CONFINDUSTRIA
Centro Studi
PREVISIONI
MACROECONOMICHE
Il ruolo dell’Europa per il rilancio
della crescita e dello sviluppo
nell’economia mondiale
Roma, 16 dicembre 2003
Editore SIPI s.r.l.
Servizio Italiano Pubblicazioni Internazionali
Viale Pasteur, 6 - 00144 Roma
PREVISIONI MACROECONOMICHE
2 volumi annui
(ogni fascicolo € 31,00 + spese di spedizione)
TENDENZE DELL’INDUSTRIA ITALIANA
I SETTORI DI ATTIVITÀ ECONOMICA
1 volume annuo
(€ 31,00 + spese di spedizione)
«Evoluzione dei settori industriali»
Quaderni di aggiornamento quadrimestrale delle informazioni
contenute in «Tendenze dell’industria italiana.
I settori di attività economica»
(marzo-luglio-novembre) € 10,33 (ogni fascicolo + spese di spedizione)
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Questo Rapporto, coordinato da Paolo Garonna (Chief Economist), Giulio de Caprariis e Giuseppe Schlitzer,
è stato realizzato da: Daniele Antonucci, Pasquale Capretta, Wanda Cornacchia, Paolo De Luca, Giovanni Foresti, Anita Guelfi, Stefano Manzocchi (Università di Perugia), Stefania Nardone, Ciro Rapacciuolo, Anna
Ruocco, Grazia Sgarra e Alessandro Terzulli. Ad alcuni riquadri del capitolo 3 hanno collaborato Ance, Federturismo, Ucimu e Unrae.
Al capitolo 4 hanno collaborato Daniel Gros (Centre for European Policy Studies - Ceps), Carlo Jean (Centro
Studi di Geopolitica Economica) e Vittorio Mincato (Eni).
Il lavoro si è avvalso della collaborazione di Gianna Bargagli.
Il Rapporto è stato chiuso con le informazioni disponibili al 12 dicembre 2003.
In copertina: da Michelangelo, Sibilla libica
ISBN 88-7153-016-0
© SIPI srl - 2003
INDICE
1.0 INTRODUZIONE E SINTESI ..................................................... Pag.
7
2.0
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
ECONOMIA INTERNAZIONALE ...............................................
Crescita, commercio mondiale e materie prime.......................
Mercati finanziari e valutari .......................................................
Le principali economie avanzate...............................................
I paesi che accedono alla UE...................................................
Le altre economie emergenti.....................................................
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19
19
24
30
40
41
3.0
3.1
3.2
3.3
3.4
3.5
3.6
3.7
AREA DELL’EURO E ITALIA....................................................
L’attività economica....................................................................
Occupazione, disoccupazione e costo del lavoro ....................
Prezzi, costi e margini ...............................................................
La bilancia dei pagamenti .........................................................
La politica monetaria .................................................................
Banche e credito all’economia ..................................................
Finanza pubblica ........................................................................
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47
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85
93
105
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129
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151
163
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179
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197
4.0 IL RUOLO DELL’EUROPA PER IL RILANCIO DELLA CRESCITA E DELLO SVILUPPO NELL’ECONOMIA MONDIALE ............
4.1 L’Europa come attore geopolitico ............................................
4.2 Perché la crescita è così lenta in Europa...............................
4.3 L’Europa di fronte alle grandi sfide dell’energia........................
4.4 L’immigrazione nell’Unione Europea: aspetti economici e politici ...............................................................................................
4.5 Integrazione regionale e performance economica nei paesi dell’Asia orientale ............................................................................
5
RIQUADRI
6
Gli ostacoli alla formazione di un mercato unico dell’energia elettrica in Europa............................................................................... Pag.
54
Redditività e struttura finanziaria delle imprese manifatturiere italiane: un’analisi comparata e per dimensione ...............................
68
I profitti dei grandi gruppi italiani nei primi nove mesi del 2003 ....
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71
Il settore delle macchine utensili nel biennio 2003-2004................
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72
Il mercato automobilistico in Italia e in Europa nel biennio 20032004...................................................................................................
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75
Il settore delle costruzioni nel biennio 2003-2004 ..........................
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78
L’industria del turismo nel biennio 2003-2004.................................
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81
Il Patto di Stabilità tra regole e discrezionalità ...............................
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124
1.
INTRODUZIONE E SINTESI
Il quadro
globale
In questo Rapporto presentiamo come di consueto l’aggiornamento del nostro quadro previsivo per l’economia italiana. La novità di questa edizione del
Rapporto sta nell’enfasi che poniamo sull’evoluzione dell’economia internazionale e sul ruolo che la crescita in Europa può e deve svolgere a sostegno della crescita dell’economia globale. Per un paese fortemente integrato in Europa e nel resto del mondo, come è l’Italia, le prospettive economiche sono strettamente legate al quadro globale. Per questa ragione, il Rapporto del CSC ha
sempre dedicato attenzione agli aspetti critici della congiuntura europea e mondiale. I vincoli che in modo crescente trova la capacità endogena di crescita
economica dell’Europa, e l’intensificarsi dei fenomeni di globalizzazione, oltre
che il ruolo di guida che nel secondo semestre del 2003 ha assunto l’Italia nell’Unione Europea, ci hanno suggerito di focalizzare l’attenzione sul ruolo che
la crescita economica in Europa svolge rispetto alla crescita globale. A taluni
profili critici dell’economia globale sono dedicati una serie di contributi specifici nella parte speciale del Rapporto, frutto della riflessione di esperti della materia. Riteniamo che tali contributi possano fornire elementi utili al dibattito, che
il Rapporto vuole stimolare, sul ruolo politico ed economico dell’Europa nell’attuale contesto internazionale.
La locomotiva
americana
È noto, e ampiamente riconosciuto, che l’economia americana ha assunto nell’ultimo decennio il ruolo di principale e quasi esclusiva locomotiva dello
sviluppo globale, un ruolo da cui anche l’economia europea dipende in modo
stretto. Al momento vi è perciò un relativo consenso sul fatto che la funzione
di leadership economica dell’Europa sul piano globale sia alquanto modesta,
e certamente non proporzionata alla dimensione che ha assunto il nostro continente, particolarmente dopo l’allargamento, equivalente — se non superiore
— a quella degli Stati Uniti sia per produzione che per popolazione. Se le difficoltà dell’Europa ad assumere un ruolo preminente sul piano geopolitico della difesa, della politica estera e della sicurezza, si possono facilmente comprendere, e sono emerse con particolare chiarezza nell’ultimo periodo dopo le
lacerazioni prodotte dalla guerra in Iraq e le discussioni estenuanti per la Costituzione Europea, più difficile è capire le ragioni della incapacità dell’Europa
di contribuire in modo determinante o comunque autonomo alla crescita produttiva e allo sviluppo globale. Le aspettative suscitate in proposito dal mercato unico e dall’avvento dell’euro sono finora andate deluse. La realizzazione dell’unione economica e monetaria, che pure è stata, sotto tanti punti di vista, un grandissimo successo, tarda, infatti, a portare quei benefici che tutti si
attendevano sul piano dell’integrazione economica e dello sviluppo, non soltanto all’interno della regione, ma anche nel rapporto con le regioni vicine e
con il resto del mondo.
Questa difficoltà dell’Europa appare chiaramente anche nell’attuale fase
congiunturale. Nella ripresa del ciclo economico, infatti, l’Europa gioca ancora
una volta di rimessa, stentando a star dietro alla eccezionale performance degli Stati Uniti, dove la crescita del prodotto e della produttività è proseguita a
ritmi superiori alle aspettative (nel terzo trimestre 2003, rispettivamente +8,2 e
7
+9,4% in termini annualizzati). Dinamica, questa, che non è esclusivamente
attribuibile alla componente pubblica e alla politica fiscale e monetaria. Tengono bene, infatti, i consumi delle famiglie e, soprattutto, sono tornati a crescere gli investimenti fissi. Inoltre, si è interrotto il trend negativo che aveva
caratterizzato per diversi mesi il mercato occupazionale: nel trimestre settembre-novembre sono stati creati oltre 300.000 nuovi posti di lavoro, a dimostrazione del fatto che i timori di una jobless recovery o di una job loss recovery,
cioè di una ripresa senza occupazione o con distruzione di occupazione, erano eccessivi.
L’integrazione
economica
dell’Asia
Un significativo contributo alla ripresa internazionale sta venendo dall’Asia
orientale. Le economie emergenti di questa regione si stanno confermando tra
le più dinamiche sullo scacchiere globale. La Cina, superata l’emergenza Sars,
che aveva avuto qualche effetto di rallentamento sull’attività produttiva, dovrebbe mettere a segno nell’anno 2003 una crescita dell’8,5%, confermandosi il quinto paese esportatore al mondo e il sesto per importazioni. Per quanto riguarda il Giappone, siamo al sesto trimestre consecutivo di crescita positiva e la fiducia delle imprese è in visibile miglioramento. Sono questi segnali
decisamente incoraggianti, anche se è ancora presto per mettere la parola fine alla crisi economico-finanziaria che ha attraversato questo paese, viste le
necessarie riforme strutturali che ancora attendono di essere realizzate.
Negli ultimi 25 anni i paesi dell’Asia orientale hanno più che triplicato la
propria quota nelle esportazioni mondiali, mentre gli scambi all’interno dell’area sono cresciuti in misura superiore a quella di qualsiasi altro mercato (si
veda in proposito la nota di approfondimento nella parte speciale). L’integrazione delle economie asiatiche nell’ambito regionale e quella con il resto del
mondo si sono alimentate reciprocamente: la complementarità delle produzioni e delle esportazioni, e la crescente divisione intra-regionale del lavoro, hanno favorito la competitività delle imprese, beneficiando sia i paesi asiatici che
l’economia mondiale nel suo complesso. Con la sua crescita imponente la Cina ha costituito un importante mercato di sbocco per gli altri attori regionali e
ha contribuito alla stabilità dell’area in situazioni congiunturali difficili come le
crisi finanziarie del 1997-1998. Rispetto all’Unione Europea, l’integrazione delle economie dell’Asia orientale ha privilegiato la dimensione commerciale e produttiva, ponendo meno enfasi sugli aspetti istituzionali e regolamentari.
Perché
l’Europa
cresce poco?
Nell’area dell’euro, invece, l’attività produttiva fa fatica a tornare sui ritmi
di crescita che erano ritenuti normali negli anni ottanta. Nonostante un miglioramento nel clima di fiducia degli operatori, la domanda interna resta fiacca e
le speranze di ripresa sono essenzialmente legate all’export. Negli ultimi mesi si è registrata una ripresa delle esportazioni verso il resto del mondo. Tale
andamento riflette soprattutto la buona performance dell’export tedesco ma anche quella degli altri grandi paesi dell’area: dopo tre trimestri di risultati negativi, nel terzo trimestre, anche le esportazioni di Italia e Francia hanno, infatti,
registrato un forte balzo in avanti. L’apprezzamento dell’euro pone tuttavia molti interrogativi sulla possibilità di estendere e consolidare tale andamento nel
medio termine. La modesta performance dell’Europa è in realtà il risultato di
una combinazione di fattori, di natura strutturale e ciclica.
Le ragioni della bassa crescita europea costituiscono un tema centrale a
cui dedichiamo una delle note di approfondimento di questo Rapporto. Due anni consecutivi di crescita sotto l’1% rappresentano senza dubbio un risultato
assai deludente per l’Europa, tanto più che vengono dopo un decennio du-
8
rante il quale la performance media delle economie europee è stata assai meno brillante di quella di un’area comparabile come gli Stati Uniti. Le politiche
macroeconomiche - monetaria e fiscale - sono state meno flessibili, lungimiranti ed aggressive di quelle attuate negli USA, ma non si può dire che esse
siano state nell’intero periodo restrittive. Nè si possono imputare le differenze
di crescita agli shock esterni, come l’attacco terroristico dell’11 settembre o il
conflitto in Iraq, che hanno colpito tutte le economie.
La produttività
nei servizi
Il cuore della «malattia» dell’Europa va cercato in ragioni di tipo strutturale: in particolare occorre porre l’accento sul declino tendenziale della produttività, totale e del lavoro, che si è registrato a partire dagli anni novanta. È sulla produttività quindi che occorre puntare i riflettori dell’analisi e delle iniziative
di politica economica. Il confronto in proposito con il profilo di crescita della
produttività di medio-lungo termine negli Stati Uniti è illuminante. Come conferma un recente studio effettuato per conto della Commissione Europea, il segreto della crescita della produttività statunitense non è solo questione di investimenti industriali, nuove tecnologie e settori di punta. Certamente, gli Stati Uniti hanno in questi anni incrementato la loro efficienza produttiva complessiva perché hanno saputo creare ed investire nei settori hi-tech e delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Ma il differenziale di produttività con l’Europa è spiegato molto di più dalla forte crescita della produttività nei settori tradizionali come il commercio, i trasporti, la logistica, i servizi pubblici e privati, nazionali e locali, il settore bancario e dei servizi finanziari.
Più che nella produzione, questo differenziale di produttività dipende dall’applicazione diffusa delle tecnologie in tutti i settori di attività economica e dall’estensione dell’efficienza, della competitività e dell’innovazione a tutti i campi rilevanti per la produzione, trasmissione ed accumulazione delle conoscenze che sono alla base della catena del valore. Non si tratta quindi solo della
capacità di essere presenti nei settori hi-tech. Concorrenza, liberalizzazione,
efficienza amministrativa, flessibilità dei mercati del lavoro e del prodotto sono
qui importanti come le nuove tecnologie. L’Europa riesce ancora ad esprimere modelli organizzativi e capacità produttive efficaci nell’industria, ma non ha
saputo estendere la «cultura» dell’industria al complesso delle attività economiche e produttive. Non è riuscita a far penetrare l’economia della conoscenza nell’organizzazione della società.
Rilanciare
le riforme
strutturali
Le cose da fare per rivitalizzare le prospettive di crescita delle economie
europee, in particolare quelle dei grandi paesi, sono ben note, e sono state
messe in evidenza ripetutamente dai Rapporti del CSC: riforma dei sistemi di
welfare, affinchè essi facciano realmente da rete sociale di sicurezza e non da
disincentivo dell’offerta di lavoro; mercati del lavoro efficienti flessibili e non
segmentati; liberalizzazioni e maggiore concorrenza nei mercati dei beni e dei
servizi, maggiori investimenti in capitale umano e in conoscenza. Sarebbe ingeneroso non riconoscere che i governi europei sono impegnati su questi fronti, come è testimoniato dalla strategia di Lisbona, ma è indubbio che l’avanzamento delle riforme ha incontrato ostacoli e subito ritardi, e che questo ha
condizionato l’integrazione e la capacità di performance dell’economia europea. La strada definita a Lisbona resta piena di appuntamenti mancati e opportunità perse. E sorgono problemi nuovi con cui fare i conti come quelli della sicurezza e dell’immigrazione (su questi temi si vedano le note di approfondimento nella parte speciale). Solo politiche coraggiose e tempestive di
riforma in Europa, che riportino il sentiero della crescita e della produttività su
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livelli elevati, consentano di conciliare efficienza ed equità sociale, garantendo
al tempo stesso standard elevati di reddito e di occupazione e il consolidamento di quel «modello sociale» di coesione e di solidarietà cui i cittadini europei sono tanto legati. In mancanza di queste riforme è impossibile che l’Europa riesca a diventare «la più dinamica e competitiva economia fondata sulla conoscenza».
Le incognite
di medio-lungo
periodo
Nel nostro scenario previsivo la crescita mondiale risulterebbe quest’anno
appena superiore (3,1%) a quella dello scorso anno ma nel prossimo biennio
si porterebbe intorno al 4%. L’espansione del commercio mondiale di beni e
servizi, inevitabilmente modesta quest’anno, salirebbe al 6% l’anno prossimo.
Questo quadro tuttavia è gravato da numerose incognite e rischi. Innanzitutto la ripresa negli Stati Uniti, che fanno da locomotiva al resto del mondo,
si porta dietro il fardello dei deficit gemelli. Il disavanzo esterno, nelle partite
correnti, nonostante la svalutazione del dollaro (il 13% in termini nominali effettivi dal gennaio del 2002) resta elevato, intorno al 5% del Pil; quello nei conti pubblici giungerebbe quest’anno, secondo le stime del Congressional Budget Office, vicino al 4%. Questi squilibri, che riflettono un insufficiente tasso di
risparmio interno, sono molto probabilmente destinati a perdurare anche nel
2004, anno di campagna elettorale. Essi tuttavia non sono sostenibili nel medio-lungo termine. A partire dal 2005 diventerà quindi inevitabile per le autorità statunitensi iniziare un processo di rientro del disavanzo pubblico. L’evoluzione delle politiche monetarie e dei comportamenti di spesa delle famiglie
e delle imprese, condizionati dai pesanti livelli di indebitamento, seguiranno anch’essi un trend di rientro, con ripercussioni sul tasso di crescita dell’economia. Questa è l’ipotesi che assumiamo nel nostro scenario, dove la crescita
reale negli Stati Uniti scende al 3,2% nel 2005 (dal 4,1% dell’anno precedente), un tasso ancora ragguardevole, ma lievemente inferiore a quello che è ritenuto essere il potenziale dell’economia (3,5-4%), e insufficiente a tirare la
crescita europea e del resto del mondo. L’economia americana è quindi destinata a mettere a riposo la locomotiva e ad occuparsi della ordinaria e straordinaria manutenzione della sua formidabile macchina produttiva.
L’atterraggio
morbido
del cambio
In secondo luogo, vi è una situazione di elevata instabilità dei tassi di cambio delle principali valute, in parte legata anch’essa agli squilibri nella crescita
degli Stati Uniti ma soprattutto ai problemi di funzionamento e di governance
del sistema monetario internazionale. Dall’inizio di settembre l’euro si è apprezzato di oltre il 10% nei confronti del dollaro; in taluni momenti del mese di
dicembre 2003, il cambio ha superato il livello di 1,22 dollari per euro. Di fronte a un’economia europea ancora stagnante e alle incertezze generate dai conflitti istituzionali intorno al Patto di Stabilità e Crescita, le ragioni della forza dell’euro vanno piuttosto ricercate nella debolezza del dollaro. Su quest’ultimo pesano i dubbi circa la qualità e la sostenibilità della ripresa americana, innescata da una forte componente di domanda pubblica, e il deficit delle partite correnti. Qualora i dubbi circa l’entità e la qualità dell’aggiustamento negli Stati Uniti, i suoi tempi e modi, dovessero finire per prevalere, non si può escludere del
tutto un’ulteriore, repentina svalutazione del dollaro. Le conseguenze potrebbero essere una rapida risalita dei tassi d’interesse negli Stati Uniti e, di riflesso,
a livello globale, che finirebbe per soffocare la nascente ripresa, soprattutto in
Europa. Si tratta di uno scenario che al momento appare relativamente improbabile, ma che non si può del tutto escludere, e che occorre ad ogni costo scongiurare. In ogni caso è chiaro che dobbiamo prepararci a far fronte a riallinea-
10
menti dei tassi di cambio a livello internazionale, che avranno profonde ripercussioni sulle economie reali e i cui effetti dovranno essere metabolizzati dai
sistemi produttivi. Infatti, la svalutazione del dollaro — che pure è necessaria
ad assicurare una riduzione del disavanzo esterno americano, e con essa una
ripresa a lungo termine del ruolo di locomotiva degli USA — è sinora avvenuta essenzialmente a spese della moneta unica europea, a causa del rigido controllo sui regimi di cambio delle valute asiatiche, verso i cui paesi si rivolge la
gran parte del disavanzo corrente americano. Al fine di contrastare l’apprezzamento delle proprie divise, le banche centrali di questi paesi — la Cina in primis — hanno accumulato ingenti quantità di riserve ufficiali, che ormai ammontano ad oltre la metà di quelle mondiali. Affinché l’onere del processo di
correzione degli squilibri commerciali globali non ricada soltanto sulla moneta
unica europea, è necessario che anche i cambi di queste valute contribuiscano al riequilibrio dei flussi finanziari e commerciali, come auspicato nelle recenti
dichiarazioni del G7 e del Fondo Monetario Internazionale.
Tab. 1a – Le previsioni del CSC: variabili internazionali e area dell’euro
(variazioni %, salvo diversa indicazione)
2002
2003
2004
2005
Variabili internazionali
Dollaro/euro (1)
Yen/dollaro (1)
Yen/euro (1)
Tasso a 3 mesi euro (1)
Tasso a 3 mesi dollaro (1)
Commercio mondiale
Prezzo del petrolio (2)
0,95
125
118
3,3
1,8
2,9
25,1
1,13
116
131
2,3
1,1
4,0
28,7
1,20
105
126
2,3
1,6
6,0
27,0
1,20
105
126
2,8
3,5
6,5
24,0
Prodotto interno lordo
Mondo
Stati Uniti
Giappone
Nies (3)
Asia (4)
Cina
America Latina
Europa Centro-orientale (5)
3,0
2,4
–0,4
4,6
6,5
8,0
–0,1
2,9
3,1
3,0
2,1
4,1
5,9
8,5
1,1
3,3
3,9
4,1
1,6
4,5
6,2
8,5
3,6
4,1
4,0
3,2
1,5
5,0
7,0
8,0
4,5
4,8
Area dell’euro
Prodotto interno lordo
Prezzi al consumo
Occupazione
Tasso di disoccupazione (1)
Tasso di occupazione (1)
Partite correnti (6) (7)
Indebitamento netto della Pa (6)
Debito pubblico (6)
0,9
2,2
0,4
8,4
62,6
1,0
2,2
69,1
0,4
2,1
0,3
8,8
62,8
0,7
2,9
71,1
1,8
1,9
0,8
8,7
63,3
1,1
2,7
70,0
2,1
1,7
1,1
8,5
64,0
0,8
2,3
69,3
(1) Livelli; (2) Dollari a barile; (3) Hong Kong, Corea del Sud, Singapore, Taiwan; (4) Paesi emergenti dell’Asia escluse le Nies; (5) I dieci paesi che accedono all’UE; (6) Valori in % del Pil; (7)
Saldo di conto corrente e di conto capitale.
11
Rilanciare
il processo
di Doha
Infine, gravano sul quadro previsivo le crescenti tensioni in ambito commerciale: si tratta non solo della difficoltà di rilanciare il processo multilaterale
di liberalizzazione dei commerci, che sono state drammaticamente esemplificate dal fallimento dei negoziati di Cancùn, ma anche di evitare una vera e
propria escalation nelle misure protezionistiche, cui abbiamo assistito nel recente passato. È notizia di pochi giorni fa che l’amministrazione statunitense
ha deciso di rimuovere gradualmente i dazi sull’acciaio per rispettare la sentenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ed evitare in questo modo misure ritorsive da parte di Europa, Giappone, e una serie di altri
paesi. È questo un segnale molto positivo, che va nella direzione giusta, ed
evita una guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti che in questa delicata
congiuntura non possiamo permetterci. Ma le tensioni restano alte. Si pensi alla recente introduzione, sempre da parte degli Stati Uniti, di dazi su alcune importazioni dalla Cina. Anche in Europa, e in Italia, si vanno diffondendo tentazioni di risposte protezionistiche alle sfide che ci vengono dai mercati emergenti, in special modo cinesi. Queste tentazioni vanno assolutamente scongiurate: il loro effetto complessivo e a lungo termine, al di là di qualche limitato e temporaneo beneficio apparente non può essere altro che una riduzione dei flussi di commercio internazionali e, in ultima istanza, della crescita economica globale, e con essa dei redditi e dell’occupazione.
L’incertezza
e i mercati
finanziari
L’altro fattore che è destinato a influenzare in modo determinante le prospettive dell’economia mondiale, almeno a breve-medio termine, è l’aumento
dell’incertezza prodotto dalla recrudescenza del terrorismo internazionale, e dai
conflitti e dalle tensioni che si accumulano in ogni parte del globo, ed anche
in Europa o ai confini dell’Europa. Ne potrebbero essere influenzati in primo
luogo i mercati finanziari. Le scelte di portafoglio degli investitori restano fondamentalmente improntate alla prudenza e potrebbero tornare a privilegiare le
attività altamente liquide o i beni cosiddetti rifugio. In questo senso può essere anche interpretato il ritorno dell’interesse verso l’oro che si è osservato nel
corso dell’ultimo biennio. Più difficile è interpretare il trend rialzista che ha caratterizzato i mercati azionari, anche quelli emergenti, nel corso del 2003. Dall’inizio della guerra in Iraq i corsi azionari sono aumentati del 30% sia negli
Stati Uniti che in Giappone, mentre nell’area dell’euro l’incremento è stato del
20%. La spiegazione va molto probabilmente ricercata nel miglioramento dei
fattori fondamentali e, cioè, nella realizzazione di profitti aziendali superiori alle attese e nel rafforzamento della congiuntura internazionale. Peraltro, in alcuni settori la volatilità rimane elevata, in taluni casi eccessiva. Nel comparto
hi-tech, in particolare, la dinamica degli indici di borsa e l’elevato volume di
scambi di titoli riflettono per lo più strategie di investimento di tipo speculativo:
poiché i prezzi dei titoli tecnologici nell’ultimo triennio si sono ridotti più di quelli di qualsiasi altro settore, essi presentano delle buone opportunità per le transazioni di breve periodo. Restano in ogni caso le fragilità di fondo e gli interrogativi di lungo periodo sulla sostenibilità della ripresa dei corsi di borsa.
Il prezzo
del petrolio
Le quotazioni del Brent sono tornate a salire, raggiungendo un picco di
31 dollari al barile alla metà di ottobre, per poi rimanere intorno ai 29 dollari
in tutto il mese di novembre. È stato soprattutto il taglio produttivo deciso dall’Opec a fine settembre a determinare la risalita delle quotazioni, agendo sulle aspettative degli operatori di mercato. Questo anche se la produzione effettiva dell’Opec-10 (escludendo l’Iraq) è risultata in crescita ad ottobre. I rialzi non sono stati dovuti, invece, a carenze produttive: nel secondo e terzo tri-
12
mestre del 2003 la produzione ha decisamente superato la domanda mondiale di greggio; di conseguenza, le scorte di greggio nei paesi Ocse sono state
rapidamente ripristinate su livelli ottimali. Per il quarto trimestre il taglio produttivo Opec dovrebbe evitare un nuovo eccesso di offerta.
Con la ripresa graduale dell’export iracheno, e considerato anche l’atteggiamento dei paesi petroliferi non-Opec (in particolare, la Russia), che procedono indipendentemente nei propri piani produttivi, le quotazioni sono destinate a scendere. Nel nostro quadro previsivo, il prezzo del Brent nel 2003 si
attesterebbe in media a 28,7 dollari per barile. Le quotazioni rimarrebbero stabili, sui 28-29 dollari al barile, anche per la prima metà del 2004, più alte rispetto alle attese di qualche mese fa. Solo nella seconda parte dell’anno i prezzi farebbero segnare una significativa riduzione, scendendo verso i 25 dollari
al barile a fine 2004; una riduzione che dovrebbe proseguire nel corso del
2005, verso i 23 dollari a fine anno. In media, il Brent chiuderebbe a 27 e 24
dollari, rispettivamente, nei due anni.
I rischi di
instabilità e
di stagnazione
Il nostro orizzonte previsivo arriva fino al 2005. Gli scenari ipotizzati, e gli
indicatori quantitativi prodotti dagli esercizi di simulazione, scontano l’ipotesi di
una evoluzione fisiologica che riporti con gradualità e con una convergenza di
andamenti verso l’equilibrio gli aggregati fondamentali dell’economia mondiale. Avremo probabilmente un rallentamento a partire dall’avvio della nuova presidenza americana e nell’anno successivo; ma questo rallentamento dovrebbe
consentire una ripresa della crescita di medio lungo termine in un contesto in
cui la dinamicità dell’economia americana tornerebbe a svolgere quel ruolo di
leadership economica a cui ci ha abituati negli anni scorsi. Allo stato dei fatti,
l’atterraggio morbido, dopo la ripresa in atto, verso il 2006-2007 ci pare lo scenario più probabile. E tuttavia i rischi e le incertezze che gravano sull’economia mondiale ci spingono a suonare con decisione la campana di allarme, e
a chiamare tutti gli interlocutori dell’economia internazionale alle loro responsabilità di fronte agli squilibri esistenti e nel contesto delle incertezze che gravano sul quadro geo-strategico. Anche l’ultima esperienza di riequilibrio che
abbiamo avuto, dieci anni orsono, sembrava procedere in modo relativamente fisiologico e benevolo, sostenuta dagli accordi del Plaza e da una forte capacità di tenuta delle economie tedesca e giapponese che riuscirono ad assorbire una rivalutazione del cambio fortissima e rapida. La prima guerra d’Iraq, tuttavia, fece da detonatore alla crisi di fiducia dei mercati, precipitando
l’economia americana, e con essa l’Europa e l’economia mondiale, in una grave recessione. Da lì scaturirono le crisi finanziarie in Europa e il crollo della lira e della sterlina; da lì prese avvio il declino giapponese e più avanti tedesco, e tutta una serie di processi con cui stiamo ancora facendo i conti. Quando si analizzano le prospettive economiche globali, quindi, non si possono e
non si debbono escludere scenari alternativi a quello dell’atterraggio morbido,
scenari di instabilità e di stagnazione le cui conseguenze per l’Europa e per il
mondo sarebbero disastrose, e rispetto ai quali non possiamo farci trovare impreparati. Lo scenario più probabile, inoltre, per quanto relativamente favorevole, non è necessariamente quello auspicabile. Si potrebbe far meglio se si
riuscisse a far dipendere meno l’economia globale da quella americana, se ci
fossero altre economie in grado di fare da locomotiva e di sostenere l’economia americana nel corso del suo processo di aggiustamento, se si estendesse, consolidasse e si rendesse sostenibile la crescita nei paesi emergenti e
nei paesi in via di sviluppo che potrebbe portare fuori dalla povertà milioni di
esseri umani.
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La «questione
europea»
Le prospettive a medio termine dell’economia globale chiamano in causa
quindi in modo forte ed incisivo il ruolo dell’Europa. La «questione europea»,
vale a dire l’incapacità dell’Europa di crescere e di trainare l’economia globale, cui dedichiamo un’ampia parte del presente Rapporto, pesa come un macigno sulle prospettive, sui rischi e sulle incertezze della congiuntura. La questione europea è anche e soprattutto una questione globale. Se l’Europa riuscisse, già dal 2004, a dare un segnale della sua ritrovata capacità di riforme
strutturali, di accelerazione dei processi di integrazione e di liberalizzazione
economica, di iniziativa e di visione sullo scacchiere globale a sostegno della
liberalizzazione del commercio (Doha), dell’integrazione e dello sviluppo, essa
potrebbe ritrovare lo slancio della competitività e della crescita, e condividere
con gli Stati Uniti il ruolo e la responsabilità di fare da locomotiva alla crescita globale. È compito dell’Europa promuovere l’integrazione economica e lo
sviluppo delle regioni vicine, a partire dalla «Grande Europa», dal Mediterraneo, dai Balcani, dall’Est, dai paesi dell’ex Unione Sovietica. L’Europa quindi
è oggi la grande speranza, per sé stessa e i suoi cittadini, per i Paesi che
guardano ad essa come prospettiva di prosperità, di stabilità e di democrazia
avanzata per il mondo intero. A patto che l’Europa prenda coscienza di essere un grande attore dell’economia globale, e sappia mostrarsi all’altezza di questo ruolo. L’Italia può dare un grande contributo, non solo per realizzare l’allargamento e l’approfondimento della costruzione europea, ma anche per rilanciare il ruolo della economia europea nel mondo, fondato su una ritrovata
competitività e capacità di riforme e di crescita sostenuta.
L’economia
italiana
Anche in Italia iniziano ad intravedersi i primi timidi segnali di ripresa. Così come nel resto dei paesi dell’area dell’euro, infatti, l’attività economica italiana è tornata a crescere nel terzo trimestre del 2003. La crescita del Pil è
stata favorita essenzialmente dalla tenuta dei consumi delle famiglie e dalla risalita delle esportazioni. Non ci sono, invece, indicazioni di un risveglio significativo degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto.
L’analisi dei dati e delle prospettive indica che la ripresa in corso è relativamente modesta e alquanto fragile. Il recupero dell’attività economica, anche in seguito alla correzione tecnica dei dati di Contabilità nazionale sui primi due trimestri, riporta il Pil italiano su livelli solo lievemente superiori a quelli raggiunti nel quarto trimestre del 2002. Sono, inoltre, ancora deboli i segnali di ripresa degli investimenti che, insieme alle esportazioni, sono le componenti della domanda maggiormente in grado di garantire la sostenibilità della
crescita nel medio periodo. Nel quarto trimestre dell’anno in corso il tasso di
crescita del Pil dovrebbe restare positivo ma comunque inferiore allo 0,5% del
trimestre appena trascorso. Sulla performance dell’ultimo quarto dell’anno dovrebbe, infatti, pesare la nuova battuta d’arresto registrata dalla produzione industriale nel bimestre settembre-ottobre. Alla luce di questi andamenti, il tasso di crescita dell’economia italiana non dovrebbe essere molto lontano da
quello dell’anno scorso. La nostra previsione è che si attesterà sullo 0,5%.
Se si conferma la forte crescita dell’economia americana, se si consolidano i segnali di ripresa dell’economia europea, ma soprattutto se le politiche
di riforma avviate dal Governo creano un clima di aspettative favorevole alla
ripresa degli investimenti, una crescita del Pil più consistente potrebbe verificarsi nel corso del 2004. Indicazioni in tal senso provengono anche dalle inchieste Isae, che evidenziano negli ultimi mesi del 2003 una risalita delle aspettative a breve termine delle imprese su produzione e ordini, nonché dalla ripresa degli ordinativi esteri e interni misurati dall’Istat. Sull’andamento degli or-
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Tab. 1b – Le previsioni del CSC: Italia
(variazioni %, salvo diversa indicazione)
2002
2003
2004
2005
Prodotto interno lordo
Consumi delle famiglie residenti
Investimenti fissi lordi
Macchinari e mezzi di trasporto
Esportazioni di beni e servizi
Importazioni di beni e servizi
0,4
0,4
0,5
0,6
–1,0
1,5
0,5
2,3
–2,9
–6,5
–1,3
1,2
1,6
2,1
2,9
3,6
5,5
5,8
2,0
2,2
3,2
3,8
5,2
5,9
Partite correnti (1) (2)
Saldo commerciale (1)
–0,5
1,4
–1,0
0,9
–0,6
1,3
–0,3
1,6
Occupazione totale (unità standard)
Tasso di disoccupazione (3)
Tasso di occupazione (3)
1,1
9,0
55,4
0,7
8,6
56,0
0,9
8,2
56,6
1,2
7,7
57,4
2,5
2,6
2,8
2,7
3,4
3,3
2,1
2,8
2,8
1,9
2,5
2,8
2,3
3,4
38,2
5,7
3,4
44,9
2,8
2,6
38,7
5,3
4,2
45,5
2,5
2,5
38,4
5,1
3,6
44,5
2,2
2,8
37,9
5,0
3,4
44,2
106,7
106,0
104,8
102,9
Prezzi al consumo
Retribuzioni: totale economia
industria in s.stretto
Indebitamento netto della Pa (1)
Avanzo primario Pa (1)
Spesa corrente al netto interessi (1)
Spesa per interessi (1)
Spesa in conto capitale (1)
Entrate della Pa (1)
Debito della Pa (1)
(1) Valori in % del Pil; (2) Saldo di conto corrente e di conto capitale; (3) Livelli.
dini esteri iniziano a farsi sentire gli effetti positivi della ripresa americana e
dei paesi asiatici, anche se attenuati dall’apprezzamento dell’euro. Internamente, la risalita degli ordinativi sembrerebbe indicare il riassorbimento del contraccolpo negativo dovuto alla fine degli incentivi fiscali previsti dalla Tremonti-bis e dagli eco-incentivi. Il venir meno di questi incentivi ha pesantemente
penalizzato gli investimenti in macchinari, attrezzature e in mezzi di trasporto
nonché i consumi di beni durevoli nella prima metà del 2003.
Nel 2004 l’economia italiana dovrebbe acquisire via via vigore grazie sia
alla ripresa del commercio internazionale e dei mercati azionari, sia al graduale
miglioramento della situazione congiunturale nell’area dell’euro. L’accelerazione prevista in corso d’anno porterebbe la variazione tendenziale del Pil nel
quarto trimestre del 2004 attorno al 2%. La bassa velocità di entrata nel nuovo anno, impedirebbe, tuttavia, al Pil italiano di crescere al di sopra dell’1,6%.
Solo nel 2005 l’Italia tornerebbe, secondo le nostre previsioni, a crescere intorno al 2,0%.
I prezzi
Dopo essere rimasta ferma al 2,8% fino a settembre 2003, negli ultimi mesi dell’anno l’inflazione italiana ha finalmente mostrato un’apprezzabile discesa, giungendo a novembre — secondo i dati preliminari Istat — al 2,5%. A favorire il rallentamento dell’inflazione è stata solo in parte la componente energetica. La discesa si deve soprattutto all’allentamento delle pressioni inflazio-
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nistiche di fondo; in particolare, sono scesi ancora i prezzi delle comunicazioni e sembra consolidarsi un’inversione di tendenza nella dinamica sia dei prezzi di alberghi, ristoranti e pubblici esercizi (che rimane però sostenuta), sia nell’abbigliamento e calzature. Si registrano, però, ancora residue tensioni sui
prezzi alimentari.
Tre fenomeni meritano un’attenzione particolare. In primo luogo, sembra
mostrare qualche segnale di riassorbimento, ma resta ancora molto ampia (intorno allo 0,8%) la forbice tra l’andamento dei prezzi al consumo e quello dei
prezzi alla produzione per i beni di consumo; un gap dovuto essenzialmente
alla dinamica sostenuta dei prezzi di alcune tipologie di servizi e ai problemi
di efficienza nella catena distributiva. In secondo luogo, negli ultimi mesi, il differenziale di inflazione tra il nostro Paese e la media dell’area dell’euro è sceso intorno allo 0,6%, un’evoluzione guidata dall’andamento del differenziale di
core inflation; dal mese di maggio la core inflation italiana, pur restando ancora su livelli elevati, ha infatti iniziato l’atteso processo di riduzione, grazie al
primo parziale rallentamento dei prezzi dei servizi, ma anche per la moderazione dei prezzi dei beni industriali non energetici. In terzo luogo, negli ultimi
mesi non è proseguito il riavvicinamento dell’inflazione percepita, risultata sostanzialmente invariata, a quella effettiva; resta quindi un gap significativo tra
percezioni e realtà, su cui le iniziative di moral suation del governo e delle parti sociali, come ad esempio il tavolo sull’inflazione promosso da Confindustria
e dai sindacati, possono giocare un ruolo significativo.
Nel quadro previsivo del CSC, che si basa sul proseguire della moderazione nei prezzi delle materie prime non combustibili e su una discesa, dalla
seconda parte del 2004, dei prezzi petroliferi verso valori di equilibrio, le prospettive per l’inflazione italiana appaiono relativamente favorevoli. Inoltre, la
prevista ripresa dell’attività economica non dovrebbe generare tensioni eccessive sui prezzi grazie alla presenza di un ampio bacino di capacità produttiva
inutilizzata nel nostro Paese; la moderazione dei prezzi alla produzione rimane incoraggiante e le inchieste presso le imprese sulle aspettative dei prezzi
forniscono segnali complessivamente positivi. Il rallentamento dei prezzi sarebbe favorito dal livello del cambio, giunto ad un nuovo massimo storico nei
confronti del dollaro e che dovrebbe rimanere elevato in tutto l’orizzonte previsivo.
Secondo questo scenario, l’inflazione nel nostro Paese dovrebbe attestarsi
nel 2003 al 2,7%. Nella media del 2004 la crescita dei prezzi rallenterebbe verso il 2,1% e la convergenza dell’inflazione italiana verso quella dell’area dell’euro accelererebbe in modo significativo; ci attendiamo, infatti, il proseguimento della discesa della core inflation italiana, soprattutto con un più significativo rallentamento dei prezzi dei servizi, mentre la core dell’area dell’euro
dovrebbe attestarsi solo lievemente sotto i valori raggiunti quest’anno. Nel 2005,
infine, l’inflazione italiana scenderebbe intorno all’1,9%.
I conti pubblici
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Venendo alla finanza pubblica, per il 2003 confermiamo nella sostanza le
nostre previsioni del settembre scorso, con un indebitamento netto della PA
intorno a 2,8% del Pil, circa tre decimi di punto sopra le previsioni dell’ultima
Relazione Previsionale e Programmatica (RPP). Le differenze derivano soprattutto da una diversa valutazione delle uscite per i consumi pubblici. Tale
slittamento è la principale ragione per cui appare improbabile che nel 2004 si
riesca a cogliere l’obiettivo, indicato nella RPP, di un indebitamento pari al
2,2% del Pil. Anche ipotizzando, come viene fatto nel nostro scenario previsivo, una completa e pienamente efficace realizzazione degli interventi previsti
dalla manovra di bilancio, l’indebitamento del 2004 arriverebbe a circa il 2,5%
del Pil. Va anche sottolineato che tale livello di indebitamento presuppone non
solo l’effettivo conseguimento degli 11 miliardi in maggiori entrate e minori spese previsti dalla manovra di bilancio, ma anche una gestione rigorosa delle singole voci di spesa, a partire da quella per il personale che negli ultimi anni ha
registrato incrementi piuttosto elevati, soprattutto negli enti territoriali.
La politica di bilancio per il 2005 dovrà affrontare problemi non semplici.
Il primo è la sostituzione delle misure straordinarie del 2004 (circa 13 miliardi); secondo gli impegni presi in sede europea, tale sostituzione dovrebbe, per
almeno un terzo, essere costituita da misure con effetti permanenti. Inoltre,
una riduzione del disavanzo strutturale pari ad almeno mezzo punto di Pil —
che tradizionalmente costituisce il metro di riferimento della Commissione per
valutare la «adeguatezza» delle velocità di aggiustamento dei conti pubblici —
richiederebbe una riduzione dell’indebitamento nominale dal 2,5% da noi previsto per il 2004 a 1,7-1,8% nel 2005. Questo significherebbe un brusco cambio di segno della impostazione di politica fiscale (fiscal stance), che diventerebbe restrittiva ponendo a rischio le prospettive di consolidamento della ripresa. Dato il nostro scenario di crescita moderata per il 2005 abbiamo ipotizzato una politica di bilancio in cui si compensa il venir meno delle una tantum del 2004, ma che, come nel 2004, rimanga neutrale rispetto al ciclo. Per
effetto della maggior crescita economica il disavanzo scenderebbe a 2,2% del
Pil. Obiettivi più ambiziosi sarebbero possibili se nel corso del 2004 la ripresa
dell’economia si rivelasse più brillante di quanto abbiamo previsto. Ciò richiederebbe un rilancio dell’iniziativa di politica economica del Governo nella direzione delle riforme strutturali che agiscano sulla composizione della spesa e
delle entrate, favorendo le componenti capaci di generare sviluppo, come il sostegno agli investimenti, alla ricerca e alle infrastrutture.
Il problema di fondo della finanza pubblica italiana resta quello ben noto
del passato: le difficoltà politiche a effettuare con coraggio gli aggiustamenti
necessari inducono a rinviare gran parte dei problemi ed a ricorrere a soluzioni di breve periodo che concorrono a rafforzare le rigidità del bilancio. Anche le soluzioni più incisive, e ineludibili, come gli interventi proposti sulle pensioni, non sembrano sfuggire a questa regola: la loro applicazione è, infatti,
prevista molto in là nel tempo, solo a partire dal 2008, e rischia di venir ulteriormente diluita e differita dal tentativo di guadagnare qualche consenso con
il dialogo sociale.
Il contributo
dell’Italia
ai processi
di integrazione
Se l’Europa non può sfuggire al suo storico destino di attore globale, l’Italia, grande economia e paese fondatore, non può non svolgere in Europa un
compito importante, anche oltre il semestre di presidenza: quello di stimolo ai
processi di integrazione e alle politiche di sviluppo economico. Per svolgerlo
credibilmente, recuperando i ritardi e gli errori del passato (che vengono drammaticamente evidenziati dal peso del suo debito pubblico e dal fatto che con
esso dovremo convivere a lungo), l’Italia non può permettersi tentennamenti e
ambivalenze sul rigore delle sue politiche fiscali e antinflazionistiche. Essa deve inoltre anche esser capace di concentrare tutti i suoi sforzi sul recupero di
competitività e sul sostegno della produttività, degli investimenti e della crescita delle attività economiche e dell’occupazione.
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