità precedente,
anche la modalità precedente di esasperazione a volte vi si rappresenta come
una guerra, però c’è una differenza fondamentale.
Nella guerra degli esasperati voi avete la chiara percezione che la vostra presenza sia una presenza assolutamente da notaio, più che da avvocato, cioè di
chi registra i movimenti: sta più avanti lui, sta più avanti lei, ma poi dopo,
anzi, nel momento in cui si cerca di intervenire a definire qualche cosa “scusi
un attimino, ci faccia litigare in pace”, questo è l’atteggiamento.
Credo che sia tipico della vostra esperienza (sto tornando a parlare di esasperazione) che non appena miracolosamente avete concluso un qualcosa in una
situazione del genere uno dei due ricomincia da capo o va da un altro avvocato. Non gli avete abbastanza gratificato il bisogno di lotta per cui non siete
un avvocato valido nel senso che non lo fate litigare bene.
Nello spostamento è diverso. Nello spostamento l’avvocato, oltre a tutte le
altre figure, è una persona cui si dipende per la vita. All’avvocato si affidano
le proprie cose, è una persona dalla quale si dipende nell’esistenza quotidiana.
L’avvocato è tutto perché è quello, l’unico, che può difendermi e colpire l’altro, quindi garantirmi questo vallo di protezione. L’avvocato viene sovrainvestito di aspetti anche a volte francamente ridicoli del vivere quotidiano,
riceve continuamente telefonate sulle questioni più cretine del mondo: “Ma
mio figlio è uscito da scuola un quarto d’ora prima, che cosa…”. Questa è
l’esperienza comune, rispetto ai casi di spostamento, dell’amico ma l’amico
proprio a fianco, che mi fiancheggia in tutte le esperienze della mia vita.
Infine, ultima modalità, prima dicevamo non sono di per sé patologiche tranne una, ecco, siamo arrivati al tranne una che c’era tra parentesi prima. Siamo
arrivati al tranne una che è quella dell’vittimizzazione, che è una modalità
particolare.
Noi l’abbiamo inserita anche se è particolare e vi spiego in che senso. La
caratteristica delle modalità di gestione che abbiamo esaminato finora è che
sono sostenute da entrambi più o meno alla stessa maniera. Il congelamento
è sostenuto da un comportamento simile dei due ex partner; nella vittimizzazione i comportamenti sono complementari, sono rigidamente complementari. Parliamo di vittimizzazione quando c’è uno schema fisso, aggressore/vittima, quindi non parliamo di vittimizzazione genericamente quando è un po’
più vittima nella separazione, non è questo il concetto. Noi parliamo di vitti154
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
mizzazione quando ci sono, è il secondo punto, qualità ed intensità di aggressione assai rilevanti. Quali sono questi casi? Sostanzialmente due grosse
categorie: o l’aggressione fisica, ripetuta, vera e propria ed attenzione anche
qui, anche nell’esasperazione ci possono essere dei momenti di aggressione
fisica in cui un piatto scappa un po’ più basso di quello che magari si pensava però voi trovate sempre la simmetria del comportamento, magari non perché gli ha ritirato il piatto ma insomma, ha fatto un’altra cosa.
Nella vittimizzazione il comportamento è unidirezionale. Il comportamento
aggressivo è unidirezionale fino al punto da creare questi due ruoli intesi in
modo rigido. Uno che le dà sempre e l’altra che le prende sempre.
L’alternativa, rispetto alla violenza fisica, è quella della violenza non psicologica, non parliamo di violenza psicologica, ma violenza di vita. Il ridurre
l’altro, anche se non in maniera violenta, a condizioni di vita intollerabili:
tagliarli proprio i viveri, metterlo in una condizione di dipendenza totale
attraverso lo strumento economico, lo strumento della vita concreta e ci sono
casi di questo tipo. Noi facciamo molti corsi, per esempio, di formazione al
Sud e ci sono alcune realtà in cui le modalità di separazione sono tali da
costringere, di fatto, una delle due persone, spesso ovviamente la donna, a
rimanere assolutamente in una situazione di totale sudditanza, di totale soggezione del marito per problemi legati alla sopravvivenza quotidiana. Noi
parliamo di vittimizzazione in questi casi estremi, quando c’è la violenza fisica o quando c’è comunque un comportamento che rende l’altro totalmente
succube, totalmente soggetto. Perché ne parliamo? Perché ci sono delle
implicazioni molto importanti e come vedremo ci sono implicazioni molto
importanti soprattutto per i figli in questo tipo di situazione. Le implicazioni
importanti innanzitutto sono sul piano della coppia le implicazioni di gestione di questa situazione perché il problema è che in questi casi ci si propone
sempre un doppio livello che li rende particolarmente difficili da gestire.
Qual è questo doppio livello? Il doppio livello è che sempre, molto spesso se
non sempre, ad un dato esteriore di responsabilità oggettiva di uno che commette atti ben precisi, anche penalmente rilevanti, nei confronti dell’altro
sussiste una situazione psicologico/relazionale sottostante di incastro profondo che spesso rende molto difficile la soluzione, la gestione effettiva di casi
di questo genere.
Credo che sia un’esperienza comune come il legame che unisce aggressore e
vittima, al di là della considerazione delle cose che vengono commesse, propone sempre degli incastri di relazione di difficile soluzione. Questo è legato, ripeto, a cose piuttosto complesse. Un aspetto superficiale che ci viene da
dire come battuta, anche se come battuta è molto amara, è che la vittima se
le va a cercare ma questo è il livello più del senso comune e piuttosto banale di osservazione. Un livello meno banale, più articolato, è che l’incastro
relazionale tra questi due ruoli è spesso costruito in modo che le immagini
uno dell’altro sono in realtà l’opposto di quello che appare. Lo schema
aggressore/vittima propone a livello esplicito, a livello manifesto, l’immagine di un forte e di un debole, di un vincente e di un soccombente. In realtà,
sul piano più profondo, sul piano dei vissuti della relazione, le cose stanno
esattamente al contrario, cioè nei loro vissuti, nei vissuti dell’aggressore e
della vittima è spesso vincente, è forte, colui o colei che subisce ed è debole
155
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
colui che colpisce, colui che aggredisce.
Spesso il vissuto della persona, della donna vittimizzata da un marito violento è quello che “poveretto, è malato, non è colpa sua, bisogna capirlo” ed è
un vissuto forte, incrollabile, spesso sostenuto da atteggiamenti comportamentali di forza, di incontrollabilità, di tenacia rispetto al mantenimento di
posizioni di questo genere. Percezione che dall’altra parte, cioè dalla parte
dell’aggressore, è confermata da un’idea dell’altro, cioè della vittima, come
una persona assolutamente non scalfibile, una persona sempre pronta a rintuzzare, a richiamare, a perdonare, ad avere l’atteggiamento commiserevole,
cosa che lo fa andare in bestia quindi picchia ed in questo schema più profondo di chi è il forte e chi è il debole, in realtà si incastra poi il tutto tanto
da formare, ripeto, incastri di difficilissima risoluzione.
Sapete benissimo quanto è difficile arrivare ad una separazione in situazioni
del genere e non solo, ma anche quando si è arrivati alla separazione, quanto è difficile che venga gestita con modalità che non ripropongano questo
schema fisso perché entrambi contribuiscono a questo. Ed allora noi qui bisogna stare attenti, parlando ad un pubblico di avvocati e mi chiarisco subito:
non dobbiamo confondere, ovviamente, la responsabilità dei fatti con il fatto
che ci sia un contributo relazionale di entrambi.
La responsabilità va perseguita, punita ed è importante che questo sia chiaro.
Non sono lo psicologo che pensa che, siccome tanto lo costruiscono tutti e
due, che se la vedano tra di loro e che la vittima appunto se l’è cercata.
Chiariamo ogni possibile equivoco: quindi, il piano della responsabilità è un
piano di realtà e va chiaramente attivato secondo quello che deve essere attivato, però non possiamo neanche immaginare che questo piano risolva tutto
perché, di fatto, non è così e lo sappiamo per esperienza.
Possiamo infliggere le punizioni più severe, ma, di fatto, dobbiamo sapere
che l’incastro relazionale continuerà, continua e ripropone questo schema
doppio, forte/debole, vincente/perdente in maniera molto marcata e vedremo
tra un attimo come i figli possono a loro volta incastrarsi in dinamiche così
complesse, confuse, spesso anche così confondenti, direi, rispetto alle immagini esteriori.
Queste sono le modalità di gestione che noi abbiamo provato ad individuare,
ripeto che non si tratta di definizione di patologia, questo è molto importante, di per sé neanche di necessaria disfunzionalità.
Tutto è legato a due cose, lo dicevo prima: a quanto queste modalità di
gestione si irrigidiscono e diventano l’unico modo possibile di relazionarsi e
a quanto rimangono tali nel mondo, impedendo altre forme evolutive possibili.
Il fatto che ci siano è un fatto normale perché tutte le persone, anche da separate, devono in qualche modo trovare una strada per gestire la loro interazione. Lo fanno in queste maniere. Alcuni modi sembrano da subito più funzionali, pensate al congelamento, ma poi, nel tempo, rivelano la loro problematicità evolutiva; altri modi, ad esempio l’esasperazione, sembrano da subito
altamente disfunzionali ma poi, magari, riescono a risolversi in modi diversi,
quindi non abbiamo una parola definitiva nell’immediato.
Certo è chiaro che chi riesce da subito a negoziare, e continua a farlo, ha trovato una soluzione evolutiva migliore, ma non vuol dire e poi lo vediamo in
156
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
mediazione quello che accade.
È importante per noi, a questo punto, ritornare al figlio e così, come abbiamo
definito il figlio nelle sue varie fasi dello sviluppo, quindi nelle sue caratteristiche personali di vissuto dell’esperienza della separazione dei genitori,
vediamo adesso cosa succede al figlio quando si confronta con questo tipo di
modalità, quindi quando si confronta con queste immagini che i genitori gli
propongono.
Cosa ci consente di fare questo tipo di visione legata a come i figli partecipano ed assistono alla modalità di gestione della separazione dei loro genitori?
Innanzitutto la griglia ci consente di riconoscere più rapidamente che tipo di
ruolo più facilmente verrà a trovare il figlio, a seconda che la modalità di
gestione prevalente della separazione dei suoi genitori sia il congelamento, lo
spostamento, l’esasperazione, perché come le ho descritte già in qualche
modo queste modalità pongono dei limiti alle possibilità che ha un figlio di
adattarsi alla separazione.
Vedremo tra un attimo come il figlio di genitori che hanno adottato la modalità dello spostamento è un figlio che non ha molte possibilità di scelta di
ruolo adattivo all’interno di una dinamica così, soprattutto se questa dinamica è presentata in modi rigidi, forti, prevaricanti.
Questo ci darà conto appunto anche del significativo delle soluzioni adattive
scelte dai figli perché, è vero che la modalità di gestione dei genitori è
comunque un vincolo, ma è anche vero che poi un figlio vi può partecipare
in modi diversi, per esempio dovremo necessariamente cominciare ad incrociare i due assi, vi parteciperà diversamente un figlio nella prima infanzia da
un figlio nella seconda infanzia, un figlio adolescente, preadolescente, adulto.
I ruoli sono abbastanza predeterminati ma le condizioni personali del figlio
possono essere diverse e questo determina delle differenze con le quali il
figlio parteciperà ad una o all’altra modalità di gestione.
Infine, cosa molto importante, utilizzare questa ottica ci consente di prevedere, è un termine un po’ stregonesco, non mi piace tanto, non abbiamo la sfera
di cristallo, però in qualche modo consente di fare un profilo dei percorsi
evolutivi possibili, cioè di quali nodi un figlio, che si inserisce come ruolo in
queste modalità di gestione, potrà trovarsi poi davanti nel corso del suo sviluppo, nel corso delle esigenze successive di vita.
Quindi non si tratta di previsione, ovviamente, ma di immaginare dei percorsi evoluti che, per esempio, cominciano a rendere disfunzionali soluzioni
adattive che all’inizio potevano sembrare funzionali. Di questo ne parleremo
tra un attimo.
Tutti i ruoli adattivi lì per lì sembrano funzionali, si chiamano adattivi per
questo. È il migliore adattamento possibile in quelle circostanze. Il problema
della disfunzionalità si rivela spesso nel tempo cioè quando questo ruolo non
è più in grado di soddisfare i bisogni evolutivi che emergono nelle successive fasi dello sviluppo. Quando cominciamo a parlare delle varie situazioni
credo che questo dovrebbe risultare abbastanza chiaro. Ritorniamo alle nostre
modalità di gestione e inseriamo al loro interno i ragazzi, i figli nella separazione; anche qui io non lo dico altrimenti finiamo domani, ma mentre parlo
157
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
provate ad immaginarvi all’interno di questi schemi delle modalità di gestione, cosa può succedere se il figlio ha 5 anni, se ne ha 10, se ne ha 20, se mi
metto a fare tutti i casi fate un po’ la moltiplicazione.
Sono 5 fasi dello sviluppo e 5 modalità di gestione. Devo prevedere 25 situazioni, ripeto, stiamo qui fino a domani. Cercate comunque di tener presente
al tempo stesso, mentre esaminiamo i figli nella modalità di gestione, anche
le differenze che ci possono essere in questi ruoli a seconda dell’età di quello che abbiamo detto prima quindi a seconda della funzione prevalente genitoriale.
Abbiamo detto che nella negoziazione i figli assistono a cosa? Assistono ad
una presentazione in qualche modo più diretta o abbastanza diretta, l’aggettivo è d’obbligo, potremmo dire sufficientemente diretta, per usare un avverbio in uso in psicologia, sufficientemente diretta degli stati emotivi dei genitori ovvero hanno una percezione di quello che accade intorno a loro abbastanza adeguata alla realtà perché i genitori nella negoziazione la rappresentano così. In questo caso, quindi, i figli non hanno tanto il problema di crearsi un’idea autonomamente di quello che sta accadendo ed i genitori tendono
a fornirgliela ed anche rispetto alla richiesta che possono avvertire da parte
dei genitori di assunzione di un ruolo all’interno della vicenda sono un po’
più liberi. Possono continuare a farsi gli affari loro entro certi limiti, per dirla
in maniera semplice. Non c’è una richiesta pressante da parte dei genitori,
ovviamente implicita, come quasi sempre è. Ci sono anche genitori che lo
chiedono esplicitamente ma insomma…, non avvertono una pressione ad
assumere determinati ruoli nell’immediato e quindi è più facile per loro attivare risorse personali, attivare chiavi di lettura della situazione, fare domande ai genitori su quello che sta succedendo.
Parleremo tra un attimo del congelamento giusto per fare il confronto, quando i genitori dicono “ma, non chiede niente, non fa domande. Mi sembra tranquillo, non fa nessuna domanda”. Attenzione, i bambini fanno domande
quando sentono di poterle fare. Se sentono che fare domande disturba il genitore non le fanno giustamente. Il bambino non ha mai convenienza a vedere
il genitore alterato o disorientato, dispiaciuto, quindi possono esplicitare
anche una sofferenza. Il bambino nel congelamento non la esplicita la sofferenza, quindi non posso dire una cosa “sto male, sono triste” se so che questo crea un problema ulteriore al genitore. Posso dire “sono triste” ad un
genitore che mi ha abbastanza spiegato come è la situazione. Posso dire
“sono triste” ad un genitore che mi ha detto di essere lui stesso triste.
Quante volte riusciamo in mediazione, per esempio, a far dire al genitore
“beh, in effetti, mi è dispiaciuto. Sono stata molto triste in quel periodo”? ma
questa è vita, è ossigeno per un figlio! poter sovrapporre in maniera coerente quello che vede con gli occhi e quello che sente con le orecchie.
È uno degli elementi più fondamentali, passatemi il superlativo rispetto alla
correttezza, alla possibilità evolutiva, alla possibilità di dare significati propri all’esperienza sufficientemente liberi da altre preoccupazioni, da altri
ruoli ecc.
Vedo mamma piangere di nascosto però davanti a me dice sempre che va
tutto bene, che sta benissimo; quindi poter dire del bambino “sono triste” è
in qualche modo sentire di avere il permesso di dirlo ed è funzione di quan158
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
to il genitore stesso è in grado di dirlo o di dirlo, anche qui, sufficientemente. Un genitore allora dice “mi metto a piangere tutti i giorni buttato sul divano così mio figlio è felice” è il “sufficientemente” che è un po’la chiave della
questione.
Il figlio sente l’autorizzazione ad avvicinarsi ad entrambi i genitori, non
sente, anche qui non più di tanto, quanto meno i veti incrociati che sono così
caratteristici di tante modalità di gestione della separazione. “Mamma è sufficientemente serena quando vado da papà. Papà non mi sta a dire tutte le
volte: raccontami mamma, con chi sta al telefono” quindi non sente cose di
questo genere e quindi è sufficientemente tranquillo nell’avvicinarsi e sente
una discreta accettazione delle differenze e del conflitto quindi la cosa che
direi più significativa di questa situazione del figlio nella negoziazione è
proprio duplice, la ricordo, la sottolineo: un po’ questa possibilità di non
essere subito incastrati in un ruolo definito. Questo è estremamente salutare.
È salutare per chiunque di noi nel senso che il bambino può avere tempo di
crearsi delle sue soluzioni, delle sue condizioni di adattamento alla separazione. Non è immediatamente richiamato se piange. Non è immediatamente
rimproverato se comincia ad uscire un po’ di più. Ha un suo spazio di sperimentazione delle condizioni. Come vedremo in altre modalità di gestione
questo non è possibile perché le condizioni che i genitori dettano con la loro
modalità di gestione sono rigide: presuppongono il fatto che il bambino si
“ficchi” in un ruolo ben preciso e non viene tollerato un altro ruolo.
La caratteristica positiva della negoziazione è proprio questa, avere un tempo
in cui non si è costretti ad incarnare un determinato ruolo a tutti i costi. Si
possono fare delle prove: i famosi richiami. Un bambino della prima infanzia
che “prova” (usate sempre le virgolette perché non è che sia intenzionale) a
fare pipì nel letto dopo che ad un certo punto il giorno prima ha percepito un
qualcosa o gli è stato raccontato qualche cosa. È una prova che suscita, cosa?
L’allarme, l’indifferenza, oppure un discorsetto tranquillo. A seconda di quello che suscita il bambino ha di fronte delle condizioni di adattamento in ruoli
più rigidi oppure delle condizioni di adattamento ancora da ricercare, da
ritrovare da sperimentare. Il giorno dopo magari dirà “non ho tanta voglia di
andare a scuola, ho mal di testa stamattina” e questo è il famoso richiamo di
cui parlavo prima. Chiaro, come vedete, se c’è un atteggiamento negoziale
dei genitori, questo è assorbibile all’interno di una immagine tollerabile. Se
non c’è un atteggiamento negoziale, se c’è una delle altre modalità di gestione, molto spesso questo comportamento del bambino diventa incanalato,
viene fatto incanalare a seconda della modalità di gestione prevalente in uno
o nell’altro ruolo.
Pensate nello spostamento una pipì a letto. “Eccolo là, ieri sei stato con tuo
padre” ed il ruolo di quel figlio comincia ad essere rigidamente predeterminato, e tutte le sue pipì faranno contenta mamma perché sono una bandiera
da mostrare in tribunale contro il padre.
Questa è la forza dei vincoli che possono porre le modalità di gestione proprio in termini di ruolo da assumere molto rapidamente perché il molto rapidamente è dettato dalle facce di mamma e di papà (non c’è bisogno di grossi discorsi) rispetto ai miei primi comportamenti di richiamo. Ripeto, la
prima pipì a letto, la prima fobia scolastica, il primo piercing che mi faccio
159
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
nell’orecchio o altrove ecc. Queste facce mi diranno l’idea dei vincoli e dei
ruoli più o meno rigidi che io posso assumere in quella situazione o della
libertà che ho di provarne alcuni e poi magari ritornarmene tranquillo ad un
trend di vita piuttosto abituale.
Ho già anticipato quindi alcuni temi e vediamo cosa succede ai figli nel congelamento cioè che tipo di condizioni vengono proposte ai figli quando la
modalità di gestione dei genitori è quella prevalente del congelamento.
L’ho già detto prima, spesso questa modalità di gestione parte già con una
prima difficoltà importante.
Parte proprio con la difficoltà della comunicazione originaria stessa dell’avvenuta separazione, già spesso una negazione di questo, prima basico livello
per cui questi ragazzini stanno sempre nell’incertezza di quale sia la situazione reale, effettiva, percepiscono alcune cose, non le possono dire, non le possono chiedere perché vedono che mamma si rabbuia, che papà dice “ma no,
non è niente, non ti preoccupare, sto lavorando più del solito” questi lavori
poi sono sempre utili, essere messi davanti come pretesto per tutta una serie
di cose e questo è il primo problema serio che spesso hanno i figli in una
situazione di congelamento e guardate, è un problema molto serio, un problema per il quale bisogna assolutamente aiutare le persone ad affrontarlo.
A volte è molto utile una mediazione in una prima fase della separazione non
tanto per ottenere chissà quali accordi, poi vedremo che le persone che adottano un congelamento come modalità di gestione hanno anche difficoltà a
fare questo lavoro di definizione di accordi, proprio per questa loro connaturata difficoltà negoziale a porsi uno di fronte all’altro in termini anche dialettici, in termini di sufficiente capacità anche di contrapposizione che serve per
fare un buon negoziato.
Spesso, per esempio, un percorso anche breve di mediazione in queste prime
fasi della separazione, nelle situazioni di congelamento può essere estremamente utile per aiutare questi genitori a dire qualcosa di plausibile ai figli.
C’è spesso una richiesta di questo tipo “che diciamo?” abbiamo il terrore di
farli soffrire. Questo è uno dei temi forti dei congelati nelle prime fasi della
separazione, questo terrore della sofferenza, per carità comprensibilissimo,
dove la risposta non può essere altro che “guardate che la sofferenza voi non
la potete evitare”.
L’idea dell’evitamento della sofferenza è un’idea mitica che loro hanno
molto in testa perché fanno fatica loro a percorrere questa strada e quindi
vorrebbero dire “la risparmiamo anche ai nostri figli” un po’ per risparmiarsela loro, un po’ per risparmiarla ai figli effettivamente, ma è assolutamente
mitico pensare che ci possa essere una separazione dei genitori che non fa
soffrire i figli e su questo bisogna piano, piano aiutarli a realizzare che sì c’è
una sofferenza ma è una sofferenza che può essere guidata, che può essere
sollevata, che può essere accompagnata verso anche buone forme di adattabilità, buone forme di adattamento. Quindi questo aiuto, spesso sulla comunicazione della decisione, può essere un aiuto estremamente importante,
anche senza che si arrivi per forza ad una mediazione che fissi la casa a te, la
cosa a me. Non è detto, ci può essere una mediazione molto limitata a questo
tipo di aspetto.
Il problema è, ripeto, che questi ragazzini si confrontano continuamente con
160
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
livelli di ambiguità, con la discrepanza tra quello che vedono e quello che
sentono, con i discorsi che sembra di captare dal padre mentre si va in macchina alla partita di calcio o alla madre mentre sta in cucina a cucinare e che
però vengono negati in maniera ufficiale. “No, non è vero. Sono preoccupato per un’altra cosa”. “No, no, era un’altra cosa”.
Noi spesso lavoriamo sui luoghi comuni. È vero che è importante che un
genitore non parli male dell’altro in presenza dei figli, ma attenzione non ne
facciamo anche di questo uno slogan da utilizzare in tutti i casi. Insomma,
questi due sono separati. Il figlio sa che sono separati. Per qualche motivo si
saranno pure separati. Allora meglio presentare con una certa tranquillità certamente, con certi toni che cosa non si condivide dell’altro, senza che per
questo venga presentata come una persona da gettare piuttosto di dire “ma
no, mamma è la persona migliore di questo mondo” e poi il figlio si accorge
di piccole frasi, di telefonate alla nonna che dice “mamma, me ne ha combinata un’altra” ecc., perché qualunque dolore è più sopportabile se c’è una
chiarezza, mettiamoci in testa questa cosa, quindi i figli non sono oggetti da
preservare dal dolore. Sono persone da aiutare nel sistemare le cose che succedono nel mondo e questo è estremamente importante.
Chi adotta un congelamento ha in testa invece l’idea del preservare a tutti i
costi dal dolore perché la propria vita è organizzata in questo modo e quindi
anche ai figli propone questo. Ne conseguono confusione, poche domande e
…. andiamo alla cosa molto più importante: il ruolo adattivo.
Qual è il ruolo adattivo che immediatamente, molto rapidamente, viene proposto al figlio? Pensate al famoso figlio che prova a fare la prima pipì a letto
dopo che sono successe un po’ di cose. Che tipo di clima trova nella sua prima
pipì a letto questo figlio in una situazione di congelamento? Trova un clima
che, se prova a dar problemi, è un ulteriore problema. Se tu mi dai problemi
questo mi crea una situazione incontrollabile, ingestibile perché mi costringe
a parlarne con tuo padre, mi costringe ad una serie di cose, mi fa star male, mi
fa pensare a quello che è successo, che non volevo che succedesse, tutto quello che vi pare, tutti i sentimenti negativi. Dice “Almeno tu fai il bravo”.
Non è che viene detto così, pensate sempre alla famosa faccia della mamma
che trova il letto sporco di pipì la mattina, è quella che conta, non quello che
la mamma dice, conta la faccia che fa. Allora questo figlio che dovrà fare con
“sta pipì” cioè questo richiamo alla maggior presenza, alla protezione genitoriale, rispetto ad un genitore che non riesce in quel momento a proteggere
neanche se stesso perché qualunque cosa che va anomala è terrorizzante.
Questo figlio ci deve pensare da sé perché in qualche modo è lui che sente di
dover proteggere il genitore. Questo è caratteristico del congelamento: la
creazione di un’immagine di adultità del figlio che può far andare tanto
meglio le cose quanto più è grande, quanto più è ometto, è brava donnina, si
occupa della madre, si occupa del padre.
Allora, se rimaniamo sempre all’esempio forte della pipì che funge come
metafora in questo caso, mi ricordo un caso dei nostri, tipico del congelamento: era un bambino che continuava a fare pipì perché, insomma, non la reggono mica la pressione emotiva. Non tutti riescono ad essere adulti al punto
da costringersi a non fare la pipì, poi le emozioni da qualche parte scappano,
però si rifaceva il letto da solo tutte le mattine. Parliamo del bambino di 5, 6
161
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
anni, non dell’adolescente di 12 che non lo farebbe mai per altri motivi ma,
insomma, e la madre che si accorgeva, perché era congelata sì ma scema no,
che si accorgeva di questo fatto, era contentissima ovviamente di questo cioè
lo riportava come un grosso successo.
Questo perché è coerente, è funzionale con un’organizzazione complessiva,
cioè il bambino, che fa pipì a letto e si rifà il letto da solo in una situazione
di congelamento, è particolarmente funzionale all’adattamento di tutti.
Non mi costringi a sentire il peso di una decisione che non volevo, di una cosa
che mi ha fatto soffrire, non mi costringi a riparlarne con tuo padre, mostro
dei più, da esorcizzare l’idea di affrontare un discorso con l’ex marito su un
problema del figlio perché quello chiederà sicuramente l’affidamento congiunto, ma quello non ci pensa nemmeno a chiedere l’affidamento congiunto,
perché anche lui è terrorizzato dal muovere qualsiasi cosa. Però l’immagine è
quella, cioè i due continuano ad avere in testa l’immagine di un atto conflittuale anche se non confliggono mai, allora il bambino che fa pipì e si rifà il
letto da solo è funzionalissimo a questo tipo di sistema così organizzato.
Perché le regole dell’adattamento sono così importanti? Perché questo consente al bambino, come tutti, di ottenere rapidamente una buona funzionalità
nell’adattamento complessivo. Viene descritto come un bambino che va
benissimo, che non ha risentito per niente della separazione, che sì, certamente poverino qualche cosa, però tutto sommato è grande. Il problema è il
figlio consolatore, confidente, mediatore, tutte le posizioni in qualche modo
di adultizzazione, di coniugalizzazione del figlio perché nell’adultizzazione
è compresa ad esempio la coniugalizzazione del figlio cioè il figlio paladino
della mamma, il figlio cavaliere della mamma, il figlio che anche dal padre
riceve il messaggio “Ti devi occupare del tuo fratellino più piccolo. Occupati
di mamma, sei l’uomo di casa”. Questi sono i messaggi tipici del congelamento, che poi magari trascurano il fatto che si odia visceralmente quell’altra persona di cui si vuole che il figlio si occupi. Vedete, ripeto, come qui l’adattamento immediato è “ottimo”, quindi propone ai genitori una buona
immagine dell’andamento, ed è molto negativo nel tempo, e soprattutto a
distanza di tanto tempo, di solito non di poco tempo. Per esempio, queste
sono le tipiche situazioni in cui, a fronte di un apparente buon adattamento
nella prima e nella seconda infanzia, si verificano tracolli micidiali in adolescenza perché la condizione che fa saltare tutto in questo schema è che il
cambiamento è un tradimento dove il cambiamento può essere di qualunque
membro: può essere di mamma che si fa un nuovo partner, del figlio che
comincia ad interessarsi un po’ di più degli amici, della partita, della ragazzina che in qualche modo si allontana dalla funzione, che si è consolidata e
che ha consentito il buon adattamento, che manifesta l’interesse per l’altro
genitore ad esempio. Questo tipo di situazioni, del tutto fisiologiche nel loro
accadere, nelle varie fasi dello sviluppo sono vissute in realtà da un sistema
di questo tipo come tradimenti, come abbandoni di una posizione privilegiata che aveva consentito un’apparente buona uscita dalla situazione della
separazione nell’immediato. Vedete quanto forte possa essere lo schema in
cui poi il bambino si trova inserito. Se ripensate all’esempio della pipì, credo
che sia abbastanza chiaro.
Andiamo avanti. Qual è lo schema che si propone ai figli nello spostamento.
162
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
Ricordiamo questo schema molto rigido. Posizioni antitetiche, inconciliabili.
Il mondo è fatto di amici o di nemici. Anche qui le possibilità adattive in un
mondo così fatto, in un mondo in cui ci sono o solo amici o solo nemici, non
c’è la neutralità, non è possibile starsene per conto proprio, sono di un certo
tipo: immediate, forti, costringenti, del tipo “se non sei con me sei contro di
me”.
È un messaggio potente che si invia a tutti, tanto è che, l’abbiamo detto
prima, in questo schema ci cascano tutti. Ci cascano gli adulti, ci cascano gli
operatori, ci cascano gli avvocati. Gli avvocati, va beh dicono “È il mio
ruolo”, d’accordo però spesso ci cascano anche ad incarnarlo nella maniera
più retriva, diciamo così, se mi permettete questo commento, perché ci possono essere vari modi di interpretare anche il ruolo di alleato e di sostenitore.
Ci cascano tutti figuriamoci come ci casca un ragazzino, rispetto ad uno schema così potente di arruolamento ma ci casca anche perché, se ripensate a
tutto quello che vi ho detto prima, a tutti i bisogni nelle varie tappe dell’età
evolutiva il bisogno del bambino, dell’adolescente di avere davanti a sé un
genitore nelle sue varie articolazioni, nelle sue varie funzioni tranquillo, un
genitore che gli rimanda un’immagine positiva, è un bisogno forte.
Quando parlo di ruoli parlo di un qualcosa che poi definisce in maniera forte
la propria identità, in maniera forte e stabile, quindi il primo aspetto importante dei ruoli adattivi è che sono gratificanti rispetto all’assunzione di un
ruolo segnalato da un genitore come molto importante, quindi c’è un’elevazione di livello del bambino che lo cattura in maniera inevitabile perché
facendo così faccio stare molto bene mamma o papà.
Il mio ruolo, il mio comportamento è importantissimo per mamma o per
papà.
Un messaggio di questo genere a cui tutti siamo sensibilissimi in qualunque
fase della nostra vita, figuriamoci quanto è potente per un soggetto in età
evolutiva che da quello dipende, soprattutto in una situazione di separazione,
per le sue certezze quotidiane.
Se vogliamo mantenere l’esempio della pipì, in modo un po’ monotono ma
efficace, la pipì nello spostamento riceve un primo messaggio di tutt’altro
genere: questa pipì mi serve per tutta una serie di finalità. Mi serve perché
con questa mi difendo meglio da tuo padre che ha chiesto il tuo affidamento.
In questi casi si discute moltissimo, ad esempio in sede di consulenza tecnica, su quanto questi aspetti siano esplicitati o siano impliciti: del famoso
genitore che plagia attivamente (e qui siamo nello spostamento) oppure del
genitore che, con il suo comportamento, in qualche modo segnala di gradire
un certo comportamento del bambino e quindi anche inconsapevolmente lo
incentiva. Difficile venirne a capo.
Io sono convinto di una cosa, sono convinto che il genitore sicuramente
segnala attivamente quello che gradisce perché tutti lo facciamo e più la
situazione è rigida, più la situazione è schematica, più è forte l’idea dell’amico/nemico, più questo lo si fa inevitabilmente.
Che poi ci possa essere qualche caso in cui c’è anche un indottrinamento attivo non lo posso escludere, non credo che sia la maggior parte. Voglio mantenere questa idea che è forse un’illusione.
163
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Certo un bambino che venga anche attivamente indottrinato è un bambino
ulteriormente penalizzato, ulteriormente danneggiato ecc. poi la sostanza
delle cose non è estremamente diversa perché i messaggi e la forza dei messaggi è nell’aria.
Si respira prima ancora di essere detta, e questa è una cosa che dobbiamo
tenere molto presente.
In questo tipo di situazioni rientrano tutti i casi di supposto o presunto abuso
sessuale nelle situazioni di separazione dove noi assistiamo, appena usciamo
dalla fascia della prima infanzia, se già si consideri un bambino della seconda infanzia per quello che ho detto prima, assistiamo spesso ad una partecipazione attiva del bambino all’accusa del genitore rispetto alla situazione di
abuso.
Anche lì voi mi venite a dire “Ma l’ha indottrinato? Gli ha detto quello che
deve dire? L’ha colto da solo da qualche elemento, sta collaborando inconsapevolmente ad un piano che però non è che sia stato definito a tavolino.
É difficile dire questo, è molto difficile.
Spesso è vera una cosa, spesso è vero un’altra. Quello che è certo è che, se
escludiamo spesso la prima infanzia in cui effettivamente l’episodio o il presunto episodio è portato con un bambino oggetto, semplice oggetto di un
eventuale supposto abuso, già dalla seconda infanzia noi vediamo situazioni
in cui il bambino racconta attivamente delle cose che si percepiscono talvolta palesemente false (perché contrastano con altri dati di realtà accertata, tipo
delle violenze fisiche che dovrebbero lasciare delle tracce che invece non ci
sono assolutamente) dove appare chiaro come sia potente il meccanismo di
arruolamento in cui il bambino fa propria la percezione, il bisogno del genitore e va spesso anche oltre.
Ricorderò sempre, come effetto anche emotivo, una consulenza tecnica in
cui, in una situazione di questo genere, una bambina che già aveva sui 9, 10
anni raccontava attivamente di violenze assolutamente inaudite che il padre
avrebbe commesso su di lei, senza alcun riscontro di realtà.
Nel momento culminante, tra l’altro io ero CTP, nel momento culminante in
una situazione che non avrei mai messo in piedi, quasi di confronto tra il
padre e la ragazza, scandaloso per certi versi all’evidenza dei fatti, non vi
descrivo lo stato di questa bambina, quando la madre disse “va beh, si sarà
inventata tutto, io che dovevo fare?”, Cosa succede nel tempo a questa condizione di adattamento così forte in cui il figlio è gratificato dall’essere l’arruolato di scelta del genitore? anche qui il tradimento. Ossia l’abbandono nel
momento in cui la posizione diventa insostenibile per il genitore, perché
magari gli fa passare qualche guaio, come nel caso della signora di un attimo
fa, perché continuare a sostenere l’accusa sarebbe stato sicuramente un elemento di assoluto danno per lei nell’ambito processuale. Quindi accade che
ad un certo punto l’alleato molla, perché prima o poi mola.
Il problema è che intanto per il figlio quella è diventata un condizione di esistenza. Essere l’alleato fedele del genitore è diventata una condizione d’ esistenza, in un meccanismo molto forte perché questo dello spostamento è un
meccanismo molto forte e molto potente, proprio perché molto affascinante
per il figlio al quale viene attribuita molta importanza. Ovviamente, e questo
è semplice definirlo, anche se non succedono cose clamorose come quella
164
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
che ho appena descritto, il problema evolutivo dei figli in questo tipo di
situazione è che comunque hanno a che fare con una visione del mondo che
ormai tende gradualmente a radicarsi, di tipo duplice e dicotomica, in cui o
si è alleati o si è nemici per cui il mondo è diviso rigidamente tra le persone
di cui ci si può fidare, poche, e le altre, la massa, che sicuramente sono ostili ed infide. Capite benissimo che questa, anche se non succedono cose clamorose come nell’esempio citato, è comunque una modalità altamente penalizzante rispetto allo sviluppo ulteriore, allo sviluppo psico-emotivo ecc.
I figli nell’esasperazione. La caratteristica qui è un’altra, completamente
diversa. Il problema per il figlio è opposto: è proprio la modalità tipica dell’esasperazione che non consente, che non fornisce un’immagine di immediato ruolo disponibile per l’adattamento perché i due non lo desiderano proprio.
Se fate mente locale a situazioni in cui voi avete assistito ad un dialogo tra
esasperati, per come l’ho raccontato prima, la percezione che ha il terzo è
quella di non esistere. Non so se vi è capitato. Ma questi stanno qua mi considerano, scusate, fate dei segnali di fumo. Mi vedete, non mi vedete? Per un
figlio è difficile rapportarsi a questo tipo di situazione nel senso che questa
percezione di non esistenza è una percezione che dura nel tempo ed è una
percezione penosa in quanto non fornisce un aggancio adattivo, pronto, come
lo definisce più chiaramente il congelamento, poi vedremo, magari questa è
una risorsa per il futuro. Nell’immediato il bambino di fronte all’esasperazione è un bambino fondamentalmente che vive che cosa come esperienza? Vive
la paura, vive lo spavento poi piano, piano si abitua pure allo spavento, si abitua pure che non succede nulla, ma non è facile perché quando si sentono
volare i piatti la paura è tanta e vive soprattutto la mancanza di un aggancio
ad un qualche ruolo che gli possa dare un po’ di sicurezza, cioè che gli consenta di dire “ok, papà mi considera perché faccio questo, mamma mi considera perché faccio quest’altro. Ho dei punti di riferimento”.
Sempre per insistere sulla famosa pipì, la pipì in una situazione di esasperazione, il letto può rimanere così anche per qualche giorno se continuiamo la
metafora, nel senso che può anche allagarsi, di pipì, ma di solito è ben poco
visto né in senso positivo né in senso negativo, intendo. Il problema chiave
del figlio nell’esasperazione è quanto si faccia prendere dalla paura, dal terrore o quanto riesca a tenersene abbastanza a distanza e questo poi è il problema, perché il fatto di non avere immediatamente disponibile un ruolo
adattivo, che nell’immediato è molto penoso, nel tempo può rivelarsi anche
un vantaggio.
Abbiamo visto quelli che il ruolo adattivo, ce l’hanno subito, rispetto ai quali
sembra che funzioni tutto bene, che fine fanno e che problemi hanno.. Se il
ruolo adattivo è immediato non c’è sicuramente la situazione più penosa nell’immediato potrebbe essere meno penosa nel futuro. La condizione qual è?
La condizione è che il figlio non si faccia incastrare nel terrore di quello che
può accadere a casa perché se si fa incastrare nel terrore di quello che può
accadere a casa, rimane lì agganciato.
Blocca tutto, fa il guardiano poi del bidone di benzina perché in realtà nessuno glielo ha chiesto, nessuno lo vuole, nessuno lo gratifica però lui lo fa lo
stesso perché è terrorizzato da quello che può accadere mentre la sua evoluzione può essere più tranquilla se piano, piano trova dei riferimenti esterni.
165
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Poi, di fatto, quando riesce meglio l’esasperazione è perché riesce a trovare
delle figure alternative. Riesce a stabilire un rapporto buono con dei pari, con
un maestro, un insegnante, delle figure sostitutive con le quali in qualche
modo questa dinamica con la figura adulta può essere compensata.
Ecco allora l’importanza del contesto extra familiare: nelle situazioni di esasperazione può essere molto forte proprio per offrire al figlio situazioni in cui
sperimentarsi in maniera più libera dal terrore di quello che può succedere
dentro casa. È vero invece che in certi casi questo terrore dà vita a situazioni di grosse difficoltà adattive, legate proprio a quest’allarme cronico, ad uno
stress cronico che paralizza, di fatto, o che porta a situazioni di fuga oppure,
altro caso particolare lo citiamo qua all’uso del figlio come arma impropria.
Che vuol dire? Vuol dire che può succedere anche nelle situazioni di esasperazione, nelle quali di per sé non c’è un’intenzione vittimizzante nei confronti dell’altro, che il bambino riceva dei maltrattamenti per così dire per sbaglio, nel senso che si tratta di una provocazione che ha per oggetto il figlio
che viene portata all’altro. È il figlio che si trova messo in mezzo rispetto ad
un lancio di piatti o ad un qualche cosa, ad un maltrattamento occasionale,
ma è un’ipotesi abbastanza infrequente.
È più frequente riscontrare situazioni di allarme cronico in bambini di questo
genere proprio terrorizzati da quello che può succedere ai loro genitori.
Cosa succede infine ai figli nella vittimizzazione e a questo proposito avevo
parlato prima della complessità di questo tipo di situazione per un bambino,
un figlio, un adolescente, spesso anche un giovane adulto. Questa rappresentazione del rapporto tra i genitori in termini di buono/cattivo è una rappresentazione forte.
Il problema è che è una rappresentazione ambigua perché normalmente anche
proprio nel seguire le tappe evolutive è chiaro che il primo impatto che ha un
figlio di fronte a questa rappresentazione così ferma, così rigida buono/cattivo è quello di “Proteggo il buono, tengo lontano il cattivo” è la prima semplice modalità adattiva.
Il figlio scudo, il figlio che protegge il genitore. A differenza di quanto accade nello spostamento, in cui il figlio non è semplicemente scudo ma è attivo
contro l’altro genitore, qui più che altro è un riparo per il genitore vittimizzato.
Il problema è che mentre svolge questo ruolo il figlio si accorge che le cose
sono un pochino più impicciate, diciamo così, si accorge di quella realtà più
profonda, più nascosta di cui vi parlavo prima cioè che questa madre vittima
che va protetta, bisogna mettersi in mezzo sennò il papà la picchia ecc., in
realtà poi non molla mai cioè fa delle provocazioni pure lei niente male. È
forte questa ed il papà poverino, è vero che è ubriaco, però poi va sotto i
ponti, va a vivere in condizioni di degrado. Comincia un interessamento
diverso rispetto a questa figura per cui su queste immagini doppie e contrapposte di buono/cattivo ufficiale, di forte/debole ufficioso comincia un certo
disorientamento rispetto alla propria collocazione.
Possiamo osservare in questi casi situazioni evolutive molto diverse. Qui
contano molto le identità di genere anche rispetto a questi ruoli di forte/debole, di chi prende e di chi dà perché, insomma, sono ruoli anche socialmente e
culturalmente definiti, molto spesso per esempio rispetto ai maschi vediamo
166
IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA
che in adolescenza tendono a fare un’inversione dell’identificazione cioè tendono ad identificarsi con l’aggressore piuttosto che con la vittima, quindi
cominciano a mettere in atto loro comportamenti paradelinquenziali o di
aggressività o di persecutorietà nei confronti qualche volta della madre ma
per una serie di motivi che sicuramente stanno nella lettura di questo caso
sottostante alle immagini ufficiali ma anche perché per esempio, rispetto alla
propria immagine, la famosa propria immagine che si sta definendo in adolescenza, l’idea dell’aggressore è più spendibile rispetto all’idea della vittima.
Nel gruppo dei pari uno che le prende sta messo male, cioè è un’immagine
ben poco adattiva, quello che sta a coccolare la madre, rispetto alle minacce
che fa il padre. Spesso le figlie femmine sviluppano un altro tipo di situazioni. Fanno le assistenti sociali o fanno le terapeute nel senso che amplificano
alcune caratteristiche che nel culturale femminile sono più sottolineate, come
quella di chi si deve prendere cura di entrambi, dove lì il dramma è lacerante nel senso che poi prendersi cura di entrambi, di una in un senso, di uno nell’altro, comporta un carico emotivo non indifferente. Non è raro, lo dico con
molto senso realistico, non è raro vedere per esempio che queste persone
scelgono delle professioni di aiuto. A volte anche questa scelta professionale
viene vissuta molto problematicamente perché dietro a situazioni di questo
genere c’è, per esempio, un senso di onnipotenza non trionfale (come dire “io
posso risolvere tutto”) ma del tipo “a me si chiede di risolvere tutto”, quindi sempre mal vissuto e mai rifiutato in pieno quindi con vissuti personali
molto pesanti, molto dolorosi, di estremo incastro in questa situazione.
Ci sono dei cliché, che hanno il limite di tutti i cliché, ma molto spesso, per
esempio, nelle famiglie degli alcolisti c’è un figlio, spesso una figlia femmina, spesso la figlia femmina primogenita ma insomma, cerchiamo di non
essere troppo schematici nella cosa, che dedica la sua vita alla cura delle relazioni familiari, cura per definizione infinita perché non ha mai un termine
una cura di questo genere, e c’è solo uno svuotamento di risorse
emotivo/affettive che poi porta, per esempio, a fare scelte personali anche
molte problematiche, sia sul piano affettivo che lavorativo. Ed insomma
rispetto a questi percorsi a lunga distanza, a lunga scadenza di situazioni
della vittimizzazione, che per loro natura sono estremamente coinvolgenti, il
figlio tende o a rigettarli di botto, più tipico del maschile, con tutto quello
che comporta, o tende a ficcarcisi dentro in pieno, più tipico del femminile,
con le altre conseguenze che questo comporta.
Direi che possiamo concludere qui.
Mi piacerebbe che nei gruppi di lavoro del pomeriggio cercaste di applicare
un minimo questo modo di lettura anche ai casi che vi verranno proposti,
attraverso queste due griglie fondamentali, delle tappe dell’età evolutiva e
delle modalità di gestione.
167
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
UN PO’ DI STORIA
L
a disciplina del diritto di famiglia contenuta nel codice civile del 1865,
ispirato dal codice napoleonico, ha riguardo ad una concezione di famiglia
monolitica, verticistica e maschilista, sottratta ad interferenze esterne: il
capo è il marito-padre, il quale esercita la potestà sui figli. Questa spetta alla
madre solo dopo la morte del marito, il quale tuttavia nel testamento può dettare regole per l’educazione dei figli. L’autonomia della moglie è molto limitata. L’adulterio della moglie è punito ed è causa di separazione coniugale per
colpa di lei; per il marito è punita solo la relazione adulterina scandalosa (concubina mantenuta in casa o notoriamente altrove). Il padre può senza che
occorra alcun provvedimento giurisdizionale collocare in casa di correzione il
figlio deviante. In caso di morte dei genitori la tutela dei figli è affidata a persona indicata dai genitori stessi per atto
notarile o nel testamento, anche qui
senza che occorra alcun provvedimento
del giudice. In mancanza di designazione la tutela spetta di diritto all’avo
materno. Non protetta, anzi avversata,
è la famiglia illegittima.
Non vi sono ingerenze dello Stato in
tale tipo di famiglia. Il giudice (sempre
uomo), nei pochi casi in cui interviene,
lo fa distribuendo la ragione ed il torto
tra i coniugi che si separano, punendo la moglie adultera, ecc.
La chiesa cattolica condivide ed appoggia tale idea di famiglia.
Il codice civile del 1942, formulato sotto il regime fascista, non introduce
mutamenti di grande rilievo all’ordinamento civile della famiglia: la donna
acquista una certa libertà nell’amministrazione dei propri beni, ma il marito
continua ad essere il capo della famiglia e ad esercitare la potestà sui figli.
Stato e Chiesa continuano a condividere l’idea di una famiglia fondata sul potere del marito-padre, ma lo stato autoritario non esita ad ingerirsi in essa: l’educazione e l’istruzione dei figli devono essere conformi ai principi della morale ed al sentimento nazionale fascista. Si incoraggia la procreazione di molti
figli. Vengono introdotti i reati contro la stirpe, sono previste pene molto
pesanti per l’aborto, è punita la propaganda anticoncezionale. Lo stato interviene nella gestione della famiglia attraverso l’ONMI, munito di notevoli poteri,
e attraverso i giudici (giudice tutelare e tribunale per i minorenni). Nasce la
volontaria giurisdizione in materia di famiglia e di persone.
La nuova disciplina non viene attuata dal regime fascista, che cade quasi subito, ma resta quasi intatta, a parte l’eliminazione del richiamo al sentimento
nazionale fascista, per molto tempo. Stato e Chiesa continuano a condividere
l’idea di una famiglia coesa e forte, guidata dal maschio capo famiglia. I
Tribunali per i minorenni, che non sono ancora autonomi, ma solo sezioni dei
tribunali ordinari, raramente intervengono a tutela dei figli nei confronti dei
genitori, limitandosi a svolgere un gran lavoro nel settore penale e della rieducazione dei minori devianti.
Bisogna aspettare gli ultimi anni sessanta per incominciare a vedere le prime
I GIUDICI CHE SI
OCCUPANO DI MINORI
DR.SSA
MAGDA
BRIENZA
PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI ROMA
168
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
rilevanti novità nell’istituzione famiglia. È del 1968 la sentenza della Corte
Costituzionale che cancella il reato di adulterio in quanto riservato alle donne.
Ma l’evento veramente rivoluzionario è l’introduzione nel 1967 della legge
sull’adozione speciale. Questo istituto assume una forte connotazione pubblicistica. È affidato ai giudici il compito di valutare se un bambino è o meno
abbandonato, di dichiararne lo stato di adottabilità e di inserirlo, se del caso, in
un nuovo nucleo familiare. I Tribunali per i minorenni, organi giudiziari specializzati e finalmente autonomi, scoprono ed applicano anche le norme che
disciplinano l’esercizio della potestà (artt. 330 e 333 c.c.).
Successive rilevanti tappe della riforma nel settore famiglia sono: la legge sul
divorzio del 1970, la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la legge sull’adozione e sull’affidamento familiare del 1983. Si tratta di modifiche legislative che corrispondono ai rilevanti mutamenti sociali che si sono intanto verificati (liberazione della donna, scoperta del superiore interesse del minore, della
libertà sessuale, della parità dei coniugi nell’esercizio della potestà). Nel 1978
è liberalizzato l’aborto e nei consultori viene svolta attività di consulenza e
sostegno per evitare gravidanze indesiderate.
Solo da poco più di trent’anni il nostro ordinamento giuridico, anche sulla base
delle convenzioni internazionali stipulate sui diritti del fanciullo, ha scoperto i
bambini come soggetti di diritti non ancora in grado di far sentire la propria
voce. Esso affida ai giudici ampi poteri di intervento e di decisione: è il giudice che autorizza il matrimonio del sedicenne, anche se i genitori non sono d’accordo; è il giudice che autorizza la minorenne ad abortire senza o anche contro
la volontà dei genitori; è il giudice che decide sull’affidamento dei figli in caso
di separazione e divorzio dei genitori, facendo esclusivo riferimento al loro
interesse materiale e morale.
Intervengono negli anni 90 nuove importantissime norme a tutela dei minori: La
legge che detta “Nuove norme contro la violenza sessuale” del 1996 e la legge
n. 269 del 1998, contenente norme sullo sfruttamento sessuale dei minori.
La prima, pur non occupandosi specificatamente di minori, ha introdotto varie
norme che li riguardano.
Violenza sessuale ed atti di libidine non più reati contro la morale, ma contro
la persona e le due distinte fattispecie sono state unificate con importanti vantaggi sotto il profilo probatorio. L’art. 13 introduce il comma 1 bis dell’art. 392
c.p.p. nel quale si prevede un’autonoma ipotesi in cui può essere chiesto l’incidente probatorio (assunzione della testimonianza di persona minore degli
anni 16 nei procedimenti per violenza sessuale, atti sessuali con minorenni,
corruzione di minorenni e violenza sessuale di gruppo). Quando i reati di violenza sessuale siano stati commessi in danno di un minorenne il Pubblico
Ministero deve darne comunicazione al Tribunale per i minorenni.
La seconda legge si ispira ai principi della convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che tutela il diritto dei minori ad un libero e naturale sviluppo
fisico, psicologico e morale contro ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale. Sono state introdotte nuove ipotesi di reato che sanzionano lo sfruttamento della prostituzione minorile, la pornografia minorile anche nell’insidiosa diffusione telematica e il c.d. turismo sessuale, rivolto soprattutto all’oriente. Sono state previste disposizioni processuali per agevolare la perseguibilità
dei nuovi delitti. Sono istituite unità specializzate di polizia giudiziaria nel169
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
l’ambito degli accordi internazionali con altri paesi dell’Euro. In particolare è
previsto un nucleo di polizia giudiziaria presso la sede centrale della questura
e sono istituite unità specializzate di polizia di polizia giudiziaria presso ogni
Squadra mobile. La legge ha altresì ribadito la necessità di adeguati interventi
di sostegno e tutela per i minori che esercitano la prostituzione o per i minori
stranieri, privi di assistenza, coinvolti nella pornografia o nella prostituzione
minorile, prevedente immediati interventi del Tribunale per i minorenni.
L’applicazione della nuova normativa richiede, come è evidente, una specifica
ed approfondita preparazione e competenza a trattare la delicata materia. È
essenziale saper riconoscere e cogliere la richiesta di aiuto del minore, nonché
la conoscenza da parte degli operatori socio sanitari e degli insegnanti dell’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria.
La reazione della società di fronte ad interventi giudiziari di tale delicatezza e
rilevanza è spesso di protesta e di forte reazione, ingrandita dagli organi di
stampa e dalle televisioni. È naturale che l’allontanamento di un bambino dalla
sua famiglia scuota l’opinione pubblica, che si forma sulla base di quel che
viene riferito dagli organi di informazione, presso i quali solo gli adulti sono in
grado di far sentire le proprie ragioni. E si sa che gli adulti solidarizzano tra
loro, poiché ognuno si riconosce nell’altro
Il difficile compito dei giudici minorili è oggi diventato ancor più difficile. Si consideri da un lato che sembra si siano esaurite quelle spinte ideali che hanno portato alla formulazione dell’attuale normativa a tutela dei minori (“I figli non sono
nostri”, diceva Meucci). Il concetto di famiglia è profondamente mutato. Si parla
giustamente di “nuove famiglie”: famiglie monogenitoriali e famiglie ricostituite;
attraverso l’inseminazione artificiale si possono avere figli senza padre o figli con
due madri. Si parla anche di clonazione. Manca un’idea ed un valore condiviso.
Il rito camerale, costituito da poche norme, scarne e generiche, che lasciano
ampio spazio ai poteri discrezionali del giudice è compatibile con il nuovo art.
111 della costituzione, che richiede regolamentazione per legge, rispetto del
principio del contraddittorio, terzietà ed imparzialità del giudice, ragionevole
durata del processo?
I giudici minorili da oltre 20 anni si sono confrontati tra loro e con l’avvocatura sui temi nodali della giurisdizione minorile: rapporti tra giurisdizione e
amministrazione, e quindi rapporti con i servizi sociali e rilievo nel processo
delle loro relazioni; diritti dei genitori e diritti dei figli e loro esigenza di tutela
e quindi disposizione delle prove da parte del collegio, modalità delle consulenze tecniche; esigenza del contraddittorio; specializzazione e composizione collegiale mista (giudici togati e giudici esperti) dei Tribunali per i minorenni.
L’essenza e le modalità della collegialità, in mancanza di una disciplina legislativa, è stata definita dalla Corte di Cassazione (Cass. Sez. Unite civ. 19.6.96 n.
5629 e dal Consiglio Superiore della Magistratura (circolare 20.5.98 n. 9/97)- È
comunque indispensabile una disciplina legislativa, da tempo invocata e non
prevista ancora oggi dai progetti di legge governativi all’esame del parlamento.
Le norme del procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità,
recentemente introdotte con la legge 149/2001 di modifica della legge n.
184/83 non sono ancora entrate in vigore, nonostante stia per scadere la seconda proroga di un anno disposta al momento della loro emanazione.
Nel dibattito svoltosi in dottrina e giurisprudenza rimangono alcuni nodi anco170
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
ra non risolti.
Le regole dei procedimenti contenziosi possono applicarsi ai procedimenti minorili? Vi sono in questi procedimenti parti contrapposte? Quali sono i soggetti che
possono assumere la veste di parte? Vi è compatibilità tra processo tra parti e la
tutela privilegiata che il legislatore intende assicurare all’interesse superiore del
minore? Può parlarsi nel procedimento minorile di vincitori e soccombenti?
In realtà basti pensare al procedimento di opposizione alla dichiarazione dello
stato di adottabilità, del quale è parte il minore, rappresentato da un curatore
speciale: può dirsi soccombente il minore se non viene accolta la richiesta del
curatore di conferma dello stato di adottabilità?
Nei procedimenti minorili il giudice non p chiamato a distribuire ragione e
torto: egli ha il compito di valutare, controllare ed eventualmente ripristinare o
interrompere relazioni umane, affettivo-educative formulando giudizi prognostici ed emanando provvedimenti a volte diretti a modificare tali relazioni
orientandole verso l’interesse del minore. Tutto ciò non elimina, ma anzi ribadisce la necessità che sia rispettato in pieno il principio del contraddittorio, che
deve essere inteso come diritto di tutti i soggetti interessati a far valere il proprio punto di vista, rappresentando pienamente al giudice le proprie ragioni.
Il modello processuale auspicabile è quello di un processo snello nelle forme,
privo di preclusioni ed idoneo a garantire all’occorrenza rapidità di decisione,
ma anche possibilità di approfondimento per valutare le reali possibilità che in
una determinata situazione si possa o meno recuperare una buona relazione
educativa.
Per quanto riguarda il rilievo processuale delle relazioni dei servizi sociali non
va dimenticato che questi sono organi dello stato deputati istituzionalmente a
rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana
(art. 3 della Costituzione) e che pertanto gli operatori sociali hanno la veste di
incaricati di un pubblico servizio. Invece di sminuire i loro compiti, occorre
pretendere che essi siano più adeguati alla funzione che sono chiamati a svolgere. Sotto il profilo strettamente processuale essi non possono essere considerati consulenti tecnici né testimoni (a meno che non si tratti di riferire su fatti
puri e semplici). Trattasi di quegli altri ausiliari di cui all’art. 68 c.p.c. dai quali
il giudice può farsi assistere, non potendosi dissociare nella loro attività istituzionale quanto vi è di ricognizione e quanto di valutazione.
Va quindi ribadita l’utilizzabilità nel processo delle relazioni dei servizi sociali. Ciò non vuol dire che il giudice deve avere con i Servizi sociali un rapporto privilegiato. Sarebbe anzi opportuno che un miglior rapporto di reciproca
conoscenza si instaurasse tra questi ed il Pubblico Ministero. Deve inoltre essere fatta salva la facoltà dei soggetti interessati a proporre mezzi di prova diretti a contestare il contenuto delle relazioni sociali o di chiedere che l’operatore
sia chiamato a chiarimenti in presenza dei soggetti interessati, i quali possano
contraddirre e far valere le proprie ragioni.
In altre parole cancellare il rito camerale non deve significare far venir meno
quella tutela privilegiata del minore che oggi la legge interna e le convenzioni
internazionali assicurano al minore quale portatore di un interesse superindividuale, di un interesse della collettività ad un sano sviluppo della personalità dei
soggetti in età evolutiva.
171
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
SOMMARIO
1. Premessa.
2. Lo stato della legislazione.
3. La dottrina.
4. La giurisprudenza.
5. Rilievi critici.
6. Il titolo esecutivo.
7. Le prassi.
8. La soluzione allo stato della legislazione vigente.
9. L’art. 337 c.c.
10. De iure condendo.
1. PREMESSA.
L
a delicatezza del tema emerge già dall’accostamento, nel titolo, di due termini tra loro
difficilmente compatibili: “esecuzione” e
“persona del minore”. Si tratta cioè della disciplina della concreta attuazione di provvedimenti
giurisdizionali riguardanti non già una cosa o
un’opera, ma un soggetto, e per di più un soggetto particolarmente fragile, perché in formazione.
Si tratta anche in genere di decisioni, tra loro eterogenee, particolarmente incisive nella vita del minore e delle persone adulte che sono in relazione con lui, volte a porre rimedio a momenti di crisi delle
relazioni stesse. Basti pensare alle
decisioni di allontanamento di un
minore dalla sua famiglia per accertati
o sospetti maltrattamenti, abusi o trascuratezze, o anche per temporanee
difficoltà familiari, agli affidamenti
all’uno o all’altro genitore o a terzi in
occasione della scissione della coppia
genitoriale, alle decisioni che dispongono il rientro del minore in famiglia
dopo lungi periodi di inserimento in
un diverso nucleo familiare, ecc. Tutti
concordano nel ritenere che per l’attuazione di tali provvedimenti occorre
apprestare ogni strumento disponibile
volto ad evitare per quanto possibile
che l’evento, di per sé drammatico, provochi traumi al minore, ai suoi familiari o ad altre persone comunque coinvolte. Occorre quindi da parte di chi
deve provvedere all’esecuzione una approfondita conoscenza della situazione personale, relazionale, ambientale, per poter valutare ogni risorsa disponibile e scegliere i tempi e le modalità più idonei. Occorre una elevata professionalità da parte di chi deve intervenire o vigilare (giudici, operatori dei servizi sociali, avvocati ecc.) per poter giungere alla realizzazione dello scopo
(effettività della tutela predisposta con la decisione), senza provocare danni
o con il minor danno possibile.
L’esigenza che il provvedimento giurisdizionale - emesso, si badi bene, nell’esclusivo (o prevalente o superiore) interesse del minore - sia eseguito, è
fortemente sentita da tutti e non solo da chi ha visto riconosciute le proprie
ragioni, magari dopo lunghe, contrastate e sofferte vicende processuali. Il
provvedimento da eseguire è in genere un punto fermo da cui partire per
porre fine a difficili e laceranti conflitti e per riprendere il progetto educativo interrotto. Se esso non viene eseguito, non solo si lascia il minore in una
situazione di precarietà certamente deleteria per lui, ma si provoca la sensazione che prevale la prepotenza, la prevaricazione, la mancanza di scrupoli,
che finisce per avere di fatto ragione chi ha creato la situazione antigiuridica
L’ESECUZIONE DEI
PROVVEDIMENTI
CONCERNENTI
LA PERSONA DEL MINORE
DR.SSA
MAGDA
BRIENZA
PRESIDENTE DEL TRIBUNALE
PER I MINORENNI DI ROMA
172
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
e contraria all’interesse del minore, chi è riuscito a sottrarlo materialmente,
chi lo ha condizionato, blandito, strumentalizzato, chi ha usato i sistemi educativi meno idonei per lo sviluppo armonico della sua personalità.
2. LO STATO DELLA LEGISLAZIONE.
lle suddette fondamentali esigenze non fa riscontro un adeguato assetto
Ariguardo,
normativo. Nonostante il vasto ed approfondito dibattito svoltosi al
non si è ancora giunti nel nostro ordinamento giuridico alla formulazione di norme capaci di disciplinare l’effettiva e per quanto possibile rapida attuazione delle decisioni, assicurando che questa si realizzi nel rispetto
della personalità e della dignità del minore nel cui interesse la decisione stessa è stata adottata.
La giustizia minorile, da tempo bisognosa di urgenti riforme ordinamentali,
sostanziali e processuali, che hanno formato oggetto negli ultimi trent’anni di
numerosi disegni di legge, mai approvati, continua a rimanere priva di una
disciplina normativa specifica del momento attuativo dei provvedimenti giurisdizionali riguardanti il minore e in particolare del momento in cui la concreta realizzazione di quanto è stato deciso nel suo interesse non può avvenire perché manca il consenso di chi è tenuto a collaborare. Ancora oggi, come
diceva il Mortara, occorre ricorrere ad “adattamenti e ripieghi con cui talvolta si raggiunge lo scopo (ma) prendendo norma dalle disposizioni testuali dei
codici, è impossibile proporre una soluzione giuridica soddisfacente”.
L’alternativa continua a porsi, come un secolo fa, tra il ricorso alle procedure esecutive e ricorso agli strumenti predisposti dal codice civile in tema di
potestà e di separazione (vedi Cass. Roma, 10.4.1878 nel primo senso e Cass.
Napoli 13.6.84 nel secondo).
Non sono mancate le occasioni per una organica riforma, ma della grave
lacuna esistente in questa materia il legislatore non ha tenuto conto né quando è stata varata la riforma del diritto processuale civile, che sarebbe stata
una buona occasione anche per definire le regole dei procedimenti camerali,
né quando è stato introdotto il giudice unico di primo grado, né in occasione
delle recenti leggi di ratifica della convenzione de L’Aja sull’adozione internazionale (legge n. 31.12.1998 n. 476) e di quella di riforma della legge
4.5.1983 n. 184 sull’adozione e l’affidamento familiare (legge 28.3.2001 n.
149).
Le disposizioni cui si deve fare riferimento sono da una parte quelle del codice civile: gli articoli 344, secondo comma, 337 e 333: il primo prevede la
possibilità per il giudice tutelare di chiedere l’assistenza degli organi della
pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle sue
funzioni ed è ritenuto utilizzabile per analogia da ogni altra autorità giudiziaria minorile diversa dal giudice tutelare; il secondo stabilisce l’obbligo del
giudice tutelare di vigilare sull’osservanza delle condizioni che il tribunale
abbia stabilito per l’esercizio della potestà; il terzo dispone che il tribunale
per i minorenni adotti “provvedimenti convenienti” in ogni caso di condotta
dei genitori pregiudizievole al figlio.
Possiamo aggiungere a queste norme quella dell’art. 6, comma 10 della legge
sullo scioglimento del matrimonio (legge 6.3.1987 n. 74, che ha modificato
173
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
la legge.1.12.70 n. 898), che affida al giudice di merito l’attuazione delle
decisioni relative all’affidamento della prole.
I sostenitori della tesi processualistica fanno ormai riferimento all’art. 612
c.p.c., essendo stata abbandonata quella dell’applicabilità delle disposizioni
di cui agli artt. 605 e segg. (esecuzione per consegna o rilascio) da quando la
Cassazione con sentenza n. 292 del 1979, “superando le incertezze espresse
in dottrina e dai giudici di merito” ha ritenuto che “la consegna di un bambino non può essere equiparata a quella di una cosa”.
Per completare il quadro normativo, debbono essere poi ricordati: l’art.68
u.c. c.p.c., secondo il quale “il giudice può sempre richiedere l’assistenza
della forza pubblica; e gli artt. 14, 73 e 78 dell’ordinamento giudiziario: il
primo prevede che ogni giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, può chiedere, quando occorre, l’intervento della forza pubblica e può prescrivere tutto
ciò che è necessario per il sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali
procede, il secondo stabilisce che “il Pubblico Ministero… veglia …alla tutela degli incapaci” e il terzo dispone che “le sentenze e gli altri provvedimenti del giudice civile sono fatti eseguire d’ufficio dal pubblico ministero nei
casi preveduti dalla legge”.
Ancora, l’art. 23 del D.P.R. n. 616/1977 attribuisce ai comuni le attività
amministrative relative agli “interventi in favore di minorenni soggetti a
provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza amministrativa e civile”.
Infine gli artt. 6 e 7 della legge 15 gennaio 1994 n. 64 di ratifica ed esecuzione delle convenzioni del Lussemburgo in data 20.5.80 in materia di affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento e della convenzione de
L’Aja del 25.10.80 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale dei
minori, attribuiscono al Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni la cura, anche avvalendosi dei servizi minorili dell’amministrazione della
giustizia, della esecuzione delle decisioni prese del tribunale.
3. LA DOTTRINA.
a dottrina, sotto il vigore del codice del 1865, era divisa tra fautori di una
Lprocessuale.
esecuzione coattiva amministrativa e fautori di una esecuzione coattiva
E le cose non sono cambiate con l’entrata in vigore dei codici del 1942, salvo
che per l’introduzione, accanto all’esecuzione forzata per consegna, di quella per gli obblighi di fare. Tale novità non è servita però a fugare i dubbi, e
le opinioni in dottrina sono rimaste contrastanti. Autorevoli giuristi si sono
pronunciati per l’eseguibilità in via amministrativa dei provvedimenti riguardanti i minori.
Altri per l’esecuzione per consegna. Altri ancora per l’esecuzione giurisdizionale attraverso l’applicazione della disciplina dell’esecuzione forzata
degli obblighi di fare. Altri infine hanno affermato che in caso di inadempimento non resta che il ricorso alle sanzioni indirette e principalmente a quelle di carattere penale.
Tale incertezza interpretativa dipende dal fatto che si va inutilmente alla
ricerca di disposizioni processuali applicabili alla materia. Il legislatore che
174
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
ha dettato le disposizioni relative all’esecuzione forzata per consegna e rilascio ed anche quello che ha introdotto l’esecuzione forzata degli obblighi di
fare non avevano certamente in mente l’applicabilità di tali norme all’ipotesi in cui l’esecuzione si riferisse alla persona del minore, anziché a una res o
all’adempimento di obblighi di carattere patrimoniale. Basta leggere le
norme per convincersene. Non può riferirsi ad un bambino la norma che
richiede che il precetto per consegna di beni mobili contenga anche la descrizione sommaria dei beni stessi (art. 605). Come ha affermato la Cassazione
“la consegna di un bambino non può essere domandata all’ufficiale giudiziario sulla base della sola condizione del reperimento, ma richiede pur sempre
l’adozione di comportamenti e la scelta di tempi e di modalità per le quali è
necessario il prudente apprezzamento del giudice”. Ugualmente non può riferirsi ai minori la norma dell’art. 612, 2° comma, che prevede che il giudice
dell’esecuzione, adito dopo la notificazione del precetto per la determinazione delle modalità dell’esecuzione, “nella sua ordinanza designa l’ufficiale
giudiziario che deve procedere all’esecuzione e le persone che devono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella
compiuta”.
4. LA GIURISPRUDENZA.
a mancanza di una specifica disciplina, per cui permane la “desiderabilità
Lprestazioni
di regole sobrie e precise sulla esecuzione forzata per le varie categorie di
derivanti da obblighi di fare” di cui parlava il Mortara, ha reso
necessari gli sforzi che la Suprema Corte ha fatto per proporre, con “amplissima e ragionata motivazione”, un “paradigma totale dell’esecuzione minorile”
La Cassazione con la sentenza n. 3574 del 1980 ha innanzi tutto voluto ricondurre il delicato momento dell’esecuzione coattiva sotto il controllo giurisdizionale, escludendo che questa possa svolgersi nelle forme e con la discrezionalità propria dell’attività amministrativa, affermando che “non vi è ragione
per ritenere che il comando del giudice debba, nella fase esecutiva, essere
avulso dall’ambito della funzione giurisdizionale”. L’esigenza fondamentale
di “assicurare che il provvedimento sia portato comunque ad esecuzione
imprescindibilmente” fa ritenere alla Corte inaccettabile l’esecuzione in via
amministrativa, avvenga essa per iniziativa autonoma dall’autorità di P.S. (la
quale però, ove ricorra un’ipotesi di reato, interviene per evitare che il reato
sia portato a conseguenze ulteriori), o sia viceversa attuata sotto la vigilanza
del giudice tutelare. Invero, secondo la Cassazione, il richiamo alla figura di
questo giudice comporta la sollecitazione del potere amministrativo del
magistrato adito e quindi un suo discrezionale apprezzamento riguardante la
scelta fra il provvedere e il non provvedere, mentre nel quadro dell’esecuzione giurisdizionale, l’opzione resta circoscritta alla scelta fra le modalità alternative che risultino più adeguate al caso concreto.
Scelta la via dell’esecuzione coattiva strettamente processuale, la Corte ha
fatto una fondamentale distinzione tra i provvedimenti provvisori, destinati a
regolare interinalmente il problema dell’affidamento della prole e i provvedimenti definitivi. Tra questi ultimi, accanto alle sentenze la Corte pone i
175
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
provvedimenti che, pur non emessi nelle forme del giudizio di cognizione e
non risolvendosi in una sentenza, si caratterizzano “per l’instaurazione di un
collegamento tendenzialmente definitivo tra minore e titolare della potestà
sul medesimo e che, in funzione di tale definitività, realizza una situazione
assimilabile a quella definita in una sentenza”.
I primi (provvedimenti interinali), tra i quali quelli emanati ex art. 708 c.c.,
destinati ad essere modificati, revocati o confermati nel corso del procedimento, sono attuabili in via breve a cura del giudice che li ha emanati, con
l’ausilio, se del caso, della forza pubblica.
Viceversa per le sentenze e per tutti i provvedimenti che esauriscono il procedimento, destinati quindi a disciplinare stabilmente una situazione, debbono trovare applicazione le disposizioni di cui agli artt. 612 e segg. c.p.c. e la
competenza spetta al giudice dell’esecuzione e non già al giudice tutelare.
L’elemento di stabilità e tendenziale definitività dell’atto, nonostante il suo
inquadramento formale nella volontaria giurisdizione, attribuisce secondo la
Cassazione al provvedimento la qualifica di titolo esecutivo necessaria per
l’applicabilità della procedura ex art. 612.
5. RILIEVI CRITICI.
llo schema esecutivo generale costruito dalla Corte sono stati mossi molti
Ane dell’art.
rilievi, primo fra tutti quello che rileva come restino fuori dall’applicazio612 proprio gli unici provvedimenti diversi dalla sentenza ai quali
è riconosciuta la qualifica di titolo esecutivo (artt. 708 c.p.c. e 189 disp. att.
c.p.c.). “Anziché appoggiarsi a norma positiva stimata evidentemente inadeguata a reggere la costruzione teorica, la Corte ha preferito argomentare per
assiomi e dedurre dal principio di tutela giurisdizionale, che si vuole piena
anche nella fase esecutiva, che non vi è ragione di ritenere che il comando del
giudice debba nella fase esecutiva essere avulso dalla funzione giurisdizionale” (Sacchetti). Ma poi, quanto alle forme, la stessa Cassazione le invoca duttili e flessibili, con caratteri cioè del tutto incompatibili con quelli tradizionalmente loro riconosciuti, superando anche il dogma della tipicità delle
forme di esecuzione specifica “che ha sempre operato nel senso di escludere
la tutela esecutiva di molte situazioni non riconducibili alla tradizionale tipologia della creazione o distruzione di opere materiali”. È data come eventuale la stessa nomina dell’ufficiale giudiziario: Tali forme atipiche sarebbero da
costruire, secondo Borré, sulla base del criterio di congruenza tra le forme
stesse ed il risultato da conseguire (ai sensi dell’art. 121 c.p.c.). La conclusione è che si avrebbe un procedimento sui generis.
La tesi della Cassazione sull’applicabilità della normativa processuale relativa agli obblighi di fare non ha avuto fortuna presso i giudici di merito. E la
generalità del fenomeno induce a ritenere che ciò non sia addebitabile ad una
proterva volontà dei giudici di ridiscutere le valutazioni effettuate con tali
provvedimenti giurisdizionali, restando liberi di provvedere o non provvedere sull’istanza di esecuzione. Anche in dottrina del resto vi sono autorevoli
voci dissenzienti.
In realtà la mancanza di una norma specifica in materia rende opinabile qualsiasi soluzione interpretativa, che tende necessariamente a privilegiare alcu176
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
ni aspetti del problema a scapito di altri e comporta inevitabilmente una qualche forzatura.
Il tentativo di soluzione pur pregevole della Cassazione è sostanzialmente
incentrato sull’imprescindibilità dell’obbligo del giudice di dare esecuzione
ai provvedimenti di affidamento e quindi a far prevalere sulla riconosciuta
duttilità del quomodo l’obbligatorietà dell’an. L’alternativa tra giudice dell’esecuzione e giudice tutelare è risolta a favore del primo nel presupposto
della natura amministrativa dei poteri del secondo.
Poiché si tratta di verificare non tanto l’esattezza - nel sostanziale vuoto normativo - di una soluzione o dell’altra, quanto la maggiore “attendibilità” di
una di esse in base al quantum di sforzi di adattamento delle norme utilizzate, che costituisce il percorso obbligato per arrivare ad una soluzione o ad
un’altra, non è azzardato ritenere che la serie di ostacoli che la Cassazione
supera con adattamenti della lettera della legge sia superiore a quella che
occorre superare per pervenire alla soluzione opposta.
Premesso che la Cassazione giudicava su un caso di rifiuto di un pretore, che
cumulava le funzioni di giudice dell’esecuzione e di giudice tutelare, di eseguire un provvedimento del tribunale basato su un riconoscimento della
paternità che era ancora controverso, è da osservare innanzi tutto che il trasparente obbiettivo della decisione è quello di negare che in sede esecutiva
possa essere ridiscusso il provvedimento del giudice di merito.
6. IL TITOLO ESECUTIVO.
er pervenire a questa soluzione la Cassazione supera innanzi tutto un
P
primo ostacolo costituito dalla difficoltà di definire i rapporti tra provvedimento sull’affidamento e fase successiva in termini di rapporto tra titolo
esecutivo ed esecuzione, attribuendo efficacia esecutiva a provvedimenti
come quelli camerali di affidamento cui tale efficacia non è espressamente
riconosciuta ai sensi dell’art. 474 c.p.c.. La difficoltà viene superata dalla
Corte attraverso l’affermata assimilabilità delle situazioni realizzate con
provvedimenti camerali di affidamento, aventi il carattere di definitività e
tendenziale stabilità, a quelle definite con sentenza. Ulteriore ostacolo è poi
quello che molti dei provvedimenti di affidamento non sono le sentenze di
“condanna” cui si riferisce l’art. 612 c.p.c. Anche questa difficoltà, sul piano
ermeneutico è superabile, ad esempio affermando, come fa parte della dottrina, che ogni decisione di natura costitutiva contiene implicitamente disposizioni accessorie di condanna ad un fare. Non si può quindi escludere in
astratto che anche in questa materia, possano esservi provvedimenti identificabili come titolo esecutivo, decisioni, cioè, che abbiano caratteristiche tali
per cui gli organi giudiziari, o i loro ausiliari, recepito l’ordine contenuto
nella decisione stessa, “non debbono fare nulla di più e nulla di meno, per
l’attuazione della sanzione, di quel che è comandato nel titolo”.
Tuttavia va riconosciuto che, nella stragrande maggioranza dei casi, vi è
assoluta indeterminatezza circa il facere. Ciò accade, per esempio, in tutte
quelle decisioni che, nel disporre l’affidamento di un minore stabiliscono
espressamente, o presuppongono logicamente, la necessità di costituzione o
ricostituzione di relazioni interpersonali inesistenti o interrotte da tempo. In
177
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
tali casi è evidente che manca del tutto l’attitudine del provvedimento ad
essere portato ad esecuzione forzata.
L’impraticabilità del procedimento di esecuzione forzata in forma specifica
risulta altresì evidente, nei casi in cui chi non intende conformarsi al provvedimento giudiziario è non già un adulto, ma il minore stesso.
Intanto non può non rilevarsi che il procedimento ex artt. 612 e segg. c.p.c.,
che non fa alcuna menzione della necessità o opportunità dell’ascolto del
minore, a prescindere dalla sua età, deve necessariamente essere coordinato
con quanto prescrive all’art. 12 la Convenzione di New York, che è legge
dello stato in virtù della legge di ratifica ed esecuzione del 27.5.91 n. 176. La
Convenzione afferma invero il diritto del fanciullo di esprimere liberamente
la sua opinione su ogni questione che lo interessa e di vederla debitamente
presa in considerazione, tenuto conto della sua età e del suo grado di maturità. Il minore quindi dovrà essere sentito, direttamente o tramite un rappresentante o un organo appropriato. Ma non basta. Nessuna coercizione fisica
potrà essere esercitata su di lui al di fuori dei limiti previsti dalla legge.
Sicché, per esempio, nell’ipotesi che l’attuazione del provvedimento giudiziale sia chiesta da chi è titolare della potestà genitoriale, dovrà tenersi conto
delle limitazioni che la potestà gradualmente subisce man mano che il minore crescendo acquista autonomia. Anche se il legislatore non ha dettato regole precise, né poteva farlo, è evidente che un certo uso che si fa della potestà
quando il bambino è piccolo, può diventare abuso quando questi è adolescente. Sotto un altro aspetto, nell’ipotesi, per esempio, che l’allontanamento di
un minore da un certo contesto familiare sia dettato dalla opportunità di sottrarlo ad una situazione di rischio psicopatologico, occorrerà riflettere sul
fatto che nessuno ritiene che possano per esempio essere imposti trattamenti
sanitari ad un adolescente sufficientemente maturo al di fuori dell’applicabilità della legge sui trattamenti sanitari obbligatori, non potendo il genitore
sostituirsi al figlio in simili casi, che esulano dall’ambito della rappresentanza legale. Il criterio al quale occorre fare riferimento è oggi, specie dopo l’entrata in vigore della legge 28.3.2001 n. 149 (riforma dell’adozione e dell’affidamento) la capacità di discernimento, che comprende due distinte attitudini : da un lato la capacità di valutare la propria situazione, con riguardo non
solo al presente, ma anche al futuro (progetto educativo) e dall’altro quella di
autodeterminarsi, cioè di operare una scelta tra diverse possibilità. È quindi
da ritenere che non possa essere imposto con la forza ad un minore con sufficiente capacità di discernimento di trasferirsi a vivere con il genitore che in
sede di separazione personale dei coniugi è stato ritenuto maggiormente idoneo a provvedere alla sua educazione, se egli non lo desidera. Anche in questo caso la decisione giudiziaria non può costituire titolo per una esecuzione
forzata, non essendo esigibile nei confronti del minore la situazione giuridica del genitore a favore del quale è stato disposto l’affidamento.
La convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980 sulla sottrazione internazionale dei
minori, resa esecutiva in Italia con legge 15 gennaio 1994 n. 64, dispone che
l’autorità giudiziaria o amministrativa può rifiutare l’ordine di rientro del
minore nel luogo di residenza abituale, se questi si oppone ed ha raggiunto
una età e una maturità tale per cui deve tenersi conto della sua opinione.
178
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
7. LE PRASSI.
attuazione dei provvedimenti riguardanti i minori ha avuto diverse appliL’
cazioni nei vari uffici giudiziari e si sono riscontrate diverse modalità di
attuazione anche a seconda del tipo di provvedimento.
La soluzione che attribuisce al giudice tutelare la competenza ad attuare i
provvedimenti relativi ai minorenni ai sensi dell’art. 337 c.c., è prevalsa nei
grandi uffici giudiziari e cioè in quelli nei quali vi sono giudici addetti in via
esclusiva o prevalente allo svolgimento delle funzioni tutelari ed eccezionalmente anche in uffici giudiziari medi e piccoli, quando le funzioni tutelari
sono risultate affidate a singoli magistrati interessati per loro caratteristiche
personali alla specifica materia. Si tratta quindi sempre di giudici muniti di
adeguata specializzazione e sensibili da una parte all’esigenza dell’indefettibilità dell’esecuzione e dall’altra alla necessità di utilizzare modalità e tempi
rispettosi della preminente esigenza di tutela del minore. Si tratta come si
vedrà di una prassi che pur essendo in netto contrasto con l’indirizzo dettato
dalla Suprema Corte, è tuttavia in linea con i principi ispiratori della giurisprudenza della Cassazione. Oggetto di questa attività di attuazione da parte
dei giudici tutelari sono innanzi tutto i provvedimenti che disciplinano il c.d
diritto di visita del genitore non affidatario (in relazione ai quali nessuno
afferma che possa essere utilizzato lo schema processuale dell’art. 612 cpc,
trattandosi di comportamenti ripetitivi), cui si aggiungono quelli emanati dal
Tribunale per i minorenni ai sensi degli artt. 317/bis c.c. e quelli adottati dai
tribunali ordinari nell’ambito dei giudizi di separazione e di divorzio. Sono
attuate poi a cura di tali giudici anche le sentenze emesse in secondo grado
dalla Corte d’Appello, che definiscono tali giudizi, disponendo il trasferimento della prole da un genitore all’altro o a terzi.
Raramente invece sono portati ad esecuzione a cura dei giudici tutelari i
provvedimenti definitivi emanati dai Tribunali per i minorenni nell’ambito
dei procedimenti ex artt. 330 e segg. C.C. Ciò dipende sia dalla generalizzata adozione nel corso del procedimento di provvedimenti provvisori e urgenti, ai quali i Tribunali per i minorenni danno immediata attuazione direttamente, cosicché la situazione di tutela risulta già realizzata prima ancora
della decisione definitiva, sia dallo stretto rapporto di collaborazione tra giudici e servizi sociali che caratterizza questi procedimenti. Emessa la decisione, questa viene immediatamente comunicata per l’attuazione al servizio
sociale che nella maggior parte dei casi è lo stesso che ha segnalato la situazione di disagio, maltrattamento o abuso, che costituisce la causa del provvedimento di allontanamento del minore dal suo nucleo familiare.
Va ricordato che i Tribunali per i minorenni provvedono direttamente in virtù
della legge n. 184/83 all’attuazione di tutti i provvedimenti provvisori e definitivi adottati nei procedimenti di dichiarazione dello stato di adottabilità ed
in quelli di adozione.
In realtà, per questi provvedimenti giudiziari l’attuazione diretta da parte dei
Servizi sociali sotto la vigilanza dello stesso giudice che li ha emanati, è la
norma. Fanno eccezione i decreti emessi ex art. 317/bis, che vengono spesso
azionati dai genitori con ricorsi ai giudici tutelari ex art. 337 c.c. o al giudice dell’esecuzione ex art. 612 e segg. c.p.c.
179
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Presso i Tribunali per i minorenni è quindi nettamente prevalente la prassi
dell’esecuzione diretta in via breve sia dei provvedimenti provvisori e urgenti che di quelli definitivi, con numerose varianti da tribunale a tribunale a
seconda delle differenti organizzazioni dei servizi sociali territoriali, dell’esistenza o meno di protocolli d’intesa tra i servizi stessi e l’autorità giudiziaria, della diversa sensibilità del foro locale.
E tra i giudici minorili vi è chi nega che possa esistere in questa materia una
autonoma fase esecutiva, distinta da quella di cognizione, affermando che
nella fase attuativa l’autorità giudiziaria che ha emesso la decisione ha come
interlocutore il servizio sociale territoriale, il cui dovere di provvedere non
deriva dalla disposizione del giudice, ma dalla legge (artt. 22 e 23 del DPR
616/77) e dall’obbligo di predisporre ed erogare interventi in favore dei
minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza civile ed amministrativa. Tale impostazione è
coerente con il principio dell’officiosità dell’attuazione dei provvedimenti.
“Nella giurisdizione minorile”, si dice, “non vi è una distinzione tra merito
ed esecuzione, ma invece una doppia fase di merito, la prima programmatica
e la seconda di verifica operativa della validità della prima”.
Il ricorso al procedimento di esecuzione forzata degli obblighi di fare e di
non fare, come si è già detto, non ha avuto favorevole accoglienza presso i
giudici di merito. Questa procedura è stata utilizzata spesso nelle situazioni
più difficili, di conflitto più esasperato, spesso in situazioni di oggettiva ineseguibilità dipendente da un radicale rifiuto di collaborazione da parte dello
stesso minore o per la necessità di ricostruire legami affettivi inesistenti o da
tempo interrotti.
8. LA SOLUZIONE ALLO STATO DELLA
LEGISLAZIONE VIGENTE.
otto il profilo teorico il nocciolo del problema è quello relativo all’adattaScuzione
bilità del modello dell’art. 612 c.p.c. alle esigenze specialissime dell’esedei provvedimenti riguardanti i minori, che, secondo la stessa
Cassazione deve essere “un’esecuzione il più possibile duttile, cioè tale da
consentire “interventi che siano il più possibile adeguati ad evitare effetti
traumatici……e con ampia gamma di possibilità nella scelta delle modalità
dell’esecuzione”.
Per rispondere positivamente a tale quesito la Cassazione è costretta a manipolare l’art. 612, suggerendone ai giudici di merito un’applicazione palesemente incompatibile con espliciti dati testuali, quali la notifica del precetto e
soprattutto l’obbligatoria designazione dell’ufficiale giudiziario che deve
procedere all’esecuzione e delle persone che debbono provvedere al compimento dell’opera non eseguita o alla distruzione di quella compiuta. Ed allora occorre domandarsi se non presenti minori difficoltà interpretative il superamento dell’unico presupposto dal quale la Cassazione muove per negare
l’attribuibilità al giudice tutelare della competenza ad eseguire i provvedimenti in esame. E cioè quello secondo cui il richiamo a tale figura comporterebbe “la sollecitazione del potere amministrativo” di tale giudice e quindi
“un suo discrezionale apprezzamento riguardante la scelta tra il provvedere e
180
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
non provvedere, mentre, nel quadro dell’esecuzione giurisdizionale, l’opzione resta circoscritta alla scelta tra le modalità alternative che risultino più
adeguate al caso concreto”: con il corollario che rispetto “ad un rifiuto di
provvedere…..non esistono strumenti di natura giurisdizionale”.
Va considerato che nel caso sottoposto all’esame della Corte la forzatura operata per affermare l’applicabilità del procedimento ex art. 612 è stata facilitata dal fatto che l’istanza di attuazione del provvedimento era stata proposta
ad un pretore mandamentale e vi era quindi coincidenza tra giudice dell’esecuzione e giudice tutelare, cosicché risultava soddisfatta anche l’esigenza di
specializzazione, sulla quale giustamente la Cassazione pone l’accento. Ma
tale coincidenza di funzioni nello stesso giudice persona fisica si realizza
solamente nei piccoli uffici giudiziari, sicché è fatale che in quelli di dimensioni grandi o medie la scelta dello strumento dell’art. 612 comporta il sacrificio della fondamentale esigenza di specializzazione, posto che in tali uffici
le due funzioni sono affidate a giudici diversi. In buona sostanza quindi la
Corte ha ritenuto che l’esigenza di specializzazione e la necessaria eseguibilità dei provvedimenti di affidamento dei minori potesse essere soddisfatta
forzando in qualche misura la lettera dell’art. 612 nel presupposto neanche
tanto implicito che quelle esigenze fossero concretamente soddisfacibili. Ma
poiché tale soluzione incontra considerevoli ostacoli, oltre che sul piano
strettamente normativo - anche per la formulazione dell’art. 612 - nella concreta applicazione, per la mancanza di quella specializzazione che consente
la più opportuna duttilità dell’esecuzione nella materia dell’affidamento dei
minori, occorre domandarsi se sia sufficientemente fondato il presupposto
dell’opzione per il giudice dell’esecuzione rispetto al giudice tutelare, e cioè
che quest’ultimo sia organo amministrativo ed altresì dotato del potere di non
dare esecuzione al provvedimento di affidamento emanato dal giudice della
cognizione. Qui un primo assunto implicito - sul quale per la verità la sentenza non sembra prendere espressamente posizione - sembra dato dalla ritenuta natura amministrativa dei provvedimenti di volontaria giurisdizione nei
quali generalmente vengono inquadrati quelli affidati alla competenza del
giudice tutelare. Ma si tratta di dibattito protrattosi a lungo senza soluzioni
definitive e ormai ritenuto sterile e privo di vero interesse.
Il tema allora si sposta sulla qualificazione dei provvedimenti che il giudice
tutelare adotta qualora lo si ritenga - in ipotesi - chiamato ad eseguire i provvedimenti del tribunale in materia di affidamento dei minori. Innanzi tutto,
anche ammesso che tale esecuzione sia demandata ad un organo squisitamente amministrativo (ad esempio la polizia) vi è da domandarsi se, attesa la
natura sicuramente giurisdizionale del provvedimento da eseguire, vi sia
discrezionalità in tale organo nell’eseguirlo o meno. In secondo luogo, poiché i provvedimenti del giudice tutelare sono sul piano soggettivo sicuramente giurisdizionali, v’è da chiedersi se tale profilo soggettivo sia in ogni caso
sopraffatto dalla natura oggettivamente amministrativa della funzione che
all’organo giurisdizionale è demandata dalla legge. Nel caso del giudice tutelare è vero che una parte considerevole delle sue competenze, quali quelle
relative alle tutele e curatele, esplicitamente previste nell’art. 344 c.c., hanno
natura amministrativa, ma ciò non sembra sufficiente ad attribuire la medesima natura alle “altre funzioni affidategli dalla legge”, cui lo stesso articolo fa
181
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
riferimento. Né sembra che tale qualificazione possa univocamente derivarsi
dal secondo comma dello stesso articolo 344, secondo cui “il giudice tutelare può chiedere l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione i cui
scopi corrispondono alla sua funzione”. Quest’ultima funzione è indifferente
rispetto alla natura delle funzioni esplicate dal giudice, posto che l’assistenza di organi amministrativi può essere richiesta in molteplici campi dal giudice, ad esempio dal giudice penale, che esercita funzioni sicuramente giurisdizionali
9. L’ART. 337 C.C.
ra le “altre funzioni” del giudice tutelare una posizione particolare hanno
Tvigilare
quelle indicate dall’art. 337 c.c., secondo il quale “il giudice tutelare deve
sull’osservanza delle condizioni che il tribunale abbia stabilito per
l’esercizio della potestà”.
Nella prassi assai diffusa soprattutto dei grandi uffici giudiziari tale disposizione è stata interpretata come base normativa per l’attribuzione al giudice
tutelare di una competenza generale all’esecuzione dei provvedimenti del tribunale in materia di affidamento dei minori, in aperto contrasto con l’orientamento della Cassazione sopra illustrato. A conforto di tale prassi sta anzitutto sul piano testuale il fatto che tra le condizioni stabilite dal tribunale per
l’esercizio della potestà possono agevolmente inquadrarsi sia quelle dettate
dal tribunale per i minorenni che quelle disposte dal tribunale ordinario in
sede di separazione e divorzio dei genitori: formula che evidentemente si
adatta a tale tipo di provvedimento assai meglio che quella di cui all’art. 612
c.p.c. D’Altra parte la dizione “deve vigilare sull’osservanza” è in aperta
contraddizione con l’assunto della sentenza della Cassazione secondo cui
l’affidamento al giudice tutelare della competenza esecutiva in materia sarebbe fatalmente discrezionale nell’an, consentendogli anche di non procedere
all’esecuzione. Una tale discrezionalità - una volta ammesso che tali provvedimenti rientrino nella categoria generale delle condizioni dettate dal tribunale per l’esercizio della potestà - sembra da escludere in base a due dati
testuali, e cioè l’uso del verbo “deve” e del sostantivo “osservanza”, che
esprimono non una discrezionalità ma il dovere del giudice di attuare i provvedimenti. L’inquadramento in tale disposizione del potere - dovere di esecuzione dei provvedimenti di affidamento non sembra incontrare soverchie difficoltà sul piano testuale ed una volta che si ammetta ciò, anche la supposta
qualificazione amministrativa dell’attività del giudice tutelare perde rilievo:
perché così come si ammette che un giudice cui sono in prevalenza demandate funzioni giurisdizionali possono essere dalla legge attribuite competenze amministrative, allo stesso modo deve ammettersi che ad un giudice cui
sono prevalentemente assegnate funzioni amministrative possano essere
demandate anche funzioni propriamente giurisdizionali.
Ma quel che soprattutto conta è che, inquadrata tale funzione esecutiva nell’art. 337 c.c., i dubbi sulla discrezionalità sull’an dell’esecuzione possono
essere superati abbastanza agevolmente e, se questo è vero, gli adattamenti
che la lacunosità del quadro normativo richiede si ricompongono intorno ai
due punti che la stessa Cassazione riconosce centrali e cioè: innanzi tutto la
182
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
specializzazione del giudice dell’esecuzione, posto che l’esperienza di tale
organo in materia di provvedimenti concernenti i minori gli consente di adottare i provvedimenti più appropriati nel caso concreto in misura evidentemente di gran lunga maggiore rispetto a quella che può riconoscersi ad un
organo come il giudice dell’esecuzione che si occupa prevalentemente di esecuzioni mobiliari. In secondo luogo la necessaria “duttilità” nell’esecuzione
dei provvedimenti di affidamento dei minori, che la Cassazione esplicitamente riconosce come necessaria, rientra naturalmente nella lettera e nello spirito dell’art. 337, mentre, come si è visto, mal si attaglia ad una forma rigida
come quella dell’art. 612.
Alla stregua dell’attuale normativa non vi sono quindi serie obiezioni giuridiche né ostacoli pratici rispetto all’applicabilità di una prassi che attribuisce
al giudice tutelare il compito di attuare concretamente, anche coattivamente,
se necessario, i provvedimenti riguardanti i minori.
“I giudici tutelari”, come è emerso da una pregevole indagine conoscitiva
svolta dal CAM di Milano, “hanno introdotto modalità di lavoro che, nel
rispetto della decisione presa dal giudice del merito, ha puntato alla accettazione da parte degli adulti, utilizzando la collaborazione di figure professionali specializzate che hanno a loro volta cercato di attenuare il conflitto degli
adulti a solo vantaggio del minore, ritenuto e considerato in concreto come
figura centrale cui afferisce la potestà genitoriale, anche nel momento esecutivo”.
I buoni risultati riscontrati trovano la loro ragione anche nel fatto che il giudice tutelare si trova ad essere un organo monocratico specializzato, distinto
dall’autorità giudiziaria che ha adottato la decisione, privo di poteri modificativi della stessa, ma munito di poteri coercitivi, potendo far ricorso alla
forza pubblica, e quindi in grado di richiamare gli interessati in conflitto a
concentrare la loro attenzione ed il loro impegno sulle modalità e sui tempi
di una attuazione ormai inevitabile, che sia per il minore meno drammatica
possibile.
Può accadere che il giudice tutelare debba prendere atto in qualche caso della
impossibilità di portare ad attuazione il provvedimento. In tali casi dovrà trasmettere il fascicolo al tribunale per i minorenni perché adotti nuovi provvedimenti, mentre i genitori separati o divorziati potranno proporre istanza al
Tribunale ordinario per la modifica del provvedimento riconosciuto ineseguibile.
In conclusione, alla stregua delle considerazioni finora svolte, risulta sufficientemente coerente una interpretazione dell’attuale lacunoso quadro normativo che veda affidata al giudice tutelare l’esecuzione dei provvedimenti
definitivi emanati dai Tribunali ordinari e dai Tribunali per i minorenni (fatta
eccezione per i decreti definitivi di adottabilità che sono attuati con pieni
poteri dal giudice minorile cui spetta per legge provvedere all’affidamento
preadottivo), nonché dalle corti d’appello in secondo grado ed al giudice del
merito quella dei provvedimenti provvisori. In relazione a tali ultimi provvedimenti ricorrono i motivi d’urgenza che ne giustificano l’emanazione e l’opportunità che il giudice che li ha adottati possa, attuandoli concretamente,
verificarne la fattibilità in corso di opera ed eventualmente modificarli ed
adattarli ove necessario.
183
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
In tale quadro si inserisce coerentemente l’art. 6, c. 10 della legge sul divorzio, che attribuisce al giudice di merito la competenza ad attuare i provvedimenti di affidamento della prole, ove la si interpreti nel senso dell’attribuzione della competenza allo stesso giudice del divorzio, o, terminato questo procedimento, al giudice tutelare. Invero la norma, pur indicando come competente per l’attuazione il giudice di merito, dispone poi la trasmissione “a tal
fine” di copia del provvedimento al giudice tutelare.
Lo stesso può dirsi per la recente legge 4.4.2001 n. 154, recante misure contro la violenza nelle relazioni familiari e per la legge 28.3.2001 n. 149, che
ha modificato gli artt. 330 e 333 c.c. Tali disposizioni prevedono la possibilità per il giudice adito (tribunale civile ordinario, giudice della separazione
o del divorzio, ove sia pendente tale tipo di giudizio, e tribunale per i minorenni innanzi al quale pende procedimento ex art. 330 e segg. c.c.) di emettere provvedimenti provvisori di allontanamento dalla casa familiare del
coniuge, del genitore o del convivente maltrattante o abusante. Sembra chiaro che anche questi provvedimenti sono destinati ad essere attuati dallo stesso giudice che li emana.
La soluzione interpretativa proposta realizza il risultato di mantenere sempre
l’attuazione dei provvedimenti riguardanti i minori sotto il controllo di un
giudice ed assicura conseguentemente il rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, pur in mancanza di precise norme procedurali,
che fanno difetto d’altronde anche nei procedimenti di cognizione che si
svolgono con il rito camerale.
L’eccezionalità della situazione (rapimento internazionale) e della tutela
apprestata (che tende all’immediato ripristino dello status quo ante), sembra
invece giustificare quanto stabilito dalla legge 15 gennaio 1994 n. 64 di ratifica delle convenzioni di Lussemburgo del 20.5.80 e de L’Aja del 25 ottobre
80 (la prima in materia di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni di
affidamento dei minori e di ristabilimento dell’affidamento e la seconda sugli
aspetti civili della sottrazione internazionale dei minori).
È attribuita infatti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i
Minorenni la cura dell’esecuzione delle decisione riguardanti i minori, con
facoltà di avvalersi dei Servizi minorili dell’Amministrazione della Giustizia
(artt. 6, co. 4 e 7, co.5). Questa legge, che restituisce ai Servizi della
Giustizia minorile competenze civili da tempo sottratte, non è in sintonia con
l’indirizzo processualistico della Corte di Cassazione, né con l’orientamento
espresso dal legislatore del 1987, con la riforma della legge sul divorzio, il
quale, come si è visto, sembrava orientarsi verso una attuazione sottoposta
comunque al controllo di un giudice. L’anomalia risulta ancora più evidente
se si considera che l’art. 4, u.c. della stessa legge attribuisce al Giudice
Tutelare del luogo di residenza del minore, l’attuazione nello Stato, dei provvedimenti di protezione dei minori emessi in base alla convenzione de l’Aja
del 5 ottobre 1961.
10. DE IURE CONDENDO.
riforma organica della giustizia minorile, che richiede sotto il profiInlounaordinamentale
la riunificazione delle competenze in un unico organo
184
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
giudiziario (specializzato, a composizione mista e con competenza sia civile
che penale) e, sotto il profilo procedurale, la regolamentazione dei procedimenti camerali, nell’ambito dei quali non dovrà essere trascurata la possibilità di soluzioni alternative extragiudiziarie, quali la mediazione familiare, è
auspicabile che il legislatore predisponga, per disciplinare questa materia,
una disciplina semplice e chiara, idonea ad assicurare che le decisioni di
merito non risultino inutiliter datae.
Intanto occorrerà utilizzare sempre e soltanto il termine “attuazione” dei
provvedimenti giudiziari relativi ai minorenni, evitando di far ricorso indifferentemente anche al termine “esecuzione”. È evidente infatti che di vera e
propria esecuzione forzata non può parlarsi con riferimento ai minorenni, pur
non dovendosi escludere in alcuni casi, sotto il controllo del giudice, il ricorso alla coercizione fisica.
La delicata funzione non potrà che essere attribuita ad un giudice specializzato e quindi adeguatamente formato, monocratico ed appartenente allo stesso organo giudiziario competente per il merito, ma fisicamente distinto da chi
ha emesso il provvedimento, privo del potere di modificarlo, ma libero di
scegliere le modalità ed i tempi più opportuni per la realizzazione dello scopo
e munito, all’occorrenza, di poteri coercitivi.
In tale procedimento, nel quale è evidente che dovrà essere garantito il contraddittorio e il diritto di difesa e quindi la possibilità di formulare richieste,
depositare memorie e proporre reclami al collegio in casi specifici, dovrà
essere dato spazio all’ascolto del minore e ad un confronto delle diverse posizioni degli interessati nella prospettiva di una pacificazione ancora possibile.
Andranno invece accuratamente evitate quelle soluzioni solo formalmente
garantiste, che prevedono la trasmissione degli atti al giudice della cognizione in ogni caso in cui siano frapposti ostacoli all’attuazione del provvedimento, o mosse contestazioni o indicate circostanze sopravvenute, con conseguente instaurazione di un nuovo procedimento da svolgersi nelle forme previste per il processo di cognizione, con evidente moltiplicazione dei gradi del
giudizio.
185
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
L
a legge n. 184 del 4.5.1983 il cui titolo è “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento familiare” esordisce (art. 1, 1° comma) con un precetto fortemente significativo: “II minore ha diritto ad essere educato nella propria famiglia”. La formula è innovativa laddove espressamente prevede un
diritto in capo al minore rendendolo anche nella dizione soggetto di quei
diritti dei quali si arguiva l’esistenza sulla base dei doveri dei genitori verso
la prole di cui all’art. 30 della Costituzione ed all’art. 147 del Codice Civile.
Ma l’innovazione lessicale è la risultante di un profondo cambiamento di
prospettiva che si è andata snodando sul piano normativo nel tempo a partire
dalla legge n. 431 del 5.6.1967 sull’adozione speciale che è stata il primo
incisivo segnale di svolta. L’istituto dell’affidamento familiare consensuale
previsto dal 1° comma dell’art 4 della legge n. 184 si colloca nella graduazione degli istituti a protezione del minore come un primo gradino che può
risolvere nel modo meno traumatico
possibile delle situazioni in cui la
famiglia di origine non è in grado di
fornire al figlio accoglimento, assistenza e cure per un periodo di tempo
transitorio.
Ma qual è l’estensione della locuzione
“propria famiglia” di cui all’art. 1
della legge n° 184?
Da una parte, infatti, (art. 9°, 6°,7° ed
8° comma) si è sancito il divieto per
chi non sia parente entro il 4° grado di
accogliere stabilmente nella propria
abitazione un minore per un periodo superiore a sei mesi nonché il divieto
per il genitore di affidare stabilmente a chi non sia parente entro il 4° grado
il figlio minore per un periodo non inferiore a sei mesi senza segnalarlo al
Giudice Tutelare il quale deve avviare le procedure previste, ossia trasmettere gli atti con relazione informativa al Tribunale per i minorenni. Dalla violazione del divieto di cui sopra gravi conseguenze possono derivare sia per i
genitori (dall’art. 9) che gli affidatari di fatto (6° comma ultima parte art. 9).
Tali previsioni normative potrebbero far pensare ad un’estensione della locuzione “propria famiglia” sino a comprendervi i parenti entro il quarto grado.
D’altra parte, però, è stato ritenuto che diversa è la situazione di parenti entro
il 4° grado con i quali il minore abbia convissuto e che si siano da lungo
tempo occupati di lui e quella di parenti entro il quarto grado che non abbiano consuetudine di convivenza e di rapporti con il minore.
In quest’ultimo caso è stato ritenuto che la famiglia del minore sia quella biologica.
L’AFFIDAMENTO FAMILIARE
CONSENSUALE
DR.SSA
MARIA ANTONIETTA
GUIDA
GIÀ
GIUDICE TUTELARE IN
MILANO, PSICOLOGA
PRESUPPOSTI.
Relazione tratta da materiale didattico utilizzato
per la formazione dei
magistrati disposta dal
C.S.M
186
Presupposto per il ricorso all’affidamento familiare consensuale è l’impossibilità per i genitori o per il genitore unico di provvedere temporaneamente
all’accudimento del minore per difficoltà temporanee [dovute ad esempio a
malattia, detenzione, orari di lavoro prolungati del genitore unico spesso straniero, ecc.) con l’obbiettivo del reinserimento del minore nel proprio nucleo
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
familiare una volta superate dette difficoltà.
In tali casi si può procedere all’affidamento familiare consensuale ove ne
ricorrano le condizioni.
Esse sono:
1) Difficoltà di carattere temporaneo della famiglia d’origine. Si tratta di una
valutazione fatta al momento dell’emissione del provvedimento sulla base
della prevedibilità. Ove vi sia invece la previsione del protrarsi per un
tempo indefinito dell’impossibilità per il minore di vivere nella propria
famiglia il caso dovrà essere oggetto di esame e decisione da parte del
Tribunale per i Minorenni.
2) La possibilità di affidare il minore nell’ordine ad un’altra famiglia possibilmente con figli minori o ad un persona singola o ad una comunità di
tipo familiare.
Il legislatore ha preferito la collocazione presso una famiglia (anche di
fatto), possibilmente con figli minori, per far sì che il minore si formi nella
convivenza con figure adulte, maschile e femminile, e con le figure di figli
che arricchiscono l’esperienza. Tale soluzione inoltre è quella che appare
più adatta a contenere il rischio dell’”impossessamento” da parte della
famiglia affidataria.
3) II consenso di entrambi i genitori o di quello che esercita in via esclusiva
la potestà all’inserimento temporaneo del proprio figlio in un altro nucleo
familiare.
Le altre soluzioni quali l’affidamento a persona singola, e per ultimo, ad una
comunità vengono subordinate secondo una comprensibile graduatoria e
comunque di gran lunga preferite all’istituzionalizzazione del minore (v. art.
2, 2° comma)
PROCEDURA.
La procedura è regolata dall’art 4.
L’affidamento familiare è disposto con provvedimenti del servizio locale
(Unità Sanitaria Locale o Comune a seconda dei luoghi) dopo aver raccolto
il consenso manifestato per iscritto dai genitori o dal genitore esercente la
potestà, la dichiarazione di impegno dell’affidatario e dopo aver sentito il
minore che abbia compiuto 12 anni.
Nel provvedimento devono essere indicate le motivazioni, i tempi ed i modi
dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario. Deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata dell’affidamento ed il servizio locale cui
è attribuita la vigilanza durante l’affidamento con l’obbligo di informare a
scadenza fissa sull’andamento dell’affido l’autorità giudiziaria che lo abbia
disposto o, nel caso dell’affidamento consensuale, che lo abbia reso esecutivo e tale tesi trova conforto nella parte finale del 3° comma.
Se ne trae una conseguenza di un certo rilievo: anche l’autorità amministrativa può indicare non solo i tempi - il che è pacifico - ma anche i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario e quindi in qualche modo
influire sia pure con incisività limitata e avallata dall’esecutività del Giudice
Tutelare sulla potestà. In concreto al Giudice Tutelare perviene:
1) il provvedimento amministrativo di affidamento familiare
2) le dichiarazioni contenenti il consenso dei genitori
187
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
3) la dichiarazione degli affidatari con la quale essi si impegnano ad accettare in affidamento il minore ed a rispettare le norme vigenti e le direttive
dell’Ente affidatario. (L’Ente eroga normalmente un contributo mensile
agli affidatari e stipula una polizza assicurativa a copertura della responsabilità dell’affidatario)
È quanto mai opportuno che tale documentazione sia completata da una relazione sociale che illustri la situazione esaurientemente.
La competenza territoriale del Giudice tutelare si radica - come quasi sempre
avviene in materia minorile - sulla base di un elemento di fatto ossia con riferimento al luogo ove il minore dimora abitualmente.
Il Giudice Tutelare rende esecutivo il provvedimento con decreto.
Con questa formula il legislatore sembra secondo un criterio letterale ed analogico assegnare al Giudice Tutelare una funzione di controllo di mera legittimità.
La formula usata è identica a quella adoperata nell’art. 825, 2° comma, cod.
proc. civ. a proposito del decreto con il quale il pretore dichiara esecutivo il
lodo arbitrale, è simile alla espressione già contenuta negli artt. 795 e 798 del
cod. proc. civ. per la deliberazione delle sentenze straniere, è affine a quella
usata nell’art 35 della legge 23-12-1978 n. 833 a proposito della convalida da
parte del giudice tutelare dei trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di
degenza per le malattie mentali. Tali locuzioni si riferiscono tutte a situazioni in cui al giudice si richiede un mero controllo di legittimità. L’ambito di
controllo di legittimità di un atto amministrativo, qual è quello posto in essere dal servizio locale, consiste, secondo i ben noti principi, nell’accertamento della conformità dell’atto stesso alle norme giuridiche ed allo scopo. Il
Giudice Tutelare deve quindi verificare la conformità del procedimento (ad
es. raccolta dei consensi, audizione del minore ultra-dodicenne ecc.) e del
provvedimento (ad es. sufficiente, logica e non contraddittoria motivazione,
indicazione del periodo di durata ecc.) ai requisiti previsti dalla legge (art. 4).
Deve anche verificare, per quanto concerne la conformità allo scopo, che la
situazione esposta e documentata, così come risulta dagli atti del procedimento e dal provvedimento, sia corrispondente alle finalità della legge chiaramente indicate (vedasi in proposito il decreto del giudice tutelare di Roma
del 12-12-1983 con il quale è stata negata l’esecutività del provvedimento
d’affido emesso dal servizio locale per mancanza del requisito della temporaneità).
Esulerebbe invece dal potere del giudice tutelare, all’atto dell’emissione del
decreto di esecutività, il controllo sull’opportunità della deliberazione che ha
portato il servizio locale a prendere il provvedimento di affido.
Se tale sembra essere, alla stregua del dettato normativo, il limite di penetrazione del potere di controllo che il Giudice Tutelare può esercitare nella fase
di emissione del decreto di esecutività, sicuramente, in base al combinato
disposto dei commi 4° e 5° dell’art. 4, nell’esercizio della vigilanza successiva alla pronunzia del decreto, il Giudice Tutelare ha il potere di valutare la
situazione anche nel merito. La locuzione usata nella legge, che parla di valutazione dell’interesse del minore (4° comma dell’ari. 4), non da adito a dubbi.
Appare allora abbastanza strano che la stessa autorità - Giudice Tutelare - nel
momento in cui è più incisivo il suo intervento, ossia quando deve rendere
188
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
esecutivo il provvedimento del servizio locale, possa esercitare un controllo
di mera legittimità, allorché, invece, in fase di vigilanza ha solo il potere di
segnalare al tribunale per i minorenni situazioni affinché quest’ultimo organo prenda eventuali provvedimenti, abbia il ben più pregnante controllo
anche nel merito. La contraddizione c’è e non può essere evidentemente,
come pur si è tentato, risolta dall’interprete forzando il testo della legge.
Essa è molto probabilmente il frutto di un’ambivalenza del legislatore nei
confronti del servizio locale al quale si è voluto dare un certo margine di
autonomia nella scelta, ma nei cui confronti si nutre una fiducia limitata,
donde il bisogno di un più penetrante controllo successivo.
POSIZIONE GIURIDICA DEGLI AFFÌDATARI
II legislatore non ha qualificato la condizione giuridica degli affìdatari, ma
ha enucleato i comportamenti che di tale posizione costituiscono il contenuto. L’art. 5 della legge n. 184: “l’affidatario deve accogliere presso di sé il
minore e provvedere al suo mantenimento ed alla sua educazione ...” La formulazione adoperata è simile a quella dell’art. 30 della Costituzione. Essa
corrisponde a quella dell’art. 147 del codice civile. Sembra, dunque, data la
corrispondenza del dettato normativo, in cui è accentuato, per quanto riguarda gli affìdatari, il versante della doverosità, che i doveri principali combacino con quelli dell’esercente la potestà, con in più l’obbligo di agevolare il
rapporto tra minori e genitori e favorirne il reinserimento nella famiglia di
origine. Probabilmente il connotare l’affidatario nell’esercizio del suo compito, dando risalto preminente al fascio dei doveri, sottende la concezione
dell’istituto, che dal punto di vista sociologico definiremmo solidaristica e da
quello giuridico pubblicistica. L’affidatario diverrebbe in sostanza un “incaricato di pubblico servizio”. Tesi questa, peraltro, non pacifica. Resta comunque il fatto che per tutta la durata dell’affido il genitore viene sgravato di tutti
gli oneri economici e della responsabilità giuridica, che gravano, invece, sull’affidatario. A quest’ultimo, tuttavia, non fa capo la potestà sul minore. Egli
“senza esserne il titolare, esercita non liberamente i contenuti della potestà”
(Vedi: Sacchetti - “L’affidamento dei minori. Sistematica giuridica” - pag. 75
- Editore Maggioli -1984), non liberamente nel senso che egli deve: (1
comma - art. 5)
- tener conto delle indicazioni dei genitori
- osservare le prescrizioni eventualmente stabilite dalla autorità affidante.
La stessa formulazione letterale dell’articolo che contrappone il dovere dell’affidatario di “tener conto” delle indicazioni del genitore o quello di “osservare” le eventuali “prescrizioni” dell’autorità affidante sembra indicare che,
mentre ove vi siano prescrizioni dell’autorità l’affidatario non ha che da uniformarsene, per le indicazioni del genitore, invece, abbiamo un’area sua di
valutazione.
D’altra parte è chiaro che a diverse connotazioni del rapporto minore-famiglia di origine debba corrispondere un diverso comportamento dell’affidatario il quale, sostanzialmente, dovrà tener conto dell’interesse del minore,
com’è dato desumere dal riferimento agli art-. 330 - 333 c.c.
Ma cosa accade ove sorga contrasto tra le indicazioni dei genitori e le valu189
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
tazioni che dell’interesse del minore faccia l’affidatario?
A tale ipotesi sembra riferirsi il 2 comma dell’art. 5 il quale richiama l’art.
316 c.c. . Tale norma prevede che sia il Tribunale per i Minorenni a dirimere
l’eventuale contrasto che possa sorgere tra genitori coesercenti la potestà. Si
tratta di situazione ben diversa per cui lo stesso legislatore ha usato, nel formulare il richiamo della norma, l’attenuazione dell’inciso “in quanto compatibili”.
Un corollario importante del rinvio all’art. 316 (con particolare riferimento
al 4 comma) è la previsione della circostanza in cui si debba prendere una
decisione immediata per il minore in situazione di pericolo incombente, onde
evitargli un grave danno.
Chi deve decidere?
Possiamo individuare due ipotesi:
1. i genitori, pur avendo diritto di dare indicazioni, sono lontani o comunque
non possono essere raggiunti in tempo utile. In questo caso la decisione
spetta agli affidatari
2. esiste contrasto tra genitori e affìdatari, ma a causa della necessità di prendere provvedimenti “urgenti ed indifferibili” non è possibile attendere che
il Tribunale per i Minorenni si pronunzi (ex art. 316 c.c.)
In tale caso va privilegiata la situazione di convivenza degli affìdatari con il
minore che consente loro maggiore conoscenza delle circostanze, tempestività di azione, per cui ad essi spetta il potere di intervenire in via d’urgenza.
Sarebbe opportuno che già nel provvedimento di affidamento, l’autorità giudiziaria, ove del caso, conferisse espressamente agli affidatari tale potere.
L’ultimo degli obblighi degli affidatari che il legislatore menziona (art. 5
comma 3°) è quello di agevolare i rapporti tra il minore e la sua famiglia di
origine e di favorirne il reinserimento.
Tale prescrizione normativa evidenzia la linea di tendenza dell’istituto dell’affidamento familiare.
Così abbozzato in termini normativi il compito dell’affidatario, tentiamo un
rapido e per quanto possibile completo, elenco delle provvidenze in favore
degli affidatari.
Assegni familiari e prestazioni previdenziali (1 comma - art. 80 - legge maggio 1983, n. 184)
II Giudice può disporre, se del caso, tenuto conto della situazione economica e della durata dell’affidamento, che siano erogati temporaneamente in
favore degli affidatari gli assegni familiari e le prestazioni previdenziali. Ciò,
sia che ad esse abbia diritto il genitore per il proprio rapporto di lavoro, sia
che, ove il genitore non ne abbia diritto, abbia ad esse diritto l’affidatario
(vedasi l’analogia con l’art. 211 della legge 19 maggio 1975, n. 151 con riferimento al genitore affidatario nel caso di separazione).
Detrazioni fiscali (comma 2 - art. 80 ~ legge citata, art. 15 - D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597)
Agli affidatari che hanno diritto alle prestazioni previdenziali ed assicurative
si applicano per i minori affidati le detrazioni di imposta sul reddito delle
persone fisiche nella misura prevista dalla vigente legislazione.
Sul piano operativo va rilevato che le detrazioni spettano in ogni caso e
vanno rapportate al periodo di affido con riferimento ai mesi ove si tratti di
190
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
porzioni di anno. Il minore affidato dovrà essere indicato nel prospetto del
modello 740 e dovrà essere allegato il provvedimento di affidamento.
c.d. Diritti di maternità (lettera e - art. 4 - legge 30 dicembre 1971, n. 1204;
1 e 2 comma - art. 7 - legge 30 dicembre 1971, n. 1204; 2 comma art. 15 legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nonché arti 6 e 7 legge 9 dicembre 1977,
n. 903)
II diritto all’astensione obbligatoria e facoltativa dal lavoro spettante alla
lavoratrice madre ed esteso dalla giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore
della legge sull’adozione speciale, alla madre adottiva, è stato con legge riconosciuto in capo alle lavoratrici che abbiano adottato bambini di età inferiore ai sei anni o che li abbiano in affidamento preadottivo fin dal momento
dell’effettivo ingresso del bambino in famiglia.
Tale diritto è stato esteso al lavoratore padre, anche se adottivo o in situazione di affidamento preadottivo.
Dette norme possono trovare applicazione anche nel caso dell’affidamento di
cui alla legge 184?
Al quesito si può fondatamente rispondere in senso positivo secondo i criteri dell’interpretazione analogica.
In tal senso si è pronunziato il Ministero del Lavoro e della Previdenza
Sociale con nota del 26 gennaio 1988.
Rappresentanza negli organi collegiali ed osservanza dell’obbligo scolastico (rispettivamente 2 comma - art. 19 - D.P.R. 31 maggio 1974, n. 416 e art.
8 - legge 31 dicembre 1962,, n. 1859 nonché art. 731 - codice penale)
L’elettorato attivo e passivo per l’elezione dei rappresentanti dei genitori
negli organi collegiali spetta ai genitori degli alunni o a chi ne fa legalmente
le veci.
È già stato ritenuto (T.M. di Firenze - 5 dicembre 1976 e Cassazione - 1 ottobre 1980, n. 5594) che tale compito spetti, nel caso di affidamento, agli affidatari.
In capo agli affidatari grava l’osservanza dell’obbligo scolastico per minori
con le relative sanzioni.
La conclusione dell’affidamento consensuale è regolamentata dal 4° e 5°
comma dell’art. 4.
È previsto che l’affidamento familiare cessi con provvedimento della stessa
autorità che lo ha disposto, valutato l’interesse del minore quando sia venuta
meno la situazione di difficoltà temporanea della famiglia di origine che lo
ha determinato, ovvero, nel caso in cui la prosecuzione di esso rechi pregiudizio al minore.
Le due ipotesi si riferiscono entrambe ad una cessazione dell’affido anteriore al periodo di durata previsto anche se la prima ipotesi si riferisce alla lieta
circostanza del cessare della difficoltà della famiglia di origine e la seconda
al fallimento dell’affido per inadeguatezza della famiglia affidataria.
Quando invece non intervengano tali circostanze prima del termine previsto
o quando si verta nella seconda delle ipotesi sopraindicate è il Giudice
Tutelare che ai sensi del 5° comma richiede, se necessario, al competente tribunale per i minorenni l’adozione di ulteriori provvedimenti nell’interesse
del minore.
Evidentemente la legge prevede l’ipotesi in cui allo scadere del termine della
191
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
durata dell’affido non sia cessata la difficoltà della famiglia di origine.
Si possono dare due ipotesi. La prima è quella in cui pur non essendosi ancora verificate le condizioni per il rientro del minore nella propria famiglia è
presumibile dallo svolgimento degli eventi che esse in un margine di tempo
ristretto si verifichino.
La seconda ipotesi è quella in cui allo scadere del termine prescritto la famiglia di origine non sia ancora in grado di raccogliere adeguatamente il minore.
La precedente normativa lasciava aperte a diverse interpretazioni le questioni in ordine alla presumibile durata dell’affido ed alla competenza de11’autorità giudiziaria legittimata a concedere eventuale proroga.
‘T’ali problemi sono stati risolti dall’art. 4 comma4 della legge 149/ 2001. La
norma, infatti. prevede espressamente che la presumibile durata dell’affido
non possa superare i 24 mesi. Prevede, inoltre, per la concessione di una
eventuale proroga, la competenza del Tribunale per i minorenni.
Conclusione
L’affidamento familiare consensuale si è rivelato uno strumento efficace e
proficuo soprattutto nei casi in cui è stato seguito e sostenuto da servizi
sociopsicologici esperti e disponibili.
Tuttavia tale istituto ha avuto scarsa applicazione nonostante le campagne
pubblicitarie promosse per il reperimento delle famiglie affidatario da vari
Enti che hanno interesse ad ampliare l’area dell’affidamento familiare sia dal
punto di vista sociale che economico (costa incomparabilmente meno un
minore in affido che un minore in Istituto). Vero è che l’affidamento familiare suscita dinamiche psicologiche complesse. Vi è infatti il pericolo che la
famiglia di origine si viva e sia vissuta dall’altra famiglia e nell’ambito
sociale come “famiglia cattiva” e quella affidataria come “famiglia buona”,
v’è la paura per la famiglia d’origine ed il rischio per le famiglia affidataria
che quest’ultima tenda ad “impossessarsi” del bambino, v’è sicuramente, ineludibile, lo spettro della separazione sia all’inizio dell’affido per le famiglie
di origine sia alla sua conclusione per la famiglia affidataria
Forse per tutti questi nodi, forse perché le famiglie in difficoltà nella maggior
parte dei casi hanno dei problemi che non sono temporanei, forse per altri
motivi l’istituto dell’affidamento familiare consensuale ha tuttora scarso
ambito d’applicazione.
192
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
1. UNA RIFORMA NECESSARIA
SOMMARIO
U
1. Una riforma necessaria
7. La partecipazione del
na riforma della disciplina del
2.
I
provvedimenti
giudiziari
bambino e il suo ascolto
controllo della genitorialità, conrelativi alla potestà
8. L’ascolto indiretto del
tenuta negli articoli dal 315 al
3. Idoneità genitoriale e
minore attraverso gli
337 del codice civile, è attesa da molti
interesse del minore
affidatari
anni. La materia era stata rivista con la
4. Le inadeguatezze della
9. La rappresentanza del
riforma del diritto civile del 1975 e
procedura relativa alla
bambino
poi, malgrado i molti progetti presenresponsabilità genitoriale
10. Le informazioni e la
tati a partire dal 1984-1985, è restata
5. La processualizzazione del
partecipazione dei servizi
per molto tempo immutata.
rito
11. Il diritto di difesa
6. La partecipazione delle
12. Una effettiva collegialità
Recentemente però ci sono state delle
parti
adulte
novità, che dovrebbero essere introduttive di altri cambiamenti più radicali.
L’art. 37 della legge 28 marzo 2001 n.
149, modificando gli artt. 330 e 333
cod. civ., ha previsto che il giudice
possa ordinare l’allontanamento dalla
residenza familiare non più solo del
minorenne vittima della condotta pregiudizievole, ma anche del genitore o
convivente che maltratta il minorenne
o ne abusa, disposizione che va letta in
parallelo con l’introduzione in sede
penale della misura cautelare dell’allontanamento dell’imputato dalla casa
familiare (art. 282-bis cod. proc. pen.)
ed in sede civile degli ordini di protezione contro gli abusi familiari (art.
342-bis e 342-ter cod. civ.).. Con lo
stesso art. 37 della legge n. 149/2001 è
stato introdotto un quarto comma dell’art. 336 cod. civ., la cui entrata in vigore è stata ancora rinviata, ai sensi del DOTT.
quale “per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore PIERCARLO
sono assistiti da un difensore, anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla PAZÈ
legge”.
Una picconata più forte al sistema è venuta da una sentenza della Corte costi- PROCURATORE DELLA
tuzionale, la n. 1 del 30 gennaio 2002 (1), che dichiarando inammissibili o REPUBBLICA PRESSO IL
TRIBUNALE PER I MINORENNI
non fondate le questioni sollevate dalle sezioni per i minorenni delle Corti di DI TORINO
appello di Genova e Torino (2), ha tuttavia costruito e indicato delle interpretazioni innovative del processo camerale minorile, affermando che già oggi è
possibile e doveroso svolgerlo secondo regole conformi ai principi della
Costituzione.
Un terzo colpo è stato dato in qualche caso dai giudici stessi che, nell’esigenza di rendere il processo di controllo della potestà aderente all’art. 111 della
Costituzione, hanno corretto o superato delle prassi inquisitorie che parevano ormai consolidate. Mi riferisco a sforzi di recupero della collegialità e ad
IDONEITÀ GENITORIALE
E PROCEDURE
DI CONTROLLO
DELLA POTESTÀ.
ORDINI A TUTELA
DEL MINORE
193
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
attribuzione di un nuovo ruolo alle difese, ma anche alla critica e alla espunzione di prassi di secretazione che violavano ogni regola (3).
Un’altra novità poteva venire dalle proposte del ministro Castelli di riforma
della giustizia civile minorile, sia attraverso lo spostamento delle competenze civili camerali dal tribunale per i minorenni a sezioni costituite presso
ogni tribunale ordinario, sia con l’attribuzione specifica ai servizi dell’amministrazione della giustizia del compito di assicurare l’esecuzione dei provvedimenti in materia di potestà. Come è noto, queste proposte non hanno superato il vaglio parlamentare, ma inevitabilmente i problemi che esse hanno
sollevato, primo l’unificazione presso un solo organo giudiziario delle competenze civili minorili oggi frantumate fra organi giudiziari diversi, ritorneranno sul tappeto
Rimangono ancora altri problemi scoperti. Appare perciò utile tentare una
rilettura generale, nella prospettiva augurabile di pervenire oggi a delle soluzioni condivise e domani ad una riforma unitaria.
2. I PROVVEDIMENTI GIUDIZIARI DI
CONTROLLO DELLA POTESTÀ
giudiziari relativi alla potestà dei genitori e all’abbandono
Ini,provvedimenti
dei minori sono di competenza per gran parte del tribunale per i minorencon qualche residuo per il tribunale ordinario (quando delibera sull’affidamento dei figli) e per il giudice tutelare. Il tribunale per i minorenni può
dettare prescrizioni, regolamentare la potestà dei genitori o dichiararla decaduta, disciplinare la potestà sui figli naturali, rimuovere i genitori dall’amministrazione dei beni dei figli, dichiarare l’adottabilità, ordinare l’allontanamento dalla residenza familiare del genitore o convivente che maltratta o
abusa del minore, e altri ancora.
In queste materie si pongono numerosi problemi.
2.1. L’ALLONTANAMENTO DEL GENITORE O CONVIVENTE DALLA
RESIDENZA FAMILIARE
L’introduzione dell’ordine di allontanamento del genitore o del convivente
dalla residenza familiare fra i provvedimenti di cui agli artt. 330 e 333 cod.
civ. è disposizione lodevole per la sua natura puerocentrica, perché fino ad
oggi ad essere allontanato - per proteggerlo dal genitore - era il bambino che
restava due volte vittima: una prima volta dell’abuso e poi dell’allontanamento (4). In questo modo si riduce l’area dell’allontanamento del bambino
sanzionando in alternativa con l’allontanamento l’adulto abusante che ne
sopporta il peso economico e psicologico.
Il legislatore, disponendo che può essere allontanato il genitore o convivente
“che maltratta e abusa”, ha formulato una norma in bianco che lascia ampi
spazi di discrezionalità all’interprete, sia quanto al significato da attribuire al
maltrattamento e abuso sia sul problema se il maltrattamento e l’abuso che
possono portare all’allontanamento del genitore o convivente siano qualcosa
di diverso e più grave rispetto alle condotte genitoriali di violazione o trascuratezza dei doveri inerenti all’esercizio della potestà e di abuso dei relativi
poteri che possono comportare invece l’allontanamento del figlio.
194
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Per la prima volta i soggetti contro cui si può provvedere sono non solo i
genitori ma anche i conviventi, fra cui sono compresi anche i parenti o gli
affini, come il fratello, il nonno, il patrigno. Appare ovvio che l’abuso di chi
non esercita la potestà va letto in modo ben diverso dell’abuso nell’esercizio
della potestà.
Oltre a potere allontanare il genitore o il convivente, è ragionevole ritenere
che il tribunale per i minorenni possa vietare l’ingresso nella casa del terzo
abusante non convivente, così come il giudice ordinario o il giudice penale
possono dare prescrizioni al colpevole di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima (art. 342-ter cod. civ.).
Per gli ordini di allontanamento di cui agli artt. 330 e 333 cod. civ. nei procedimenti minorili non è stabilita una durata, mentre gli altri ordini di allontanamento introdotti dal legislatore sono temporanei: l’allontanamento come
misura cautelare è infatti sottoposto ai termini di cui all’art. 308, comma 1,
cod. civ. mentre l’ordine di protezione assunto dal tribunale in sede civile
può avere una durata massima di sei mesi, con possibilità di proroga per il
tempo strettamente necessario. Si pone perciò una questione di costituzionalità per gli allontanamenti disposti dai tribunali per i minorenni se essi non
fisseranno ogni volta dei termini ragionevoli alle misure.
I conviventi soggetti ad un ordine di allontanamento non sono parti del procedimento camerale minorile e quindi non concorrono alla formazione delle
prove o informazioni sulla base delle quali può essere assunto il provvedimento a loro carico. Perché non ci sia una violazione dei principi del giusto
processo di cui all’art. 111 della Costituzione occorre almeno che essi prima
siano informati e sentiti, abbiano la possibilità di farsi assistere da un difensore, possano accedere agli atti e presentare memorie e poi siano riconosciuti come titolari del potere di reclamo rispetto all’ordine di allontanamento.
C’è ancora una questione di non poco conto. Con l’introduzione in parallelo
dell’allontanamento dalla casa familiare come misura cautelare penale, degli
ordini di protezione contro gli abusi familiari come misura civile azionabile
avanti al tribunale ordinario e dei provvedimenti di allontanamento del tribunale per i minorenni, c’è il rischio di una sovrapposizione di decisioni dei
vari uffici giudiziari: con la possibilità che esse siano contraddittorie fra loro
(un ufficio allontana e l’altro respinge la domanda di allontanamento) o che,
addirittura, i giudici ordinari allontanino la persona adulta mentre il tribunale minorile allontani dalla residenza il minorenne. Per evitare simili evenienze, con conflitti di competenze, i diversi uffici giudiziari devono inevitabilmente coordinarsi.
2.2. L’ALLONTANAMENTO DEL MINORE
Quanto all’allontanamento del minorenne, ci si chiede se il decreto del tribunale per i minorenni che lo dispone deve anche indicare dove il minore deve
essere collocato, in quella certa famiglia, in una determinata comunità o in un
particolare istituto. La soluzione più ragionevole è che la realizzazione del
collocamento più opportuno è compito dei servizi sociali e sanitari, titolari
della politiche assistenziali, ma che il tribunale per i minorenni può e deve
obbligare i servizi al rispetto delle priorità richiamate dall’art. 2, commi 1 e
2, legge n. 184/1983: prima l’affidamento familiare, solo ove ciò non sia pos195
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
sibile l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare, solo se questa manca e il bambino ha più di sei anni la sua collocazione in un istituto
pubblico o privato.
2.3. I PROVVEDIMENTI PIÙ OPPORTUNI
Alcune questioni si pongono per “i provvedimenti più opportuni” che, ex art.
333 cod. civ., il tribunale per i minorenni “può adottare”. Che cosa sono i
provvedimenti più opportuni?
Alcuni tribunali per i minorenni vi comprendono degli affidamenti dei minori al servizio sociale, assimilati ad analoga misura amministrativa per i ragazzi discoli (art. 25 r.d.l.. 20 luglio 1934, n. 1404), attribuendo ai servizi un
mandato generico che ne legittima l’intervento di controllo e sostegno altrimenti rifiutato o subito passivamente e limitando in tale modo la potestà dei
genitori.
Più correttamente i provvedimenti più opportuni sono le cosiddette prescrizioni, che il nostro ordinamento conosce anche per l’adozione (le “prescrizioni idonee a garantire l’assistenza morale, il mantenimento, l’istruzione e
l’educazione del minore”, art. 12, comma 4, legge n. 184/1983) e per la tutela (i provvedimenti circa l’educazione e l’amministrazione di cui all’art. 371
cod. civ.).
Per le prescrizioni si pongono alcune questioni, che si elencano solo sommariamente proponendole per un approfondimento. .
a. Anzitutto, la loro durata. Allorché sono ripetitive di doveri genitoriali
espliciti nell’ordinamento (non percuotere i figli, contribuire per il loro
mantenimento, fare incontrare i figli con l’altro genitore o con i nonni,
mandare i bambini a scuola o farli vaccinare) le prescrizioni sono naturalmente a tempo indeterminato. Invece quando ai genitori vengono imposti
doveri di comportamento supplementari verso i figli (affidamento diurno,
doposcuola scolastico, assistenza educativa, trattamenti con il logopedista,
sedute con lo psicologo, frequenza dell’oratorio o del doposcuola, ecc.)
appare necessario determinarne la durata e il termine.
b. Discutibili sono le prescrizioni di comportamento relative non alla condotta genitori-figli ma alle scelte esistenziali dei genitori (alla madre di andare in comunità con il figlio; di astenersi dall’uso di droghe o alcolici e sottoporsi ai relativi esami periodici; di mantenere contatti regolari con i servizi; di partecipare ad attività di mediazione familiare, ecc.).
c. Ancora maggiori perplessità, perché incidono sulla personalità, suscitano
le prescrizioni terapeutiche alle parti adulte (di sedute psicologiche, di psicoterapia, di frequenza dei servizi per le tossicodipendenze o dei servizi
psichiatrici).
d. Ci si chiede se fra i provvedimenti più opportuni siano comprese anche
prescrizioni rivolte direttamente al minore.
e. Sono ormai entrate nella prassi prescrizioni alla pubblica amministrazione
di sostegni sociali, economici ed educativi che appare necessario assicurare al nucleo familiare o specificamente al minore, attesa la condizione di
precarietà di vita (prescrizioni oggi possibili ex art 1, commi 2° e 3°, l. n.
184/1983 sull’adozione; art. 2, comma 3°, l. 8 novembre 2000, n. 328, sull’assistenza).
196
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
3. IDONEITÀ GENITORIALE E INTERESSE DEL MINORE
3.1. L’INTRODUZIONE DEL PARAMETRO DELL’INTERESSE
DEL MINORE
Le misure che possono essere adottate nel processo civile minorile di controllo della potestà genitoriale devono tendere ad assicurare l’interesse del minore rimuovendo quelle condizioni di pregiudizio genitoriale che lo limitano.
C’è dunque una dicotomia fra responsabilità del genitore e interesse del
minore. Ma proprio la nozione di interesse del minore merita un approfondimento.
Il riconoscimento del concetto di “interesse del minore” come differenziato
dall’interesse dell’adulto è entrato nella cultura giuridica negli anni sessanta
del secolo appena trascorso e immediatamente dopo è stato accolto nelle
legislazioni della maggior parte degli Stati e ormai costituisce l’obiettivo
fondamentale di tutta l’attività sia giudiziaria che amministrativa in questo
settore
In Italia, il suo ingresso ufficiale nella legislazione è avvenuto con l’art. 6
comma 3 della legge 1 dicembre 1970 n. 898 sullo scioglimento del matrimonio, che così recitava: “L’affidamento e i provvedimenti riguardanti i figli
avranno come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stessi”.
Il principio dell’interesse, o dell’interesse superiore, o dell’interesse morale
e materiale, o dell’interesse esclusivo, del fanciullo è stato poi massicciamente introdotto nella legislazione in occasione della riforma del diritto di
famiglia del 1975 come specifico parametro di valutazione per numerose
situazioni: l’affidamento ad uno dei genitori quando vi sia separazione tra
coniugi (art. 155); il riconoscimento tardivo da parte del genitore (art. 250
254, cod. civ.); il riconoscimento del figlio incestuoso da parte di genitore in
buona fede (art. 251 252); l’inserimento del figlio naturale nella famiglia
legittima del suo genitore naturale (art. 252); la legittimazione del figlio
naturale per intervento del giudice (art. 284); il contrasto fra i genitori sulla
potestà (art. 316, comma 5); l’affidamento del figlio naturale (art. 317 bis
cod. civ.); e si trova ancora in altre disposizioni.
Traendolo da questo insieme di norme specifiche la Corte costituzionale, la
dottrina giuridica e la giurisprudenza hanno elaborato il concetto di interesse
superiore del fanciullo come un principio generale dell’ordinamento e canone interpretativo cui il giudice della persona e la pubblica amministrazione
sono sempre tenuti a attenersi nelle deliberazioni che abbiano ad oggetto un
minore. L’affermazione di questo è divenuta ancora più esplicita dopo che lo
Stato italiano, con legge 27 maggio 1991, n. 176, ha resa esecutiva la
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che
afferma (art. 3), con norma che è immediatamente precettiva, che “in tutte le
decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o
private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o
degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una
considerazione prevalente”.
La valutazione e la preferenza da accordare all’interesse del minore nei confronti di altri interessi contrastanti, nel settore delle relazioni familiari, costi197
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
tuisce dunque un canone interpretativo generale di tutti gli istituti giuridici
che coinvolgono il minore. Tuttavia, come è stato messo in evidenza, il concetto di interesse del minore rischia di diventare vuota tautologia, un mero
abbellimento esteriore, e anzi il continuo riferimento ad esso può contribuire
ad ampliare notevolmente, e talvolta pericolosamente, la sfera di discrezionalità del giudice, portandolo a giustificare ogni sua decisione con tale interesse. L’interesse del minore può essere dunque un concetto “chewing gum”,
che può essere tirato a seconda dei condizionamenti culturali in varie direzioni e può essere interpretato in modi diversissimi a seconda dei punti di vista.
3.2. I CONTENUTI DELL’INTERESSE DEL MINORE
Di fronte a questa critica è iniziato a comparire, pur gradualmente e contraddittoriamente, nella comunità scientifica e nella giurisprudenza una qualche
concordanza attorno ad alcuni bisogni fondamentali del soggetto in età evolutiva che concretizzano l’interesse del minore.
Di questo sforzo di riempire di contenuti tale concetto e attribuirgli rilievo,
riconoscendo quando ricorre, si possono fare degli esempi.
Così, utilizzando l’art. 147 cod. civ., sui doveri dei genitori di mantenere,
istruire ed educare il figlio tenendo conto delle inclinazioni, della capacità e
delle aspirazioni del figlio stesso; si ritiene che interesse del minore è che si
tenga conto di queste sue inclinazioni, capacità e aspirazioni;
Nella stessa direzione va la giurisprudenza sterminata su irrilevanza di torti
e ragioni nell’affidamento dei figli nella scissione della coppia genitoriale,
perché quello che conta è solo il migliore interesse del minore a stare di più
con il genitore con cui ha un attaccamento sano e a godere di una compresenza di entrambi i genitori.
Peraltro i criteri della capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazione
dei figli non si applicano ai bambini piccolissimi. E la psicologia ha rilevato
che capacità, inclinazioni naturali, aspirazioni sono tre aspetti riguardanti la
soggettività del minore, che rinviano al suo desiderio di libertà e di autodeterminazione, al suo modo particolare di rapportarsi al mondo e al futuro, ma
non chiariscono come il suo interesse coincida soprattutto con il rispetto
della sua vita emotiva e del suo Sé, globalmente inteso. .
Si è osservato allora che occorre emancipare la nozione di interesse del minore da un uso adultocentrico e fare attenzione ai bisogni del minore. La teoria
dei bisogni ha insegnato a prestare attenzione ai bisogni materiali ma, soprattutto, emotivi: bisogni di vicinanza, di affetto, di comunicazione, di guida, di
autorità, di contenimento, di modulazione dell’onnipotenza. Non bisogni alimentari e neppure bisogno di continuità dell’attaccamento da solo.
Il riconoscimento dell’interesse del minore in questa dimensione globale
introduce ad una evoluzione nella legislazione della valutazione dell’idoneità genitoriale, con un passaggio dal concetto di potestà a quello di responsabilità genitoriale. Non si può non accorgersi che il codice civile, anche dopo
la riforma del diritto di famiglia del 1975, ha un intero titolo, il titolo IX del
libro primo, dall’art. 315 in poi, intitolato alla potestà dei genitori, mentre la
legge 8 novembre 2000, n. 328, la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la cosiddetta legge sull’assistenza, all’art. 16 parla di valorizzazione e sostegno delle responsabilità familia198
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
ri. Già prima, peraltro, la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 parla
di responsabilità. E’ sulla responsabilità, e non sulla potestà, che si misura la
idoneità genitoriale. Anzi è ormai anacronistico il concetto di potestà genitoriale, sia perché il fine e il contenuto della genitorialità sono decisamente
cambiati, sia perché il potere è sparito e restano invece la funzione e il dovere di allevare i figli.
4. LE INADEGUATEZZE DELLA PROCEDURA RELATIVA
ALLA RESPONSABILITÀ GENITORIALE
Il vero punto critico della materia del controllo della genitorialità responsabile sono però le procedure giudiziali. Il tribunale per i minorenni e il giudice tutelare procedono - con alcune eccezioni - con un rito molto semplice,
che viene definito di volontaria giurisdizione. Invece il tribunale ordinario,
competente per i provvedimenti relativi ai figli nella scissione delle coppie
unite di matrimonio, procede con un rito chiamato di cognizione.
I due procedimenti di cognizione del tribunale ordinario e di volontaria giurisdizione del tribunale per i minorenni e del giudice tutelare, non sono solo
diversi, ma corrispondono anche a modelli culturali opposti.
Il procedimento di cognizione è disciplinato secondo un complesso sistema
di regole e prove legali, ritenute come le più idonee a formare il convincimento del giudice circa l’esistenza o meno, o il modo di essere, dei fatti di
causa, con il correttivo che per i provvedimenti relativi ai minori le prove
possono essere disposte dal giudice di ufficio. Esso inoltre è improntato al
metodo del contraddittorio, dal momento che, secondo massime di esperienza, risulta più probabilmente corretta una decisione cui si giunge in una dialettica consapevole fra le parti.
Questi due pilastri del processo giusto, e cioè un sistema di prove tipiche e
l’instaurazione necessaria di un contraddittorio, nella volontaria giurisdizione minorile sono assenti o ridotti. Fermandosi alla frammentaria e imprecisa
disciplina legislativa del procedimento del tribunale per i minorenni, troviamo, anziché mezzi di prova e procedimenti probatori tassativamente previsti
dalla legge, che il convincimento del giudice deriva dall’avere assunto
“informazioni” (art. 738, comma 3° cod. proc. civ.). Quanto al contraddittorio, esso è atrofizzato nell’impulso di parte o dell’organo del pubblico ministero, nell’obbligo di sentire il solo genitore “contro” il quale è richiesto il
provvedimento e nel parere necessario del pubblico ministero (art. 336,
commi 1° e 2° cod. civ.).
Questa disciplina dei procedimenti civili relativi alla potestà sembra contrastare con i principi contenuti nel nuovo testo dell’art. 111, commi 1 e 2 della
Costituzione e della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre
1989. Un confronto con il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione (“La
giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità,
davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole
durata”) porta alla diagnosi delle malattie del rito di volontaria giurisdizione
minorile previsto dagli artt. 336 cod. civ. e 38, comma 3, disp. att. cod. civ.,
con il quale il tribunale per i minorenni procede solitamente.
a. Anzitutto il processo di volontaria giurisdizione minorile costituisce l’ul199
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
timo esempio di un modello inquisitorio ormai abbandonato negli altri settori della giustizia. Si tratta di un processo sostanzialmente senza regole,
che non prevede un contraddittorio tra le parti, promosso su impulso dei
parenti o del pubblico ministero ma in casi di urgenza iniziato di ufficio
dall’organo giudicante. Inoltre, secondo il testo letterale dell’art. 336 cod.
civ., è previsto l’obbligo di sentire solo il genitore contro cui il provvedimento è richiesto e non il minore-oggetto e la decisione è fondata soprattutto su “informazioni” assunte al di fuori del processo (relazioni sociali o
di polizia). Infine, per l’emanazione di provvedimenti temporanei in situazioni in urgenza, è richiesto solo che siano assunte informazioni, ma la
legge sacrifica ogni parvenza anche formale di contraddittorio, potendo il
giudice decidere di ufficio e senza avere sentito il genitore (art. 336,
comma 3 cod. civ.), secondo una normativa tipicamente inquisitoria che
rimette la congruità della decisione alla cultura del giudice buono, che
perciò non ha bisogno di sentire le parti e le loro difese. Si aggiunga che
in alcuni tribunali per i minorenni il processo è deteriorato da prassi di
secretazioni degli atti e di deleghe del collegio ad un solo giudice e le parti
non ricevono notizia formale dell’oggetto del giudizio e non assistono
all’assunzione delle prove.
b. La disciplina processuale non realizza neppure la seconda condizione,
quella della parità fra le parti, che l’art. 111 della Costituzione esige. Basta
dire che gli atti sono trasmessi al pubblico ministero per il parere ma non
è previsto un loro deposito per le parti private ricorrenti e per gli interessati al provvedimento (in particolare per il genitore “contro cui il provvedimento è richiesto”, secondo l’arcaica terminologia dell’art. 336, comma
2, cod. civ., che vede un provvedimento a tutela del minore adottato “contro” o a favore dei genitori). Il figlio minore spesso non è neppure sentito
dal giudice, mentre i servizi assumono, di fatto, un ruolo ambivalente fra
protettori dell’interesse del minore ed indagatori.
c. Un giudice con ampi poteri inquisitori, titolare dell’iniziativa nell’assunzione di prove e informazioni senza essere obbligato a considerare o assumere le prove indicate dalle parti, padrone soprattutto del potere di dilatare la durata del processo condizionandone l’esito attraverso il consolidamento nel tempo della situazione disposta con un provvedimento di urgenza, non appare (anche quando sostanzialmente lo è) il giudice terzo che
l’art. 111 della Costituzione vuole. Come nota giustamente Luigi Fadiga,
“in tanto il giudice minorile può essere terzo, in quanto esistono altri ruoli,
altre figure istituzionali, delegate alla protezione del minore e capaci di
proteggerlo effettivamente e rapidamente, ricorrendosi al giudice solo
dove sorga il conflitto” (5). Mancano dei soggetti (pubblico ministero
minorile, difensore, servizi, curatore o pubblico tutore dell’infanzia (6))
che in forza di un mandato istituzionale assumano la rappresentanza degli
interessi del minore fuori e dentro il processo; mentre si è rivelato solo
formale l’intervento di curatori speciali estemporanei con funzioni endoprocessuali, doppioni del tutore provvisorio, che erano stati introdotti per
le procedure di dichiarazione dello stato di adottabilità e resi residuali
nella nuovo disciplina del processo di adozione introdotta con la legge n.
149/2001 (non ancora entrata in vigore) per le situazioni in cui non ci sia
200
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
un tutore.
d. Infine, nessuna legge attualmente assicura al processo civile minorile la
ragionevole durata prescritta dall’art. 111 della Costituzione e in particolare non sono previsti dei tempi ragionevoli entro i quali un provvedimento cautelare temporaneo deve essere confermato o altrimenti perdere efficacia (solo nella procedura di adottabilità, il provvedimento monocratico
di un giudice deve essere confermato dal tribunale entro trenta giorni, ex
art. 10, commi 3 e 4 legge n. 184/1983 sull’adozione). La conseguenza è
che il minore può essere dimenticato per anni nell’istituto o nella comunità dopo che è stato disposto un suo allontanamento urgente, ovvero privato del suo bisogno di bigenitorialità da provvedimenti interdittivi cautelari che, di fatto, producono nel tempo la rottura dei legami parentali.
A fronte di questa situazione caotica, si è cominciato a fare riferimento a
diritti umani fondamentali, in qualche modo costituzionali, del processo
minorile: a diritti di introduzione necessitata che dovrebbero rappresentare la
sfera del non contrattabile e dell’indecidibile. Andando oltre al discorso già
abbastanza sviluppato dei diritti sostanziali del bambino, si parla dei diritti
del bambino nel processo. Anche la Corte costituzionale, con la sentenza n.
1/2002, ha invitato a realizzare fin d’ora un processo minorile che nella sua
quotidianità sia già oggi conforme ai principi della Costituzione.
Nel contesto di questo discorso, l’attenzione si è portata su un elenco di problemi specifici: la processualizzazione del rito minorile; la partecipazione
delle parti adulte; la partecipazione del bambino e il suo ascolto; la rappresentanza del bambino; la presenza dei servizi; lo spazio della difesa; la collegialità del tribunale e la partecipazione della componente onoraria alla raccolta delle informazioni e/o alla decisione; l’esecuzione dei provvedimenti; e
altri punti ancora.
5. LA PROCESSUALIZZAZIONE DEL RITO
In questa prospettiva, una embrionale processualizzazione dei procedimenti
minorili relativi alla potestà, che hanno natura bilaterale o plurilaterale, sembra ormai inevitabile, in un certo senso obbligata già oggi. Ricordiamo che
un processo più ricco di partecipazione effettiva, delle parti e delle difese, ha
più possibilità di pervenire a soluzioni sostanzialmente giuste.
Questo esige l’introduzione di alcune regole minime per rendere possibile il
contraddittorio, contrastando prassi distorte che vi si oppongono purtroppo
ancora diffuse. Esse dovrebbero comprendere:
- la previsione di un ricorso formale di parte di inizio del procedimento,
esclusa ogni procedibilità di ufficio (oggi giustificata dall’ambigua formulazione dell’art. 336, comma 3, cod. civ. per i provvedimenti di urgenza);
- la comunicazione formale alle altre parti della presentazione del ricorso e
del suo contenuto (la Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2002 ha
inteso nel contraddittorio anche il diritto di ciascuna delle parti di essere
tempestivamente informata del procedimento);
- l’avviso alle parti della possibilità di munirsi di un difensore;
- l’introduzione del diritto per le parti di indicare prove;
- momenti formali di deposito degli atti;
- la comunicazione alle parti dei decreti integrali e non solo nel dispositivo
201
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
(come ha chiarito la Corte costituzionale, sent. n. 1/2002);
- modalità di conferma e di impugnazione dei procedimenti cautelari e previsione di termini di durata (nel solco della sentenza n. 1/2002 della Corte
costituzionale, che ha proposto di assoggettarli alla disciplina del procedimenti cautelare uniformi dettata dagli artt. 669 bis e segg. cod. proc. civ.).
6. LA PARTECIPAZIONE DELLE PARTI ADULTE
Un modalità costituzionale del procedimento camerale minorile è la partecipazione ad esso delle parti adulte. Appare indispensabile affermare che l’ascolto delle parti è principio di civiltà e dà la possibilità di una decisione più
giusta e meditata. Esso inoltre è strumento atto a negoziare e a veicolare, in
un procedimento relativo a diritti delle persone, il consenso delle parti, inducendo a rapporti collaborativi e a risultati negoziali.
La Corte costituzionale, nella già citata sentenza n. 1/2002, affrontando la
questione di costituzionalità dell’art. 336, comma 2 cod. civ., ha ricordato
che la partecipazione attiva delle parti al processo minorile è già oggi prevista come obbligatoria, richiamando:
- che l’art. 9 della Convenzione sui diritti dell’infanzia (per cui tutte le parti
interessate devono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e
fare conoscere le proprie opinioni) pone una disciplina complementare
rispetto alla previsione dell’art. 336, comma 2 cod. civ. che prevede solo
l’audizione del genitore contro cui il provvedimento è richiesto, onde dal
coordinamento delle due norme deriva che nel procedimento in esame
devono essere sentiti entrambi i genitori;
- che dall’introduzione del comma 4 dell’art. 336 cod. civ., che prevede la
presenza del difensore dei genitori e del minore, deriva l’individuazione di
tre parti (padre, madre e figlio) le quali hanno diritto di avere conoscenza
del procedimento e di parteciparvi.
7. LA PARTECIPAZIONE DEL BAMBINO E IL SUO ASCOLTO
7.1. L’ASCOLTO COME BISOGNO E L’ASCOLTO COME DIRITTO
Anche il bambino ha diritto di partecipare al suo processo, per contribuire
alla formazione delle decisioni che lo riguardano. Lo strumento per dargli
voce è l’ascolto..
Nell’ordinamento italiano le possibilità del bambino di rivolgersi all’apparato della giustizia per richiedere interventi di protezione sono molto poche. La
norma che disciplina il processo camerale del tribunale per i minorenni, l’art.
336 cod. civ., non prevede fra i soggetti legittimati a presentare ricorso il
minore, neppure quando abbia sufficiente capacità di discernimento o,
comunque, sia al di sopra di una certa età. Solo per situazioni specifiche il
minorenne può ricorrere direttamente: una ragazza può chiedere l’autorizzazione all’interruzione della gravidanza; il minore ultrasedicenne può chiedere l’autorizzazione ad anticipare il matrimonio (art. 184 cod. civ.) o impugnare il proprio riconoscimento (art. 264, comma 2 cod. civ.); un minore fra i
diciassette e i diciotto anni che per effetto di un’infermità fisica o psichica si
trova nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi può chiedere di essere assistito da un amministratore di sostegno (art. 406, comma 1 cod. civ.).
202
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Negli altri casi il bambino non può direttamente adire il giudice, ma sono il
pubblico ministero o uno dei genitori o parenti che devono farlo per segnalare il suo problema.
Per compensare questa limitazione delle facoltà di agire del bambino per fare
valere nel processo il suo interesse si sta ampliando lo spazio del suo ascolto. Si è affermato il bisogno anche psicologico (prima ancora che giuridico)
del bambino di essere ascoltato sui problemi giuridici o amministrativi che lo
riguardano: per esempio quando si vuole vendergli dei beni, o prima di una
decisione giudiziaria che lo allontani dai genitori che hanno tenuto comportamenti pregiudizievoli, o nei procedimenti di separazione e divorzio. La psicoanalista francese Françoise Dolto insiste che il bambino dovrebbe essere in
grado di comunicare con il giudice sulle questioni matrimoniali dei suoi genitori tutte le volte che lo desidera e che proprio il giudice, in prima persona,
deve essere capace di parlare al bambino spiegandogli la separazione dei suoi
genitori (7).
In parallelo a questo percorso di definizione dell’ascolto come bisogno del
bambino, l’ascolto però si va affermando come suo diritto. In un quadro
legislativo che ancora lo ignorava o limitava la Corte costituzionale, con la
sentenza n. 1/2002, ha dichiarato che l’ascolto del bambino nei procedimenti camerali minorili è già un atto dovuto quando abbia una sufficiente capacità di discernimento, per due ragioni:
- perché è immediatamente operativo l’art. 12 della Convenzione dei diritti
del fanciullo che afferma il diritto del bambino di essere ascoltato nelle
procedure amministrative e giudiziarie che lo riguardano e che le sue opinioni debbono essere tenute in debita considerazione (8);
- perché il minore è già considerato come parte dall’ultimo comma novellato dell’art. 336 cod. civ. (non ancora entrato in vigore).
7.2. IL SIGNIFICATO DELL’ASCOLTO NELLE PROCEDURE GIUDIZIARIE
Occorre però a questo punto precisare il significato dell’ascolto nelle procedure giudiziarie. Quando la Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo
del 1989 (così come quella europea sull’esercizio dei diritti del minore del
1996) parla di diritto del minore di esprimere la sua opinione e di essere consultato, non si riferisce ad un diritto del minore ad essere interrogato.
L’ascolto di opinioni è diverso infatti dall’assunzione di una testimonianza,
anche se ha con essa punti in comune. “Nell’ascolto - è stato detto - non
siamo alla ricerca della verità, perché il nostro interesse è rivolto, prima che
ai fatti, alla persona del minore” (9). L’ascolto è prestare orecchie ed attenzione a ciò che il minore vuole esprimere; la testimonianza è il racconto
indotto su fatti che interessano al giudice per decidere. L’ascolto ha come
soggetto attivo il minore; la testimonianza vede come protagonista il giudice.
L’ascolto costituisce manifestazione specialmente di opinioni ed emozioni; la
testimonianza ha come contenuto il racconto di fatti. Qualche volta la testimonianza può essere traumatica, invece l’ascolto è in qualche modo liberatorio. Nella testimonianza non è rilevante ciò che il testimone vuole o desidera; l’ascolto è invece uno strumento per raccogliere le opinioni del minore,
con obbligo di prenderle debitamente in considerazione nel momento della
decisione e di esplicitare anche tale considerazione nella relativa motivazio203
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
ne (10). Il minore in questo modo è presente nel procedimento.
Definito in termini più strettamente giuridici, l’ascolto dà forma al diritto del
minore di partecipare alla sua tutela (11). Esso è l’unico momento partecipativo del minore al progetto che lo riguarda. Il procedimento senza ascolto è
viziato: manca un elemento costitutivo determinate della decisione e della
sua motivazione. L’ascolto delle opinioni del fanciullo, per prenderle debitamente in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità, significa metterlo come centrale, considerarlo una persona e non un
oggetto.
7.3. L’ETÀ DELL’ASCOLTO
Il principio contenuto nell’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo
del 20 novembre 1989 secondo cui al fanciullo capace di discernimento deve
essere data la possibilità di essere ascoltato nella procedura giudiziaria che lo
concerne, deve potere esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, deve vedersi prese in considerazione le sue opinioni
tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità (termine tradotto con
capacità di discernimento nella legge n. 184/1983) pone dei problemi non
facili relativi all’accertamento della capacità di discernimento che rende
obbligatorio l’ascolto.
Per dare alla nozione di capacità di discernimento qualche significato, è bene
richiamare che storicamente la capacità di discernimento veniva ritenuta
acquisita ai sei-sette anni. A questa età secondo la Chiesa cattolica il bambino iniziava a comprendere il significato di scelte di fede e di condotta e, quindi, era capace di peccato mortale e poteva essere ammesso alla confessione e
alla comunione. In parallelo anche la scuola iniziava ai sei anni. La psicologia convalida che verso questa età dei sei-sette anni il bambino normalmente acquisisce certe categorie di pensiero logico e il principio di realtà. La psicoanalista Françoise Dolto individua a sua volta dagli otto anni in su l’età in
cui un bambino dovrebbe essere in grado di comunicare con il giudice sulle
questioni matrimoniali dei suoi genitori.
In conclusione, l’anticipo dell’ascolto giudiziario tendenzialmente ad un’età
di sei-sette-otto anni costituisce un riconoscimento dell’identità e della soggettività del bambino, non considerato come un oggetto di cui degli adulti,
genitori o giudice che siano, comunque dispongono senza tenere conto della
sue inclinazioni.
8. L’ASCOLTO INDIRETTO DEL MINORE
ATTRAVERSO GLI AFFIDATARI
Il tema dell’ascolto si è arricchito con la disposizione dell’art. 5, comma 1,
legge n. 184/1983 novellata per cui “l’affidatario deve essere sentito nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi
al minore affidato”.
Questa previsione, che ha introdotto un generale obbligo di audizione dell’affidatario in quanto persona che ha cura del minore, sembra avere delle conseguenze di una certa importanza.
a. In questo modo l’affidatario può apportare al processo quegli elementi di
conoscenza di cui dispone sulle condizioni sia del minore sia della fami204
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
glia di origine. Si tratta di un giusta valorizzazione di un ruolo in cui gli
affidatari hanno dei poteri sostanzialmente parentali, assumendosi l’onere
di mantenere, istruire e educare il minore per la durata dell’affidamento e
di mantenere gli ordinari rapporti con le autorità sanitarie e scolastiche.
b. Non dovrebbero perciò più verificarsi casi di allontanamenti a sorpresa,
alcuni dei quali hanno costituito eventi giornalistici, dei bambini dagli
affidatari, perché la decisione modificativa del regime dell’affidamento
dovrebbe essere preceduta dall’ascolto degli affidatari. Ciò consentirà
anche di valutare in quali casi per le relazioni che si sono stabilizzate è
possibile che nell’interesse del minore gli stessi affidatari siano preferiti
come genitori adottivi.
9. LA RAPPRESENTANZA DEL BAMBINO
Distinto dal tema dell’ascolto è quello della rappresentanza del bambino nel
processo.
Si è osservato che i genitori partecipano al procedimento giudiziario relativo
alla potestà agendo in proprio, mentre la loro posizione può trovarsi in conflitto con gli interessi del figlio. Perciò il figlio in realtà non ha nessuno che
lo rappresenti nei procedimenti di separazione e divorzio e nei procedimenti
del tribunale per i minorenni per i figli naturali o per le situazioni di pregiudizio o di abbandono.
Il problema è stato posto alla Corte costituzionale che, con la sentenza n.
1/2002, ha ritenuto che già oggi è possibile, nei procedimenti camerali, quando ci sia un conflitto fra genitori e minore, nominargli un curatore speciale ai
sensi dell’art. 78 cod. proc. civ. perché lo rappresenti.
Sul soggetto che dovrebbe avere la rappresentanza processuale di un minore
deve però aprirsi un dibattito, che tenga presenti le varie possibilità prospettate finora: un curatore speciale; che però spesso porta nel processo non la
voce del minore, ma quella di un altro adulto, con il rischio - nei processi che
vedono contrapposizioni fra i genitori - di collusioni con uno di questi; il
pubblico ministero minorile, che è rappresentante della legge e fa fatica a
farsi portatore di interessi sociali; il difensore del minore, che però gli è
nominato dagli adulti; i servizi, che per il ruolo di segnalatori e di informatori nel corso del processo si fa fatica a pensare anche come rappresentanti
del minore; un garante per l’infanzia o pubblico tutore dell’infanzia; soluzione che in astratto appare preferibile.
10. LE INFORMAZIONI E LA PARTECIPAZIONE DEI SERVIZI
Un’altra questione che deve essere posta sul tappeto è la formazione e valutazione della prova nei procedimenti minorili. L’introduzione generale dei
servizi sociali e sanitari in funzione processuale produce una diversità dei
procedimenti dei tribunali per i minorenni anche sotto il profilo delle prove:
oggi ciò che gli operatori dei servizi accertano, propongono, scrivono o dicono è spesso la fonte principale di convincimento per il giudice minorile,
sostanzialmente allo stesso livello dell’ascolto dei genitori e del bambino,
sempre obbligatori.
La locuzione legislativa “assunte informazioni” (art. 336, comma 2 cod. civ.)
favorisce, nella sua genericità, una abitudine di acquisizione di notizie e ele205
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
menti valutativi (anche di tipo peritale) dalle relazioni dei servizi prevenute
a corredo del ricorso del pubblico ministero o richieste dal tribunale. Non
sembra di per sé ledere il diritto di difesa l’assunzione di “informazioni”
anche attraverso i servizi socio sanitari. Però una relazione sociale o psicologica apporta elementi acquisiti al di fuori del processo (che sono stati perciò
definiti “prove estranee”) che, per le modalità di assunzione (senza contraddittorio), le parti hanno limitate possibilità di contrastare.
Inoltre la partecipazione dei servizi al processo può apparire per alcuni aspetti ambigua: essi possono essere nello stesso tempo segnalatori della situazione e portatori di un interesse sociale di protezione di una parte; la insufficiente definizione del loro ruolo può condurli a colludere con il giudice o ad una
manipolazione reciproca; oppure possono presentarsi in una posizione di
dipendenza dal tribunale per i minorenni per rafforzare la propria autorità nei
confronti degli utenti.
Per ovviare a ciò occorre che lo stesso tribunale sia il soggetto che assume le
informazioni, principalmente con il sentire senza formalità (e perciò senza
giuramento) tutte le persone “informate”, senza delegare meramente all’esterno ai servizi la rappresentazione della realtà su cui si fonda la sua decisione. Il giudice deve inoltre svolgere un vaglio critico sulle informazioni
presentate dai servizi, verificandone per quanto possibile il contenuto in
modo autonomo attraverso un esame accurato delle parti, l’assunzione di
testimonianze, la consulenza psicologica, indagini specialistiche, ecc.
Una particolare attenzione deve essere posta là dove le relazioni dei servizi
non si limitano ad esporre fatti storici (che possono essere confermati o controbattuti attraverso testimonianze), ma esprimono apprezzamenti o giudizi
di valore, dipendenti da valutazioni soggettive dell’operatore, anche se si
tratta di un operatore dotato di una specifica professionalità, valutazioni che
solo in presenza di riscontri concordanti e univoci di natura oggettiva possono essere assunte nel giudizio ad elementi di convincimento.
11. IL DIRITTO DI DIFESA
Il tema della difesa nei procedimenti civili minorili pone numerosi problemi.
Quanto al difensore del bambino, ci si chiede quanto egli sia autonomo
rispetto alle posizioni dei genitori; e quale ascolto, attenzione e comprensione egli può avere, e in che modi, per il bambino. Va posta anche la questione
della effettiva preparazione del difensore del bambino nei procedimenti civili, così come si è curata una preparazione specialistica dei difensori penali
dei minori.
Più in generale, un problema reale è assicurare uno spazio effettivo alla difesa nei procedimenti civili minorili. In alcuni uffici giudiziari minorili il
difensore non viene avvisato dell’assunzione delle prove perché possa parteciparvi né del deposito degli atti prima delle decisione. In altri uffici c’è la
prassi di non ammissione del difensore ad assistere al compimento di determinati atti (come l’esame psicologico di un bambino da parte di un componente privato, l’interrogatorio dell’ “altra” parte o di una persona informata,
la convocazione degli operatori (servizi), giustificata con la necessità del
miglior svolgimento dell’atto istruttorio che sarebbe viziato sostanzialmente
dalla partecipazione del difensore che alimenterebbe la conflittualità.
206
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Che un ascolto del bambino “duale”, senza la presenza di altre persone, possa
consentirgli meglio di esprimere la sua opinione è un fatto reale. Appare però
difficile rinvenire riferimenti normativi a sostegno della tesi che il giudice
istruttore discrezionalmente, in relazione a singoli atti o all’intera istruttoria,
possa limitare il diritto-facoltà del difensore tecnico di presenziare, allorché
egli lo richieda, all’acquisizione di tutte le informazioni utili per la decisione.
Senz’altro più corretto appare l’accorgimento attuato da alcuni giudici, in
occasione di esami specializzati particolarmente delicati in cui l’introduzione di un contraddittorio può essere traumatica o addirittura disturbare la correttezza del risultato, di richiedere al difensore tecnico di non presenziare,
rimettendo quindi la decisione alla valutazione del difensore, quasi sempre
sensibile ad una sollecitazione motivata, subito dopo però ponendo i risultati dell’esame a disposizione del difensore per le sue valutazioni.
Le parti e i loro difensori hanno inoltre diritto di conoscere gli atti del procedimento su cui si fonda il convincimento del giudice. L’esigenza di conoscenza è accresciuta per il fatto che il procedimento minorile ha perso la collegialità nel momento dell’assunzione delle prove. Esse sono costituite da informazioni raccolte a verbale da un giudice delegato, senza giuramento e al di
fuori della presenza delle parti, o sono formate all’esterno (relazioni sociali
o psicologiche dei servizi locali, informazioni di polizia, atti di procedimenti penali). I verbali delle persone assunte e le relazioni e gli atti pervenuti
sono perciò per i difensori e per il collegio giudicante soprattutto, o esclusivamente, documenti cartacei.
A fronte di ciò alcuni tribunali per minorenni hanno introdotto la prassi (per
l’interesse del minore o per “difendere” i servizi socio sanitari o con la motivazione della riservatezza) di vietare alle parti di conoscere alcune relazioni
sociali o psicologiche o informazioni e addirittura di esaminare gli interi atti,
con un capovolgimento del principio della pubblicità degli atti in quello
opposto della loro segretezza, caratteristica tipica dei procedimenti inquisitori. Altri tribunali minorili invece hanno introdotto il principio della discrezionalità della conoscenza degli atti, che può essere permessa o negata dal giudice istruttore o dal collegio. .
Queste prassi appaiono abusive (e la Corte costituzionale le ha definite
distorte) perché istituiscono una disparità di trattamento rispetto al pubblico
ministero che conosce gli atti nella loro integrità (art. 1 disp. att. cod. proc.
civ.) e perché è violato il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione,
le parti non essendo messe in condizione di discutere il materiale probatorio
acquisito nel procedimento e di proporre in relazione ad esso eventualmente
nuove prove prima della decisione.
In particolare non appare corretto ritenere che si possano secretare informazioni riferite a processi penali (12), dal momento che gli atti penali, quando
vengono pervengono nel fascicolo civile, ne acquisiscono il regime di pubblicità. Le prassi di secretazione non possano giustificarsi neppure con la
considerazione che il giudice deve autorizzare le parti a prendere visione ed
estrarre copia degli atti contenuti nel fascicolo di adottabilità (art. 10, comma
2, legge n. 184/1983) perché tale autorizzazione attiene ad una mera valutazione delle legittimazione del richiedente.
207
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
12. UNA EFFETTIVA COLLEGIALITÀ
Fra le questioni ordinamentali di carattere generale che lambiscono in profondità la qualità del processo civile minorile c’è quella di una collegialità
effettiva degli uffici giudiziari specializzati per i minorenni.
Il tribunale per i minorenni nella cause civili ha una composizione originale,
che costituisce il paradigma della specializzazione: dal 1956, con l’ingresso
della componente femminile, è formato di quattro giudici, due professionali
e due onorari, con un equilibrio fra apporti giuridici e apporti delle scienze
umane, mentre il potere di direzione è assicurato al magistrato giurista. È
l’inserimento nell’organo giudicante degli esperti in materie umane e psicologiche che crea la sua competenza diversificata ed è quindi alla collegialità
che l’ordinamento collega inesorabilmente il requisito della specializzazione.
Non pare dubbio che il legislatore abbia pensato ad un tipo di procedimento
minorile in camera di consiglio dove le prove fossero disposte dal collegio e
assunte davanti al collegio: il “giudice” che può assumere informazioni (art.
738, comma 3 cod. proc. civ.) è chiaramente il collegio; mentre compito del
relatore (art. 738, comma 1 cod. proc. civ.) è quello di studiare gli atti e riferire. E infatti così si svolge il procedimento di modifica delle condizioni della
separazione.
L’effettuazione della fase probatoria avanti ad un collegio specializzato per
la sua composizione, che riunisce insieme una cultura giuridica e una cultura capace di approfondire scientificamente e umanamente i bisogni dei bambini o degli adolescenti, ha un significato di immediatezza di conoscenza,
rassicurando gli utenti circa la ricezione delle loro ragioni da parte di quegli
stessi giudici che poi decidono la causa, e di autorevolezza dell’organo come
il più capace di dare una decisione giusta.
Questa competenza specializzata si è però svuotata da quando nei procedimenti civili si sono generalizzate prassi di deleghe istruttorie a un singolo
giudice, portatore di una specifica cultura (o giuridica o nelle scienze
umane). Di qui deriva il disagio dei difensori che si trovano a “trattare” con
dei non giuristi (tale disagio non c’è nel processo penale minorile rimasto
collegiale). C’è stato perciò un rigetto che ha portato ai progetti del ministro
Castelli (che fortunatamente non hanno superato il cammino parlamentare) di
abolizione della componente onoraria nei collegi giudiziari civili minorili.
Personalmente ritengo che l’attuale crisi possa essere superata solo riportando l’ufficio giudiziario civile minorile (sia che si chiami tribunale per i minorenni, sia che diventi sezione specializzata del tribunale ordinario) alla collegialità anche nelle attività istruttorie, mantenendo nel collegio giudicante la
compresenza di due culture, giuridica e delle scienze umane, che consente
una effettiva binocularità. La materia della potestà sui minori non può essere
adeguatamente trattata solo sul piano tecnico giuridico da un giudice togato,
la cui preparazione è unicamente vagliata dall’esame di concorso per l’ingresso in magistratura, ma deve confrontarsi con contributi ed elaborazioni
sommati di vari saperi.
208
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
NOTE
1) Corte costituzionale, 30 gennaio 2002, n. 1, in Famiglia e diritto, 2002, 3,
pp. 229-239.
2) In Famiglia e diritto, 2001, 3, pp. 308-323.
3) Cfr. Corte di appello di Torino, sezione per i minorenni, decreto 3 gennaio
2001, in Minorigiustizia, 2000. 3, pp. 165-171; e in Il diritto di famiglia e
delle persone, 2001, 4, pp. 1473-1492.
4) Su questi problemi F. Occhiogrosso, “La complessità della risposta all’abuso
sui minori”, in Minorigiustizia, 2001, 1, pp. 9-12.
5) L. Fadiga, cit., p. 85.
6) Per queste proposte di istituire una figura di difensore pubblico del minore,
affidandogli anche compiti processuali, cfr. A. C. Moro, “Molte ragioni per
introdurre un ufficio di difesa del minore”, in Minorigiustizia, 1998, 4, pp.
15-23; F. Milanese, “Dal tutore pubblico dei minori in Friuli-Venezia Giulia
ad un garante per l’infanzia in ogni regione”, ibidem, pp. 24-33..
7) F. Dolto, Quando i genitori si separano, Mondadori, Milano, 1995, pp.
125-126.
8) Se ne riporta il testo: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di
discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione, su ogni
questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente
prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di
maturità. A tale fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di
essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo
concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo
appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della
legislazione nazionale”.
9) R. Lombardi e M. Tafà, “Ascoltare il minore ovvero entrare in relazione”, in
Minorigiustizia, 1998, 4, p. 85.
10) La distinzione fra ascolto di opinioni e ascolto di testimonianze è espressa
chiaramente da A. Dell’Antonio, “La partecipazione del minore alla sua
tutela. Un diritto misconosciuto”, Giuffré, Milano, 2001, pp. 148-152.
11) Così A. Dell’Antonio, op. cit.
12) Cr. Corte appello di Torino, decreto 11 gennaio 2001, in Il diritto di
famiglia e delle persone, 2001, 4, 1473-1492.
209
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
SOMMARIO
1. Potestà ed incapacità
2. Il riconoscimento dei diritti del bambino
3. La distinzione tra giurisdizione ed interventi di
sostegno delle famiglie e dei bambini
4. L’intervento nel rapporto educativo ed il diritto al
rispetto della vita privata e familiare
5. Il giusto processo regolato dalla legge.
6. Professionalità del giudice, specializzazione ed
efficienza
7. Utilizzazione dei saperi extra giuridici e ruoli
processuali
8. La formazione specializzata dei soggetti processuali
9. Bibliografia
1. POTESTÀ ED INCAPACITÀ
A
ll’asimmetria della condizione personale e sociale del bambino rispetto agli
adulti corrispondeva fino a pochi anni
fa, sul piano giuridico, una condizione generale di incapacità sia nei rapporti personali
che patrimoniali ed una posizione di soggezione ai genitori strettamente collegata a tale
incapacità (Zatti 1980).
Ne deriva una relazione unidirezionale,
potere - soggezione, che non consente l’emersione nel rapporto educativo dei diritti
della personalità del bambino.
Ai genitori dunque è imposto il dovere
di esercitare i poteri parentali nell’interesse del bambino: al giudice minorile
era - ed è ancora - attribuito il compito
di controllare il modo di tale esercizio
piuttosto che quello di garantire diritti,
che troveranno il loro riconoscimento
formale solo con la Convenzione di
New York del 1989 ratificata in Italia
con la L. 176 del 1991.
Quando lo Stato autoritario riformò il
diritto di famiglia nel 1942, trasformò
la potestà, che era un istituto della
famiglia, in un potere pubblicistico da esercitarsi dal capo famiglia o dal
tutore sotto il controllo anche sostitutivo del tribunale per i minorenni o del
giudice tutelare.
L’autorità giudiziaria a sua volta si avvaleva degli organi di protezione dell’infanzia e di tutti gli enti i cui scopi corrispondevano alle sue funzioni,
secondo il modello del giudice amministratore proprio dell’epoca. Si realizzò così un sistema circolare di controllo e protezione nel quale i diritti delle
persone, assorbiti ed annullati nella sfera pubblicistica in cui le relazioni
familiari erano state collocate, non avevano alcun riconoscimento.
Dunque controllo della condotta dei minorenni, controllo dell’esercizio della
potestà da parte dei genitori da esercitarsi discrezionalmente, all’origine nei
limiti del criterio indicato dall’articolo 147 del codice civile, il sentimento
nazionale fascista.
Successivamente con l’avvento dello Stato repubblicano il criterio fu trasformato in quello dei principi della morale. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975, quando il pluralismo e la complessità corrosero l’omogeneità
culturale e sociale che si riflettevano nei principi della morale e cominciò ad
emergere la questione dei diritti umani, l’articolo 147 indicò come punto di
riferimento dell’educazione la capacità, l’inclinazione naturale e le aspirazioni dei figli. Dunque la discrezionalità, anche quella del giudice, deve essere
orientata nella direzione del bene del bambino.
LA TUTELA CIVILE DEI
DIRITTI DELLA PERSONALITÀ
E GIUSTO PROCESSO
DOTT.
GUSTAVO
SERGIO
PROCURATORE DELLA
REPUBBLICA PRESSO
IL TRIBUNALE PER I MINORENNI
DI VENEZIA
210
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Fu proprio in coincidenza di questa riforma degli anni 70, caratterizzati
anche dall’operatività della legge sull’adozione speciale e dallo sviluppo dei
servizi sociosanitari, che gli interventi a tutela dei minori del tribunale per i
minorenni aumentarono in modo massiccio.
In quei tempi iniziava la scoperta dei diritti dei minori, concepiti tuttavia
sempre nella logica unidirezionale del controllo discrezionale dell’esercizio
della potestà, che anzi risultò potenziato sia nelle strutture (per il potenziamento dell’organico dei tribunali per i minorenni e lo sviluppo dei servizi)
che nell’ideologia (Dogliotti 1997), posto che le decisioni restavano affidate
alla discrezionalità del giudice ed alle valutazioni degli operatori sociosanitari senza alcun ampliamento degli spazi di espressione e di esercizio dei
diritti delle persone coinvolte.
2. IL RICONOSCIMENTO DEI DIRITTI DEL BAMBINO
iova a questo punto ricordare che la nostra Costituzione riconosce i diritti
G
inviolabili dell’uomo senza distinzioni, neppure con riguardo alla condizione personale e sociale propria dei bambini. Non contempla l’istituto della
potestà, e riconosce il dovere-diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, ed il diritto di questi ultimi di sviluppare la loro personalità in questo rapporto se i genitori sono in grado di assolvere i loro compiti. (art. 30)
Proprio dall’inviolabilità dei diritti umani (art. 2) discende il dovere della
Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della
persona umana (art. 3).
I diritti dell’uomo dunque non sono nè pubblici nè privati: sono inviolabili.
Di qui la disarmonia fino ad oggi insuperata tra la Costituzione, che riconosce i diritti del bambino e la loro corrispondenza biunivoca con quelli dei
genitori, e la concezione del codice civile del 1942, non toccata dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, incentrata sulla funzione pubblicistica
della potestà, e dunque sul controllo discrezionale di natura amministrativa
del tribunale per i minorenni.
Se il giudice minorile adotta discrezionalmente provvedimenti nell’interesse
del minore, e dunque per il suo bene, sindacando l’esercizio del potere pubblicistico attribuito ai genitori, non sono necessarie la garanzia della difesa,
che fino alla riforma introdotta dalla L. 149 del 2001 era soltanto consentita.
Infatti non si tratta di costituire o modificare diritti, ma di governare interessi, e dunque i provvedimenti del giudice minorile non sono neppure ricorribili in cassazione (Cass. sez. un. civ. nr. 6220 del 1986).
I diritti del bambino, di una persona che, nonostante la condizione naturale di
debolezza, è riconosciuta come soggetto piuttosto che come incapace cominciarono ad emergere solo dopo il 1989. La novità introdotta dalla
Convenzione di New York - anche rispetto alla nostra Costituzione - fu la
concretezza e specificità del riconoscimento, che consentì di configurare i
diritti fondamentali dell’uomo in funzione della condizione di particolare
debolezza dei soggetti di minore età.
Accanto ai diritti la convenzione individua i doveri degli Stati e quelli degli
organismi chiamati a rendere effettivi i diritti del bambino. Così l’interesse
del minore da valore pubblicistico e meta individuale incarnato nella concre211
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
tezza delle relazioni personali dall’autorità demiurgica del giudice si trasforma in un criterio interpretativo che l’art. 3 della convenzione così esplicita:
in tutte le decisioni relative ai fanciulli di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve
avere una considerazione preminente.
Dunque l’interesse del bambino non modifica la natura delle decisioni adottate da soggetti pubblici o privati in conformità alle loro competenza funzionale ed alle regole procedurali che ne disciplinano l’attività, ma le orienta
verso una considerazione preminente delle sue esigenze.
La nascita del bambino come soggetto capovolge la concezione tradizionale
della sua soggezione alla potestà. In Francia la riforma del Code Civil realizzata nel 1970 (L. n. 70-459) sostituisce il termine puissance, corrispondente
all’antica potestas, con autorité, derivante dal latino augêre, (che fa crescere) che sottolinea l’adesione spontanea che si realizza nell’interazione educativa tra genitore e figlio. Nello stesso senso è la modifica del § 1626 del BGB
realizzata in Germania nel 1979. La parola gewalt (potere) è stata sostituita
con quella di sorge (cura) e nel secondo comma della disposizione si legge
che nell’allevamento e nell’educazione del figlio i genitori prendono in considerazione la crescente capacità ed il crescente bisogno del figlio di agire
indipendentemente ed in modo responsabile. Essi discutono con il figlio per
quanto ciò sia opportuno in base al suo stato di sviluppo, dei problemi relativi alla sua cura e mirano al comune accordo.
In Italia, lo abbiamo visto, l’art. 147 del codice civile dà rilievo nel rapporto
educativo alla capacità, all’inclinazione naturale, alle aspirazioni del figlio, ma
l’impianto pubblicistico delle relazioni familiari e, soprattutto, la funzione di
controllo discrezionale degli organi giudiziari minorili è rimasta immutata.
3. LA DISTINZIONE TRA GIURISDIZIONE ED
INTERVENTI DI SOSTEGNO DELLE FAMIGLIE E DEI BAMBINI
a collocazione istituzionale e strutturale del tribunale per i minorenni, la
Lsociale
sua composizione mista, comprendente cittadini benemeriti dell’assistenza
e cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia, e
- dal 1956 - di psicologia, erano funzionali all’integrazione del nuovo organo giudiziario nel sistema assistenziale, che secondo la logica dell’epoca
concorreva con il sistema repressivo ad attuare la difesa dello Stato contro la
criminalità (Rocco 1930).
Perciò la sede del tribunale era presso il centro di rieducazione dei minorenni in una situazione in cui le finalità di welfare erano completamente incentrate e sottomesse al sistema giudiziario (Ceretti 1996).
La Costituzione fin dal suo testo originario aveva attributo alle Regioni la
competenza legislativa ed amministrativa in materia di beneficenza pubblica
ed assistenza sanitaria ed ospedaliera nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (art. 117). Sono noti i ritardi dell’attuazione dell’ordinamento regionale, e solo nel 1975 l’Opera Nazionale maternità ed
Infanzia fu sciolta e le sue funzioni trasferite agli enti locali.
Il trasferimento agli enti locali delle competenze amministrative già esercita212
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
te dallo Stato fu realizzato dal D.P.R. 616 del 1977, che configurò più modernamente (art. 22) le attività di beneficenza pubblica inquadrandole nella sicurezza sociale, e dunque ponendole sotto l’egida del principio di solidarietà
sociale sancito dagli articoli 3 e 38 co. 1 della Costituzione.
Tuttavia il passo per quel che riguardava i minorenni fu compiuto a metà.
L’art. 23 confermò in via di eccezione la continuità del vecchio sistema della
giustizia minorile che coniugava protezione e controllo specificando che
sono comprese nelle funzioni amministrative dell’articolo precedente (l’art.
22 per l’appunto) le attività relative … agli interventi in favore di minorenni
soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della
competenza amministrativa e civile.
È vero che la legge precisa che si tratta di interventi a favore, ma gli utenti,
minorenni o familiari, potrebbero non aver prestato il consenso che di regola sostiene il rapporto assistenziale, dando così luogo ad un conflitto giuridico, sciolto di autorità dal provvedimento del tribunale per i minorenni, che
sotto questo profilo è limitativo della libertà. (Sacchetti 1987).
La riforma del 1977 poi confermò il rapporto di subordinazione funzionale
dei servizi con il tribunale già previsto dalla L. 2085 del 1962 (Dosi 2000),
modificando così solo i riferimenti istituzionali ed organizzativi con cui deve
interagire la giustizia minorile.
In definitiva le funzioni del tribunale non furono toccate, né dalla riforma del
diritto di famiglia né da quella sul decentramento amministrativo, e la stessa
competenza amministrativa della rieducazione fu mantenuta nonostante il
nuovo assetto organizzativo dei servizi.
La Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art.
23 del D.P.R. 616 del 1977, nel rigettare la questione (ord. 22 7 1987 n. 287)
rilevò che la competenza amministrativa del tribunale per i minorenni ha carattere di tutela del minore e rientra nel quadro di un impegno pedagogico di
aiuto al superamento di quelle situazioni che la legge definisce di irregolarità.
In realtà mentre la misura rieducativa residenziale del collocamento in casa
di rieducazione o in istituto medico psicopedagogico non è più praticabile
perché il sistema assistenziale non ha allestito strutture di tal genere, è largamente applicata in sede civile l’altra misura dell’affidamento al servizio
sociale che comporta il coinvolgimento nelle prescrizioni del tribunale anche
dei genitori, e dunque si risolve in un intervento obbligatorio, e talora coattivo, dei servizi degli enti locali. (Sergio 1999).
Il collegamento della prevenzione socio sanitaria con gli interventi giudiziari minorili produce così un duplice scambio, che si risolve in terapie giudiziarie e provvedimenti terapeutici.
Infatti per un verso gli operatori - per realizzare le proprie finalità preventive e riparative - possono segnalare il caso di un minore al tribunale, trasformato così in braccio secolare dei servizi, per effettuare interventi diagnostici
e terapeutici senza il consenso informato degli utenti maggiorenni o minorenni che siano; per l’altro il tribunale si appropria del sapere delle scienze del
comportamento per adottare misure secondo le esigenze del minore valutate
discrezionalmente dal giudice. (Sergio 2001).
La recente riforma del titolo V della Costituzione (L. Cost. 3 del 2001) sembra
aver modificato ulteriormente il quadro dei rapporti tra controllo ed interventi
213
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
e servizi sociali. L’art. 117 lett. h) ed l) attribuisce allo Stato la competenza
esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza ad esclusione della polizia
amministrativa locale, e quella in materia di giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale. Riserva alle Regioni la potestà legislativa in
riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato, e dunque anche quella riguardante gli interventi ed i servizi sociali.
Del resto la stessa L. 328 del 2000, legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali (emanata prima della riforma
del titolo V della Costituzione) aveva già chiarito le ambiguità del rapporto
della giustizia minorile con il sistema assistenziale, escludendo dal novero
degli interventi e dei servizi sociali quelle assicurate dal sistema previdenziale e dal sistema sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia. (art. 1)
Dunque non è più possibile confondere la protezione della maternità infanzia
e gioventù, (ed ogni altra forma di intervento assistenziale) con la tutela giurisdizionale realizzata mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Il regime giuridico delle attività assicurate in sede di amministrazione della
giustizia riguarderà l’esecuzione dei provvedimenti e delle misure stabilite
dal giudice nei riguardi dei minorenni per le finalità di tutela dei diritti della
persona stabilite dalla legislazione minorile espressamente richiamata dall’art. 22 co. 3 della L. 328 del 2000, che i servizi sono dunque chiamati ad
attuare nell’ambito della propria discrezionalità tecnico funzionale con esclusione di quella amministrativa.
Viceversa l’attività propria degli interventi sociali si svolgerà nel rispetto del
principio del consenso informato, del segreto professionale (che la L. 119 del
2001 ha esteso anche agli assistenti sociali, sia liberi professionisti che
dipendenti pubblici o privati), della tutela della riservatezza dei dati sensibili, e con le facoltà e le garanzie previste dai codici di procedura penale e civile per la tutela del ruolo professionale degli operatori (artt. 199, 200 e 103 c.
p. p. e 249 c. p. c. anche con riferimento all’art. 120 co. 7 del D.P.R. 309 del
1990 T.U. sugli stupefacenti).
Evidentemente le prescrizioni giudiziarie, per quanto a fin di bene, sono cosa
ben diversa dall’offerta di aiuto dei servizi accettate dagli utenti. Perciò le
misure che limitano la libertà personale dovranno rispettare le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione, mentre la prevenzione e la cura delle
malattie e del disagio va distinta dalla prevenzione a fini di sicurezza.
Le modifiche della Costituzione e del sistema assistenziale di cui si è detto
sono troppo recenti per far ritenere superato il rischio di ulteriori confusioni.
Solo il consolidamento nella prassi giudiziaria dei principi del giusto processo e l’ulteriore rafforzamento dell’autonomia dei servizi consentiranno l’affermazione del nuovo sistema che si va delineando.
4. L’INTERVENTO NEL RAPPORTO EDUCATIVO ED IL
DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE
stessa Convenzione di New York sui diritti dei bambini che, mentre
Èperlaimpegna
gli Stati ad adottare misure legislative, amministrative, e sociali
proteggere i bambini da ogni forma di violenza, maltrattamento, abuso ed
214
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
abbandono anche nell’ambito familiare (art. 19), richiama negli artt. 9 co. 1
e 2, e 16 la funzione di garanzia dal giudice nei confronti dei soggetti coinvolti dall’intervento di protezione svolto dai servizi - innanzi tutto il bambino - per realizzare la protezione della legge contro interferenze arbitrarie o
illegali nella vita privata e familiare.
Evidentemente la natura stessa dei diritti umani non ammette una condizione
di soggezione passiva da parte di chi è destinatario di un intervento pubblico
sia pure finalizzato alla sua protezione. La lesione dei diritti relazionali della
personalità ha comportato di recente la condanna della Corte europea dei
diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia e del Regno Unito per violazione
dell’art. 8 della Convezione che tutela il diritto al rispetto della vita privata e
familiare (sentenza 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia; sentenza
3 maggio 2001, affaire T.P. e K.M. c. Royame Uni. Requête n°28945/95).
L’intervento sociale nei confronti della famiglia e dei suoi singoli membri è
oggi caratterizzato da forme e modalità che spostandosi dall’ambito giurisdizionale si collocano in quello amministrativo.
Ciò è particolarmente vero per quelli di conciliazione, consulenza, arbitramento, ed ogni altra composizione dei conflitti familiari che è concepita
come alternativa alla giurisdizione.
Si tratta di una tendenza promossa a livello internazionale che in Italia non si
è ancora consolidata. L’art. 13 della Conv. di Strasburgo sull’esercizio dei
diritti dei minori del 25 gennaio 1996 stabilisce che al fine di prevenire o di
risolvere controversie, e di evitare procedimenti che interessano minorenni
davanti ad un’autorità giudiziaria le Parti incoraggiano il ricorso alla conciliazione o ad ogni altro mezzo di risoluzione delle controversie ed il loro
utilizzo per raggiungere una composizione amichevole.
L’intervento di mediazione nei conflitti familiari (il d.d.l. C. 66 all’esame
della Camera lo prevede in tema di separazione dei coniugi ed affido condiviso dei figli), quelli di promozione di condizioni materiali e relazionali più
propizie allo sviluppo della personalità dei soggetti in età evolutiva ed in
generale di quelli “deboli”, svolgono anche una funzione di filtro, quasi di
delibazione preliminare delle situazioni di conflitto o lesione dei diritti fondamentali eventualmente da sottoporre all’esame dell’A.G.
In conclusione l’azione di prevenzione svolta dai servizi quando riguarda il
rapporto educativo tra genitori e figli può interferire con la privatezza delle
relazioni familiari. Perciò l’intervento si svolgerà nell’ambito assistenziale
quando si fonda sul consenso informato degli utenti, che è importante non
solo sul piano strettamente giuridico, ma soprattutto per creare l’alleanza
terapeutica tra operatori ed assistiti che ne assicura l’efficacia.
Viceversa in caso di conflitto i servizi, quando non intendano rinunciare
all’intervento proposto, dovranno segnalare il caso al soggetto pubblico legittimato a proporre un ricorso al giudice per la tutela giurisdizionale dei diritti dei bambini.
È questo il nuovo percorso disegnato dalla legge 149 del 2001 (Modifiche
alla L. 4. 5. 1983 n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del codice civile) che ha ristabilito la
legittimazione processuale del pubblico ministero minorile escludendo l’apertura di ufficio di procedimenti da parte del tribunale per i minorenni, che
215
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
aveva alimentato la confusione tra intervento assistenziale e tutela giurisdizionale.
Perciò la consulenza familiare, l’assistenza, la conciliazione, preparazione,
vigilanza a fini di sostegno (il c. d. monitoraggio) delle famiglie in difficoltà e/o di soggetti “deboli”; dovranno essere considerati distintamente rispetto alla risoluzione autoritativa dei conflitti, all’eventuale prescrizione di
interventi assistenziali di competenza dell’autorità giudiziaria.
5. IL GIUSTO PROCESSO REGOLATO DALLA LEGGE.
processo previsto dalla Costituzione, che ha recepito nel nuovo testo delIti ll’art.
111 i principi stabiliti dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritdell’uomo, non consente confusioni come nel passato tra gli interventi di
protezione e la tutela giurisdizionale dei diritti. A differenza degli interventi
amministrativi caratterizzati dalla discrezionalità, e connotati perciò dalla
posizione di supremazia degli organi pubblici cui corrisponde una situazione
di soggezione del cittadino, il giusto processo è regolato dalla legge, che ne
predetermina la forma ed i poteri processuali delle parti e del giudice.
Alle parti compete non solo il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, dunque anche di quelli della personalità, ma i poteri processuali
che rendono effettivo il diritto di difesa ed il contraddittorio in condizione di
parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
Se il principio del contraddittorio era già implicito nel diritto di difesa assicurato dall’art. 24 co. 2 Cost., la rilevanza costituzionale attribuita alla parità tra le parti ed alla terzietà ed imparzialità del giudice costituisce una novità che muta il modello della giurisdizione.
I caratteri che definiscono la posizione del giudicante da un lato si riferiscono alle parti in conflitto, rispetto alle quali egli è terzo, dall’altro designano
anche la sua alterità rispetto agli altri poteri dello Stato, che sul piano istituzionale si traduce nell’indipendenza.
Si tratta del paradigma del processo accusatorio nel quale lo Stato è rappresentato dal pubblico ministero, organo deputato ad ottenere il riconoscimento nel processo delle pretese e delle finalità pubbliche, ben distinto dal giudice garante, che invece opera al di fuori ed al di sopra degli altri pubblici
poteri per realizzare una funzione di salvaguardia dei diritti fondamentali dei
cittadini (Civinini 2001).
Perciò l’interazione dei servizi sociali con il giudice, tradizionale per la giustizia minorile, è oramai inconcepibile non solo perché, come si è visto, le
modifiche istituzionali e costituzionali avvenute negli ultimi vent’anni hanno
separato l’assistenza dalla giustizia, ma soprattutto perché ripropone il vecchio modello del giudice amministratore, dotato anche di poteri di autoattivazione (si pensi al pretore) che nel rendere concreta nei singolo caso la
volontà della legge persegue gli stessi fini che lo Stato attua attraverso gli
altri poteri, il legislativo e l’esecutivo.
Per altro il giudice garante deve assicurare il rispetto delle regole processuali predeterminate dalla legge, non certamente inventarne a sua discrezione,
per giunta in modo coerente a finalità tutelari (dunque amministrative) perseguite attivando poteri d’impulso altrettanto discrezionali cui corrisponde
216
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
sempre una posizione di soggezione delle parti.
Si comprendono allora le ragioni per le quali la c.d. volontaria giurisdizione,
- il rito camerale disegnato dalle scarne disposizioni dettate dagli artt. 737 e
seguenti del c.p.c., che attribuiscono al giudice ogni potere d’impulso processuale, di ricerca della prova senza formalità, di pronuncia di provvedimenti
urgenti senza il rispetto delle regole del contraddittorio e comunque in termini non prefissati dalla legge ma stabiliti dal giudice - sia estraneo al nuovo
modello costituzionale di giurisdizione, e contrastante con il principio secondo cui il giusto processo deve essere regolato dalla legge e non rimesso alla
discrezionalità del giudice.
Ultimamente la Corte Costituzionale, pronunciando nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte d’Appello di Torino e da quella di
Genova con la sentenza 1 del 2002 ha dichiarato inammissibili o infondate le
questioni sollevate dopo aver proceduto ad un’innovativa - e meticolosa operazione di interpretazione ricostruttiva del rito celebrato nei procedimenti civili minorili.
A seguito di questo restauro costituzionale il nucleo essenziale del nuovo rito
è il seguente. Il bambino o l’adolescente capace di discernimento è parte del
processo poiché l’art. 12 della Convenzione di New York (ratificata e perciò
pienamente efficace nel nostro ordinamento) gli riconosce il diritto di essere
ascoltato dal giudice. Dunque in caso di conflitto d’interesse con uno od
entrambi i genitori al fanciullo deve essere nominato un curatore speciale. Il
contraddittorio, nonostante il testo vigente del codice civile, riguarda comunque entrambi i genitori poiché l’art. 9 co. 2 della medesima convenzione
richiede che tutte le parti interessate abbiano la possibilità di partecipare al
processo e far conoscere le proprie opinioni. Analoghe le considerazioni sulla
costituzionalità dei provvedimenti urgenti previsti dall’art. 336 del codice
civile. Il principio secondo cui il giusto processo deve essere regolato dalla
legge e non da decisioni discrezionali del giudice fa ritenere che anche tali
provvedimenti siano assoggettati alla disciplina del procedimento cautelare
uniforme dettata dagli artt. 669 bis e ss. c.p.c., applicabile in quanto compatibile a tutti i provvedimenti cautelari previsti dal codice civile.
Se a tutto ciò si aggiunge l’assistenza obbligatoria di un difensore, (anche per
il bambino, naturalmente), da nominarsi anche di ufficio nei procedimenti per
la dichiarazione dello stato di adottabilità, il diritto delle parti di partecipare
a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, di presentare istanze istruttorie
ed estrarre copie degli atti contenuti nel fascicolo (cfr. artt. 8 co.4; 10 co. 2;
e 37 co. 3 L. 149 del 2001) si comprende la portata delle trasformazioni di
quella che un tempo era la “volontaria giurisdizione” minorile.
6. PROFESSIONALITÀ DEL GIUDICE,
SPECIALIZZAZIONE ED EFFICIENZA
i si deve chiedere infine se la composizione mista del collegio prevista nel
Cluzione
1934 sia adeguata alla funzione essenzialmente giurisdizionale che l’evogenerale dell’ordinamento ha oggi attribuito al tribunale per i minorenni.
Com’è noto, la specializzazione della professionalità e l’utilizzazione di modu217
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
li organizzativi flessibili, capaci di adeguarsi ai rapidi cambiamenti ed alle esigenze sempre nuove della vita sociale costituiscono le attuali risposte alla complessità crescente dei problemi anche per quel che riguarda la giustizia.
Il nuovo modello organizzativo del giudice unico di primo grado soddisfa l’esigenza di efficienza utilizzando lo strumento tabellare per la costituzione di
sezioni che consentono una ripartizione coerente degli affari civili e penali e
la specializzazione e rotazione dei magistrati addetti.
La circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 21 dic. 2001 sull’organizzazione degli uffici giudiziari all’indomani dell’introduzione nell’ordinamento giudiziario del giudice unico di primo grado stabilisce infatti
che la ripartizione del lavoro tra le sezioni deve avvenire secondo un criterio di attribuzione degli affari in base a competenze specifiche per materie
omogenee e preindividuate. La specializzazione, ove possibile, va realizzata
eventualmente attraverso l’identificazione di aree di competenza che accorpino più sezioni, all’interno delle quali può operarsi un’ulteriore ripartizione. In particolare la costituzione di sezioni specializzate appare preferibile
... per le materie caratterizzate dalla necessità, per il giudicante, di acquisire conoscenze non strettamente giuridiche ma comunque rilevanti per la
comprensione delle controversie quali, ad esempio, la materia della famiglia,
del lavoro, delle procedure concorsuali, delle società, dei brevetti e delle
successioni …
La specializzazione dunque è considerata un mezzo per favorire la professionalità tout court del magistrato (Rordorf 2000), e non un fine che conduce
alla costituzione di enclaves separate, nelle quali il giudice può smarrire la
visione complessiva dell’ordinamento (Romei Pasetti 2000), ovvero può
avvicinarsi eccessivamente agli interessi che deve tutelare, specialmente
quando le norme da applicare abbiano un alto tasso di elasticità. Di qui la
necessità di equilibrare la specializzazione con la rotazione, per evitare il
rischio in sé ineliminabile di diminuzione della terzietà ed imparzialità del
giudice (Proto Pisani 2000).
Ciò non esclude la considerazione delle materie, per esempio quella del lavoro,
o della famiglia e dei diritti della persona, per le quali la circolare sulle tabelle
di organizzazione prevede espressamente l’istituzione di apposite sezioni.
Tuttavia significativamente l’art. 18 del D.Lgs. 51 del 1998 sull’istituzione
del giudice unico sostituisce nell’art. 54 dell’Ord. Giud. la menzione della
“magistratura del lavoro”, con la formula “sezione incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia di lavoro e di previdenza ed
assistenza obbligatorie”, confermando l’approccio che realizza la specializzazione con strumenti organizzativi ordinari e con la professionalità del giudice, in conformità del resto alla previsione dell’art. 102 della Costituzione
che vieta l’istituzione di giudici speciali, e consente invece l’organizzazione
presso il giudice ordinario di sezioni specializzate per determinate materie.
7. UTILIZZAZIONE DEI SAPERI EXTRA GIURIDICI E
RUOLI PROCESSUALI
del diritto di famiglia e delle persone non riguarda solo l’amLabitopeculiarità
sociale nel quale si svolgono i rapporti disciplinati dal diritto, come
218
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
per la materia del lavoro, ma comprende anche l’utilizzazione di saperi e
l’applicazione di tecniche estranee al diritto, indispensabili per la comprensione ed il sostegno delle relazioni personali, interventi che solo eventualmente potranno essere considerati dal giudice chiamato a tutelare i diritti
implicati nelle relazioni stesse.
L’esigenza di una migliore conoscenza della controversia (quaestio facti)
sottoposta al giudizio (quaestio juris) può far nascere la necessità di utilizzare anche i saperi extra giuridici nel processo. Talvolta tale necessità riguarda
il contenuto stesso della decisione, quando la disciplina di una determinata
materia è assicurata da norme in bianco - le c.d. clausole generali - o a maglie
larghe, la cui applicazione ed integrazione richiede per l’appunto conoscenze tecniche extra giuridiche.
Data la complessità delle questioni che il tema solleva conviene esaminare
separatamente i due profili.
Lo strumento processuale predisposto per la quaestio facti è la consulenza
tecnica, ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche
(art. 220 c.p.p.).
Le tecniche, le arti, le scienze non si risolvono in regole socialmente ed ufficialmente riconosciute, come quelle giuridiche che proprio per questo rientrano nel sapere del giudice (jura novit curia) e nella funzione dello jus dicere che esclusivamente gli appartiene.
Esse invece costituiscono gli strumenti di conoscenza utilizzati in occasione
e per i fini dell’agire dell’uomo, che non possono non essere sottoposti al
contraddittorio per la loro valorizzazione nel processo. A tale principio giuridico corrisponde sul piano empirico il principio di falsificazione secondo
cui un’ipotesi (o una teoria) ha carattere genuinamente scientifico solo quando è suscettibile di essere smentita dai fatti dell’esperienza. (Popper 1934)
Il divieto per il giudice di far uso della sua scienza privata, salvo che a fondamento della decisione siano poste le nozioni di fatto che rientrano nella
comune esperienza (art. 115 c.p.c.) non è dunque soltanto l’espressione dei
principi del giusto processo. La legge vieta il cumulo della funzione di teste
e di giudicante, che non consentirebbe al magistrato di esercitare sulle proprie conoscenze non giuridiche - e dunque private - quel controllo che costituisce un momento essenziale della sua funzione (Pugliatti 1990), e nello
stesso tempo impedisce che le ipotesi scientifiche formulate dal giudice siano
convalidate impropriamente dalla giurisdizione la cui autorità non è fondata
sulla scienza ma sul contratto sociale.
Dunque l’utilizzazione dei saperi extra giuridici non comporta solo la necessità di una professionalità specializzata dei soggetti del processo, ma investe
il ruolo svolto da ciascuno in funzione del rispetto del principio del contraddittorio e della posizione di terzietà ed imparzialità del giudice.
Per queste ragioni l’impiego dei componenti privati minorili in attività istruttoria civile (consentita da circolari del C.S.M.) che consente l’utilizzazione
delle loro competenze professionali extra giuridiche per acquisire valutazioni tecniche in occasione dell’audizione del minore o dei suoi parenti - le c.d.
consulenze domestiche - da sottoporre al collegio per la decisione, appare
inconciliabile con i principi del giusto processo.
219
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Quando l’utilizzazione dei saperi extra giuridici riguarda anche il contenuto
del provvedimento, come avviene per il giudice minorile che è tenuto nelle
sue decisioni a considerare l’interesse del bambino in modo preminente (art.
3 co. 1 Conv. N Y ), emerge anche l’altro profilo della questione.
Se la tutela giurisdizionale dei diritti relazionali della personalità del bambino - e di quello del genitore - si svolge sotto l’egida del principio di legalità,
la considerazione preminente dell’interesse del minore evidentemente riguarda il suo benessere.
Tuttavia, come si è visto, la Convenzione di N Y non confonde le decisioni
dei tribunali con quelle assistenziali, legislative ed amministrative. È la stessa Convenzione che anzi richiama negli artt. 9 co. 1 e 2 e 16 la funzione di
garanzia dal giudice nei confronti dei soggetti coinvolti dall’intervento di
protezione svolto dai servizi - innanzi tutto il bambino - per realizzare la protezione della legge contro interferenze arbitrarie o illegali nella vita privata
e familiare.
Perciò ciascuna decisione mantiene la propria natura anche se nel merito considera l’interesse superiore del fanciullo.
Certamente le distinzioni teoriche sono più facili di quelle pratiche ma, si sa,
la prudenza del giurista risiede anche nell’adeguatezza della decisione al
caso concreto.
La questione che qui si solleva riguarda invece il rischio che sia rivestito dell’autorità di giudicare chi ha nel proprio bagaglio professionale non solo ( e
non tanto) le conoscenze tecniche, ma soprattutto gli obbiettivi, le finalità i
metodi delle professioni di aiuto, e che questa investitura trovi la sua ragione non nella logica della giurisdizione ma nella protezione di determinate
categorie di soggetti. In questo modo la solidarietà, la cura verso i soggetti
deboli rischia di tramutarsi nella barbarie delle terapia coatta. Tradurre un
diritto in soggezione avvalendosi del richiamo all’interesse generale significherebbe in realtà modificare il modello stesso, trasformare i diritti umani nel
dovere di subire una normalizzazione, un’ingerenza autoritaria attivata nell’interesse di chi non ha richiesto alcun aiuto (Vincenzi Amato 1976).
La specializzazione del giudice minorile dunque non può contraddire il
modello del giudice garante, che realizza una funzione di salvaguardia dei
diritti fondamentali dei cittadini. In questo senso la terzietà non corrisponde
solo al modello di giurisdizione posto dall’art. 111 della Costituzione ma
anche alla tutela dei diritti della persona.
Sono queste le ragioni per le quali la composizione dell’organo giudiziario
minorile si pone in termini diversi da quelli sperimentati dal 1934 fino ad
oggi, laddove la funzione preminente del tribunale minorile - nella circolarità delle sue competenze - si risolve nel controllo sia delle condotte dei minorenni che dell’esercizio della potestà da parte dei genitori, e nella tutela pubblicistica del fanciullo parzialmente o totalmente privo di protezione.
Proprio la discrezionalità di questa funzione - così “speciale” per un organo
giurisdizionale - aveva richiesto la presenza nel collegio del tribunale per i
minorenni di benemeriti dell’assistenza sociale scelti tra i cultori di biologia,
psichiatria, antropologia criminale pedagogia e psichiatria, e cioè di persone dotate dell’esperienza e delle conoscenze necessarie per le decisioni di
protezione e trattamento di competenza del tribunale.
220
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Oggi invece il riconoscimento dei diritti del bambino e la loro giustiziabilità
consente d’inquadrare in una luce nuova, - quella dei diritti umani - il diritto
di famiglia, la cui collocazione risulta dislocata rispetto alla deriva pubblicistica sviluppatasi nel secolo scorso.
I diritti relazionali della personalità non richiedono solo una tutela in forma
specifica gestita dal servizio sociale nell’ambito del regime giuridico delle
responsabilità degli adulti stabilito dal giudice.
La giurisprudenza e la dottrina, elaborando il tema del danno alla persona,
hanno riconosciuto accanto al danno biologico (che attiene ad ogni menomazione dell’integrità psico fisica in sé considerata), ed a quello morale ( che
concerne la sfera interiore di chi è rimasto vittima di un reato), il danno esistenziale quale lesione dei diritti fondamentali della persona cagionata da un
atto ingiusto e perciò risarcibile anche nelle sue conseguenze non reddituali
(Cass. 7. 6. 2000 n. 7713).
Anche il legislatore sta formulando disposizioni che valorizzano specificamente questa nuova dimensione del danno alla persona. Secondo l’art. 2
(modifiche al codice civile) della già ricordata proposta di legge presentata
alla Camera il 30. 5. 2001 in tema di separazione dei coniugi e di affido condiviso dei figli (C. 66), se le violazioni degli obblighi connessi al regime di
affido costituiscono una grave lesione del diritto del minore, il giudice con lo
stesso provvedimento idoneo a prevenire e rimediare alle violazioni predette
condanna altresì il genitore a risarcire il minore del danno da questi subito a
seguito della lesione di tale diritto. Il danno è liquidato in via equitativa.
8. LA FORMAZIONE SPECIALIZZATA DEI SOGGETTI
PROCESSUALI
giudice della famiglia e della persona dunque deve essere capace di ricoIlitàlnoscere
i comportamenti che producono l’ingiusto sacrificio delle potenziapsicofisiche, delle attività realizzatrice della persona, oltre che, eventualmente, laddove essi abbiano avuto un rilievo penale, anche il turbamento
della sfera interiore della vittima, e di valutare le lesioni dei diritti fondamentali della persona. Le conoscenze tecniche e scientifiche possono così favorire l’elaborazione di una giurisprudenza più ricca sui diritti della persona per
la soluzione dei conflitti che spesso oggi sono affrontati soprattutto sotto il
profilo bioetico.
La specializzazione del magistrato in materia di diritto di famiglia e delle
persone dunque non riguarderà, come in passato, prevalentemente gli interventi assistenziali e di sostegno terapeutico. Questi infatti si svolgono di
regola nel rispetto del principio del consenso informato ad opera dei servizi
socio sanitari, cui sono attribuite anche rilevanti facoltà di iniziativa per la
prevenzione del disagio e la protezione dei soggetti deboli, tra i quali in
primo luogo quelli in età evolutiva.
Tuttavia, se al giudice compete la scelta di una misura trattamentale per finalità di controllo sociale, come quelle previste nei confronti di soggetti
devianti, ovvero di disegnare il regime giuridico delle responsabilità degli
adulti nei confronti di un minorenne per la tutela dei diritti della personalità
di quest’ultimo - e di vigilare sul rispetto della decisione adottata - è neces221
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
sario che egli abbia una conoscenza non approssimativa dei processi educativi, delle esigenze psicofisiche dei bambini e degli adolescenti per assicurare la compatibilità della decisione con l’interesse superiore del fanciullo.
Accanto a queste si impongono anche altre considerazioni.
Il nuovo modello processuale ha rafforzato il ruolo di tutti i soggetti che a
vario titolo agiscono nel processo compiendo in autonomia svariate scelte
nell’ambito delle facoltà e dei poteri loro attribuiti dalla legge.
Fino ad ieri la posizione del consulente era di ausiliare del giudice, e tale è
la definizione che si legge ancora nel titoletto del capo III del libro I del c.p.c.
rimasto immodificato dal 1940. Ma la nuova realtà è registrata dall’art. 228
c.p.p. che, a differenza della corrispondente disposizione del codice abrogato, affida al perito la conduzione delle operazioni peritali per rispondere ai
quesiti, e dunque fa su di lui ricadere la responsabilità della scelta di metodi
adeguati al contesto giudiziario, del rispetto delle regole processuali e deontologiche per una corretta interazione con tutti i protagonisti ed i ruoli presenti nel processo. È perciò auspicabile che l’esperto chiamato ad operare
nell’ambito giudiziario sia specializzato, e sia perciò tenuto a conoscere,
(come già avviene per i medici) le regole ed principi giuridici fondamentali
per adeguare il suo intervento alle finalità del processo.
A questa dovrà corrispondere la preparazione specialistica dei giuristi, magistrati ed avvocati, ciascuno nello svolgimento del proprio ruolo egualmente
interessato alla corretta formulazione dei quesiti, alla valutazione critica dei
metodi utilizzati dagli esperti e dei risultati conseguiti, per una decisione che
senza smarrire l’essenza delle giurisdizione dia il peso dovuto all’interesse
del bambino, se del caso desunto anche dalle opinioni informate da lui manifestate.
Accanto ai suddetti profili specifici, l’accresciuta influenza sulla giustizia dei
saperi extra giuridici e delle professioni corrispondenti si esercita anche
attraverso le attività svolte ai margini del processo, i cui risultati possono
influenzarne la definizione.
In materia di diritto di famiglia e delle persone, al di là degli interventi dei
servizi socio sanitari, crescerà il peso della mediazione familiare, la cui utilizzazione è auspicata dalla ricordata Convenzione di Strasburgo al fine di
prevenire e di risolvere i conflitti e di evitare procedimenti che coinvolgono
minori dinanzi un’autorità giudiziaria.
In conclusione l’interazione tra saperi e professioni diverse, l’utilizzazione
da parte del giudice di clausole generali che rimandano a nozioni e conoscenze extra giuridiche aumenta il rischio di confusioni e deformazioni dei caratteri del processo e delle funzioni della tutela giurisdizionale.
L’aumento della complessità richiede dunque che la formazione specializzata del giudice acquisti un respiro nuovo, che ne arricchisca la professionalità
a tutto campo per consentirgli di affrontare problemi che non possono più
essere risolti attraverso la collaborazione settoriale di esperti cooptati nel collegio. L’esigenza della specializzazione vale anche per le altre professioni
presenti nel processo con ruoli giudiziari o tecnici, ed è già riconosciuta in
alcune disposizioni legislative (artt. 5 e 15 D. Lgs. 272 del 1989), ed auspicata anche dalle associazioni professionali più lungimiranti.
La formazione specializzata, soprattutto se arricchita di momenti di confron222
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
to interdisciplinare, favorirà l’elaborazione di linee guida deontologiche
comuni a tutte le professioni, anche non legali, che s’incontrano sulla scena
processuale. (Calvi Gulotta 1999) I codici deontologici, concorrendo insieme
alle disposizioni di legge a definire i contenuti ed i confini dei ruoli svolti
assicureranno il cittadino dal rischio di ulteriori forme di vittimizzazione, di
malpractise processuale (De Cataldo Neuburger 1997).
9. BIBLIOGRAFIA
CALVI - GULOTTA, Il Codice deontologico dei magistrati, Giuffrè Milano,
1999.
CERETTI, Come pensa il tribunale per i minorenni. Una ricerca sul giudicato
penale a Milano dal 1934 al 1990, Franco Angeli, 1996.
CIVININI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile.
Le garanzie, in CIVININI - VERARDI, (a cura di), Il nuovo articolo 111
della Costituzione e il giusto processo civile, Angeli 2001, p. 271 ss.
DE CATALDO NEUBURGER, La responsabilità professionale dello psicologo,
in MESTITZ (a cura di), La tutela del minore tra norme psicologia ed etica,
Giuffrè 1997, p. 398 ss
DOGLIOTTI, I giudici della famiglia, in BESSONE (a cura di), L’attività del
giudice, Giappichelli 1997, p.121 ss.
DOSI, Giustizia e servizio sociale: l’esigenza di un nuovo paradigma, in
PINNA A. (a cura di), Minori Duemila - Luci ed ombre del sistema di
protezione, Quaderni Tutela Minori n. 8 / 2000, 112 ss.
FERRI, Progetto preliminare di codice penale italiano per i delitti. Relazione
del Presidente Enrico Ferri approvata dalla Commissione, Vallardi, 1921.
POPPER, La logica della scoperta scientifica, (1934) Einaudi 1970.
PROTO PISANI, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it.,
2000, V, 244.
PUGLIATTI, voce “Conoscenza”, in Enc. del dir., IX, Giuffrè 1990, p. 45 ss.
ROCCO, Relazione al Re del Ministro Guardasigilli, in Codice Penale e
Codice di Procedura Penale, relazioni, indici e disposizioni di attuazione e
ordinamento delle Corti d’Assise, Libreria dello Stato, Roma 1932 - X E.F.,
9 ss.
ROMEI PASETTI, La riforma del giudice unico nella circolare del C.S.M. sulle
tabelle degli uffici giudiziari, in Documenti Giustizia, 4 / 2000, p. 684 ss.
RORDORF, La professionalità dei magistrati: specializzazione ed
avvicendamento, in Foro it. 2000, V, p. 269 ss.
SERGIO, Trattamenti coatti per l’accertamento di abusi e maltrattamenti dei
bambini, in Questione Giustizia n° 5, 1999, 923 ss.
SERGIO, I diritti umani e la giustizia: i saperi extra giuridici nel processo, in
FORZA, MICHIELIN, SERGIO, (a cura di) Difendere, valutare e giudicare
il minore, Giuffrè 2001, p. 23 ss.
SERGIO, La giustizia minorile. Funzioni, competenze, struttura. Prospettive di
riforme. In Trattato di diritto di famiglia diretto da Paolo Zatti, Vol. VI a
cura di L. LENTI, Giuffrè 2002, p. 3 ss.
VINCENZI AMATO, Il 2° comma dell’art. 32, in BRANCA (a cura di)
Commentario della Costituzione, Zanichelli 1976, p. 175.
ZATTI, Rapporto educativo e potere d’intervento del giudice, in DE
CRISTOFARO - BELVEDERE (a cura di), Giuffrè 1980, p. 185 ss.
223
AIAF
SOMMARIO
Premessa
1. I risultati della ricerca
2. Il minore tra due famiglie
3. Due casi esemplificativi:
3.1 Dora (7 anni)
3.2 Pietro (8 anni)
4. Conclusioni
Bibliografia
QUADERNO NUMERO
2004/1
PREMESSA
D
al punto di vista psicologico l’affidamento pone al minore il
compito- così difficile da essere definito quasi “impossibile”
(Pagnoni, 1995)- di collocarsi in equilibrio tra due realtà da cui
riceve nello stesso momento, almeno in apparenza, una richiesta relazionale molto simile. Il minore è chiamato perciò a cercare una soluzione al conflitto di lealtà (Boszormenyi-Nagy, Spark, 1973; Karpel,
Strauss, 1983; Greco, Iafrate, 1993) originato dalla duplice richiesta
di appartenenza che gli proviene, a diverso titolo, da famiglia naturale e
famiglia affidataria (1). Queste riflessioni partono dunque dalla premessa
teorica che entrambi i poli familiari sono presenti nel mondo psicologico del
bambino e degli adulti.
Da parte del minore, la ricerca di questo difficile equilibrio o al contrario
l’invischiamento in una posizione di
stallo o ancora l’essere tenuto in scacco da un conflitto di lealtà che gli
appare irresolubile, sono dinamiche
complesse e quasi sempre implicite,
che difficilmente emergono nel registro manifesto della parola.
È quindi indispensabile per gli operatori individuare indicatori significativi
di tali processi.
Obiettivo del mio intervento è quello
di approfondire la posizione del minore rispetto all’affidamento familiare,
*
scegliendo quale punto di osservazione un indicatore specifico: la rappresentazione che minori, affidatari e
famiglie naturali hanno dei confini
familiari e delle loro reciproche posiDR.SSA
zioni relazionali. La rappresentazione di dove il minore si colloca o viene
ONDINA collocato permette di sondare a quale titolo costituiscano “famiglia” per il
GRECO bambino e per gli adulti coinvolti sia la famiglia affidataria sia la famiglia
naturale, in quanto la presenza simultanea di due riferimenti crea, come
PSICOLOGA, PSICOTERAPEUTA
CENTRO STUDI E RICERCHE abbiamo visto, sia per gli adulti che per il minore una situazione paradossale
che richiede di essere “compresa” ed elaborata (2).
SULLA FAMIGLIA,
UNIVERSITÀ CATTOLICA La ricerca qualitativa cui faccio riferimento ha coinvolto 27 nuclei affidatari
DI MILANO
(coppia di affidatari e minore in affido). In 10 casi è stato possibile intervistare, in sede separata, anche la famiglia naturale del minore.
Nella ricerca sono stati utilizzati due strumenti: una intervista semistrutturata sulla situazione dell’affido (3) condotta separatamente con la coppia di
L’AFFIDAMENTO FAMILIARE
SECONDO LA L.149/01.
ESSERE “GENITORI” ED
ESSERE “FIGLI”
NELL’AFFIDAMENTO
FAMILIARE
* Questa relazione, con il diverso titolo “Affido familiare: il minore tra due famiglie” è stata presentata
dall’Autrice al Convegno 1° Internazionale sull’Affido Familiare tenutosi a Palermo il 03 ottobre 2002 e
verrà pubblicata anche con gli atti di quel convegno.
224
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
affidatari e con il minore, e il test grafico-proiettivo
de “La doppia luna” (4) (Greco, 1999).
In 10 casi, gli stessi strumenti sono stati applicati, in
sede separata, alla famiglia naturale.
1. I RISULTATI DELLA RICERCA
Fig. 1
interessante osservare come si ponga
ÈLainnanzitutto
il minore in affido “tra” le due famiglie.
posizione del bambino in affido può variare dalle
soluzioni più integrative (vedi figure 1-2-3) dove si
evidenzia il tentativo del minore di trovare posto e al
legame con la famiglia naturale e a quello con la
famiglia affidataria; a quella invece dove il minore si
schiera a favore di una delle due famiglie (vedi figura 4); a quelle, infine, che denunciano una profonda
solitudine, legata all’impossibilità di rappresentarsi
qualsiasi appartenenza familiare (vedi figure 5-6).
È anche significativo osservare la variazione tra il
disegno che il minore ha prodotto individualmente e
quello che ha prodotto, pochi minuti dopo, congiuntamente agli affidatari. La presenza o l’assenza di
“distorsione” tra le due produzioni, unita alla rilevazione del clima emotivo-relazionale nell’incontro
congiunto, è un altro prezioso indicatore della capacità attuale di integrazione da parte del minore.
Fig. 2
Fig. 3
2. IL MINORE TRA DUE FAMIGLIE
n secondo luogo, è interessante sottolineare che c’è
Iintegrativa
una relazione tra la posizione integrativa o non
del minore e la reciproca posizione delle
due famiglie, affidataria e naturale, sempre vista
attraverso la lente della rappresentazione dei confini
familiari.
Prima di tutto, si osserva che la posizione delle due
famiglie è speculare. In alcuni casi la famiglia affidataria si mostra solidale con la famiglia naturale
segnandola spontaneamente nel disegno e parlandone
in termini realistici ma positivi. In questa situazione,
l’accettazione della famiglia naturale non sembra
avvenire in chiave idealizzata (perché ne vengono
evidenziate anche le carenze) ma riguarda il percorso
evolutivo anche parziale che i genitori naturali hanno
messo in atto. In questi casi, la famiglia naturale, specularmente, segna spontaneamente nel suo disegno la
famiglia affidataria e ne parla con stima e affetto.
In altri casi, invece, la famiglia affidataria si mostra
Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
225
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
chiaramente ostile alla famiglia naturale.
L’intervista è percorsa da espressioni svalutanti ed emarginanti nei confronti
dei genitori naturali del bambino in affido. Nel disegno, la famiglia naturale
non viene segnata spontaneamente dagli affidatari e, in alcuni casi, durante
l’esecuzione del disegno congiunto si cera un clima così saturo di negatività
e di ansia, che il ricercatore decide di non fare riferimento esplicito alla famiglia naturale del minore.
Specularmente, la famiglia naturale risponde in termini di diffidenza e di lontananza ostile, e a propria volta non segna spontaneamente la famiglia affidataria nel proprio disegno.
Si sono registrate anche situazioni intermedie, per esempio una in cui gli affidatari si pongono in modo ambivalente rispetto alla madre naturale - la
moglie con un atteggiamento più comprensivo e il marito con un atteggiamento decisamente ostile. La madre naturale, cogliendo però l’ambivalenza
degli affidatari, dichiara di sentirsi emarginata. Un’altra situazione intermedia riguarda una famiglia affidataria aperta alla famiglia naturale del bambino, a cui si oppone una madre naturale ancora abbastanza ostile.
È importante sottolineare a questo proposito che, essendo differenti le posizioni di potere, la chiave di volta del rapporto tra le due famiglie sembra in
mano agli affidatari. Il fattore cruciale per la relazione tra le due famiglie, ma
anche per il benessere del bambino (Greco, Iafrate, 2001), è che la famiglia
affidataria conservi un atteggiamento accogliente anche di fronte all’ostilità
iniziale della famiglia naturale. Infatti le situazioni in cui si rileva una buona
relazione tra famiglia affidataria e famiglia naturale costituiscono solitamente l’esito di un percorso, che da una fase di reciproca diffidenza ha portato ad
un atteggiamento collaborativo prima la famiglia affidataria, in un secondo
tempo anche la famiglia naturale.
Tornando al minore, si può concludere che il percorso che egli deve compiere alla ricerca di un equilibrio relazionale e delle proprie modalità di integrazione delle due realtà in cui si trova a vivere, risulta enormemente facilitato
se le due famiglie si pongono in un atteggiamento collaborativo e non competitivo (al di là della possibilità concreta di frequentazione).
L’ostilità e la competizione tra le due famiglie trasmettono infatti al minore
il segnale minaccioso che non è possibile integrare le due realtà relazionali,
troppo distanti e ostili tra loro.
3. DUE CASI ESEMPLIFICATIVI:
DORA (7 ANNI) E PIETRO (8 ANNI)
3.1 DORA
padre naturale di Dora (la madre naturale è in un ricovero per lungo
Idellaldegenti),
dopo un primo momento di disorientamento all’inizio dell’affido
figlia, si è sinceramente affezionato agli affidatari, al punto di sostenere “in un certo senso (la famiglia affidataria) è affidataria anche mia…(Dora)
ha due figure una mamma, tre figure grandi, una mamma e due papà”.
Dal canto loro, gli affidatari riconoscono che il padre naturale di Dora “è
molto intelligente,…molto bravo” e confessano di essersi affezionati “più al
226
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
padre che alla figlia, all’inizio”.
In questo clima, non ci stupiamo di vedere Dora disegnare (sia individualmente che nel disegno congiunto) se stessa dentro un’unica grande famiglia
che comprende famiglia naturale e famiglia affidataria.
3.2 PIETRO
a madre di Pietro, pur esprimendo riconoscenza per la famiglia affidataria
Ldistanza
(“ci stanno aiutando moltissimo, sia me che mio figlio”), tradisce una certa
dagli affidatari, che non vengono collocati spontaneamente nel disegno.
Dal canto suo, la famiglia affidataria esprime ambivalenza e volontà di
distanziamento nei confronti della madre naturale, che nel disegno non viene
collocata spontaneamente, ma indicata solo verbalmente su richiesta del
ricercatore.
“Si potrebbero mettere i genitori naturali, ma distanti” dice il padre affidatario senza segnarli. È come se per la madre naturale (unica presente di fatto)
ci fosse solo uno spazio nominale, ma non concreto nel mondo degli affidatari.
In questo quadro, Pietro si pone nella famiglia naturale senza segnare alcun
legame con gli affidatari. Quando il minore ripete lo stesso disegno di fronte
agli affidatari, il clima si fa così teso e ostile, che il ricercatore decide di
omettere la domanda relativa alla famiglia naturale, che gli affidatari non
hanno segnato.
4. CONCLUSIONI
a temporaneità del provvedimento di affidamento assimila il minore alla
Laffidataria.
figura di “ospite”, che ha origine e destinazione altra rispetto alla famiglia
Infatti, il minore in affido tende a sviluppare il nuovo legame con la famiglia
affidataria senza rinunciare al legame originario con la propria famiglia naturale.
La presenza di questo duplice legame e -quando il bambino si permette di far
crescere i nuovi rapporti- la percezione di una doppia appartenenza familiare, pongono inevitabilmente il minore in una “posizione di confine” rispetto
ad entrambi i poli familiari.
Infatti, per il legame che conserva con la propria famiglia naturale, il bambino in affido non può assumere una posizione troppo interna, al centro della
famiglia affidataria, perché il precedente legame lo “attrae” verso l’esterno.
Viceversa, la distanza nei fatti dalla famiglia naturale e il legame che via via
costituisce con gli affidatari fanno specularmente migrare il bambino “presso il confine” anche rispetto al proprio nucleo d’origine.
Sta all’impegno generativo di affidatari, genitori naturali e operatori impedire che la “posizione di confine” del bambino sia luogo di emigrazione e di
esilio, ma divenga invece “margine” (Cigoli, 1987) di nuove possibilità,
opportunità di servirsi di risorse “al di qua” e “al di là” del confine, godendo
di un rapporto solidale tra le famiglie e sperimentando nuove possibilità di
227
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
crescita.
Questo è possibile, da un lato, se i genitori naturali “lasciano andare” il figlio
verso i nuovi rapporti, accettandone la nuova esperienza relazionale, senza
imporgli una logica aut-aut che lo farebbe soffrire acutamente e gli renderebbe difficile se non addirittura impossibile godere del nuovo spazio di relazione; dall’altro, se gli affidatari accettano di vivere una delle valenze genitoriali -quelle dell’accudimento fisico ed affettivo- senza pretendere di avocare a
sé anche la dimensione di appartenenza storico-simbolica, che per il minore
rimane legata alla propria famiglia d’origine come, ovviamente, la dimensione di appartenenza biologica. Durante l’affidamento, infatti, è come se le
diverse funzioni genitoriali, solitamente intrecciate e svolte sinergicamente
dagli stessi soggetti, si disgregassero e fossero saturate da differenti figure
genitoriali.
L’operazione può avere esito positivo solo se queste diverse figure si vivono
come complementari, senza pretendere di essere o di diventare figure esclusive o sostitutive.
L’atteggiamento, se non solidaristico, almeno non ostile nei confronti dei
genitori naturali è importante non tanto e non solo per salvare le loro figure
agli occhi dei ragazzi, ma soprattutto perché consente ad essi l’accesso alla
propria stirpe. Rispettare la famiglia d’origine significa aiutare i ragazzi a
mantenere l’accesso alla storia delle generazioni passate, comprendendone le
difficoltà, ma lasciandosi un margine per scoprirne anche qualche risorsa, al
di là della difficile situazione attuale, riuscendo così a salvare simbolicamente il proprio patrimonio genealogico.
L’affido, quando è un’avventura positiva, rivitalizza, come lo stesso termine
suggerisce, la fiducia nel minore e nella sua famiglia d’origine. La fiducia di
base (Erikson, 1963) è la risorsa fondamentale che permette di attraversare le
situazioni difficili e le contingenze avverse, rimanendo in attesa di un futuro
più positivo (Winnicott, 1971; Boszormenyi Nagy e Spark, 1973;
Boszormenyi Nagy e Krasner, 1986).
Tale fiducia si nutre però anche della possibilità di rintracciare del positivo
nel proprio passato familiare, lungo la storia delle generazioni. Far parte di
una storia che ha del buono può aiutare anche i figli in affido a superare il
problema di avere nel presente una situazione familiare precaria o inadeguata.
NOTE
1
2
3
228
Sono frequenti situazioni ancora più complesse: è il caso di un figlio di
genitori separati che va in affidamento presso terzi. In queste circostanze,
l’equilibrio va trovato dal minore entro un sistema che comprende almeno
tre realtà familiari, per non allargare lo sguardo alla famiglia estesa che a
volte si schiera a favore, a volte contro uno o entrambi i genitori del
bambino.
Tale ricerca qualitativa appartiene al complesso disegno di ricerca
pubblicato nel volume O. Greco, R. Iafrate (2001)
I temi toccati nell’intervista sia con il bambino che con gli affidatari sono le
condizioni dell’affido (inizio, durata, progetto, visite dei genitori naturali),
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
4
la percezione del benessere attuale e, per i genitori affidatari, la
rappresentazione della famiglia naturale e del suo legame con il minore in
affido. Specularmente, per la famiglia naturale i temi affrontati sono la
rappresentazione dell’affido, la percezione del benessere del bambino e il
suo rapporto con gli affidatari.
“La doppia luna” è uno strumento grafico-proiettivo utile nei casi in cui una
persona ha legami di appartenenza contemporaneamente con due o più
contesti familiari. La situazione di doppia o plurima appartenenza familiare
è, come si è visto, clinicamente rilevante perché è potenzialmente
all’origine di un “conflitto di lealtà”. Lo strumento si basa sull’ipotesi che
entrambi i poli di appartenenza (nel caso dell’affido la famiglia naturale e
la famiglia affidataria) siano presenti nel campo psicologico del minore e
degli adulti coinvolti con lui. Il test propone un campo rettangolare
circondato da uno spazio esterno. Il rettangolo rappresenta il “mondo”
psicologico e si chiede al soggetto di segnare mediante un simbolo, dove
ritiene opportuno, se stesso e le persone significative. In un secondo
momento si chiede al soggetto di disegnare un cerchio intorno alle persone
che secondo lui fanno parte della stessa famiglia, utilizzando uno o più
cerchi, quanti ne servono. In questo modo si chiede alle persone di
esplicitare nel disegno la propria rappresentazione dei “confini familiari”.
Successivamente, nel caso non venga segnato uno dei due poli di
appartenenza, viene chiesto dove esso potrebbe trovare posto, ed infine, si
chiede se nello spazio del desiderio (la bacchetta magica) si vorrebbe
modificare il disegno e in che senso (O. Greco, 1999).
BIBLIOGRAFIA
BOSZORMENY-NAGY I., SPARK G. (1973), Invisible loyalties, Harper and
Row, New York, tr it.(1988), Lealtà invisibili, Astrolabio, Roma.
BOSZORMENY-NAGY I., KRASNER B.R. (1986), Between give and take. A
clinical guide to contextual therapy, Brunner, New York.
CIGOLI V. (1987), Fame di famiglia. L’affido tra sollecitudine e bisogno,
Relazione tenuta alla giornata di studi “Bambini a rischio, reti familiari e
organizzazione dei servizi”, pro-manoscripto.
ERIKSON E. (1963), Childhood and society, Norton & Co. Inc., New York.
GRECO O., IAFRATE R. (1993), Tra i meandri dell’affido, Vita e Pensiero,
Milano.
GRECO O. (1999), La doppia luna. Test dei confini e delle appartenenze
familiari, Studi Interdisciplinari sulla Famiglia, Vita e Pensiero, vol. 11.
GRECO O., IAFRATE R. (2001), Figli al confine, Franco Angeli, Milano.
KARPEL M., STRAUSS E. (1983), Family evaluation, Allyn and Bacon, Boston.
PAGNONI A. (1995), La famiglia senza memoria, in Saviane Kaneklin L.,
Adozione e affido a confronto: una lettura clinica, Franco Angeli, Milano.
WINNICOTT D.W (1971), Gioco e realtà, Tr it., Armando, Roma (1977).
229
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
I
l mio intervento è suddiviso in due blocchi, dopo la solita consueta premessa che fa parte della tradizione: un primo blocco che riguarda gli
aspetti sostanziali della legge 149 ed un secondo blocco invece più sugli
aspetti processuali.
Prima di tutto però una sottolineatura: io stamattina parlerò male di
Garibaldi, in altre parole criticherò questa legge 149, che è stata invece presentata come un dato positivo, come un successo, come un’altra delle tante
nostre magnifiche leggi che poi, molto spesso, rimangono inattuate, e quindi
non sono affatto magnifiche perché la capacità di una legge si misura anche,
se non soprattutto, dalla sua possibilità di essere realmente applicata.
Perché desidero parlare male di Garibaldi? Perché questa legge 149, che ha
malamente sconvolto un sistema che poteva per certi aspetti essere criticabile e magari bisognoso di miglioramenti (ma organici e non così raffazzonati), è una legge che è nata da un compromesso politico, dopo una gestazione molto lunga che, addirittura, per
certi aspetti lasciava prevedere un
insabbiamento.
Sapete tutti che nella precedente legislatura erano stati presentati molti progetti di legge dalle varie forze politiche che miravano a modificare la vecchia legge 184 del 1983.
Perché questo bisogno di modifica?
Per un fatto molto semplice: il costume era andato modificandosi, i modelli familiari si erano evoluti, o comunque modificati, e la disciplina normativa del 1983 non era più vissuta e sentita come del tutto attuale alla fine
*
degli anni ‘90.
La materia del diritto di famiglia soffre di questa caratteristica: a volte
anticipa il costume, a volte invece ne è
anticipata.
Ha anticipato chiaramente il costume la vecchia legge sull’adozione speciale
del 1967. Altre leggi, invece, sono state poi anticipate dal costume, come
sicuramente è avvenuto ad un certo punto per la legge n.184 del 1983 che non
rispondeva più a certe forme.
A quali in particolare? I mutamenti dei modelli familiari e la famiglia unipersonale, la famiglia cioè del genitore singolo con il figlio.
La legge del 1983 non contemplava questo, anzi era tutta costruita sulla famiglia bigenitoriale, sulla famiglia con la coppia dei genitori e prevedeva l’adozione nei soli limiti della famiglia coniugale poichè questa era ed è ancora in
base alla Costituzione la famiglia coniugale.
In regime ormai di diffusa famiglia di fatto, di famiglia ricostituita, di famiglia unipersonale sono emerse queste istanze per modificare la legge 184 del
1983.
L’ADOZIONE SECONDO
LA L. 149/01.
ASPETTI SOSTANZIALI E
PROCEDURALI CON
PARTICOLARE RIFERIMENTO
ALLE NOVITÀ INTRODOTTE
DALLA RIFORMA
DOTT.
LUIGI
FADIGA
PRESIDENTE DELLA
SEZIONE FAMIGLIA DELLA
CORTE D’APPELLO DI ROMA
* Correzione redazionale
230
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Un altro filone in base al quale si spingeva per la modifica era quello dell’età. Modifiche di carattere sociale, modifiche di carattere economico-culturale avevano fatto sì che la nascita del primo figlio si spostasse in avanti, di
conseguenza il desiderio di adottare ugualmente si verifica più avanti ed ecco
allora una forte spinta per fare innalzare la differenza di età tra gli adottanti
e l’adottando per rendere possibile l’adozione anche a quelle fasce di aspiranti genitori adottivi che non rientravano nel limite dei quaranta anni di differenza.
Su queste due spinte molte delle forze politiche, sia della maggioranza che
dell’opposizione di allora, avevano presentato e preparato dei progetti di
legge che non andavano avanti.
Ad un certo punto ci fu un’unificazione di questi progetti, relatore Callegaro,
che si impegnò profondamente nel portare avanti il testo unificato, cercando
di raggiungere una modifica della 184 su questi punti fondamentali, dell’età
e del matrimonio.
Il progetto di legge unificato vivacchiava. C’erano moltissimi emendamenti,
alcune centinaia,
tanto che sembrava destinato ad essere insabbiato e a morire ma una forte
accelerazione in prossimità delle elezioni politiche determinò ad un certo
punto, in maniera quasi improvvisa, l’approvazione del testo che abbiamo
attualmente.
La scansione delle date di approvazione, promulgazione, pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale è abbastanza interessante: il 1° marzo finalmente la legge
viene approvata, solamente il 28 marzo verrà firmata dal Capo dello Stato, il
26 aprile comparirà sulla Gazzetta Ufficiale.
Un tempo quindi di quasi due mesi tra l’approvazione del Parlamento e la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, che è un lasso di tempo che costituisce in un certo senso una novità ed anche un indice di quello che stava accadendo nel frattempo.
Che cosa stava accadendo infatti? Ci si era accorti che alcune di quelle modifiche - in particolare quella relativa all’obbligo dell’assistenza legale dei
genitori e del minore sia nelle procedure di adottabilità fin dall’inizio, sia
nelle procedure di limitazione e di decadenza dalla potestà - avrebbero comportato un onere di spesa assolutamente imprevisto, ed assolutamente difficile da giustificare, tanto che la legge sarebbe stata priva di copertura di spesa.
Ed allora si è assistito ad un fenomeno stranissimo: che la legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 26 aprile portando il numero 149 del
2001. Nella stessa Gazzetta Ufficiale viene pubblicato anche un decreto
legge, che porta il numero 150, e quindi immediatamente successivo, con il
quale viene sospesa l’entrata in vigore di un intero blocco di disposizioni,
quelle di carattere processuale, e la legge quindi “nasce” su quell’aspetto
solamente in parte.
La ragione l’ho appena detta: si riteneva che mancasse la copertura finanziaria per sostenere l’onere di spesa.
Ma perché la legge viene approvata, perché si sblocca quella situazione di
stallo che per diverso tempo aveva fatto sì che il progetto unificato del relatore Callegaro non andasse avanti?
Come ho accennato all’inizio, si sblocca per un compromesso politico, rea231
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
lizzato nell’imminenza delle elezioni politiche del 2001. Quale compromesso? Coloro che osteggiavano il progetto Callegaro e la sua entrata in vigore in particolare le associazioni dei genitori adottivi che ritenevano assolutamente sbagliato togliere il limite di età o comunque allargarlo così tanto riescono ad ottenere che nel progetto di legge venga inserita una parte relativa all’affidamento familiare, una parte quindi con connotazioni fortemente
preventive, con connotazioni di sostegno alla famiglia di origine, con previsione di momenti di formazione del personale e così via, con una coloritura
più ampia del momento puramente giuridico e che prevede interventi di
carattere sociale, di aiuto alle famiglie, considerati, giustamente, importanti
e positivi.
D’altra parte, l’altro filone - quello che riteneva positivo allargare tutto l’aspetto della politica adozionale per realizzare adozioni più semplici - trova
conveniente accettare questa introduzione dell’aspetto sociale della nuova
legge e di conseguenza si sblocca il problema politico e la legge viene approvata. Questi tre filoni che fondamentalmente la legge individua - quello
garantista, teso a limitare il potere del giudice minorile ed a rendere più
garantito il processo, quello di carattere liberista, teso a rendere le adozioni
più facilmente accessibili, e quello di carattere sociale - vengono attaccati
insieme, legati là dove non coincidevano bene, e da ciò viene fuori questa
legge contenente tre filoni distinti, non amalgamati tra loro e talvolta addirittura in contrasto.
Perché in contrasto? È evidente! Se si vogliono fare adozioni più semplici,
diciamo la verità adozioni più numerose, adozioni più facili, occorre che ci
siano molti bambini adottabili e molti bambini adottabili ci sono se non si
fanno politiche di prevenzione dell’abbandono, se non si introducono rigide
norme processuali.
La contraddizione è evidente ma non era una contraddizione ignorata dal
legislatore perché alla domanda sottostante: “Ma allora dove li andate a prendere questi bambini?” la risposta, sia pur inconfessata, era: “Li andiamo a
prendere nei paesi poveri che tanto là ce ne sono tanti e nessuno protesta”.
Così l’adozione internazionale va su, l’adozione nazionale è destinata a
restringersi sempre di più e - questa è la mia modestissima opinione - questa
è la prospettiva nella quale ci troviamo attualmente.
L’adozione nazionale sarà sempre minore. L’adozione internazionale sarà
sempre più larga. L’adozione nazionale sarà sempre più garantita e garantista. L’adozione internazionale sarà sempre più facilitata e, diciamo pure, fatta
senza troppo andare per il sottile sui principi che tuttavia sono legge, quale
quello sulla sussidiarietà introdotto dalla Convenzione dell’Aja che è legge
anche per l’Italia. Questo è il quadro in sostanza in cui ci troviamo ad operare. È un quadro dove gli equilibri della vecchia legge del 1983, buoni o cattivi che fossero, belli o brutti che apparissero, sono stati decisivamente sconvolti e adesso la situazione non è più quella organica che è stata a partire
dagli anni 1967 in avanti.
Perché cito il ‘67? Perché fu proprio la cd. legge dal Canton che innovò radicalmente nella politica legislativa dell’adozione in Italia e quella impostazione ha tenuto dal 1967 fino al 2001 quando la 149 l’ha completamente terremotata.
232
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Detto questo vediamo un po’ più da vicino i principali cambiamenti, con la
premessa che considero conosciuta la legge 184 del 1983 e che mi concentro
di più sulle modifiche che la 149 ha portato a quella.
Quali sono i principali cambiamenti visiti più da vicino?
Intanto accantonerei il filone di prevenzione ed il filone con connotazioni
socio-assistenziali perché è un filone che riguarda più un aspetto meta-giuridico e stamani concentrerei invece l’attenzione sugli altri due filoni: quelle
delle adozioni più semplici e quello delle adozioni più garantite.
Per quanto riguarda gli aspetti sostanziali ci sono tre grosse innovazioni che
vanno sottolineate: una relativa alla famiglia coniugale ed alla famiglia di
fatto, una relativa all’età, una relativa al diritto di accesso. Vorrei esaminare
partitamente queste tre innovazioni, cercando poi alla fine di riassumerne le
linee portanti.
Vediamo anzitutto la questione del matrimonio.
Nel 1967 la vecchia legge sull’adozione speciale prevedeva che potessero
chiedere di adottare solamente coniugi uniti in matrimonio da almeno cinque
anni. Era una legge ottimista perché anticipava al quinto anno la famosa crisi
del settimo anno, tuttavia richiedeva un periodo abbastanza consistente. Il
legislatore del 1983 ha considerato questo periodo troppo lungo ed ha ridotto la durata del matrimonio necessaria per poter adottare a tre anni.
Naturalmente questa durata si calcolava dal giorno del matrimonio. Un matrimonio che doveva essere stato celebrato almeno tre anni prima dalla data
della domanda di adozione, secondo alcuni, o comunque dalla data di affidamento pre-adottivo, secondo altri.
La 149 cerca di aprire un po’ alla famiglia di fatto. In che modo? Recependo
un’indicazione già venuta dalla Corte Costituzionale, alla quale più volte era
stato sottoposto il quesito della costituzionalità o meno della non valenza di
periodi di convivenza pre-matrimoniale, ossia recependo questo aspetto per
cui non sono più tre anni dalla data del matrimonio ma sono tre anni che possono comprendere anche un periodo anteriore al matrimonio. Così stabilisce
il nuovo testo dell’articolo 6 il quale testualmente afferma: “(1)L’adozione è
consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non
deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto. (4)Il requisito della stabilità del rapporto di cui
al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di
tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la
stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto”.
Questo quarto comma del nuovo testo dell’articolo 6 ha prodotto polemiche
piuttosto vivaci perché si è detto che in sostanza il requisito del matrimonio
veniva a cadere. In realtà non è vero.
Il discorso di fondo è quello che sono idonei a diventare genitori adottivi
coloro che hanno già sperimentato e dato prova di una stabilità di vita di coppia. Questa stabilità di vita di coppia può essere desunta non solo matematicamente ed aritmeticamente dai tre anni dalla data del matrimonio ma anche
da un periodo precedente a condizione che sia stata una convivenza stabile e
continuativa. L’inciso “per un periodo di tre anni” che si trova nel comma
233
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
quarto non deve essere riferito alla convivenza anteriore ma al computo globale che vede la somma del periodo di convivenza e del periodo di matrimonio. In altre parole un anno di convivenza più due anni di matrimonio, o un
anno e mezzo più un anno e mezzo, o come preferite voi, ma in sostanza questo è quello che ha voluto dire il legislatore, né poteva dire di più.
Quando deve essere maturato questo requisito?
Voi sapete che molte coppie, pur di accelerare i tempi, presentano domanda
prima ancora di essere in possesso di tutti i requisiti, certamente quello della
durata del matrimonio. Teoricamente potrebbe anche verificarsi il caso di una
coppia che presenta domanda prima ancora di avere maturato l’età utile ma è
un esempio di scuola, che non vale la pena assolutamente di essere preso in
esame.
Le prassi dei tribunali possono variare ma, comunque sia. debbono rispettare
la norma di legge e credo che si possa sostenere che il requisito dei tre anni
di stabile vita di coppia sia indispensabile quanto meno al momento in cui si
verifica l’affidamento del minore, affidamento non soltanto pre-adottivo ma
anche affidamento a rischio giuridico.
Certamente è da escludere che possa essere disposto un affidamento preadottivo alla coppia che non ha ancora i tre anni di stabile convivenza ma
ritengo che sia fondata anche la tesi secondo la quale non può essere disposto un affidamento a rischio giuridico, quindi un affidamento non pre adottivo ma in vista di affidamento pre-adottivo, alla coppia che non ha il requisito.
Perché questo? Perché si tratta di un requisito stabilito nell’interesse del
minore che ha diritto di trovarsi in una situazione familiare ormai stabilizzata e questo diritto c’è ab origine e non soltanto nella fase finale della procedura di adozione.
Quindi: no alla coppia che non ha ancora i tre anni e chiede l’affidamento
pre-adottivo, no anche all’affidamento a rischio giuridico.
Direi che l’accettazione della domanda prima del compimento dei tre anni, la
domanda di adozione in generale, è una questione che può essere risolta a
seconda delle varie prassi, perché se si sottolinea l’aspetto di dichiarazione
di disponibilità della domanda, non è una cosa molto fuori dalla logica dire
“intanto potete presentarla e intanto avviamo la procedura”. C’è anche da
dire però che questo rischierebbe di intasare il lavoro dei tribunali con situazioni che non hanno titolo in quel momento per cui personalmente ritengo più
corretto dire che se non c’è il requisito dei tre anni non si può nemmeno presentare la domanda.
Sarebbe, infatti, una domanda a futura memoria che metterebbe in moto un
meccanismo fra l’altro costoso per la comunità, ed anche oneroso per il sistema giudiziario ed il sistema dei servizi, e quindi mi pare che sia corretto dire
“fintanto che non c’è quel requisito la domanda non può essere nemmeno
presentata”. Questo per quanto riguarda il requisito del matrimonio.
C’è da dire che il discorso dell’adozione da parte del singolo ne esce sconfitto nel senso che la 149 non ha ritenuto di poter allargare fino a quel punto le
maglie. Ne esce sconfitto ma entra però dalla finestra attraverso la 476 del
‘98 e cioè la legge che ratifica la Convenzione dell’Aja e che modifica la 184
nella parte relativa all’adozione internazionale.
234
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Infatti, se noi prendiamo un comma di un articolo di quella legge, e precisamente il comma 4 dell’articolo 36 (è la numerazione attuale della 184 modificata), leggiamo questo: “L’adozione pronunciata dalla competente autorità
di un Paese straniero ad istanza di cittadini italiani” (notate non di coniugi)
“che dimostrino al momento della pronuncia di avere soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni,
viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia con provvedimento del tribunale
per i minorenni, purché conforme ai principi della Convenzione”.
Ora la Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale lascia liberi gli
Stati di scegliere tra l’adozione da parte della coppia coniugale e quella da
parte del singolo. I principi della Convenzione dell’Aja non comprendono tra
loro l’obbligo della famiglia coniugale e quindi, se sono rispettati gli altri
principi della Convenzione dell’Aia (il principio della sussidiarietà, il principio della libertà del consenso all’adozione quando il consenso è richiesto e
così via), quell’adozione, pronunciata dal giudice straniero anche nei confronti della persona singola, è riconosciuta ad ogni effetto in Italia. Ecco allora che per quella via è possibile al giorno d’oggi in Italia un’adozione legittimante da parte del singolo alle condizioni, o comunque soltanto nei casi di
cui all’articolo 36 comma quarto.
Ricordo quali sono questi casi: l’aver soggiornato continuativamente da
almeno due anni nel paese straniero. Perché questa eccezione?
È stata prevista una tale eccezione tenendo presenti due situazioni di fatto
importanti, quella del personale diplomatico e consolare e quella degli emigrati.
Nel primo caso può, infatti, facilmente verificarsi che, durante lunghi soggiorni all’estero, venga adottato un bambino secondo la legge del paese ospitante e una tale adozione, senza la previsione in esame, non verrebbe riconosciuta in Italia ed il genitore adottivo secondo la legge straniera non potrebbe portare in Italia suo figlio.
A seguito di una forte pressione del Ministero degli Affari Esteri, durante la
preparazione del progetto della 476, si introdusse dunque questa norma che
veniva peraltro incontro anche ai desideri di un’altra fascia di popolazione di
cittadini italiani, ben più numerosa del personale diplomatico e consolare, e
cioè la fascia degli emigrati.
È esperienza abbastanza comune di tutti gli operatori giuridici minorili la
domanda di “delibazione” o di riconoscimento dell’efficacia di un’adozione
straniera da parte di coppia italiana che da venti anni si trova in Brasile o in
Belgio ed in questi casi sarebbe stato molto, molto negativo dover respingere quella domanda come accadeva in passato.
Un caso abbastanza celebre in materia, lo dico perché è stato pubblicato
anche sui giornali, è stato quello di Isabella Rossellini, cittadina italiana da
molti anni abitante negli Stati Uniti d’America, che da persona sola aveva
adottato con la legge di non so quale stato degli Stati Uniti d’America un
ragazzino ed aveva presentato domanda al tribunale per i minorenni di Roma.
Quella domanda fu respinta a suo tempo dicendo che non era possibile ma
che, se fosse entrato in vigore il progetto di legge, sarebbe stata possibile in
base all’articolo 36.
Entrava in vigore la legge, infatti, quell’adozione è stata dichiarata efficace
235
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
in Italia come l’adozione legittimante. Questo per quanto riguarda il matrimonio e l’adozione da parte dei singoli.
Non ho detto però tutto sull’adozione da parte della famiglia di fatto. Si
preme molto su questo punto adesso a livello di mass media, di opinione pubblica, ma noi siamo vincolati anche, per esempio, dalla convenzione di
Strasburgo del 1967, la vecchia convenzione dell’adozione, la quale ci dice
che un’adozione da parte di due persone non può essere fatta se non quando
queste due persone sono coniugate. È una norma che non viene citata quando si invoca l’estensione dell’adozione alla famiglia di fatto, ma è una norma
che la impedirebbe ed allora o si denuncia quella convenzione, cosa sempre
possibile e lecita anche perché è una convenzione che ormai ha fatto il suo
tempo, è di trentacinque anni fa, oppure la si violerebbe.
Certamente nella situazione attuale italiana in cui la famiglia di fatto è famiglia di puro fatto personalmente ritengo che sarebbe pericoloso aprire anche
a quel caso. Il giorno in cui la famiglia italiana, di fatto, non fosse famiglia
di puro fatto ma di fatto-diritto (penso al Pacs francese, penso a certe forme
di registrazione della convenienza) allora sarebbe facilitato, a mio parere, dal
punto di vista giuridico l’allargamento anche a quei casi.
Direi che per quanto riguarda il requisito del matrimonio non vale più la pena
di soffermarcisi sopra.
Veniamo al requisito dell’età. In materia di età è successo il finimondo. Se ne
sono dette di tutti i colori, se ne sono fatte di cotte e di crude.
Perché questo? Perché accade molto spesso che certi rapporti interpersonali
tra l’aspirante genitore ed il bambino si creino al di fuori di situazioni giuridiche precostituite e questo non sempre per malafede, anche per situazioni di
vita, la vita di tutti i giorni, che presenta una quantità infinita di casi non sempre riconducibili allo schema giuridico. In questi casi nasce un legame affettivo tra un adulto, o fra una coppia di adulti, ed un bambino (e lasciamo perdere come nasce per un momento), si consolida, se ne chiede il riconoscimento giuridico, ma si va a sbattere contro il limite della differenza di età che la
legge del 1983, per un rigore probabilmente eccessivo, aveva ridotto a 40
anni dai 45 anni, forse più saggiamente previsti dalla legge del 1967.
Incidentalmente bisogna chiedersi perché lo aveva fatto? Sembra, dico sembra, perché non sono ben documentato al riguardo ma l’ho letto diverse volte
qua e là, sembra che i demografi avessero dimostrato che la possibilità statistica di rimanere orfani di un genitore aumentasse dopo il compimento dei
quaranta anni. In altre parole: chi aveva un papà o una mamma di 41 anni
aveva molte più probabilità di rimanere orfano di chi li aveva di 40. C’era
proprio il picco statistico che faceva così ed allora il Parlamento del 1983,
che aveva in materia di adozione un’idea abbastanza omogenea con quella
del ‘67, ridusse la differenza.
Che cosa è successo nel frattempo? L’età in cui si diventa genitori è stata portata avanti. La condizione della donna si è modificata notevolmente, la vita
media si è allungata, di qui questa forte pressione per alzare il limite di età.
La vicenda giudiziaria, giurisprudenziale ve la risparmio. È stata lunga ed
alterna, ha avuto una forte spinta, secondo me, dall’adozione internazionale.
Perché, che cosa accadeva? Accadeva che la coppia italiana andava all’estero con il vecchio sistema del patentino della dichiarazione di idoneità ma
236
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
senza l’obbligo di passare attraverso enti autorizzati, andava all’estero e
riusciva ad ottenere un bambino più conforme alle sue speranze di averlo più
piccolo possibile e poi si vedrà.
Venivano in Italia, stavano zitti per qualche tempo (non c’era l’obbligo di
informare subito il tribunale) dopodiché venivano allo scoperto chiedendo la
delibazione della sentenza straniera. Il tribunale rispondeva “non lo possiamo fare perché voi non avete quaranta anni di differenza ma ne avete quarantatre, per esempio, o quarantuno” e quindi respingevano la domanda. Nei casi
più duri (si sono verificati) addirittura allontanava il bambino.
Potete immaginare il contenzioso che ne è nato e potete immaginare anche e spero che possiate immaginarlo perché è una situazione in cui si trova il
giudice, non l’avvocato - l’estrema difficoltà in cui si trova un giudice quando una situazione umana è consolidata contro la norma giuridica.
È una bruttissima situazione perché il giudice è portato, come suo dovere, ad
applicare la norma ma in quelle situazioni la norma può essere veramente una
gravissima ingiustizia per il bambino.
Ed allora, che cosa è successo? É successo che hanno cominciato, prima le
Corti d’Appello poi la Cassazione, poi anche la Corte Costituzionale, a mollare un punto, due punti, tre punti ed alla fine hanno detto “beh, insomma,
quello che importa è che ci sia una differenza che in qualche modo riproduca la differenza fra genitori e figli”.
Speravano di essersi così messi al sicuro ma al giorno d’oggi qual è la differenza che di solito intercorre tra genitori e figli? Non si sa, la riproduzione
assistita permette le madri-nonne; è uno schema che anche quello traballa.
Ripeto, il diritto di famiglia è sempre esposto a queste situazioni e a questi
rischi ed a queste contraddizioni. Ad ogni modo diciamo questo: una norma
che avesse disposto che il limite di età deve essere contenuto entro una data
certa (poniamo quarantacinque anni tornando alla disciplina della legge del
‘67) ma che nell’interesse superiore del minore, in certi casi, il giudice
potrebbe derogarvi sarebbe stata una norma saggia.
Ahimè questa saggezza non è stata ritenuta sufficiente dal legislatore il quale
nel nuovo testo dell’articolo 6, per quanto riguarda i requisiti dell’età, stabilisce al comma 3 quanto segue: “L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando”, e fin qui
potremmo anche essere d’accordo. Poi, al comma 5: “I limiti di cui al comma
3 possono essere derogati, qualora il tribunale accerti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore” ed anche
qui - sull’eccezione lasciata alla discrezionalità del giudice - potremmo essere pienamente d’accordo.
Ma, poi, ecco la confusione perché viene fuori un comma 6 che dice “non è
preclusa l’adozione quando il limite massimo di età degli adottanti sia superato da uno solo di essi in misura non superiore a dieci anni”. In altre parole,
chi sposa il coniuge molto anziano non deve essere danneggiato da questa
differenza di età, ovvero quando essi siano genitori di figli naturali o adottivi dei quali almeno uno sia di età minore “ovvero quando l’adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato”.
Sono tre ipotesi. Sembrano ipotesi un po’ distanti una dall’altra e lo sono, in
effetti, ma soprattutto sono ipotesi che alla fine concludono per scardinare
237
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
l’esistenza di qualunque limite di età.
Prendiamo la prima, la prima è quella che si basa su una sentenza della Corte
Costituzionale, la quale affermava che non è giusto che chi ha sposato un
uomo o una donna che non ha più l’età per adottare non debba adottare. Devo
dire che è una sentenza che non ho mai ben capito perché in definitiva quando si sono sposati dovevano conoscere l’età che avevano.
In realtà il discorso è un altro, non è solo questo. Sullo sfondo abbiamo, infatti, il fenomeno delle famiglie ricostituite, che è un fenomeno sociologico
molto interessante ed in crescita e che in altri paesi è addirittura, se non la
norma, l’ipotesi molto, molto frequente.
Famiglia ricostituita che consegue alla possibilità di divorziare e quindi di
risposarsi ed a mano, a mano che questo succede aumenta il numero delle
famiglie ricostituite ma in queste famiglie normalmente uno dei due coniugi
è più anziano dell’altro. Ecco allora che si presenta questa esigenza di venire incontro a questi casi.
La legge stabilisce una tolleranza di dieci anni. Concede un bonus di dieci
anni al coniuge più anziano. Su questo c’è stato un problema di interpretazione giurisprudenziale in ordine a chi debba avere dieci anni di più del limite
ma tutto sommato la giurisprudenza sembra orientarsi nel modo più sensato.
In altre parole il neonato può essere adottato dalla coppia in cui uno dei due
ha 45 anni e l’altro ne ha 55, dopodiché su questo schema uno fa tutti i conteggi necessari. Questa è la prima ipotesi
L’altra ipotesi: non è preclusa l’adozione quando i coniugi siano genitori di
figli naturali o adottivi dei quali almeno uno sia in età minore. Notate qui non
si parla di limiti di età né massimi, né (e questo è il bello) minimi per cui in
ipotesi il sedicenne potrebbe adottare.
È chiaramente un’ipotesi di scuola ma la evidenzio per dimostrare come questo testo di legge sia stato elaborato tecnicamente in modo veramente infelice.
Perché possono adottare quando sono già genitori di figli naturali o adottivi
dei quali almeno uno sia in età minore? Io francamente non riesco a trovare
una spiegazione se non quella dell’ennesima sanatoria a situazioni che si
sono costruite all’estero, prendendo un bambino che non aveva assolutamente possibilità di entrare in quella famiglia. Non è infrequente il caso che la
seconda adozione venga fatta cercando un bambino di età più gradita e quindi questa può essere la via.
Infine, l’altra ipotesi, anch’essa del tutto svincolata da limiti di età, è quella
di adozione relativa ad un fratello o sorella del minore già dagli stessi adottato.
Queste sono ipotesi che potevano benissimo trovare soluzione attraverso l’articolo 44 lettera c, attualmente lettera d, cioè situazioni in cui non era possibile l’affidamento pre-adottivo.
Questa è la situazione che noi ci troviamo di fronte per quanto riguarda l’età,
situazione quindi al giorno di oggi estremamente confusa, incerta, che non
può che provocare ulteriore incertezza quando si pensi che questa norma
deve essere poi maneggiata non soltanto da operatori giuridici ma anche da
operatori sociali e non soltanto da cittadini italiani ma anche da stranieri
(penso all’adozione internazionale) e quindi figuratevi che cosa può accade238
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
re in questo modo.
Passiamo all’altro punto di modifiche sostanziali che mi sembra meritevole
di attenzione, ossia quello relativo al diritto all’accesso, alla conoscenza
delle radici. Di questo tratta l’articolo 28 della legge 184, così come è stato
modificato dalla 149 (attuale numerazione art.24).
Sulla ricerca delle radici va detto qualche cosa di carattere più generale,
come nasce il problema.
Il problema nasce poco dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ‘50, nei
Paesi Bassi, dove erano state fatte alcune adozioni di bambini, figli di madre
ebrea.
Lo stato di Israele desiderava conoscere la sorte di questi bambini perché voi
sapete che per Israele il figlio di madre ebrea è ebreo e di conseguenza aveva
posto la questione al governo olandese.
Non ha molta importanza sapere come andò a finire la questione, resta però
il fatto che si cominciò a porre il problema di ritrovare il bambino dichiarato adottabile ed adottato e si cominciò a porre il problema della ricerca delle
radici e questo problema fu percepito molto rapidamente nel mondo anglosassone.
Fin dagli anni ‘70 la legge sulle adozioni del Regno Unito prevede il diritto
dell’adottato al raggiungimento della maggiore età di avere copia dell’atto di
nascita originario.
C’è da dire di più: che la possibilità di non dichiarare le proprie generalità al
momento del parto non è una possibilità ammessa da tutti i paesi. Tale possibilità è ammessa in Italia ed anche in Francia, paese quest’ultimo dove il
bambino nato in tali circostanze si chiama il “bambino nato sotto X” (perché
la casella dove deve essere messo il nome della madre nel formulario dello
stato civile viene barrata con due diagonali, quindi la lettera X).
Bene, Francia ed Italia hanno questi due sistemi simili che servono per proteggere l’anonimato della madre che non vuole comparire. La Germania no,
la Svizzera nemmeno. Questi paesi hanno un sistema che si chiama, e questo
è un po’ buffo, il sistema romano perché nell’antica Roma “mater semper
certa est”, e di conseguenza la madre non può scegliere di rimanere anonima.
Naturalmente ci sono altri modi ed altre cautele per tutelare la privatezza ed
il riserbo, però non esiste il diritto di partorire in anonimato.
Ricordo poi che addirittura in Svizzera esiste la ricerca della paternità, e
credo anche in Germania, perché si ritiene che la nascita di un bambino sia
un onere per la collettività e questo onere deve essere affrontato in pari misura sia dalla donna che dall’uomo. Quindi in Germania c’è il cosiddetto
“Bezahlvater” cioè il papà che paga, che viene riconosciuto unicamente al
fine degli obblighi economici ma non anche al fine dell’acquisizione della
potestà genitoriale.
Detto questo il problema della ricerca delle radici si scontra contro il diritto
del genitore naturale o al segreto, come in Italia, o alla propria vita privata
nei casi in cui non c’è stato parto anonimo. Normalmente dopo una rinuncia
al figlio, o dopo una dichiarazione di adottabilità del figlio, le situazioni si
modificano con il passare del tempo. Ci sono delle nuove situazioni familiari e ci sono molti motivi per supporre che il genitore a cui è stato dichiarato
adottabile un figlio, o che ha scelto di abbandonarlo partorendolo in anoni239
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
mato, non voglia essere rintracciato anni dopo da quel nato che sconvolgerebbe i suoi equilibri familiari ricostituiti.
Quindi il problema è molto delicato: se da un lato c’è questo desiderio di
conoscere il passato, dall’altro c’è il desiderio di non avere più a che fare con
il passato tanto che si è parlato di un diritto all’oblio del genitore a cui il
figlio è stato tolto o che ha accettato che il figlio andasse in adozione.
Il problema è reso ancora più complesso da certe mode, da certe tendenze che
in questo momento sottolineano molto il diritto all’accesso ma che anni
addietro invece lo consideravano un problema irrilevante, insignificante.
Ricordo il pensiero di un insigne neuropsichiatra infantile francese, Michel
Soulé, che partecipò non pochi anni fa a convegni sul tema in Italia: egli era
fermamente convinto dell’assoluta irrilevanza del problema e raccontava
degli episodi di ragazzi che aveva avuto in terapia i quali, messi davanti alla
realtà del genitore originario, vedevano il loro problema di ricerca delle radici sgonfiarsi come un pallone bucato.
Ne raccontava casi e portava esempi proprio dell’enfatizzazione del problema e lo considerava un problema fasullo, creato sul nulla, dicendo che poi,
quando l’adottato si trovava davanti al genitore che desiderava tanto conoscere, in realtà rifiutava addirittura di continuare ad avere rapporti con lui.
Questo per dire che il problema è aggravato anche da certe tendenze e da
certe mode ed attualmente la moda è quella di dire “diritto all’accesso”.
Perché c’è questa tendenza, forse chiamarla moda è irriverente? Certamente
questa tendenza è aumentata da un fenomeno del tutto nuovo quale è quello
della riproduzione assistita, quale è quello della donazione di seme, tutti
fenomeni che sconvolgono i nostri parametri tradizionali, relativi alla filiazione e che fanno nascere questo che delle volte è un desiderio, delle volte
invece è un bisogno, anche scientifico, di conoscere l’ascendente.
Il problema delle radici era in Italia completamente rimosso perché si diceva
seguendo la scuola classica “il bambino adottato diventa figlio pieno, totale,
non solo dal punto di vista giuridico ma anche dal punto di vista affettivo e
sociale. La genitorialità sociale è identica, è assolutamente parificata alla
genitorialità biologica per cui non c’è problema di radici. Non devono essere conosciute le radici. Il taglio è netto.” Accade però accade che si pone il
problema della ratifica della convenzione dell’Aja. La convenzione dell’Aja
sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale a questo riguardo è molto chiara. Segue pari, pari la tradizione
anglosassone e stabilisce quello che adesso vorrei leggervi.
Stabilisce l’art.30 della convenzione dell’Aja del 1993 sull’adozione internazionale: “le autorità competenti di ciascun Stato contraente conservano con
cura le informazioni in loro possesso sulle origini del bambino, e particolarmente le informazioni concernenti l’identità dei suoi genitori, come i dati sui
precedenti sanitari del minore e della sua famiglia. Le medesime autorità
assicurano l’accesso del minore o del suo rappresentante a tali informazioni,
con l’assistenza appropriata, nella misura consentita dalla legge dello Stato.”
Quali informazioni? Anche quelle concernenti l’identità dei genitori. È chiaro che ratificare la convenzione, che non prevede la possibilità di apporre
riserve, significa introdurre nella nostra normativa questa legge, o comunque
obbligarci ad introdurre quelle modifiche che rispettano questa norma.
240
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Quando il Parlamento si trovò ad approvare nel 1998 (Legge 31.12.1998, n.
476) la ratifica della Convenzione dell’Aja andò a sbattere contro questo problema e che cosa fece? Scelse una soluzione piuttosto ipocrita perché disse
in sostanza: le questioni relative agli aspetti sanitari d’accordo, però per il
resto ci si regolerà come per l’adozione nazionale ma l’adozione nazionale
non permetteva affatto la ricerca delle radici, quindi era palesemente una violazione della Convenzione.
Una tale violazione fu presa sotto la spinta molto forte delle associazioni dei
genitori adottivi che organizzarono addirittura dei sit-in davanti alla Camera
mentre erano in discussione queste norme. L’Anfaa di Torino, alla quale devo
dire che sono legato da profonda stima e da collaborazione ormai trentennale, promosse un’iniziativa assai discutibile: andava in giro per le città d’Italia
con cinque o sei adottati ormai grandi che dicevano “a me non importa niente di sapere chi era mio nonno, mio padre”. A loro non importava niente, però
ad altri poteva importare quindi non era una cosa probante ed ad ogni modo
in questo clima fu approvata quella norma piuttosto ipocrita che diceva “si fa
come per gli italiani”.
In realtà la violazione era palese per cui, quando si parlò della 149, il problema dovette essere per forza preso in considerazione.
Come lo risolve la 149? Anzitutto fa una affermazione di principio che io
trovo importante, ed è questa “il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e nei termini che essi
ritengono più opportuni”.
Ora è chiaro che quando la legge usa l’indicativo dà un comando. Il minore
adottato è informato significa: il minore adottato deve essere informato, ha
diritto di essere informato di tale sua condizione. Lo dicevano sempre gli
operatori dell’adozione, da anni: non tenete segreto il fatto adottivo. Se lo
tenete segreto possono succedere delle tragedie quando il figlio dovesse
venirlo a sapere da altri però evidentemente era ancora necessaria ed utile
una prescrizione, una normativa in questo senso.
La legge l’ha introdotta, ha fatto bene ed ha lasciato anche saggiamente ai
genitori i tempi ed i modi per dare tale informazione che in realtà informazione non è ma è educazione. Non si tratta di dare una notizia. Si tratta di
educare ad un concetto molto importante: che figli non si nasce automaticamente figli ma si diventa attraverso l’affetto reciproco. Questa formulazione
del primo comma dell’articolo 28 legge 184, come riformata, mi sembra
buona, mi sembra condivisibile.
L’articolo 28 si preoccupa ovviamente anche della privacy e conferma le precedenti disposizioni, (comma 2) che vietano all’ufficiale di stato civile di
rilasciare dichiarazioni con indicazione della precedente paternità e maternità e di dare informazioni sulla sorte del bambino adottato, ma queste sono
norme che riguardano la privacy e la riservatezza, non riguardano il diritto
all’accesso né lo limitano.
Passiamo al comma 4 che è quello che introduce, anche nel nostro sistema, i
principi della Convenzione dell’Aja, anzi, non solo della Convenzione
dell’Aja (29 maggio 1993), andiamo più indietro, della Convenzione di New
York, che è stata all’origine di questo e che è anteriore di quattro anni rispetto alla Convenzione dell’Aja e che viene da più lontano. Si tratta del diritto
241
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
del minore di conoscere, nei limiti del possibile, le sue origini.
Recita il comma quarto dell’articolo 28 nuovo testo: “Le informazioni concernenti le identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori
adottivi quali esercenti la potestà dei genitori su autorizzazione del tribunale
per i minorenni solo se sussistono gravi e comprovati motivi.”
Rispetto al testo della convenzione dell’Aja il nostro legislatore la prende
larga e stabilisce questa possibilità, di ottenere informazioni sull’identità dei
genitori biologici per gravi e comprovati motivi non tanto per il minore direttamente, ma per i suoi genitori in quanto genitori ( “quali esercenti la potestà”).
La limitazione “gravi e comprovati motivi” mi sembra del tutto corretta perché la Convenzione dell’Aja lascia la possibilità alla legge nazionale di stabilire i limiti entro cui questo diritto all’accesso può essere esercitato, quindi la mera curiosità non è rilevante.
Un motivo che non fosse di mera curiosità, ma non fosse grave e comprovato, non potrebbe assicurare l’accesso.
In ogni caso è importante stabilire e sottolineare che questa richiesta dei
genitori adottivi è una richiesta che viene fatta in nome e per conto del minore (“quali esercenti la potestà”).
Questo non vuole dire soltanto che se i genitori sono stati dichiarati decaduti non la possono fare.
Vuol dire che quando la fanno, la fanno in quanto genitori e quindi in nome
e per conto del minore. Ed allora c’è già un primo vaglio: se il ragazzino
quindicenne in crisi adolescenziale vuole sapere l’identità dei suoi genitori e,
ad esempio, è in terapia ed il terapeuta ritiene che sia utile e opportuno metterlo di fronte alla realtà facendogli conoscere di più del suo passato i genitori possono presentare, in nome e per conto di quel minore, questa domanda
al tribunale per i minorenni, di cui vedremo poi la procedura.
Il comma quinto riguarda invece il maggiorenne ed è una norma interessante
perché è stata fatta con un incastro, c’è una zeppa dentro. Nella formulazione originaria la norma stabiliva così: “L’adottato, raggiunta l’età di 25 anni,
può accedere ad informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei
propri genitori biologici. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i
minorenni del luogo di residenza”, quindi non si prevedeva un diritto di
conoscere le proprie radici tra i 18 ed i 25, era una specie di tempo di latenza e si riteneva comunque necessaria una domanda al tribunale per i minorenni.
Un’altra formulazione parlava del 21esimo anno ma in ogni caso questa era
l’impostazione.
In questo testo è stata introdotta una zeppa che è il secondo periodo del
comma quinto che ho sott’occhio e dice così: “Può farlo (nrd l’adottato)
anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisca”. Ed allora, già a partire dal 18esimo anno,
in quanto maggiorenne, l’adottato può chiedere di conoscere l’identità dei
propri genitori naturali ma può farlo solo quando sussistano gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. Notate: per il minorenne non
si parla di salute psico-fisica anche se è sottintesa e se è il primo esempio che
viene in mente. Qui invece si esplicita tale condizione, probabilmente perché
242
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
l’autonomia completa, raggiunta con il 18esimo anno non più filtrata quindi
dalla legittimazione processuale dei genitori quali esercenti la potestà, come
accade per il minorenne, è stata ritenuta dal legislatore pericolosa, eccessiva
ed a mio parere giustamente.
Quindi abbiamo tre situazioni: l’adottato minorenne per il quale la domanda
può essere presentata dai suoi genitori in nome e per conto del minore per
gravi e comprovati motivi; l’adottato che ha da 18 a 25 anni che può presentare la domanda in quanto maggiorenne (e rispetto al quale non esiste un
diritto incondizionato a conoscere le radici ma solamente se sussistano gravi
e comprovati motivi attinenti la salute psico-fisica); l’adottato da 25 anni in
poi in riferimento al quale non esistono condizioni, anche la mera curiosità
può giustificare la proposizione della domanda.
Sulla domanda decide il tribunale per i minorenni (comma 6). Che cosa deve
fare? Procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto.
Assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di
valutare che l’accesso alle notizie non comporti grave turbamento all’equilibrio del richiedente e, definita l’istruttoria, autorizza con decreto l’accesso
alle notizie richieste.
Si pongono due questioni importanti, in primo luogo una questione di competenza.
La domanda al tribunale per i minorenni deve essere presentata anche dal
25enne (che ha diritto all’accesso anche per pura curiosità) dal momento che
non c’è un limite o una condizione da verificare?
Al proposito c’è incertezza nella giurisprudenza. Nel numero 1 di Famiglia e
Diritto del 2003 sono riportate tre interessanti decisioni del tribunale di
Sassari, due contrastanti tra loro: secondo un orientamento anche per l’ultra
venticinquenne l’accesso alle informazioni sarebbe subordinato alla preventiva autorizzazione del tribunale per i minorenni mentre per l’altro orientamento non sarebbe necessaria l’autorizzazione. Ovviamente trattandosi dello
stesso tribunale il collegio giudicante era diverso.
Come motiva la decisione che ritiene sussistente la competenza del tribunale
per i minorenni? Con il richiamo ai lavori parlamentari dai quali si deduce
che in origine non c’era una distinzione di fasce nella maggiore età.
In origine la domanda del maggiorenne doveva essere comunque presentata
al tribunale per i minorenni ed allora, si dice, questa diversa formulazione
che si legge adesso nel comma quinto (“l’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza”) non è legata alla fascia 18 e
25 ma copre tutta la maggiore età. L’istruttoria, infatti, deve essere svolta dal
tribunale per i minorenni anche per proteggere il riserbo, il diritto all’oblio
dei genitori naturali, per cui è comunque necessaria una valutazione da parte
del giudice.
Come motiva invece la decisione che ritiene non necessaria l’autorizzazione
del tribunale per i minorenni? In un modo che a me pare molto insoddisfacente. Dice: gli accertamenti che la legge richiede possono essere eseguiti
anche dall’ufficiale dello stato civile. A me pare un ragionamento molto
debole perché non vedo come l’ufficiale dello stato civile possa esercitare
questa attività, che in definitiva mi sembra attività tipica del giudice e non
della pubblica amministrazione.
243
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Detto questo, l’altra questione da valutare è se tra queste persone che debbono essere sentite debbono essere ricompresi i genitori naturali. A mio parere
assolutamente sì perché trovo gravemente lesivo del diritto all’oblio, del
diritto alla riservatezza del genitore naturale sentir suonare il campanello e
vedersi arrivare davanti un giovanotto con un bel papiro del tribunale per i
minorenni in una mano ed una copia integrale dell’atto di nascita nell’altra,
e va lì a dire “ciao mamma”.
Francamente non mi sembra un bel regalo che facciamo a questa persona la
quale venti, trenta anni dopo ha tutto il diritto di essersi rifatta una vita, tutto
il diritto di non vedersi comparire davanti il passato, con effetti anche distruttivi nella sua vita privata perché non è affatto detto che abbia raccontato al
nuovo marito o al nuovo compagno o ai nuovi figli quello che le era successo trenta anni prima, quindi a mio parere è necessario che il tribunale ricerchi queste persone, con le dovute cautele, le interpelli, con le dovute cautele,
per sapere se sono favorevoli o no.
Perché questo? Perché se non sono favorevoli il tribunale potrebbe ugualmente autorizzare a meno che non ci siano i casi di cui al comma 7 che vedremo tra un momento. Però potrebbe anche non autorizzare ritenendo che l’atteggiamento del genitore naturale comporti un grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente.
In sostanza c’è un margine per dire “tu vuoi conoscere i tuoi genitori, potresti anche farlo perché i motivi che ci dai sono seri e comprovati ma il temporale, la bufera che ne scoppierebbe, visto che atteggiamento hanno i tuoi vecchi genitori, i veri genitori nei tuoi confronti, è tale che ti sconvolgerebbe l’esistenza quindi per adesso ti diciamo no”. A mio parere questa è un’interpretazione abbastanza sensata. Non ho giurisprudenza da portarvi su questo
punto ma mi interesserebbe molto sapere come si svilupperà la giurisprudenza su questo stesso punto.
Comma 7: i casi di segreto. L’accesso alle informazioni non è consentito se
l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale, e questa è niente altro che la riproposizione del diritto di partorire nell’anonimato.
Non è consentito egualmente qualora anche uno solo dei genitori biologici
(notate qui la legge comincia a parlare di genitori biologici, è una novità però
è chiara) abbia dichiarato di non voler essere nominato, e qui è un po’ difficile immaginarsi dove e come possa aver dichiarato di non voler essere nominato, a meno di non supporre che proprio in quell’interpello che gli viene
rivolto dal giudice non emerga questa sua volontà ed allora si potrebbe dire
che il no del genitore biologico, anche immotivato, avrebbe il potere di bloccare l’autorizzazione alla conoscenza delle radici.
Ripeto, la norma consente questa interpretazione che per di più mi sembra
essere la sola che dà un senso a questa disposizione, altrimenti dove è che il
genitore biologico ha dichiarato di non voler essere nominato?
Il caso del non riconoscimento alla nascita è molto chiaro ma il caso del non
voler essere nominato suppone che ci sia una dichiarazione in tal senso da
qualche parte: dove, come, quando, chi ha raccolto questa dichiarazione?
L’unica spiegazione, l’unica interpretazione che mi sembra sensata, è di
immaginare che ci sia stato questo no detto al giudice quando il giudice gli
dice “guarda che quel ragazzino che venti anni fa hai messo al mondo ades244
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
so ti vorrebbe conoscere”.
Infine abbiamo l’altra ipotesi: l’accesso all’informazione non è consentito se
il genitore biologico abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione
di rimanere anonimo. E qui bisogna fare un salto sulla sedia perché di consenso all’adozione non ce n’è affatto bisogno, anzi, la nostra legge ne prescinde completamente. La nostra legge non è basata sull’adozione consensuale, nemmeno come consenso in bianco perché il consenso in bianco è conosciuto da diversi ordinamenti.
Che cos’è il consenso in bianco? Accetto che mio figlio sia adottato dalle persone che l’ente competente sceglierà nelle forme di legge e che io non conoscerò. Questo è il consenso il bianco. Qui si parla di un consenso all’adozione che nel nostro sistema non esiste. Possibili interpretazioni? Si potrebbe
pensare a casi di adozione internazionale che vengano da paesi dove è prevista un’adozione consensuale, e sono numerosi, tanto è vero che la
Convenzione dell’Aja lo ha ben presente e dice: “Quando l’adozione è consensuale, state bene attenti che il consenso sia libero, che non sia stato estorto, che non ci siano state pressioni di alcun genere, che il genitore che ha consentito fosse consapevole che dato quel consenso non si tornava più indietro”. Questa è una possibile spiegazione perché se dovessimo riferirci invece
all’adozione nazionale dovremmo solo pensare ad una svista del legislatore.
Infine l’ottavo comma: “Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti:
l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età, quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili”.
Strana norma questa, di origine non chiaramente comprensibile. Si ipotizza
un adottato 18enne, anche maggiore di età, che rimane orfano, oppure i cui
genitori, non si sa perché, siano divenuti irreperibili. È difficile immaginare
la ragione per cui ad un certo punto questi genitori spariscono dalla scena. Si
può immaginare, sia pure con uno sforzo di fantasia, l’ipotesi che entrambi
se ne vadano al Creatore ed a questo punto il nostro 18enne non ha bisogno
del permesso di nessuno, può sapere chi erano il suo papà e la sua mamma.
È molto strana la norma perché non tiene assolutamente conto che attraverso
l’adozione legittimante il bambino viene inserito in un contesto di famiglia
allargata. Non ci sono solo il papà e la mamma adottivi. Ci sono i nonni, ci
sono gli zii, c’è una rete parentale che anche se a certi fini non è completamente uguale alla rete parentale della famiglia del nato in costanza di matrimonio (penso ai collaterali e così via) rimane poi sempre il fatto che ai fini
affettivi è una rete esistente e rilevante. La legge non ne tiene alcun conto e
quindi così ha disposto.
Questa è la questione relativa alle radici. Vorrei fare una piccola annotazione
riprendendo un attimo il discorso dell’adozione internazionale e, quindi, vi
pregherei di guardare l’articolo 37 della legge n.184, il quale stabilisce: “(2)
Il tribunale per i minorenni che ha emesso i provvedimenti indicati dagli articoli 35 e 36 e la Commissione conservano le informazioni acquisite sull’origine del minore, sull’identità dei suoi genitori naturali e sull’anamnesi sanitaria del minore e della sua famiglia d’origine. (3) Per quanto concerne l’accesso alle altre informazioni valgono le disposizioni vigenti in tema di adozione di minori italiani”.
Quindi l’articolo 28 è utilizzabile pari, pari per le adozioni straniere.
245
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Naturalmente si dovrà tenere conto di quanto stabiliscono gli ordinamenti dei
paesi di origine perché è chiaro che altrimenti il discorso non potrà essere
portato fino alle conseguenze finali. Se l’ordinamento di origine prevede il
parto anonimo non c’è nulla da fare: come per il caso italiano i nomi dei genitori biologici non potranno essere comunicati. Questo grossomodo è il contenuto dell’articolo 28, il quale ripeto, ha dietro di sé un concetto un po’ nuovo
di adozione. Concetto di adozione aperta, cioè concetto di adozione che non
taglia necessariamente ogni legame, non giuridico ma personale, con la famiglia originaria ed è un concetto che venti anni fa, quando fu approvata la
legge del 1983, era fortemente osteggiato perché visto come un attacco alla
solidità del rapporto creatosi attraverso l’adozione legittimante.
Al giorno d’oggi una difesa così forte non è più ritenuta necessaria e si
potrebbe riflettere un po’ su questo mutamento, su questo mutato atteggiamento dell’opinione pubblica, perché probabilmente dipende dal fatto che
proprio la famiglia ricostituita ha posto davanti all’esigenza o consuetudine
di avere anche un rapporto con la famiglia precedente e quindi ha in certo
senso sdrammatizzato l’esistenza di incontri e relazioni con la famiglia precedente.
Tutti discorsi che sono meta-giuridici ovviamente, ma che sono discorsi utili
a capire meglio che cosa ci dice di nuovo questa legge, piaccia o non piaccia,
e quali sono i suoi aspetti che modificano nella sostanza la precedente disciplina. Questo è il discorso sugli aspetti sostanziali più caratteristici e su quelli io mi fermerei perché ci sono tante altre cose da dire. Se ci sono delle
domande su questi tre punti sviluppati fino ad ora direi che potrebbero essere proposti subito.
DIBATTITO
DOMANDA
Volevo sapere come si comporta il tribunale per i minorenni di Roma, e quindi cosa arriva poi alla Corte di Appello di Roma, sezioni minori, sui decreti
di idoneità dell’adozione internazionale. A Firenze il nostro tribunale pronuncia decreti con i cosiddetti paletti, quindi bambino zero/tre anni o a volte dà
delle indicazioni se maschio o femmina, ad esempio se la coppia ha perso un
bambino femmina durante la gravidanza dispone che debba essere un
maschio, ma soprattutto questo si verifica in relazione all’età.
Se anche il Tribunale per i Minorenni di Roma segue una prassi simile, come
si comporta la Corte di Appello di Roma, riforma o conferma?
RISPOSTA
La questione della idoneità mirata è una questione molto interessante.
Inizialmente addirittura le idoneità erano di una genericità totale, tanto è vero
che le Corti di merito e la Corte di Cassazione dicevano che non si poteva
neanche dire che un minore volesse dire uno solo. Era un articolo indeterminato e non un aggettivo numerale ed allora con un’autorizzazione ad adottare un minore se ne potevano portare dentro anche quattro.
246
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Non solo: siccome la legge non prevedeva fino alla 476 un limite di tempo
per l’efficacia dell’idoneità poteva essere utilizzata ancora ed allora diventava un permesso permanente di importazione di un numero illimitato di bambini. Di fronte a questa situazione i giudici di merito hanno ritenuto indispensabile correre ai ripari ed hanno cominciato ad introdurre dei limiti espliciti
nelle dichiarazioni di idoneità: non più di due, uno solo, quello che volete
voi, però si indicava il numero.
Altro problema, siccome i giudici stranieri non erano obbligati a conoscere la
nostra legge perché applicavano la loro, e siccome molte delle copie adottive che andavano all’estero da sole cercano poi il bambino di loro gusto, capitava la questione dei limiti di età non rispettati ed allora altra indicazione
specifica nel decreto di idoneità: un bambino nato non prima del ……
A poco a poco la Cassazione ha modificato il suo atteggiamento fino a dire
con grande soddisfazione di tutti i giudici di merito “sì il tribunale può introdurre dei limiti. Può specificare perché è vero che l’idoneità è rivolta “in
incertam personam et in incertum puerum”, però è anche vero che deve essere un’idoneità commisurata alle potenzialità degli idonei e di conseguenza,
può essere indicato nel provvedimento qual è questa potenzialità e fin dove
arriva.
A questo punto dell’evoluzione giurisprudenziale entra in vigore la ratifica
della Convenzione dell’Aja, per cui le adozioni internazionali libere non
sono più possibili. Devono tutte passare attraverso enti autorizzati. Questo
cosa significa? Che l’ente autorizzato sa benissimo quali sono i limiti di età,
sa benissimo quali sono i requisiti della legge italiana quindi non è ipotizzabile in teoria un errore dell’ente autorizzato, ed allora questa indicazione specifica dell’età, del colore della pelle e di tante altre cose non è più necessaria. È del tutto superflua, anzi, rischia di limitare quel margine di libertà di
azione indispensabile che l’ente autorizzato deve avere quando studia l’abbinamento della coppia con il bambino straniero. Lo studio dell’abbinamento
non si fa con il compasso e con il calcolatore. Si fa con una serie di nozioni
anche metagiuridiche che devono trovare miglior componimento: e dunque è
indispensabile avere una certa flessibilità, un certo margine.
In questa situazione in cui l’indicazione dei requisiti nel decreto di idoneità
era ormai superflua, il nostro legislatore ha ritenuto di recepire espressamente nell’art. 30 comma 2 della legge una norma della Convenzione dell’Aja,
l’art. 15, che fa obbligo all’autorità centrale del paese d’accoglienza di inviare a quella del paese d’origine una relazione completa e dettagliata sugli aspiranti genitori adottivi nonché “sulle caratteristiche del bambino di cui sarebbero adatti a prendersi cura.” Tutto questo non nel decreto del giudice, ma
nella relazione del servizio sociale. Lo scopo della norma è chiaro: fornire
all’organo tecnico del paese straniero tutte le indicazioni per uno studio ottimale del miglior abbinamento possibile, nell’interesse preminente del minore.
Tutto ciò ha determinato nei nostri tribunali per i minorenni un vero e proprio revival dei decreti di idoneità mirati, anche perché nel frattempo si era
posto qua e là il problema del bambino di colore rifiutato dall’ambiente
sociale del luogo di residenza dei genitori adottivi. Firenze ne ha una tragica
esperienza. Ed allora c’è stato chi ha cominciato a dire “in quel contesto non
247
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
è bene che vada il bimbo di colore perché, per esempio” - e questo mi sembra un esempio molto serio e molto probante - “i nonni che stanno nella villetta vicino non possono vedere i bambini di colore” ed allora c’è poco da
dire. Lì il bambino di colore non va messo, c’è poco da dire perché o vanno
via i nonni, però prima bisogna litigarci, oppure bisogna dire “no per adesso
noi il bambino di colore non possiamo prenderlo per il suo bene sennò i nonni
continuano a dire “guarda quel negretto”.
Allora che cosa è successo? Che con questa nuova norma sono state di nuovo
inserite nei decreti di idoneità le indicazioni e le prescrizioni. Molti tribunali infatti non si fidavano abbastanza degli enti autorizzati, nemmeno con l’istituzione dell’albo, e volevano limitare il loro ambito di discrezionalità tecnica.
Che cosa succede a Roma come indicazione specifica? Direi che il tribunale
per i minorenni di Roma ha compreso abbastanza in fretta l’inutilità di dare
indicazioni millimetriche.
Il discorso si deve spostare sulla preparazione e qualificazione degli enti
autorizzati, quindi è un discorso che passa attraverso la commissione adozioni internazionali, la quale deve evidentemente dare indicazioni agli enti autorizzati di non sbagliare mai sui requisiti e di tenere ben presenti anche le condizioni socio-ambientali in cui il minore sarà inserito, ma a questo punto il
giudice deve passare la mano in quella fase perché il meccanismo degli enti
autorizzati deve bastare. Certo bisogna che funzioni ma questo è un altro
discorso.
Ed allora io credo che le idoneità mirate, nonostante l’indicazione della
legge, siano al giorno d’oggi delle forme di provvedimento da prendere con
molta cautela e solamente nei casi in cui è veramente necessario oppure, se
proprio si deve fare, che ciò avvenga nello spirito della convenzione dell’Aja
la quale prevede sì che il paese di accoglienza indichi certi requisiti che deve
avere il bambino ma non per accontentare la coppia, bensì per accontentare
il bambino. Quindi il discorso è capovolto.
Se non ci sono altre domande su questi aspetti sostanziali passiamo all’altra
parte di questa chiacchierata che deve riguardare gli aspetti processuali.
Innanzitutto la distinzione tra sostanziale e processuale è stata introdotta dai
giuristi ma una tale distinzione non è sempre così chiara e ci sono aspetti un
po’ borderline, come dicono gli psichiatri, che si collocano sulla linea di confine, hanno sia del processuale che del sostanziale, per cui è un po’ difficile
stabilire a quale dei due mondi appartengano, oppure lo si stabilisce in relazione a quello che conviene dire, come a mio parere ha fatto il legislatore nei
decreti leggi che hanno prorogato l’entrata in vigore di certe norme.
I CAMBIAMENTI PROCESSUALI.
Intanto una premessa: come ho accennato all’inizio, un intero blocco di questa legge è stato messo nel congelatore. Nel freezer c’è tutto il capo secondo
del titolo secondo che comincia con l’articolo 8 “Della dichiarazione di adattabilità” e finisce con l’articolo 21, modificato cioè con l’articolo 18 della
149, che modifica l’articolo 21 della 184, che riguarda la cessazione dello
248
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
stato di adottabilità. Come legge in vigore la 149 riprende con il capo terzo,
“Dell’affidamento pre-adottivo”.
Quindi adesso io parlerò di una parte di legge che è nel freezer ma che inevitabilmente il primo di luglio prossimo venturo verrà tolta dal congelatore e
dovrà essere mangiata anche così “congelata” perché non ci sarà stato il
tempo prima di farla scongelare.
Mi spiego meglio: ho detto che è stata sospesa l’entrata in vigore di questa
parte di legge con un decreto legge entrato in vigore immediatamente, contestualmente alla pubblicazione della legge stessa sulla Gazzetta ufficiale. Il
decreto legge n. 150 del 24 aprile 2001 che diceva “per un anno fermiamo
tutto”.
Chissà che cosa doveva succedere in quell’anno. Non è successo niente.
Nessuno si è occupato di questa normativa minorile, tanto che è stato necessario reiterare quel decreto e difatti il primo luglio del 2002 sulla Gazzetta
Ufficiale è comparso il decreto legge n. 126 il quale dispone “1. In via transitoria, fino alla emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio
e sul patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti disciplinati dalla legge
4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, e comunque non oltre il
30 giugno 2003, ai predetti procedimenti e ai relativi giudizi di opposizione
continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti anteriormente
alla data di entrata in vigore del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2001, n. 240.”
2. In via transitoria e fino alla emanazione di nuove disposizioni che regolano i procedimenti di cui all’articolo 336 del codice civile, e comunque non
oltre il 30 giugno 2003, ai medesimi procedimenti continuano ad applicarsi
le disposizioni processuali vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto-legge 24 aprile 2001, n. 150, convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 giugno 2001, n. 240.”
Qui il legislatore si è un po’ vergognato di questo suo adempimento, ed ha
detto a se stesso “io so che provvederò prima del 30 giugno 2003. Ne sono
così convinto che dico che la sospensiva si applica fino al 30 giugno e
comunque non oltre”. Non pagherà questa cambiale. State pur sicuri, la cambiale andrà in protesto e noi ci troveremmo il primo di luglio a dover applicare una normativa che lo stesso legislatore considera inadeguata, insufficiente ed assolutamente incomprensibile. Vedremo che cosa si farà ma questa mi pare che sia la situazione.
Prima di affrontare questo nodo, quasi inestricabile due parole sul nuovo processo di adottabilità.
Il nuovo rito, anche qua, penso che anche voi parliate di nuovo rito nei tribunali e nelle corti. Allora nuovo rito, la novità più grossa: viene soppresso il
potere di iniziare d’ufficio il procedimento da parte del presidente del tribunale per i minorenni o del giudice delegato.
La grossa innovazione della legge del 1967 era stata proprio questa. Il presidente del tribunale per i minorenni o un giudice da lui delegato sulla notizia,
comunque giuntagli, di un minore in situazione di abbandono può aprire la
procedura e prendere certi provvedimenti temporanei e poi iniziare il procedimento e verificare se vi sia o meno abbandono. Qui si è detto “basta con
questo potere ufficioso e monocratico del presidente del tribunale per i mino249
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
renni o del giudice delegato.”
Tutto deve iniziare con un ricorso del pubblico ministero ed allora senza
ricorso del pubblico ministero non si aprono procedure di adottabilità. La
cosa però è un po’ strana perché si passa da un’eccessiva fiducia in un organo, in un’eccessiva fiducia nell’altro. E se il pubblico ministero non fa ricorso?
Qui grossomodo si costruisce qualche cosa di simile all’azione penale. Il
pubblico ministero, così come titolare dell’azione penale, sarebbe titolare di
questa azione sull’accertamento dell’abbandono. Ragiono un po’ a ruota libera ma mi pare che l’esempio possa essere portato avanti ancora un po’. Bene,
ma se il pubblico ministero non vuole iniziare l’azione penale sulla base di
una certa denuncia? Beh, questa sua scelta di rimanere fermo deve essere
verificata dal giudice. Il Pubblico Ministero ricevuta una denuncia di rapina
non è libero di metterla nel cassetto. Sarà il giudice che, su sua richiesta, dirà
“sì, si può archiviare”, altrimenti si va avanti.
E se di fronte al bambino nel cassonetto il pubblico ministero non fa niente,
che cosa succede? Grosso punto interrogativo.
Il legislatore non si è posto la domanda, tale era la sua sfiducia, permettetemi questo piccolo sfogo, tale era la sua sfiducia in quella brutta razza dei presidenti dei tribunali per i minorenni.
Insomma, non ci siamo. Andava male prima, non c’è dubbio, ma va male
anche adesso e va veramente male. Perché va veramente male? Perché, ed
anche questa è una verità amara ma è una verità, anche perché il 90%, vogliamo dire l’85, diciamo l’85% dei procuratori dei minorenni di civile non ne
masticano quasi niente. È una verità sacrosanta. È un dato di fatto: le procure per i minorenni sono intrise di cultura penalistica, il che non è mica un
reato per carità! È un dato di fatto ma chi è intriso di cultura penalistica e non
conosce l’aspetto civilistico o impara l’aspetto civilistico oppure rimarrà
sempre su quel piano un attore del tutto secondario e si limiterà a scrivere “il
PM visto N.O.”
La nuova procedura di adottabilità si apre solo con ricorso introdotto dal PM,
senza che ci sia nessun controllo del giudice sull’esercizio o meno di questo
ricorso. Bene, come fa il PM a sapere tutte queste belle cose?
Lo sa perché i famosi elenchi trimestrali non vanno più indirizzati al giudice
tutelare ma al pubblico ministero. In altre parole, la 149 sposta l’asse, sposta
il canale di comunicazione: dai servizi al giudice si passa all’altro, dai servizi al PM.
È un grosso mutamento di rotta perché in molti tribunali, in molte sedi giudiziarie minorili storicamente il rapporto si è costruito fra tribunale e servizi
locali e non tra pubblico ministero ed i servizi locali; certo sarebbe stato
meglio che fosse sorto anche tra PM e servizi per tantissime ragioni ma così
non è stato e la situazione attuale è di questo tipo.
Allora: o i PM recupereranno molto velocemente, se ne saranno capaci, là
dove ne saranno capaci su questo aspetto, oppure i servizi si troveranno in
grosse difficoltà, a meno che non abbiano una rapida ed ottima formazione ed
un’ottima guida come questo bellissimo libretto che ho visto con molto,
molto piacere.
Inizia il ricorso. L’altra novità è che una volta proposto il ricorso deve esse250
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
re emesso dal presidente del tribunale per i minorenni una specie di avviso di
procedimento, una specie di avviso di garanzia, come dice l’articolo 9. Il presidente del tribunale per i minorenni o un giudice da lui delegato, ricevuto il
ricorso del pubblico ministero, unico legittimato a proporglielo (non quindi i
servizi) procede all’immediata apertura di un procedimento. In realtà non
apre un bel niente, è la proposizione del ricorso che apre una procedura.
Questa è una norma processualistica che fa parte proprio delle basi della procedura civile. Comunque, ricevuto il ricorso, dispone accertamenti ecc. e
soprattutto avverte i genitori o i parenti ecc. dell’apertura del procedimento
stesso.
“Guardate che abbiamo iniziato un procedimento su ricorso del pubblico
ministero per accertare se il vostro bambino è abbandonato oppure no”, questa è la sostanza dell’avviso ed è sicuramente corretto. Non c’è alcun dubbio
perché è talmente forte la conseguenza possibile che mi pare doveroso, fin
dall’inizio, mettere in guardia i soggetti che da questa procedura possono
subire certe conseguenze. Con lo stesso atto, l’avviso di procedimento, il presidente del tribunale per i minorenni, invita i genitori a nominare un difensore e li informa della nomina di un difensore di ufficio per il caso che essi non
vi provvedano.
Questa è una novità molto forte perché all’inizio del procedimento di adottabilità con il vecchio regime, ancora oggi vigente, non c’è alcun dovere di
avviso immediato ai genitori e c’è il diritto, ma non è detto che venga esercitato, di nominare un difensore di fiducia. Non c’è comunque l’obbligo di
nominare un difensore d’ufficio.
Mi domando: questa è una norma processuale o sostanziale? Questo è un
grosso punto interrogativo. Il legislatore ci dice che è processuale perché proprio per questa ragione l’ha differita, ha voluto differirla perché altrimenti
non ci sarebbero stati i soldi ed allora accontentiamoci di quello che ha detto
il legislatore e consideriamo pure norma processuale una norma che riguarda
la difesa stessa del soggetto nel procedimento.
Bene, allora abbiamo il ricorso del PM, abbiamo la parte che viene avvertita
e che nomina un difensore di fiducia o alla quale viene nominato un difensore di ufficio (vedremo poi come, e quali problemi questo comporta), abbiamo
il riconoscimento del diritto della parte di partecipare, assistita dal difensore,
a tutti gli accertamenti disposti dal tribunale, a presentare istanze anche
istruttorie, a prendere visione ed estrarre copia degli atti contenuti nel fascicolo previa autorizzazione del giudice. Vediamo un po’ meglio questa norma
e più da vicino.
Non c’è dubbio che anche oggi, con il vecchio regime, le parti possono presentare istanze anche istruttorie, è certo però che non hanno il diritto di partecipare agli accertamenti disposti dal tribunale anche se, interpretando con
un minimo di buon senso la normativa di carattere generale ed applicando la
sentenza della Corte Costituzionale del 30 gennaio 2002, n.1, se il giudice
vuol disporre una CTU deve avvertire la parte e darle termine per nominare
dei consulenti tecnici di parte.
Su questo non c’è alcun dubbio in base ai principi generali e quindi fin qui
grosso modo non ci sono novità sostanziali. Ce n’è una importante: il diritto
di prendere visione ed estrarre copia degli atti, previa autorizzazione del giu251
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
dice.
Al giorno d’oggi ci si arrampica un po’ sugli specchi, in certi casi, per tenere riservate alcune notizie che, se conosciute dal genitore, potrebbero comportare un rischio grave per il bambino e così si è introdotta nella prassi di
alcuni tribunali quella bruttissima parola che non ha cittadinanza nel diritto
civile che è la “segretazione” e una tale prassi si è introdotta, a mio parere,
senza alcun fondamento giuridico.
La nuova legge, invece, prevede la necessità di un’autorizzazione del giudice, quindi non è più applicabile, come adesso è applicabile, la norma delle
disposizioni di attuazione del codice di procedura civile in base alla quale il
fascicolo è lì, la parte viene e se lo guarda tutto.
Occorre l’autorizzazione del giudice. È, direi, un’innovazione da un lato sensata, dall’altro utile.
Come prosegue il procedimento? Prosegue in base alle norme attualmente
vigenti che su questo punto non sono modificate: debbono essere sentiti i
genitori, debbono essere svolti gli accertamenti ed alla fine (ed ecco la novità), sentito il pubblico ministero, il tribunale decide in camera di consiglio
con sentenza ed il giudizio di opposizione viene abolito.
Contro la sentenza del tribunale che dichiara l’abbandono, o che dichiara il
non abbandono, è prevista la possibilità di interporre appello alle sezioni
della corte per i minorenni senza che ci sia la fase di opposizione. È una novità molto importante che è stata introdotta per cercare di accelerare i procedimenti di adottabilità e non c’è dubbio che ci sia bisogno di accelerarli perché
non c’è niente di peggio di una procedura che si trascina per anni e che con
l’opposizione viene ancora di più allungata.
Ci saranno però delle conseguenze. La prima: il collegio decidendo con sentenza in camera di consiglio non vedrà le parti. Non è previsto. Mentre il giudizio di opposizione è strutturato adesso come un contatto diretto tra i genitori, i supposti abbandonici, il curatore, il Pubblico Ministero davanti al
Collegio ed a mio parere i giudizi di opposizione sono una cosa seria, sono
una cosa importante, procedimenti dove il tribunale va al fondo della questione e può smentire quello che ha fatto il giudice delegato fino a quel punto
dicendo “no qui non c’è abbandono” oppure dicendo “sì c’è”, ecc.
In questo caso questo contatto fra il Collegio e la parte viene meno e viene
meno - secondo me questo non è un bene per i difensori - anche la possibilità di contatto diretto tra il difensore di qualunque delle parti in causa ed il
Collegio giudicante. È vero che la Camera di Consiglio non impedisce tutto
ciò, però è anche vero che nella prassi non è detto che questo avvenga.
È molto probabile che la decisione in Camera di Consiglio avvenga sulla base
di memorie scritte, di comparse conclusionali depositate ma senza questo
contatto diretto tra il Collegio, le parti e i loro difensori.
L’abolizione della fase di opposizione avrà un’altra conseguenza: quella di
aumentare di molto il numero degli appelli. É un fenomeno abbastanza noto
quello del genitore che fa opposizione e, vista respinta l’opposizione, non
propone appello per tante ragioni, alcune delle quali possono anche essere
ragioni di ripensamento sulla posizione, di avere chiarito che effettivamente
per quel bambino non c’è spazio nella sua vita ecc. In questo modo la Corte
di Appello sezione per i minorenni, che adesso su questi temi è un po’ nelle
252
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
retrovie e giudica dopo il filtro molto stretto dell’opposizione, si troverà una
massa di procedimenti ancora a livello molto caldo, ancora a livello molto
combattuto e sofferto.
Che cosa accadrà? A mio parere ci vorrà un po’ di tempo prima che le sezioni per i minorenni si abituino a vivere così in diretta la questione della decisione sull’abbandono. Ci vorrà un po’ di tempo e questo tempo sarà occupato prevedibilmente da una giurisprudenza abbastanza incerta ed avremo probabilmente un forte numero di decisioni che accoglieranno l’appello e di conseguenza ci sarà un forte calo delle dichiarazioni di adottabilità definitive.
Comunque questa è la situazione: il procedimento di adottabilità sicuramente sarà più veloce però, ripeto, rischierà di arrivare in Corte di Appello ancora acerbo perché è vero che deve essere svolto in fretta, è vero che non deve
avere tempi morti ma è un procedimento che deve poter avere i suoi tempi di
maturazione, un po’ come il procedimento fallimentare, per ripetere un esempio che mi veniva fatto da un vecchio collega, il Presidente Delfini.
Non è possibile dare ai genitori prescrizioni di tre mesi, per esempio. Le prescrizioni ai genitori devono avere un congruo termine e permettere ai servizi
un lavoro che può essere anche ben più lungo ed allora arrivando il contenzioso acerbo in Corte di Appello è molto probabile, ripeto, che si contragga
ancora di più il numero delle adottabilità, fermo restando il problema ovviamente perché chi penserà poi al bambino?
Veniamo all’ultimo nodo, il nodo più grosso: quello del patrocinio.
La legge stabilisce, l’obbligo di essere assistiti da un difensore. Assistiti, non
rappresentati, e quindi c’è già una differenza importante ed è il frutto di questa strana procedura che mutua un po’ dal penale e che vede - nell’animo del
legislatore - il genitore come un accusato che viene chiamato a discolparsi.
A noi dicevano che non è affatto un accusato, che non è chiamato a discolparsi, così ci insegnavano, ci dicevano che noi dobbiamo vedere la situazione del minore, e quindi essere molto neutri nella valutazione del genitore,
senza mai dare giudizi moralistici ma semplicemente prendendo atto di situazioni di fatto e di realtà che dovevano essere provate, questo è ovvio, ma
senza mai colpevolizzare il genitore. Così ci insegnavano una volta.
Evidentemente non tutti hanno capito questa lezione ed il procedimento di
adottabilità si è sviluppato come procedimento di accusa contro un soggetto
“colpevole” di aver abbandono il figlio, il che non è, ripeto, ma così è successo.
Tornando al difensore di ufficio vi faccio notare la confusione enorme che è
nata dal rinvio disposto dal decreto legge 126 del 2002 e dalla contemporanea, o quasi, entrata in vigore del testo unico 115/2002 sulle spese di giustizia, risalente al maggio dello stesso anno. Quindi noi abbiamo una successione di norme, tutte relative alla difesa, che vanno dal luglio del 2001 (primo
decreto di rinvio n 150) al luglio del 2002 (secondo decreto di rinvio n. 126)
con in mezzo il DPR 30 maggio 115 del 2002, entrato anch’esso in vigore il
1° di luglio.
Che cosa dicono queste disposizioni? Prendiamo intanto il decreto legge 126
il quale stabilisce, come ho già detto, che in via transitoria, e fino all’emanazione di una specifica disciplina sulla difesa di ufficio e sul patrocinio a spese
dello Stato (che sono due cose diverse è ovvio: difesa di ufficio non signifi253
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
ca patrocinio a spese dello Stato, può esserlo e può non esserlo) e comunque
non oltre il 30 giugno 2003 (ecco la data che il legislatore ha posto a se stesso e che temo non rispetterà) ai procedimenti disciplinati dalla legge 1983 n.
184 e modificazioni successive, continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti.
Dunque dobbiamo riferirci all’articolo 75 della legge 184 che così dispone:
“L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato comporta l’assistenza legale
alle procedure previste ai sensi della presente legge. La liquidazione delle
spese, delle competenze e degli onorari viene effettuata dal giudice con apposita ordinanza, a richiesta del difensore, allorché l’attività di assistenza di
quest’ultimo è da ritenersi cessata. Si applica la disposizione dell’articolo 14,
secondo comma della legge 11 agosto ‘73 n. 533”. Quest’ultima legge riguarda l’anticipazione da parte dello Stato nel processo del lavoro.
Come nasce questo articolo 75? Nasce da una lacuna della precedente legge
del 1967 sull’adozione speciale la quale non aveva previsto alcunchè per la
fase di opposizione.
Poiché, dopo una breve incertezza giurisprudenziale, si era giunti alla conclusione comune che la fase di opposizione fosse una fase contenziosa, per la
quale si dovesse applicare necessariamente l’articolo 82 del codice di procedura civile, si verificava il fatto che molti genitori non riuscivano a proporre
l’opposizione nel breve termine dei trenta giorni perché non avevano il
tempo di cercarsi un avvocato, di chiedere la nomina del difensore di ufficio
e così via ed allora si pose un problema, direi etico, sottostante: come mettere queste persone in grado di difendersi.
L’altra questione sottostante era quella della rappresentanza del minore.
Curatore speciale? siamo d’accordo ma chi lo rappresenta in giudizio il curatore speciale. Se è un operatore sociale, l’assistente sociale per esempio,
bisogna che venga rappresentato da un avvocato. E come si può retribuire
questo avvocato? L’articolo 75 ha cercato di risolvere questo problema anche
se piuttosto malamente, prendendo a prestito le disposizioni del processo del
lavoro, fermo restando che la competenza alla nomina del difensore d’ufficio
e del gratuito patrocinatore era una questione di competenza del presidente
del tribunale dei minorenni, in base alla vecchia norma, l’articolo 9 del
decreto del 1934 e anche di quello successivo istitutivo del tribunale per i
minorenni.
Questa vecchia disciplina teneva, più o meno, sia pure attraverso incertezze
e prassi locali che non avevano però grande eco nella giurisprudenza.
Non so come fosse la situazione a Firenze. Devo dire che le esperienze che
ho visto di persona in altre sedi e che ho anche vissuto di persona erano più
o meno di questo tipo. Per esempio, al tribunale per i minorenni di Roma
veniva nominato il curatore speciale nella persona di un avvocato il quale
chiedeva di essere autorizzato a stare in giudizio personalmente ed alla fine
gli venivano liquidati gli onorari in base all’articolo 75, quindi con pagamento diretto da parte dell’erario e senza ovviamente rivalse.
In questo quadro, nel contesto del quale il decreto legge del luglio 2002 ha
disposto questa proroga, era entrato in vigore nel frattempo l’articolo 143 del
DPR 30.05.02, n. 115 Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia il quale stabilisce, in un italiano estrema254
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
mente zoppicante, quanto segue:
“Processi previsti dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, come modificata dalla
legge 28 marzo 2001, n.149. 1. Sino a quando non è emanata una specifica
disciplina sulla difesa d’ufficio, nei processi previsti dalla legge 4 maggio
1983, n. 184, come modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, per effetto dell’ammissione al patrocinio, sono pagate dall’erario, se a carico della
parte ammessa, le seguenti spese:
a) gli onorari e le spese spettanti all’avvocato, al consulente tecnico di parte
e all’ausiliario del magistrato, e sono liquidati dal magistrato nella misura
e con le modalità rispettivamente previste dagli articoli 82 e 83 ed è
ammessa opposizione ai sensi dell’articolo 84;
b) le indennità e le spese di viaggio spettanti ai magistrati, ad appartenenti
agli uffici, agli ufficiali giudiziari per le trasferte relative al compimento
di atti del processo fuori dalla sede in cui si svolge;
c) le indennità e le spese di viaggio spettanti a testimoni e a notai;
d) i diritti e le indennità di trasferta degli ufficiali giudiziari per le notificazioni a richiesta dell’ufficio e per le notificazioni e gli atti di esecuzione a
richiesta di parte. 2. La disciplina prevista dalla presente parte del testo
unico si applica, inoltre, per i limiti di reddito, per la documentazione e
per ogni altra regola procedimentale relativa alla richiesta del beneficio.”
Allora, in base al testo unico 115, che cosa deve fare il genitore che si vedrà
notificato l’avviso di apertura del procedimento e l’invito a nominare un
difensore di fiducia? Può nominare un difensore di fiducia ma può chiedere
anche di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato. E come lo chiede?
Lo chiede in base all’art. 124 del T.U. n. 115: l’istanza è presentata dall’interessato o dal difensore al Consiglio dell’ordine degli avvocati. Non è più,
quindi, il presidente del tribunale per i minorenni che nomina il difensore
gratuito patrocinatore ma il consiglio dell’ordine forense.
Non solo: i limiti di reddito sono quelli previsti qua, e quindi euro 9.000,00
e non so quanto ecc. Ed ancora: ogni altra regola procedimentale relativa al
beneficio, e quindi la decisione sull’istanza di ammissione al patrocinio,
l’ammissione anticipata da parte del Consiglio dell’ordine e l’eventuale decisione del giudice solo se il Consiglio dell’ordine ritiene ingiustificata, inammissibile l’istanza. Tutto questo terremoto, fra l’altro deve tenere presente
anche altre conseguenze, che esistono gli articoli 119 e 120 del testo unico
115.
L’articolo 119 riguarda lo straniero e l’apolide: “Il trattamento previsto per il
cittadino italiano è assicurato altresì allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale”. Allora nell’ipotesi che il minore che si ritiene in
abbandono sia figlio di uno straniero irregolare, clandestino, pare che non sia
possibile assicurargli alcuna difesa e questa è una conseguenza molto grave
perché non è certamente un’ipotesi di fantasia quella di un minore in situazione di abbandono figlio di un clandestino. Si potrebbe, anzi, dire che è l’ipotesi dove è più importante una difesa tecnica per sottolineare come, proprio la condizione di clandestinità, abbia messo i genitori in situazione tale
da dover ricorrere, che so io, ad un affidamento di fatto mascherato ecc.
Quindi se c’è qualcuno che ha bisogno al giorno d’oggi di una difesa tecnica
efficace sono questi nuovi poveri che ormai sono una realtà molto, molto pre255
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
sente ma questi nuovi poveri invece sembravano esclusi da qualunque possibilità di difesa.
Un’altra conseguenza, se si applica il testo unico n. 115, mi sembra da tenere in considerazione: l’articolo 120, e ditemi voi se la mia osservazione è pertinente o meno: “La parte ammessa, rimasta soccombente, non può giovarsi
dell’ammissione per proporre opposizione”.
Cosa ne facciamo di questa norma? È scritto così ed allora, se l’impugnazione viene respinta, qui occorrerà una nuova procedura probabilmente, una
nuova richiesta. L’articolo 120 parla abbastanza chiaro: “La parte ammessa,
rimasta soccombente, non può giovarsi dell’ammissione per proporre impugnazione salvo che per l’azione di risarcimento del danno nel processo penale”. Insomma, il nodo è veramente grosso e non può essere sciolto in maniera soddisfacente da qualunque parte si provi a sciogliere, anche perché c’è
chi ritiene che l’articolo 143 sia stato implicitamente abrogato dal decreto
legge 1° luglio 2002 e dalla legge di conversione 2 agosto 2002.
Vi segnalo a questo proposito due articoli di Eugenio Sacchettini, che molti
di voi già conosceranno, comparsi su “Guida al diritto” . Uno è pubblicato a
pag. 150 del n. 7 del 2002 “Dossier n. 7” dedicato al testo unico delle spese
di giustizia con il titolo “Adozioni in attesa della disciplina paga l’erario”.
L’altro è pubblicato a pag. 38 nel n. 33 del 31 agosto 2002 con il titolo “Resta
ancora il problema del coordinamento con l’ultimo riordino delle spese di
giustizia”.
L’Autore segue la tesi che vi ho sottoposto e conclude in questo modo: “Ed
allora - un po’ obtorto collo, stante l’incertezza della situazione - non sembra
rimanere altra soluzione, se non altro praticabile, che considerare estraneo
alla previsione di cui al DL 126/2002 e relativa legge di conversione il patrocinio a spese dello Stato nelle adozioni, confermando cioè quanto si diceva
in dossier 7/2002 di <Guida al Diritto>, pag.150 circa l’applicabilità in via
transitoria, nonostante tutto, dell’articolo 143 del testo unico.” Quindi: istanza al Consiglio dell’ordine, nomina di un difensore da parte del Consiglio
dell’ordine, pagamento delle spese da parte dello Stato.
Notate l’art. 143 parla di pagamento delle spese mentre nelle altre ipotesi
parla di anticipazione delle spese, per quanto possa occorrere, e speriamo
bene perché una cosa è certa, che una nuova disciplina della difesa nei giudizi minorili chissà quando verrà.
Voi sapete che vi sono due progetti di legge attualmente all’esame del
Parlamento relativi alla giustizia minorile: i progetti di legge governativi presentati l’anno scorso che prevedono, da un lato, la soppressione delle competenze civili del tribunale per i minorenni, dall’altro l’attribuzione di queste
competenze, compresa l’adottabilità, a delle istituende sezioni specializzate
presso i tribunali ordinari.
È chiaro che in questa situazione, il Governo non ha alcun particolare interesse a disciplinare provvisoriamente una materia davanti ad un organo che
vuole spogliare di questa competenza, e di conseguenza è facilmente prevedibile che nell’attesa di questa palingenesi che sembrava imminente, ma che
poi si sono dimostrati incapaci di realizzare, anche la previsione del decreto
legge del termine del 30 giugno prossimo venturo, rimarrà inattuata dopodiché ci troveremo con l’articolo 143 e cercheremo di fare con quello.
256
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
Questo è quello che io sono riuscito ad immaginare, confessandovi che la mia
fantasia è del tutto insufficiente davanti ad un nodo come questo. A questo
punto penso che possiamo parlarne anche in base alle esperienze locali.
DIBATTITO
DOMANDA
Vorrei chiedere un chiarimento. Se questa strada che lei ha indicato sembra
percorribile per i genitori, che quindi dovrebbero fare ricorso al Consiglio
dell’ordine per la nomina del proprio avvocato, nel caso invece del minore
direi che siamo nell’ottica che è il Presidente del tribunale per i minorenni
che gli nominerà un avvocato. C’è anche chi dice addirittura che dovrebbero
provvedere alla nomina i genitori che ancora non sono stati dichiarati decaduti dalla potestà però mi chiedo se provvedono i genitori che senso ha che
il minore abbia il proprio avvocato: c’è sicuramente un conflitto di interessi.
RISPOSTA
Ho saltato un passaggio, me ne scuso. Grazie che me l’ha fatto venire in
mente.
Una delle conseguenze più nefaste del nuovo procedimento disegnato dalla
legge 149 è la scomparsa del curatore speciale, figura che era necessaria con
il precedente (ed ancora attuale) procedimento perché l’articolo 17 chiaramente dice che, quando è proposta opposizione, viene nominato un curatore
speciale che rappresenta il minore in giudizio.
Abolita la fase dell’opposizione il curatore speciale non sembrerebbe più
essere una figura necessaria, tanto è vero che l’articolo 15 nuovo testo della
legge 184, come riformato dalla legge 148, prevede che la sentenza di adottabilità sia notificata per esteso al pubblico ministero, ai genitori ed ai parenti, al tutore nonché al curatore speciale, ove esistano.
Quindi si ipotizza che venga dichiarato lo stato di abbandono senza che ci sia
né un tutore né un curatore speciale, quindi con i genitori pienamente nel
possesso della loro potestà genitoriale, ed è un’ipotesi stranissima perché non
si riesce a capire come un tribunale possa dire “questo bambino è abbandonato” senza che esista in quel momento ancora un tutore o un curatore speciale. Allora è evidente che il nodo si presenta là dove la legge non ipotizza
un conflitto di interessi enorme tra il genitore ed il bambino che si suppone
in abbandono.
L’idea che era nella testa del legislatore, o di chi ha scritto questa norma, era
che ci fosse, da una parte, il tribunale per i minorenni cattivo, dall’altra, il
papà, la mamma ed il bambino, tutti quanti buoni, che si devono difendere
dal tribunale per i minorenni.
Questo era lo scenario immaginato, del tutto privo di riscontro nella realtà,
da chi ha scritto questa norma perché se è vero, come è nei procedimenti di
adattabilità, che il bambino è vittima di un comportamento, sia pure incolpevole, dei genitori, o comunque che il bambino è in situazione di carenza dei
genitori, noi dobbiamo immaginare che tra il bambino ed i genitori non ci sia
257
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
questa sintonia di interesse e di posizione.
Il bambino, o chi per esso ovviamente, ha tutto il diritto di poter dire “il papà
e la mamma mi trascurarono” in un procedimento davanti al giudice, ed il
papà e la mamma hanno tutto il diritto di poter dire “non è vero, noi non lo
trascuriamo” oppure “lo abbiamo trascurato per causa di forza maggiore transitoria”. Però perché ci sia questa dialettica è indispensabile che anche il
bambino sia rappresentato e non può non essere se non tramite un curatore
speciale, di qui la necessità che mi sembra evidente che fin dall’inizio del
procedimento venga sempre nominato un curatore speciale al bambino, consentendolo la legge perché l’articolo 10 nuovo testo stabilisce che il tribunale può disporre in ogni momento e fino all’affidamento pre-adottivo ogni
opportuno provvedimento provvisorio, ivi compresa la sospensione dalla
potestà dei genitori sul minore, la sospensione dall’esercizio delle funzioni
del tutore e la nomina di un tutore provvisorio.
È vero che non si parla di curatore ma sono due figure non necessariamente
coincidenti e sono due figure non necessariamente alternative. Ben può esserci sia il tutore che il curatore speciale e comunque la nomina del curatore speciale può essere basata anche su principi di carattere generale senza bisogno
di fare ricorso a questo terzo comma dell’articolo 10.
C’è da augurarsi, quindi, che nella giurisprudenza dei giudici di merito a partire dal 1° luglio, non appena viene aperto un procedimento per la dichiarazione di adattabilità su ricorso del PM, ci si ponga il problema se sia opportuna o no la sospensione dalla potestà dei genitori con quello che segue.
Non solo: ci si domandi se è opportuna o no la nomina fin dall’inizio di un
curatore speciale del minore ed io credo che, se si comincia a parlare in termini di articolo 111 della Costituzione, se si comincia a parlare in termini di
parti contrapposte, probabilmente, fin dall’inizio sarà necessario nominare
un curatore speciale, cosa che adesso non è perché il curatore speciale si
nomina solamente quando e se c’è l’opposizione, ma con questo nuovo rito
viene reso inevitabile.
D’altra parte se c’è questa istruttoria, svolta con la partecipazione delle parti,
la nomina di un curatore speciale è ancora più necessaria perché non si vede
quale sia la parità tra i soggetti attori del processo, quando solamente i genitori, per esempio, partecipano agli accertamenti e non vi partecipa il difensore del minore, difensore che non può essere che nominato su richiesta del
curatore speciale. Mi sembra un meccanismo che funziona così.
DOMANDA
Vorrei tornare sul punto che mi sembra nevralgico ossia: se è il curatore speciale che chiede la nomina del difensore, come Lei ipotizza, il difensore finirebbe per rappresentare il curatore speciale che è cosa ben diversa dal rappresentare il bambino. Allora non avremmo più l’avvocato del minore ma
avremmo la figura già nota del difensore del curatore speciale nei casi in cui
il curatore speciale nominato non sia un avvocato ma, ad esempio, un’assistente sociale. Così interpretando la norma, però, mi pare che saremmo lontani dalla rappresentanza vera del minore mentre l’obiettivo della riforma
sembra essere quello di munire di un proprio difensore il minore, non il rappresentante curatore speciale del minore.
258
IL MINORE TRA PROTEZIONE E TUTELA
RISPOSTA
Me ne rendo perfettamente conto ma qui il problema diventa molto complesso perché certe scelte, per esempio quelle relative non soltanto all’ambito
processuale ma anche all’ambito sostanziale, vengono fatte dal difensore in
quanto tale, o vengono fatte dal difensore in quanto difensore del rappresentante legale del minore? oppure il fatto di cumulare in sé la qualifica di difensore e di curatore speciale può essere la via, quella che è stata seguita fino ad
ora nella prassi per i giudizi di opposizione, proprio per avere questa coincidenza di capacità di scelta di soluzioni personali e sostanziali e la capacità di
difesa tecnica di quella stessa scelta. Questo è il problema.
DOMANDA
Poi può sorgere un ulteriore problema, ossia che il curatore speciale del
minore legga la situazione in una certa maniera mentre il minore, magari
anche grandicello, si esprima in tutti altri termini e quindi, per dar voce realmente al minore, c’è bisogno di un difensore che sia in contatto diretto con il
minore stesso, non con il suo curatore speciale.
RISPOSTA
Non c’è dubbio. Questa è la situazione. C’è da dire una cosa che il progetto
di legge relativo al difensore del minore, è un progetto che è stato raffreddato quindi anche quello è fermo. Non è stato nemmeno ripresentato nell’attuale legislatura quindi la prospettiva è questa, a mio parere: che i procedimenti di adottabilità saranno sempre meno e che i minori adottabili saranno sempre meno, il che non vuol dire che saranno sempre meno i minori in abbandono, questo è ovvio, è evidente.
C’è una particolarità da dire: che gli articoli 330 e 333 c.c., modificati dall’articolo 37 della Legge 149, non modificano l’articolo 336 del codice civile se non aggiungendovi un comma relativo alla difesa ma non per quanto
riguarda il potere del tribunale per i minorenni in composizione collegiale di
prendere provvedimenti provvisori ed urgenti di sospensione della potestà,
per cui mentre l’iniziativa di ufficio del tribunale è preclusa per il procedimento di azione di adottabilità, la possibilità di iniziare di ufficio un procedimento di controllo della potestà genitoriale parrebbe salva essendo rimasto
immodificato l’articolo 336 ex ultimo comma, diventato ora penultimo, relativo al provvedimento provvisorio ed urgente di sospensione dalla potestà e
di nomina di un tutore provvisorio, a meno che non si ritenga che questo
provvedimento non richieda comunque una successiva conferma o convalida
entro un tempo dato, ma la legge non l’ha toccato, non l’ha modificato questo punto. Questa è la situazione.
259
L’AVVOCATO DEL MINORE
I
l tema che mi viene assegnato, la capacità del minore in relazione all’esercizio dei suoi diritti, è di quelli che presentano numerosi profili di indagine. Si intrecciano infatti, in questa materia, aspetti di grande interesse teorico - che attengono al profilo istituzionale dell’istituto dell’incapacità legale di agire - e aspetti di indagine pratica, che riguardano la effettiva condizione del minore nello svolgimento dell’attività giuridica.
Il tema è di notevole importanza e di grande attualità: lo confermano molte
possibili considerazioni. Basti pensare ad esempio che, nel momento in cui si
procede alla creazione di un diritto europeo dei contratti, uno dei settori che
richiede attenta considerazione e che viene segnalato come centrale è proprio
quello dell’incapacità di contrarre.
Nell’affrontare l’argomento dell’incapacità del minore, è indispensabile
muoversi su un doppio piano di indagine. Il primo riguarda i principi: sotto
questo profilo la storia della condizione giuridica del minore negli ultimi
30-40 anni è la storia del progressivo e
sempre più pieno riconoscimento dei
suoi diritti. Quando dal piano dei principi si scende a quello delle regole,
cioè si osserva quali sono gli strumenti che il diritto offre all’effettiva realizzazione dei diritti e delle libertà del
minore, ci si rende facilmente conto
che la bellezza dei principi che governa la condizione del minore si scontra
con le coordinate rigide delle regole di
diritto civile: di fronte al problema
dell’effettivo esercizio dei diritti,
torna in gioco l’incapacità legale di
agire del minore. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un soggetto ampiamente,
pienamente, direi talvolta vistosamente protetto, ma anche ad un soggetto che
si muove entro coordinate rigide perché il diritto civile gli impone - ed in termini generalissimi, perché la norma che crea per il minore l’incapacità legale di agire è una delle norme di apertura del codice civile, l’articolo 2 - una
serie di strumenti di protezione.
È necessario, a questo punto, aprire una breve parentesi sulle ragioni per le
quali l’incapacità legale di agire del minore è prevista da una norma di apertura del codice civile che definisce la condizione dei soggetti giuridici ed ha,
quindi, una portata tanto generale. Questa premessa aiuterà a comprendere
perché è tanto difficile superare o anche solo aggirare, quando si definisce la
condizione del minore, l’istituto dell’incapacità legale.
La scelta di fare dell’incapacità un istituto di portata generalissima, introdotto nel codice civile da una norma di apertura, legata non alla definizione dei
singoli atti che il soggetto può compiere, ma alla condizione del soggetto di
diritto nel suo complesso, è una scelta del legislatore del codice ‘42 che non
trova corrispondenza nel grande modello storico delle codificazioni europee,
il code Napoléon. Il codice civile francese del 1804 prevedeva e prevede tuttora l’incapacità del minore di obbligarsi, un’incapacità legata e circoscritta
LA CAPACITÀ DEL MINORE
IN RELAZIONE
ALL’ESERCIZIO
DEI SUOI DIRITTI
PROF.SSA
FRANCESCA
GIARDINA
STRAORDINARIO DI
DIRITTO CIVILE
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
DI PISA
260
L’AVVOCATO DEL MINORE
alla manifestazione della volontà del privato di assumere obbligazioni; un
istituto, quindi, strettamente legato all’attività di natura patrimoniale. I minori sono incapaci di obbligarsi, questo ci dice il codice napoleonico, nient’altro: non esiste l’incapacità legale di agire nella sua generale e onnicomprensiva presenza, quella che siamo abituati a conoscere oggi nel nostro ordinamento, quella che siamo abituati a criticare, a tentare di scalfire talvolta con
opportuni interventi di riesame dell’istituto.
L’incapacità del minore di obbligarsi nasce per una ragione molto semplice,
perché il codice napoleonico, votato a razionalizzare le regole del diritto privato, aveva assoluto bisogno di chiarezza nell’individuazione della condizione del privato nello svolgimento del traffico giuridico. La grande finalità era
realizzare l’unificazione del soggetto di diritto eliminando gli stati e le qualità arbitrarie del privato, fonti di discriminazione, noti all’epoca precedente,
l’epoca del particolarismo giuridico, così definito con termine spregiativo
proprio perché stabiliva regole particolari per soggetti particolari. Oltre che
di discriminazione, il particolarismo giuridico era fonte di confusione e di
irrazionalità del sistema. La grande semplificazione del codice napoleonico
è quella di rendere chiara e inequivocabile l’applicabilità della regola, poiché
la regola è unica e unico è il soggetto. In tal modo il sistema garantisce eguaglianza, ma soprattutto razionalità. Ma perché il soggetto sia unico e la regola sia unica occorre una sola fondamentale eccezione, quella che si lega all’esigenza di protezione dei soggetti che non sono ancora eguali agli altri, che
non sono altrettanto scaltri e altrettanto capaci di contrattare. L’incapacità di
obbligarsi è un istituto che garantisce, insieme, la protezione del minore e la
sicurezza della contrattazione.
Questo è il senso dell’incapacità di agire del minore che, nel codice napoleonico, altro non è che incapacità di contrarre. La condizione del minore nella
famiglia è quasi del tutto irrilevante, perché la famiglia è, secondo una notissima immagine, “un’isola che il mare del diritto può solo lambire”. Quel che
conta è la creazione di regole efficaci per regolare la contrattazione tra privati, cioè per disciplinare adeguatamente i modi attraverso i quali circola il
diritto di proprietà. È richiesta, evidentemente per ragioni di certezza del
traffico e di sicurezza della contrattazione, una rigida semplificazione: non ci
sono sfumature, o si è capaci o si è incapaci.
Questo è il punto di partenza, questa è la genesi della condizione del minore
nel sistema creato dalle codificazioni negli ultimi due secoli. Le ragioni per
cui da questo nucleo di norme è nata l’attuale incapacità legale di agire sono
ragioni di vario genere. La prima, la più generale e di più ampio respiro, è
legata alla vocazione eminentemente patrimoniale del diritto privato, cioè al
fatto che il diritto privato offre una struttura e degli strumenti fortemente
legati alle esigenze e agli interessi patrimoniali dei soggetti di diritto: gli istituti che ne derivano nascono tagliati su queste esigenze e su questi interessi.
Tutto quello che attiene alla sfera di natura personale dei privati per un lungo
periodo di tempo non interessa il diritto privato e nel momento in cui comincia ad assumere rilevanza si adatta agli strumenti che il diritto privato classico offre. Che cosa si fa, ad esempio, per qualificare gli interessi di natura personale del privato? Si usa la categoria del “diritto soggettivo” che nasce
modellata sull’anima universale del diritto privato, il diritto di proprietà, si
261
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
usano cioè un istituto e una tecnica di qualificazione degli interessi di stampo tipicamente patrimoniale. Egualmente avviene per la condizione del soggetto: l’incapacità nasce per rispondere ai problemi di gestione degli interessi patrimoniali del privato e viene generalizzata per servire anche agli interessi di natura non patrimoniale. In altre parole, dovendo trovare regole per
un ampio settore di interessi che il diritto privato ha considerato irrilevanti
per un lungo periodo di tempo, l’interprete usa gli strumenti che ha, più precisamente piega strumenti a forte vocazione patrimoniale ad esigenze di
natura non patrimoniale. Il diritto soggettivo diventa anche il diritto soggettivo non patrimoniale, l’incapacità diventa anche l’incapacità in atti non
patrimoniali.
Questa tendenza si avvale anche della forte influenza esercitata da altre esperienze: sul corpo di norme che nasce dal diritto francese della codificazione
si innesta la matrice germanica della grande astrazione ricostruttiva dell’attività giuridica del privato. Ecco che allora l’incapacità, che era solo incapacità di obbligarsi per contratto diviene, attraverso la categoria del negozio giuridico, l’incapacità assoluta di qualunque attività giuridica. La grande opera
di astrazione legata alla categoria del negozio giuridico fa sì che anche l’incapacità, divenuta negoziale, si trasformi in incapacità totale.
All’esito di questo lungo percorso che ho forzatamente semplificato e reso
estremamente sommario per ragioni di sintesi, troviamo un soggetto assolutamente incapace di agire perché non in grado di svolgere validamente nessuna attività giuridica. All’esito di questo processo storico un istituto che era
funzionale alla certezza del traffico giuridico e alla sicurezza della contrattazione finisce per investire tutta l’attività del privato e diviene - grazie all’ampio potere di generalizzazione offerto dalle categorie concettuali del diritto
privato classico di derivazione germanica - uno strumento di protezione e, al
tempo stesso, di esclusione totale.
Ecco perché l’incapacità legale di agire del minore è prevista dall’art. 2 e collocata in apertura del codice civile, a significare che nessun atto per il quale
non sia stabilita una età diversa - per il quale, cioè, non sia la legge stessa ad
autorizzare l’eccezione - può essere compiuto prima della maggiore età.
Il risultato di questa straordinaria semplificazione - che ha creato tante resistenze all’effettiva e concreta valorizzazione degli aspetti di sviluppo della
persona del minore - è stato che l’incapacità legale di agire, come tutti gli
istituti che sono basilari nella fondazione o rifondazione di un sistema giuridico, ha assunto una dimensione ancora maggiore rispetto a quella che gli è
propria. Si usa talvolta il termine “dogma” a significare che un istituto è, in
qualche modo, cresciuto su se stesso, ha cioè assunto un significato più
ampio della sua portata. In questo senso l’articolo 2 del codice civile introduce nel nostro sistema un dogma, l’incapacità legale di agire del minore. Si
tratta di un dogma che ha conosciuto, tra l’altro, elaborazioni concettuali tra
le più raffinate, basti pensare a una delle opere più belle che siano mai state
scritte sulla capacità, dovuta ad uno dei massimi civilisti viventi (Falzea), e
che descrive la capacità e l’incapacità dei soggetti come condizioni in opposizione perfetta.
L’incapacità del minore ha un rimedio perché il sistema non può stabilire l’esclusione del privato dall’attività giuridica senza prevedere un rimedio: il
262
L’AVVOCATO DEL MINORE
rimedio è offerto dagli istituti del diritto familiare. In questo senso, si è detto,
l’incapacità legale di agire è il punto di cesura tra ordine delle famiglie e
regole contrattuali. La patria potestà è infatti funzionale all’incapacità del
figlio minore e, se scorriamo le norme che l’istituto della potestà tramanda
attraverso le codificazioni, troviamo che amplissima attenzione è data ai profili di natura patrimoniale, proprio perché la potestà serve, in origine, soprattutto alla rappresentanza e alla amministrazione dei beni del minore.
Questo è il punto di arrivo di una lunga evoluzione che non conosce né soste
né incertezze. Il civilista che studia la condizione del minore incapace si
trova, fino ad una certa epoca del ‘900, in una condizione di assoluta e rassicurante certezza. Non ci sono dubbi nell’individuare il soggetto che può svolgere una certa attività, non ci sono dubbi sulle conseguenze di questa attività, non ci sono dubbi sulle conseguenze di una attività posta in essere in
maniera sbagliata. In altri termini si sa sempre, di fronte alla condizione di
minore età di un privato, chi deve fare che cosa e come. Gli atti devono essere compiuti dal genitore, rispettando le regole di esercizio della potestà: se
l’atto viene compiuto dal genitore deve avere determinate caratteristiche,
deve talvolta ricevere determinate autorizzazioni; se l’atto viene compiuto
dal minore è annullabile, lo insegna il diritto civile classico, anche se poi si
dimentica che l’annullabilità è uno strumento che non toglie efficacia all’atto compiuto e che consente anche il mantenimento dell’atto, cioè una sorta di
prolungamento dell’autonomia privata a garanzia del soggetto incapace.
Mi scuserete se ricordo nozioni note a tutti, ma il quadro d’insieme è indispensabile per avere chiara la sensazione di chi sia il minore fino ad una certa
epoca. Il minore fino agli anni ‘60 del secolo scorso è un soggetto totalmente protetto nell’area patrimoniale, perché questo è il senso dell’istituto dell’incapacità legale di agire che lo affligge; è anche un soggetto totalmente
protetto nell’area familiare e personale, perché anche in quest’area tutto deve
con coerenza rispondere all’esigenza di fondo. Come si rappresenta l’incapace all’esterno del nucleo familiare, così lo si protegge all’interno. Un’opera
celebre in quegli anni distingueva la potestà in due aspetti, aspetto interno ed
aspetto esterno, che costituivano le due facce della stessa medaglia, rappresentanza all’esterno nei confronti dei terzi - in ragione dell’esclusione dal
traffico giuridico - protezione all’interno del nucleo familiare.
Si tratta di un quadro estremamente rassicurante perché perfettamente
coerente al suo interno, e dunque in grado di fornire ciò che al civilista normalmente interessa, cioè la certezza del sistema. Anche le norme che creano
eccezioni all’incapacità sono norme del tutto coerenti con il sistema di riferimento. Persino l’incapacità naturale - che costituisce lo spiraglio per permettere talvolta l’impugnazione di un atto compiuto da un soggetto capace è perfettamente coerente con il sistema di fondo, è solo la valvola di sicurezza che permette di evitare una eccessiva rigidezza delle regole che presiedono al compimento dell’attività giuridica da parte dei privati.
Questo rassicurante ordine concettuale e normativo comincia a mostrare tra
le sue pieghe qualche piccola crepa, crepa che diventa gigantesca nel
momento in cui ad essa si accompagna una complessiva valutazione di insieme che individua nella depatrimonializzazione del diritto privato uno dei
compiti fondamentali del civilista a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso.
263
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Tutto il diritto privato è pervaso da questa logica e da questa esigenza: basti
pensare, per citare qualcosa di molto lontano dal tema di cui stiamo parlando
oggi, all’importanza assunta dall’esigenza di risarcire il danno alla persona
che si fa, in origine, faticosamente strada all’interno di un sistema dove la
patrimonialità è centrale; basti pensare alla difficoltà di immaginare il risarcimento del danno alla salute in un sistema dove il danno è, in origine, la differenza tra il patrimonio del privato quale era prima del danno e quale è dopo.
Dopo l’epoca delle sicurezze, l’epoca delle difficoltà: il sistema nato per esigenze patrimoniali deve piegarsi, talvolta anche in maniera non del tutto
coerente a esigenze diverse. Questa nuova tendenza accompagna anche il
percorso dell’incapacità legale. Alla condizione del minore protetto in quanto proprietario che non deve arrecare pregiudizio al suo patrimonio fino a che
non è in grado di gestirlo adeguatamente si affianca lentamente l’esigenza di
valorizzare la persona del minore.
Si giunge ad una situazione contraddittoria, quasi schizofrenica: al minore
vengono riconosciuti sempre più diritti, ma resta ferma l’incapacità di esercitarli. Siamo di fronte alla sempre più ampia garanzia dei diritti del fanciullo - così lo chiamano le convenzioni internazionali - ma persiste l’incapacità
del minore del diritto privato classico. La stessa persona è un fanciullo particolarmente degno di protezione e un minore al quale, per ragioni chiarissime
di coerenza d’insieme del sistema, è impedito l’esercizio di ogni diritto. Si
manifesta, così, quel doppio piano di indagine al quale facevo riferimento
all’inizio.
Man mano che l’esigenza di valorizzare la persona del minore si sottopone
all’attenzione degli operatori del diritto, il sistema scricchiola. Il figlio non
può più essere considerato - come si affermava in un passato peraltro non
molto lontano - “oggetto anziché soggetto di diritto” e la patria potestà non è
più in tutto analoga al diritto di proprietà. Di conseguenza il giudice minorile non può più essere il “braccio secolare della patria potestà”. I primi casi
sono clamorosi e fanno epoca: la trasfusione di sangue autorizzata contro la
volontà del genitore, il diritto del minore di professare una fede religiosa
diversa da quella del genitore. Nascono i primi diritti del minore. Ma come
si esercitano questi diritti? Attraverso i Giudici, perché non è ancora possibile in alcun modo immaginare un esercizio diretto. Grazie all’uso di norme
non nuove ma riscoperte, gli articoli 330 e 333 del codice civile, che però non
possono essere invocate direttamente dal minore.
È questa l’epoca della grande rivoluzione copernicana: l’introduzione dell’adozione speciale. In un sistema dove nessun Giudice poteva intervenire nei
criteri di governo della famiglia, neppure per un provato interesse del figlio
viene introdotto un istituto che recide il legame del minore con la famiglia di
origine e ne crea una nuova. L’istituto dell’adozione è sempre molto importante per capire quale sia il grado di evoluzione del sistema di protezione del
minore. L’adozione è, direi, l’osservatorio privilegiato per chi si occupa di
questi temi, perché, attraverso le leggi sull’adozione e sugli istituti legati
all’adozione, siamo in grado di decifrare qual’è la posizione del legislatore
nei confronti dell’istituto familiare. E non è un caso che l’interesse per i
diritti del minore e, oggi, per il ruolo dell’avvocato per la famiglia e per i
minori sia legato comunque ad una legge in materia di adozione. Non è un
264
L’AVVOCATO DEL MINORE
caso perché l’adozione è sempre l’istituto che, rispetto al sistema di riferimento, il diritto della famiglia, rappresenta il frammento più in fieri, quello
che consente fughe in avanti rispetto ai tempi lunghi delle trasformazioni
epocali.
Al diritto privato classico di vocazione patrimoniale comincia a sovrapporsi,
prima timidamente e poi decisamente, un diritto privato delle persone, nel
quale le categorie classiche manifestano tutta la loro inadeguatezza a regolare interessi nuovi. Si dimostra inadeguato anche l’istituto dell’incapacità
legale di agire, esteso dal settore patrimoniale a ogni tipo di attività del privato, e che la dottrina e la giurisprudenza si trovano costrette a riportare nell’alveo tradizionale. Grazie all’opera della giurisprudenza e della dottrina,
l’incapacità legale di agire tende a diventare solo e di nuovo incapacità di
natura patrimoniale. Si pensi alla legge in materia di interruzione volontaria
della gravidanza e alla storia interpretativa dell’articolo 12 dove, per la
donna minorenne che intende interrompere la gravidanza, si introduce una
procedura differente rispetto a quella che è prevista per la donna maggiore di
età. Questa norma suscita reazioni disparate: per un verso, si dice, si tratta di
una grave violazione della potestà dei genitori - considerato istituto di rango
costituzionale! - perché si consente alla donna minorenne di giungere all’interruzione della gravidanza senza il consenso dei genitori e attraverso l’autorizzazione del giudice tutelare. Ad altri giudici la norma è apparsa incostituzionale perché viola il principio di eguaglianza tra donna minorenne e donna
maggiorenne. Ma, al di la delle diverse posizioni, è un problema di incapacità quello che riguarda la donna minore nella scelta, di natura squisitamente
personale, di interrompere la gravidanza? È per ragioni di incapacità legale
di agire che le regole che riguardano la donna minore sono regole diverse da
quelle dettate per la donna maggiorenne? Rispondere di no, all’epoca, significò riaffermare che l’incapacità era nata per atti di natura patrimoniale e
doveva riguardare solo quelli. Nelle aree di tutela della persona, non era più
possibile immaginare l’influenza di un istituto a vocazione patrimoniale
come l’incapacità legale di agire.
La rinnovata considerazione del minore nella sfera dei diritti e degli interessi di natura personale si estese ben presto al di fuori degli stretti confini del
diritto privato. Emblematica è la vicenda che si lega all’interpretazione delle
norme penali in tema di sottrazione consensuale del minore alla potestà. Si
era affermato a lungo - lo affermava la dottrina, ma soprattutto la giurisprudenza della Suprema Corte - che il reato sanzionava la violazione della potestà del genitore, dunque proteggeva l’interesse di quest’ultimo. Si deve attendere molto tempo per un radicale mutamento di prospettiva che riconosce
finalmente come la norma penale debba intendersi posta a protezione dell’interesse del minore.
A questo punto della vicenda che stiamo ripercorrendo, l’incapacità legale di
agire viene ricondotta nei margini dell’attività patrimoniale del privato, mentre nella sfera di natura personale si aprono gli spazi della sempre più ampia
ricostruzione di uno statuto dei diritti del minore che viene consentita dalla
lettura della Carta Costituzionale e dei testi delle Convenzioni internazionali sul tema. Ma, una volta distinta l’attività patrimoniale - nella quale l’incapacità legale può ancora funzionare come forma di protezione - dall’attività
265
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
di natura personale - da lasciare al grado di libertà che al minore può essere
consentito in ragione del grado di maturità raggiunta - nasce in tempi più
recenti un ulteriore problema, legato alla sensazione che l’area del privatamente disponibile non coincida più totalmente con l’area del patrimoniale. Si
è sempre partiti dal presupposto che si potesse parlare di attività dispositiva,
legata cioè all’esercizio della facoltà di disposizione del privato, per i diritti
di natura patrimoniale. In tempi più vicini a noi, è stata avanzata l’opinione
che in realtà esista, nel diritto privato, un’area che riguarda interessi di natura personale ma consente attività dispositiva. Un esempio può chiarire immediatamente la questione. La legge sul trattamento dei dati personali è stata
interpretata da più parti come una legge che consente al privato l’esercizio di
una sorta di facoltà di disposizione dei propri dati. Non si tratta, a mio avviso, di una interpretazione corretta poiché legge il consenso al trattamento dei
dati personali in una logica di tipo proprietario: al contrario, il consenso non
rappresenta una forma di alienazione, dato che non preclude il successivo
controllo dell’interessato sull’uso dei dati da parte del titolare del trattamento. Detto questo, e da questa interpretazione della legge sul trattamento dei
dati personali che ho appena criticato, si è tratta la sensazione che sia possibile un’attività dispositiva anche nell’area dei diritti di natura personale. E
l’impressione potrebbe essere rafforzata dal fatto che la legge, a proposito
degli incapaci, detta una contortissima disposizione che ha il pregio di essere quasi incomprensibile, ma sembra dire che in caso di incapacità il consenso al trattamento dei dati personali non è necessario. Esiste dunque il rischio
- legato a un’interpretazione estensiva del privatamente disponibile, nell’ambito di una rinnovata visione proprietaria del controllo sui propri dati personali - che l’incapacità legale di agire assuma nuovamente una vocazione e
una portata ampie e indiscriminate.
Vorrei, a questo punto, lasciare spazio alle vostre domande.
DIBATTITO
DOMANDA
Abbiamo visto cosa accade quando la ragazza vuole interrompere la gravidanza, ma i genitori non sono d’accordo. Che cosa succede nel caso opposto,
quando i genitori vogliono una interruzione di gravidanza e la minore è contraria?
RISPOSTA
Questa è una domanda alla quale si può dare una risposta soltanto sapendo in
anticipo chi esercita i diritti del minore, cioè risolvendo il problema del quale
ci stiamo occupando. In altri termini, è dato ai genitori esercitare i diritti
della minore in quest’area cosi delicata? È certo che il genitore possa stipulare un contratto, vendere un appartamento o comprarne uno, dare in locazione un bene nell’interesse del minore, ma può decidere una interruzione di
gravidanza al posto della minore? In altri termini, chi esercita i diritti dei
minori? L’attività di sostituzione dell’incapace da parte del rappresentante
266
L’AVVOCATO DEL MINORE
legale è possibile in ogni settore della attività del privato? A mio avviso no.
Ritengo che solo per gli atti di natura patrimoniale possa operare la tipica
attività di sostituzione consentita dalla rappresentanza legale. Né la legge
sulla interruzione della gravidanza né alcuna altra normativa autorizzano
un’estensione della rappresentanza dei genitori all’attività di esercizio dei
diritti e delle libertà personali.
DOMANDA
Scusi se la interrompo, ma mi sembra che la legge ponga più il problema
della volontà di interrompere la gravidanza che non della volontà di non
interromperla, quindi mi ero posta il problema perché si concentra l’attenzione sulla interruzione, non sulla volontà contraria.
RISPOSTA
La legge non si pone il problema che ovviamente, quando non è previsto in
una norma specifica, deve essere risolto sulla base delle regole generali. Le
regole generali sono quelle che l’interprete ricostruisce sulla base dei principi, e sulla base dei principi ritengo si possa affermare che un’attività di rappresentanza e di sostituzione dell’autonoma manifestazione della volontà di
un privato sia possibile solo quando la legge lo consente. Ritengo doveroso
concludere che, se la legge nulla dice sulla volontà di non interrompere la
gravidanza, vuol dire che questa è una volontà che la donna manifesta autonomamente e personalmente: nessuno può sostituirsi a lei nell’esprimerla.
Non mi pare che sia mai stata immaginata nessun’altra possibile soluzione.
DOMANDA
Mi sembra interessante ritornare un momento su un concetto che lei ha
richiamato prima ossia alla affermazione, un tempo, di una netta distinzione
fra capacità e incapacità. Mi sembra che oggi, quando si parla appunto di
diritti della persona e non più patrimoniali, il concetto sia completamente
rovesciato: credo che la capacità a questo punto possa avere soltanto un
significato relativo soprattutto nella logica dell’avvocato del minore che
dovrà anche fare una valutazione di quanto quel minore afferma per poi essere rappresentato. L’analogia che mi viene automatica è con l’anziano o con il
malato. Anche lì, ricordo Cendon per esempio, si va verso una valutazione
relativa della capacita, c’è qualcosa che forse la persona pur malatissima può
fare e qualcos’ altro che non può fare. Credo che vada superato il concetto.
RISPOSTA
Sono perfettamente d’accordo: questa era una riflessione destinata alla
seconda parte, dedicata alla revisione dell’idea di capacità come monolite,
come blocco intangibile che risale alle codificazioni e che sarebbe probabilmente il momento di superare. Si tratta di un’esigenza molto attuale, non soltanto per le attività di natura personale, settore in cui il problema è più sentito e più forte. Basti pensare alla capacità di discernimento del minore prevista dalla legge sull’adozione: è chiaro che non può essere immaginata come
un monolite, deve essere ricostruita come una capacità che sia l’avvocato che
il giudice misurano e graduano anche nella portata degli effetti che le attri267
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
buiscono. Ma direi che in questa logica si pone anche tutta quella normativa
che non è ancora approvata ma che è ampiamente conosciuta e ampiamente
sentita come necessaria e che concerne le forme alternative alla rappresentanza legale nella gestione degli interessi dell’incapace. Intendo riferirmi al progetto che mira a introdurre la c.d. amministrazione di sostegno. I progetti precedenti a quello che è all’esame del Parlamento e che è legato alla sola attività contrattuale si spingevano oltre. Nel progetto originario di Cendon c’era
una norma che sanciva la responsabilità civile dell’incapace e che poi è sparita nel successivo progetto sulla amministrazione di sostegno.
Una volta deciso che la capacità debba essere valutata e graduata, resta il problema di decidere come graduarne le conseguenze. Prendiamo, ad esempio,
la capacità di discernimento che compare nella legge sull’adozione: il minore viene chiamato ad esprimersi se ha la capacità di discernimento, ma ad
esprimere che cosa? Non un parere vincolante, che può essere espresso solo
al raggiungimento di una determinata età, il che significa che non ci si sottrae ancora alla logica della capacità tradizionale, se ne abbassa soltanto la
soglia, consentendo al minore di esercitare i propri diritti ad una età inferiore. La legge dice che, al di sotto di questa età, il minore deve essere sentito
quando ha raggiunto la capacità di discernimento. Che cosa significa che il
minore deve essere sentito? Che processualmente non è parte, dunque la
posizione che assume è quella di un teste.
DOMANDA
Comunque rimane invariato tutto ciò che riguarda la capacità del minore nell’aspetto patrimoniale, perché quello rimane comunque cristallizzato.
RISPOSTA
Su questo si discute molto. Si potrebbe, ad esempio, prendere spunto dall’esperienza francese che consente di rescindere per lesione o di modificare le
condizioni del contratto stipulato dall’incapace, senza annullarlo.
DOMANDA
Io faccio una premessa sulla quale le chiedo di darmi qualche ulteriore chiarimento e cioè mi domando se e in che misura giochi sulla individuazione del
campo di operatività della capacità-non capacità l’evoluzione direi spasmodica dei tempi moderni del concetto di patrimonio che non è più da tempo un
patrimonio in senso ragionieristico ma annovera al suo interno una serie di
posizioni soggettive le più varie. La premessa resta comunque questa, se e in
quale misura influisce questo nuovo concetto di patrimonio sullo spazio di
operatività della capacità-non capacità, sicuramente ci sono delle cose che
afferiscono alla persona che non appartengono al concetto di patrimonio.
RISPOSTA
Lei tocca uno dei temi più significativi del diritto privato con questa questione: il problema della qualificazione degli interessi che è un problema di
significato non soltanto teorico ma anche pratico. Il problema della qualificazione degli interessi si pone in più sensi e in maniera trasversale. Un primo
aspetto riguarda la qualificazione di un interesse come patrimoniale o perso268
L’AVVOCATO DEL MINORE
nale, un secondo aspetto riguarda il tipo di qualificazione giuridica da dare
ad un certo interesse. Appurato che l’interesse del minore è la base di qualunque istituto che lo riguardi, questo interesse a che cosa dà vita? Ad un interesse legittimo, ad una aspettativa, ad un diritto soggettivo?
Sotto il primo profilo, in particolare, le regole che riguardano il patrimonio e
la persona del privato devono essere tenute ben distinte. Per esempio da sempre si dice che solo l’attività di natura patrimoniale è suscettibile di rappresentanza, e questo è vero per la rappresentanza legale in primo luogo.
D’altronde, se leggiamo l’articolo 320 del codice civile, ci rendiamo immediatamente conto che si tratta di una norma dettata per il patrimonio del
minore, perché la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione non può che riguardare gli interessi di natura patrimoniale.
Quanto all’altra questione che lei ha sollevato e che è molto importante - che
tipo di qualificazione assumono gli interessi del minore - in passato mi era
sembrato di poter tracciare una distinzione tra i cosiddetti grandi e piccoli
minori. Non si tratta di una distinzione rigida, come quella del sistema tedesco che propone delle scansioni di età nette e predeterminate. A mio avviso è
opportuno immaginare una sorta di progressivo avvicinamento del minore
alla capacità, sottraendo all’incapacità l’area delle attività che il minore
diviene in grado di compiere man mano che acquisisce la capacità di scelte
espressive autonome. Il che appare in armonia con alcune indicazioni normative reperibili nell’area degli interessi di natura personale: si pensi al diritto
di manifestare una fede religiosa, al diritto di associazione, al diritto di iscrizione ad un partito politico. Gli statuti dei partiti politici consentono da
tempo l’iscrizione ad un’età inferiore alla maggiore età e le associazioni giovanili dei partiti politici consentono ai minori attività di grande impegno,
tutto senza il consenso del genitore. Abbiamo anche degli indici normativi
ben precisi in aree di natura patrimoniale: si pensi agli atti minuti della vita
quotidiana che hanno un significato esistenziale e che il minore da tanto
tempo è considerato capace di compiere.
Quanto al rapporto tra genitore e figlio, chi abbia diritti nei confronti di chi
è una questione delicatissima che risente, per la sua soluzione, delle difficoltà tipiche dell’uso delle nozioni classiche del diritto privato - cioè, in particolare, della categoria del diritto soggettivo - in aree che patrimoniali non
sono. Io sono profondamente convinta che il minore sia titolare di diritti e
che li possa esercitare; resta il problema del momento a partire dal quale questo esercizio è possibile. È possibile immaginare una soluzione solo pensando alla capacità e all’incapacità come quantità che si accrescono o che decrescono a seconda dei casi e a seconda della natura dell’attività. Perché è
necessario ammettere che talvolta l’incapacità serve, dal momento che incapacità significa non soltanto esclusione, ma anche protezione. Celebre è il
caso francese dei genitori che hanno impugnato il contratto con il quale figlio
il minore si era impegnato a fare da modello a condizioni lesive dei suoi interessi.
DOMANDA
Qui bisogna conciliare quelle che sono le esigenze del minore con gli obblighi genitoriali, perché i genitori hanno nei confronti dei figli degli obblighi
269
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
di educazione, di mantenimento, di istruzione, di andare incontro alle loro
aspirazioni ma non di avallarle sempre.
Abbiamo un minore che ha delle aspirazioni, delle volontà particolari. Ma, se
vediamo tutto in una logica minorile, rischiamo di depauperare completamente quelli che sono dei veri e propri obblighi giuridici posti a carico dei
genitori. Se io ho un figlio quindicenne che si rifiuta di andare a scuola, perché la realtà è questa, io come genitore mi devo porre nella condizione di
obbligarlo per consentirgli una migliore chance di vita, perché questo è il mio
obbligo genitoriale, morale e giuridico? Se diamo a questo minore una piena
capacità di agire, il suo rifiuto di andare a scuola, le faccio un esempio molto
classico da mamma, diventa una cosa assolutamente legittima che però
rischia di pregiudicargli la sua vita futura? Io ritengo che tutta questa tutela
del minore debba essere anche conciliata con tutte le norme poste a carico dei
genitori, anche con l’obbligo patrimoniale posto a carico dei genitori in caso
di situazioni in cui il minore crei per esempio danni. Secondo me questi puntelli vanno posti perché io come genitore, avendo l’obbligo di vigilanza, mi
trovo anche impegnato economicamente per certe azioni poste in essere da un
minore.
RISPOSTA
Secondo le norme in materia di responsabilità civile, non è imputabile il soggetto che non aveva la capacità di intendere e di volere, non la capacità legale. Allora il minore, quando non è capace di intendere e di volere, non è
responsabile e il genitore risponde come sorvegliante dell’incapace; se il
minore è capace di intendere e di volere risponde personalmente e il genitore risponde solidalmente in funzione di garanzia per i terzi e non in ragione
di un obbligo di vigilanza che non ha osservato. Questa è l’interpretazione
più moderna delle norme degli articoli 2047 e 2048.
Quanto invece lei ha detto all’inizio del suo intervento, a mio avviso è degno
di considerazione ma richiede un chiarimento preliminare. Che cosa è il bene
del minore? Chi lo decide? Ciò che si impone può essere sicuramente la cosa
migliore ma noi, questo, non possiamo saperlo né può deciderlo la legge che
può solo stabilire dei metodi e degli strumenti. Alle regole giuridiche non si
può attribuire un potere di scelta nel merito; alle regole giuridiche si può solo
attribuire la scelta sul come si procede di fronte ad un conflitto di volontà.
Se la prima parte di questo incontro è stata dedicata all’esame dei principi
che costituiscono la cornice dei nostri problemi, nella seconda parte dovremo
scendere dal piano dei principi a quello delle regole e, in particolare, delle
regole che ci interessano più da vicino, quelle introdotte dalla recente riforma dell’adozione.
Siamo ad un bivio: abbiamo una legge, una legge importante, una legge che
costituisce un punto di arrivo significativo per tanti aspetti. Non a caso, come
dicevo prima, è una legge in materia di adozione perché l’adozione è il
campo privilegiato di riforma e di evoluzione del sistema. Si tratta di una
legge che contiene delle enunciazioni importantissime, prima tra tutte quella
270
L’AVVOCATO DEL MINORE
che sancisce il diritto del minore a vivere, crescere, ad essere educato nell’ambito di una famiglia, assicurato senza distinzioni di sesso, di etnia, di età,
di lingua, di religione, nel rispetto della identità culturale del minore. Direi
che formula di più ampio riconoscimento dei diritti del minore non si poteva
concepire: si tratta, tra l’altro, di una formula espressa nei termini classici di
un principio di eguaglianza, cioè attraverso la rimozione dei fattori che in
passato hanno rappresentato elementi di discriminazione. Amplissimo riconoscimento quindi dei diritti della persona del minore e, coerentemente, riconoscimento al minore della possibilità di intervenire, di esprimere, quando
abbia la capacità di discernimento, la propria posizione.
La legge mira anche all’introduzione di un giusto processo, innanzitutto per
la famiglia di origine: la storia più recente dell’adozione è la storia della progressiva riscoperta dei diritti anche della famiglia di origine, fortemente
sacrificati dalla legge autoritaria del ‘67. Un giusto processo anche per il
minore, ma in che termini e con quali garanzie?
Il procedimento di adottabilità deve svolgersi fin dall’inizio con l’assistenza
legale del minore e dei genitori o degli altri parenti di cui al comma 2 dell’articolo 10: questo ci dice l’articolo 8, comma 4. Ma se poi andiamo a leggere
l’articolo 10, comma 2, ci rendiamo conto che tra i soggetti che devono essere assistiti dal difensore manca il minore.
All’articolo 15, comma 3, tra i soggetti cui deve essere notificata la sentenza
che dispone lo stato di adottabilità non c’è il minore ma un curatore speciale, ove esista. Sappiamo che il curatore speciale non esiste se non viene
nominato: è una figura generica ma non generale, generica perché vaga, non
generale perché interviene solo dove la legge lo chiama in causa. Allora se
c’è un curatore speciale evocato così, senza ulteriori indicazioni e ove esista,
come funziona la nomina del difensore da parte del minore? Attraverso un
necessario curatore speciale che scelta l’avvocato e gli dia mandato, consentendogli di svolgere le sue funzioni? Dobbiamo immaginare che il minore
debba rivolgersi ad un intermediario prima di arrivare finalmente al rapporto
con l’avvocato? E se questo curatore speciale esiste, deve tenere le fila della
relazione tra avvocato e minore per tutto il procedimento oppure è soltanto
un soggetto che media nel momento della scelta, lasciando poi il minore e
l’avvocato al loro rapporto diretto?
A tutte queste domande nessuna disposizione normativa dà risposta: in particolare non esiste una disciplina della scelta e della nomina del difensore da
parte del minore. In una materia così tecnica e così precisa qual’è la nomina
di un avvocato, ci troviamo di fronte a una lacuna normativa e ci vediamo
costretti a ricorrere ai principi e alle regole generali. Dai principi e dalle
regole dettate dalla legge di riforma dell’adozione è possibile desumere che,
se il minore ha la capacità di discernimento, ha diritto di esprimere la sua opinione. Se così è, quando ha la capacità di discernimento, il minore dovrebbe
poter scegliere il proprio avvocato. Tuttavia, chi decide se il minore ha la
capacità di discernimento? L’avvocato stesso quando si trova davanti il minore? Un giudice che deve servire da tramite, prima di arrivare alla scelta dell’avvocato? Probabilmente tutto questo va inventato sulla base dei frammenti di diritto esistente.
Non pensiamo soltanto alla legge sull’adozione, pensiamo anche all’articolo
271
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
336 del codice civile e ai provvedimenti presi nell’interesse del minore da un
giudice attraverso le norme che glielo consentono, gli articoli 330 e 333 in
particolare. Il minore, anche in questi procedimenti, deve avere un difensore,
lo prevede l’articolo 336, ultimo comma, ma anche qui nulla si dice sulla
nomina di questo difensore. A proposito degli articoli 330 e 333 - norme che
hanno consentito alla giurisprudenza minorile di intervenire esprimendo la
massima tutela della persona del minore - esiste peraltro un’antica questione:
molto si è discusso, in passato, sulla legittimazione a ricorrere al giudice,
legittimazione che l’art. 336, primo comma, non estende al minore interessato. Una tesi molto coraggiosa aveva tuttavia sostenuto la possibilità di ricostruire, desumendola dai principi generali, una legittimazione diretta del
minore a rivolgersi al giudice chiedendo l’adozione dei provvedimenti necessari a garantire il suo interesse. Perché non immaginare, oggi che l’interprete è costretto a vere e proprie operazioni di ingegneria giuridica, anche una
legittimazione diretta del minore nella scelta di un difensore? Si tratta di una
soluzione che presenta indubbiamente molti rischi che sono quelli di una
scelta inadeguata, ma non esiste alternativa, se non quella di far sì che qualcun altro - e chi, quando non è probabilmente possibile affidarsi al genitore scelga per il minore. In altri termini il problema è sempre lo stesso: di fronte ad un soggetto che ci appare debole, il dilemma è sempre: autonomia o eteronomia? Qualcuno decide per il minore, oppure gli permettiamo di decidere
da solo anche a costo di lasciarlo sbagliare? I principi ci consentono forse di
lasciarlo decidere da solo, ma ci consentono anche di trovare dei temperamenti a questa soluzione che appare oltremodo radicale. Un punto di riferimento può essere ancora la valutazione della capacità di discernimento del
minore, da affidare al giudice, anche a posteriori, nel momento in cui si rende
conto che il minore ha scelto un avvocato inadeguato.
Ve la sentite di scegliere questa strada, di sottoporvi al giudizio di un giudice che valuta la scelta che il minore abbia fatto di qualcuno di voi?
INTERVENTO DAL PUBBLICO
Allora preferirei che fosse il Presidente del Tribunale per i Minorenni a nominare l’avvocato del minore possibilmente in un elenco di avvocati formati ad
hoc per fare l’avvocato del minore.
Alcuni colleghi, sempre nell’ambito dell’Aiaf, avevano ipotizzato di attribuire la nomina dell’avvocato del minore al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni che d’ora in poi avrà l’esercizio dell’azione;
quindi nel momento in cui si avvia la segnalazione di un caso, il Procuratore
della Repubblica fin dall’inizio nominerebbe un avvocato scegliendolo da un
elenco adeguato.
RISPOSTA
Allora saremmo ancora nel campo dell’incapacità e dell’eteronomia. Credo
che il minore dovrebbe avere voce in capitolo e almeno la possibilità di
accettare o rifiutare questa scelta quando abbia sufficiente capacità di discernimento. Non possiamo escluderlo totalmente quando siamo chiamati ad
applicare una legge che valorizza la capacità di discernimento come elemento su cui ruota la partecipazione dell’interessato alle decisioni che lo riguar272
L’AVVOCATO DEL MINORE
dano.
INTERVENTO DAL PUBBLICO
Riconosciamo questo diritto al minore che manifesta una capacità di discernimento, questo però presuppone un giudizio ex ante prima dell’inizio di una
procedura per valutare la capacità o meno di discernimento del minore.
RISPOSTA
Se valorizziamo la capacità di discernimento e l’autonomia del minore, dobbiamo essere coerenti. Siccome il Giudice ha dalla legge il potere di valutare la capacità di discernimento del minore ai fini dell’adozione, diamoglielo
anche ai fini della scelta o per lo meno del rifiuto del difensore. Riflettiamo
anche sul fatto che il minore è un cliente, un rapporto di fiducia con il difensore è necessario.
Possiamo consentire la nomina del difensore da parte del Presidente del
Tribunale o da parte del Procuratore, però poi dobbiamo consentire anche al
minore di esprimere, se capace di discernimento, un gradimento rispetto a
questa decisione, eventualmente a seguito di un incontro con l’avvocato che
gli viene proposto. Potremo trovare anche il ragazzino dispettoso che rifiuta
il difensore senza motivo, ma si tratta di un rischio che dobbiamo correre perché altrimenti neghiamo tutto quello che ci siamo detti fino ad ora, cioè che
il minore non può essere sottoposto a scelte assolutamente eteronome rispetto alla sua posizione personale, quando abbia capacità di determinazione
autonoma. A mio avviso il minore deve anche essere posto in condizione di
esprimere il proprio gradimento non soltanto sulla persona del difensore ma
anche sul tipo di difesa che gli viene offerta: al minore, ad esempio, si
dovrebbe consentire di revocare l’incarico al proprio difensore.
Vorrei sottoporvi a questo punto un’altra riflessione che ha a che fare con
tutto quello che ci siamo detti fino ad ora: voi sapete che esiste una norma
importante, molto importante nella legge sull’adozione, l’articolo 28 che
introduce (solo formalmente perché era una prassi applicativa dell’istituto) e
regola il diritto del minore a conoscere la sua condizione di figlio adottivo e
l’accesso a tutte le informazioni riservate sulla sua origine. Questo accesso è
tuttavia consentito solo all’età di 25 anni. Abbiamo quindi l’affermazione
solenne di un diritto alla conoscenza e quindi alla partecipazione diretta a
tutta la procedura di adozione, un diritto alla conoscenza a posteriori - se non
è stato possibile in itinere - della propria condizione di adottato, ma il diritto
di accesso dell’adottato alle informazioni riservate sulla sua origine è, per
così dire, congelato fino a 25 anni. È consentito al raggiungimento della
maggiore età se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla salute psicofisica dell’adottato. In ogni caso, anche questo è molto poco chiaro, è
necessaria l’autorizzazione del Tribunale per i Minorenni, condizionata alla
valutazione che l’accesso alle notizie riservate non comporti grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Ricostruire il senso di queste
regole ci conduce a soluzioni non proprio appaganti. Finché l’adottato non ha
compiuto i 25 anni il diritto di accesso alle informazioni riservate può essere esercitato dai soli genitori adottivi; se questi sono morti o sono spariti l’adottato maggiorenne viene in qualche modo “emancipato” e quindi può acce273
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
dere a queste informazioni anche prima del venticinquesimo anno di età. Qui
il legislatore della capacità di discernimento e della massima valorizzazione
della condizione del minore ha deciso che l’informazione a volte nuoce e si
è ricordato che esclusione (e quindi incapacità) significano protezione.
Non solo. Se il bambino viene adottato quando è già in grado di decidere e
ha la capacità di discernimento, lo si sente, lo si ascolta, gli si consente di
scegliere il difensore, di revocarlo, gli si consente di esprimere il proprio
parere sull’adozione. Se viene adottato un minore infante, questi ha il diritto
di conoscere la sua condizione di figlio adottivo, ma non è detto né come né
quando, anzi è previsto che i genitori adottivi provvedano all’informazione
nei modi e nei termini che ritengono più opportuni. Mi chiedo chi controlla
che i modi e i termini siano stati opportuni e mi chiedo anche quale sanzione
sia prevista per i genitori che violano il diritto del minore adottato all’informazione e, dunque, quale grado di effettività abbia questo diritto del minore.
Sarebbe forse stato più opportuno stabilire l’obbligo per i genitori adottivi di
informare il minore sulla sua condizione di figlio adottivo al momento in cui
viene raggiunta un’adeguata capacità di discernimento.
Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla nomina dell’avvocato del minore e tentiamo di ricostruire - o forse sarebbe meglio dire di inventare - una
procedura. Più il legislatore è stato reticente, più l’interprete deve essere fantasioso. Il minore capace di discernimento viene sentito sulla nomina del
difensore direttamente dal Giudice e ha il potere di esprimere il proprio dissenso, eventualmente chiedendo la nomina di un diverso difensore. Anche
l’avvocato del minore, come qualunque avvocato, riceve la fiducia del cliente. Bisogna evitare, secondo me, di fare dell’avvocato del minore una figura
che protegge il minore da se stesso: il minore, benché minore, è un cliente e,
se un cliente chiede al proprio avvocato di fare qualcosa che non risponde al
suo interesse, l’avvocato lo fa oppure rinuncia al mandato. Il minore capace
di discernimento ha, inoltre, potere di revoca del difensore nel corso del procedimento.
Più delicata è la questione che riguarda l’articolo 336 del codice civile e la
nomina del difensore del minore nelle procedure di cui agli articoli 330 e il
333. Immaginiamo di consentire al minore di rivolgersi direttamente a un
avvocato chiedendogli di adire il giudice, affinché adotti i provvedimenti
convenienti nei confronti del genitore ai sensi dell’articolo 333.
Indubbiamente l’avvocato si trova di fronte un cliente un po’ particolare, e
spetterà a lui decidere. Di fronte ad una richiesta assurda, l’avvocato cercherà di far ragionare il proprio cliente e così farà con il minore. Non credo che
si debba ragionare immaginando che tutti i problemi dell’avvocato del minore siano legati alla particolare condizione dell’assistito: richieste pretestuose
o irragionevoli possono provenire anche da un cliente maggiorenne.
INTERVENTO DAL PUBBLICO
Abbiamo parlato parecchio dei provvedimenti con il 336 relativamente al 330
e 333, ora leggendolo dice “i provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati sul ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del Pubblico
Ministero”. È vero che nell’ultimo comma si dice “per i provvedimenti di cui
ai commi precedenti i genitori del minore sono assistiti dal difensore anche a
274
L’AVVOCATO DEL MINORE
spese dello Stato” però non c’è l’iniziativa processuale del minore. Il minore
può rivolgersi a un avvocato solo se qualcun altro, cioè l’altro genitore, i
parenti, il Pubblico Ministero, hanno presentato ricorso per i provvedimenti
di cui all’articolo 330 e 333.
RISPOSTA
Nel nostro ordinamento manca la figura del next friend che è la persona che
decide di attivare un procedimento nell’interesse di qualcun’altro che non lo
può fare, ma non mancano spunti normativi per tentare di superare questa
lacuna. Il riferimento più significativo è anche quello che è in grado di dare
fondamento costituzionale al tentativo di superare questo limite alla iniziativa processuale: il principio di solidarietà enunciato dall’articolo 2 della
Costituzione.
Allora se cosi è, cioè se esistono soggetti che possono agire in ragione di un
fondamentale principio di solidarietà che supporta la loro iniziativa nell’interesse altrui, perché non consentire allo stesso minore di dare voce alle proprie esigenze? Questo era il tipo di interpretazione che era stata proposta per
superare l’ostacolo formale legato ad un’interpretazione letterale dell’art.
336.
Lei mi dirà: “non si modificano così le disposizioni normative”, però sono
possibili - e sono state avanzate - interpretazioni dirette a modificare norme
anche più esplicite di questa. Mi sentirei di spingermi oltre e di immaginare
- alla luce dell’attuale grado di evoluzione di quello che è stato definito lo
statuto costituzionale dei diritti del minore - una eccezione di incostituzionalità dell’articolo 336 nella parte in cui esclude il minore dalla possibilità di
esercizio diretto della azione. Ne potrebbe nascere una pronuncia interpretativa di indubbio interesse.
Non escluderei, più in generale, che il futuro profilo dell’avvocato del minore possa essere disegnato da qualche eccezione di incostituzionalità e che le
regole possano giungere anche da qualche pronuncia interpretativa della
Corte costituzionale che colmi i vuoti lasciati da un legislatore reticente.
La posizione dell’avvocato dei minori e della famiglia, inoltre, è una posizione che avrebbe bisogno di un’attenta definizione deontologica. A mio avviso
la strada passa anche per codici di auto-regolamento adottati dagli ordini che
differenzino questa figura in maniera adeguata.
INTERVENTO DAL PUBBLICO
Un’altra ipotesi problematica: poniamo che io venga nominata avvocato di
un bambino di 9, 10 anni che quindi è in grado di esprimermi una determinata volontà anche in modo abbastanza deciso, poniamo anche che io ritenga sulla base di informazioni che il bambino stesso mi ha dato in via del tutto
confidenziale nell’ambito di un rapporto coperto dal segreto professionale che la volontà che mi esprime sia per lui assolutamente pregiudizievole. Una
strada percorribile, forse, potrebbe essere quella che conduce l’avvocato,
senza rivelare le confidenze che gli ha fatto il bambino, adisca il giudice e
faccia nominare una figura che non sia vincolata dalla volontà espressa dal
bambino
275
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
RISPOSTA
Il problema nasce dal fatto che noi abbiamo considerato il minore una persona da trattare come cliente: è naturale che, seguendo questa linea, non ci si
possa discostare dalle indicazioni che il minore ha dato. Io sarei dell’idea
che, in questi casi - in presenza, ad esempio, di un conflitto di notevole entità - l’avvocato esterna il proprio disagio rimettendo il mandato al giudice.
276
L’AVVOCATO DEL MINORE
1. I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ ED IL
DIRITTO DI EGUAGLIANZA: LA
CONDIZIONE PERSONALE E SOCIALE
DEL FANCIULLO E DEGLI ALTRI
SOGGETTI DEBOLI.
I
SOMMARIO
1. I diritti della personalità ed il diritto di
eguaglianza: la condizione personale e sociale
del fanciullo e degli altri soggetti deboli.
2. Diritto alla riservatezza e diritto
d’informazione
3. Il diritto alla riservatezza dei fanciulli e degli
altri soggetti deboli e la cronaca giudiziaria
4. Pubblicità degli atti e pubblicità del
dibattimento
5. Tutela processuale della dignità personale ed
intimità dei soggetti deboli, ed in particolare
delle vittime dei reati sessuali.
Riferimenti bibliografici.
nnanzi tutto una premessa. Il diritto d’informare e di essere informati, considerati come diritto di pensare, conoscere, esprimersi, comunicare, anche per realizzare un’attiva partecipazione
alla vita sociale costituiscono una manifestazione
fondamentale della personalità.
Parimenti l’Uomo, oltre che nelle sue attitudini
espansive e dinamiche si manifesta
come soggettività, come un unicum
irripetibile titolare di diritti inviolabili
che lo riguardano sia come singolo che
come membro delle formazioni sociali
in cui vive ed agisce.
Tutto ciò senza distinzioni di sesso,
razza, lingua, religione, di opinioni
politiche, e delle altre condizioni
sociali e personali da cui un tempo
derivavano conseguenze per lo status
delle persone, e cioè per l’estensione
della capacità giuridica e per la posizione relativa agli altri soggetti dell’ordinamento.
Proprio per questo nelle moderne
Costituzioni non ci sono riferimenti alle condizioni di ridotta capacità, di
debolezza che pure di fatto incidono sulla concreta possibilità di quel soggetto di esprimere e sviluppare la personalità in un qualsiasi campo della azione umana.
Anzi gli ostacoli che di fatto ostacolano la libertà e l’uguaglianza impegnano
sia la solidarietà dei singoli (art. 2 ult. parte Cost.) che l’intervento pubblico
per rendere effettivi i diritti della personalità.
La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata con la L. n.°
176 del 1991, non utilizza la parola minore, (ereditata dal diritto romano
anche dalle lingue francese ed inglese del testo ufficiale) perchè registra antiche incrostazioni culturali ancora percepibili ai giorni nostri. Infatti nella tradizione forense, ed anche nel linguaggio corrente, la parola minorenne indica uno status d’inferiorità personale e giuridica, una condizione di sudditanza, di soggezione a poteri altrui, insomma di oggetto di diritti piuttosto che
di soggetto. Perciò l’articolo 1 della convenzione chiarisce che s’intende per
fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni.
Anche i nostri costituenti, sicuramente con molto anticipo rispetto alla maturazione della nuova cultura sui bambini, avevano compiuto una scelta analoga. Infatti il termine minore non è menzionato nella carta costituzionale per-
CRONACA E PUBBLICITÀ
DEL PROCESSO PENALE.
LA TUTELA DEL MINORE
VITTIMA DEL REATO
DOTT.
GUSTAVO
SERGIO
PROCURATORE DELLA
REPUBBLICA PRESSO IL
TRIBUNALE PER I MINORENNI
DI VENEZIA
277
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
ché i diritti del minore non sono altra cosa rispetto ai diritti di ogni altro individuo. (1)
La necessità della loro affermazione dunque non nasce dal contenuto dei
diritti, ma dal rapporto del soggetto con i diritti stessi, perché il suo sviluppo
psicofisico incompleto, la sua non compiuta affermazione familiare e sociale, la sua condizione di debolezza nei confronti degli adulti richiedono specifici mezzi di protezione e tutela per superare gli ostacoli di fatto che impediscono il pieno sviluppo della sua personalità.
La libertà d’informazione si deve dunque misurare con la particolare condizione personale dei soggetti in età evolutiva e di chiunque altro che per qualsiasi ragione si trovi in una analoga condizione di debolezza.
La Corte Costituzionale ha riconosciuto che il diritto alla riservatezza in
quanto diritto della personalità è un diritto inviolabile e costituzionalmente
garantito. (sent. N.° 38 del 1973) Perciò non si tratta di individuare uno statuto speciale ma di commisurare il diritto alla riservatezza, che è proprio di
ogni persona, alla particolare condizione in cui si trovano fanciulli ed adolescenti, e gli altri soggetti deboli.
2. DIRITTO ALLA RISERVATEZZA E DIRITTO D’INFORMAZIONE
ome è noto il diritto alla riservatezza è frutto dell’elaborazione della dotCespressione
trina e della giurisprudenza. La prima ne ha disegnato i contorni come
autonoma della tutela della persona da interferenze indebite,
pubbliche o private che siano. La seconda è partita deduttivamente dai vari
rimedi di natura civile penale ed amministrativa previsti dall’ordinamento.
Alla fine entrambe la configurano come un autonomo diritto soggettivo che
s’inserisce nella categoria più vasta dei diritti della personalità. (2)
Quanto al contenuto, raggruppando le varie ipotesi di tutela previste dalle
fonti normative ( ivi compresa la Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e la Costituzione) il diritto si riferisce alla sfera intima, che riguarda oltre che i pensieri ed i sentimenti, la fisicità, in cui sono ricomprese
immagine, salute e sessualità, alla sfera privata, che riguarda la vita personale e familiare e quelle attività che più esprimono la dimensione interiore del
soggetto (corrispondenza, diari), alla sfera individuale e sociale che comprende la vita professionale, l’attività pubblica.
Si capisce che la protezione accordata è tendenzialmente massima nel primo
caso fino a ridursi nell’ultimo a quelli di aggressione all’onore e reputazione.
La recentissima legge 675 del 1996 se da un lato finalmente prende atto
esplicitamente del diritto alla riservatezza ed alla dignità personale (art. 1)
dall’altro si fa carico delle conseguenze che possono derivare, grazie alla
potenza delle nuove tecnologie, dal trattamento dei dati personali, specialmente se realizzato con i sempre più diffusi strumenti elettronici di elaborazione e trasmissione dei dati. Essa perciò stabilisce la regola che il trattamento dei dati personali, da parte di privati e di enti pubblici economici, è
ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato, e precise condizioni
per la loro comunicazione e diffusione (artt. 11 e 20), ovvero da parte di soggetti pubblici nei limiti stabiliti dalla legge e dai regolamenti. (art. 27)
278
L’AVVOCATO DEL MINORE
La frontiera tra pubblico e privato, tra diritto di informarsi (e dunque di accedere e conoscere) ed essere informato, (cui corrisponde per converso quello
d’informare) ed il diritto alla riservatezza ed alla dignità personale è dunque
in continuo movimento anche perché i nuovi mezzi di comunicazione di
massa hanno modificato profondamente la situazione che esisteva al tempo
della la stampa. Secondo Mc Luhan il mezzo è il messaggio (MC LUHAN
1967) (3) e la stessa Corte Costituzionale ha dovuto riconoscere che il più
innovativo dei mass media, il mezzo televisivo “per la sua notoria capacità
di immediata e capillare penetrazione nell’ambiente sociale attraverso la
diffusione nell’interno delle abitazioni, per la forza suggestiva dell’immagine unita alla parola, dispiega una peculiare capacità di persuasione e di
incidenza sulla formazione della opinione pubblica nonché sugli indirizzi
socio culturali di natura ben diversa da quella attribuibile alla stampa”
(sent. n. 148 del 1981).
Così nella realtà attuale i termini del rapporto tra diritto alla riservatezza ed
alla tutela della dignità della persona e diritto d’informazione (nelle sue
diverse manifestazioni) sono in rapida evoluzione e debbono essere continuamente aggiornati in funzione delle nuove tecnologie e forme di utilizzazione
che producono accanto agli innegabili effetti positivi, anche nuove possibilità di violazione della sfera personale dei cittadini.
3. IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA DEI FANCIULLI E DEGLI
ALTRI SOGGETTI DEBOLI E LA CRONACA GIUDIZIARIA
La Convenzione di New York prima ricordata prevede che nessun fana)
ciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita
privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio e corrispondenza e neppure di
affronti illegali al suo onore e reputazione, e che comunque in tali evenienze egli ha diritto alla protezione della legge. (art. 16)
Per quel che riguarda in particolare la cronaca giudiziaria le nuove disposizioni per il processo penale con imputati minorenni (art. 13 DPR 448 del
1988) prevedono: 1° Sono vietate la pubblicazione e la divulgazione con ogni
mezzo di notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento. 2° Le disposizioni del comma 1
non si applica dopo l’inizio del dibattimento se il tribunale procede in udienza pubblica.
Anche l’art. 114 del nuovo c.p.p. tutela i dati personali e l’immagine dei
minorenni testimoni persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non
sono divenuti maggiorenni vietandone la pubblicazione. Tuttavia il minorenne che ha compiuto i 16 anni, ed il tribunale per i minorenni per quelli di età
inferiore possono consentirla. Questa regola è ribadita dall’art. 33 del D.P.R.
448 del 1988 che mentre stabilisce che l’udienza dibattimentale davanti al tribunale per i minorenni si celebra a porte chiuse, consente all’imputato che
abbia compiuto sedici anni di chiedere la pubblicità dell’udienza. Si tratta di
un’importante innovazione rispetto alla precedente disciplina (prevista dall’art. 16 del R. D. L. n.° 1404 del 1934) che non ammetteva deroghe, che conferma la tendenza legislativa - si pensi alla riforma del diritto di famiglia, alla
legge sull’adozione e l’affidamento - che riconosce uno spazio crescente alla
279
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
diretta espressione della personalità del minorenne (SERGIO 1989) (4)
D’altronde l’attribuzione del potere di autorizzare la pubblicazione, o la pubblicità direttamente al sedicenne - o al tribunale per i minorenni - e non al
legale rappresentante conferma la natura di diritto fondamentale della personalità del diritto alla riservatezza, che perciò può essere esercitato solo dall’interessato. (5)
Il divieto di divulgazione dei dati personali è stato ripreso dalla legge n.° 66
del 1996 sulla violenza sessuale, ed ultimamente dalla L. 269 del 1998 sullo
sfruttamento sessuale dei minori. È stato così introdotto nel terzo libro del
codice penale il titolo II bis “Delle contravvenzioni concernenti la tutela
della riservatezza” che al momento comprende un’unica disposizione, l’art.
734 bis che così recita: “Chiunque nei casi dei delitti previsti dagli artt. 600bis, ter, quater, quinquies, 609-bis, ter quater, quinquies, octies, divulghi,
anche attraverso mezzi di comunicazione di massa le generalità o l’immagine della persona offesa senza il suo consenso, è punito con l’arresto da tre a
sei mesi.”
Infine ultimissimamente la legge n° 479 del 1999 ha inserito nell’art. 114 il
comma 6° bis che vieta la pubblicazione dell’immagine di persona privata
della libertà personaleripresa mentre è sottoposta alle manette o ad altro
mezzo di coercizione, salvo il consenso dell’interessato.
In definitiva la divulgazione dei dati personali e l’immagine di imputati e vittime minorenni nel processo penale minorile ed ordinario è di regola vietata
e la violazione costituisce l’illecito disciplinare contemplato dall’art. 115 del
c.p.p. Tale tutela è stata estesa all’immagine dell’imputato maggiorenne
ammanettato.
Invece la divulgazione riguardante le vittime anche maggiorenni di gravi
reati di violenza e sfruttamento sessuale costituisce un reato contravvenzionale.
A prescindere dalla natura penale dell’illecito, va richiamata l’attenzione sull’oggetto della tutela, che nel caso dell’art. 734 bis c. p. riguarda il diritto alla
riservatezza delle vittime dei reati sessuali. È la prima volta che il legislatore considera nella sua interezza la questione, evidentemente facendo prevalere il profilo della inviolabilità della personalità del soggetto passivo piuttosto
che la tutela del domicilio (artt.614, 615, 615 bis), l’inviolabilità dei segreti
o la riservatezza, libertà e segretezza delle comunicazioni (cfr. L. 8. 4 1974
n. 98).
Naturalmente ciò ha un’importanza relativa ai fini applicativi, ma è di particolare interesse registrare l’evoluzione culturale che consente di riconoscere
nuovi profili di tutela che fino a poco tempo fa non erano considerati, o restavano assorbiti in altri ambiti ora non più attuali.
I reati sessuali sono particolarmente significativi al riguardo. Così se il legislatore del 1930 considerava in primo luogo la tutela della moralità pubblica
e del buon costume, oggi i reati di sfruttamento sessuale sono considerati
delitti contro la personalità individuale, e quelli di violenza sessuale contro
la libertà personale.
Dunque la persona, la sua libertà e dignità sono al centro dell’interesse del
legislatore, anche con riferimento al diritto di cronaca, e non la tutela di
segreti riguardanti il momento processuale, che va assumendo un rilievo più
280
L’AVVOCATO DEL MINORE
marginale com’è confermato anche da qualche proposta di legge all’esame
del Parlamento. (6)
Perciò la dottrina molto opportunamente mette in rilievo che la norma incriminatrice posta dall’art. 734 bis c.p. prescinde dalla considerazione del processo. (7)
L’illecito penale infatti riguarda la divulgazione delle generalità o dell’immagine nei casi di delitti di sfruttamento e o violenza sessuale quando la vittima non abbia dato il suo consenso. Dunque, in ipotesi, il reato si consuma
anche prima del processo, ed anche se questo non potrà iniziarsi per mancanza di querela.
b) La protezione dei dati personali dei minori e soggetti deboli, è diventato
anche un dovere deontologico del giornalista.
Infatti la legge 675 del 1996 (artt. 12 e 20).eccettua dalla regola del consenso il trattamento, la comunicazione e la diffusione dei dati personali anche
sensibili (e cioè idonei a rivelare l’origine razziale od etnica, le convinzioni
filosofiche... lo stato di salute e la vita sessuale) effettuate nell’esercizio della
professione del giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative
finalità, purchè nel rispetto dl codice di deontologia di cui all’art. 25, nei
limiti del diritto di cronaca ed in particolare dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti d’interesse pubblico.
La sintesi espositiva di queste elaborate disposizioni non può minimizzare il
delicato equilibrio perseguito dal Legislatore, attraverso l’azione del Garante
per la protezione dei dati personali nei confronti del Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei Giornalisti.
Nell’art. 1 (Principi generali) del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (G. U. del 3. 8.
1998 n. 179) si legge infatti: “Le presenti norme sono volte a contemperare
i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa.”
Nell’art. 7 (Tutela del minore) il codice stabilisce che al fine di tutelare la
personalità del minore il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro
identificazione. * La tutela della personalità del minore si estende, tenuto
conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano
specificamente reati. * Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca; qualora tuttavia per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i
limiti della legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini
riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la
pubblicazione sia davvero nell’interesse oggettivo del minore, secondo i
principi ed i limiti stabiliti dalla <carta di Treviso>.
Nell’art. 8 (Tutela della dignità delle persone) si legge che il giornalista,
salva l’essenzialità dell’informazione, non fornisce notizie o non pubblica
immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della
dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. * Salvo rilevanti motivi d’interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto in stato di detenzione senza il
281
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
consenso dell’interessato. * Le persone non possono essere presentate con
ferro e manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi.
Nell’art. 10 (Tutela della dignità delle persone malate) si prevede che il giornalista nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona,
identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza
ed al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si
astiene dal pubblicare dati analitici d’interesse strettamente clinico. * La
pubblicazione è ammessa nell’ambito del perseguimento della dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona se
questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica.
Infine nell’art. 11 (tutela della sfera sessuale della persona) si stabilisce il
dovere deontologico del giornalista di astensione dalla descrizione di abitudini sessuali riferite ad una determinata persona identificata o identificabile, salvo che si tratti di persona che rivesta una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica.
Il confronto tra le previsioni legislative e quelle del codice deontologico dei
giornalisti è illuminante.
Mentre le prime, soprattutto le meno recenti, assicurano una tutela frammentaria, meno diretta e mirata, le norme deontologiche considerano in modo non
occasionale il rapporto tra diritto di cronaca e tutela dei soggetti deboli e
della dignità delle persone.
Così il diritto di riservatezza si arricchisce di nuove connotazioni, perfettamente aderenti all sua natura di diritto fondamentale della personalità, ma
allo stesso tempo modulate a determinate condizioni personali e sociali che
non debbono influire sulla pari dignità di tutti i cittadini, ed anzi richiedono
l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà (art. 2 Cost.) ed un’azione specifica della Repubblica in tutte le sue articolazioni per rimuovere gli
ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza ed impediscono il
pieno sviluppo della persona umana. (art. 3 Cost.)
Lo strumento deontologico appare particolarmente adeguato al disegno costituzionale perché se ha impegnato il Garante ed il Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei Giornalisti, e cioè istituzioni dello Stato, dall’altro richiede
pressantemente a ciascun operatore dell’informazione l’adempimento dei
doveri di solidarietà indicati dalla Costituzione ma precisati nel codice che
gli stessi giornalisti si sono dati.
Queste considerazioni naturalmente non esauriscono il problema dell’effettività della tutela, che non può esaurirsi sul piano disciplinare, soprattutto se
l’eventuale comportamento antidoveroso del giornalista produce conseguenze lesive anche al di là della mera violazione della riservatezza. Pur tuttavia
le norme deontologiche costituiscono un importante banco di prova che consentirà di verificarne l’efficacia deterrente rispetto a quelle penali notoriamente poco incisive.
Passando ad un esame dei contenuti, emerge innanzi tutto l’estensione della
tutela della riservatezza dei minorenni anche rispetto a fatti di cronaca non
rilevanti dal punto di vista penale, o comunque giudiziario. È stato accolto
così l’auspicio emerso a conclusione dei lavori del seminario svoltisi presso
il Centro Ettore Majorana di Erice nell’ottobre del 1987 con la partecipazione di giornalisti, magistrati, esperti di psicologia, docenti e studiosi di scien282
L’AVVOCATO DEL MINORE
ze sociali.
Era stato infatti raccomandato il divieto di divulgazione di dati che consentano la riconoscibilità del minore comunque coinvolto in procedimenti civili o
amministrativi, o in episodi che pur non riguardando procedimenti giudiziari (es. tentativi di suicidio, problemi psichiatrici, fughe da casa, ecc.) possano ledere la sua immagine, in analogia con quanto già previsto per i procedimenti penali.
L’art. 7 prevede la possibilità che il giornalista decida responsabilmente, nel
rispetto dei limiti di legge, di diffondere ugualmente notizie o immagini
riguardanti minori. In tal caso il Codice fa riferimento alla Carta di Treviso,
che costituisce così un parametro obbiettivo di principi e limiti accolti e riconosciuti sia dai giornalisti che dall’importante associazione non governativa,
Telefono Azzurro, particolarmente attiva nel campo della tutela dei minorenni, che aveva promosso l’elaborazione del documento.
Significativa è la raccomandazione contenuta nella Carta con cui si sottolinea
“che in casi di soggetti deboli, l’informazione sia il più possibile approfondita, con un controllo incrociato delle fonti, con l’apporto di esperti, privilegiando se possibile servizi firmati e in ogni caso in modo da assicurare un
approccio al problema dell’infanzia che non si limiti all’eccezionalità dei
casi che fanno clamore, ma che approfondisca - con inchieste, speciali,
dibattiti, le condizioni del minore, e le sue difficoltà nella quotidianità.” In
altri termini si è posto l’accento sulla qualità dell’informazione, qualora un
rilevante interesse pubblico renda inevitabile l’esercizio del diritto di critica
e di cronaca.
Anche le altre previsioni riguardanti la tutela della dignità e della sfera intima delle persone (artt. 8, 10 ed 11) esprimono la medesima attenzione ai
diritti della persona con riferimento a specifiche condizioni personali e sociali che potrebbero vulnerare il principio di eguaglianza e pari dignità.
È interessate comparare questo approccio alla delicata questione dei limiti
alla libertà di cronaca con quello seguito negli anni passati per rendersi conto
del vistoso cambiamento culturale che è in atto ai nostri giorni.
La dottrina in passato riteneva che il diritto di cronaca, oltre ai limiti civili e
penali posti a tutela della persona ed a quelli in difesa dei segreti, incontrasse limiti in funzione dell’ordine pubblico, di quello familiare e del buon
costume. (8)
L’art. 14 della legge 8 febbraio 1948 n.° 47 sulla stampa estende l’applicazione delle pene previste dall’art. 528 c. p. (reclusione fino a tre anni e multa)
a coloro che diffondono pubblicazioni destinate ai fanciulli ed adolescenti
quando per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie siano comunque
idonee a offendere il loro sentimento morale, od a costituire per essi un incitamento alla corruzione, al delitto, al suicidio. L’art. 15 prevede le stesse
pene anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi, o
anche soltanto immaginari, in modo da poter provocare il diffondersi di suicidi e delitti.
L’articolo 562 c. p. punisce con la multa chiunque nella cronaca dei giornali
o di altri scritti periodici, nei disegni che ad essa si riferiscono, ovvero nelle
inserzioni fatte a scopo di pubblicità sugli stessi giornali o scritti espone o
283
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare.
Prescindendo dalla disperante inattualità di queste disposizioni che si riferiscono solo a scritti periodici e stampati e non tengono conto dei nuovi mezzi
di comunicazione di massa, va sottolineato l’approccio idealistico-istituzionale, in cui i diritti della persona sono assorbiti, hegelianamente superati, ed
alla fine vanificati.
D’altra parte il pluralismo culturale della moderna società di massa impedisce una sicura identificazione della morale delle famiglie e dello stesso buon
costume tanto che già il Nuvolone rilevava la pratica inapplicazione degli
artt. 14 e 15 della legge sulla stampa e la potenziale incostituzionalità dell’art. 565 c.p. per violazione al principio di libertà di stampa.
L’inattualità delle ricordate disposizioni penali testimonia la carenza di tutela fino ad oggi verificatasi. I cambiamenti sono stati così vorticosi che quasi
è mancato il tempo per la maturazione di una nuova legislazione.
Dunque anche sotto questo profilo la produzione di norme deontologiche
provocata dalla legge 675 del 1996 sul trattamento dei dati personali costituisce un’importante novità, che consentirà di verificare l’efficacia di nuove
forme di tutela dei diritti fondamentali della persona.
4. PUBBLICITÀ DEGLI ATTI E PUBBLICITÀ DEL DIBATTIMENTO
e disposizioni che abbiamo prima esaminato si riferivano soprattutto alla
Ldiziaria,
tutela della riservatezza e della dignità personale rispetto alla cronaca giuma ne esistono altre, specialmente nel codice di procedura penale,
che prevedono speciali forme di tutela dei soggetti deboli e dei minori. In
questi caso però la legge considera la particolare condizione sociale - o personale - di questi soggetti (per esempio l’assoggettamento al processo dell’imputato e l’obbligo di deporre cui è tenuto chi è stato testimone di un fatto
rilevante per la giustizia) non solo per la tutela dei diritti di personalità e la
garanzia della loro dignità, ma anche per salvaguardare il loro ruolo di protagonisti a vario titolo del processo penale.
Ci sono poi altri profili d’interesse da tutelare strettamente intrecciati ai precedenti, che aumentano la complessità delle questioni in funzione dei necessari bilanciamenti. Esaminiamoli.
L’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo prevede che ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza ... davanti
ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge ... la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala udienza può essere vietato alla stampa ed al pubblico durante tutto o una parte del processo
nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico ... quando lo esigono gli
interessi dei minori, o la tutela della vita privata delle parti nel processo,
nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia
L’esame di questa disposizione dà una visione abbastanza precisa dell’intreccio dei problemi cui si accennava.
a) In primo luogo la pubblicità dell’udienza costituisce uno dei caratteri del
processo La dimensione pubblica è connaturata all’amministrazione della
284
L’AVVOCATO DEL MINORE
giustizia innanzitutto perché questa realizza uno dei tre poteri dello stato
che sostanziano la sovranità popolare (C. Cost. sent. 12 del 1971) La regola della pubblicità però è anche una fondamentale garanzia per il cittadino, ed assicura il controllo del corretto svolgimento del processo e dell’imparzialità del giudizio (C. Cost. sent. n.12 del 1965);
b) dunque la pubblicità assolve anche ad un’altra funzione, quella di consentire al cittadino direttamente, o agli operatori dell’informazione di informarsi e d’informare.
c) Tuttavia durante lo svolgimento dell’udienza si possono verificare fatti o
possono determinarsi circostanze che pregiudicano l’interesse dei minori
coinvolti;
d) o mettono in pericolo la vita privata delle parti del processo;
e) ovvero compromettono gli interessi della giustizia.
La questione della pubblicità naturalmente riguarda anche la fase delle indagini preliminari e comunque quella precedente - o alternativa - alla celebrazione del dibattimento.
La pubblicità degli atti è regolata dagli articoli 114 e 329 del c.p.p. per assicurare un equilibrato soddisfacimento a) del segreto necessario per lo sviluppo delle indagini; b) dell’interesse dell’indagato o dell’imputato alla riservatezza e nello stesso tempo alla conoscenza di atti che lo riguardano; c) del
diritto dell’opinione pubblica di essere informata sull’andamento del processo.
Il regolamento bilanciato di questi interessi è realizzato differenziando le
forme ed i tempi della tutela.
Così il divieto di pubblicazione degli atti (con il mezzo della stampa o con
altro mezzo di diffusione) riguardarà la riproduzione totale o parziale dell’atto, mentre “è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non
coperti dal segreto” (art. 114 co. 7 c.p.p..). Tuttavia per la riproduzione degli
atti sono previste diverse estensioni temporali e tipologie di divieti (art. 114
co. 1-6 c.p.p..) che hanno anche la finalità di preservare la neutralità psicologica del giudice che sarà investito del procedimento.
Come è noto il nuovo codice attribuisce in primo luogo alle parti il diritto di
provare davanti al giudice i fatti rilevanti per la decisione (artt. 187, 191, 495
e segg. C.p.p.), e conseguentemente fa divieto a quest’ultimo di utilizzare
prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento (art. 526
c.p.p.).
Perciò è fondamentale che il giudice conosca solo gli atti che si formano
davanti a lui o che si acquisiscono nel corso del dibattimento (a parte quelli
che eccezionalmente sono già raccolti nel fascicolo del dibattimento ex art.
431 c.p.p.).
Il principio dell’oralità, uno dei cardini del sistema accusatorio, richiede dunque il rapporto diretto tra il giudice e la prova ed impone di evitare che una
intempestiva conoscenza dei fatti possa turbare l’immediatezza di questo rapporto.
Dunque intorno alla questione della pubblicità ruotano interessi distinti e
concorrenti che impongono accorti bilanciamenti, ma anche scelte ineludibili.
Bisogna prendere atto che il nuovo codice, nel consentire “sempre” la divul285
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
gazione del contenuto di atti non coperti dal segreto, ha voluto privilegiare il
diritto dell’opinione pubblica ad essere informata sull’andamento del processo. Questo diritto prevale non solo sull’interesse alla riservatezza della persona sottoposta alle indagini (o dell’imputato) ma anche sul rischio che una
conoscenza anticipata ed impropria dei risultati delle indagini (e cioè extra
dibattimentale) possa influire sul convincimento del giudice. A tal proposito
la relazione al progetto preliminare del codice rileva che il “giudice del
dibattimento, se può essere influenzato dalla pubblicazione degli atti veri e
propri, è in grado di non fondare il proprio convincimento su notizie di stampa più o meno generiche e prive di riscontri documentali riguardanti il contenuto degli atti” (9)
Di fronte alla travolgente interazione tra mezzi di comunicazione di massa e
indagini preliminari sperimentata soprattutto all’epoca delle inchieste giudiziarie su tangentopoli è stato rilevato che la grande distanza nel tempo tra il
fatto e la definizione del giudizio attribuisce alle indagini preliminari, agli
istituti processuali in genere, accanto alla loro funzione endoprocessuale la
funzione extraprocessuale propria del giudicato, e cioè quella di prevenzione
generale e speciale, di controllo sociale.
La trasformazione della cronaca giudiziaria in cronaca politica, delle istruttorie in inchieste, insomma il rilievo politico assunto dall’attività giudiziaria
hanno deformato i rapporti tra gli interessi in gioco mortificando la tutela
della riservatezza a vantaggio del potere d’informazione. (10)
Alla fine le persone interessate possono trovarsi esposti ad una pubblicità
non equa (cfr. art. 6 co. 1° Conv. Salv. Dir. Uomo) perché sostanzialmente
estranea alla dimensione giudiziaria, ed alla considerazione bilanciata degli
interessi rilevanti per il sereno e regolare svolgimento del processo, come
meglio appresso si vedrà.
Dunque la pubblicità degli atti di indagine e del dibattimento ripropone problemi di tutela delle persone interessate, problemi che evidentemente possono essere aggravati dalle loro condizioni personali e sociali. Le norme di
tutela tuttavia debbono tener conto, come si è detto, anche degli interessi
della giustizia e di quelli dell’informazione.
5. TUTELA PROCESSUALE DELLA DIGNITÀ PERSONALE
ED INTIMITÀ DEI SOGGETTI DEBOLI, ED IN PARTICOLARE
DELLE VITTIME DEI REATI SESSUALI.
nuovo codice di procedura penale, oltre alle tradizionali guarentigie delI70,ll’imputato
tendenti ad assicurarne anche il rispetto della dignità (artt. 64,
71, 474, 503 co. 2 in relazione all’art. 499 c.p.p.) contempla anche alcune disposizioni miranti a tutelare i diritti della personalità degli altri soggetti coinvolti nel processo, in primo luogo della vittima.
Quella della vittima è una condizione personale e sociale che può influire
negativamente sul normale sviluppo della personalità.
Personale, per il trauma fisico e morale prodotto da certi reati, soprattutto
quelli sessuali, che comportano una violenza esercitata nella sfera fisica e
psichica.
Sociale, per l’attenzione e curiosità spesso morbosa che il crimine può inge286
L’AVVOCATO DEL MINORE
nerare nella gente, contrassegnando negativamente l’immagine di chi l’ha
subìto, eventualmente proprio per la degradazione patita, e talvolta anche per
valutazioni sospettose e malevole sulla contiguità della vittima con l’aggressore.
Di qui la tutela della riservatezza di cui già si è detto sopra (cfr. § 3). A questa si aggiunge anche quella processuale, che mira ad attenuare l’invasività
delle prove che la persona offesa dovrà sopportare nel corso del giudizio perchè al danno subìto con il reato non si sommi quello che potrebbe derivarne
da determinate attività processuali.
La tutela della vittima del reato è focalizzata sulla testimonianza, sia perchè
si tratta di una prestazione obbligatoria in vista delle esigenze del processo,
sia per la possibilità di domande invasive della sfera privata o addirittura intima della persona, talvolta necessarie per valutare la credibilità del dichiarante. Ed infatti l’art. 194 c.p.p. ammette la deposizione su fatti che servono a
definire la personalità della persona offesa, solo quando l’azione dell’imputato dev’essere valutata in relazione al comportamento di quella.
Non va dimenticato che l’esame incrociato previsto dall’art. 498 c.p.p. esalta la contrapposizione tra i punti di vista dell’accusa e della difesa e può sottoporre il testimone, soprattutto se si tratta della persona offesa che in genere è la fonte principale dell’accusa, a forti pressioni psicologiche per il modo
eventualmente serrato, stringente in cui si sviluppa il controesame, che per
sua natura tende sia a mettere in evidenza eventuali contraddizioni della versione fornita dal teste nella fase diretta, sia a saggiarne comunque la credibilità con domande che ne fanno emergere la personalità.
Nei procedimenti relativi a reati sessuali quasi sempre l’azione dell’imputato deve essere valutata in relazione al comportamento della persona offesa,
soprattutto nell’ipotesi di cui all’art. 609 bis co.2° c.p. di induzione a compiere o subire atti sessuali. Perciò il legislatore ha considerato l’imbarazzo,
la sofferenza il turbamento della presunta vittima, inevitabile quando si tratta di ricostruire un episodio che la coinvolse intimamente sia sotto il profilo
fisico che psicologico - emotivo.
Accanto alla necessità della tutela della persona e della sua dignità c’è anche
quella di assicurare la genuinità della prova, poiché è evidente che il turbamento del teste può risolversi nell’inquinamento delle sue dichiarazioni.
Ecco dunque che una serie di disposizioni generali affida al presidente la
responsabilità di assicurare il rispetto della persona di chi adempie al dovere
della testimonianza, e la genuinità della prova. Si parla in questo caso di
audizioni protette. Altre disposizioni speciali prendono in considerazione,
sempre per gli stessi fini, la condizione di particolare debolezza del minorenne e comunque della vittima dei reati sessuali.
Le disposizioni che ci interessano sono dunque le seguenti.
- Il presidente cura che l’esame del testimone sia condotto senza ledere il
rispetto della persona; sono vietate le domande che possono nuocere alla
sincerità delle risposte, ed in particolare quelle suggestive; durante l’esame il presidente anche d’ufficio interviene per assicurare la pertinenza
delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame, e la correttezza delle contestazioni. (art. 499 c.p.p)
- L’esame del minorenne può essere condotto dal presidente su domande e
287
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
contestazioni delle parti se si ritiene che quello incrociato possa nuocere
alla serenità del teste. Il presidente può avvalersi dell’ausilio di un familiare o di un esperto in psicologia infantile. Può anche stabilire che l’esame si svolga con le modalità dell’art. 398 co. 5 bis. (art.498 c.p.p.)
- La Corte Costituzionale con la sentenza n. 283 del 1997 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 498 c.p.p. nella parte in cui non consente, nel caso di testimone maggiorenne infermo di mente che il presidente,
sentite le parti, ove ritenga che l’esame del teste possa nuocere alla sua
personalità, ne conduca direttamente l’esame su domande e contestazioni
proposte dalle parti.
In caso di procedimenti riguardanti reati sessuali (L. 66/96 e L. 269/98)
- Si può sempre procedere con incidente probatorio all’assunzione della
testimonianza di un infrasedicenne (art. 392 co 1 bis c.p.p.)
- Con l’ordinanza con cui ammette l’incidente probatorio, quando all’assunzione della prova è interessato un minore infrasedicenne, a) il giudice stabilisce luogo tempo e modalità particolari adeguate alle esigenze del
minore. b) le dichiarazioni testimoniali debbono sempre essere documentate integralmente con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva.
(art. 398 co. 5 bis c.p.p.)
- L’esame del minorenne vittima del reato su richiesta sua o del suo difensore viene effettuato mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un
impianto citofonico. (art. 498 co. 4° ter c.p.p.)
- Il minore infrasedicenne, testimone o imputato di reato connesso che ha
già reso dichiarazioni in sede d’incidente probatorio, oppure in altri procedimenti (quando i relativi verbali sono stati acquisiti ai sensi dell’art.
238 c.p.p.) può essere esaminato solo se il giudice lo ritiene assolutamente necessario. (art. 190 bis)
- Non sono comunque ammesse domande sulla vita privata e sessuale della
persona offesa se non necessarie alla ricostruzione dei fatti. (art. 472
c.p.p.)
L’applicazione di queste disposizioni ha evidenziato la persistenza di pesanti condizionamenti che evidentemente non si possono superare con la semplice vigenza delle nuove norme.
In special modo l’audizione c.d. protetta dei minorenni presunte vittime di
abusi sessuali, in mancanza di una cultura processuale attenta alle esigenze
di protezione dei soggetti deboli, può dar luogo a pericolose sovrapposizioni
di problemi.
Si confonde infatti la questione della capacità di testimoniare del bambino,
specialmente se molto piccolo, (art. 196 c.p.p) con quella della sua protezione. Così l’esperto in psicologia infantile di cui il giudice può avvalersi nel
corso dell’esame protetto talvolta viene utilizzato (ovvero egli stesso ritiene
di dover interpretare il suo ruolo) per superare gli ostacoli di comunicazione
tra il piccolo sparuto testimone ed il mondo degli adulti che gravità su di lui.
L’incidente probatorio protetto (la cui video registrazione obbligatoria consente almeno di riflettere sulla correttezza ed adeguatezza dell’esame) si trasforma spesso in un esame caratterizzato dall’uso di mezzi sofisticati diretti
essenzialmente al conseguimento di un risultato processualmente apprezzabile, anche se la sola proposizione delle domande determina evidentissime rea288
L’AVVOCATO DEL MINORE
zioni di intollerabile sofferenza del bambino inquisito.
Nei processi per presunto abuso sessuale la mancanza di ogni riscontro
obbiettivo accresce fatalmente la violenza di tali pratiche, specialmente
quando l’accusa è stata veicolata da uno dei genitori, nei confronti dell’altro.
In tali casi, per esempio, la disposizione di cui al 4° comma dell’art.498
c.p.p. (nell’esame il presidente può avvalersi dell’ausilio di un familiare) è
stata applicata per consentire alla madre denunciante d’interrogare insieme
all’esperto la propria bambina, assommandosi così le sue pressioni di carattere affettivo a quelle rivelatesi insufficienti del tecnico.
La violenza non è esaltata solo dalla maggiore vulnerabilità emotiva del bambino, ma soprattutto dalla sua totale incapacità di sottrarsi, di affrontare in
termini difensivi l’esame, come può invece l’adulto.
È evidente che in questi casi, se non ci si pone la questione del limite della
testimonianza in relazione alla capacità del piccolo testimone di rendere una
dichiarazione senza per questo dover sopportare sofferenze intollerabili, e
comunque, nel bilanciamento degli interessi in gioco, non proporzionate, sarà
stato inutile aver attribuito al giudice il potere di conduzione dell’esame, e
quello di non ammettere il nuovo esame dell’infrasedicenne già sentito in
sede d’incidente probatorio (art. 190 bis c.p.p.).
Infine va ricordato che l’esame dell’imputato nel processo penale minorile è
condotto dal presidente. I giudici, il pubblico ministero ed il difensore possono proporre al presidente domande o contestazioni da rivolgere all’imputato. (art. 33 co. 3°)
La disposizione, diversamente da quanto è previsto dall’art. 498 co. 4° c p p
per l’esame testimoniale del minorenne, deroga in modo assoluto ai principi
del processo accusatorio. Non è prevista dunque la possibilità che l’esame
prosegua nelle forme ordinarie quando si ritiene che non sussistono pericoli
per la personalità del minore e per le sue esigenze educative.
Poiché la norma si riferisce all’imputato tout court, alcuni ritengono che la
disposizione si applichi anche a chi al momento del processo sia diventato
maggiorenne.(11)
In effetti nello stesso articolo si registrano due atteggiamenti diversi del
legislatore. Al comma 3° si valorizzano le potenzialità dell’imputato che
abbia compiuto i sedici anni, che può dunque richiedere la pubblicità dell’udienza, rinunciando alla tradizionale tutela dell’udienza a porte chiuse. Al
comma 3° invece prevale la sua debolezza insuperabile che addirittura si
proietterebbe anche in un momento successivo al raggiungimento della maggiore età.
Si realizza dunque un’irragionevole violazione del giusto processo nonostante il contrario orientamento delle Regole di Pechino (art. 14 co.1). La questione è particolarmente attuale a seguito della modifica dell’art. 111 della
Costituzione. (12)
289
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
NOTE
1
DOGLIOTTI M. I diritti dei minori e la Convenzione dell’ONU, in Dir.
Fam. E delle Pers., 1993,, 301
2 GIACOBBE G. Riservatezza, in Enciclopedia del Diritto, vol. XL, Giuffrè,
Milano 1967
3 MC LUHAN Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967
4 SERGIO G. Art. 33 (Udienza dibattimentale), in Codice di Procedura
Penale Minorile Commentato, in Esperienze di Giustizia Minorile 1989 n° 1
-4
5 MORO C. A. Diritto Minorile, Zanichelli Bologna 1996
6 Cfr. C. Deputati, P. d. L. n.° 4622 Pisapia: Modifica dell’art. 684 del codice
penale).
7 MANNA Aart. 12, in Commentario delle norme contro la violenza
sessuale, CEDAM, Padova 1996
8 NUVOLONE P. Libertà di cronaca, in Enciclopedia del diritto, vol XI
Giuffrè Milano 1962
9 Cfr. Relazione al progetto preliminare del c.p.p., pag. 97).
10 BRICOLA F. Il cittadino innanzi al segreto istruttorio ed al diritto
d’informazione. in FORZA A. (a cura di) Cronaca Giudiziaria e diritti del
cittadino, Canova, Venezia 1998, 215
11 DI NUOVO S. GRASSO G. Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè
Milano 1999 pag. 280
12 Analoga irragionevole forma di tutela è prevista dall’art. 25 che non
consente all’imputato, neppure se nel frattempo diventato maggiorenne, di
ottenere l’applicazione della pena su richiesta. Cfr. l’ord. 13. 4 1999 del
Trib. Min. di Venezia, est. Campanato, in G. U. prima serie n. 36 del 1999
con cui è stata sollevata questione di legittimità costituzionale. La C.
Costituzionale ha però ribadito la legittimità costituzionale della
disposizione con la sentenza 272 del 12 luglio 2000.
290
L’AVVOCATO DEL MINORE
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
BRICOLA F. Il cittadino innanzi al segreto istruttorio ed al diritto
d’informazione, in Cronaca giudiziaria e diritti del cittadino a cura di
FORZA A., Canova Venezia 1998
DI NUOVO S. GRASSO G. Diritto e procedura penale minorile, Giuffrè
Milano 1999 pag. 280
DOGLIOTTI M. I diritti dei minori e la Convenzione dell’ONU in Dir Fam, e
delle Pers. 1993, 301
GIACOBBE G. Riservatezza in Enciclopedia del diritto vol XL Giuffrè Milano
1989)
MANNA A. Art. 12 in Commentario delle norme contro la violenza sessuale,
CEDAM Padova 1996
Mc LUHAN M., Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967
MORO A. C. Diritto Minorile Zanichelli Bologna 1996
NUVOLONE P. Libertà di cronaca in Enciclopedia del Diritto vol. XI Giuffrè
Milano 1962
SERGIO G. Art. 33 (Udienza dibattimentale) in Codice di Procedura Penale
Minorile commentato Esperienze di Giustizia Minorile Roma 1989
SERGIO G. Processo penale e mass media in Documenti giustizia 1995 n. 1-2
pp.56
291
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
SOMMARIO
1. IL (FALSO?) PROBLEMA:
CHI È L’”AVVOCATO DEL MINORE”?
LA CONTRAPPOSIZIONE TRA LE RAGIONI
DELLA PROTEZIONE DEL MINORE E QUELLE
DELLA AUTONOMIA DEL BAMBINO
1. Il (falso?) problema: chi è l’”avvocato del
minore”? La contrapposizione tra le
ragioni della protezione del minore e
quelle della autonomia del bambino
2. Verso il superamento della
contrapposizione: le peculiarità del
cliente/bambino
3. Il (vero?) problema: chi è il bambino? Le
peculiarità del bambino /cliente
4. Le zone d’ombra tra capacità ed incapacità
5. Riflessioni conclusive
Note
Riferimenti bibliografici
IL “DILEMMA
DELL’AVVOCATO DEL
MINORE”
NELL’ESPERIENZA
AMERICANA
AVV.
CARLA
MARCUCCI
PRESIDENTE AIAF TOSCANA
292
P
er un ordinamento giuridico come quello italiano, che solo recentemente ha introdotto, ma non
ancora reso operativa, la figura dell’avvocato
del minore, l’esperienza americana costituisce senz’altro un riferimento ricco di spunti, da studiare
attentamente per affrontare in anticipo i problemi che
anche da noi porrà l’attuazione dell’istituto e far
tesoro del dibattito esistente all’estero su questioni cruciali per la sua
migliore realizzazione.
In Usa, infatti, vi è un esperienza
ormai quasi trentennale in tema di
rappresentanza dei diritti del minore
nei giudizi civili poiché risale al 1974
una legge federale - Child Abuse
Prevention and Treatment Act
(CAPTA) - che ha previsto sovvenzioni a favore degli Stati che avessero riconosciuto tale rappresentanza.
Prima di allora la rappresentanza dei
minori era conosciuta solo nei processi penali con imputato minorenne
(delinquency proceedings), dove cioè
erano in discussione Status offender
cases, introdotta a far data dal 1967
(leading case In Re Gault Arizona) a seguito di un intervento della Suprema
Corte che decretò l’applicazione del 14 Emendamento anche per i minori
(due process and equal protection of the law).
La rappresentanza del minore nelle aule civili, invece, era stata considerata inutile perché si riteneva che vi fossero già i giudici a proteggere bambini e ragazzi.
La legge federale CAPTA per la prima volta ha fatto riferimento proprio
alle procedure civili, in particolare a quelle relative ad allegazione di abusi
e trascuratezza (abuse and neglect proceedings), e dalla sua incentivazione
a prevedere una rappresentanza per i minori coinvolti in tali procedimenti
è nato un sistema di volontari su base nazionale conosciuto come CASA
(court appointed special advocates).
In questi trenta anni il dibattito è stato accesissimo grazie anche al prezioso contributo delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative
degli avvocati specializzati nel diritto di famiglia e minorile come, ad
esempio, la National Association of Counsel for Children (NACC), costituita venticinque anni fa, che conta attualmente più di 2.200 iscritti; la
L’AVVOCATO DEL MINORE
American Bar Association (ABA) nell’ambito della quale, sin dal 1958, è
stata organizzata la ABA Section of Family Law, con più di 10.400 iscritti
alla singola sezione; la American Academy of Matrimonial Lawyers
(AAML), fondata nel 1962, con oltre 1.500 iscritti.
Tutte queste associazioni hanno elaborato proprie linee guida contenenti
indicazioni e raccomandazioni circa il ruolo e la formazione dell’avvocato
del minore, nel tentativo di favorire una certa uniformità, almeno nell’ambito degli iscritti, visto che non esiste in America un unico modello, neppure all’interno di uno stesso Stato.
Ma i tre diversi orientamenti che emergono dai documenti testimoniano la
difficoltà di definire in modo uniforme le questioni più problematiche e
fanno si che il dibattito, dopo tanti anni, non possa ancora considerarsi
esaurito.
L’argomento maggiormente in discussione è costituito dall’individuazione
del ruolo dell’avvocato del minore, ovvero se questi debba rappresentare in
giudizio la volontà espressa dal cliente/minore
(the child’s expressed wishes) o se debba perseguire il miglior interesse del
minore, in ciò non affatto vincolato dai desideri manifestati da quest’ultimo (the child’s best interests).
Ai due estremi opposti si pongono il modello dell’avvocato/curatore speciale (the attorney/GAL), noto anche come modello ibrido (the Attorney
Guardian ad Litem Hybrid Model), da una parte, e quello dell’avvocato in
senso tradizionale (the traditional attorney), dall’altra. In quest’ultimo
caso la difesa è diretta dal cliente (client directed representation), nell’altro
dall’avvocato (advocate directed representation). Il dibattito sorto dal confronto tra queste diverse concezioni ha dato vita a quello che è stato significativamente chiamato il dilemma dell’avvocato del minore (the “dilemma
of the child’s attorney”).
Il primo modello individua una rappresentanza di tipo paternalistico in
virtù della quale l’avvocato, per il solo fatto di rappresentare un minorenne, non è vincolato a seguirne le indicazioni ed ha completa autonomia e
libertà nel perseguire davanti all’autorità giudiziaria l’obiettivo che egli
difensore ritiene essere nel migliore interesse del cliente/minore. Secondo
questa concezione l’avvocato si sostituisce completamente al giudizio del
cliente tanto che qualcuno non ritiene neppure necessario che lo incontri.
Il secondo modello, al contrario, afferma la necessità che l’avvocato svolga con il minore lo stesso ruolo che ha rispetto al cliente adulto non riconoscendo nel rapporto con il primo alcun aspetto peculiare che lo possa in
qualche misura differenziare. L’avvocato pertanto è strettamente vincolato
ad eseguire le istruzioni del cliente e a perseguire in giudizio l’obiettivo
espressamente posto da questi.
Gli aggettivi con i quali vengono definiti i due opposti tipi di rappresentanza sono significativi anche per chiarire il diverso atteggiamento dell’avvocato che agisce allo scopo di garantire il benessere dell’assistito, almeno
secondo l’idea che di tale benessere il difensore si è fatta, rispetto a colui
che si muove come rappresentante del cliente.
Nel primo caso si parla di difesa rilassata (relaxed advocacy) e nel secondo caso di difesa zelante (zealous advocacy) poiché si ritiene che solo in
293
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
quest’ultimo vengano mantenute intatte le caratteristiche peculiari della
difesa vera e propria.
Da una ricerca effettuata nel 1996 sembra che il 60% delle giurisdizioni
USA abbiano adottato il modello Attorney/GAL e che le leggi di 38 Stati
individuino il ruolo del rappresentante del minore, comunque lo chiamino,
nel senso di colui che deve perseguire il miglior interesse del minore pur
non avendo poi uniformità di vedute circa la individuazione di quest’ultimo concetto.
In realtà sembra che questa scelta sia dettata da ragioni economiche poiché
mancherebbero i fondi per pagare gli avvocati, necessari per una difesa in
senso tradizionale, mentre è comunemente utilizzato personale del CASA
(Court Appointed Special Advocates) per l’altro tipo di rappresentanza.
Nel mondo accademico, al contrario, prevale il modello tradizionale di
avvocato anche in riferimento alla rappresentanza del minore.
Per capire meglio la diversità di ruoli tra curatore speciale e avvocato è
bene ricordare, in via incidentale, che l’istituto del guardian ad litem è
stato importato dall’Inghilterra dai legislatori delle colonie e nella sua
accezione originale esso era nato a protezione del patrimonio ereditato da
minori nei confronti dei loro tutori.
Lo Stato aveva in tali giudizi un interesse a causa della tassazione delle
proprietà immobiliari e quindi, nel proteggere il minore erede, curava
anche i propri interessi.
In quel contesto il guardian ad litem era vissuto dunque in perfetta sintonia
con gli obiettivi della Corona e non era visto come soggetto legato da un
rapporto professionale con il bambino rappresentato ma piuttosto si poneva
sullo stessa lunghezza d’onda della Corte. L’obiettivo era quello di salvaguardare la proprietà immobiliare, non certo rappresentare il minore.
Riprendendo il filo del discorso è possibile osservare che le norme di carattere deontologico dettate in via generale per gli avvocati americani non
riescono ad orientare verso un modello o l’altro di avvocato del minore poiché soffrono di una certa contraddittorietà o comunque di una qualche dose
di ambiguità per quanto attiene la condotta prescritta nel caso di cliente
affetto da incapacità.
Da una parte, infatti, l’ABA Model Rules of Professional Conduct (Model
Rules) alla regola n.1.14, prevede in linea di principio, che anche rispetto
ad un cliente con ridotta capacità di assumere decisioni ponderate relativamente alla sua rappresentanza, l’avvocato debba svolgere il proprio ruolo
in termini tradizionali. Ipotizza, però, un’importante deroga, prevedendo in
caso di rischio di rilevante danno di carattere fisico, economico o di altro
tipo, una vasta gamma di misure che l’avvocato deve prendere a protezione del cliente, senza precisare chiaramente i criteri di scelta, se non per
linee generali (Nota 1).
D’altra parte, l’ABA Model Code of Professional Responsibility (Model
Code), alla Considerazione Etica n. 7-12, che pure ha ad oggetto i casi di
rappresentanza di clienti incapaci di prendere decisioni ponderate, non
richiama in alcun modo la necessità di stabilire tendenzialmente un rapporto professionale in termini tradizionali. Essa evidenzia invece la maggiore
responsabilità che in casi del genere ricade sull’avvocato ed ipotizza che
294
L’AVVOCATO DEL MINORE
questi nei procedimenti giudiziari possa essere costretto a prendere decisioni nell’interesse del cliente qualora quest’ultimo non abbia un legale rappresentante (Nota 2).
Esistono quindi indicazioni di carattere deontologico assai contraddittorie,
che non risolvono il dilemma relativo al ruolo dell’avvocato di un bambino
posto dai due diversi modelli ricordati.
2. VERSO IL SUPERAMENTO DELLA CONTRAPPOSIZIONE:
LE PECULIARITÀ DEL CLIENTE/BAMBINO
e la sostanziale insoddisfazione derivante dall’applicazione
Lnoadihasimmetria
entrambi questi modelli nella purezza della teoria sostenuta da ciascufatto si che in tempi recenti si sia andato configurando un nuovo
modello, cd. l’avvocato del bambino (the child’s attorney) dove, già nella
denominazione, si avverte la necessità di coniugare i due aspetti che le tesi
precedentemente esaminate avevano tentato di tenere separati, ciascuna
fedele ad uno solo.
Se da un lato, infatti, si ritiene necessario non tradire la funzione difensiva
propria del ruolo dell’avvocato (advocacy), dall’altro, si avverte l’esigenza
di adattare questa al fatto che si tratta pur sempre della difesa di un soggetto particolare, ossia un bambino (child).
In pratica il modello appena ricordato rappresenta il tentativo di bilanciare
l’autonomia che si vuole riconoscere alla persona del bambino (autonomy)
con la protezione che comunque gli si vuole riservare (beneficence), nella
convinzione che una fedeltà assoluta ed esclusiva all’uno o all’altro principio finirebbe per essere dannosa per il minore.
La teorizzazione di quest’ultimo modello è il frutto di una lunga elaborazione che ha visto le sue tappe più significative nei risultati del convegno
organizzato a New York nel 1995 dalla Fordham University School of Law
sul tema Ethical Issues in the Legal Representation of Children; nella pubblicazione, nel 1996, delle linee guida American Bar Association Standards
of Practice for Lawyers who Represent Children in Abuse and Neglect
Cases (ABA Standards); nella pubblicazione, nel 1997, del libro
Representing Children in Child Protective Proceedings: Ethical and
Practical Dimensions a cura della Professoressa Jean Koh Peters della Yale
University. L’associazione NACC ha poi proposto alcune modifiche ed
integrazioni agli Standards della ABA adottando, nel 1999, un testo conosciuto con il nome ABA Standards (NACC Revised Version) e divulgando,
nell’aprile 2001, anche delle vere e proprie “Raccomandazioni”, NACC
Recommendations for Representation of Children in Abuse and Neglect
Cases.
La sintesi operata dal modello cd. Child’s Attorney consiste in definitiva
nell’ammettere alcune eccezioni alla difesa zelante solo laddove il minore
non sia capace di dirigere la sua difesa, fattispecie nella quale si riconosce
come inevitabile un qualche grado di decisione sostitutiva da parte dell’avvocato. La previsione di questa eccezione alla regola, però non fa si che la
rappresentanza del minore appartenga ad un altro modo di fare l’avvocato
poiché sempre di difesa vera e propria si tratta.
295
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
Secondo la comune definizione data nelle due versioni delle Linee Guida
(ABA e NACC) con il termine “Child’s Attorney” s’intende, infatti, un
avvocato che fornisce prestazioni di carattere legale a favore di un bambino e che, nei confronti di quest’ultimo, ha gli stessi doveri di completa lealtà, riservatezza e competenza che ha nei confronti di un cliente adulto
(Standard A-1) mentre l’avvocato nominato “Guardian ad Litem” per un
bambino è un funzionario del Tribunale al quale è conferito l’incarico di
tutelare gli interessi del bambino senza essere vincolato dalle preferenze
espresse da questi (Standard A-2) (Nota 3)
Viene regolata in maniera uniforme anche la situazione di eventuale conflitto in cui possa trovarsi l’avvocato nominato come curatore speciale del
bambino prevedendosi che egli continui a svolgere il ruolo di difensore
rinunciando a quello di curatore e chiedendo la nomina di un curatore speciale senza rivelare le ragioni della richiesta (Standard B-2 ) (Nota 4)
Tale conflitto si verifica quando le preferenze espresse dal cliente/bambino
differiscano da quanto l’avvocato ritenga essere nel migliore interesse del
bambino stesso.
Le versioni delle linee guida delle due associazioni ABA e NACC si differenziano l’una dall’altra in modo significativo laddove, allo Standard B-4,
definiscono e regolamentano la relazione dell’avvocato con il cliente/bambino quando il professionista ritenga il cliente “incapace” sul presupposto,
comune ad entrambi gli orientamenti, che è compito dell’avvocato, e non ad
esempio del giudice, stabilire se il bambino stesso sia incapace in riferimento a ciascuna questione sulla quale dovrebbe dare istruzioni al professionista (Standard B-3 Client Under Disability) (Nota 5).
Nella versione ABA, infatti, lo Standard B-4, intitolato Preferenze del
Cliente, stabilisce una regola generale e tre eccezioni alla stessa (Nota 6).
In linea di principio l’avvocato deve rappresentare in giudizio le preferenze espresse dal bambino dopo averle comprese con modalità appropriate
alla fase di sviluppo del bambino medesimo e dopo avere consigliato il
cliente ed espresso il suo parere sulle questioni in discussione. Per tutto il
corso del giudizio l’avvocato deve seguire le indicazioni dategli dal cliente/bambino.
In tre casi particolari è richiesto all’avvocato un comportamento diverso:
1. se il bambino non può esprimere una preferenza, nel qual caso l’avvocato dovrà fare uno sforzo in assoluta buona fede per individuare comunque i desideri del bambino e sostenere in giudizio una posizione ad essi
coerente o richiedere anche la nomina di un curatore speciale;
2. se il bambino non esprime o non vuole esprimere alcuna preferenza circa
una specifica questione, nel qual caso l’avvocato dovrà individuare e
sostenere i cd. interessi legali del bambino (child’s legal interests);
3. se il bambino esprime una preferenza che, secondo il parere dell’avvocato, lo esporrebbe al rischio di un grave pregiudizio, nel qual caso l’avvocato potrà richiedere la nomina di un curatore speciale continuando,
per quanto lo riguarda, a svolgere il ruolo di avvocato a meno che la
posizione del bambino sia contraria alla legge o priva di qualsiasi fondamento.
Gli interessi legali del bambino vengono distinti dal più generico suo
296
L’AVVOCATO DEL MINORE
miglior interesse e sono i soli ritenuti perseguibili dal parte di un avvocato, sia pur nelle situazioni specificamente sopra indicate,
riservando il perseguimento dei child’s best interests esclusivamente al
curatore speciale.
Tali interessi legali vengono determinati sulla base di criteri oggettivi posti
dalla legge in relazione agli obiettivi del giudizio e non si affidano a valutazioni del tutto soggettive e discrezionali dell’avvocato, condizionate possibilmente dalle sue esperienze personali, dai suoi valori e dai suoi pregiudizi.
Essi vengono individuati, in primo luogo, nei bisogni specifici e nelle preferenze che anche un bambino che non può comunicare ha e che possono
essere compresi con l’aiuto di esperti; in secondo luogo, nell’obiettivo di
una sollecita soluzione del caso cosi che il bambino possa rimanere o tornare a casa o essere collocato in ambiente sicuro, stabile e tale da favorire
la sua crescita e, infine, nella utilizzazione di quella, tra tutte le alternative
possibili, che sia la meno negativa per il bambino e che lasci aperte altre
possibilità (Nota 7).
Nella versione NACC, invece, non si fa alcun ricorso alla categoria degli
interessi legali del bambino ritenendo anch’essi esposti al rischio di una
valutazione troppo soggettiva e si afferma apertamente che, nel caso in cui
il bambino non abbia la capacità di dirigere la difesa, in questo caso e solo
in questo caso, è consentita un’eccezione al modello predefinito come regola della difesa diretta dal cliente a favore di quella diretta dall’avvocato il
quale dovrà perseguire il miglior interesse del cliente/bambino sulla base di
una valutazione oggettiva di esso (Nota 8).
Sono espressamente individuati i seguenti criteri oggettivi, senza pretesa di
esaurire in tale elenco i parametri di riferimento:
1. individuazione della situazione del bambino attraverso una approfondita
e completa indagine;
2. valutazione del bambino al momento della decisione;
3. esame di ciascuna opzione possibile alla luce dei due paradigmi che
stanno alla base del benessere del bambino, ossia quello del genitore psicologico e quello della rete familiare;
4. utilizzazione del parere di esperti quali medici, professionisti della salute mentale, assistenti sociali ed altri.
Nel caso in cui il bambino sia capace di esprimere una sua posizione ma
l’avvocato ritenga che la stessa esponga il cliente al rischio di grave pregiudizio (condizione che non ricorre per il mero contrasto di idee tra avvocato e bambino) egli dovrà (e non potrà, come previsto nel modello ABA)
richiedere la nomina di un altro soggetto che svolgerà il ruolo di curatore
speciale mentre l’avvocato continuerà a rappresentare in tale veste il bambino. Tutto questo solo dopo avere inutilmente espletato in pieno la funzione di consulenza per rendere edotto l’assistito della negatività della posizione prescelta.
Nonostante i due modelli aderiscano entrambi al principio che vuole la
relazione tra avvocato e minore come la più simile possibile a quella tra
avvocato e adulto, quello NACC istituzionalizza, nel caso di incapacità del
bambino ad esprimere una propria posizione, un ruolo dell’avvocato del
297
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
minore molto simile a quello di un curatore speciale, cercando di limitare
la individuazione delle opzioni possibili nell’ambito del perseguimento dei
child’s best interests con alcune indicazioni.
Molto diversa da entrambe le posizioni delle due associazioni sopra ricordate è quella assunta dalla American Academy of Matrimonial Lawyers
(AAML) che, a sua volta, ha elaborato ed adottato nel 1995 linee guida note
come Representing Children: Standards for Attorneys and Guardians ad
Litem in Custody or Visitation Proceedings.
Tale diversità si rintraccia, oltre che nella individuazione del discrimine tra
capacità ed incapacità, di cui dirò in seguito, nella ricaduta che il giudizio
di incapacità del cliente/bambino ha sull’atteggiamento processuale dell’avvocato.
In tale caso, infatti, secondo gli AAML Standards l’avvocato del bambino
non deve difendere alcuna posizione in riferimento al risultato del giudizio
o alle questioni in discussione (Standard 2.7) per evitare che vengano così
sostenute posizioni del tutto personali dell’avvocato e deve limitarsi ad
assumere il ruolo di mero indagatore di fatti (attorney as fact-finder) in
modo da porre il giudice nella migliore condizione per adottare una decisione ponderata nel migliore interesse del bambino (Nota 9).
Questa tesi è stata particolarmente sviluppata da Martin Guggenheim
(1996), che della stesura degli AAML Standards è stato il referente, il quale
ha proposto un paradigma per la determinazione del ruolo di “Counsel” del
minore.
Secondo tale paradigma sono le norme sostanziali che individuano il ruolo
del rappresentante del minore che sarà deputato alla vera e propria difesa
solo laddove la norma sostanziale riconosca al minore uno specifico diritto
che sarà compito dell’avvocato far realizzare.
In particolare Guggenheim ritiene che i bambini molto piccoli non abbiano
alcun diritto sostanziale al controllo del risultato del giudizio, sia nei procedimenti aventi ad oggetto affidamento e regolamentazione degli incontri
con il genitore non convivente che in quelli relativi ad abuso e trascuratezza. Pertanto, in tali procedimenti, l’avvocato del bambino non dovrebbe
perorare alcun risultato, neppure quello richiesto dai suoi giovani clienti.
Recentemente, a fine aprile 2003, sono stati resi noti i risultati ai quali è
giunto il gruppo di lavoro che, nell’ambito della ABA Family Law Section,
ha elaborando le linee guida denominate Standards of Practice for Lawyers
Representing Children in Custody Cases.
Anche se il testo diffuso non impegna l’associazione, visto che non è stato
ancora approvato dalla “Camera dei Delegati”, pur tuttavia è interessante
farne già cenno perché introduce un’ulteriore figura, accanto a quella del
Child’s Attorney nell’accezione già nota, quale quella del Best Interests
Attorney, definito come “un avvocato che fornisce in modo indipendente
prestazioni legali allo scopo di tutelare i migliori interessi del bambino,
senza essere vincolato dalle istruzioni o dagli obiettivi da questi posti”
(così Standard II-B-2)(Nota 10).
Secondo tale impostazione sarà il giudice, al momento della nomina dell’avvocato, a precisare se il ruolo di questi debba essere quello di Child’s
298
L’AVVOCATO DEL MINORE
Attorney o di Best Interests Attorney, a seconda delle necessità del caso.
Nel testo non viene più usata l’espressione Guardian ad litem perché “Il
ruolo di “guardian ad litem” è diventato troppo confuso attraverso usi
diversi nei diversi stati, con connotazioni mutevoli” (Commento allo
Standard II-B) ed è espressamente escluso che la stessa persona possa svolgere più di un ruolo essendo molti elementi di ciascuno incompatibili gli
uni con gli altri.
Gli avvocati del bambino nominati nelle procedure di abuso e trascuratezza continueranno a regolarsi secondo le Linee Guida specifiche (1996) poiché la bozza in esame regolamenta solo le ipotesi di rappresentanza nelle
procedure relative all’affidamento in senso ampio.
3 - IL (VERO?) PROBLEMA: CHI È IL BAMBINO?
LE PECULIARITÀ DEL BAMBINO / CLIENTE
ean Koh Peters (1997/2001) ha segnalato la necessità di superare la polaJdenziando
rizzazione del dibattito in termini di best interests o wishes advocacy evicome la linea che divide le due tesi non possa essere netta tanto
che sarebbe difficile trovare oggi qualcuno che teorizzi il “pure best interests point of view” o il “pure whishes point of view”. Peters propone quindi un modello complesso che ha come concetto base quello che lei chiama
“the child-in-context”, ossia il bambino compreso utilizzando il suo punto
di vista e non quello dell’adulto in modo tale che il bambino stesso si riconosca in questo ritratto e lo avalli. Troppo spesso invece è l’avvocato che
diviene il contesto in riferimento al quale viene impostata la difesa.
Sia la difesa incentrata sull’interesse del bambino che quella che privilegia l’espressione della volontà di questi può egualmente risolversi in una
rappresentanza lacunosa perché profondamente distante dalla percezione
dell’essenza di quel bambino.
Incontrare un bambino in fretta e furia, parlargli pochi minuti e ritenere di
avere così scoperto cosa vuole è, secondo Peters, un modo profondamente
acontestuale di determinare come rappresentarlo. Similmente, decidere
cosa sia nel suo interesse basandosi su quanto appreso da colloqui con l’assistente sociale può condurre a risultati molto lontani dalla realtà di quel
bambino.
Ogni avvocato dovrebbe conoscere il cliente nel suo contesto ed assicurare
che la rappresentanza rifletta l’unicità di quel bambino o ragazzo, non rassegnandosi mai a catalogarlo in definizioni astratte e generiche che pure il
diritto offre: bambino abbandonato, trascurato, abusato e così via.
Poiché una conoscenza di questo tipo si raggiunge in gran parte parlando
con il bambino e venendo a conoscenza dei suoi desideri, della sua personalità e dei suoi valori, ed in ogni caso cercando di conoscere in profondità il bambino nel suo ambiente, la tesi è coerente con il principio di rappresentare i desideri del bambino.
Ma una effettiva difesa del bambino, come del resto anche quella di ogni
altro cliente, non significa estrapolare le affermazioni del cliente fuori dal
contesto in cui sono state rese e farsene portavoce in giudizio.
Solo le idee espresse consapevolmente dal bambino, dopo avere ricevuto
299
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
dal proprio avvocato piena informazione del modo in cui verranno usate e
delle conseguenze che potranno avere, possono essere considerate espressione dei desideri del bambino stesso.
Tale approfondita conoscenza del bambino non potrà che essere coerente
anche con il raggiungimento del suo migliore interesse.
Per meglio far capire ciò che intende con questo Peters riporta una sua
esperienza, in relazione alla quale non è rimasta soddisfatta del suo operato perché, a posteriori, ha ritenuto di avere tradito in quell’occasione il
principio del child-in-context.
Si tratta del caso noto come The Coke Bottle.
Peters era stata nominata avvocato di una bambina di sei anni in un giudizio relativo alla sua adozione da parte della persona alla quale era già affidata.
Per qualche ragione la Peters aveva una certa riluttanza ad informare la sua
giovane cliente del quadro giudiziario e del proprio ruolo di avvocato e,
durante il colloquio presso il suo studio, aveva tentato di capire i sentimenti della bambina verso la madre biologica e verso l’affidataria, senza
affrontare l’argomento del procedimento in corso ma aveva ottenuto da
questa solo risposte a monosillabi.
La giovane cliente giocherellava con una bottiglia di Coca Cola riempita
per 2/3 di liquido blu e per il resto di olio di arachide, gioco che aveva trovato sulla scrivania dell’avvocato e che rappresentava un dono che il fratello della Peters aveva fatto alla sorella quando erano ragazzi.
Ad un certo punto, mentre la Peters risponde ad una telefonata, la bambina
fa cadere la bottiglia che va in mille pezzi. La piccola è molto spaventata
della possibile reazione dell’avvocato e le chiede esplicitamente se sia
arrabbiata.
Alla risposta negativa la bambina esclama “You are nice, like Mrs. White
(l’affidataria). Not like Mommy” (“Tu sei buona, come la signora White.
Non sei come Mamma”).
Dopo avere ribadito questa differenza di atteggiamento tra la madre e l’affidataria la bimba ripiomba nel consueto atteggiamento silenzioso.
All’udienza la Peters riferisce al giudice i sentimenti che la bambina le
aveva manifestato nei confronti della madre e dell’affidataria ed il giudice
pronuncia l’adozione della stessa a favore della signora White.
Peters si rimprovera di non avere conosciuto la bambina nel suo contesto e
di non essersi fatta conoscere nel proprio contesto.
La bambina aveva fatto un’affermazione isolata, senza alcuna conoscenza
dell’uso che ne sarebbe stato fatto perché il suo avvocato non l’aveva informata del contesto giudiziario.
Inoltre non era stato indagato se, poco prima del colloquio, la bambina
avesse litigato con la madre o ricevuto un bel regalo dall’affidataria, ossia
si trattava d’interpretazione di una semplice frase completamente avulsa
dal contesto in cui era stata pronunciata.
Peters traccia un vero e proprio percorso che costituisce il modello di rappresentanza che porta il suo nome e che si suddivide in varie fasi, tutte
egualmente essenziali: l’ingresso nel mondo del bambino (Entering the
Child’s World), la decisione adottata nel mondo del bambino (Making
300
L’AVVOCATO DEL MINORE
Decisions in the Child’s World), il perseguimento dell’obiettivo della difesa (Pursuing the Goals of the Representation), l’uscita dal mondo del bambino (Leaving the Child’s World).
Durante tutte le fasi l’avvocato del minore dovrà rispettare alcuni principi
e porsi costantemente alcune domande, specificamente individuate, che lo
aiuteranno nel difficile compito di considerare centrale il mondo preesistente del minore, nel quale egli entra e permane per poco tempo, evitando di farsi sopraffare da elementi che appartengono al suo mondo, personale e professionale.
In particolare i tre principi (the three defaults) sono i seguenti:
1. il principio del legame (the relationship default)
2. il principio di competenza (the competency default)
3. il principio della difesa ed una alternativa (the advocacy default and an
alternative) dove il primo è la difesa dei desideri del bambino e la seconda la rappresentanza dell’interesse del minore
In virtù dei primi due principi l’avvocato deve stabilire una relazione con il
cliente, deve conoscerlo, ed esplorare a fondo la capacità di questi di contribuire alla sua rappresentanza.
Nel valutare la competenza del cliente l’avvocato dovrà cercare di incorporare ogni percentuale di contributo che il bambino può dare alla sua rappresentanza (“competency, in this context, is a dimmer switch”, ossia il concetto di capacità non si pone in termini di luce/buio, spento/acceso ma
conosce uno spettro di possibilità intermedie proprio come in un commutatore di luce).
L’avvocato dovrà servirsi del cliente prima di qualsiasi altra fonte di conoscenza e nella misura più grande possibile.
Il terzo principio dipenderà dal ruolo svolto dall’avvocato (a seconda delle
regole alle quali dovrà sottostare) ma in entrambe le alternative il rappresentante del bambino dovrà sempre informare chi deciderà il caso circa i
desideri espressi dal minore, qualunque sia il pensiero del rappresentante in
ordine al migliore interesse dell’assistito.
A questi principi si aggiungono tre ulteriori regole (Three Umbrella
Principles)
1. Impostare le proprie azioni sulla considerazione del child-in-context e
sulla teoria del caso;
2. Rispettare il proprio cliente, presente o assente che sia;
3. Coltivare il rapporto con le persone che fanno parte del mondo del bambino, tenendo conto della valutazione di queste relazioni da parte del
bambino.
Ed ancora, Peters propone sette domande che l’avvocato del minore
dovrebbe costantemente porsi per “mantenersi onesto” (seven questions to
keep us honest) che possono aiutarlo a scoprire “il capolavoro nascosto”
(the hidden masterpiece), ossia a scoprire quel bambino nascosto sotto le
impressioni, attese, speranze di cui tutti, adulti in genere ed anche professionisti, lo ricoprono celando così la sua vera natura proprio come un’opera d’arte sulla quale siano state ripassati strati di pittura per nasconderla.
Si tratta delle seguenti domande:
1. Nel prendere le decisioni circa la rappresentanza, sto facendo tutto quan301
AIAF
2.
3.
4.
5.
6.
7.
QUADERNO NUMERO
2004/1
to è possibile per vedere le questioni in discussione dal punto di vista del
mio cliente/bambino piuttosto che dal punto di vista di un adulto?
Il bambino ha capito tutto quanto posso spiegargli di ciò che sta accadendo nel caso che lo riguarda?
Se il mio cliente fosse un adulto, prenderei le stesse iniziative, adotterei
le stesse decisioni, lo tratterei nella stessa maniera?
Se decido di trattare il mio cliente in modo diverso rispetto a come tratterei un adulto in situazione analoga, in quale modo il mio cliente beneficerà concretamente grazie a quella deviazione dalla condotta abituale?
Posso spiegare al mio cliente il vantaggio che ne trarrà?
È’ possibile che stia prendendo decisioni nella fattispecie per gratificare
adulti coinvolti nel caso piuttosto che il cliente?
È possibile che stia prendendo decisioni nella fattispecie per mia gratificazione personale piuttosto che per il cliente?
La rappresentanza, nel suo complesso, riflette quanto è unico e peculiare di questo bambino?
4. LE ZONE D’OMBRA TRA CAPACITÀ ED INCAPACITÀ
punto è necessario capire come l’avvocato possa giudicare il
Aperquesto
bambino/cliente capace (unimpaired) piuttosto che incapace (impaired)
poi regolarsi sul comportamento da adottare in un caso o nell’altro.
Negli AAML Standards l’età di dodici anni è considerata lo spartiacque
(dividing line) per una presunzione, sia pure semplice, di assoluta incapacità (al di sotto) e di assoluta capacità (al di sopra) dove “le qualità essenziali che distinguono un cliente capace da uno incapace sono quelle che si
risolvono nella capacità di comprendere le questioni oggetto del contenzioso, di parlare in modo meditato del caso e degli interessi in gioco per il
cliente e di valutare le conseguenze delle possibili alternative” ( così nel
Commento allo Standard 2.2) (Nota 11).
A base di tale tesi viene richiamata la letteratura sullo sviluppo cognitivo
che individuerebbe tra gli undici ed i quattordici anni la fase di sviluppo più
alto rilevando peraltro che molti ragazzi raggiungono tale picco entro i
dodici anni. Inoltre, già a dodici anni i ragazzi godono di molti diritti fra i
quali quello alla libertà di parola e alla scelta dell’aborto. Ed ancora, da una
ricerca effettuata risulterebbe che i giudici tengano in grande considerazione le opinioni espresse dai dodicenni nelle cause relative al loro affidamento.
Tale tesi, che ha adottato l’età del minorenne come elemento oggettivo di
discrimine tra capacità ed incapacità, è stata criticata da coloro che ne
hanno posto in evidenza i limiti rispetto ad una più articolata valutazione
da effettuare caso per caso, in relazione a molte variabili.
In particolare, Ann M. Haralambie e Deborah L. Glaser (1995) sottolineano come la capacità del bambino di assumere decisioni relative alle questioni trattate in giudizio non vada valutata isolando il bambino dal rapporto che lo lega al suo avvocato perché è solo da questa partnership che possono trarsi argomenti per giudicare in ordine alla capacità.
In sostanza, non si potrà non considerare l’aiuto che al bambino verrà dal
302
L’AVVOCATO DEL MINORE
rapporto con l’avvocato in termini di capacità la quale potrà anche essere il
risultato di questa collaborazione.
Le Autrici rifiutano in ogni caso qualsiasi predeterminazione rigida di un
limite tra capacità ed incapacità e l’alternativa perentoria tra totale incapacità/totale capacità e concordano con quanto hanno evidenziato in tema di
processo decisionale in contesto medico Allen E. Buchanan e Dan W. Brock
(1989) “L’affermazione che una persona sia (o non sia) capace è parziale.
La capacità è sempre capacità per uno specifico compito- capacità di fare
qualcosa….Il concetto stesso di capacità di assumere decisioni è incompleto di per se fino a che non siano specificate la natura della scelta e le condizioni nelle quali tale scelta deve essere effettuata”.
“Di conseguenza la capacità non è assoluta ma relativa alla decisione da
prendere. Una persona può essere capace di assumere una decisione specifica in un particolare momento, in certe condizioni, ma incapace di prendere un’altra decisione, o anche la stessa decisione, in condizioni diverse.
La valutazione della capacità, dunque, rappresenta un giudizio circa la
capacità di una persona ad assolvere il compito di prendere una decisione
specifica in un particolare momento e in date condizioni” (Nota 12).
Gli ABA Standards ancora in fase di elaborazione ed approvazione, da ultimo esaminati, fanno propria la necessità di una considerazione della capacità/incapacità per ciascuna questione in discussione per la quale il bambino è chiamato a dare istruzioni al suo avvocato rigettando qualsiasi valutazione effettuata in via generale e globalmente, senza tenere conto delle condizioni contingenti e del mutare, in positivo e in negativo, del grado di
capacità.
5. RIFLESSIONI CONCLUSIVE
studio dell’esperienza e del dibattito esistente negli U.S.A. intorno al
Lto,oproblema
del ruolo dell’”Avvocato del Minore” induce un certo sconforcosì almeno è successo a me per un lungo periodo, perché si ha la sensazione che si tratti di problema senza soluzione, un vero e proprio dilemma.
Molte sono, infatti, le ragioni a favore della rappresentanza intesa in senso
tradizionale, ossia adultosimile, e quindi come rappresentanza della volontà e dei desideri espressi dal cliente e per il perseguimento degli obiettivi
da quest’ultimo posti.
Altrettante sono le ragioni che giustificano deroghe a tale tipo di rappresentanza quando si tratti di attività prestata a favore di bambini.
Ma forse questo, che pare un problema insolubile - il problema - è solo un
falso problema, o almeno è il problema apparente.
Per me è stata illuminante (e rasserenante) la lettura del libro citato di Jean
Koh Peters, che sono stata incuriosita a leggere da quanto aveva riferito del
suo modello Ann Haralambie, in occasione della partecipazione di quest’ultima al seminario di aggiornamento sull’avvocato del minore tenutosi a
Lucca pochi giorni prima dell’inizio di questo corso.
È proprio avvicinandomi al modello Peters che ad un certo punto ho cominciato a districarmi tra i mille dubbi in cui mi dibattevo e mi sono chiesta se
303
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
forse non fosse un errore di impostazione quello di partire da questa contrapposizione di ruoli, data quasi come condizione scontata e predefinita, e
non fosse invece più corretto tentare di spostare il punto di osservazione
dall’avvocato al bambino.
Ecco che allora arriviamo al vero problema dell’avvocato: scoprire il bambino che deve rappresentare.
Forse (ed in questa materia i forse non sono mai troppi), in quest’ottica, la
contrapposizione tra gli opposti modelli sfuma o, quanto meno, diviene
meno netta e forse può essere limitata ad ipotesi residuali.
Se, infatti, l’avvocato riesce a scoprire davvero quel bambino che si
nasconde sotto le apparenze, talvolta indotte dagli adulti, allora potrà portare alla luce i suoi desideri, e farsene portavoce presso il giudice. Secondo
il paragone suggerito da Peters, proprio come succede quando un quadro di
valore viene scrostato dagli strati di pennellate che lo ricoprono, sovrapposte al dipinto originale per trafugarlo più facilmente rendendolo irriconoscibile (e, infatti, nella maggior parte dei casi anche il bambino rappresenta un bene prezioso che qualcuno vuole portare via a qualcun altro).
Il bambino è sempre una fonte preziosissima di conoscenza per coloro che
devono pensare a lui a vario titolo, siano essi i genitori, i maestri, gli esperti, altri professionisti che in momenti diversi possono dover intervenire,
giudici compresi. Tuttavia, perché emergano davvero i desideri è fondamentale che il bambino venga ascoltato effettivamente, e non per il rispetto formale di una norma, dagli adulti i quali non dovranno funzionare da
mero registratore riproducendo soltanto affermazioni scollegate da qualsiasi rapporto e da una considerazione globale del contesto.
Cosa significa affermare che il bambino desidera qualcosa piuttosto che
qualcosa d’altro?
In questo psicologi, neuropsichiatri infantili e psicanalisti ci dovrebbero
aiutare a capire se sia possibile, dalla loro ottica, introdurre nelle aule giudiziarie uno spazio per l’espressione del desiderio del bambino per un fine
certamente diverso, ma altrettanto importante, rispetto a quello terapeutico
a loro usuale.
Con questa convinzione la sezione toscana dell’Aiaf si è fatta promotrice,
insieme all’Associazione Materiali per il piacere della psicanalisi, di un
ulteriore convegno che si svolgerà a Lucca l’8 e 9 novembre 2003 dal titolo Il bambino ascoltato - Esperienze a confronto e nuove sollecitazioni
legislative, iniziativa che si pone l’obiettivo di affrontare questo tema con
un’impostazione interdisciplinare.
La legge 20.03.03 n.77, con la quale il Presidente della Repubblica viene
autorizzato a ratificare la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei
fanciulli, aperta alla firma a Strasburgo il 25 gennaio 1996, costituisce
un’altra importantissima sollecitazione, oltre alla L.149/01 e alla L.176/91,
ad approfondire questa analisi, anche per riuscire a distinguere i vari diritti processuali che vengono riconosciuti al bambino e la corrispondente
posizione di quest’ultimo e dei suoi rappresentanti nelle diverse circostanze.
Fare vivere il bambino davanti al giudice che del suo futuro dovrà decidere, sia mediante il suo ascolto diretto e personale che mediante la voce del
304
L’AVVOCATO DEL MINORE
suo avvocato, porrà fine ad una considerazione dell’infanzia spesso effettuata per grandi categorie, senza un esame caso per caso veramente approfondito di quel bambino.
Fino ad oggi i giudici hanno dimostrato un certo timore e l’ascolto dei bambini è stato limitato a casi del tutto eccezionali, essendo invalso l’uso di
sentirli solo laddove la loro opinione possa essere di fatto considerata vincolante. Non mi pare questo lo spirito delle disposizioni normative che prevedono l’ascolto come un diritto del bambino e non come il diritto del giudice a ricevere aiuto dal bambino nel decidere.
Fino ad oggi anche gli avvocati hanno mostrato una certa ritrosia ad ascoltare i bambini persino in quelle poche occasioni nelle quali ne avrebbero,
per la legislazione vigente, il diritto oltre, a mio parere, il dovere, ossia
quando sono nominati curatore speciale. Mi risulta, infatti, una certa prassi secondo la quale molti non riterrebbero necessario neppure conoscere il
bambino in questione.
Vorrei davvero capire come sia possibile prendere qualsiasi posizione e
conclusione, senza avere conosciuto la persona di cui dovremmo curare
l’interesse nel procedimento.
Perché gli adulti, che pure ritengono di doversi occupare dei bambini,
hanno così tanta paura di ascoltarli? Forse per la paura di sbagliare nel
metodo, preferiscono accettare il rischio di sbagliare nella decisione da
prendere, sia essa quella relativa alla difesa da assumere o quella concernente il provvedimento da pronunciare.
Meglio sarebbe pensare a percorsi formativi che garantiscano un buon
livello di abilità specifica per porsi in ascolto del bambino in modo corretto.
Per quanto in specifico riguarda l’avvocatura, l’introduzione della figura
dell’avvocato del minore nell’ordinamento italiano e la ormai, si spera,
prossima ratifica della convenzione di Strasburgo rendono non più rinviabile la necessità di una effettiva specializzazione del professionista che si
voglia dedicare a questa attività.
La complessità e delicatezza del ruolo e la particolarità del rapporto che
deve essere stabilito con il cliente/bambino impongono una formazione ed
un aggiornamento specifici ed interdisciplinari non essendo sufficiente una
approfondita conoscenza del diritto di famiglia e minorile ma essendo
necessario conoscere lo sviluppo cognitivo di un bambino, i suoi bisogni e
le sue capacità in relazione alle varie età, sapere comunicare con un bambino anche molto piccolo, imparare a porre domande senza condizionarne
le risposte, conoscere le dinamiche di coppia e le disfunzioni che possono
interessare il rapporto genitoriale, e tanto altro ancora.
Se è vero che l’avvocato del minore è innanzi tutto un avvocato è anche
vero che è un avvocato che difficilmente potrà svolgere bene il suo ruolo
se, nonostante la frequentazione di corsi e convegni specifici, rappresenterà il minore come scelta occasionale, tra uno sfratto ed un recupero crediti,
una procedura concorsuale e un incidente stradale.
Perché la rappresentanza del minore non risulti un rimedio peggiore del
male al quale vuole ovviare è indispensabile che venga prevista per legge
l’istituzione di elenchi speciali e vengano richiesti requisiti di attitudine,
305
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
esperienza e formazione per accedervi tali da non rendere inutile la previsione stessa e garantire invece l’elevata qualità della prestazione professionale.
Nonostante la migliore e più accurata formazione esisterà sempre il rischio,
che in certi casi potrebbe diventare necessità, che l’avvocato assuma una
posizione soggettiva, quando il contributo del soggetto rappresentato è
minimo.
In tali casi si potrebbe contestare che l’avvocato farà uso nella difesa di una
discrezionalità simile a quella che si è contestata sino ad oggi al giudice che
si occupa di minori. Forse l’obiezione ha qualche fondamento ma certo il
passo avanti compiuto verso il giusto processo è notevole.
È ben meno dannoso, infatti, che sia l’avvocato a introdurre nel giudizio un
elemento di discrezionalità facendosi portatore dell’interesse del suo rappresentato piuttosto che lo faccia il giudice, con ciò contravvenendo a fondamentali regole del processo (principio del contraddittorio e terzietà).
Non dimentichiamoci, infatti, che la decisione è sempre rimessa al giudice
il quale mai dovrà delegarla ad alcuna delle parti, neppure a quella che si
presenta come la più “imparziale”, come potrebbe sembrare il bambino.
L’avvocato del bambino non deve diventare un ausiliario del giudice né di
questi essere l’ispiratore privilegiato. Questa potrebbe essere una tentazione forte, da entrambe le parti: per l’avvocato, perché potrebbe sentirsi
molto solo e pieno di responsabilità in situazioni estremamente complesse
ove il giudice potrebbe essere vissuto come il migliore alleato (“siamo dalla
stessa parte perché difendiamo il bambino”), per il giudice, perché c’è una
persona di sua fiducia che ha libero accesso al bambino, lo conosce, ha
conosciuto l’ambiente familiare, una specie di super assistente sociale o di
C.T.U..
Si tratterebbe di un completo stravolgimento dei ruoli che sembra anche
assurdo ipotizzare ma di cui credo invece sia bene parlare perché di fatto
sono attitudini molto naturali dalle quali possiamo guardarci se impariamo
a non demonizzarle.
Un notevole contributo alla qualificazione della difesa in questo campo
potrebbe venire inoltre da una sottolineatura di specifici doveri di carattere
deontologico.
Al riguardo è significativo che l’unica disposizione in materia di diritto di
famiglia che si rintraccia nell’attuale codice deontologico sia quella che,
all’art.37, regola il conflitto d’interessi prevedendo, in modo ovvio, che
l’avvocato che abbia assistito i coniugi in controversie familiari debba
astenersi dal prestare la propria assistenza in controversie successive tra i
medesimi in favore di uno di essi.
Le recenti novità legislative potrebbero costituire un’ottima occasione per
previsioni deontologiche relative al rapporto professionale con il bambino
e per un’effettiva vigilanza dei consigli degli ordini forensi sul rispetto del
dovere di competenza che l’art. 12 del Codice Deontologico Forense
espressamente prevede.
Qualora dovesse succedere che con il 1° luglio 2003 divenga operativa la
figura dell’avvocato del minore, senza ulteriori interventi legislativi che
introducano elenchi di avvocati specializzati e disegnino iter formativi,
306
L’AVVOCATO DEL MINORE
potremo almeno sperare che intervengano gli ordini forensi, richiamando
gli iscritti al rispetto di tale regola deontologica e sanzionando l’inosservanza qualora professionisti del tutto inesperti e non formati in modo specifico per tale incarico lo accettino ugualmente?
Sarebbe per gli ordini forensi una buona occasione per dare il segnale di un
atteggiamento nuovo, espressione della volontà di garantire effettivamente
il diritto dei cittadini, in questo caso particolarmente indifesi, ad una rappresentanza di qualità, bandendo ogni spirito corporativo, con ciò contribuendo a riportare l’avvocatura italiana ad un livello e ad una considerazione ormai purtroppo appartenenti al passato.
Chissà che proprio dalla rappresentanza dei bambini l’avvocatura non
possa cominciare a risalire la china.
E a dire la verità questa potrebbe essere anche l’occasione per abbandonare l’antica abitudine, propria del mondo giuridico, di parlare dei bambini in
termini di minori.
Questa espressione è oggi in aperta contraddizione con la posizione che si
vuole riconoscere al bambino, di soggetto titolare di diritti ed avente una
sua autonoma posizione. Ed infatti in genere nelle convenzioni citate non
si usa il termine “Minor” ma “Child”.
Una fase storica di fondamentale importanza si è consumata nel passaggio
dall’interesse del minore ai diritti del bambino e l’uso delle parole non può
non accompagnare il cambiamento con un adattamento che non è puro ossequio nominalistico.
* La traduzione delle citazioni dall’inglese all’italiano non è ufficiale.
307
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
NOTE
1) AMERICAN BAR ASSOCIATION MODEL RULES
OF PROFESSIONAL CONDUCT
Rule 1.14 Client With Diminished
Capacity
(a) When a client’s capacity to make
adequately considered decisions
in
connection with a representation is
diminished, whether because of minority, mental impairment or for some
other reason, the lawyer shall, as far as
reasonably possible, maintain a normal client-lawyer relationship with the
client.
(b) When the lawyer reasonably believes that the client has diminished
capacity, is at risk of substantial physical, financial or other harm unless
action is taken and cannot adequately
act in the client’s own interest, the
lawyer may take reasonably necessary
protective action, including consulting
with individuals or entities that have
the ability to take action to protect the
client and, in appropriate cases, seeking the appointment of a guardian ad
litem, conservator or guardian.
(c) Information relating to the representation of a client with diminished
capacity is protected by Rule 1.6.
When taking protective action pursuant to paragraph (b), the lawyer is
impliedly authorized under Rule 1.6
(a) to reveal information about the
client, but only to the extent reasonably necessary to protect the client’s
interests.
Comment - Rule 1.14
[1] The normal client-lawyer relationship is based on the assumption that the
client, when properly advised and
assisted, is capable of making decisions about important matters. When
the client is a minor or suffers from a
308
Traduzione:
Regola 1.14 Cliente con capacità
ridotta.
(a) Quando la capacità di un cliente di
adottare decisioni adeguatamente ponderate in relazione alla sua rappresentanza è ridotta, a causa della sua
minore età, di un’incapacità mentale o
per qualche altra ragione, l’avvocato
dovrà mantenere con quel cliente, per
quanto ragionevolmente possibile, un
normale rapporto cliente/avvocato.
(b) Quando l’avvocato ritiene ragionevolmente che la capacità del cliente
sia ridotta, che quest’ultimo sia esposto a rischio di un rilevante danno di
carattere fisico, economico o di altro
tipo, se non viene preso un provvedimento, e che il cliente non può adeguatamente agire nel suo stesso interesse, l’avvocato può prendere le iniziative ragionevolmente necessarie per
proteggere il cliente, come consultare
persone ed enti che abbiano la possibilità di agire a protezione del cliente
e, in casi adatti, può chiedere la nomina di un curatore speciale, di un
amministratore, di un tutore.
(c) Le informazioni relative alla rappresentanza di un cliente con diminuita
capacità sono protette secondo quanto
stabilito dalla regola 1.6.
Quando un avvocato prende le iniziative previste al paragrafo (b), il medesimo è implicitamente autorizzato in
virtù della regola 1.6(a) a rivelare
informazioni relative al cliente ma
solo nella misura in cui ciò è ragionevolmente necessario a proteggere gli
interessi del cliente.
Commento alla Regola 1.14
Il normale rapporto cliente/avvocato è
basato sulla presunzione che il cliente,
adeguatamente consigliato ed assistito, sia capace di prendere decisioni
relative a questioni importanti.
Tuttavia, quando il cliente è un mino-
L’AVVOCATO DEL MINORE
diminished mental capacity, however,
maintaining the ordinary client-lawyer
relationship may not be possible in all
respects. In particular, a severely incapacitated person may have no power
to make legally binding decisions.
Nevertheless, a client with diminished
capacity often has the ability to understand, deliberate upon, and reach conclusions about matters affecting the
client’s own well-being. For example,
children as young as five or six years
of age, and certainly those of ten or
twelve, are regarded as having opinions that are entitled to weight in
legal proceedings concerning their
custody. So also, it is recognized that
some persons of advanced age can be
quite capable of handling routine
financial matters while needing special
legal protection concerning major
transactions.
[2] The fact that a client suffers a disability does not diminish the lawyer’s
obligation to treat the client with attention and respect. Even if the person
has a legal representative, the lawyer
should as far as possible accord the
represented person the status of client,
particularly in maintaining communication.
[3] The client may wish to have family
members or other persons participate
in discussions with the lawyer. When
necessary to assist in the representation, the presence of such persons
generally does not affect the applicability of the attorney-client evidentiary
privilege. Nevertheless, the lawyer
must keep the client’s interests foremost and, except for protective action
authorized under paragraph (b), must
to look to the client, and not family
members, to make decisions on the
client’s behalf.
[4] If a legal representative has already
been appointed for the client, the lawyer should ordinarily look to the representative for decisions on behalf of the
client. In matters involving a minor,
whether the lawyer should look to the
parents as natural guardians may
depend on the type of proceeding or
re o è affetto da una diminuita capacità mentale, può risultare impossibile
mantenere riguardo a tutto l’ordinaria
relazione cliente/avvocato
In particolare, una persona gravemente incapace non ha il potere di prendere decisioni vincolanti. Tuttavia un
cliente con capacità ridotta ha spesso
l’abilità di capire, discutere e giungere
a soluzioni relativamente a questioni
che interessino il suo benessere. Per
esempio, si considera che bambini di
cinque o sei anni, e certamente quelli
di dieci o dodici, abbiano opinioni
che debbono essere tenute in conto
nei procedimenti legali concernenti il
loro affidamento. Parimenti si riconosce che alcune persone di età avanzata possono essere capaci di trattare
questioni economiche di routine mentre hanno bisogno di una speciale protezione legale per gli affari di maggior
importanza.
Il fatto che un cliente sia affetto da
un’incapacità non affievolisce il dovere dell’avvocato di trattarlo con attenzione e rispetto. Anche se la persona
ha un legale rappresentante, l’avvocato deve riconoscergli quanto più possibile lo status di cliente, soprattutto per
ciò che attiene i contatti.
Il cliente può desiderare che persone
di famiglia o altri partecipino ai colloqui con l’avvocato.
Quando è necessaria per favorire la
rappresentanza, la presenza di tali persone generalmente non pregiudica
l’applicabilità
al
rapporto
avvocato/cliente della prerogativa di
non essere oggetto di prova. Tuttavia
l’avvocato deve mantenere come prioritario l’interesse del cliente e, salvo il
caso di azioni autorizzate a protezione
del cliente di cui al paragrafo (b), deve
rivolgersi al cliente, e non ai familiari
di questo, per prendere decisioni nell’interesse del medesimo.
Se è già stato nominato un rappresentante legale del cliente, l’avvocato
deve normalmente rivolgersi al rappresentante per le decisioni nell’interesse
del cliente. In questioni relative ad un
minore, dipenderà dal tipo di procedi309
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
matter in which the lawyer is representing the minor. If the lawyer represents
the guardian as distinct from the ward,
and is aware that the guardian is acting
adversely to the ward’s interest, the
lawyer may have an obligation to prevent or rectify the guardian’s misconduct. See Rule 1.2(d) .
Taking Protective Action
[5] If a lawyer reasonably believes that
a client is at risk of substantial physical, financial or other harm unless
action is taken, and that a normal
client-lawyer relationship cannot be
maintained as provided in paragraph
(a) because the client lacks sufficient
capacity to communicate or to make
adequately considered decisions in
connection with the representation,
then paragraph (b) permits the lawyer
to take protective measures deemed
necessary. Such measures could include: consulting with family members,
using a reconsideration period to permit clarification or improvement of circumstances, using voluntary surrogate
decision making tools such as durable
powers of attorney or consulting with
support groups, professional services,
adult-protective agencies or other individuals or entities that have the ability
to protect the client. In taking any protective action, the lawyer should be
guided by such factors as the wishes
and values of the client to the extent
known, the client’s best interests and
the goals of intruding into the client’s
decision making autonomy to the least
extent feasible, maximizing client
capacities and respecting the client’s
family and social connections.
[6] In determining the extent of the
client’s diminished capacity, the lawyer should consider and balance such
factors as: the client’s ability to articulate reasoning leading to a decision,
variability of state of mind and ability
to appreciate consequences of a decision; the substantive fairness of a decision; and the consistency of a decision
with the known long-term commitments and values of the client. In
appropriate circumstances, the lawyer
310
mento o dalla materia rispetto alla
quale l’avvocato rappresenta il bambino se egli debba riferirsi ai genitori
come naturali tutori. Se l’avvocato
rappresenta il tutore in modo autonomo rispetto al pupillo, e si rende conto
che il tutore sta operando contro l’interesse del pupillo, l’avvocato può
avere il dovere di impedire o correggere la cattiva condotta del tutore.
Se l’avvocato ritiene ragionevolmente
che un cliente sia esposto al rischio di
grave danno fisico, economico o di
altro tipo, se non viene preso un provvedimento, e che non possa essere
mantenuto un normale rapporto cliente/avvocato come indicato al paragrafo (a) perché il cliente non ha sufficiente capacità di comunicare o di
prendere adeguatamente decisioni
ponderate in connessione con la rappresentanza, allora il paragrafo (b)
consente all’avvocato di adottare le
misure protettive ritenute necessarie.
Tali iniziative possono includere: consultare familiari, usufruire di un periodo di riconsiderazione per rendere
possibile un chiarimento o un miglioramento delle condizioni, utilizzare
strumenti, come una procura a lungo
termine, che consentono di prendere
decisioni al posto del cliente sulla
base di un atto volontario di questi, o
consultare gruppi di sostegno, servizi
professionali, agenzie di aiuto per gli
adulti o altre persone o enti che possano proteggere il cliente. Nel prendere
qualsiasi iniziativa a protezione del
cliente, l’avvocato deve essere guidato
da fattori come i desideri ed i valori
del cliente per quanto conosciuti, il
miglior interesse del cliente e l’obiettivo di condizionare l’autonomia decisionale del cliente nella misura minima possibile, valorizzando al massimo
le capacità del cliente e rispettando la
rete familiare e sociale dell’assistito.
Nel determinare l’ampiezza della
diminuzione di capacità di cui è affetto il cliente, l’avvocato dovrebbe considerare e confrontare fattori come: la
capacità del cliente di esprimere ragionamenti che conducano ad una deci-
L’AVVOCATO DEL MINORE
may seek guidance from an appropriate diagnostician.
[7] If a legal representative has not
been appointed, the lawyer should
consider whether appointment of a
guardian ad litem, conservator or guardian is necessary to protect the client’s
interests. Thus, if a client with diminished capacity has substantial property
that should be sold for the client’s
benefit, effective completion of the
transaction may require appointment
of a legal representative. In addition,
rules of procedure in litigation sometimes provide that minors or persons
with diminished capacity must be
represented by a guardian or next
friend if they do not have a general
guardian. In many circumstances,
however, appointment of a legal representative may be more expensive or
traumatic for the client than circumstances in fact require. Evaluation of
such circumstances is a matter entrusted to the professional judgment of
the lawyer. In considering alternatives,
however, the lawyer should be aware
of any law that requires the lawyer to
advocate the least restrictive action on
behalf of the client.
Disclosure of the Client’s Condition
[8] Disclosure of the client’s diminished capacity could adversely affect the
client’s interests. For example, raising
the question of diminished capacity
could, in some circumstances, lead to
proceedings for involuntary commitment. Information relating to the
representation is protected by Rule
1.6. Therefore, unless authorized to
do so, the lawyer may not disclose
such information. When taking protective action pursuant to paragraph (b),
the lawyer is impliedly authorized to
make the necessary disclosures, even
when the client directs the lawyer to
the contrary. Nevertheless, given the
risks of disclosure, paragraph (c) limits
what the lawyer may disclose in consulting with other individuals or entities or seeking the appointment of a
legal representative. At the very least,
the lawyer should determine whether
sione, la mutevolezza degli stati mentali e la capacità di valutare le conseguenze di una decisione; la sostanziale correttezza della decisione; la
coerenza di una decisione rispetto agli
impegni e ai valori da molto tempo
conosciuti del cliente. In certi casi,
l’avvocato può chiedere una diagnosi
da persona esperta per avere una
guida.
Se non è ancora stato nominato un
rappresentante legale, l’avvocato
dovrebbe valutare se non sia necessario richiedere la nomina di un curatore speciale, di un amministratore o di
un tutore per tutelare gli interessi del
cliente. Inoltre, se il cliente affetto da
diminuita capacità ha proprietà considerevoli che devono essere vendute a
vantaggio del cliente, il perfezionamento della transazione effettiva può
richiedere la nomina di un rappresentante legale. Ed ancora, le regole di
procedura nei contenziosi qualche
volta prevedono che un minore o una
persona con diminuite capacità debbano essere rappresentate da un curatore speciale o da un “next friend” se
non hanno un tutore. In molte circostanze, tuttavia, la nomina di un rappresentante legale può essere più
costosa o traumatica per il cliente
delle circostanze che di fatto la richiedono. La valutazioni di tali circostanze
è materia rimessa all’apprezzamento
professionale dell’avvocato. In ogni
caso, nel considerare le alternative
possibili, l’avvocato deve sapere che
la legge gli impone di intraprendere
l’azione meno restrittiva per il cliente.
La rivelazione della diminuita capacità del cliente potrebbe essere contraria
agli interessi di quest’ultimo. Per
esempio, porre la questione della
diminuita capacità potrebbe, in alcuni
casi, condurre a procedimenti per il
forzato internamento del cliente. Le
informazioni relative alla rappresentanza sono soggette ai vincoli di protezione di cui alla regola 1.6. Inoltre, a
meno che non sia autorizzato espressamente in tal senso, l’avvocato non
può rivelare tali informazioni. Nel
311
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
it is likely that the person or entity consulted with will act adversely to the
client’s interests before discussing matters related to the client. The lawyer’s
position in such cases is an unavoidably difficult one.
prendere le iniziative di protezione di
cui al paragrafo (b), l’avvocato è implicitamente autorizzato alle rilevazioni
necessarie, anche quando il cliente gli
dia indicazioni in senso contrario.
Tuttavia, stante i rischi della rivelazione, il paragrafo (c) limita il contenuto
di quanto l’avvocato può rivelare consultandosi con altre persone o enti o
chiedendo la nomina di un rappresentante legale. Prima di discutere le questioni relative al cliente, l’avvocato
deve almeno determinare se sia probabile che la persona o l’ente consultati
possano agire in senso contrario all’interesse del cliente stesso. La posizione
dell’avvocato in casi come questi è
inevitabilmente complessa.
2) AMERICAN BAR ASSOCIATION MODEL CODE OF
PROFESSIONAL RESPONSIBILITY
Ethical Consideration (EC) 7-12
Any mental or physical condition that
renders a client incapable of making a
considered judgment on his or her
own behalf casts additional responsibilities upon the lawyer.
Where an incompetent is acting
through a guardian or other legal
representative, a lawyer must look to
such representative for those decisions
which are normally the prerogative of
the client to make.
If a client under disability has no legal
representative, the lawyer may be
compelled in courts proceedings to
make decisions on behalf of the client.
If the client is capable of understanding the matter in question or of contributing to the advancement of his or
her interests, regardless of whether the
client is legally disqualified from performing certain acts, the lawyer should
obtain from the client all possible aid.
If the disability of a client and the lack
of a legal representative compel the
lawyer to make decision for the client,
the lawyer should consider all circumstances then prevailing and act with
care to safeguard and advance the
312
Considerazione etica n.7-12
Ogni condizione mentale o fisica che
renda un cliente incapace di adottare
una decisione ponderata nel proprio
interesse attribuisce responsabilità
addizionali all’avvocato.
Quando una persona incapace agisce
attraverso un tutore o altro rappresentante legale, l’avvocato deve fare riferimento a tale rappresentante per quelle decisioni che normalmente spetta al
cliente prendere.
Se un cliente affetto da incapacità non
ha un rappresentante legale, può accadere che l’avvocato si trovi costretto,
nei procedimenti giudiziari, a prendere decisioni nell’interesse del cliente.
Se il cliente è capace di capire le questioni trattate o di contribuire alla promozione dei propri interessi, a prescindere se questi sia legalmente
impedito dallo stipulare certi atti, l’avvocato deve ottenere dal cliente tutto
l’aiuto possibile. Se l’incapacità del
cliente e la mancanza di un legale rappresentante costringono l’avvocato a
prendere decisioni per il cliente, l’avvocato deve considerare il contesto
del cliente ed agire con attenzione per
L’AVVOCATO DEL MINORE
interests of the client. But obviously a
lawyer cannot perform any act or
make any decision which the law
requires the client to perform or make,
either acting for himself if competent,
or by a duly constituted representative
if legally incompetent.
salvaguardare e promuovere gli interessi del medesimo. Ma naturalmente
l’avvocato non può compiere atti o
prendere decisioni che la legge richiede che sia il cliente a compiere o prendere, sia agendo personalmente, se
capace, sia attraverso un rappresentante debitamente costituito secondo
le previsioni di legge, se legalmente
incapace.
3) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO
REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES
(NACC REVISED VERSION)
(TESTO UGUALE IN ENTRAMBE LE LINEE GUIDA)
A-1. The Child’s Attorney. The term “child’s attorney” means a lawyer who
provides legal services for a child and who owes the same duties of
undivided loyalty, confidentiality, and competent representation to the
child as is due an adult client.
A-2. Lawyer Appointed as Guardian Ad Litem. A lawyer appointed as
“guardian ad litem” for a child is an officer of the court appointed to
protect the child’s interests without being bound by the child’s expressed
preferences.
4) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO
REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES
(NACC REVISED VERSION)
(TESTO UGUALE IN ENTRAMBE LE LINEE GUIDA)
B-2. Conflict Situations.
(1) If a lawyer appointed as guardian ad litem determines that there is a
conflict caused by performing both roles of guardian ad litem and child’s
attorney, the lawyer should continue to perform as the child’s attorney and
withdraw as guardian ad litem. The lawyer should request appointment of
a guardian ad litem without revealing the basis for the request.
(2) If a lawyer is appointed as a “child’s attorney” for siblings, there may
also be a conflict which could require that the lawyer decline
representation or withdraw from representing all of the children.
5) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO
REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES
(NACC REVISED VERSION)
(TESTO UGUALE IN ENTRAMBE LE LINEE GUIDA)
B-3. Client Under Disability. The child’s attorney should determine whether
the child is “under a disability” pursuant to the Model Rules of Professional
Conduct or the Model Code of Professional Responsibility with respect to
each issue in which the child is called upon to direct the representation.
313
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
6) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO
REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES
B-4. ABA Version
Client Preferences. The child’s attorney should elicit the child’s preferences
in a developmentally appropriate manner, advise the child, and provide
guidance. The child’s attorney should represent the child’s expressed
preferences and follow the child’s direction throughout the course of
litigation.
(1) To the extent that a child cannot express a preference, the child’s
attorney shall make a good faith effort to determine the child’s wishes and
advocate accordingly or request appointment of a guardian ad litem.
(2) To the extent that a child does not or will not express a preference about
particular issues, the child’s attorney should determine and advocate the
child’s legal interests.
(3) If the child’s attorney determines that the child’s expressed preference
would be seriously injurious to the child (as opposed to merely being
contrary to the lawyer’s opinion of what would be in the child’s interests),
the lawyer may request appointment of a separate guardian ad litem and
continue to represent the child’s expressed preference, unless the child’s
position is prohibited by law or without any factual foundation. The child’s
attorney shall not reveal the basis of the request for appointment of a
guardian ad litem which would compromise the child’s position.
7) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO
REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES
B-5. ABA Version
Child’s Interests. The determination of the child’s legal interests should be
based on objective criteria as set forth in the law that are related to the
purpose of the proceedings. The criteria should address the child’s specific
need and preferences, the goal of expeditious resolution of the case so the
child can remain or return home or be placed in a safe, nurturing, and
permanent environment, and the use of the least restrictive or detrimental
alternative available.
8) ABA STANDARDS OF PRACTICE FOR LAWYERS WHO
REPRESENT CHILDREN IN ABUSE AND NEGLECT CASES
(NACC REVISED VERSION)
B-4.NACC Version.
Client Preferences. The child’s attorney should elicit the child’s preferences
in a developmentally appropriate manner, advise the child, and provide
guidance. The child’s attorney should represent the child’s expressed
preferences and follow the child’s direction throughout the course of
litigation. except as specifically provided herein. Client directed
representation does not include “robotic allegiance” to each directive of the
client. Client directed representation involves the attorney’s counseling
function and requires good communication between attorney and client.
The goal of the relationship is an outcome which serves the client, mutually
314
L’AVVOCATO DEL MINORE
arrived upon by attorney and client, following exploration of all available
options.
(1) While the default position for attorneys representing children under
these standards is a client directed model, there will be occasions when the
client directed model cannot serve the client and exceptions must be made.
In such cases, the attorney may rely upon a substituted judgment process
(similar to the role played by an attorney guardian ad litem), or call for the
appointment of a guardian ad litem, depending upon the particular
circumstances, as provided herein.
(2) To the extent that a child cannot meaningfully participate in the
formulation of the client’s position (either because the child is preverbal,
very young or for some other reason is incapable of judgment and
meaningful communication), the attorney shall substitute his/her judgment
for the child’s and formulate and present a position which serves the child’s
interests. Such formulation must be accomplished through the use of
objective criteria, rather than solely the life experience or instinct of the
attorney. The criteria shall include but not be limited to:
Determine the child’s circumstances through a full and efficient
investigation;
Assess the child at the moment of the determination;
Examine each option in light of the two child welfare paradigms;
psychological parent and family network; anD
Utilize medical, mental health, educational, social work and other
experts.
It is possible for the child client to develop from a child incapable of
meaningful participation in the litigation as set forth in section B-4 (2), to a
child capable of such participation during the course of the attorney client
relationship. In such cases, the attorney shall move from the substituted
judgment exception of B-4 (2) to the default position of client directed
representation described in section B-4 “Client Preferences.”
If the child’s attorney determines that the child’s expressed preference
would be seriously injurious to the child (as opposed to merely being
contrary to the lawyer’s opinion of what would be in the child’s interests),
the lawyer may shall, after unsuccessful use of the attorney’s counseling
role, request appointment of a separate guardian ad litem and continue to
represent the child’s expressed preference, unless the child’s position is
prohibited by law or without any factual foundation. The child’s attorney
shall not reveal the basis of the request for appointment of a guardian ad
litem which would compromise the child’s position.
9) STANDARDS FOR ATTORNEYS AND GUARDIANS AD LITEM
IN CUSTODY OR VISITATION PROCEEDINGS - AMERICAN
ACADEMY OF MATRIMONIAL LAWYERS
C Representing Impaired Children
2.7 When a child client, by virtue of his or her impairment, is unable to set the
goals of representation, the child’s lawyer shall not advocate a position with
regard to the outcome of the proceeding or issue contested during the litigation.
315
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
10) ABA FAMILY LAW SECTION STANDARDS OF PRACTICE
FOR LAWYERS REPRESENTING CHILDREN IN CUSTODY CASES
(COMMITTEE FINAL DRAFT, APRIL 24, 2003)
Standard II-B-2 Best interests attorney: a lawyer who provides independent legal
services for the purpose of protecting a child’s best interests, without being bound
by the child’s directives or objectives.
11) STANDARDS FOR ATTORNEYS AND GUARDIANS AD
LITEM IN CUSTODY OR VISITATION PROCEEDINGS AMERICAN ACADEMY OF MATRIMONIAL LAWYERS
(Comment: Standard 2.2). “the essential qualities distinguishing an unimpaired
client from an impaired one is the capacity to comprehend the issues involved in
the litigation, to speak thoughtfully about the case and the client’s interests at
stake, and to appreciate the consequences of the available alternatives”
12) ALLEN E. BUCHANAN & DAN W. BROCK, DECIDING FOR
OTHERS: THE ETHICS FOR SURROGATE DECISION MAKING
(1989)
“The statement that a particular individual is (or is not) competent is incomplete.
Competence is always
competence
for some task - competence to do
something. … [T]he notion of decision-making capacity is itself incomplete until
the nature of the choice as well as the conditions under which it is to be made
are specified. Thus competence is decision-relative, not global. A person may be
competent to make a particular decision at a particular time, under certain circumstances, but incompetent to make another decision, or even the same decision, under different conditions. A competence determination, then, is a determination of a particular person’s capacity to perform a particular decision-making
task at a particular time and under specified conditions.”
316
L’AVVOCATO DEL MINORE
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Proceedings of the Conference on Ethical Issues in the Legal Representation of
Children, Vol. LXIV Fordham Law Review N.4, March 1996
American Academy of Matrimonial Lawyers, Representing Children:
Standards for Attorneys and Guardians ad Litem in Custody or Visitation
Proceedings, 1994
American Bar Association, Standards of Practice for Lawyers who Represent
Children in Abuse and Neglect Cases (ABA Standards), 1996
American Bar Association Family Law Section, Standards of Practice for
Lawyers Representing Children in Custody and Visitation Cases, (Bozza
finale approvata dalla commissione il 24 aprile 2003)
Buchanan Allen E. e Brock Dan W., Deciding for Others: The Ethics of
Surrogate Decision Making (1989))
Costello Jan, Representing Children in Mental Disability Proceedings, 1999
Guggenheim Martin, A Paradigm for Determining the Role of Counsel for
Children in Fordham Law Review N.4, March 1996
Haralambie, Ann M., The Child’s Attorney: A Guide to Representing Children
in Custody, Adoption, and Protection Cases, Section of Family Law
American Bar Association (1993)
Haralambie Ann M. e Glaser Deborah L., Practical and Theoretical Problems
with the AAML Standards for Representing “impaired”, Children Journal of
the American Academy of Matrimonial Lawyers, Vol.13 pp.57-93 Summer
1995
National Association of Counsel for Children, Recommendations for
Representation of Children in Abuse and Neglect Cases, 2001
National Association of Counsel for Children, ABA Standards (NACC Revised
Version), 2001
Peters Jean Koh, Representing Children in Child Protective Proceedings:
Ethical and Practical Dimensions, LexisNexis, Seconda edizione 2001
Ventrell Marvin, Legal Representation of Children in Dependency Court:
Toward a better Model - The ABA (NACC Revised) Standards of Practice
317
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
O
ggi vorrei intrattenermi con voi cercando di comprimere magari alcune
cose del mio discorso perché credo che a questo punto del vostro corso,
che ha per obiettivo e per oggetto l’avvocato del minore, sarebbe
importante anche discutere nell’ambito del dibattito alcune questioni che si
possono sollevare. Quindi spero di riuscire a dare anche uno spazio ai vostri
interventi perché credo che sarebbe una cosa importante.
Di che cosa vorrei parlarvi oggi? Fondamentalmente di chi potrebbe essere il
vostro cliente, ovvero quali sono in qualche modo le configurazioni più tipiche che potreste trovarvi di fronte nel momento in cui il vostro cliente è un
minore, ed un minore ovviamente in situazioni particolari. Poiché non è il
mio campo, e so che è fonte di ampi dibattiti, tralascio qui di affrontare come
dovrà arrivare questo cliente alla vostra attenzione.
In questo momento quello che mi interessa dal punto di vista di psichiatra,
psicologo dell’età evolutiva, è quello
di darvi alcune grandi linee, alcuni
profili, del tipo di condizione in cui
verrete a trovarvi di fronte ad un
minore il quale, nel momento in cui
dovesse diventare e diventasse vostro
cliente, vorrebbe dire, almeno questo
mi sembra l’orientamento, che si trova
in una situazione precaria, in una
situazione di difficoltà e di sofferenza.
Una condizione, quella di questo
minore che potremmo definire con un
termine oggi abusato ma quanto mai
pregnante, in questo caso, di conflitto
di interessi con i suoi genitori, perché
poi questa è la ratio fondamentale che
spinge a dire “il minore deve essere rappresentato, deve avere una rappresentanza autonoma in giudizio, nei giudizi che lo riguardano”.
Questa ratio è legata all’idea che nei giudizi che lo riguardano il minore può
trovarsi, e spesso in alcune situazioni si trova di fatto, in una condizione che
non è detto possa essere tutelata dai suoi tutori naturali che sono i genitori.
Quindi si tratta di situazioni di accertata patologia dei legami familiari perché è chiaro che la fisiologia dei legami familiari dovrebbe, al contrario,
semplicemente suggerirci di tenerci fuori e dire: i genitori sono i migliori
possibili tutori degli interessi del minore.
Tutte le volte che questo non accade ci troviamo, appunto, di fronte al conflitto di interessi e alla esigenza di una rappresentanza autonoma in giudizio
con tutte le implicazioni che questo può avere.
Procedendo nel ragionamento cerchiamo di capire che cosa significa per un
minore trovarsi in una condizione di conflitto di interessi con i suoi genitori,
ed in genere cosa ciò significa, allagando il discorso anche agli adulti perché
poi i minori non è che hanno meccanismi psicologici diversi dai nostri, i meccanismi psicologici sono sempre uguali.
Significa sentirsi in conflitto di interessi con le persone che rappresentano le
principali figure di attaccamento, le figure naturali di protezione, che rappre-
MINORI IN DIFFICOLTÀ:
SCENARI TIPICI,
RAPPRESENTAZIONI,
BISOGNI *
DOTT.
FRANCESCO
CANEVELLI
PSICHIATRA, PRESIDENTE DELLA
SOCIETÀ ITALIANA DI
MEDIAZIONE FAMILIARE
* Correzione redazionale
318
L’AVVOCATO DEL MINORE
sentano, direi ancora di più, il naturale senso di appartenenza, cioè quel senso
del noi fondamentale in cui tutti ci riconosciamo, di cui tutti noi abbiamo
bisogno, per definire chi siamo e con chi lo siamo. Questo non è un meccanismo che vale solo per i minori, vale per chiunque.
La lacerazione su questo aspetto è una lacerazione grave, nel senso che il tipo
di conflitto che si determina è appunto il conflitto tra la possibilità di continuare a sentirsi appartenenti a qualcuno, possibilità assolutamente fondamentale per la salute psicologica di chiunque, e il fatto che da questo stesso qualcuno derivano attacchi, aggressioni, mancanza di protezione, esposizioni a
pericoli.
La coincidenza di questi due elementi - il qualcuno di cui io ho bisogno per
la protezione e poi, in fondo in fondo, più che per la protezione per il riconoscimento stesso di me stesso, ed il fatto che da questa stessa persona mi provengano delle aggressioni, degli attacchi di cui parleremo tra un attimo - propone un conflitto di interessi che, a sua volta, propone livelli profondi di
attacco al senso di identità personale tout court.
Quindi nel momento in cui il vostro cliente è un minore che si trova in una
di queste condizioni, ossia in una condizione in cui il suo interesse è lacerato tra il ribadire, il sottolineare il bisogno di appartenenza e l’altrettanto forte
bisogno di essere protetto da quelle figure che dovrebbero essere le sue figure protettive, questo determina grossissimi problemi rispetto proprio al senso
di integrità personale.
Quindi la condizione generale che vive un minore, perché noi oggi ci occupiamo di minori, ma in generale una persona che si trova in una condizione
di questo genere, è quella di vivere una condizione di pesante attacco al senso
di integrità personale, proprio perché si tratta della fondamentale sicurezza
basica del di sé rispetto al rapporto e alla appartenenza con le proprie figure
emotivamente significative.
Questa è la premessa del nostro discorso che cerca appunto di definire chi
saranno i vostri clienti.
Vorrei impostare in due parti il mio discorso di questo pomeriggio.
Una prima parte, è una mia abitudine che avete già conosciuto dallo scorso
incontro, è destinata a presentarvi dei quadri tipici, delle tipologie, delle
situazioni in cui i bambini, i minori, vengono a trovarsi in questi casi esposti
ad un maltrattamento piuttosto che ad una grave trascuratezza piuttosto che
ad un abuso sessuale o ad altro, perché da tipologia a tipologia alcune cose
cambiano, cambiano alcuni bisogni, cambiano alcuni meccanismi psicologici che sono sottesi.
Ci sono quadri tipici diversi di un minore che si trova in una di queste situazioni ed è fondamentale che chi deve diventare un interlocutore privilegiato
di questo minore ai fini della sua rappresentanza in giudizio, ai fini della tutela dei suoi interessi, conosca che tipo di persona avrà di fronte, caratterizzata da quali stati emotivi, da quali bisogni, da quali ruoli, da quali certezze, da
quali incertezze, diverse a seconda che la situazione tipica sia stata appunto
un maltrattamento, un’altra cosa e vedremo quale.
Quindi in questa prima parte cercherò di proporvi, anche se molto schematicamente per motivi di tempo, dei profili, degli scenari tipici di bambini, di
minori, in condizioni di sofferenza a causa dei comportamenti dei loro geni319
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
tori, quindi casi dove si propone proprio questo tema del conflitto di interessi, per vedere con che cosa, con quale materiale, passatemi questa brutta
espressione, vi troverete a confrontarvi.
Detto questo, nella seconda parte, proveremo un attimo, partendo proprio da
queste cose che dirò, a vedere a quel punto quali possano essere gli obiettivi,
gli strumenti, le metodologie che un avvocato può utilizzare rispetto a questo
tipo di realtà così complessa, come vedremo, che ha di fronte.
Visti i tempi stretti inizierei subito con questa proposta tipologica e partirei,
accendiamo un attimo la lavagna luminosa, con la prima situazione.
Questi lucidi ve li faccio passare mentre parlo in modo che stanno lì ed io
vado un po’ più a ruota libera sul discorso.
Per ognuna di queste situazioni cercherò di presentarvi delle voci ben precise che sono alcuni cenni sugli scenari tipici, cioè su quali siano le situazioni
in cui prevalentemente noi troviamo condizioni di maltrattamento, su quali
stati emotivi siano prevalenti nei minori sottoposti a questo tipo di situazioni.
Per rappresentazioni in psicologia intendiamo il tipo di immagine di sé e dell’altro che a partire da questo tipo di esperienze il bambino, il minore, forma
in se stesso, come comincia a vedere se stesso, gli altri alla luce di queste
esperienze traumatiche.
Per ruolo adattivo intendiamo il tipo di comportamento che nel tempo il bambino viene ad assumere per reagire in qualche modo, per funzionare al meglio
possibile, obiettivo che tutti noi abbiamo nella vita, in questa condizione
anche di grave difficoltà. Ma per ruolo adattivo voi sapete che noi intendiamo sia il tipo di spiegazione che noi diamo delle cose che ci sono di fronte,
che ci capitano, che succedono intorno a noi, e sia appunto il tipo di comportamento che cominciamo ad adottare per risolvere al meglio lo stress, la difficoltà che queste situazioni comportano.
Gli scenari tipici del maltrattamento: per maltrattamento chiaramente intendiamo, e siamo tutti d’accordo su questo, il bambino percosso, e la sindrome,
così definita nel corso del secolo scorso, significativamente descritta per la
prima volta da radiologi. Da radiologi perché ancora per lunga parte del secolo scorso i pediatri, i medici, non erano molto attenti alle situazioni di maltrattamento; i bambini potevano essere percossi con una certa libertà, tutto
sommato, non c’era una grossa attenzione in questo senso. I radiologici
cominciarono a riscontrare una serie di determinate lesioni scheletriche, ripetitive, ridondanti sempre molto simili, in tutta una serie di bambini che venivano portati per eseguire radiografie, e vennero descritte delle tipiche sindromi, delle tipiche lesioni da maltrattamento, famosa quella della clavicola da
scuotimento delle braccia, del cranio per colpi in testa e quant’altro, insomma di fatto da lì fu delineata la sindrome del bambino maltrattato. Non la sto
a far lunga perché le bibliografie sono piene di queste cose in tutti i modi.
Che cosa c’è dietro? Vediamo alcuni scenari tipici da cui nascono poi condizioni di maltrattamento.
Sono state descritte innanzitutto le patologie individuali dei genitori come
fonte di possibili condizioni di maltrattamento ed indubbiamente questo è un
dato reale anche se non è un dato assolutamente costante, è possibile che in
determinate patologie, in patologie psichiatriche, in alcoolismo, in tossicodi320
L’AVVOCATO DEL MINORE
pendenza, ci siano delle situazioni in cui il bambino viene percosso.
È stato anche però sottolineato come questo tipo di scenario non sia assolutamente sufficiente, può esserci ma non è una regola; che cosa vuol questo?
Vuol dire che certamente non tutte le persone che sono affette da patologie
psichiatriche o da alcoolismo o da tossicodipendenza picchiano i loro figli né
che tutti quelli che picchiano i loro figli sono per forza alcoolisti. Ci sono
tante persone, non definite pazienti psichiatrici o altro, che picchiano comunque e maltrattano comunque i loro figli. Per cui la presenza di patologie individuali è un elemento che può essere riscontrabile ma non necessariamente.
È interessante l’attenzione per alcuni “giochi relazionali” cosiddetti, con le
opportune virgolette, che possiamo riscontrare in queste situazioni. I giochi
relazionali in questi casi sono quei giochi tipici che definiamo in tutte quelle situazioni in cui c’è una rabbia deviata, una rabbia dell’adulto nei confronti dell’altro adulto (il coniuge, la famiglia di origine, altri soggetti) di natura
stressante nei suoi confronti, dove in qualche modo attivazioni rabbiose degli
adulti trovano un minore come facile oggetto di scarica della tensione, della
rabbia e quant’altro.
Ma non basta: questa è una definizione in cui il bambino, il minore, è veramente l’oggetto su cui si scarica la furia dell’adulto.
Ci sono altre situazioni in cui il bambino maltrattato è un bambino maltrattato che si trova in una posizione meno di oggetto e più di soggetto. Quali sono
queste situazioni? Sono le situazioni in cui il bambino, ad esempio, si trova
ad essere schierato in alleanze familiari, in coalizioni, con un genitore contro
l’altro, spesso ciò accade in situazioni di separazione ma non necessariamente, in situazioni comunque di grave conflittualità familiare, ed il suo essere
attivo all’interno di questi schieramenti, può portarlo ad essere percosso non
più come oggetto inerme, su cui si scarica una rabbia incontrollata ed indifferenziata, ma come effettivo soggetto cui la rabbia è diretta perché fa delle
cose, perché compie delle operazioni, perché compie delle azioni eccetera.
L’ulteriore scenario tipico del maltrattamento lo possiamo far risalire a tutto
quello che riguarda “l’eccesso” di educazione. Sapete che anche questa è una
questione, quella del famoso abuso dei mezzi di correzione, come se ci fosse
un uso normale dei mezzi di correzione, sono le amenità del nostro Codice.
Ma al di là delle amenità, ci sono situazioni in cui i bambini che hanno, per
esempio, una sindrome di iperattività sono più esposti di altri a trovarsi in
situazioni di maltrattamento, con genitori che interpretano il loro ruolo educativo in termini di rigidità normativa ed in termini di correzione del comportamento del figlio e che quindi mettono in atto una serie di comportamenti
maltrattanti dove appunto non stiamo parlando dello scappellotto, stiamo parlando di quello che il Codice definisce come maltrattamento, quindi portatore poi di lesioni, di segni addosso al figlio eccetera.
Allora, questa è una serie di scenari che ci servono per cosa?
Ci servono innanzitutto per capire come già all’interno delle situazioni di
maltrattamento, definite con un termine unico generale, ci possano essere
vari modi del bambino di vivere questa situazione dove per vivere intendo sia
di sentire emotivamente e di rappresentarsi se stesso e agli altri che di adattarsi. Pensate alla differenza fondamentale, ad esempio, tra il bambino picchiato come oggetto per la rabbia indifferenziata ed il bambino che attira in
321
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
qualche modo con il suo comportamento la rabbia del genitore.
Questo fa una differenza enorme rispetto al tipo di persona che troveremo di
fronte a noi perché è chiaro come in un caso, nel primo caso, lo stato emotivo di paura, di puro terrore e di ritiro e di timore dell’adulto sarà assolutamente prevalente, mentre nell’altro caso l’emozione prevalente sarà una
emozione rabbiosa, sarà una emozione diretta in maniera specifica contro l’adulto maltrattante. Quindi anche l’accusa potrà essere precisa o potrà essere
anche magari sovradimensionata rispetto alla realtà dei fatti dove quindi questo tipo di distinzione, bambino oggetto/bambino soggetto nel comportamento complessivo del maltrattamento, è una distinzione assolutamente importante rispetto proprio e alla percezione che noi avremo della persona che
abbiamo di fronte e per esempio alle sue dichiarazioni, al suo stato interiore.
Quindi vedete come emozioni prevalenti, paura ma anche rabbia, colpa e vergogna, sono due emozioni più complesse, noi le chiamiamo le emozioni
sociali, si chiamano emozioni sociali, ne parlavamo forse anche l’altra volta
a proposito della separazione, sono emozioni sociali in quanto presuppongono il confronto con i terzi, la colpa presuppone il confronto con i terzi giudicanti, la vergogna presuppone il confronto con i terzi svalutanti, irridenti.
Quindi sono emozioni complesse perché presuppongono il rappresentarsi in
mezzo agli altri, per questo si chiamano emozioni sociali, e sensazioni, sentimenti di colpa e di vergogna possono essere attivati in queste situazioni di
maltrattamento dove in qualche modo questo presuppone che il bambino si
stia facendo carico anche della preoccupazione per i suoi genitori che si comportano in questo modo. Il bambino che si sente in colpa essendo stato maltrattato segnala l’idea di cui parleremo tra un attimo che quel maltrattamento è stato giusto per lui perché lui è stato cattivo. Perché accadono queste
cose? Ma per quello che dicevo all’inizio di questo incontro, perché è fondamentale, per i bambini come per tutti noi ripeto, darsi delle spiegazioni di
quello che succede che salvino un po’ tutti.
Un bambino, che si vede maltrattato dalle sue principali figure di accudimento, è più facile che risolva la questione dicendo “me lo sono meritato” piuttosto che dicendo “mio padre è cattivo”.
Questo è uno dei drammi che è sotteso a questo tipo di realtà dove il problema nostro non è tanto quello di dire “quale è la verità”, non è la verità il problema; è che se un bambino sente questo, noi avremo a che fare con una
grave complessità di lavoro perché dovremo al tempo stesso, lo diremo poi
alla fine e lo riprenderemo, proteggere il bambino dalle botte, questo è
comunque fondamentale, ma al tempo stesso salvaguardare la figura del genitore dentro di lui, e non è affatto un compito semplice, ma perché è il bambino prima di noi che deve salvaguardare la figura del genitore.
Il problema è che noi dovremo cercare di aiutarlo a salvaguardare la figura
del genitore non assumendo su di sé la cattiveria ma ristabilendo in qualche
modo l’ordine delle cose, ripeto, compito non sempre semplicissimo. Ma vi
è questa complessità emotiva, soprattutto in bambini più grandicelli che
quindi cominciano cognitivamente a darsi spiegazioni di sé e del mondo in
maniera più articolata e possono arrivare a sentimenti di colpa e di vergogna
proprio perché in qualche modo si fanno carico, potremmo dire, della disgrazia familiare, di quello che di grave succede dentro casa, tant’è che al punto
322
L’AVVOCATO DEL MINORE
successivo, quando parliamo di rappresentazioni, le rappresentazioni possibili di sé, di un bambino, di un minore che vive in una condizione di maltrattamento sia quella di cattivo, cioè il se cattivo, io sono menato perché sono cattivo, o di sé spaventato e disorientato, il panico che rimane tale, l’imprevedibilità delle botte che arrivano quando uno meno se l’aspetta, e quindi si
forma una immagine di sé totalmente preda della paura, totalmente preda
della imprevedibilità, dell’allarme continuo, l’immagine di sé schierato,
amico di, nemico di, e come tale punito dal nemico e magari vezzeggiato e
coccolato dall’amico.
A queste immagini di sé corrispondono immagini dell’altro, o spaventante o
malato, attenzione, questa è una spiegazione forte per un minore che vive in
una condizione di maltrattamento; non è colpa di papà, è che è malato, quindi con tutta una costruzione poi su questo di ruolo adattivo come vedremo;
l’altro come cattivo ovviamente, è possibile, non è che dobbiamo escluderla,
anche se ripeto, prima di arrivare a dire un bambino che il genitore è cattivo,
spesso questo genitore ne deve aver combinate parecchie e non è detto che
questo bambino ci arrivi a questo tipo di realtà.
L’altro come nemico laddove, se la logica è quella dello schieramento,
all’immagine di sé schierato corrisponde l’immagine dell’altro cattivo.
Infine i ruoli adattivi possibili che scaturiscono, quindi quando vi dico ruolo
adattivo dico quello che il bambino vi farà vedere immediatamente, cioè la
superficie del suo atteggiamento, il passivo aggressivo, persona remissiva
che ha paura di parlare, faccio delle metafore ovviamente, che ha paura di
parlare del capoufficio ma che in macchina poi quando si sente al sicuro fa le
corna a tutti quanti o prende in mano il cric, il passivo/ aggressivo è connotato come realtà di ruolo proprio da questo estremo terrore dell’altro in qualche modo e dalla rabbiosità della reazione in particolari circostanze, quando
evidentemente il livello di paura dell’altro cala, perché ci si sente più protetti, ci si sente più forti o perché l’altro davanti viene percepito come più debole. La situazione del passivo/aggressivo è tra l’altro una delle situazioni,
come ruolo adattivo, che porta più facilmente alla ripetizione dei comportamenti di maltrattamento da parte di chi ha subito maltrattamenti, e questo è
un classico, ma si forma uno schema tipico di passività/aggressività in cui
l’aver ricevuto un sacco di botte determina uno stato per cui l’altro è qualcuno da temere, ma nel momento in cui per qualche motivo mi sento al sicuro,
posso dare sfogo incontrollato, impulsivo, alle sensazioni rabbiose che ho
represso attraverso la passività. Il problema che quando una persona così
diventa genitore, proprio rispetto alla debolezza, alla fragilità ad esempio del
figlio, è possibile che lo stato di passività si tramuti in uno stato di aggressività perché se lo può permettere in qualche modo. Questo non è un meccanismo intenzionale ovviamente, è un meccanismo forte che può scaturire da
una condizione di maltrattamento.
L’altra situazione è quella del giustiziere, l’altro schema tipo di adattamento,
quello che la farà pagare a qualcuno, dove non è detto che il qualcuno sia per
forza l’origine dei suoi maltrattamenti. Può trattarsi di compagni, coetanei,
altri adulti o situazioni varie, la vendicatività con modalità reattiva e adattiva al maltrattamento oppure il “terapeuta” in cui la focalizzazione sull’altro
maltrattante in quanto malato, in quanto fragile, porta a dire “l’altro è una
323
AIAF
QUADERNO NUMERO
2004/1
persona di cui mi devo prendere cura”, per cui assistiamo a questi scenari di
minori che, nonostante le prendano da tutte le parti, continuano devotamente
a prendersi cura della madre, a prendersi cura del padre, a cercare di farli
curare, a cercare di essere comprensivi e tolleranti, proprio nella preoccupazione per la loro salute.
Questi sono gli scenari possibili del maltrattamento e, proseguendo con questa schematicità necessaria e un po’ di corsa, vi presento il prossimo scenario che parla invece di una cosa diversa che è la grave trascuratezza. Vedete
come è importante, spero di trasmettervi questo, che quando noi parliamo di
abuso non parliamo mai di abuso mettendo sullo stesso piano qualsiasi comportamento, è abuso il maltrattamento grave, è abuso la grave trascuratezza
ma sono cose diverse, diverse proprio negli effetti che hanno sui minori e per
gli scenari che troviamo.
Allora quali sono gli scenari tipici della grave trascuratezza?
Di nuovo dobbiamo parlare delle patologie personali e qui forse, rispetto al
maltrattamento, ne dobbiamo parlare in termini più precisi e anche più frequenti, nel senso che, se è verissimo che non c’è un rapporto costante tra una
patologia e un maltrattamento, è molto più frequente che possa esservi un
rapporto abbastanza costante tra una patologia e una grave trascuratezza.
I figli di persone che hanno disturbi seri, quindi disturbi di una certa entità,
disturbi non necessariamente di schizofrenici ma anche di gravi depressi, di
alcoolisti, di tossicodipendenti, sono candidati più che a rischio di ricevere
percosse o quant’altro, come dicevamo prima, e a rischio di essere esposti a
gravi trascuratezze.
Per gravi trascuratezze qui intendiamo quel tipo di disattenzione alle esigenze primarie dei bambini che espongono i bambini stessi a condizioni di
rischio, sia di rischio incidentale, di rischio di farsi male, di rischio di vivere situazioni insostenibili per loro ma anche di rischio proprio di salute, di
rischio di crescita, di crescita psicofisica.
Non confondiamo la grave trascuratezza con il bambino che sta tre ore
davanti al televisore, questo è un altro capitolo delle nostre questioni; si tratta di altri livelli di problema.
Per grave trascuratezza parliamo di situazioni in cui e la crescita psicofisica
del bambino è messa a rischio ed esiste il rischio di incidentalità varie, perché c’è l’abitudine a rimaner da soli, ad uscire da soli, a fare tutta una serie
di operazioni in totale abbandono, in totale autonomia, il rischio è un rischio
serio, considerevole rispetto ad una sovraesposizione a stimoli che non vengono minimamente controllati, minimamente gestiti dai genitori.
Le patologie personali, ripeto, sono sicuramente più implicate di quanto non
accadesse nel caso precedente del maltrattamento, per cui tutti i servizi che
hanno in cura pazienti che hanno figli dovrebbero avere una grande attenzione soprattutto a quest’area, all’area della trascuratezza, come area significativa di rischio.
Oltre a questo anche determinati giochi relazionali possono essere implicati
in una grave trascuratezza; qui per giochi relazionali intendo faccende in cui
sono implicati gli adulti e che impediscono agli adulti stessi di occuparsi dei
loro figli per questo tipo di faccende. Non intendo soltanto il fatto che uno
lavora dalla mattina alla sera, perché, altrimenti, andiamo tutti al Tribunale
324
L’AVVOCATO DEL MINORE
per i Minorenni e ci accusano tutti di grave trascuratezza, ma intendo quel
tipo di situazioni in cui soprattutto ricorrono alcune dinamiche familiari.
Mentre prima, parlando del maltrattamento, ho richiamato soprattutto la conflittualità coniugale grave come fonte possibile di rabbiosità per cui viene
colpito il minore, qui soprattutto ricorrono scenari caratteristici di grossi
coinvolgimenti dei genitori con la propria famiglia di origine.
C’è uno scenario tipico di questo tipo di situazione che è il coinvolgimento
della madre con la propria madre, con la propria famiglia di origine, dalla
quale spesso questa è uscita con modalità o precoci o comunque disfunzionali o conflittuali o quant’altro, e che in qualche modo è comunque tesa al recupero del rapporto con la madre o alla nostalgia del rapporto con la madre ed
il figlio diventa qualcosa di non visibile, di non considerabile perché il figlio
è in qualche modo anche la prova della sua disgrazia.
Spesso non a caso il figlio è proprio quello che poi ha determinato o l’uscita
traumatica di casa o la rottura della relazione con la propria famiglia di origine o quant’altro e spesso diventa l’oggetto non visibile perché l’attenzione
motiva l’attenzione, è pienamente ancora dedicata al rapporto verticale con
la propria famiglia di origine.
Ci sono scenari di questo tipo dove, pur magari in assenza di vere e proprie
patologie psichiatriche, vediamo situazioni relazionali in cui questo bambino
in realtà non è considerato da nessuno per quello che è e viene spesso poi
gestito in questo modo. Ripeto, qui non si
Scarica