FOCUS la responsabilità medica (I) File - Progetto e

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MATERIALI DE: LA RESPONSABILITA’ MEDICA
SENTENZA CASS. CIV. 589/1999
Diritto
Motivi della decisione
1.1. Anzitutto i due ricorsi vanno riuniti.
Con il primo motivo di ricorso il Comune di Roma lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto,
assumendo che per effetto degli artt. 7 e 10 l. 456-1987 (NDR: D.L. 19.09.1987 n. 382 artt. 7 e 10), il Comune aveva
perso la sua legittimazione passiva e l'effettivo pagamento dei debiti residui e non estinti alla data del 31.12.1985 doveva
essere posto a carico delle regioni territorialmente competenti, che avrebbero provveduto al pagamento attraverso i
mezzi finanziari posti a disposizione dallo Stato.
In ogni caso il ricorrente lamenta che, ove anche fosse accolta la tesi che i comuni conservano la legittimazione passiva
a norma dell'art. 111 c.p.c., rimanendo parti nel giudizio, in ogni caso non poteva emettersi una sentenza di condanna
nei suoi confronti, in quanto al debitore Comune era subentrato il debitore Regione.
1.2. Il motivo è infondato e va rigettato.
Infatti, come questa Corte ha già rilevato (Cass. 17.6.1995,n. 6862), il Comune succeduto ex lege nella posizione
debitoria dei soppressi enti ospedalieri (nella specie di cui al precedente, Pio istituto S. Spirito ed Ospedali riuniti di
Roma) - ai sensi dell'art. 66 della l. 23 dicembre 1978 n. 833 - e, perciò, convenuto in giudizio per il pagamento di un
debito di questi enti non perde la sua legittimazione passiva per effetto del d.l. 19 settembre 1987 n. 382 (convertito con
legge n. 456 del 1987), che ha posto a carico del bilancio statale i debiti dei predetti enti non ancora estinti alla data del
31 dicembre 1985 e ne ha dettato le modalità di ripianamento disponendo, per alcuni di essi (art. 8: debiti verso le
aziende di credito, la cassa depositi e prestiti e gli istituti previdenziali) il soddisfacimento tramite il ministero dei tesoro,
per altri l'estinzione del diritto (art. 9: debiti verso lo Stato, le province, i comuni e le Usl), per altri ancora (art. 10) il
pagamento, ad opera delle regioni, con mezzi finanziari messi a disposizione dallo Stato, per i residuali.(art. 12)
l'imputazione alla gestione corrente delle Usl nelle quali sono confluiti i soppressi enti ospedalieri; infatti, le predette
disposizioni del d.l. n. 382 del 1987, avendo contenuto innovativo di carattere sostanziale, non sono applicabili
retroattivamente e determinano, quindi, solo una forma di successione l'ex lege" nella titolarità passiva del rapporto che,
ai sensi dell'art. 111 c.p.c., non implica l'estromissione del rapporto processuale del comune, originario debitore, cui
spetta attivare i meccanismi stabiliti dalla legge per l'estinzione del debito (Conf. Cass. 5.12.1995, n. 12505; Cass.
3.7.1997, n. 6003).
1.3. Essendo pacifico il suddetto principio, risulta infondata anche la doglianza secondo cui, pur rimanendo parte nel
giudizio il Comune, nei suoi confronti non poteva emettersi una sentenza di condanna.
Infatti, proprio perché a norma dell'art. 111 c.p.c. il trasferimento a titolo particolare nel corso del processo del diritto
controverso non spiega alcun effetto sul rapporto processuale, che continua a svolgersi tra le parti originarie, detto
trasferimento non può comportare una riduzione della domanda, da domanda di condanna in domanda di accertamento,
poiché per questa via egualmente si realizzerebbe un'ipotesi di sopravvenuta carenza di legittimazione passiva del dante
causa, quanto meno limitatamente alla domanda di condanna, che, invece, la norma in questione esclude.
Il principio della continuazione del processo tra le parti originarie, allorché sia trasferito il diritto controverso, determina
infatti la non influenza rispetto ai termini della controversia delle vicende attinenti a posizioni giuridiche attive o passive
successive all'inizio della controversia stessa, che prosegue negli esatti termini (e non in termini ridotti, come ritenuto dal
ricorrente) tra le parti individuate dalla loro originaria posizione giuridica.
2.1. Infondato è anche il secondo motivo del ricorso del Comune di Roma, con il quale lo stesso lamenta la violazione e
falsa applicazione dell'art. 2945 c.c. ed il difetto di motivazione, ai sensi dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c..
Nella prima parte dì questo motivo il ricorrente censura l'impugnata sentenza per aver ritenuto che la costituzione di
parte civile svolgesse funzione interruttiva permanente, mentre essa, a parere del ricorrente aveva una funzione
interruttiva istantanea, con l'effetto che, essendo intervenuta detta costituzione in data 9.7.1968, da quella data iniziava a
decorrere un nuovo termine prescrizionale.
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2.2. Il motivo è analogo al secondo motivo di ricorso proposto dal M., con la particolarità che questo ricorrente ritiene che
vada escluso l'effetto permanente della costituzione di parte civile, in quanto il processo si è concluso con sentenza
istruttoria di proscioglimento e non con sentenza soggetta a giudicato.
2.3. I due motivi vanno trattati congiuntamente.
Essi sono infondati e vanno rigettati.
Anzitutto entrambi i motivi riposano sul presupposto implicito che nella fattispecie ricorra l'ipotesi della prescrizione
quinquennale di cui all'art. 2947 C.C., trattandosi di responsabilità aquiliana sia dell'Ente gestore del servizio sanitario sia
del medico.
Sennonché, come si dirà diffusamente in seguito (punti 5 e 6), detta responsabilità ha natura contrattuale.
In ogni caso, anche prescindendo da tale presupposto ed esaminando i motivi di ricorso nei soli espressi termini in cui
sono stati proposti, essi risultano infondati.
Infatti, in tema di risarcimento di danni da fatto illecito, avente rilevanza penale, la costituzione di parte civile nel
processo penale ha un effetto interruttivo permanente della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per tutta la
durata del processo, sicché anche nel caso di estinzione del reato per amnistia il termine di prescrizione ricomincia a
decorrere dalla data in cui non è più soggetta ad impugnazione la sentenza che ha dichiarato l'estinzione del reato e non
dalla data del decreto di amnistia (Cass. 20.9.1996, n. 8367; Cass. 15.11.1995, n. 11835).
Quindi, proprio perché l'effetto interruttivo permanente è conseguenza della costituzione di parte civile è irrilevante la
natura della sentenza che ha dichiarato l'estinzione del reato.
In ogni caso, ai fini dell'applicazione dell'art. 947, c. 30, c.c., devono ritenersi comprese nel concetto di sentenze penali
irrevocabili anche le pronunce intervenute in periodo istruttorio, con formula di proscioglimento, con riguardo alle quali il
termine di prescrizione dell'azione civile di risarcimento dei danni decorre dal momento in cui dette sentenze non sono
più soggette ad impugnazione (Cass. 11.2.1988,n. 1478; Cass. 16.6.1987, n. 5286; Cass. 30.3.1988,n. 2680, che ha
equiparato alla sentenza, ai suddetti fini, anche il decreto di archiviazione emesso a seguito di una vera istruttoria).
2.4. Inammissibile è la seconda parte del secondo motivo del ricorso del Comune di Roma, con cui lo stesso lamenta
che la sentenza impugnata ha travisato i risultati probatori ed in particolare le risultanze delle perizie e la deposizione del
prof. F., che aveva escluso la responsabilità del M..
Va, infatti, rilevato che il travisamento del fatto non può costituire motivo di ricorso per cassazione, poiché, risolvendosi in
un'inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in
contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex
art. 395, n. 4, c.p.c.. (Cass. 15.5.1997, n. 4310; Cass 2.5.1996, n. 4018).
3. Infondato è anche il ricorso del M..
Sul secondo motivo si è già detto (2.2.).
Con il primo motivo il M. lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ed in particolare dell'art. 2043 c.c.,
in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c..
Ritiene il ricorrente, anzitutto, che è stata affermata illegittimamente una responsabilità solidale sua, medico dipendente
della struttura ospedaliera, senza specificare a che titolo e sulla base di quale norma.
Ritiene il ricorrente che il diritto all'eventuale risarcimento del danno poteva essere esercitato dalla danneggiata
esclusivamente nei confronti dell'ente ospedaliero, e non nei confronti del medico dipendente, il quale se, del caso,
poteva rispondere del suo operato al suo datore di lavoro.
Secondo il ricorrente in ogni caso egli "non può essere condannato in solido ai sensi dell'art. 2043 C.C. in quanto tale
previsione è ascrivibile solo all'ente".
Inoltre, poiché la sentenza impugnata ha ritenuto che gli effetti negativi dell'intervento erano riconducibili alla mancanza
di diligenza e prudenza del primo chirurgo, in effetti essa ha ritenuto la sussistenza di una sua colpa lieve, per cui a
norma dell'art. 2236 c.c., non poteva sussistere una sua responsabilità civile, essendo la stessa limitata ai casi di dolo o
colpa grave.
4.1. Quanto alla natura della responsabilità professionale del medico, osserva preliminarmente questa Corte che,
contrariamente a quanto avviene negli ordinamenti dell'area di common law, ove persiste la tendenza a radicare la detta
responsabilità nell'ambito della responsabilità aquiliana (torts), nei paesi dell'area romanistica, come nel nostro
ordinamento, si inquadra detta responsabilità nell'ambito contrattuale.
Invece controversa è in giurisprudenza la natura della responsabilità del medico dipendente di una struttura pubblica nei
confronti del paziente.
Secondo un primo orientamento (Cass. 8.3.1979,n. 1716; Cass. 21. 12 1978,n. 6141; Cass. 26.3.1990,n. 2428; Cass.
13.3.1998,n. 2750) l'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale,
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comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a
proprio carico, nei confronti del malato l'obbligazione di compiere l'attività diagnostica e la conseguente attività
terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura.
Poiché a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell'attività
diagnostica o terapeutica, quale organo dell'ente ospedaliero, la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente
per danno cagionato da un suo danno diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il
diritto al risarcimento del danno spettante al paziente si prescrive in cinque anni.
Costantemente si è affermato che la extracontrattualità dell'illecito del medico dipendente non osta all'applicazione
analogica dell'art. 2236, in quanto la ratio di questa norma consiste nella necessità di non mortificare l'iniziativa del
professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà e ricorre, pertanto, indipendentemente dalla qualificazione
dell'illecito (Cass.
S.U. 6.5.1971, n. 1282; Cass. 18.11.1997,n. 11440).
4.2. Sennonché l'ascrizione dell'attività del medico dipendente della struttura sanitaria alla responsabilità
extracontrattuale non appare persuasiva.
Anzitutto proprio colui (il medico) che si presenta al paziente come apprestatore di cure all'uopo designato dalla struttura
sanitaria, viene considerato come l'autore di un qualsiasi fatto illecito (un quisque). L'esito sembra cozzare contro
l'esigenza che la forma giuridica sia il più possibile aderente alla realtà materiale.
Detta impostazione riduce al momento terminale, cioè al danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si
struttura prima come "rapporto", in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico ed il
medico accetta di prestargliele.
Inoltre se la responsabilità del medico (dipendente) fosse tutta ristretta esclusivamente nell'ambito della responsabilità
aquiliana, essa sarebbe configurabile solo nel caso di lesione della salute del paziente conseguente all'attività del
sanitario e quindi di violazione dell'obbligo di protezione dell'altrui sfera giuridica (inteso come interesse negativo).
In altri termini la responsabilità aquiliana del medico, intesa come conseguenza della violazione del principio alterum non
laedere, sarebbe configurabile solo allorché, per effetto dell'intervento del sanitario (connotato da colpa), il paziente si
trovi in una posizione peggiore rispetto a quella precedente il contatto con il medico.
Se, invece, il paziente non realizza il risultato positivo che, secondo le normali tecniche sanitarie, avrebbe dovuto
raggiungere (ma, ciononostante, non è "peggiorato"), non sarebbe configurabile una responsabilità aquiliana del medico,
per il semplice fatto che egli non ha subito un danno rispetto alla situazione qua ante, ma solo non ha raggiunto un
risultato positivo (o migliorativo), che, se gli è dovuto nell'ambito di un rapporto di natura contrattuale (e quindi da parte
dell'ente ospedaliero), non altrettanto può dirsi fuori di esso.
Sennonché pacificamente anche coloro che considerano la responsabilità del medico dipendente nei confronti del
paziente di natura extracontrattuale, ritengono poi che essa copra entrambe le situazioni suddette.
5.1. Secondo un altro orientamento, che trae origine da Cass. 1.3.1988, n. 2144, ma che è stato successivamente
ribadito (Cass. 11.4.1995, n. 4152; Cass. 27.5.1993,n. 5939; Cass. 1.2.1991, n. 977),la responsabilità dell'ente
ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a
causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, inserendosi nell'ambito del rapporto giuridico pubblico (o
privato) tra 11 ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio, ha natura contrattuale di tipo
professionale.
Premesso che lo Stato o altro ente pubblico, nell'esercizio di un servizio pubblico, predisposto nell'interesse dei privati
che ne fanno richiesta, non esercita poteri pubblicistici, in quanto il privato, fatta la richiesta del servizio, acquista un
diritto soggettivo a cui corrisponde il dovere dello Stato o dell'ente pubblico di effettuare la prestazione, l'indirizzo in
esame osserva che in questo caso si costituisce un rapporto giuridico tra i due soggetti, strutturato da un diritto
soggettivo e da un correlato dovere di prestazione, per cui la responsabilità dell'ente pubblico verso il privato per il danno
a questo causato per la non diligente esecuzione della prestazione non è extracontrattuale , essendo configurabile
questo tipo di responsabilità solo quando non preesista tra il danneggiante ed il danneggiato un rapporto giuridico nel cui
ambito venga svolto dal primo l'attività causativa del danno.
Pertanto nel servizio sanitario l'attività svolta dall'ente gestore a mezzo dei suoi dipendenti è di tipo professionale
medico, similare all'attività svolta nell'esecuzione dell'obbligazione privatistica di prestazione, dal medico che abbia
concluso con il paziente un contratto d'opera professionale. La responsabilità dell'ente gestore del servizio è diretta,
essendo riferibile all'ente, per il principio dell'immedesimazione organica, l'operato del medico dipendente inserito
nell'organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha
causato danni al privato che ha richiesto ed usufruito del servizio.
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Dalla suddetta ricostruzione della responsabilità dell'ente gestore del servizio sanitario pubblico (intesa, quindi come
responsabilità diretta) il predetto orientamento desume che vanno applicate analogicamente le norme che regolano la
responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d'opera professionale; in
particolare quella di cui all'art. 2236 c.c..
In tal senso questo secondo indirizzo ribadisce la natura contrattuale della responsabilità dell'ente gestore del servizio,
anche se ne definisce, con maggior rigore, il fondamento dogmatico ed i limiti.
Quando passa a valutare la natura della responsabilità del medico il predetto orientamento osserva che, per l'art. 28
Cost., accanto alla responsabilità dell'ente esiste la responsabilità del medico dipendente; che tali responsabilità hanno
entrambe radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria del medico, nell'ambito dell'organizzazione
sanitaria, che, stante detta comune radice, la responsabilità del medico dipendente è come quella dell'ente pubblico di
tipo professionale contrattuale; che pertanto ad essa vanno applicate analogicamente le norme che regolano la
responsabilità del medico in tema di prestazione professionale, in esecuzione di un contratto d'opera professionale.
5.2. Sennonché, questa tesi pur affermando la natura di responsabilità contrattuale da parte del medico, pubblico
dipendente, non ne spiega compiutamente il fondamento.
Infatti non è esaustivo il richiamo all'art. 28 Cost., che si limita ad affermare una responsabilità diretta dei funzionari e dei
dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti con violazione dei diritti, rinviando però alle "leggi penali,
civili ed amministrative".
In altri termini detta norma non statuisce sulla natura della responsabilità, che è rimessa alle leggi ordinarie, ma solo
sulla natura diretta di essa.
Ne consegue, che, poiché la legge civile tra l'altro contempla sia una responsabilità contrattuale che extracontrattuale, il
solo richiamo al citato art. 28 Cost. non è esaustivo del problema relativo alla natura della responsabilità del medico
dipendente.
Nè la questione è risolta per il richiamo al fatto che sia la responsabilità del medico che quella dell'ente gestore "hanno
radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente nell'ambito
dell'organizzazione sanitaria".
Infatti la natura di una responsabilità (nella specie contrattuale o extracontrattuale) va determinata non sulla base della
condotta in concreto tenuta dal soggetto agente, ma sulla base della natura del precetto che quella condotta viola.
Ciò comporta che una stessa condotta può violare due (o più) precetti, uno di natura contrattuale ed uno di natura
extracontrattuale, fondando quindi due diverse responsabilità.
Infatti, nel nostro ordinamento (contrariamente all'ordinamento francese dove vige incontrastato il principio del principio
del non cumul), quale si è venuto configurando per effetto del diritto vivente, vige il principio che è ammissibile il
concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, allorché un unico comportamento risalente al medesimo
autore appaia di per sè lesivo non solo di diritti specifici derivanti al contraente da clausole contrattuali, ma anche dei
diritti soggettivi, tutelati anche indipendentemente dalla fattispecie contrattuale (Cass. 23.6.1994,n. 6064; Cass.
7.8.1982,n. 4437).
Ne consegue che se è ammissibile a carico dello stesso soggetto il concorso della responsabilità contrattuale e di quella
extracontrattuale, a maggior ragione in via di pura ipotesi non potrebbe escludersi che uno stesso fatto (attività
professionale del medico) integri a carico di un soggetto (ente gestore del servizio sanitario, in quanto allo stesso
ascrivibile per effetto dell'immedesimazione organica) un'ipotesi di responsabilità contrattuale ed a carico dell'autore del
fatto un'ipotesi di responsabilità extracontrattuale.
Pertanto il fatto che sia la responsabilità del medico che quella dell'ente gestore del servizio sanitario abbiano "entrambe
radici nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell'ambito
dell'organizzazione sanitaria", pur costituendo un importante elemento fattuale, non comporta necessariamente che le
responsabilità di entrambi i soggetti siano di natura contrattuale di tipo professionale, come pare ritenere l'orientamento
giurisprudenziale da ultimo indicato (che fa capo alla sentenza n. 2144 del 1988).
5.3. Probabilmente la stessa considerazione dell'unicità della "radice" è stata alla base dei tentativi di soluzione proposti
da quella parte della dottrina che sostiene la natura contrattuale della responsabilità del medico pubblico dipendente.
Si è, infatti, osservato da alcuni che la responsabilità del medico conseguirebbe all'applicazione della normativa relativa
al contratto in favore di terzo, in quanto l'ente gestore del servizio sanitario - nel momento in cui si assicura la
prestazione professionale del medico - stabilisce anche che il beneficiario di detta prestazione sia il paziente che
successivamente richiederà la prestazione sanitaria.
Sennonché, a parte numerosi altri più limitati problemi, qui vanno effettuate due osservazioni.
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Anzitutto nella fattispecie in esame di medico dipendente pubblico non vi era un contratto tra l'ente gestore del servizio
pubblico ed il medico , ma solo un rapporto di pubblico impiego.
In ogni caso (e l'ipotesi va fatta tanto con riferimento ai medici dipendenti di ente pubblico, con contratto di natura
privata, come può avvenire soprattutto per le posizioni apicali , c.d. "primari", quanto ai casi di medici dipendenti di privati
- "casa di cura" -) il soggetto danneggiato che agisce non aziona il "contratto" esistente tra l'ente ed il medico, di cui egli
sarebbe il terzo beneficiario (cioè in senso lato il "contratto di lavoro") ma aziona il diverso "contratto" intervenuto tra lui e
l'ente gestore per ottenere la prestazione sanitaria, rispetto al quale egli non è terzo beneficiario , ma parte contrattuale,
ovvero propone un'azione di responsabilità extracontrattuale per la lesione di un suo diritto soggettivo assoluto, quale è il
diritto alla salute.
5.4. Quest'ultima obiezione impedisce anche di poter condividere la tesi di coloro che sostengono che nella fattispecie
sarebbe ravvisabile un contratto con effetti protettivi nei confronti di un terzo (il paziente). La figura del contratto con
effetti protettivi nei confronti di un terzo, elaborata dalla dottrina tedesca e che ha trovato un riscontro anche nella
giurisprudenza italiana (Cass. 22.11.1993, n. 11503), si avrebbe ogni qualvolta da un determinato contratto sia
deducibile l'attribuzione al terzo di un diritto non al conseguimento della prestazione principale, come accade
sicuramente nel caso del paziente, ma alla sua esecuzione con diligenza tale da evitare danni al terzo medesimo.
5.5. In realtà, l'attività diagnostica e terapeutica è dovuta nei confronti del paziente, nell'ambito di un preesistente
rapporto, sia dall'ente ospedaliero sia dal medico dipendente, ma da ciascuno di questi sotto un diverso profilo e nei
confronti di un diverso soggetto. Quanto all'ente ospedaliero, l'attività è dovuta nei confronti del paziente quale
prestazione che l'ente si è obbligato ad adempiere con la conclusione del contratto d'opera professionale.
Quanto al medico dipendente, l'attività è dovuta nei confronti dell'ente ospedaliero nell'ambito del rapporto di impiego
che lo lega all'ente e quale esplicazione della funzione che è obbligato a svolgere.
6.1. Un recente, ma sempre più consistente, orientamento della dottrina ha ritenuto che nei confronti del medico,
dipendente ospedaliero, si configurerebbe pur sempre una responsabilità contrattuale nascente da "un'obbligazione
senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in quanto poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura
impostigli dall'arte che professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di prestazione, e
la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà origine a responsabilità contrattuale.
6.2. La soluzione merita di essere condivisa.
Va subito rilevato che non si può criticare la definizione come "contrattuale" della responsabilità del medico dipendente di
struttura sanitaria, limitandosi ad invocare la rigidità del catalogo delle fonti ex art. 1173 c.c., che non consentirebbe
obbligazioni contrattuali in assenza di contratto.
Infatti la più recente ed autorevole dottrina ha rilevato che l'art. 1173 c.c., stabilendo che le obbligazioni derivano da
contratto, da fatto illecito o da altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico, consente di
inserire tra le fonti principi, soprattutto di rango costituzionale ( tra cui, con specifico riguardo alla fattispecie, Può
annoverarsi il diritto alla salute), Che trascendono singole proposizioni legislative.
Suggerita dall'ipotesi legislativamente prevista di efficacia di taluni contratti nulli (art. 2126, c.1, 2332, c.2 e 3, c.c., art. 3
c. 2 l. n. 756-1964), ma allargata altresì a comprendere i casi di rapporti che nella previsione legale sono di origine
contrattuale e tuttavia in concreto vengono costituiti senza una base negoziale e talvolta grazie al semplice "contatto
sociale" (secondo un'espressione che risale agli scrittori tedeschi), si fa riferimento, in questi casi al "rapporto
contrattuale di fatto o da contatto sociale".
Con questa espressione si riassume una duplice veduta del fenomeno, riguardato sia in ragione della fonte (il fatto
idoneo a produrre l'obbligazione in conformità dell'ordinamento - art. 1173 c.c.-) sia in ragione del rapporto che ne
scaturisce (e diviene allora assorbente la considerazione del rapporto, che si atteggia ed è disciplinato secondo lo
schema dell'obbligazione da contratto).
La categoria mette in luce una possibile dissociazione tra la fonte - individuata secondo lo schema dell'art. 1173 - e
l'obbligazione che ne scaturisce. Quest'ultima può essere sottoposta alle regole proprie dell'obbligazione contrattuale,
pur se il fatto generatore non è il contratto.
In questa prospettiva, quindi, si ammette che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in
cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si
ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o
sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.
In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma
dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043 c.c.,
l'ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è
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necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un
precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale.
Un'eco di questa impostazione sembra ravvisarsi in Cass., sez. I, 1.10.1994, n. 7989, secondo cui la responsabilità
extracontrattuale ricorre solo quando la pretesa risarcitoria venga formulata nei confronti di un soggetto autore di un
danno ingiusto non legato all'attore da alcun rapporto giuridico precedente, o comunque indipendentemente da tale
eventuale rapporto, mentre, se a fondamento della pretesa venga enunciato l'inadempimento di un'obbligazione
volontariamente contratta, ovvero anche derivante dalla legge, è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale.
6.3. Quanto sopra detto si verifica per l'operatore di una professione cd. protetta (cioè una professione per la quale è
richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, art. 348 c.p.), in particolare se detta professione abbia ad oggetto
beni costituzionalmente garantiti, come avviene per la professione medica (che è il caso della fattispecie in esame), che
incide sul bene della salute, tutelato dall'art. 32 Cost..
Invero a questo tipo di operatore professionale la coscienza sociale, prima ancora che l'ordinamento giuridico, non si
limita a chiedere un non facere e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua
professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l'attività in
ogni momento (l'abilitazione all'attività, rilasciatagli dall'ordinamento, infatti, prescinde dal punto fattuale se detta attività
sarà conseguenza di un contratto o meno).
In altri termini la prestazione (usando il termine in modo generico) sanitaria del medico nei confronti del paziente non può
che essere sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto d'opera professionale tra i due.
ciò è dovuto al fatto che, trattandosi dell'esercizio di un servizio di pubblica necessità, che non può svolgersi senza una
speciale abilitazione dello Stato, da parte di soggetti di cui il "pubblico è obbligato per legge a valersi" (art. 359 c.p.), e
quindi trattandosi di una professione protetta, l'esercizio di detto servizio non può essere diverso a seconda se esista o
meno un contratto.
La pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei
confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati
dall'ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l'opera di quest'ultimo, e che si traduce in obblighi di
comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in "contatto" con lui.
Proprio gli aspetti pubblicistici, che connotano l'esercizio di detta attività, comportano che esso non possa non essere
unico da parte del singolo professionista, senza possibilità di distinguere se alla prestazione sanitaria egli sia tenuto
contrattualmente o meno.
L'esistenza di un contratto potrà essere rilevante solo al fine di stabilire se il medico sia obbligato alla prestazione della
sua attività sanitaria ( salve le ipotesi in cui detta attività è obbligatoria per legge, ad es. art. 593 c.p., Cass. pen.
10.4.1978,n. 4003, Soccardo).
In assenza di dette ipotesi di vincolo, il paziente non potrà pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il
medico in ogni caso interviene (ad esempio perché a tanto tenuto nei confronti dell'ente ospedaliero, come nella
fattispecie) l'esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente medico) non potrà essere differente nel
contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico.
Da tutto ciò consegue che la responsabilità dell'ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente
hanno entrambe radice nell'esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui,
accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi
(qualificazione che discende non dalla fonte dell'obbligazione, ma dal contenuto del rapporto).
7.1. Questa soluzione della questione ovviamente produce i suoi effetti sui veri nodi della responsabilità del medico e
cioè il grado della colpa e la ripartizione dell'onere probatorio.
Si è sottolineato che sotto il profilo sistematico le norme sulla diligenza (art. 1176 c.c.) sono previste per tutti i tipi di
obbligazioni e non autorizzano ad individuare materie distinte, per cui il concetto di colpa è unitario.
Dottrina e giurisprudenza tendono, quindi, a ritenere che detto concetto sia quello previsto dall'art. 1176 c.c., che impone
di valutare la colpa con riguardo alla natura dell'attività esercitata.
Pertanto la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo
svolgimento, tra i quali quello della diligenza, che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell'attività e che in
rapporto alla professione di medico chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale
(Cass. 12.8.1995,n. 8845).
Infatti il medico chirurgo nell'adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una
diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall'art. 1176, c.1°, ma è quella specifica del
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debitore qualificato, come indicato dall'art. 1176, c. 2°, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti
che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica.
Il richiamo alla diligenza ha, in questi casi, la funzione di ricondurre la responsabilità alla violazione di obblighi specifici
derivanti da regole disciplinari precise. In altri termini sta a significare applicazione di regole tecniche all'esecuzione
dell'obbligo, e quindi diventa un criterio oggettivo e generale e non soggettivo.
Ciò comporta, come è stato rilevato dalla dottrina, che la diligenza assume nella fattispecie un duplice significato:
parametro di imputazione del mancato adempimento e criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione.
7.2. Nella diligenza è quindi compresa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole
tecniche proprie di una determinata arte o professione.
Comunemente si dice che trattasi di una diligentia in abstracto, ma ciò solo per escludere che trattisi di diligentia quam in
suis, e cioè della diligenza che normalmente adotta quel determinato debitore.
Per il resto il grado di diligenza, per quanto in termini astratti ed oggettivi, deve essere apprezzato in relazione alle
circostanze concrete e tra queste, quanto alla responsabilità professionale del medico, rientrano anche le dotazioni della
struttura ospedaliera in cui lo stesso opera.
In relazione a dette strutture tecniche va valutata la diligenza e quindi la perizia che al medico devono richiedersi, delle
quali è anche espressione la scelta di effettuare in sede solo gli interventi che possono essere ivi eseguiti, disponendo
per il resto il trasferimento del paziente in altra sede, ove ciò sia tecnicamente possibile e non esponga il paziente stesso
a più gravi inconvenienti.
8. Riportata la responsabilità del medico, dipendente della struttura sanitaria, nei confronti del paziente nell'ambito della
responsabilità contrattuale, trova applicazione diretta l'art. 2236 c.c., a norma del quale, qualora la prestazione implichi la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa
grave, senza la necessità di effettuarne un'applicazione analogica, come pure era avvenuto da parte dell'orientamento
che sosteneva la responsabilità extracontrattuale del medico dipendente (Cass. 11.8.1990, n. 8218;
Cass. 7.5.1988,n. 3389; Cass. 5.4.1984,n. 2222), mentre è dubbio che nella fattispecie ricorrano i presupposti per
l'applicazione dell'analogia, di cui all'art. 12 disp. prel. c.c..
Va altresì rilevato che la limitazione di responsabilità professionale del medico - chirurgo ai soli casi di dolo o colpa
grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c., attiene esclusivamente alla perizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare
difficoltà, con esclusione dell'imprudenza e della negligenza.
Infatti anche nei casi di speciale difficoltà, tale limitazione non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza o
imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso (Cass. 18.11.1997,n. 11440; Corte Cost. 22.11.1973,n. 166).
Pertanto il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione
provochi un danno nell'esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica.
In altri termini la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente
ai casi che trascendono la preparazione media (Cass. 11.4.1995,n. 4152), ovvero perché la particolare complessità
discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai
metodi da adottare (Cass. 12.8.1995,n. 8845).
9. Quanto alla ripartizione dell'onere probatorio, la giurisprudenza considera unitariamente, a tali fini, l'attività sanitaria
come prestazione di mezzi, senza più farsi carico della natura della responsabilità del medico. Essa ritiene che incombe
al professionista, che invoca il più ristretto grado di colpa di cui all'art. 2236 c.c., provare che la prestazione implicava la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, mentre incombe al paziente danneggiato provare quali siano state le
modalità di esecuzione ritenute inidonee (Cass. 4.2.1998,n. 1127; Cass. 3.12.1974, n. 3957).
Invece incombe al paziente l'onere di provare che l'intervento era di facile o routinaria esecuzione ed in tal caso il
professionista ha l'onere di provare, al fine di andare esente da responsabilità, che l'insuccesso dell'operazione non è
dipeso da un difetto di diligenza propria (Cass. 30.5.1996, n. 5005; Cass. 18.11.1997,n. 11440; Cass. 11.4.1995,n.
4152).
Nel caso dì intervento di facile esecuzione, non si verifica un passaggio da obbligazione di mezzi in obbligazione di
risultato, che sarebbe difficile dogmaticamente da giustificare a meno di negare la stessa distinzione tra i due tipi di
obbligazioni (come pure fa gran parte della recente dottrina), ma opera il principio res ipsa loquitur, ampiamente
applicato in materia negli ordinamenti anglosassoni (dove la responsabilità del medico è sempre di natura aquiliana),
inteso come "quell'evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza".
Ciò che preme mettere in rilievo è che, omologate le responsabilità della struttura sanitaria e del medico come
responsabilità entrambe di natura contrattuale, sia ai fini della rilevanza del grado della colpa che della ripartizione
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dell'onere probatorio, non esiste una differenza di posizioni tra i due soggetti, nè per l'effetto una diversa posizione del
paziente a seconda che agisca nei confronti dell'ente ospedaliero o del medico dipendente.
10. Da quanto sopra detto consegue è infondata la doglianza secondo cui andava affermata la sola responsabilità
dell'ente gestore del servizio ospedaliero, in quanto, accanto alla stessa, di natura contrattuale, ben poteva concorrere
quella di eguale natura del medico dipendente.
Detta responsabilità andava accertata, come ha fatto la sentenza impugnata, applicando i principi che presiedono alla
responsabilità nella prestazione d'opera intellettuale.
Avendo la sentenza ritenuto, come ammette lo stesso ricorrente, che gli effetti negativi dell'intervento fossero da
ascrivere ad una mancanza di diligenza e prudenza dello stesso, non poteva operare la riduzione di responsabilità
prevista dall'art. 2236 c.c., che, come si è detto, è relativa alla sola ipotesi di mancanza di perizia.
In ogni caso, perché si potesse applicare la limitazione della responsabilità prevista dall'art. 2236 C.C., gravava sul
medico ricorrente l'onere di eccepire (e poi di provare) nelle fasi di merito che l'intervento implicava la soluzione di
problemi tecnici di speciale difficoltà.
Invece - a parte il rilievo, mosso dalla controricorrente Q., che nel giudizio di appello non è stata invocata la limitazione di
responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. alla sola ipotesi di colpa grave, ma è solo stata affermata l'assoluta mancanza di
responsabilità, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso per la novità della questione - va in ogni caso
rilevato che neppure in questa sede il ricorrente sostiene che l'intervento chirurgico implicasse la soluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà, mostrando invece di ritenere che la responsabilità del prestatore d'opera professionale
intellettuale sia sempre assistita dalla limitazione dell'art. 2236 c.c..
Come si è detto sopra, ciò è errato, poiché detta limitazione è relativa alle sole ipotesi di prestazioni di particolare
difficoltà (da intendersi nei termini sopra detti) ed attiene non alla negligenza ed imprudenza, ma all'imperizia.
11. Infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso, con cui il M. lamenta la violazione e falsa applicazione delle norme di
diritto, l'errata interpretazione delle risultanze istruttorie e l'omessa e contraddittoria motivazione, ex art. 360 n. 3 e 5
c.p.c..
Assume il ricorrente che la sentenza impugnata ha fatto proprie le conclusioni dei consulenti d'ufficio senza considerare
nè la deposizione resa in sede penale dal F. nè le conclusioni della consulenza di parte da cui emergeva che, essendosi
la ferita verificata al palmo della mano e non al polso, non poteva produrre la lesione del condotto unico nè poteva
procedersi alla anastomosi dei nervi con i tendini.
Osserva questa Corte che l'art. 116, 1° c., c.p.c. consacra il principio generale del libero convincimento del giudice, per
cui lo stesso deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. La
norma in questione sancisce la fine del sistema fondato sulla predeterminazione legale dell'efficacia della prova,
conservando solo specifiche ipotesi di fattispecie di prova legale, e la formula del "prudente apprezzamento" allude alla
ragionevole discrezionalità del giudice nella valutazione della prova che va compiuta tramite l'impiego di massime di
esperienze.
La doglianza, invece, che il giudice abbia fatto un cattivo uso del suo "prudente apprezzamento" nella valutazione della
prova si risolve in una doglianza sulla motivazione della sentenza, che può trovare ingresso in sede di legittimità solo nei
limiti in cui è ammissibile il sindacato da parte della cassazione sulla motivazione della sentenza.
A tal fine va osservato che è devoluta al giudice del merito l'individuazione delle fonti del proprio convincimento, e
pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze
istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di
prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l'unico limite della adeguata e congrua
motivazione del criterio adottato; conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare
analiticamente tutte le risultanze processuali, nè a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti,
essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare
il suo convincimento e l'iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente
disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 6 settembre 1995, n. 9384).
Pertanto i vizi motivazionali in tema di valutazione delle risultanze istruttorie non sussistono se la valutazione delle prove
è eseguita in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché proprio a norma dell'art. 116 c.p.c. rientra nel potere
discrezionale del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare all'uopo le prove, controllarne
l'attendibilità e la concludenza e scegliere tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti.
Nella fattispecie il giudice di appello ha ritenuto di dover condividere le conclusioni cui era pervenuto il collegio dei
consulenti tecnici d'ufficio, in quanto dette conclusioni concordavano con quanto emergeva dalle cartelle cliniche dello
stesso ospedale S. Giacomo e con l'esame elottromiografico preliminare al secondo intervento chirurgico.
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Inoltre la sentenza impugnata ha ritenuto che erano da disattendere sia le dichiarazioni rese dal F. nel procedimento
penale contro il M., perché generiche ed evasive ed in contrasto con i dati clinici e documentale, sia le conclusioni del
consulente di parte, poiché l'affermata reazione cicatriziale era, in ogni caso, riconducibile alla mancanza di diligenza e
prudenza del primo chirurgo.
Ne consegue che il giudice di appello ha congruamente motivato le scelte probatorie poste a base della sua decisione e
le censure del ricorrente si risolvono in una diversa lettura delle risultanze istruttorie, inammissibile in questa sede di
sindacato di legittimità.
12. Esistono giusti motivi per compensare le spese processuali tra il M. ed il F., mentre i ricorrenti in solido, vanno
condannati al pagamento delle spese processuali sostenute dalla Q. e liquidate come in dispositivo.
SENTENZA SEZ. UN. 577/2008
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: alla
responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente; alla ripartizione dell'onere probatorio in materia di
responsabilità medica.
Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., la violazione degli
artt. 113 e 115 c.p.c., ed il vizio di motivazione, a norma degl'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Assume il ricorrente che erratamente la corte di appello non ha preso in esame la documentazione prodotta in appello e
relativa agli accertamenti sanatari effettuati nel (OMISSIS), da cui risultava che non era affetto da epatite.
Lamenta poi il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse onere di esso attore provare il
nesso causale tra emotrasfusione e l'epatite C di cui soffriva, nonchè provare che esso attore non fosse già portatore di
tale malattia al momento del ricovero. 2.11 motivo va accolto nei termini che seguono.
E' infondata la censura secondo cui erratamente il giudice di appello non ha tenuto conto della documentazione sanitaria
esibita in grado di appello e relativa al suo stato di salute precedentemente al ricovero, trattandosi di prove precostituite.
Come queste S.U. hanno già statuito, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di
appello, l'art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della
inammissibilità di mezzi di prova "nuovi" - la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza - e, quindi,
anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i
requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di
gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell'atto
introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia
stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le
parti non abbiano potuto proporli prima per cause a esse non imputabili, ovvero nel convincimento del Giudice della
indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell'impulso del
processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l'ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può
comunque prescindere dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. Unite, 20/04/2005, n. 8203).
3.1. Sono invece fondate le altre censure sollevate nel motivo di ricorso.
Per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una
casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi
dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa
della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che
si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza
possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della
struttura sanitaria (Cass. 25.2.2005, n. 4058).
Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul
rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la
conclusione di un contratto (Cass. n. 1698 del 2006; Cass. n. 9085 del 2006; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 11
marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; Cass. 21 luglio 2003, n. 11316).
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A sua volta anche l'obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorchè non
fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass.
29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).
3.2. Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell'applicazione analogica
al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d'opera intellettuale vigenti nel rapporto
medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico.
Da ciò derivava che il presupposto per l'affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse
l'accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.
Più recentemente, invece, dalla giurisprudenza il suddetto rapporto è stato riconsiderato in termini autonomi dal rapporto
paziente-medico, e riqualificato come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito
contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie
sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c..
Da ciò consegue l'apertura a forme di responsabilità autonome dell'ente, che prescindono dall'accertamento di una
condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell'inadempimento delle obbligazioni
direttamente riferibili all'ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato
conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n.
571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura
(anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la
fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario,
paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù
del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di
"assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi
c.d. di protezione ed accessori.
3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per
inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa
svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente
nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla
disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente
sulla base dell'art. 1228 c.c..
3.4. Questa ricostruzione del rapporto struttura - paziente va condivisa e confermata.
Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per
il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonchè della struttura stessa (insufficiente o
inidonea organizzazione).
Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono
importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della
ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un
contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale
mancanza di responsabilità del medico in ordine all'esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel
caso di specie, non ha connessione diretta con l'esito dell'intervento chirurgico.
Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura
sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una
struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l'intervento presso una struttura
privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell'Ente.
4.1. Inquadrata nell'ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il
paziente, il problema del riparto dell'onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, alla luce del
principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in
tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento.
Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio condiviso da questo Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del
danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera
allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere
della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.
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Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente
la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando
ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.
4.2. La giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Corte, applicando questo principio all'onere della prova nelle
cause di responsabilità professionale del medico ha ritenuto che gravasse sull'attore (paziente danneggiato che agisce
in giudizio deducendo l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella
dell'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie nonchè la prova del nesso di causalità
tra l'azione o l'omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta a
carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente (Cass. n.
12362 del 2006; Cass. 11.11.2005, n. 22894; Cass. 28.5.2004, n. 10297; Cass. 3.8.2004, n. 14812).
4.3. Il punto relativo alla prova del nesso di causalità non può essere condiviso, nei termini in cui è stato enunciato,
poichè esso risente implicitamente della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che se può
avere una funzione descrittiva, è dogmaticamente superata, quanto meno in tema di riparto dell'onere probatorio dalla
predetta sentenza delle S.U. n. 13533/2001 (vedasi anche S.U. 28.7.2005, n. 15781).
5.1. La dottrina ha assunto posizioni critiche sull'utilizzo della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, la quale,
ancorchè operante soltanto all'interno della categoria delle obbligazioni di fare (a differenza che in Francia dove
rappresenta una summa divisio valida per tutte le obbligazioni), ha originato contrasti sia in ordine all'oggetto o contenuto
dell'obbligazione, sia in relazione all'onere della prova e, quindi, in definitiva, allo stesso fondamento della responsabilità
del professionista.
Come insegna la definizione tradizionale, nelle obbligazioni di mezzi la prestazione dovuta prescinde da un particolare
esito positivo dell'attività del debitore, che adempie esattamente ove svolga l'attività richiesta nel modo dovuto.
In tali obbligazioni è il comportamento del debitore ad essere in obbligazione, nel senso che la diligenza è
tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo, con l'ulteriore corollario che il
risultato è caratterizzato dall'aleatorietà, perchè dipende, oltre che dal comportamento del debitore, da altri fattori esterni
oggettivi o soggettivi.
Nelle obbligazioni di risultato, invece, ciò che importa è il conseguimento del risultato stesso, essendo indifferente il
mezzo utilizzato per raggiungerlo. La diligenza opera solo come parametro, ovvero come criterio di controllo e
valutazione del comportamento del debitore: in altri termini, è il risultato cui mira il creditore, e non il comportamento, ad
essere direttamente in obbligazione.
5.2. Tale impostazione non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione
d'opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un
risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.
In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se
in proporzione variabile, sicchè molti Autori criticano la distinzione poichè in ciascuna obbligazione assumono rilievo così
il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l'impegno che il debitore deve porre per ottenerlo.
5.3. Dalla casistica giurisprudenziale emergono spunti interessanti in ordine alla dicotomia tra obbligazione di mezzi e di
risultato, spesso utilizzata al fine di risolvere problemi di ordine pratico, quali la distribuzione dell'onere della prova e
l'individuazione del contenuto dell'obbligo, ai fini del giudizio di responsabilità, operandosi non di rado, per ampliare la
responsabilità contrattuale del professionista, una sorta di metamorfosi dell'obbligazione di mezzi in quella di risultato,
attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso (cfr. segnatamente, per quanto riguarda la responsabilità
professionale del medico: Cass. 19.5.2004, n. 9471), definiti accessori ma integrativi rispetto all'obbligo primario della
prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento
della prestazione professionale in senso proprio.
5.4. Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità
dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di
mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da
scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato
era dipeso da causa a lui non imputabile.
5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della
dottrina.
Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell'onere della
prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per
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identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di
distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per
l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 c.c., sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex
art. 1218 c.c., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.
6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l'inadempimento
rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di
comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del
danno.
Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un
inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.
Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato
nella fattispecie causa del danno.
6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in
contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad
emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato,
poichè non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non
era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta
dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero.
7.1. Per quanto concerne, in particolare, l'ipotesi del contagio da emotrasfusione eseguita all'interno della struttura
sanitaria, gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità, vanno posti in relazione sia
agli obblighi normativi esistenti al tempo dell'intervento e relativi alle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi alla
identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (cd. tracciabilità del sangue) che agli obblighi più
generali di cui all'art. 1176 c.c. nell'esecuzione delle prestazioni che il medico o la struttura possono aver violato nella
singola fattispecie.
7.2. Ne consegue che la sentenza impugnata, la quale ha posto a carico del paziente (creditore) la prova che al
momento del ricovero esso non fosse già affetto da epatite, ha violato i principi in tema di riparto dell'onere probatorio,
fissati in tema di azione per il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
8.1. Tale dato relativo alle patologie in corso, peraltro, doveva già emergere dai dati anamnestici prossimi e dagli
accertamenti ematici di laboratorio, cui il paziente doveva essere sottoposto prima dell'intervento chirurgico e della
trasfusione; dati che dovevano essere riportati sulla cartella clinica.
A tal fine va condiviso l'orientamento giurisprudenziale (Cass. 21.7.2003, n. 11316; Cass. 23.9.2004, n. 19133), secondo
cui la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la
colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma
consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un
comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel
quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell'onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la "vicinanza alla
prova", e cioè la effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla.
8.2. Quanto al valore probatorio del verbale della Commissione medico-ospedaliera di Chieti, va osservato che trattasi
della Commissione di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, composta da ufficiali medici ed istituita presso ospedali militari, ai
fini dell'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni
obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.
L'art. 4, statuisce che: "1. Il giudizio sanitario sul nesso causale tra la vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di
emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di attività di servizio e la menomazione dell'integrità psicofisica o la morte è espresso dalla commissione medico-ospedaliera di cui al testo unico approvato con D.P.R. 29
dicembre 1973, n. 1092, art. 165.
2. La commissione medico-ospedaliera redige un verbale degli accertamenti eseguiti e formula il giudizio diagnostico
sulle infermità e sulle lesioni riscontrate.
3. La commissione medico-ospedaliera esprime il proprio parere sul nesso causale tra le infermità o le lesioni e la
vaccinazione, la trasfusione, la somministrazione di emoderivati, il contatto con il sangue e derivati in occasione di
attività di servizio".
8.3. Al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell'indennizzo di cui alla legge, tali verbali hanno lo
stesso valore di qualunque altro verbale redatto da un pubblico ufficiale fuori dal giudizio civile ed in questo prodotto.
Pertanto essi fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o
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essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di
opinione in essi contenute costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può
valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento (Cass.
20/07/2004, n. 13449; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 25/06/2003, n. 10128; Cass. 12/05/2003, n. 7201).
9.1. Infondata è l'eccezione di carenza di legittimazione passiva avanzata dai resistenti eredi T., sotto il profilo che il de
cuius dr. T. non poteva essere tenuto ad un controllo sulla qualità dei campioni di sangue trasfuso.
L'istituto della legittimazione ad agire o a contraddire il giudizio (legittimazione attiva o passiva) si ricollega al principio
dettato dall'art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge e comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire
una sentenza "inutiliter data" - la verifica, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo (salvo che sulla questione
sia intervenuto il giudicato interno) e in via preliminare al merito (con eventuale pronuncia di inammissibilità della
domanda), circa la coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto
dedotto in giudizio, sono destinatati degli effetti della pronuncia richiesta. Dalla questione relativa alla legittimazione si
distingue quella relativa alla effettiva titolarità del rapporto giuridico dedotto in causa, che non può essere rilevata
d'ufficio dal giudice dell'impugnazione in difetto di specifico gravame. (cfr. Cass. 17.7.2002, n. 10388; Cass. 27/10/1995,
n. 11190).
Nella fattispecie l'eccezione, così come prospettata, attiene non alla legittimazione passiva ma alla titolarità passiva del
rapporto dedotto in giudizio. Ciò comporta che la questione non possa essere rilevata d'ufficio da questo Collegio.
9.2. Ove sul punto si fosse pronunziato il Giudice di appello, affermando tale titolarità passiva, pur rigettando poi l'appello
per altre ragioni, la questione poteva essere proposta con ricorso incidentale condizionato.
Non essendosi il Giudice pronunziato, e quindi non essendoci sul punto una soccombenza per quanto virtuale, la
questione non avrebbe potuto essere proposta a questa Corte con impugnazione incidentale, ma l'accoglimento del
ricorso principale comporta la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di detta eccezione (Cass. 20/08/2003, n.
12219).
10. In definitiva va accolto il ricorso nei termini suddetti; va cassata,in relazione, l'impugnata sentenza e la causa va
rinviata, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Roma, che si uniformerà
ai seguenti principi di diritto:
A) In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del
medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il
contatto sociale) e l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di un'affezione ed allegare l'inadempimento del
debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.
Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato
eziologicamente rilevante.
B) I verbali della Commissione medico-ospedaliera di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, fanno prova, ex art. 2700 c.c., dei
fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza, o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le
valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenute costituiscono materiale
indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può
mai attribuire a loro il valore di vero e proprio accertamento.
SENTENZA CASS. CIV. 9556/2002
Diritto
Motivi della decisione
Vanno preliminarmente riuniti i due ricorsi, relativi alla stessa sentenza, ai sensi dell'art. 335 c.p.c.
In secondo luogo, occorre accennare succintamente alle censure hinc et inde proposte per individuare quali di esse,
oltre a quella specificamente devoluta alle Sezioni Unite, debbano essere eventualmente esaminate per il loro carattere
pregiudiziale e-o preliminare.
Orbene, i ricorrenti principali, con il primo complesso motivo, denunciano l'illegittimità dell'esclusione del danno
patrimoniale in capo a GIUSEPPE SCOPPA, lamentando che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che nel caso
in cui il danneggiato muoia per causa sopravvenuta, indipendente dal fatto lesivo, di cui il convenuto è chiamato a
rispondere, la liquidazione dei danni futuri vada fatta con riferimento non alla durata probabile, ma alla durata effettiva
della vita.
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Con il secondo, si dolgono che sia stato escluso il risarcimento del danno morale da loro stessi patito in relazione alle
gravissime menomazioni del figlio, per essere questi sopravvissuto al fatto lesivo.
A sua volta la CLINICA STABIA, ricorrente incidentale, con i primi due mezzi denuncia la nullità del processo per
originario difetto dello ius postulandi del procuratore di controparte e, comunque, lamenta la mancata interruzione del
processo quanto meno a seguito della sopravvenuta perdita dello ius postulandi. Con il terzo e quarto motivo censura la
declaratoria della sua responsabilità, affermata sulla base di una C.T.U. illogica e contraddittoria, senza l'ammissione dei
mezzi di prova idonei a confutarla e senza considerare che la casa di cura era rimasta estranea al rapporto di
prestazione professionale concluso tra la partoriente ed il suo ginecologo di fiducia, dottor GARGIULO. Infine, con il
quinto motivo, contesta sotto diversi profili l'ammontare del danno liquidato e degli accessori (rivalutazione ed interessi).
Chiarito quanto innanzi, è di tutta evidenza che queste Sezioni Unite devono scrutinare pregiudizialmente i primi quattro
motivi del ricorso incidentale perché, investendo la regolare instaurazione del rapporto processuale nonché la statuizione
di responsabilità della CLINICA STABIA, ove fondati, precluderebbero l'esame del secondo motivo del ricorso principale,
ad esse specificamente devoluto (art.
142 disp. att. c.p.c.).
RICORSO INCIDENTALE. - Con il primo motivo la CLINICA STABIA denuncia la nullità del procedimento (art. 360 n. 4
c.p.c.), in quanto il giudizio era stato introdotto il 2 aprile 1983, successivamente all'istituzione della Corte d'Appello di
Salerno con sede autonoma, con citazione redatta da avvocati esercenti a Cava dei Tirreni e a Milano. Vi era dunque
nullità, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo, degli atti sottoscritti dal procuratore non abilitato al patrocinio
nel distretto dell'autorità giudiziaria adita (Corte d'Appello di Napoli), essendo irrilevante che la Corte d'Appello di Salerno
fosse effettivamente entrata in funzione solo il 4 agosto 1983, poiché comunque i procuratori "potevano esercitare la
propria attività solo nel territorio di Salerno, Sala Consilina e Vallo della Lucania".
Con il secondo motivo la CLINICA STABIA denuncia la falsa applicazione dell'art. 301 c.p.c., lamentando che, ove anche
si dovesse ritenere che alla data di notifica della citazione il procuratore fosse ancora dotato dello ius postulandi, lo
aveva comunque perso in corso di causa. La ricorrente specifica che "dal 4-8-1983, l'iscrizione del procuratore costituito
in un distretto divenuto diverso da quello della Corte d'Appello nel quale è stata compresa la circoscrizione del Tribunale
competente ha, quanto meno, fatto sì che il giudizio si interrompesse".
I due motivi, che per la stretta connessione logico-giuridica delle rispettive censure possono esaminarsi congiuntamente,
non sono fondati. Al riguardo, va in primo luogo condiviso quanto, in conformità al giudice di primo grado, ha ritenuto il
giudice del gravame, che, cioè, nel caso d'istituzione di una nuova Corte di Appello, "le preclusioni e le incapacità
riguardanti l'attività forense" ad essa collegate, non operano fino a quando il nuovo ufficio giudiziario non entra in
funzione. Rettamente, pertanto, il suddetto giudice ha affermato che il presente giudizio, promosso in data 2-4-83, era
stato ritualmente instaurato "atteso che la Corte di Appello di Salerno, all'atto della notificazione del relativo atto di
citazione, pur se già istituita, non era ancora entrata in funzione" (il D.M. 15-7-1983 n. 193 fissava tale data al 4-8-83).
Orbene, accertato quanto sopra, è sufficiente richiamare e ribadire il principio, già affermato da questa Corte, secondo il
quale nel caso in cui vi sia stata rituale costituzione in giudizio a mezzo di un procuratore legittimato, la validità della
costituzione del rapporto processuale non viene meno per il fatto che, in conseguenza della costituzione di una nuova
Corte di Appello nella quale risulti compresa la circoscrizione del Tribunale presso cui il giudizio è pendente, il suindicato
procuratore si trovi ad essere iscritto in un diverso distretto, non derivando da ciò il venir meno dello ius postulandi del
procuratore ritualmente costituitosi e restando quindi esclusa la configurabilità di un'ipotesi d'interruzione del processo
(Cass. 18 ottobre 1994 n. 8467).
Ancorché, infatti, l'esercizio illegale della professione extra territorio comporti la giuridica inesistenza dell'atto posto in
essere dal procuratore, a nulla rilevando che questi sia iscritto negli albi degli avvocati, con conseguente nullità di tutti gli
atti successivi alla costituzione in quanto il procuratore, privo dello ius postulandi, non ha la capacità di stare in giudizio
per la parte che rappresenta (nullità radicale, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio perché attiene
alla valida costituzione del contraddittorio); quando invece vi sia stata la rituale costituzione in giudizio a mezzo di un
procuratore legittimato, la validità della costituzione del rapporto processuale non viene meno per il fatto che, in
conseguenza della costituzione di una nuova Corte di Appello nella quale risulta compresa la circoscrizione del Tribunale
presso cui il giudizio è pendente, il procuratore si sia trovato ad essere iscritto in diverso distretto (cfr. Cass. 23 gennaio
1990 n. 383). L'ipotesi è in un certo senso analoga a quella della cancellazione volontaria dall'albo professionale, anche
se seguita da iscrizione in albo tenuto da un diverso Consiglio dell'Ordine, atteso che la legge istitutiva della nuova Corte
di Appello non ha direttamente determinato la perdita dello ius postulandi, riconducibile pur sempre alla permanenza
dell'iscrizione originaria. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, la cancellazione dall'albo non determina
l'interruzione del processo, perché questo evento non è compreso tra quelli che, tassativamente, producono tale effetto a
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norma dell'art. 301 c.p.c. (morte, sospensione o radiazione), essendo piuttosto assimilabile, quanto al regime giuridico,
alla rinunzia o alla revoca del mandato professionale (Cass. 19 agosto 1993 n. 8783 e 13 giugno 1992 n. 7282 ex
plurimis). D'altra parte, questa conclusione discende anche dall'operatività del principio di ordine generale, del quale è
espressione l'art. 5 c.p.c. (principio che risulta rafforzato ed esteso nel testo introdotto dalla I. n.
353-1990), di irrilevanza dei successivi mutamenti della legge o dello stato di fatto rispetto al momento della
proposizione della domanda. È sufficiente aggiungere che sul punto della eventuale nullità degli atti successivamente
compiuti dal suddetto procuratore, non è stata proposta specifica censura.
I primi due motivi vanno, pertanto, rigettati.
Con il terzo mezzo la CLINICA STABIA, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e l'omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si duole che la Corte
territoriale abbia riconosciuto la sua responsabilità in ordine alla produzione dell'evento dannoso, sulla base di
un'accettazione acritica delle conclusioni della C.T.U., senza disporre un doveroso supplemento di indagine e-o
ammettere le richieste istruttorie di interrogatorio formale e di prova testimoniale, richieste al fine di contrastare tali
conclusioni.
Con il quarto motivo, poi, denunciando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697, 2236 e 1228 c.c., 112 c.p.c.
nonché l'insufficienza della motivazione sullo stesso punto decisivo della controversia in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5
c.p.c., contesta la declaratoria di responsabilità pronunciata a suo carico sotto un diverso profilo, quello cioè
dell'inesistenza di un vincolo di subordinazione tra il ginecologo GARGIULO ed essa CLINICA STABIA.
Precisa al riguardo la ricorrente che il medico era stato personalmente scelto dalla paziente e con essa aveva
direttamente concluso il contratto di prestazione d'opera professionale; cosicché l'esecuzione dell'intervento di cui è
causa non aveva costituito oggetto di una convenzione tra la paziente e la CLINICA, limitandosi la relazione contrattuale
tra queste due parti a prevedere prestazioni di tipo alberghiero ed assistenziale a favore della paziente e la messa a
disposizione della struttura e della organizzazione necessaria al GARGIULO per l'assistenza al parto, che quest'ultimo si
era obbligato a compiere.
Anche questi due motivi, che per lo stretto collegamento delle rispettive censure vanno esaminate congiuntamente, non
sono fondati.
Essi tuttavia prospettano profili di grande delicatezza concernenti il titolo della responsabilità della casa di cura privata
per i danni patiti, a seguito di interventi medico-chirurgici, dai pazienti ricoverati. Al riguardo, la CLINICA STABIA ha
menzionato, in assenza di un indirizzo consolidato, una recente pronuncia, secondo la quale, in materia di colpa medica,
la casa di cura privata può essere chiamata a rispondere del danno alla persona causato dalla colpa professionale del
medico che ha eseguito l'intervento in due casi: a) a titolo di responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c., ove sussista un
vincolo di subordinazione tra la casa di cura ed il medico operante; b) a titolo di responsabilità diretta ex art. 1218 c.c.,
qualora la casa di cura abbia assunto direttamente nei confronti del danneggiato, con patto contrattuale, l'esecuzione
dell'intervento (Cass. 11 marzo 1998, n. 2678).
Ma ritornando ancor più recentemente sull'argomento, questa Corte ha affermato, con stringata ma incisiva motivazione
che vale la pena riportare integralmente, che "la responsabilità della Casa di cura, generalmente, è responsabilità per
inadempimento dell'obbligazione che la stessa Casa di cura assume, direttamente con i pazienti, di prestare la propria
organizzazione aziendale per l'esecuzione dell'intervento richiesto. Infatti, all'adempimento dell'obbligazione ora indicata
è collegata la rimunerazione della prestazione promessa, in essa incluso anche il costo inteso come rischio dell'esercizio
dell'attività di impresa della Casa di cura.
Naturalmente nel rischio prima indicato è compreso anche quello della distribuzione delle competenze tra i vari operatori,
delle quali il titolare dell'impresa risponde ai sensi dell'art. 1228 c.c.
Rispetto a questo inquadramento, non sono rilevanti i seguenti fatti:
- che i medici che eseguono l'intervento chirurgico siano o meno inquadrati nell'organizzazione aziendale della Casa di
cura: infatti, la prestazione di questi ultimi è indispensabile alla Casa di cura per adempiere l'obbligazione assunta con i
danneggiati;
- che il comportamento dei medici sia colposo: infatti, la norma prima citata svolge esattamente la funzione di attribuire il
rischio dell'attività degli ausiliari della prestazione a chi si appropria, anche in misura non esclusiva, dei vantaggi della
prestazione" (Cass.
8 gennaio 1999 n. 103). Ora, dalle esposte pronunce, emerge la difficoltà di inquadrare dommaticamente tali ipotesi di
responsabilità, frequenti nella pratica e spesso diverse l'una dall'altra; difficoltà che emergono dalla sentenza impugnata,
peraltro emessa in epoca precedente, che nell'individuazione del titolo della responsabilità della casa di cura ricorre sia
all'art.
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2236 c.c. che all'art. 1228 c.c. (come sottolineato anche dal P.G.).
Ma siffatte incertezze non valgono ad infirmare sostanzialmente la contestata motivazione, ove si ricordi che essa si
articola attraverso i seguenti passaggi:
- che "dopo la nascita non vi è dubbio che il bambino fu collocato in incubatrice e sottoposto ad ossigeno-terapia, poiché
aveva subito una sindrome asfittica, mentre avrebbe avuto bisogno di una terapia d'urgenza in un centro clinico
attrezzato";
- che "siffatta omissione va considerata, alla stregua della C.T.U., fattore eziologicamente sufficiente a determinare, di
per sè solo, una encefalopatia con danni anatomici irreversibili";
- che l'anamnesi della puerpera era stata totalmente negativa;
- che il parto, alla stregua di molteplici elementi, era stato provocato;
- che "la responsabilità dell'evento, pertanto, va ascritta al ginecologo ed al personale della CLINICA STABIA per gli
errori commessi durante il parto, per l'omessa insufficiente assistenza successiva e per l'incapacità decisionale
determinante l'omesso, immediato trasferimento del neonato";
- che "tra la predetta CLINICA e i coniugi SCOPPA è stato stipulato un contratto di prestazione d'opera professionale";
- che pur non essendo stata acclarata l'esistenza di un rapporto di subordinazione tra il ginecologo e la clinica, tuttavia
quest'ultima avrebbe dovuto rispondere dell'operato del professionista, stante l'inserimento di quest'ultimo
nell'organizzazione aziendale della prima;
- che, soprattutto, come ritenuto anche dal Tribunale, "ove si dovesse escludere la responsabilità del GARGIULO, per
essergli stato l'incarico professionale conferito dagli attori, la CLINICA STABIA risponderebbe ugualmente per
l'insufficienza degli impianti e delle attrezzature e per l'incapacità del personale ausiliario ad affrontare la situazione di
emergenza";
- che, infatti, "l'ente sanitario... non era fornito delle attrezzature idonee a contrastare validamente siffatta sindrome e,
inoltre, il personale di cui si avvaleva non fu in grado di decidere che il minore fosse al più presto ricoverato in un centro
ospedaliero attrezzato, dove ricevere le terapie urgenti del caso, lasciando invece trascorrere 15 fatali ore, che
determinarono l'encefalopatia con danni anatomici irreversibili (v. C.T.U.)".
Trattasi di motivazione che non confligge con i principi affermati nelle due sentenze sopracitate e che, soprattutto,
individua una responsabilità autonoma e diretta della Casa di cura (donde l'irrilevanza dell'eventuale responsabilità
concorrente del ginecologo GARGIULO, ancora sub iudice in altro processo e sulla cui asserita mancanza ha molto
insistito il difensore della CLINICA STABIA nella memoria conclusiva e nella discussione orale).
Responsabilità affermata sulla base di una C.T.U. "fondata su accertamenti scientifici del tutto corretti e su
argomentazioni logiche e coerenti" e che presuppone una adeguata configurazione del complesso ed atipico rapporto
che si instaura comunque tra la casa di cura ed il paziente, anche nell'ipotesi in cui quest'ultimo scelga al di fuori il
medico curante, dal momento che la clinica non si limita (come sbrigativamente affermato dalla controricorrente) ad
impegnarsi alla fornitura di mere prestazioni di natura alberghiera (somministrazione di vitto e alloggio), ma si obbliga
alla messa a disposizione del personale medico ausiliario, di quello paramedico ed all'apprestamento dei medicinali e di
tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicanze.
Detto questo, l'affermata responsabilità diretta della CLINICA nei termini sopra indicati si risolve in un apprezzamento di
fatto esente da errori giuridici e che sotto il profilo logico raggiunge un grado di completezza e di ragionevolezza da
essere incensurabile in sede di legittimità.
Resta solo da aggiungere che la doglianza per la mancata ammissione dei mezzi di prova richiesti, siccome "superflui
alla luce degli elementi acquisiti", è a sua volta inammissibile, alla luce del principio dell'autosufficienza del ricorso per
cassazione, poiché la mancata indicazione del relativo capitolato impedisce di valutarne la decisività.
Concludendo, anche il terzo e quarto motivo del ricorso incidentale vanno rigettati.
Può finalmente passarsi all'esame del secondo motivo del ricorso principale (in ragione del quale la causa è stata
rimessa a queste S.U.), con il quale i coniugi SCOPPA-GIORDANO, denunciando la violazione e la falsa applicazione
degli artt. 1223 e 2059 c.c. ed il vizio della motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360
nn. 3 e 5 c.p.c., lamentano che non sia stato loro riconosciuto il danno non patrimoniale in quanto prossimi congiunti del
minore offeso con gravi lesioni personali da un fatto costituente reato.
Tale diniego è stato motivato nell'impugnata sentenza ritenendo "non risarcibile il pregiudizio non patrimoniale per le
lesioni riportate da un prossimo congiunto, non derivando tale pregiudizio in via diretta ed immediata dall'illecito, ma
essendo un mero riflesso della menomazione e della sofferenza, subite dall'infortunato".
La doglianza è fondata. Al riguardo, va innanzi tutto ricordato che un orientamento della giurisprudenza di questa Corte,
fino a qualche anno fa pressoché pacifico, esclude che i prossimi congiunti della persona offesa dal reato di lesioni
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personali, ancorché minore di età, abbiano diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, che peraltro viene
riconosciuto nel caso di morte della vittima (Cass. 11 febbraio 1998, n. 1421; 17 novembre 1997, n. 11396; 17 ottobre
1992, n. 11414; 16 febbraio 1988, n. 6854; 21 maggio 1976 n.
1845; 13 aprile 1973 n. 1056; 25 maggio 1972 n. 1658; 15 ottobre 1971 n. 2915; 23 febbraio 2000 n. 2037).
In questo quadro risulta isolata la decisione della Cassazione penale 2 novembre 1983 n. 9113, secondo cui se i postumi
invalidanti sono talmente gravi da determinare la perdita delle più importanti funzioni e capacità dell'individuo, sì che egli
si riduce ad una mera vita vegetativa, il danno morale dei prossimi congiunti è danno risarcibile, dovendosi un tale stato
assimilarsi alla morte dell'offeso, con conseguente pregiudizio morale ricadente in modo diretto ed immediato sui parenti.
Le ragioni addotte a sostegno di questo orientamento sono sinteticamente espresse proprio nell'ultima delle decisioni
elencate (n. 2037-2000) nei termini seguenti.
Innanzi tutto, la risarcibilità viene esclusa in virtù del principio fissato dall'art. 1223 c.c. (applicabile all'illecito
extracontrattuale per il richiamo contenuto nell'art. 2056 c.c.), che vuole ricompresi nel risarcimento unicamente i danni
che siano conseguenza diretta e immediata del fatto. La lesione fa soffrire immediatamente e direttamente il
danneggiato, mentre per i prossimi congiunti i danni morali sono una conseguenza mediata e indiretta del fatto e, come
tali, non risarcibili.
Inoltre, la finalità di prevenzione e repressione costantemente sottesa ai danni non patrimoniali induce a privilegiare
un'opzione interpretativa diretta a limitare l'applicazione degli artt. 185 c.p.
e 2059 c.c. alle sole persone offese dal reato, anche considerando che, altrimenti, il danno costituirebbe un duplicato di
quello già riconosciuto alla vittima primaria dell'illecito.
Non manca infine una considerazione più generale e di politica del diritto, rappresentata dalla esigenza "di impedire nella
presente materia a carico del danneggiante alluvionali effetti a cascata, esigenza avvertita anche nella legislazione di
altri Stati".
Da questo orientamento si è per prima discostata la sentenza della Terza Sezione Civile 23 aprile 1998 n. 4186, ove si
rinviene una accurata e puntuale confutazione delle considerazioni tradizionali.
La chiave di volta utilizzata per affermare la risarcibilità dei danni morali ai prossimi congiunti del soggetto che ha subito
lesioni personali è costituita da una rivisitazione del nesso di causalità ai fini dell'individuazione dei danni risarcibili e
dall'inquadramento del danno morale sofferto dai prossimi congiunti del soggetto leso, nel danno riflesso o di rimbalzo.
I passaggi logici possono cosi sintetizzarsi:
si afferma che il nesso di causalità fra fatto illecito ed evento può essere anche indiretto e mediato, purché il danno si
presenti come un effetto normale, secondo il principio della c.d. regolarità causale (precisando che la "c.d. teoria della
causalità adeguata o della regolarità causale", oltre che una teoria causale è anche una teoria dell'imputazione del
danno). Ne risulta insufficiente il riferimento al disposto dell'art. 1223 c.c. per escludere il risarcimento del danno morale
in favore dei congiunti del leso, poiché non vi è dubbio che lo stato di sofferenza dei congiunti nel quale consiste il loro
danno morale, trova causa efficiente, per quanto mediata, pur sempre nel fatto illecito del terzo nei confronti del soggetto
leso. Ad ulteriore conforto di questa rivisitazione del nesso di causalità, si è fatto riferimento alla figura del c.d.
danno patrimoniale riflesso, sulla scorta della giurisprudenza francese, che parla di "danni da rimbalzo", ovvero di
"dommages par ricochet" che colpiscono i proches della vittima, riconoscendo la risarcibilità delle lesioni di diritti,
conseguenti al fatto illecito altrui, di cui siano portatori soggetti diversi dall'originario danneggiato, ma in significativo
rapporto con lui (Cass. 7 gennaio 1991, n. 60, nel caso di richiesta di danni patrimoniali da parte di un marito, costretto
ad abbandonare la sua attività per assistere la moglie invalida).
Il principio applicato è sempre quello della regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano
nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto. Così è stato concesso il risarcimento del danno per la
lesione del diritto del coniuge ai rapporti sessuali, in conseguenza di un fatto lesivo che abbia colpito l'altro coniuge,
cagionandogli l'impossibilità di tali rapporti (Cass. 11 novembre 1986, n. 6607). Inoltre con riguardo a fatto illecito che
abbia colpito il congiunto senza causarne la morte, è stata riconosciuta la legittimazione dei prossimi congiunti ad agire
nei confronti dell'autore del fatto per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle lesioni patite dal
congiunto e ciò con riferimento non solo al danno patrimoniale (danno-conseguenza), ma anche allo stesso danno
biologico (danno-evento, rientrante pur sempre nell'ambito dell'art. 2043 c.c.) (Cass. 17-9-1996, n. 8305).
La conclusione è che se il danno morale dei congiunti della vittima di una lesione può rientrare nell'ambito dei danni
riflessi, non vi è un ostacolo alla risarcibilità per effetto della sua intima struttura.
A questo punto la sentenza è passata ad esaminare se un ostacolo possa essere costituito dalla struttura e-o dalla
funzione della norma che lo prevede e, cioè, dell'art. 2059 c.c. e dal combinato disposto di tale articolo e dell'art. 185 c.p.
(che trovasi sotto il titolo delle "sanzioni civili") prende atto che il recente ed incontrastato orientamento della
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giurisprudenza penale distingue tra la persona offesa dal reato (art. 90 c.p.p.) - che è titolare del bene giuridico tutelato
dalla norma - ed il danneggiato civile - che è il soggetto che dal reato ha ricevuto un danno, non necessariamente
coincidente con la persona offesa - al quale è riconosciuta la legittimazione a costituirsi parte civile.
Alla stregua di questa impostazione ed ammessa, quindi, la legittimazione a richiedere il risarcimento del danno
patrimoniale ad ogni soggetto che abbia subito un siffatto pregiudizio dal reato, sia esso il soggetto passivo o non lo sia,
riconosce detta legittimazione relativamente al danno non patrimoniale nei confronti del soggetto che l'abbia subito (e
quindi come tale sia danneggiato), pur senza essere il soggetto passivo del reato (cfr. in tema di reato plurioffensivo ex
art. 449 c.p. la recentissima pronuncia di queste Sezioni Unite 21 febbraio 2002, 2515).
Infine, viene affrontata la questione se la pretesa irrisarcibilità possa conseguire alla particolare natura o funzione del
danno di cui all'art. 2059 c.c. ed esaminati gli orientamenti dottrinali affermati al riguardo, si conclude che qualunque
natura si riconosca al risarcimento del danno morale, essa risulta perfettamente compatibile, se non addirittura
rafforzativa, con la tesi proposta. Se, infatti, gli si attribuisce natura risarcitoria o satisfattiva dovrà riconoscersi l'equità
della corresponsione di un risarcimento ad ogni soggetto danneggiato, in via diretta o riflessa.
Se si opta per la funzione punitiva, il risarcimento anche del danno subito dai congiunti, insieme a quello sopportato dalla
vittima, non comporta alcuna ingiusta duplicazione della punizione del colpevole, atteso che la "punizione" in questione
non è quella penale pubblicistica, ma quella privata accordata al danneggiato civile;
pertanto esisteranno tante pene da pagare, quanti sono i danni morali conseguenti al reato. A questo indirizzo
innovativo, si sono uniformate tutte le successive pronunce della Terza Sezione (19 maggio 1999 n. 4852, 1 dicembre
1998, n. 13358, 9 maggio 2000, n.
5913, 27 luglio 2001, n. 10291).
Chiariti così i termini del contrasto, le Sezioni Unite ritengono di comporlo optando per la seconda soluzione, quella della
risarcibilità del danno morale patito dai prossimi congiunti del soggetto leso, completata e rafforzata dalle seguenti
considerazioni.
È innanzi tutto significativo che la giurisprudenza, nell'intento di impostare correttamente il problema, faccia
fondamentalmente riferimento all'art. 1223 c.c., sia per la tesi più restrittiva che per quella estensiva più recente; e,
soprattutto, che l'orientamento qui accolto inquadri il danno morale del congiunto nella figura del c.d. danno riflesso o di
rimbalzo, rientrante nella previsione del suddetto art. 1223 che, secondo tale costruzione, contemplerebbe tutti i danni
conseguenti al fatto illecito secondo un criterio di regolarità causale. Ma ad un ulteriore approfondimento, sembra doversi
riconoscere che la nozione dei c.d. danni riflessi o mediati non evidenzia una differenza sostanziale e-o eziologica con i
danni diretti, ma sta ad indicare la propagazione delle conseguenze dell'illecito (consistente in un danno alla persona)
alle c.d.
vittime secondarie, cioè ai soggetti collegati da un legame significativo con il soggetto danneggiato in via primaria. La
dottrina ha già chiarito che la questione della causalità di fatto è regolata dagli artt. 40 e 41 c.p. e non dall'art. 1223 c.c., il
quale attiene all'oggetto dell'obbligazione risarcitoria sul presupposto di un fatto dannoso completamente definito e,
quindi, riguarda il problema della selezione dei danni risarcibili e non quello del nesso causale. In termini di causalità,
infatti, il rapporto esistente tra il fatto del terzo ed il danno risentito dai prossimi congiunti della vittima è identico, sia che
da tale fatto consegua la morte, sia che da esso derivi una lesione personale. In entrambi i casi esiste un rapporto da
causa ad effetto che, se è diretto ed immediato nel primo caso, non può non esserlo anche nel secondo. Non vi sono
eziologie diverse tra il caso della morte e quello delle semplici lesioni perché in entrambe le ipotesi esiste una vittima
primaria, colpita o nel bene della vita o nel bene della salute, e una vittima ulteriore (il congiunto), anch'essa lesa in via
diretta ma in un diverso interesse di natura personale. Ed in effetti esiste una recente pronuncia sempre della stessa
Sezione che pur inserendosi nel filone giurisprudenziale innovativo, ha ritenuto inconsistente "il tradizionale argomento
dell'ostacolo costituito dall'art. 1223 c.c. (argomento della causalità diretta ed immediata), in quanto il danno morale in
favore dei congiunti trova causa efficiente nel fatto del terzo, sicché il criterio di imputazione concerne la colpa e la
regolarità causale, in quanto sono considerati risarcibili i danni che rientrano nelle conseguenze ordinarie e normali del
fatto". Ed ha aggiunto "come contributo alla chiarificazione della problematica, che appare fuorviante parlare di danno
riflesso o di rimbalzo, proprio perché lo stretto congiunto, convivente e-o solidale (per la doverosa assistenza) con la
vittima primaria, riceve immediatamente un danno conseguenziale, di varia natura (biologico, anche se può essere di
ordine psichico-morale, patrimoniale, e secondo recente dottrina e giurisprudenza, anche esistenziale) che lo legittima
iure proprio ad agire contro il responsabile dell'evento lesivo" (Cass. 2 febbraio 2001, n. 1516).
Questa impostazione, allargando le frontiere del danno risarcibile, sembra tuttavia aggravare il problema - fortemente
sotteso nell'orientamento opposto ma comunque rispondente ad una reale esigenza di politica giudiziaria,
"dell'allargamento a dismisura dei risarcimenti di danno morale". Questione complessa e ben presente alla riflessione di
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questa Corte, fin dalla inaugurale sentenza n. 4186-98, ma ivi ritenuta un posterius da risolvere "come per il danno
patrimoniale o biologico riflesso dei prossimi congiunti, non solo sulla base di una rigorosa prova dell'esistenza di questo
danno, evitando di rifugiarsi dietro il "notorio", ma anche alla stregua di un corretto accertamento del nesso di causalità,
da intendersi come causalità adeguata (o regolarità causale)". Ed allora l'attenzione deve spostarsi dal danno al
danneggiato, poiché il problema cruciale diviene non tanto quello della propagazione di un unico danno, bensì quello
della individuazione delle c.d. vittime secondarie; problema accennato nella citata sentenza n. 4186-98 accomunandolo
a quello del nesso causale, ma senza un particolare approfondimento e, soprattutto, ritenendolo anch'esso un posterius
laddove, sotto il profilo logico-giuridico, costituisce invece un prius, attenendo all'interesse ed alla legittimazione ad agire.
Il tema non è nuovo, essendo stato ampiamente dibattuto con riferimento alla liquidazione del danno morale
conseguente alla morte del congiunto. La questione ha acquistato, però, ulteriore spessore in relazione alla risarcibilità
dei danni morali anche per le lesioni subite dal familiare. Infatti, per un verso si è ampliata l'area della risarcibilità, per
altro verso si sono poste le basi perché possa discutersi della liquidazione di danni morali ai terzi anche in ipotesi diverse
da quella delle lesioni personali, quali, ad es., l'ingiuria o la diffamazione.
Il criterio indicato dalla più recente dottrina per la selezione delle c.d. vittime secondarie aventi diritto al risarcimento del
danno, pur nella varietà degli approcci, è quello della titolarità di una situazione qualificata dal contatto con la vittima che
normalmente si identifica con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce necessariamente, dovendosi anche
dare risalto a certi particolari legami di fatto. Questa situazione qualificata di contatto, la cui lesione determina un danno
non patrimoniale, identifica dunque la sfera giuridica di coloro che appaiono meritevoli di tutela e al tempo stesso
costituisce limite a tale tutela.
Specificando ulteriormente il criterio, con riguardo ai risultati del dibattito, si osserva: a) l'individuazione della situazione
qualificata che dà diritto al risarcimento trova un utile riferimento nei rapporti familiari, ma non può in questi esaurirsi,
essendo pacificamente riconosciuta, sia in dottrina che nella giurisprudenza, la legittimazione di altri soggetti (ad es. la
convivente more uxorio); b) la mera titolarità di un rapporto familiare non può essere considerata sufficiente a giustificare
la pretesa risarcitoria, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito e in che misura
la lesione subita dalla vittima primaria abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento.
Del resto la stessa Corte Costituzionale, con riguardo ai limiti soggettivi di risarcibilità del danno non patrimoniale ex art.
2059 c.c., aveva chiarito che in quella ipotesi, essendo il danno patito dal terzo eccezionalmente risarcibile sul solo
presupposto di essere stato cagionato da un fatto illecito penalmente qualificato, "la tutela risarcitoria deve fondarsi su
una relazione di interesse del terzo col bene protetto dalla norma incriminatrice, argomentabile, in via di inferenza
empirica, in base ad uno stretto rapporto familiare (o parafamiliare, come la convivenza more uxorio) (sent. n. 372 del
1994).
Tirando i fili del discorso e concludendolo, il contrasto devoluto all'esame di queste Sezioni Unite viene composto
affermando il seguente principio di diritto: "Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito
costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione
ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art.
1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione
del congiunto ad agire iure proprio contro il responsabile".
Non è superfluo aggiungere che questa conclusione appare in sostanziale sintonia con la risoluzione adottata dal
Consiglio di Europa il 14 marzo 1975 (Rèsolution (75) 7 "rèlative à la rèparation des dommage en cas de lesions
corporelles e de dècès", che ha indicato, per gli Stati che ammettono questa forma di risarcimento e al fine di uniformare
i principi, i criteri per il riconoscimento dei danni da lesione corporale del prossimo congiunto.
Al punto 13 è previsto, con formula peraltro eccessivamente restrittiva, che "il padre, la madre e il congiunto della vittima
che, in ragione di una lesione all'integrità fisica o psichica, subiscano delle sofferenze psichiche per le lesioni fisiche o
psichiche delle quali è stata oggetto la vittima stessa, non possono ottenere un risarcimento di questo pregiudizio che in
presenza di sofferenze di carattere eccezionale; altre persone non possono pretendere tale risarcimento".
Ed, inoltre, con il disegno di legge n. 4093 "Nuova disciplina in materia di danno alla persona", noto anche come
"Progetto ISVAP" che prevede la risarcibilità del danno morale dei prossimi congiunti in ipotesi di lesione dell'integrità
psicofisica del danneggiato pari o superiore al 50% di invalidità.
In entrambi i casi, viene riconosciuto il principio della legittimazione ad agire dei congiunti della vittima di lesioni
personali, limitandone però l'operatività al caso di lesioni e-o sofferenze di particolare gravità. Orbene, tornando
all'esame del secondo motivo del ricorso principale, esso va accolto poiché il giudice di appello, negando il danno morale
ai congiunti più prossimi (genitori) del minore gravemente leso, ha statuito in modo difforme dal principio sopraenunciato.
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Composto il contrasto devoluto alla competenza di queste Sezioni Unite, gli atti sono restituiti alla Sezione di
provenienza per l'esame degli ulteriori motivi (primo del ricorso principale e quinto di quello incidentale, ambedue
attinenti al quantum risarcitorio), ai sensi dell'art. 142 disp. att. c.p.c., e per la regolamentazione delle spese del grado.
SENTENZA CASS. CIV. 8826/2007
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente affermata, trattandosi di questione rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, la
sussistenza della legittimazione passiva nel presente giudizio della Regione Lazio e della Asl Roma/A Gestione
liquidatoria, in persona del Commissario liquidatore, ed il difetto viceversa di legitimatio ad causam passiva della ASL
Roma/A (ex USL Roma 2).
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare e precisare, a norma della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 6 e L.
28 dicembre 1995, n. 549, art. 2, comma 1 (che hanno trasferito alle Regioni i debiti delle soppresse unità sanitarie
locali, stabilendo che in nessun caso le Regioni possono far gravare sulle neo costituite Aziende sanitarie locali i debiti
preesistenti), si è verificata una successione ex lege, a titolo particolare, della Regione nei rapporti obbligatori già di
pertinenza delle Usl (v. Cass., 9/12/2004, n. 23007; Cass., 28/5/2004, n. 10297), sicchè ove la successione si sia come
nella specie verificata nel corso di un giudizio introdotto nei confronti di una Usl, le Regioni sono legittimate sia ad
impugnare le sentenze pronunziate nei confronti delle disciolte Usl, o delle loro gestioni liquidatorie, sia a resistere ad
impugnazioni proposte nei loro confronti.
E in base al tenore formale e funzionale della L. n. 724 del 1994, suindicato art. 6 tra i debiti delle disciolte Usl gravanti
sulle Regioni sono da ritenersi senz'altro ricompresi anche quelli per il risarcimento dei danni eventualmente causati
nella erogazione delle prestazioni del servizio sanitario nazionale (v. Cass., 9/12/2004, n. 23007, ove si è ulteriormente
negato che, così interpretata, la disposizione contrasti con gli artt. 81 e 119 Cost., sotto il profilo della mancata copertura
dei debiti stessi e della lesione dell'autonomia finanziaria delle Regioni; Cass., 24/7/2000, n. 9693).
Orbene, nel caso in esame il procedimento è stato in primo grado introdotto nel 1986 e promosso (oltre che nei confronti
del D. V.M. anche) nei confronti della Usl RM 3, e quindi, all'esito dell'interruzione disposta con ordinanza resa
all'udienza 9/3/1988 (avendo il difensore di quest'ultima dichiarato che con effetto dal 1 agosto 1988 la sua assistita era
stata soppressa) è stato riassunto ex art. 303 c.p.c. nei confronti della Usl RM 2.
La sentenza n. 10850/1995 emessa dal Tribunale di Roma a chiusura del medesimo è stata quindi dall'odierna ricorrente
appellata nei confronti sia della AUSL Roma/A (ex USL Roma 2) che della AUSL Roma/A Gestione liquidatoria, in
persona del Commissario liquidatore.
Successivamente il contraddittorio è stato integrato nei confronti della Regione Lazio e dell'Assitalia - Le Assicurazioni
d'Italia S.p.A., odierne controricorrenti.
Va pertanto dichiarato il difetto di legittimazione passiva della AUSL Roma /A, e disposta la compensazione tra le parti
delle spese dell'intero giudizio, sussistendone giusti motivi.
Con il 1 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c. e degli artt. 324, 342, 343 e 346
c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti
decisivi della controversia prospettati dalle parti e rilevabili d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; nullità
della sentenza per omessa pronunzia su proposte domande e/o su capi delle stesse, in relazione all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 4.
Lamenta che erroneamente la corte di merito ha, diversamente dal giudice di prime cure, ritenuto che l'intervento
chirurgico de quo non avesse finalità anche estetica, ed altresì riconsiderato l'obbligazione come "intieramente di mezzi",
in violazione del formatosi giudicato, atteso che "nessuno dei convenuti ha gravato di appello incidentale, su tali punti, la
decisione di primo grado, nè ha tempestivamente riproposto... le questioni innanzi alla Corte d'Appello".
Si duole che "in conseguenza dei vizi di cui all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 (come in rubrica indicati), la sentenza della corte
di Appello è inficiata anche di evidente, omessa pronuncia, avendo i Giudici di 2 grado affermato che restano superate
tutte le questioni sollevate... non essendovi danno da risarcire".
Il motivo è infondato.
Va posto anzitutto in rilievo che la questione concernente la finalità anche estetica dell'intervento chirurgico per cui è
causa costituisce aspetto inidoneo a passare in giudicato.
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Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la formazione della cosa giudicata per mancata impugnazione di un
determinato capo della sentenza investita dall'impugnazione può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa
che siano completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di
gravame, essendo fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi
efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno (v. Cass., 29/4/2006, n. 10043).
Orbene, la questione relativa alla circostanza che l'intervento chirurgico de quo avesse finalità, oltre che di recupero
della compromessa funzionalità respiratoria, anche di carattere "estetico" non può invero considerarsi capo autonomo
della domanda, risultando piuttosto una premessa logica della statuizione adottata (v. Cass., 29/4/2006, n. 10043; Cass.,
18/10/2005, n. 20143), sicchè essa risulta implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza.
Va ulteriormente precisato, sotto altro profilo, che la finalità estetica è da ritenersi senz'altro esclusa dall'ambito
dell'odierno thema decidendum, stante il difetto di prova al riguardo da parte dell'odierna ricorrente.
Trattandosi di rapporto contrattuale intercorrente tra la medesima e l'ente ospedaliero ove il D.V. ha nel caso prestato la
propria attività, in ossequio al criterio generale ex art. 2697 c.c. incombe infatti al creditore che agisce per farne valere il
mancato o inesatto adempimento l'onere di provare il titolo ed il relativo contenuto.
Al riguardo non può invero attribuirsi valore al "riconoscimento" dal D.V. asseritamente operato nella comparsa di
costituzione e risposta in sede di gravame di merito, non risultando tale atto (quantomeno in parte qua) debitamente
riportato nel ricorso, in spregio del principio di autosufficienza.
Come questa Corte ha ripetutamente avuto modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell'invocata cassazione della
decisione impugnata debbono invero essere connotati dai caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità
alla decisione stessa, con - fra l'altro - l'esposizione di argomentazioni intellegibili ed esaurienti.
Ai fini della sussistenza del requisito dell'esposizione sommaria dei fatti di causa prescritto a pena d'inammissibilità per il
ricorso per cassazione dall'art. 366 c.p.c. è cioè necessario che nell'atto d'impugnazione si rinvengano gli elementi
indispensabili perchè il giudice di legittimità possa avere, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti del processo, una
chiara e completa visione dell'oggetto dell'impugnazione, dello svolgimento del processo e delle posizioni in esso
assunte dalle parti (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998; Cass.,
21/5/1999, n. 4916; Cass., 25/3/1999, n. 2826).
Il mero contesto del ricorso (e quindi dalla lettura di tale solo atto, escluso l'esame di ogni altro documento, compresa la
stessa sentenza impugnata) deve risultare idoneo a consentire la conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale,
sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a qua (v. Cass.,
4/6/1999, n. 5492).
In giurisprudenza di legittimità si è altresì precisato che, ove non espressamente fornita, ben può la prova del contratto stante la libertà di forme in proposito - essere invero anche tacitamente desunta, in base al comportamento mantenuto
dalle parti.
Orbene, in assenza di prova di relativo espresso patto, se l'accettazione in ospedale con diagnosi di "deviazione del
setto nasale" (come risulta accertato nell'impugnata sentenza) al fine dell'effettuazione dell'intervento di settorinoplastica
e l'avvenuta esecuzione del medesimo depongono per la sussistenza nel caso di un (del resto incontestato) accordo
relativamente ad un intervento chirurgico volto al recupero della compromessa funzionalità respiratoria, altrettanto non
può invero dirsi in ordine alla finalità estetica.
Atteso che la stessa è, come affermato anche nella gravata decisione e del pari incontestato tra le parti, notoriamente
non prevista tra quelle eseguibili presso una struttura sanitaria pubblica a spese dello Stato, in difetto di prova della
sussistenza di un espresso e specifico accordo in tal senso non può invero inferirsene la formazione tacita.
Premesso che il sanitario della AUSL, nel sottoporre ad intervento o trattamento chirurgico il paziente, in realtà presta la
propria attività professionale a prescindere da prescrizioni o indicazioni eventualmente in precedenza fornite da altri
specialisti (nel caso, il padre dell'odierno ricorrente), rispetto alle stesse esplicando la propria opera in piena autonomia
(cfr, Cass., 14/3/2006, n. 5444), non può ritenersi infatti configurabile un consenso tacito in relazione ad interventi e
terapie mediche le quali risultano (quantomeno presuntivamente) escluse dal contenuto del contratto tra il paziente e la
struttura sanitaria, quale deve nel caso ritenersi la prestazione medica con finalità estetica cui, come indicato
nell'impugnata sentenza, può assegnarsi semmai rilievo quale mero effetto secondario, avuto cioè riguardo al
conseguimento o meno di quello funzionale primario.
Con il 2 motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1218, 1223, 1226, 2236, 2043,
2056, 2057, 2059, 2727 e 2697 c.c. nonchè degli artt. 115, 116, 196, 210, 213 e 245 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3;
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omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti e rilevabili
d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta la contraddittorietà ed apoditticità della motivazione laddove, da un canto, il fatto estetico viene indicato come
estraneo all'intervento, e, da altro canto, si afferma che esso vi rientra come "fatto puramente residuale", e cioè "nel
senso che l'operatore... avrebbe dovuto... eventualmente rimediare anche all'aspetto estetico che restava in ogni caso
fuori dalla finalità primaria dell'atto operatorio".
Si duole che del pari apoditticamente la corte di merito abbia, diversamente dal giudice di prime cure, immotivatamente
disatteso la C.T.U., secondo cui l'intervento chirurgico in questione, pur se avente finalità "funzionale", aveva anche "fini
di riassetto estetico". Per poi contraddittoriamente ritenere sufficienti alla soluzione del caso le esperite indagini, senza
disporne la rinnovazione o l'integrazione, nonostante le specifiche contestazioni mosse al riguardo dalla Z. e dai C.T.P..
Lamenta che erroneamente i giudici del merito hanno, da un canto, "sottovalutato" la "mancanza di soluzione definitiva
della disfunzione respiratoria", sostenendo che dalla stessa non potrebbe trarsi "che non siano stati adottati anche mezzi
idonei", e, da altro canto, considerato irrilevante il 2 intervento, senza minimamente considerare che pure "gli esiti" di
quest'ultimo dimostravano la responsabilità del D.V..
Si duole che la corte di merito abbia trascurato che la limitazione della responsabilità professionale del medico chirurgo
ai casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c. attiene al solo aspetto della perizia, con esclusione della imprudenza e
della negligenza, attribuendo viceversa rilievo ad una circostanza sicuramente irrilevante ai fini dell'esclusione della
responsabilità del D. V., e cioè l'aver eseguito l'intervento "secondo Cottle".
Al riguardo omettendo viceversa di considerare che il D.V. era specializzato in O.R.L., come accertato e riferito dai
C.T.U..
Lamenta, ancora, che "sono stati... proprio i cc.tt.uu. dottori D. G. e M., modificando sensibilmente le valutazioni
espresse nella 1^ relazione, a riconoscere che l'intervento "chirurgico di cui sopra non ha in effetti ottenuto risultati
obiettivamente risolutivi" con il conseguente "persistere di alcuni disagi nella respirazione nasale della p.", che si è avuto
un risultato dal punto di vista funzionale... non del tutto soddisfacente" e che il secondo intervento eseguito il 30.11.87
dal dr. P.... "ha offerto alla p. un risultato sicuramente più soddisfacente ed adeguato alle reciproche aspettative (pag. 2
relazione a chiarimenti)".
A tale stregua, deduce la ricorrente, "i consulenti hanno dovuto riconoscere che "non vi fu un risultato efficace oltre che
dal punto di vista estetico anche sul piano funzionale" (pag. 13 rel. a chiar.)" (pag. 28 del ricorso). Al riguardo
concludendo: "I Giudici di 2 grado, insomma, dovevano ritenere che l'opera del D. V. fu decisamente inefficace sia sul
piano funzionale che su quello estetico" (pag. 30 ric.).
Si duole ulteriormente che la corte di merito non abbia "in alcun modo considerato, al fine della chiesta affermazione di
responsabilità, il secondo intervento chirurgico cui la Z. dovette sottoporsi", laddove "tale circostanza, invece, era ed è di
fondamentale importanza sia per l'affermazione di responsabilità del D.V. (un altro medico, con intervento dello stesso
tipo, ha raggiunto quegli obiettivi di carattere funzionale ed estetico che anche il convenuto doveva ottenere), sia per
l'eventuale rinnovo o l'integrazione delle indagini mediche (pure chieste dall'attrice), che dovevano disporsi in caso di
dubbio..." (pag. 31 ric.):
Lamenta, ancora, essersi "completamente trascurato che i periti hanno sottolineato che l'insufficiente risultato... ha
comportato un nuovo atto operatorio che ha comportato una "completa canalizzazione aerea dell'organo"... (pagg. 15-16
rel. chiar.)".
Censura, in particolare, che "I Giudici di secondo grado hanno errato, pure, nel ritenere (con motivazione sempre
laconica) che la circostanza che la Z. abbia avuto necessità di un secondo intervento rileva solo ai fini del risultato...
risolutivo rispetto al primo), ma che non implica inadempienza del primo operatore riguardo ai mezzi adoperati (pag. 14
sentenza)". Al riguardo sottolineando come "A parte il rilievo che l'inadempienza andava ritenuta sussistere già sulla
scorta delle cc.tt.uu. o comunque acclarata previa rinnovazione od integrazione delle indagini mediche..., la Corte
d'Appello ha ignorato che la attrice ha chiesto... il risarcimento dei danni tutti, nessuno escluso, derivatile dalla vicenda in
esame, ivi compresi quelli causati, oltrechè dall'intervento chirurgico eseguito dal dr. D.V. M., dall'essersi dovuta
sottoporre a seconda operazione (effettuata dal dr. P.) in conseguenza del primo e dal persistere di postumi ed
inconvenienti addebitabili sempre al convenuto (da accertarsi tramite eventuali, ulteriori indagini mediche). Risarcimento
richiesto... sia per ciò che concerne il danno patrimoniale (rimborso di tutte le spese sostenute e riparazione per postumi
permanenti ed inconvenienti sia funzionali che estetici, sempre conseguenti al primo intervento), che per quanto riguarda
quelli biologico, estetico, alla vita di relazione, esistenziale e morale (riferiti sia alla inabilità temporanea dipendente dalla
2^ operazione, che... a postumi e pregiudizi estetici e funzionali tutt'ora residuati alla Z...." ; pagg.
43-44 ric.).
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Si duole, ancora, che "nonostante le numerose difformità e contraddizioni tra le affermazioni e conclusioni contenute
nella 1^ e nella 2^ C.T.U. (i periti d'ufficio, nel mentre ribadivano la inefficacia dell'intervento funzionale ed il risultato non
soddisfacente dello stesso, dichiaravano, sorprendentemente, esulando dai loro compiti, che, quanto all'aspetto
funzionale, ciò non ha nulla a che fare con la diligenza, la prudenza e la perizia)", la corte di merito abbia "negato
ingresso a tutti i mezzi di prova (rinnovo o integrazione indagini mediche, prova per testi, ordini di esibizione) richiesti
dalla Z. (fermo l'onere probatorio nella parte incombente ai convenuti)".
Lamenta che erroneamente il giudice del gravame di merito non ha considerato che a comprovare la colpa del D.V.
deponevano invero la specializzazione in O.R.L.; la natura routinaria dell'intervento di settorinoplastica; il mancato
verificarsi di alcun evento imprevedibile.
Sicchè, trattandosi di intervento chirurgico di non difficile esecuzione spettava, all'obbligato, sia esso il sanitario o la
struttura, fornire la prova di avere eseguito la prestazione professionale in modo idoneo, e che l'insuccesso
dell'operazione non fosse dipeso da difetto di diligenza propria, essendo intervenuto un evento imprevisto ed
imprevedibile (e al riguardo fa richiamo a Cass. n. 3492 del 2002).
Si duole che la corte di merito non abbia considerato che il D. V. ha effettuato l'intervento de quo senza aver mai visitato
o parlato con la Z., a tale stregua "omettendo di eseguire i necessari ed opportuni accertamenti e rendendosi
responsabile di grave ed indiscutibile colpa, oltre che di illecito ex art. 2043 c.c. (pure fatto valere )".
Lamenta essersi da parte della corte di merito altresì "completamente trascurato che i periti hanno sottolineato che i
sanitari... non raggiunsero quei risultati di carattere estetico che dovevano senza dubbio essere garantiti (pag. 15 rel.
chiar.), che è stabilita la sussistenza di un danno estetico non risolto dall'intervento chirurgico (pag. 13 1A C.T.U.), che
l'insufficiente risultato... ha comportato un nuovo atto operatorio che ha migliorato l'espressione fisionomica del naso e
comportato una completa canalizzazione aerea dell'organo e che i disagi morali (oltre che economici) subiti dalla Z.
potranno trovare adeguata considerazione in sede competente (pagg. 15-16 rel. Chiar.)".
Deduce, ancora, che "nelle obbligazioni di risultato (tale e così è stata, anche se in via residuale, qualificata dalla Corte
di Appello), il mancato raggiungimento dello stesso costituisce di per sè inadempimento a prescindere dalla valutazione
della adeguatezza o meno della diligenza prestata per consentirlo (l'inadeguatezza e la colpa nel caso in esame
risultano, comunque, inequivocabilmente, anche dall'assenza di eventi imprevedibili). Il risultato, cioè, è il prodotto
necessario della condotta del debitore". Al riguardo aggiungendo che "Nel caso in esame, l'aggravamento (di ciò si tratta
e poteva essere accertato previo nuovo esame della Z. in sede di 1 C.T.U. a chiarimenti) del difetto estetico conseguito
all'intervento del D.V. (come comprovano le foto in atti, e, in particolare, quelle allegate alla cc.tt.uu. ed alla c.t.p. del prof.
D.S.) e, comunque, la situazione sostanzialmente sovrapponibile" (pag. 14 rel. chiar.) alla precedente erano e sono
sufficienti alla affermazione della responsabilità del D. V.; e ciò in considerazione, pure, della necessità dell'ulteriore
intervento correttivo, affermata dai cc.tt.uu. quale conseguenza dell'inefficacia dell'intervento chirurgico (pag. 14 rel.
chiar.) e causa di ulteriori patimenti, sofferenze e sacrifici anche economici. Nè può insomma disconoscersi che
l'inalterazione... non costituisce risultato, bensì inadempimento".
Si duole, ancora, che il D.V. sia venuto completamente meno al dovere di informazione su di lui incombente, come
ammesso dalla stessa Corte d'Appello, non avendola mai incontrata o visitata prima di sottoporla all'intervento di
settorinoplastica.
Lamenta che al riguardo non sia stata ritenuta ed affermata la responsabilità (anche extracontrattuale) del chirurgo in
relazione all'omessa informazione e al conseguente difetto di valido consenso.
Il motivo, che si articola in plurimi profili di doglianza, concernenti i denunziati vizi di violazione di legge e di motivazione,
è parzialmente fondato nei termini di seguito indicati.
In ordine al vizio di violazione di legge, con riferimento a "quanto attiene al profilo funzionale" dell'intervento di
settorinoplastica de quo la ricorrente si duole in particolare che nell'impugnata sentenza si sostenga che, trovandosi "di
fronte ad una obbligazione di soli mezzi", "in tali ipotesi il professionista non si impegna a conseguire il risultato e ...
irrilevante sarebbe la mancanza di una soluzione definitiva riparatoria".
Facendo espresso richiamo a Cass., 11/3/2002, n. 3492, osserva criticamente al riguardo che risulta a tale stregua dalla
corte di merito disatteso il principio in base al quale quando l'intervento chirurgico da cui è derivato un danno non è di
difficile esecuzione, l'aggravamento della situazione patologica del paziente o l'insorgenza di nuove patologie
eziologicamente ad esso ricollegabili comportano, a norma dell'art. 1218 c.c., una presunzione semplice in ordine
all'inadeguata o negligente prestazione, spettando all'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - fornire la prova che la
prestazione professionale sia stata eseguita in modo idoneo e che sia invece intervenuto un evento imprevisto e
imprevedibile.
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Orbene, in ordine alla qualificazione del rapporto intercorso tra le odierne parti di giudizio, alla natura dell'obbligazione
assunta dal medico, al tipo di responsabilità che ne consegue, e alla ripartizione dei relativi oneri probatori, va osservato
quanto segue.
Risponde a consolidato orientamento di questa corte - che il Collegio ritiene di non disattendere - l'inquadramento della
responsabilità dell'ente ospedaliero e del medico nell'ambito della responsabilità contrattuale.
L'accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria - ospedaliera, ai
fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (v, Cass., 19/10/2006, n. 22390;
Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 26/1/2006, n. 1698; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass.,
21/7/2003, n. 11316; Cass., 14/7/2003, n. 11001; Casa., 11/3/2002, n. 3492; Cass., 10/9/1999, n. 9198; Cass.,
22/1/1999, n. 589; Cass., 2/12/1998, n. 12233; Cass., 27/7/1998, n. 7336; Cass., 11/4/1995, n. 4152; Cass., 27/5/1993,
n. 5939; Cass., 4/8/1988, n. 6707; Cass., 1/3/1988, n. 2144; Cass., 8/3/1979, n. 1716; Cass., 21/12/1978, n. 6141) di
prestazione d'opera atipico di spedalità, essendo essa tenuta ad una prestazione complessa che non si esaurisce nella
prestazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dalla L. n. 132 del 1968,
art. 2, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di
personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonchè di quelle lato sensu
alberghiere (v. Cass., 26/1/2006, n. 1698; Cass., 14/7/2004, n. 13066; Cass., Sez. Un., l/7/2002, n. 9556; Cass.,
22/1/1999, n. 589;
Cass., 21/12/1978, n. 6141).
Ne consegue, a tale stregua, che la responsabilità dell'ente ospedaliero ha natura contrattuale sia in relazione a propri
fatti d'inadempimento (ad es., in ragione della carente o inefficiente organizzazione relativa alle attrezzature o alla messa
a disposizione di medicinali o del personale medico ausiliario e paramedico, o alle prestazioni di carattere alberghiero)
sia per quanto concerne il comportamento in particolare dei medici dipendenti, trovando nel caso applicazione la regola
posta dall'art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si avvale dell'opera di terzi
risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (V. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 4/3/2004, n. 4400; Cass.,
8/1/1999, n. 103), ancorchè non siano alle sue dipendenze (v. Cass., 21/2/1998, n. 1883; Cass., 20/4/1989, n. 1855).
Responsabilità per fatto dell'ausiliario o preposto che in realtà prescinde dalla sussistenza di un vero e proprio rapporto
di lavoro subordinato del medico con la struttura (pubblica o privata) sanitaria, essendo irrilevante la natura del rapporto
tra i medesimi sussistente ai fini considerati, laddove fondamentale rilevanza assume viceversa la circostanza che
dell'opera del terzo il debitore originario comunque si avvalga nell'attuazione del rapporto obbligatorio.
A tale stregua, la responsabilità che dall'esplicazione dell'attività di tale terzo consegue riposa invero sul principio cuius
commoda eius et incommoda (salva l'ipotesi dell'autonoma iniziativa del terzo, che come osservato in dottrina
normalmente segna l'inapplicabilità della norma di cui all'art. 1228 c.c.).
Nè in argomento vale distinguere tra comportamento colposo e comportamento doloso del soggetto agente, al fine di
considerare interrotto il rapporto in base al quale l'ente è chiamato a rispondere, giacchè è al riguardo sufficiente la mera
occasionalità necessaria (v. Cass., 17/5/2001, n. 6756; Cass., 15/2/2000, n. 1682).
L'ente risponde infatti di tutte le ingerenze dannose che al dipendente sono rese possibili dalla posizione conferitagli
rispetto al terzo danneggiato, e cioè dei danni che il dipendente può arrecare in ragione di quel particolare contatto cui si
espone nei suoi confronti il paziente nell'attuazione del rapporto con la struttura sanitaria.
Responsabilità che trova fondamento non già nella colpa (nella scelta degli ausiliari o nella vigilanza) bensì nel rischio
connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione (v. Cass., 17/5/2001, n. 6756; Cass.,
30/12/1971, n. 3776. V. anche Cass., 4/4/2003, n. 5329).
Del pari irrilevante è la circostanza che ad eseguire l'operazione sia un medico di fiducia del paziente, laddove la scelta
(anche tacitamente) cada su professionista come nella specie inserito nella struttura sanitaria (v. Cass., 14/7/2004, n.
13066; Cass., 13/1/2005, n. 571; Cass., 2/2/2005, n. 2042; Cass., 26/1/2006, n. 1698).
In tal caso, diversamente dall'ipotesi in cui il medico di fiducia indicato dal paziente sia estraneo all'organizzazione del
debitore (nella quale il medesimo viene propriamente a configurarsi quale mero "cooperatore del creditore", il quale
ultimo a tale stregua fornisce al debitore il mezzo per l'adempimento, e conseguentemente sopporta le conseguenze
dannose da tale soggetto causate), la scelta del creditore risulta infatti operata pur sempre nell'ambito di quella più
generale e previamente effettuata a monte dal debitore, sicchè essa non altera nel terzo quella posizione di ausiliario
ribadita dal rapporto di servizio con il medesimo (per la precisazione che il diritto soggettivo alla libera scelta della
struttura o del professionista privati cui rivolgersi è esercitabile solo nell'ambito dei soggetti accreditati con i quali
l'amministrazione regionale ha definito appositi accordi v., da ultimo, Cass., Sez. Un., 8/8/2005, n. 16605).
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Analogamente deve dirsi altresì nell'ipotesi in cui vi sia mero consenso - anche tacito - del creditore alla scelta come
nella specie fatta dal debitore.
Come è stato posto in rilievo in dottrina, in tali casi, l'obbligato risponde invero dell'operato dell'ausiliario conformemente
alla regola posta dall'art. 1228 c.c. volta a soddisfare l'esigenza che il ricorso del debitore originario a collaboratori
nell'attuazione del rapporto obbligatorio non comporti per il creditore - senza la sua accettazione e su semplice iniziativa
del debitore - l'imposizione della particolare ingerenza di soggetti che, a lui estranei, rispondano in proprio esonerando il
debitore dalla sua originaria responsabilità. Conservando pertanto anche in tali ipotesi al creditore l'affidamento sulla
responsabilità dell'obbligato (originario).
La natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente dell'ente ospedaliero verso il paziente è da questa
Corte con consolidato orientamento fondata sul contatto sociale instaurantesi tra quest'ultimo ed il medico chiamato ad
adempiere nei suoi confronti la prestazione dal medesimo convenuta con la struttura sanitaria (v. Cass., 19/4/2006, n.
9085; Cass., 26/1/2006, n. 1698;
Cass., 29/9/2004, n. 19564; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., 14/7/2004, n. 13066; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass.,
19/5/2004, n. 9471; Cass., 21/7/2003, n. 11316; Cass., 22/12/1999, n. 589).
Al riguardo, vale precisare, non si tratta di contatto sociale dal quale insorge, secondo quanto prospettato da una parte
della dottrina, una obbligazione senza prestazione.
Nel contatto sociale è infatti da ravvisarsi la fonte di un rapporto che quanto al contenuto non ha ad oggetto la
"protezione" del paziente bensì una prestazione che si modella su quella del contratto d'opera professionale, in base al
quale il medico è tenuto all'esercizio della propria attività nell'ambito dell'ente con il quale il paziente ha stipulato il
contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi
emersi o esposti a pericolo in occasione del detto "contatto", e in ragione della prestazione medica conseguentemente
da eseguirsi.
In altri termini, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, l'esistenza di un contratto è rilevante solo al fine di
stabilire se il medico è obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria (salve le ipotesi in cui detta attività è
obbligatoria per legge:
ad es. art. 593 c.p., Cass. pen., 10/4/1978, n. 4003, Soccardo). In assenza di dette ipotesi di vincolo il paziente non può
invero pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il medico in ogni caso interviene (ad es., in quanto al
riguardo tenuto nei confronti dell'ente ospedaliero) l'esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto pazientemedico) non può essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e
medico (v. Cass., 22/1/1999, n. 589).
Si è esclusa la configurabilità in tale ipotesi della responsabilità aquiliana, rinvenendosi una responsabilità di tipo
contrattuale, per non avere il soggetto fatto ciò cui era tenuto (v., in particolare, la citata Cass., 22/12/1999, n. 589;
Cass., 1/3/1988, n. 2144).
La situazione descritta generalmente si riscontra nei confronti dell'operatore di una professione cd. protetta (cioè una
professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato), in particolare quando il relativo
espletamento concerna beni costituzionalmente garantiti, come appunto per l'attività medica, che incide sul bene "salute"
tutelato ex art. 32 Cost..
A tale stregua, la responsabilità sia del medico che dell'ente ospedaliero trova titolo nell'inadempimento delle
obbligazioni ai sensi degli artt, 1218 ss. c.c. (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., 11/3/2002,
n. 3492; Cass., 22/12/1999, n. 589).
Trattandosi di obbligazione professionale, la misura dello sforzo diligente necessario per il relativo corretto adempimento
va considerato in relazione al tipo di attività dovuta per il soddisfacimento dell'interesse creditorio.
Al riguardo, in base al combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. la diligenza richiesta è non
già quella ordinaria, del buon padre di famiglia (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583) bensì quella ordinaria del buon
professionista (v. Cass., 31/5/2006, n. 12995), e cioè la diligenza normalmente adeguata in ragione del tipo di attività e
alle relative modalità di esecuzione.
Nell'adempimento dell'obbligazione professionale va infatti osservata la diligenza qualificata ai sensi dell'art. 1176 c.c.,
comma 2, (che costituisce aspetto del concetto unitario posto dall'art. 1174 c.c.:
cfr. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 22/12/1999, n. 589), quale modello di condotta che si estrinseca (sia esso
professionista o imprenditore) nell'adeguato sforzo tecnico, con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed
obiettivamente necessari od utili, in relazione alla natura dell'attività esercitata, volto all'adempimento della prestazione
dovuta ed al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonchè ad evitare possibili eventi dannosi (v. Cass., 31/5/2006, n.
12 995. in ordine all'applicabilità della regola anche in tema di responsabilità extracontrattuale v.
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Cass., 26/3/1990, n. 2428. Per la distinzione tra "normale concetto di diligenza" e "diligentia quam in concreto" v. Cass.,
22/10/2003, n. 15789).
Lo specifico settore di competenza in cui rientra l'attività esercitata richiede infatti la specifica conoscenza ed
applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell'attività necessaria per l'esecuzione dell'attività professionale.
Come in giurisprudenza di legittimità si è già avuto modo di porre in rilievo, i limiti di tale responsabilità sono invero quelli
generali in tema di responsabilità contrattuale (v. Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533), presupponendo questa
l'esistenza della colpa, lieve del debitore, e cioè il difetto dell'ordinaria diligenza.
Al riguardo si è ulteriormente precisato che il criterio della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media
richiesta, ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell'attività esercitata
(cfr.
Cass., 20/7/2005, n. 15255; Cass., 8/2/2005, n. 2538; Cass., 22/10/2003, n. 15789; Cass., 28/11/2001, n. 15124; Cass.,
21/6/1983, n. 4245).
In argomento, atteso che questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo come la limitazione di responsabilità
professionale del medico ai casi di dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c. si applica nelle sole ipotesi che presentano
problemi tecnici di particolare difficoltà, in ogni caso attenendo esclusivamente all'imperizia e non anche all'imprudenza e
alla negligenza (v. Cass., 19/4/2006, n. 9085; Cass., 14448/2004; Cass. n. 5945/2000); e considerato quanto sopra
posto in rilievo in tema di affidamento del paziente, deve ulteriormente precisarsi che la condotta del medico specialista
(a fortiori se tra i migliori del settore) va esaminata non già con minore ma semmai al contrario con maggior rigore ai fini
della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare
la condotta alla natura e al livello di pericolosità della prestazione (cfr., con riferimento al medico sportivo, Cass.,
8/1/2003, n. 85), implicante scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr.
Cass., 13/1/2005, n. 583).
In quanto la diligenza (che, come posto in rilievo anche in dottrina, si specifica nei profili della cura, della cautela, della
perizia e della legalità, la perizia in particolare sostanziandosi nell'impiego delle abilità e delle appropriate nozioni
tecniche peculiari dell'attività esercitata, con l'uso degli strumenti normalmente adeguati; ossia con l'uso degli strumenti
comunemente impiegati, in relazione all'assunta obbligazione, nel tipo di attività professionale o imprenditoriale in cui
rientra la prestazione dovuta: v. Cass., 31/5/2006, n. 12995) deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell'attività
esercitata (art. 1176 c.c., comma 2), al professionista, e a fortiori allo specialista, è richiesta una diligenza
particolarmente qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletarsi.
A tale stregua l'impegno dal medesimo dovuto, se si profila superiore a quello del comune debitore, va considerato
viceversa corrispondente alla diligenza normale in relazione alla specifica attività professionale esercitata, giacchè il
professionista deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale della sua categoria, tale
standard valendo a determinare, in conformità alla regola generale, il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente
misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonchè del relativo grado di responsabilità.
Come si è osservato in dottrina, il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata al modello del buon
professionista (secondo cioè una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicchè deve
escludersi che il debitore privo delle necessarie cognizioni tecniche sia esentato dall'adempiere l'obbligazione con la
perizia adeguata alla natura dell'attività esercitata), mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla
qualifica professionale del debitore (per il riferimento alla necessità di adeguare la valutazione alla stregua del dovere di
diligenza particolarmente qualificato, inerente lo svolgimento dell'attività del professionista, v. Cass., 23/4/2004, n.
19133; Cass., 4/3/2004, n. 4400) in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore
professionale.
Ai diversi gradi di specializzazione corrispondono infatti diversi gradi di perizia.
Può allora distinguersi tra una diligenza professionale generica e una diligenza professionale variamente qualificata.
Chi assume un'obbligazione nella qualità di specialista, o una obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto
alla perizia che è normale della categoria.
Lo sforzo tecnico implica anche l'uso degli strumenti materiali normalmente adeguati, ossia l'uso degli strumenti
comunemente impiegati nel tipo di attività professionale in cui rientra la prestazione dovuta.
La misura della diligenza richiesta nelle obbligazioni professionali va quindi concretamente accertata sotto il profilo della
responsabilità.
Con specifico riferimento all'attività ed alla responsabilità del medico cd. "strutturato" si è in giurisprudenza di legittimità
affermato che il medico e l'ente sanitario sono contrattualmente impegnati al risultato dovuto (v. Cass., 19/5/2004, n.
9471), quello cioè conseguibile secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, alla
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abilità tecnica del primo e alla capacità tecnico-organizzativa del secondo (v. Cass., 22/12/1999, n. 589 Cass., n.
2750/98; Cass., 8/1/1999, n. 103).
Il normale esito della prestazione dipende allora da una pluralità di fattori, quali il tipo di patologia, le condizioni generali
del paziente, l'attuale stato della tecnica e delle conoscenze scientifiche (stato dell'arte), l'organizzazione dei mezzi
adeguati per il raggiungimento degli obiettivi in condizioni di normalità, ecc..
Normalità che risponde dunque ad un giudizio relazionale di valore, in ragione delle circostanze del caso.
La difficoltà dell'intervento e la diligenza del professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello di
specializzazione del professionista e alle strutture tecniche a sua disposizione, sicchè il medesimo deve, da un canto,
valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all'ausilio di un
consulto (se la situazione non è così urgente da sconsigliarlo); e, (da altro canto, deve adottare tutte le misure volte ad
ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell'intervento, e
laddove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, financo consigliandogli, se manca l'urgenza di intervenire, il
ricovero in una struttura più idonea (v. Cass., 5/7/2004, n. 12273. V. anche Cass., 21/7/2003, n. 11316; Cass., 16/5/2000,
n. 6318).
Emerge evidente, a tale stregua, che il risultato normalmente conseguibile per i migliori specialisti del settore operanti
nell'ambito di una determinata struttura sanitaria ad alta specializzazione tecnico-professionale non può considerarsi tale
per chi sia viceversa dotato di minore grado di abilità tecnico- scientifica, ovvero presti la propria attività presso una
struttura con inferiore organizzazione o dotazione di mezzi (cfr. Cass., 5/7/2004, n. 12273), ovvero in una struttura
sanitaria polivalente o "generica", o, ancora, in un mero presidio di "primo intervento".
Ne consegue che anche per il migliore specialista del settore il giudizio di normalità va allora calibrato avuto riguardo alla
struttura in cui è chiamato a prestare la propria opera professionale. Laddove lo spostamento verso l'alto della soglia di
normalità del comportamento diligente dovuto determina la corrispondente diversa considerazione del grado di tenuità
della colpa (cfr. Cass., 4437/82), con corrispondente preclusione della prestazione specialistica al medico che
specializzato non è (cfr.
Cass., 5/7/2004, n. 12273; Cass., 2428/90).
La riconduzione dell'obbligazione professionale del medico cd.
strutturato nell'ambito del rapporto contrattuale, e della eventuale responsabilità che ne consegua nell'ambito di quella
da inadempimento ex artt. 1218 ss. c.c., ha invero i suoi corollari anche sotto il profilo probatorio.
Al riguardo questa Corte ha già più volte enunciato il principio in base al quale quando l'intervento da cui è derivato il
danno non è di difficile esecuzione la dimostrazione da parte del paziente dell'aggravamento della sua situazione
morbosa o l'insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all'inadeguata o
negligente prestazione, spettando all'obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in
modo diligente, e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (v. Cass. 21
dicembre 1978, n. 6141; Cass. 16 novembre 1988, n. 6220; 11 marzo 2002, n. 3492).
Più specificamente, l'onere della prova è stato ripartito tra le parti nel senso che spetta al medico provare che il caso è di
particolare difficoltà, e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee; ovvero a quest'ultimo spetta
provare che l'intervento è di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non sia dipeso da suo difetto di diligenza (v.
Cass., 19/4/2006, n. 9085;
Cass., 11/11/2005, n. 22894; Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass.,
19/5/1999, n. 4852; Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 30/5/1996, n. 5005; Cass., 16/11/1988, n. 6220).
Tale orientamento interpretativo è stato da questa Corte "riletto" anche alla luce del principio enunciato in termini generali
da Cass., Sez. Un. 30/10/2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell'inadempimento.
Nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, le Sezioni Unite hanno nell'occasione affermato il
principio - condiviso dal Collegio - secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento
del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre è al debitore convenuto che incombe di
dare la prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato posto con riguardo all'inesatto adempimento, rilevandosi che al creditore istante è sufficiente la
mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando sul
debitore l'onere di dimostrare di avere esattamente adempiuto.
Applicando tale principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico si è affermato che il
paziente che agisce in giudizio deve, anche quando deduce l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria, provare il
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contratto e allegare l'inadempimento del sanitario, restando a carico del debitore (medico-struttura sanitaria) l'onere di
dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a
causa a sè non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile nè prevenibile con la diligenza nel
caso dovuta (per il riferimento all'evento imprevisto ed imprevedibile cfr., da ultimo, Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass.,
11/11/2005, n. 22894).
Pertanto, in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. il paziente- creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il
relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura
sanitaria e la relativa gravità (da ultimo v. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Questa Corte è peraltro recentemente pervenuta ad affermare che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e
prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà non può valere come criterio di distribuzione
dell'onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa
riferibile al sanitario.
All'art. 2236 c.c. non va conseguentemente assegnata rilevanza alcuna ai fini della ripartizione dell'onere probatorio,
giacchè incombe in ogni caso al medico dare la prova della particolare difficoltà della prestazione, laddove la norma in
questione implica solamente una valutazione della colpa del professionista, in relazione alle circostanze del caso
concreto (v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Appare in effetti incoerente ed incongruo richiedere al professionista la prova idonea a vincere la presunzione di colpa a
suo carico quando trattasi di intervento di facile esecuzione o routinario, e addossare viceversa al paziente l'onere di
provare "in modo preciso e specifico" le "modalità ritenute non idonee" quando l'intervento è di particolare o speciale
difficoltà (in tal senso v. invece Cass., 4/2/1998, n. 1127; Cass., 11/4/1995, n. 4152).
Proprio nel caso in cui l'intervento implica cioè la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, richiede notevole
abilità, e la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità, con largo margine di rischio in presenza di
ipotesi non ancora adeguatamente studiate o sperimentate, ovvero oggetto di sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica
chirurgica diversi ed incompatibili tra loro (v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 10/5/2000, n. 5945; Cass., 19/5/1999, n.
4852; Cass., 16/11/1988, n. 6220; Cass., 18/6/1975, n. 2439. Non anche in ragione dell'incertezza circa l'esito della
tecnica applicata o dell'alta percentuale di risultati insoddisfacenti, atteso che la difficoltà di prova non coincide con
l'aleatorietà, ben potendo una prestazione tecnicamente di facile esecuzione presentare una non sicura efficacia
terapeutica ovvero un difficile intervento condurre, in caso di esito positivo, a certa guarigione: v. Cass., 21/6/2004, n.
11488).
Tale soluzione si palesa infatti ingiustificatamente gravatoria per il paziente, in contrasto invero con il principio di
generale favor per il creditore-danneggiato cui l'ordinamento è informato (cfr.
Cass., 20/2/2006, n. 3651).
In tali circostanze è infatti indubitabilmente il medico specialista a conoscere le regole dell'arte e la situazione specifica anche in considerazione delle condizioni del paziente - del caso concreto, avendo pertanto la possibilità di assolvere
all'onere di provare l'osservanza delle prime e di motivare in ordine alle scelte operate in ipotesi in cui maggiore è la
discrezionalità rispetto a procedure standardizzate.
E' allora da superarsi, sotto il profilo della ripartizione degli oneri probatori, ogni distinzione tra interventi "facili" e "difficili",
in quanto l'allocazione del rischio non può essere rimessa alla maggiore o minore difficoltà della prestazione, l'art. 2236
c.c. dovendo essere inteso come contemplante una regola di mera valutazione della condotta diligente del debitore (v.
Case., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Va quindi conseguentemente affermato che in ogni caso di "insuccesso" incombe al medico dare la prova della
particolare difficoltà della prestazione (v. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte
di soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui il paziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi all'intervento
chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato.
Affidamento tanto più accentuato, in vista dell'esito positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la
specializzazione del professionista, e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la quale
l'attività medica viene dal primo espletata.
Sotto altro profilo, va posto in rilievo che una limitazione della misura dello sforzo diligente dovuto nell'adempimento
dell'obbligazione, e della conseguente responsabilità per il caso di relativa mancanza o inesattezza, non può farsi invero
discendere dalla qualificazione dell'obbligazione - come in sentenza operata - in termini di "obbligazione di mezzi".
Il professionista, ed il medico specialista in particolare, è infatti tenuto non già ad una prestazione professionale
purchessia bensì impegnato ad una condotta specifica particolarmente qualificata, in ragione del proprio grado di abilità
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tecnico- scientifica nel settore di competenza, in vista del conseguimento di un determinato obiettivo dovuto, avuto
riguardo al criterio di normalità secondo il più sopra esposto giudizio relazionale (cfr.
Cass., 19/5/2004, n. 9471. Nel senso che il risultato positivo è una conseguenza "statisticamente fisiologica" della
prestazione professionale diligente cfr. Cass., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 16/2/2001, n. 2335; Cass., 19/5/1999, n.
4852).
E' infatti proprio la prestazione professionale particolarmente qualificata dal grado di conoscenza ed abilità tecnica, e la
particolare organizzazione di uomini e mezzi della struttura sanitaria specializzata in cui la stessa viene espletata, ad
ingenerare nel paziente l'affidamento idoneo ad indurlo a sottoporsi ad un particolare tipo di intervento sulla propria
persona, che lo espone in ogni caso ad un più o meno alto grado di rischio per la propria incolumità, quando non
addirittura sopravvivenza.
Per il professionista (e conseguentemente per la struttura sanitaria) non vale dunque invocare, al fine di farne
conseguire la propria irresponsabilità, la distinzione tra "obbligazione di mezzi" e "obbligazione di risultato", sostenendo
che la propria attività è da ricomprendersi tra le prime, sì da non rispondere in caso di risultato non raggiunto (contra v.
Cass., Sez. Un., 9/3/1965, n. 375).
Siffatta distinzione costituisce infatti, come ormai da qualche tempo dalla migliore dottrina non si manca di porre in
rilievo, il frutto di una risalente elaborazione dogmatica accolta dalla tradizionale in- terpretazione e tralatiziamente
tramandatasi, priva invero di riscontro normativo e di dubbio fondamento (per l'inidoneità di tale distinzione in tema di
prestazione d'opera intellettuale, con particolare riferimento all'obbligazione del progettista, v.
recentemente Cass., Sez. Un., 28/7/2005, n. 15781).
Si è al riguardo puntualmente e condivisibilmente posto in rilievo in dottrina, da un canto, che anche nelle cd.
obbligazioni di mezzi lo sforzo diligente del debitore è in ogni caso rivolto al perseguimento del risultato dovuto; e, da
altro canto, che la tesi secondo cui le obbligazioni di risultato sono assoggettate alla regola della responsabilità oggettiva
è priva di riscontro normativo nonchè sfornita di argomenti sostanziali, valendo in contrario osservare che nelle ipotesi
tipicamente indicate come obbligazioni di risultato (es., l'obbligazione del depositario) non è comunque garantito il
risultato, giacchè l'impegno del debitore è pur sempre obbligatorio, e non si sostanzia invero in un'assicurazione. Tant'è
che il medesimo non risponde dell'inadempimento dovuto ad impedimento sopravvenuto non prevedibile nè superabile
con il normale sforzo diligente adeguato al tipo di prestazione (ad es., il depositario non risponde della mancata
restituzione della cosa depositata in conseguenza della rapina di cui è rimasto vittima: v. Cass., 29/7/2004, n. 14470;
Case., 19/7/2004, n. 13359; Cass., 5/1272003, n. 18651; Cass., 20/1/1997, n. 534).
Rilievo decisivo non può riconoscersi nemmeno all'obiezione secondo cui nelle obbligazioni di risultato non basta
all'obbligato, per sottrarsi alla responsabilità, dimostrare di avere usato la diligenza, atteso che anche nelle obbligazioni
di mezzi il debitore inadempiente ha l'onere di provare l'evento impeditivo e di provare l'imprevedibilità e l'insuperabilità
di tale evento con la normale diligenza.
Inidoneo appare, ancora, al riguardo l'argomento della mancata liberazione dell'obbligato nell'ipotesi in cui l'impossibilità
concerna il mezzo destinato dal debitore all'adempimento, atteso che laddove non colpisca lo specifico mezzo
contrattualmente indicato per l'adempimento della prestazione l'impossibilità della prestazione si ha in tal caso
solamente se l'impedimento sopravvenuto non consente di adempiere con nessuno dei mezzi utilizzabili secondo
l'ordinaria diligenza.
Nè, al fine di salvare la distinzione dogmatica in argomento, può valere il richiamo a principi propri di altri sistemi, come
quello di common law della cd. evidenza circostanziale o res ipsa loquitur (per il quale v. invece Cass., 16/2/2001, n.
2335; Cass., 19/5/1999, n. 4852, Cass.; 22/1/1999, n. 589).
Come questa Corte ha avuto anche recentemente modo di precisare, in tema di responsabilità del medico per i danni
causati al paziente l'inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal
mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri
inerenti allo svolgimento dell'attività professionale (v.
Cass., 9/11/2006, n. 23918).
L'inadempimento consegue infatti alla prestazione negligente, ovvero non improntata alla dovuta diligenza da parte del
professionista (e/o della struttura sanitaria) ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, adeguata alla natura dell'attività
esercitata e alle circostanze concrete del caso.
Secondo la regola sopra ribadita in tema di ripartizione dell'onere probatorio, provati dal paziente la sussistenza ed il
contenuto del contratto, se la prestazione dell'attività non consegue il risultato normalmente ottenibile in relazione alle
circostanze concrete del caso incombe invero al medico (a fortiori ove trattisi di intervento semplice o routinario) dare la
prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza che lo stesso ha impedito di
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ottenere. E laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c. il medesimo
rimane soccombente.
In caso di mancata o inesatta realizzazione di tale intervento il medico e la struttura sono conseguente-mente tenuti a
dare la prova che il risultato "anomalo" o anormale rispetto al convenuto esito dell'intervento o della cura, e quindi dello
scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza, dipende da fatto a sè non imputabile, in quanto
non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del
caso concreto.
Risultato "anomalo" che deve in realtà ravvisarsi non solo allorquando alla prestazione medica consegua l'aggravamento
dello stato morboso o l'insorgenza di nuova patologia, ma anche quando l'esito risulti come nella specie caratterizzato da
inalterazione rispetto alla situazione che l'intervento medico-chirurgico ha appunto reso necessario.
Lo stato di inalterazione si sostanzia nel mancato miglioramento (nel caso, funzionale) costituente oggetto della
prestazione cui il medico- specialista è tenuto, e che il paziente può legittimamente attendersi quale normale esito della
diligente esecuzione della prestazione convenuta professionale.
Anch'essa in effetti connota l'eseguito intervento chirurgico in termini di "inutilità", con tutte le conseguenze di carattere
fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla
prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.) che ne derivano per il paziente, caratterizzandolo pertanto in termini di
"insuccesso" (cfr. Cass., 21/7/2003, n. 11316), a tale stregua integrando fattispecie d'inadempimento ingenerante
responsabilità ex art. 1218 ss. c.c..
In tale aspetto si coglie anzi una fondamentale differenza rispetto alla considerazione della responsabilità del medico in
termini di responsabilità extracontrattuale (cfr. quanto al riguardo osservato da Cass., 22/12/1999, n. 589. Per la
limitazione della configurabilità della responsabilità extracontrattuale all'ipotesi che all'effettuazione dell'intervento medico
consegua un aggravamento della patologia o l'insorgenza di nuove patologie v. Cass., 11/4/1995, n. 4152; Cass.,
18/4/1994, n. 8470; Cass., 1/2/1991, n. 977).
Tutte le suindicate ipotesi sono allora da qualificarsi in termini di "insuccesso" della prestazione medica.
L'imposizione, secondo la sopra richiamata regola generale, mediante la previsione della presunzione dell'onere della
prova in capo al debitore, il cui fondamento si è indicato nell'operare del principio di cd. vicinanza alla prova o di
riferibilità (v. v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez.
Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), va ancor più propriamente ravvisato, come sottolineato anche in
dottrina, nel criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua
sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di
regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del
debitore come nel caso specializzato nell'esecuzione di una professione protetta.
Deve dunque conclusivamente affermarsi che il danneggiato è tenuto a provare il contratto e ad allegare la difformità
della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza.
Mentre al debitore, presunta la colpa, incombe l'onere di provare che l'inesattezza della prestazione dipende da causa a
lui non imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivo (v. Cass., 2875/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
Orbene, con specifico riferimento all'aspetto funzionale dell'intervento di settorinoplastica oggetto dell'odierno esame,
nell'impugnata sentenza la Corte d'Appello di Roma non si è invero attenuta ai suesposti principi.
In particolare laddove, pur dando atto che sotto il profilo funzionale l'intervento de quo ha avuto, sotto il profilo
funzionale, un esito di "inalterazione", e quindi di sostanziale "insuccesso", ha ciononostante ritenuto (sulla base invero
del giudizio emergente dall'esperita C.T.U.) la condotta dal medico nel caso mantenuta come non integrante ipotesi di
responsabilità, pur in assenza della prova da parte del medesimo, in ossequio al combinato disposto di cui all'art. 1218
c.c., art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c., dell'essere tale esito; dovuto a causa a sè non imputabile.
Quanto ai profili del motivo in esame concernenti il denunziato vizio di motivazione va osservato quanto segue.
Deve anzitutto ribadirsi che il vizio in questione si configura solamente quando dall'esame del ragionamento svolto dal
giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, è riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della
controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale
da non consentire l'identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.
Cass., 25/2/2004, n. 3803).
Allorquando con il ricorso per cassazione viene come nella specie dedotta in particolare l'incongruità o illogicità della
motivazione della sentenza impugnata, per mancata o insufficiente od erronea valutazione di risultanze processuali (un
documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t.u., ecc.), è imprescindibile - al fine di
consentire alla Corte di legittimità di effettuare il richiesto controllo (anche) in ordine alla relativa decisività - che il
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ricorrente precisi, trascrivendole integralmente, le prove non o male valutate (cfr. Cass., 20/10/2005, n. 20323; Cass.,
12/5/2005, n. 9954), atteso che per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere
consentito sulla base delle deduzioni contenute nel medesimo, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini
integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 31/5/2006, n. 12984; Cass.,
24/3/2003, n. 3158;
Cass,, 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161). E' altresì essenziale che il ricorrente evidenzi, in relazione a tale
contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito, le ragioni del carattere decisivo dello
stesso, e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa.
Solo in tale ipotesi il giudice di legittimità può invero accertare, sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte nello
stesso e senza la necessità di indagini integrative, l'incidenza causale del difetto di motivazione e la decisività delle
prove erroneamente valutate, giacchè il mancato esame di un'istanza istruttoria può dar luogo al vizio di omessa o
insufficiente motivazione solo se le risultanze processuali non o mal valutate siano tali da invalidare l'efficacia probatoria
delle altre sulle quali il convincimento si è formato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (v, Cass.,
17/2/2004, n. 3004; Cass. 23/1/2004, n. 1170; Cass., Sez. 2, 14/3/2001, n. 3737).
Avuto riguardo al suddetto principio il motivo è in effetti sotto vari profili carente.
La ricorrente si limita infatti a lamentare la mancanza, lacunosità e contraddittorietà della motivazione, apoditticamente
affermando che la ritenuta estraneità nel caso della finalità anche estetica dell'intervento di settorinoplastica "oltre ad
essere insostenibile", "non trova conforto alcuno nella sentenza della S.C. n. 12253/97, genericamente richiamata dalla
Corte di Appello", essendo essa relativa a "caso in cui il paziente ha ottenuto un effettivo miglioramento dell'aspetto fisico
... e, dunque, a fattispecie estranea a quella de qua".
Ancora, essa si limita a dolersi che la corte di merito abbia in termini asseritamente apodittici ed immotivati disatteso le
conclusioni della C.T.U. espletata in prime cure in ordine alla finalità dell'intervento, e poi contraddittoriamente ritenuto le
esperite indagini sufficienti alla soluzione del caso, laddove andava viceversa "perlomeno disposta una rinnovazione od
integrazione delle indagini...", come reso evidente dalle "specifiche contestazioni mosse al riguardo dalla Z. (cfr. appello)
e dai cc.tt.pp..
della stessa...".
Tali contestazioni la ricorrente tuttavia inammissibilmente omette di trascrivere nel ricorso.
Così come omette di riportare "tutti i mezzi di prova (rinnovo o integrazione indagini mediche, prova per testi, ordini di
esecuzione)" di cui lamenta il mancato accoglimento da parte del giudice del gravame di merito.
Analoghi rilievi valgono quanto all'evocata "specializzazione in O.R.L. del D.V. (accertata e riferita dai cc.tt.uu.)", di cui
del pari lamenta il mancato esame.
Ancora, con riferimento alla lamentata mancata considerazione dell'essere il D.V. "sorprendentemente e completamente
venuto meno al dovere di informazione che su di lui incombeva, così come accertato, pure, dai cc.tt.uu., ammesso dallo
stesso convenuto e riconosciuto sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello".
La ricorrente ulteriormente al riguardo lamenta che il suindicato giudice non abbia ritenuto ed affermata "la responsabilità
(pure extracontrattuale) del chirurgo anche in relazione a tale aspetto (omessa informazione e conseguente difetto di
valido consenso)".
Tale asserita omissione fa peraltro valere sotto il profilo del denunziato vizio di motivazione - anche nel caso invero
disattendendo i principi in argomento da questa Corte affermati e più sopra ribaditi - e non anche della violazione ex art.
112 c.p.c..
Diversamente deve invece dirsi in ordine alla doglianza di contraddittorietà ed insufficienza della motivazione in relazione
alle circostanze della persistenza all'esito dell'intervento eseguito dal D.V. del difetto funzionale e della necessità per
l'odierna ricorrente di sottoporsi ad un secondo intervento chirurgico, il quale (anche) ai soli fini funzionali qui in
considerazione ha avuto efficacia risolutiva della lamentata patologia.
Nell'impugnata sentenza si afferma in particolare che "... in ordine allo stato della Z. successivo all'intervento e in
particolare alla pervietà delle fosse nasali, è stato coerentemente replicato dai consulenti tecnici di ufficio che il discorso
si riduce in termini di risultato essendo solo in discussione la quantità (cfr. supplemento c.t.u.)". Traendosene il seguente
giudizio di valore: "Nè dalla mancanza di soluzione definitiva della disfunzione respiratoria può trarsi che non siano
adottati anche mezzi idonei".
A suffragio del quale si argomenta: "A tal proposito, dalla cartella clinica (non contestata) risulta che l'intervento fu
regolarmente eseguito secondo cottle e che la paziente fu poi dimessa. A circa due anni dall'intervento cominciò ad
accusare disturbi alla respirazione (cfr. rel. ctu). All'esame obiettivo effettuato dai c.t.u. non comparvero significative
alterazioni funzionali riconducibili ad un comportamento negligente od imperito da parte dei sanitari (... )".
!31
Si conclude quindi: "Che la Z. abbia avuto necessità di un secondo intervento, rileva solo ai fini del risultato: risolutivo
rispetto al primo, ma che non implica inadempienza del primo operatore riguardo ai mezzi adoperati".
Orbene, in presenza di un accertato stato di inalterazione e non risolutività del difetto funzionale caratterizzante l'esito
dell'operazione effettuata dal D.V., invero deponente - come sopra indicato - per il relativo "insuccesso"; ed atteso quanto
sopra rilevato ed esposto in tema di contenuto dell'obbligazione professionale medica, e di distribuzione dell'onere
probatorio, a fortiori ove trattisi di intervento semplice o routinario, le ragioni espresse dalla corte di merito, oltre a
rivelarsi eccentriche rispetto al principio di diritto che avrebbe dovuto essere seguito, neppure lasciano intendere - già sul
piano logico - perchè l'esito insoddisfacente, che come sopra esposto lo stesso stato di inalterazione (nel caso
funzionale) postumo dell'intervento vale ad integrare, sia stato nella specie degradato ad evento irrilevante. E non già
per converso inteso come sintomatico di inadempimento per difetto - in ragione della condotta mantenuta, delle scelte
operate e dei mezzi utilizzati - della dovuta diligenza adeguata alle concrete circostanze del caso, pur nella mancata
contraria dimostrazione del fatto impeditivo, dell'essere cioè intervenuto un evento imprevisto ed imprevedibile
deponente per la conseguente non imputabilità di tale esito al D.V..
Sussiste dunque il vizio di motivazione denunciato. Ed anche su questo aspetto il giudice del rinvio dovrà compiere una
nuova valutazione.
S'impone pertanto l'accoglimento parziale del ricorso proposto dalla Z. e la cassazione in relazione dell'impugnata
sentenza, con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie,
facendo applicazione dei suesposti principi.
Il giudice di rinvio provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
SENTENZA CASS. CIV. 2334/2011
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve preliminarmente disporsi la riunione dei ricorsi proposti contro la medesima decisione. Con il primo motivo la
ricorrente principale, Panoramica s.r.l., denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 324 e 112 c.p.c. (vizio di
extrapetizione).
Ad avviso della ricorrente principale, la Corte d'appello sarebbe incorsa nel vizio di extrapetizione, affermando la
responsabilità della clinica nella fase precedente al ricovero ed al parto. Infatti, il Tribunale aveva espressamente escluso
ogni responsabilità della Clinica per quanto riguarda la fase pre-ricovero: ed in mancanza di precisa impugnazione sul
punto, tale pronuncia doveva considerarsi passata in giudicato.
Con il secondo motivo, la ricorrente principale deduce, sotto altro profilo, la violazione dell'art. 112 c.c., (extrapetizione)
nonchè violazione degli artt. 101, 102 e 103 c.p.c. (difetto di contraddittorio).
La originaria domanda degli attori era circoscritta alla incompetenza della ostetrica, alla insufficienza della casa di cura
per le apparecchiature, soprattutto per la mancanza di incubatrice, ed alla negligenza de ginecologo.
A seguito della istruttoria compiuta, erano stati discolpati la ostetrica (già in primo grado) e il ginecologo (a seguito della
decisione di appello).
La Casa di cura non era risultata inadeguata nè carente di attrezzatura, ma era stata condannata per la presunta
negligenza del pediatra e dell'anestesista, rimasti entrambi al di fuori del giudizio.
Il quesito di diritto con il quale si conclude il secondo motivo è del seguente tenore: "Dica la Corte di Cassazione se come sostenuto - la Corte di appello sia incorsa nel vizio di extrapetizione in relazione alle originarie domande attoree e
se vi sia stata violazione del contraddittorio e delle disposizioni sul litisconsorzio in relazione alla assenza dal giudizio
dell'anestesista e del pediatra".
I due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono privi di fondamento.
1. Osserva il Collegio:
I giudici di appello hanno esaminato la domanda proposta dagli attori, sulla base delle conclusioni formulate nell'atto
introduttivo, evidenziando che sia la Casa di Cura che il dottor T. (ma anche i danneggiati che avevano proposto appello
incidentale, in relazione al rigetto della domanda proposta contro la P.) avevano criticato - seppur da parti diverse - la
ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale, il quale aveva condannato la Casa di cura in solido con il dottor T. al
risarcimento dei danni.
Tutte le questioni relative alla responsabilità del medico e della Casa di Cura dovevano ritenersi all'esame dei giudici di
appello, in considerazione delle opposte censure sollevate in ordine alla decisione di primo grado.
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I coniugi C. e F. non avevano l'onere di riproporre la questione della responsabilità della Casa di Cura e del Dott. T., con
specifico riferimento alla condotta precedente al ricovero.
Essi, infatti, erano risultati pienamente vittoriosi in relazione alla domanda di risarcimento proposta e dunque avevano
solo l'onere di riproporre la questione al giudice di appello ai sensi dell'art. 346 c.p.c..
I giudici di appello hanno affrontato la questione della responsabilità della struttura sanitaria per la mancanza dei
doverosi interventi protettivi, anteriori e successivi al parto, e relativi alla assistenza della salute della neonata.
L'inadempimento, prospettato dagli attori nell'atto introduttivo del giudizio, riguardava la responsabilità diretta della clinica
che non è stata in grado di giustificarlo.
Nella comparsa di risposta dei coniugi C. e F. in grado di appello si legge: "neppure condividiamo le conclusioni cui
perviene il Tribunale riguardo l'esame eseguito la sera precedente il parto, la sera del (OMISSIS), che, al contrario di
quanto sostenuto in sentenza, è pacificamente riconosciuto (essere) avvenuto presso la Casa di Cura, tanto che ad esso
fanno riferimento sia il T. sia la P., nelle rispettive comparse di risposta redatte in prime cure, addirittura assumendo la
circostanza come punto di forza, al fine di sostenere la cura con cui sarebbe stato eseguito il caso".
La Corte territoriale ha interpretato la domanda prospettata nell'atto di citazione come rivolta ad ottenere il
riconoscimento della piena responsabilità tanto della Casa di cura che del ginecologo, in relazione alle gravi negligenze
dimostrate dalla struttura e dalla intera equipe sanitaria per tutto quanto accaduto prima e dopo il parto.
In particolare, secondo gli originari attori, la colpa del dottor T. (medico di fiducia della F.) sarebbe consistita, innanzi
tutto, nel fatto di non avere indirizzato la partoriente verso un centro dotato di apparecchiature idonee, nel non avere
trattenuto la F. la sera del (OMISSIS), ed infine, per non avere - il ginecologo - eseguito personalmente tutte le manovre
di rianimazione necessarie sulla neonata (in mancanza di attività svolta da anestesista e pediatra-neonatologo).
Deve necessariamente concludersi che il "devolutum" in sede di appello riguardava l'accertamento della responsabilità
del medico T., oltre che di quella della Casa di cura.
Le censure formulate con i primi due motivi del ricorso principale sono, dunque, prive di fondamento.
Non sussiste, pertanto, il vizio di ultrapetizione denunciato.
Non sussiste neppure la dedotta violazione del principio del contraddittorio, in relazione al contenuto della domanda
originaria, rivolta nei confronti della casa di cura, del ginecologo e della ostetrica.
Nel caso di giudizio instaurato dal soggetto danneggiato nei confronti di uno (o solo di alcuni), e non di tutti i
corresponsabili dell'evento lesivo, nessuna violazione del principio del contraddittorio può dirsi consumata, alla luce della
regola generale, dettata in tema di solidarietà passiva, secondo la quale non sussiste alcuna ipotesi di litisconsorzio
necessario per il soddisfacimento giudiziale di tale tipo di obbligazioni, e non v'ha, del pari, obbligo, per il danneggiato, di
evocare in giudizio tutti i responsabili (fermo restando il diritto di costoro di esercitare, nello stesso giudizio, il diritto di
regresso nei confronti di altri soggetti non evocati dall'attore), regola che incontra una deroga nel solo caso della
sussistenza di una responsabilità, in capo ad uno dei danneggianti, che dipenda dalla responsabilità di altro (o altri)
codanneggiante: ipotesi, questa ultima, non prospettata nel caso in esame.
3. Con il terzo motivo, la Panoramica s.r.l. denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nonchè
travisamento dei fatti e dei presupposti, contraddittorietà (art. 360 c.p.c., n. 5).
Ciò che la ricorrente principale contesta non è già la sussistenza di una sofferenza fetale risalente almeno al giorno
precedente quello del parto, bensì la attribuzione alla clinica, senza alcun elemento probatorio e tantomeno
documentale, della responsabilità per non essere intervenuta la sera prima del parto.
Non vi era alcuna traccia del fatto che l'esame cardiotomografico fosse stato effettuato il giorno (OMISSIS) proprio
presso la Casa di cura.
Nonostante ciò, i giudici di appello avevano attribuito rilievo determinante a tale visita, così incorrendo in un palese vizio
di motivazione anche per travisamento dei presupposti di fatto.
4. Con il quarto motivo, la ricorrente principale deduce la violazione dell'art. 2697 c.c., in materia di onere della prova
(art. 360 c.p.c., n. 3).
Le censure formulate con il precedente punto erano tali da configurare anche la violazione di legge sopra indicata.
I giudici di appello avevano ritenuto sussistente l'esame cardiografico della sera precedente al parto, riconoscendo che
lo stesso era stato eseguito presso la Casa di cura pur in assenza di qualsiasi prova al riguardo e nonostante la
espressa contestazione da parte della Clinica.
Il quesito di diritto formulato è del seguente testuale tenore:
"Dica la Suprema Corte se la Corte di appello sia incorsa nella violazione dell'art. 2697 c.c., dando per provati a
vantaggio degli originari attori - due fatti - l'esistenza dell'esame cardiotocografico della sera prima del parto e la
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effettuazione dello stesso presso la Clinica Villa Pia - contestati dalla Clinica e rimasti privi di prove, sia documentali che
orali, invertendo in tal modo l'onere della prova".
5. Con il quinto motivo, si deduce ancora omessa, insufficiente e contraddittorietà motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).
Analoghi vizi della motivazione sono formulati dalla ricorrente principale con riferimento alla responsabilità della Clinica
per il comportamento della equipe medica, dopo la nascita della neonata (peraltro già ritenuta dal giudice di primo grado
e censurata in sede di appello).
I giudici di appello avevano, infatti, escluso la inadeguatezza delle apparecchiature esistenti presso la Casa di cura ed
un colpevole ritardo nel trasferimento della neonata ad altro ospedale specializzato.
Ciò nonostante, gli stessi giudici avevano ritenuto una responsabilità a carico del personale sanitario della Clinica, che
pure aveva provveduto alla ventilazione con Ambu, ed al successivo trasferimento patologia neonatale.
6. Con il sesto motivo, la ricorrente principale deduce motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria (art. 360 c.p.c.,
n. 5).
La Corte territoriale era stata condannata in base ad una riconosciuta responsabilità postoperatoria, nonostante che gli
stessi consulenti tecnici di ufficio avessero concluso che il danno cerebrale alla neonata dipendesse dalla sofferenza
neonatale pregressa.
Se il danno cerebrale era precedente al ricovero (come era risultato anche dalla presenza di zone infartuate del feto) non
si comprende come questo danno potesse essere stato cagionato dalla condotta negligente del pediatra o
dell'anestesista in fase postoperatoria.
Questi sanitari, infatti, nulla avrebbero potuto fare in presenza di una situazione già così gravemente compromessa.
7. Con il settimo motivo, la Panoramica deduce motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria in merito alla
quantificazione del danno (art. 360 c.p.c., n. 5).
Se la sofferenza prenatale era effettivamente risalente ad un periodo precedente al ricovero, doveva considerarsi
estremamente contraddittorio addebitare alla Casa di cura la causazione di questo danno, attribuendolo, in modo del
tutto generico, all'anestesista ed al pediatra, i quali erano intervenuti solo dopo la nascita.
I motivi del ricorso principale, dal terzo al settimo devono essere esaminati congiuntamente insieme con il primo motivo
del ricorso incidentale proposto da C.C. e F.R.. Con questo motivo i ricorrenti incidentali denunciano omessa
motivazione su un fatto controverso e decisivo per quanto riguarda l'accertamento della responsabilità del Dott. T. (art.
360 c.p.c., n. 5), esclusa dalla Corte territoriale (che ha accolto sul punto l'appello incidentale del Dott. T.).
Ad avviso dei ricorrenti incidentali, i giudici di appello avevano attentamente esaminato l'opera professionale svolta dal
Dott. T., in quanto medico ginecologo, senza spendere - tuttavia - una sola parola sull'addebito relativo alla violazione dei
cosiddetti "doveri di protezione" che riguardano anche la fase precedente al ricovero ed al parto.
Ad avviso dei ricorrenti incidentali, escludendo ogni responsabilità a carico del Dott. T., i giudici di appello non avrebbero
tenuto conto del mancato rispetto di quel reticolo di doveri di informazione e di cura del proprio assistito, che avrebbe
dovuto imporre al ginecologo di avvisare i coniugi C. e F. della situazione organizzativa e funzionale della casa di cura
verso la quale egli li stava indirizzando, nonchè di attivarsi, nella inerzia della clinica, subito dopo la effettuazione degli
accertamenti che avevano posto in evidenza una possibile sofferenza del feto.
Sia la ostetrica P., che il ginecologo T., medico di fiducia della F., in effetti, erano stretti collaboratori della Casa di cura.
L'esame cardiotocografico del (OMISSIS) era stato certamente eseguito presso la Casa di cura (come quelli del
(OMISSIS)) ed era stato consegnato al T. che aveva ammesso di essere a conoscenza del suo contenuto, quanto meno
al momento del ricovero.
Da ultimo, ad avviso dei ricorrenti incidentali, nell'inerzia del personale della Clinica (anestesista e pediatra), subito dopo
il parto, in considerazione della gravità delle condizioni della neonata, il Dott. T. avrebbe dovuto compiere direttamente (o
quanto meno sollecitarne il compimento) delle necessarie manovre di assistenza della neonata, ed in caso di
impossibilità di adeguate cure, avrebbe dovuto disporre l'immediato ricovero della partoriente o del neonato presso altro
centro autorizzato.
Ritiene il Collegio che il primo motivo del ricorso incidentale dei coniugi C. e F. sia fondato e infondati i motivi dal terzo al
settimo del ricorso principale Panoramica s.r.l..
Con motivazione del tutto adeguata, i giudici di appello hanno ritenuto che sulla responsabilità della Casa di cura non
potesse sussistere alcun dubbio.
La F. aveva scelto per il parto la Casa di cura Villa Pia e la sera del (OMISSIS), accompagnata dalla ostetrica P., si era
recata presso la clinica, avendo avvertito una diminuzione dei movimenti fetali.
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L'esame cardiotocografico, del quale non vi era traccia agli atti (ma che certamente era stata eseguito presso la Casa di
Cura Villa Pia), non era stato affatto tranquillizzante, tanto che la paziente era stata invitata a ripresentarsi il giorno
successivo.
Per quanto non sia nota la persona fisica che ebbe ad eseguire tale tracciato, ha sottolineato la Corte d'appello, il
comportamento negligente tenuto dalla equipe medica prima e dopo l'intervento era da considerare imputabile alla Casa
di cura.
Proprio un risultato di questo genere dell'esame avrebbe dovuto indurre a trattenere la partoriente al fine di controllarla
ad intervalli regolari, in tal modo consentendo un intervento tempestivo ove la situazione si fosse fatta critica.
In altre parole, sarebbe stato necessario impostare un programma di monitoraggio assiduo della F. al fine di poter
intervenire tempestivamente, con un taglio cesareo, all'insorgere della sofferenza fetale.
Ha concluso la sentenza impugnata"il non aver predisposto un tale piano costituisce in colpa la clinica per i danni
conseguenti al ritardo nella esecuzione del parto cesareo".
La colpa della struttura doveva essere ravvisata proprio nel fatto che non furono adottate tutte le cautele al momento del
primo esame.
Tali circostanze sono state ricostruite dai giudici di appello sulla base delle dichiarazioni rese dalla stessa F. in sede di
anamnesi, quando l'evento non si era ancora verificato, e risultavano confermate dalla testimonianza resa dalla P. (che
pure avrebbe avuto un interesse contrario).
A questa responsabilità doveva aggiungersi una ulteriore responsabilità della clinica per il comportamento della equipe
medica, in particolare dopo la nascita della neonata.
I consulenti tecnici avevano accertato che non era stata eseguita alcuna manovra di rianimazione primaria, aggravando
le patologie ed eseguendo il trasferimento in sede attrezzata con ritardo. In particolare, i consulenti nominati dall'ufficio
avevano accertato che la neonata non era stata incubata con respirazione assistita: ciò che avrebbe consentito una
immediata ossigenazione e ridotto le conseguenze patologiche poi riscontrate. La neonata, infine, era stata avviata ad
un centro dotato di idonee attrezzature con un ritardo di oltre quattro ore. (ore 14,40 Ospedale Policlinico).
Per ciò che riguarda la quantificazione dei danni, che ad avviso della ricorrente principale sarebbero da imputare
esclusivamente ad un periodo precedente al ricovero (e quindi non imputabili in alcun modo alla Casa di cura), si rinvia a
quanto rilevato dai giudici di appello in ordine al comportamento negligente tenuto dal personale medico della Clinica
dopo l'esame del (OMISSIS).
Le censure di vizi della motivazione, denunciate con il primo motivo del ricorso incidentale C.- F., sono fondate anche
alla luce della giurisprudenza di questa Corte relativa all'inadempimento contrattuale.
Si richiama la giurisprudenza in materia di responsabilità professionale medica, secondo la quale (Cass. 19 maggio 1999
n. 4852): "La responsabilità del medico in ordine al danno subito dal paziente presuppone la violazione dei doveri
inerenti allo svolgimento della professione, tra cui il dovere di diligenza da valutarsi in riferimento alla natura della
specifica attività esercitata; tale diligenza non è quella del buon padre di famiglia ma quella del debitore qualificato ai
sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, che comporta il rispetto degli accorgimenti e delle regole tecniche obbiettivamente
connesse all'esercizio della professione e ricomprende pertanto anche la perizia; la limitazione di responsabilità alle
ipotesi di dolo e colpa grave di cui all'art. 2236 c.c., comma 2, non ricorre con riferimento ai danni causati per negligenza
o imperizia ma soltanto per i casi implicanti risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà che trascendono la
preparazione media o non ancora sufficientemente studiati dalla scienza medica; quanto all'onere probatorio, spetta al
medico provare che il caso era di particolare difficoltà e al paziente quali siano state le modalità di esecuzione inidonee
ovvero a questi spetta provare che l'intervento era di facile esecuzione e al medico che l'insuccesso non è dipeso da suo
difetto di diligenza".
Ed ancora (Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577): "In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di
responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente
danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della
patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a
carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato
eziologicamente rilevante".
Per quanto riguarda il caso di specie, deve rilevarsi che il primo contatto ebbe a verificarsi con la clinica Villa Pia e con il
ginecologo T. il (OMISSIS), quando l'ostetrica P., amica e levatrice, ebbe ad accompagnare la F. dal ginecologo della
Clinica perchè la partoriente avvertiva la diminuzione dei movimenti fetali.
Il contatto ebbe a proseguire il giorno successivo, (OMISSIS), alle ore 10,40, quando avvenne il ricovero
contrattualmente convenuto e nel breve volgere di una ora la partoriente fu sottoposta a taglio cesareo.
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Nella equipe medico - accanto al ginecologo chirurgo di fiducia, Dott. T. (chiamato in giudizio), vi erano l'anestesista
rianimatore e il pediatra neonatologo, entrambi forniti dalla clinica (questi ultimi non convenuti in giudizio dagli attori).
Eseguito a regola d'arte il taglio cesareo, il chirurgo ebbe a completare l'intervento sulla F., mentre gli altri medici ebbero
ad occuparsi delle neonata.
Non venne, tuttavia, eseguita alcuna manovra di rianimazione sulla neonata (ha accertato la Corte territoriale): in tal
modo ebbero ad aggravarsi le patologie neurologiche e non fu eseguita alcun intervento di rianimazione assistita per
favorire la respirazione e la ossigenazione del cervello e ridurre le conseguenze patologiche poi riscontrate.
Solo alle 14,30 (e dunque circa tre ore dopo il parto) la clinica provvedette a trasferire la neonata, in stato di sofferenza
ischemica grave, presso il Centro Specialistico Policlinico (OMISSIS), da cui la neonata venne dimessa in data
(OMISSIS) (dopo quattro mesi) con la diagnosi di "asfissia perinatale convulsiva".
La piccola A. - in stato semivegetativo - ebbe a sopravvivere nove anni, decedendo per arresto respiratorio il (OMISSIS),
in conseguenza delle malattie neurologiche che ebbero ad accompagnarla sino alla morte.
I giudici di appello hanno escluso ogni responsabilità del Dott. T., per la considerazione che lo stesso non avrebbe
contribuito in alcun modo allo stato di sofferenza manifestatosi anteriormente alla nascita.
Gli stessi giudici hanno aggiunto che per quanto riguarda il periodo successivo al taglio cesareo, nessuna responsabilità
era da attribuire al dottor T..
Altri sarebbero stati i medici che avrebbero dovuto provvedere alle manovre di rianimazione.
Questi medici (il neonatologo-pediatra e l'anestesista-rianimatore) non erano stati chiamati in giudizio.
Entrambi gli argomenti svolti dai giudici di appello si prestano a facili critiche, sulla base del rilievo che - in ogni caso - il
dottor T. avrebbe avuto l'obbligo di intervenire personalmente in caso di inerzia degli altri componenti la equipe medica
(per quanto riguarda l'attività successiva al parto).
Per quanto riguarda invece il periodo precedente, la responsabilità del dottor T. avrebbe dovuto essere valutata dai
giudici di appello per avere lo stesso, eventualmente, indirizzato la partoriente presso una struttura priva di idonee
attrezzature per i neonati, e sotto altro profilo, per non avere immediatamente disposto il ricovero della F., una volta
avuta comunicazione dei risultati dell'esame del (OMISSIS), programmando invece la esecuzione del parto cesareo per
le ore 10,30 del giorno successivo.
La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata con rinvio ad altro giudice, il quale dovrà ricostruire la successione
degli eventi e valutare quale comportamento il medico dottor T. avrebbe potuto tenere nella situazione data per
rispondere in modo adeguato alle evenienze che il parto era venuto presentando ed, ancor prima, se il dottor T. possa
essere considerato responsabile per avere indirizzato la partoriente presso una Clinica priva delle necessarie
attrezzature, ovvero per avere ritardato colpevolmente l'intervento cesareo dopo l'esito dell'esame cardiotocografico del
(OMISSIS), che avrebbe invece consigliato l'immediato ricovero.
E' appena il caso di ricordare che in un caso che presenta alcune analogie con quello di specie, questa Corte ha
ritenuto:
"correttamente motivata la decisione di merito la quale abbia qualificato in termini di colpa grave la condotta del medico
ostetrico che, dinanzi ad un arresto della progressione del feto al momento del parto, abbia atteso più di tre ore prima di
predisporre ed effettuare un intervento cesareo" (Cass. 9 maggio 2000 n. 5881).
I motivi dal secondo al quarto del ricorso incidentale C.- F., espressamente indicati come condizionati, sono assorbiti in
conseguenza dell'accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale.
Il ricorso incidentale AXA è inammissibile perchè privo dei prescritti quesiti di diritto (tutti i motivi dal primo al quarto,
relativo al massimale complessivo di polizza, riguardano infatti la violazione di norme di diritto).
Conclusivamente il ricorso incidentale C.- F. deve essere accolto nei limiti sopra indicati (con assorbimento degli altri
motivi).
Il ricorso principale di Panoramica e quello incidentale di AXA devono essere rigettati.
La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio ad altro giudice che provvederà
anche in ordine alle spese del presente giudizio.
SENTENZA CASS. CIV. 11440/1997
Diritto
Motivi della decisione
Preliminarmente, va disposta, a norma dell'art. 335 c.c.p., la riunione dei due ricorsi, proposti contro la medesima
sentenza.
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Con l'unico complesso motivo del ricorso principale la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 2236 c.c. e vizi di
motivazione, si duole che i giudici di merito, di fronte a precisi e concordanti rilievi delle due consulenze tecniche
d'ufficio, volti ad escludere la responsabilità dei sanitari della USL per le gravi lesioni con esiti permanenti riportate dal
Fiorelli, abbiano ritenuto di poter affermare tale responsabilità sulla base di un'interpretazione dei dati clinici che essi non
erano in grado di operare, per difetto delle necessarie conoscenze tecniche specifiche.
Assume che la sentenza impugnata, in una materia tecnica come quella in esame, non avrebbe potuto disattendere le
conclusioni peritali se non per una eventuale divergenza di esse rispetto alle argomentazioni contenute nella relazione.
Invero, il principio "judex peritus peritorum" non è altrimenti applicabile, risultando altrimenti anacronistico con l'evolversi
delle conoscenze tecniche, data la difficoltà per il "profano" di appropriarsi delle acquisizioni mediche - come rilevato
dalla Commissione per il nuovo codice di procedura penale nella relazione preliminare al progetto del codice -.
Osserva che la conclusione delle due consulenze - quella del prof.
Ricci la successiva collegiale, svolte nel giudizio di primo grado - sono concordi nel ritenere che l'origine cardiogena dei
distributori manifestatisi nel Fiorelli in occasione del primo ricovero non era evidenziabile sulla base dei sintomi in quella
sede emersi, che giustificavano un orientamento verso una patologia neurologica primitiva sulla scorta sia del dato
clinico, che di quello strumentale. Peraltro, la risposta del cardiologo -. che aveva escluso l'origine secondaria della
sofferenza cerebrale improvvisa - aveva indotto il neurologo a svolgere indagini di tipo neurologico per accertarne
l'origine "primaria".
I fatti nuovi che, secondo la consulenza collegiale, dovevano essere intervenuti tra il primo e il secondo ricovero non
erano poi emersi durante l'anamnesi effettuata in occasione di quest'ultimo.
Non erano stati in particolare segnalati ai sanitari della divisione di neurologia il calo ponderale avvenuto nel primo
ricovero e lo stato anoressico del paziente.
Tale consulenza aveva poi escluso che i dati in possesso dei sanitari in occasione del secondo ricovero giustificassero
uno stato di allerta tale da modificare l'orientamento diagnostico iniziale ed a rendere necessario un ulteriore
approfondimento. E, comunque, aveva escluso che un eventuale trattamento antibiotico iniziato già nel corso del
secondo ricovero avrebbe impedito il verificarsi dell'episodio embolico con la conseguente instaurazione dell'emiplegia.
Sulla base di tali considerazioni, la ricorrente rileva che la motivazione della sentenza impugnata, la quale ha dissentito
dalle conclusioni delle due relazioni di consulenza, non sia logica e corretta.
Censura, altresì la ricorrente che la Corte di merito abbia ritenuto non ricorrere, nella specie, un caso di particolare
complessità e, conseguentemente, non trovare applicazione la norma dell'art. 2236 c.c., malgrado dalle risultanze degli
accertamenti svolti emergesse con chiarezza che il caso in esame era particolarmente "astruso" oltre che raro, attesa la
difficoltà di individuare, sulla base dei dati e dei sintomi obbiettivi in possesso dei sanitari, la malattia da cui il Fiorelli era
affetto - l'endocardite batterica -, assai subdola e di ardua diagnosi se non dopo il suo manifestarsi con segni ormai
irreparabili. Era, quindi, del tutto immotivato il riferimento ad un caso quasi "di scuola", contenuto nella sentenza
impugnata, e la conseguente affermazione della responsabilità dei sanitari sulla base anche della colpa lieve.
Nessuna di tali censure si rileva fondata.
La sentenza impugnata ha preso in esame le risultanze delle sue consulenze tecniche e tutti gli elementi acquisti alla
cassa e, valorizzandoli con motivazione adeguata ed esente da vizi illogici e da errori di diritto, ha ritenuto di dissentire
dalle conclusioni della consulenza collegiale sulla base di una motivata contraddizione evidenziata tra i rilievi e le
argomentazioni contenute nella relazione e le conclusioni adottate dai consulenti.
La Corte ha premesso che sin dal primo ricovero del Fiorelli i sanitari curanti si erano colpevolmente "appiattiti" sul
risultato degli esami senza tener conto degli episodi di reumatismo articolare acuto, a 14 e 19 anni, patiti dal Fiorelli, con
esito insufficienza mitroaortica per la quale era in controllo clinico presso il Centro Cardioreumatologico di Udine. La
prima relazione di consulenza, da essa utilizzata, rilevava, tra l'altro, che il primo episodio di embolia cerebrale era
sicuramente atipico, e, tuttavia, la diagnosi di ingresso del medico curante del Fiorelli ed una più approfondita anamnesi
potevano già essere di orientamento diagnostico se non fosse intervenuto il "drastico" responso del cardiologo ad
escludere la natura emboligena dell'episodio.
Ha, però rilevato che, in occasione del secondo episodio, la responsabilità dei sanitari era evidente.
Già la relazione di consulenza del prof. Ricci aveva evidenziato una serie di elementi negativi addebitabili ai sanitari, si
da escludere che l'errore diagnostico aveva provocato un ritardo nel trattamento terapeutico - copertura antibiotica - che
probabilmente sarebbe servito a scongiurare l'embolia, rendendo meno grave la sepsi lenta ormai subdolamente avviata.
L'evidente contraddizione tra i rilievi e le argomentazioni cedola consulenza collegiale e le conclusioni da essa assunte
sono motivate in modo sufficiente e assolutamente logico. La Corte, invero, ha considerato che, a parte la superficialità
dell'esame del caso nel primo ricovero, se tra il primo e il secondo vi era stato calo di peso (10 Kg), se nel detto lasso di
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tempo erano intervenuti fattori nuovi, se questi non erano stati rilevati se non in divisione medica quanto era ormai forse
troppo tardi, se non erano stati effettuati tests reumatici in oggetto portatore di reumatismo articolare acuto, se vi erano
segni non raccolti in infezione batterica tanto da pensare a broncopolmonite, era improspettabile la conclusione del
totale esonero da responsabilità per i sanitari.
Così argomentando, il giudice di appello nn ha sostituito le argomentazioni tecniche svolte nella relazione di consulenza
collegiale con altre tratte da proprie personali cognizioni tecniche - ciò che comunque non gli sarebbe precluso in base al
principio "judex peritus peritorum" tuttora vigente nel nostro ordinamento, pur esse di difficile applicabilità in concreto in
materia ed in questioni concrete che richiedono alta specializzazione - ma, sulla base delle stesse argomentazioni che
sorreggono la relazione di consulenza, e, comunque, della precedente relazione del prof.
Ricci da esso valorizzata, ha rilevato le evidenti contraddizioni esistenti tra le argomentazioni svolte e le conclusioni
adottare dal collegio dei consulenti investito del secondo incarico.
In particolare, ha posto in evidenza la condotta negligente dei sanitari della divisione neurologica, pur se fuorviati dallo
specialista cardiologo, nell'appiattirsi sulla diagnosi precedente - già di per sè frutto di una certa superficialità di omettendo di eseguire quegli accertamenti - tests reumatici - e di rilevare quei fattori - calo di peso - intervenuti dopo il
primo ricovero, in definitiva ritardando la terapia antibiotica che, secondo un calcolo statistico di probabilità - sul quale si
fonda in una materia come quella in esame l'accertamento del nesso causale tra condotta ed evento: cfr. Cass. 5567-83;
etc -, avrebbe evitato il formarsi dell'embolo e le conseguenze invalidanti.
Del pari, deve ritenersi corretta, sotto il profilo giuridico e della motivazione, la conclusione della inapplicabilità dell'art.
2236 c.c..
La Corte, invero, con adeguata motivazione, anche sul punto fondata sulle risultanze peritali e, in specie, su quelle della
prima consulenza, da essa interamente valorizzata, ha ritenuto che il caso sottoposto ai sanitari dell' Ospedale Civile di
Gorizia, se trattata con migliore approfondimento diagnostico, non implicava la soluzione di problemi tecnici di speciale
difficoltà. Non si trattava, invero, di un caso straordinario ed eccezionale, non adeguatamente studiato dalla scienza o
sperimentato nella pratica, nè di un caso riguardo al quale siano proposti e dibattuti diversi ed incompatibili sistemi
diagnostici e terapeutici, tra i quali il sanitario debba necessariamente operare la propria scelta (Cfr. Cass. 1132-76;
Cass. 8845-95).
Il rilievo per cui l'esordio clinico della endocardite è abitualmente subdolo non escludeva, come rilevato dalla consulenza
collegiale, che vi sono dei sintomi usuali ed esami di laboratorio da eseguire di norma. In presenza poi dei "fattori nuovi"
che la sentenza impugnata ha rilevato essere quanto meno conoscibili dai sanitari, e, comunque, della conoscibilità delle
pregresse condizioni del paziente - sulla base sia della diagnosi di ingresso del medico curante del Fiorelli, sia di una
approfondita anamnesi del paziente che era sicuramente doverosa - appare corretta la conclusione che non era la
particolare difficoltà del caso, ma le manchevolezze che ne hanno caratterizzato il trattante medico, a provocare i gravi
esiti lesivi.
La Corte territoriale ha, peraltro, correttamente osservato che l'errore diagnostico provocato dai comportamenti sopra
delineati è da ascrivere più a negligenza che ad imperizia dei sanitari della divisione neurologica dell'Ospedale.
Secondo il costante orientamento di questa Corte (cfr. Cass. 6464-94; Cass. 3023-94; Cass. 1132-76), la disposizione
dell'art. 2236 c.c. che, nei casi di prestazioni che implichino la soluzione di problemi tecnici particolarmente difficili, limita
la responsabilità del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave, non trova applicazione per i danni ricollegabili a
negligenza o imprudenza, dei quali il professionista, conseguentemente, risponde anche solo per colpa lieve.
Esattamente, quindi, la sentenza impugnata ha ritenuto non ricorrere le condizioni di cui all'art. 2236 c.c. perché potesse
essere ritenuta la limitazione di responsabilità prevista da tale norma, applicabili anche in tema di responsabilità
extracontrattuale e nei confronti di coloro che devono rispondere del fatto del professionista.
Con il primo motivo del ricorso incidentale il Fiorelli, denunciando "violazione delle norme di legge in materia
previdenziale", si suole che la sentenza impugnata abbia detratto dal danno patrimoniale da lucro cessante liquidato in
suo favore l'importo, capitalizzato, della pensione di inabilità da lui percepita. Rileva che detta pensione, cui, peraltro,
aveva fatto riscontro il previo versamento dei contributi assicurativi, ha una struttura giuridica autonoma rispetto al
risarcimento del danno provocato dal fatto di terzi.
Peraltro, l'art. 1916 c.c. prevede il diritto di regresso dell'assicuratore, ed anche dell'ente previdenziale, per le somme
erogate ai propri assicurati in conseguenza di danni provocati da terzi. Ricorrendo tale ipotesi, il danneggiato verrebbe
ad essere pregiudicato due volte, con il percepire una somma minore a titolo di risarcimento e l'esser esposto all'azione
di regresso dell'ente previdenziale. Sottolinea, comunque, che l'erogazione della pensione non è legata solo all'invalidità
del beneficiario, bensì anche al suo reddito sì da poter cessare ove il reddito si elevi al di sopra del limite massimo
consentito.
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Il motivo non è fondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, perché possa operare la "compensatio lucri cum damno", è necessario che il
pregiudizio e l'incremento patrimoniale dipendano dal medesimo fatto illecito.
Occorre, in altri termini, che la fattispecie dell'illecito sia la stessa che ha prodotto il vantaggio il quale deve esser, quindi,
casualmente giustificato in funzione di rimozione dell'effetto dannoso dell'illecito.
Per converso, ove la prestazione ricevuta del danneggiato ad opera del terzo non abbia il suddetto titolo, va escluso che
possa operare la "compensatio lucri cum damno", rappresentando il fatto illecito una semplice occasione per
l'erogazione di essa e l'evento lesivo conseguitone solo una condizione perché il diverso titolo giustificativo della
prestazione spieghi la sua efficacia (cfr. Cass. 7694-96; Cass. 2177-96; Cass. 6228-94; Cass. 5464-88).
In particolare, non può operare la "compensatio" tra l'importo liquidato a titolo di risarcimento del danno e quello liquidato
a titolo di pensione, di inabilità, reversibilità, o di assegni, equo indennizzo e in genere di speciale erogazione in
relazione alla morte o all'invalidità di determinati soggetti, fondandosi il trattamento pensionistico o assistenziale, su un
titolo diverso rispetto all'atto illecito e non avendo esso finalità risarcitoria rispetto all'atto stesso, si che questo viene a
costituire una semplice occasione ovvero una condizione, mai comunque un titolo giuridico, per l'insorgenza del diritto a
pensione.
Tale è il caso della pensione di inabilità civile - come quella goduta dal Fiorelli - (cfr. art. 12 L. n. 118 del 1971 e
successive modifiche) la quale, oltre ad essere legata a precise condizioni economiche dell'invalido, costituisce una
prestazione di tipo assistenziale cui è estranea la finalità risarcitoria in dipendenza dell'eventuale fatto illecito che abbia
determinato l'invalidità stessa, ricollegandosi, invece, alle finalità di solidarietà sociale che informano gli interventi
pubblici a tutela dei portatori di handicap.
Rimane assorbita ogni altra argomentazione svolta dal ricorrente.
Rimane, inoltre, assorbito il secondo motivo che investe la liquidazione delle spese dei due gradi di giudizio, imponendo
la cassazione della sentenza un nuovo esame in ordine alla soccombenza, e, quindi, una nuova pronuncia sulle spese.
Va pertanto, accolto il primo motivo del ricorso incidentale e cassata in relazione ad esso la sentenza impugnata, con
rinvio della causa ad altra sezione della Corte d'Appello di Trieste per un nuovo esame, in relazione alla liquidazione del
danno patrimoniale in favore del Fiorelli - la quale, in relazione alla pronuncia di questa corte, richiede un accertamento
di fatto in ordine alla attualizzazione dell'importo del risarcimento.
Il giudice di rinvio provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di cassazione.
TRIBUNALE DI MILANO 9693/2014
FATTO E DIRITTO
1. Le domande oggetto di causa.
Gi. Ve. ha convenuto in giudizio Policlinico di Monza Casa di Cura Privata s.p.a. e il dott. Ig. Ca. esponendo: che
nell'ottobre del 2008 era stato sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale presso la struttura sanitaria convenuta; che
l'intervento chirurgico era stato eseguito dal convenuto dott. Ca.; che nell'immediato post-operatorio una grave dispnea
da paralisi bilaterale delle corde vocali aveva reso necessario il ricovero in terapia intensiva; che era stato dimesso il
29/10/2008; che nei giorni immediatamente successivi, per il perdurare dei problemi respiratori, era stato ricoverato
presso un altro nosocomio dove l'8/11/2008 i sanitari avevano praticato una tracheotomia che aveva tuttavia solo in parte
risolto i danni alla salute subiti in occasione del primo intervento presso la struttura sanitaria convenuta; che infatti i
successivi controlli specialistici effettuati e i pareri medico-legali acquisiti avevano confermato che la corda vocale destra
era paralizzata e non più recuperabile, mentre la sinistra poteva avere un leggero margine di miglioramento col tempo;
che la paralisi bilaterale delle corde vocali era in diretta correlazione con l'errato intervento eseguito dal convenuto dott.
Ca. presso il Policlinico di Monza; che i convenuti erano responsabili del danno alla salute e del danno morale subiti
dall'attore.
Su tali premesse, l'attore chiedeva la condanna solidale dei convenuti al risarcimento dei danni derivati dall'illecito
descritto e che indicava in complessivi euro 60.513,69 oltre rivalutazione monetaria e interessi dalla data dell'illecito.
Si è costituita ritualmente la società Policlinico di Monza s.p.a. esponendo: che in occasione dell'intervento di
tiroidectomia totale eseguito il 20/10/2008 erano sorte difficoltà a causa di un grosso nodulo nella parte destra, sede di
pregressi fatti flogistici, e degli esisti nella parte sinistra di un precedente intervento di ernia cervicale; che gli operatori
non erano riusciti a isolare la corda vocale di destra, mentre quella sinistra era stata visualizzata e conservata; che dopo
la fine dell'intervento era insorta una crisi dispnoica che aveva reso necessaria l'intubazione del paziente e il suo
trasferimento in terapia intensiva, dove era rimasto fino al giorno successivo; che il paziente era stato dimesso il
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29/10/2008 e dopo due giorni i chirurghi e gli specialisti avevano consigliato il ricovero presso altro nosocomio
specializzato, dove era stato sottoposto a tracheotomia temporanea; che l'intervento eseguito presso la struttura
convenuta dal dott. Ca. non era di routine e che le lesioni lamentate dal paziente costituivano complicanze prevedibili di
tale tipo di intervento e si erano verificate nonostante i sanitari avessero fatto quanto era loro esigibile per prevenirle; che
trattandosi di una complicanza prevedibile indicata nel modulo di consenso sottoscritto dal paziente e non evitabile nel
caso concreto dai sanitari, non poteva essere ravvisata una responsabilità risarcitoria; che in ogni caso la complessità e
la difficoltà dell'intervento avrebbero giustificato la limitazione della responsabilità ex art. 2236 c.c.; che le conseguenze
dannose subite dall'attore non potevano essere costituite da quelle dedotte e che l'entità del risarcimento preteso era
ingiustificata; che in ogni caso qualora fosse stata accertata una responsabilità solidale della struttura sanitaria
convenuta, essa aveva diritto ad essere manlevata dal medico convenuto, unico eventuale responsabile del danno de
quo; che infatti nel contratto di collaborazione stipulato con il Policlinico di Monza s.p.a. il medico si era espressamente
obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria per i danni conseguenti alla attività medico-chirurgica svolta presso di
essa. Pertanto il convenuto Policlinico di Monza s.p.a. chiedeva il rigetto delle domande dell'attore e, in subordine,
qualora esse fossero risultate in tutto o in parte fondate chiedeva la condanna dell'altro convenuto Ig. Ca. a manlevare e
tenere indenne la struttura sanitaria.
Si è altresì costituito ritualmente l'altro convenuto Ig. Ca. il quale, in via preliminare, eccepiva l'improcedibilità dell'azione
promossa nei suoi confronti per mancata indicazione dei codici fiscali dei convenuti, la nullità della procura alle liti
rilasciata dall'attore senza indicazione del consenso alla mediazione e dichiarava l'intenzione di chiamare in causa il
proprio assicuratore (senza tuttavia chiedere il differimento dell'udienza ex artt. 167 e 269 c.p.c.); nel merito il
professionista convenuto chiedeva il rigetto delle domande avanzate nei suoi confronti e, in subordine, la condanna del
proprio assicuratore a tenerlo indenne dalla soccombenza. Nella comparsa costitutiva il medico allegava in particolare
che l'intervento chirurgico eseguito era stato di particolare complessità, anche per le condizioni soggettive del paziente
già evidenziate nella difesa della struttura sanitaria, e che non vi erano elementi per poter ravvisare una sua
responsabilità per i danni dedotti genericamente dall'attore.
L'irrituale istanza di chiamata del terzo avanzata dal medico veniva respinta e tale parte provvedeva autonomamente a
citare in giudizio davanti al medesimo tribunale il proprio assicuratore, al quale chiedeva di tenerlo indenne in caso di
soccombenza nei confronti delle domande avanzate nei suoi confronti da Gi. Ve.. Si è costituita in quel giudizio la
convenuta Milano Assicurazioni s.p.a. senza sollevare eccezioni alla validità e all'operatività della polizza di
responsabilità professionale stipulata con il dott. Ca. e dicendosi pronta a tenere indenne il proprio assicurato in caso di
soccombenza nella causa introdotta da Gi. Ve..
Con ordinanza del 14/12/2011 le due cause pendenti davanti al sottoscritto giudice istruttore e chiamate alla stessa
udienza sono state riunite ex art. 274 c.p.c.
La domanda riconvenzionale di manleva avanzata dalla convenuta struttura sanitaria nei confronti dell'altro convenuto è
contenuta nella comparsa costitutiva tempestivamente depositata. L'irrituale istanza ex art. 269 c.p.c. di autorizzazione
alla chiamata in causa e di differimento dell'udienza contenuta nella comparsa di risposta della struttura sanitaria è stata
respinta, poiché la domanda di manleva non era rivolta nei confronti di un terzo bensì di un soggetto già parte
(convenuto) del processo. Con la costituzione in giudizio del convenuto Ig. Ca. si è pienamente instaurato il
contraddittorio fra le parti anche in merito alla domanda di manleva, senza bisogno di dover disporre la notifica della
comparsa (necessaria ex art. 292 c.p.c. solo qualora il destinatario della domanda resti contumace).
L'istruttoria delle due cause riunite si è articolata nell'acquisizione dei documenti prodotti dalle parti e nell'espletamento di
CTU, all'esito della quale il dott. Francesco Ponterio (specialista in medicina legale, otorinolaringoiatria, audiologia e
foniatria) ha depositato il 28/12/2012 una relazione scritta, con allegate le osservazioni critiche delle parti. L'istanza di
prova orale avanzata dal convenuto Ig. Ca. è stata respinta per le ragioni esplicitate nell'ordinanza del 22/5/2013 alla
quale si rinvia.
All'udienza del 29/1/2014 le parti hanno precisato le conclusioni sopra richiamate e, scaduti i termini ordinari concessi
per il deposito degli scritti conclusivi, la causa è entrata in decisione.
1.1 Le eccezioni processuali del convenuto Ig. Ca..
Sia l'eccezione di "improcedibilità dell'atto di citazione" sia quella di "nullità della procura" alle liti sollevate dal convenuto
Ca. nella comparsa di costituzione e risposta (e reiterate in sede di precisazione delle conclusioni) sono infondate.
Per quanto attiene all'eccezione di improcedibilità per la mancata indicazione in citazione dei codici fiscali dei convenuti richiesta dall'art. 163 n. 2 c.p.c. (come modificato dal D.L. n. 193 del 2009 convertito con modificazioni nella L. n. 24 del
2010) - tale lacuna dell'atto introduttivo non incide affatto sulla procedibilità dell'azione. La mancata indicazione dei codici
fiscali avrebbe semmai potuto astrattamente comportare la nullità della citazione ex art. 164 co. 1 c.p.c. (sanabile
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mediante la rinnovazione dell'atto), che tuttavia risulta sanata nel caso concreto con la costituzione di entrambi i
convenuti (art. 164 co. 2 c.p.c.) i quali, nelle rispettive comparse di risposta, hanno indicato i propri codici fiscali (come
previsto dall'art. 167 co. 1 c.p.c. novellato dalla stessa L. 24/2010 citata).
Per quanto riguarda l'eccezione di nullità della procura alle liti per l'asserita mancata indicazione del consenso informato
alla mediazione, contrariamente a quanto sembra ritenere la difesa convenuta l'assenza dell'informativa al cliente
prevista dal D.L.vo n. 28 del 2010 non comporta nullità della procura rilasciata al difensore, bensì eventualmente - ove
l'informativa non sia stata fornita al cliente - l'annullabilità del cd contratto di patrocinio concluso tra il difensore e il cliente
e che solo quest'ultimo può far valere (art. 1441 c.c.); ne deriva che la violazione degli obblighi informativi previsti dal
citato D.Lvo non può essere utilmente invocata dalla controparte processuale.
2. L'articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario.
Prima di esaminare il merito delle domande, è opportuno reinquadrare e rimettere a fuoco il sistema della responsabilità
civile da "malpractice medica" a seguito della cd legge Balduzzi (L. 189/2012), che è stata oggetto di diverse opzioni
interpretative e di applicazioni giurisprudenziali non sempre convincenti.
All'esito di una non breve riflessione favorita dai vari contributi anche giurisprudenziali noti, ritiene il Tribunale adito che la
citata legge del 2012 induca a rivedere il "diritto vivente" secondo cui sia la responsabilità civile della struttura sanitaria
sia quella medico andrebbero in ogni caso ricondotte nell'alveo della responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.
2.1 La responsabilità della struttura sanitaria.
Secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 1/7/2002
n. 9556 e sent. 11/1/2008 n. 577), il rapporto che lega la struttura sanitaria (pubblica o privata) al paziente ha fonte in un
contratto obbligatorio atipico (cd contratto di "spedalità" o di "assistenza sanitaria") che si perfeziona anche sulla base di
fatti concludenti - con la sola accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13/4/2007 n. 8826) - e che ha ad oggetto
l'obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere strettamente sanitario sia prestazioni
secondarie ed accessorie (fra cui prestare assistenza al malato, fornire vitto e alloggio in caso di ricovero ecc.).
Ne deriva che la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria, per l'inadempimento e/o per l'inesatto adempimento
delle prestazioni dovute in base al contratto di spedalità, va inquadrata nella responsabilità da inadempimento ex art.
1218 c.c. e nessun rilievo a tal fine assume il fatto che la struttura (sia essa un ente pubblico o un soggetto di diritto
privato) per adempiere le sue prestazioni si avvalga dell'opera di suoi dipendenti o di suoi collaboratori esterni - esercenti
professioni sanitarie e personale ausiliario - e che la condotta dannosa sia materialmente tenuta da uno di questi
soggetti. Infatti, a norma dell'art. 1228 c.c., il debitore che per adempiere si avvale dell'opera di terzi risponde anche dei
fatti dolosi o colposi di costoro.
Inoltre, a fronte dell'inadempimento dedotto dall'attore - come causa del danno di cui chiede il risarcimento - è onere del
debitore convenuto (struttura sanitaria) provare di aver esattamente adempiuto le sue prestazioni e che il danno
lamentato da controparte non gli è imputabile. Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che "in tema di responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria (...), ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve
limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed
allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del
debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato
eziologicamente rilevante" (Cass. Sez. Un. 11/1/2008 n. 577).
La responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria come responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. non
muterebbe natura qualora si volesse invece ritenere che per le strutture (pubbliche o private convenzionate) inserite nel
S.S.N. l'obbligo di adempiere le prestazioni di cura e di assistenza derivi direttamente dalla legge istitutiva del Servizio
Sanitario (L. n. 833 del 1978), come pure da taluni sostenuto. Anche secondo tale impostazione, infatti, la responsabilità
andrebbe comunque ricondotta alla disciplina dell'art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità che scaturisce
dall'inadempimento di obbligazioni derivanti da "altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento" (art.
1173 c.c.).
In ogni caso, la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è dunque responsabile ai sensi dell'art. 1218 c.c. per il
risarcimento dei danni derivati dall'inadempimento (o dall'inesatto adempimento) di una delle prestazioni a cui è
direttamente obbligata.
2.2 La responsabilità del medico.
In merito alla responsabilità del medico dipendente e/o collaboratore della struttura sanitaria - autore della condotta
attiva o omissiva produttiva del danno subito dal paziente col quale tuttavia non ha concluso un contratto diverso ed
ulteriore rispetto a quello che obbliga la struttura nella quale il sanitario opera - a partire dal 1999 la giurisprudenza
pressoché unanime ha ritenuto che anch'essa andasse inquadrata nella responsabilità ex art. 1218 c.c. in base alla nota
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teoria del "contatto sociale" (Cass. 22/1/1999 n. 589). In particolare, secondo tale consolidato indirizzo giurisprudenziale
- ribadito anche nel 2008 dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 577/2008) - "in tema di responsabilità civile
nell'attività medico-chirurgica, l'ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa
della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un medico proprio dipendente ed anche
l'obbligazione di quest'ultimo nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha
natura contrattuale, atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che
siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (...)" (in tal senso,
fra le altre, Cass. 19/04/2006 n. 9085).
La ricostruzione della responsabilità del medico in termini di responsabilità "contrattuale" ex art. 1218 c.c. anche in
assenza di un contratto concluso dal professionista con il paziente implica, come logico corollario, l'applicazione della
relativa disciplina in tema di riparto dell'onere della prova fra le parti, di termine di prescrizione decennale ecc.
Tale inquadramento della responsabilità medica e il conseguente regime applicabile, unito all'evoluzione che nel corso
degli anni si è avuta in tema di danni non patrimoniali risarcibili e all'accresciuta entità dei risarcimenti liquidati - in base
alle tabelle di liquidazione equitativa del danno alla persona elaborate dalla giurisprudenza di merito, in particolare a
quelle del Tribunale di Milano ritenute applicabili dalla Cassazione a tutto il territorio nazionale in mancanza di un criterio
di liquidazione previsto dalla legge - ha indubitabilmente comportato un aumento dei casi in cui è stato possibile
ravvisare una responsabilità civile del medico ospedaliero (chiamato direttamente a risarcire il danno sulla base del solo
"contatto" con il paziente se non riesce a provare di essere esente da responsabilità ex art. 1218 c.c.), una maggiore
esposizione di tale categoria professionale al rischio di dover risarcire danni anche ingenti (con proporzionale aumento
dei premi assicurativi) ed ha involontariamente finito per contribuire all'esplosione del fenomeno della cd "medicina
difensiva" come reazione al proliferare delle azioni di responsabilità promosse contro i medici.
2.3 L'impatto della legge n. 189 del 2012 (cd "legge Balduzzi") sul sistema della responsabilità civile in ambito sanitario.
Su tale contesto normativo e giurisprudenziale è intervenuta alla fine del 2012 la "legge Balduzzi" - L. 8 novembre 2012
n. 189 che ha convertito con modificazioni il D.L. 13 settembre 2012 n. 158 - la quale ha espressamente inteso
contenere la spesa pubblica e arginare il fenomeno della "medicina difensiva", sia attraverso una restrizione delle ipotesi
di responsabilità medica (spesso alla base delle scelte diagnostiche e terapeutiche "difensive" che hanno un'evidente
ricaduta negativa sulle finanze pubbliche) sia attraverso una limitazione dell'entità del danno biologico risarcibile al
danneggiato in caso di responsabilità dell'esercente una professione sanitaria.
L'art. 3 della legge ("Responsabilità professionale dell'esercente le professioni sanitarie") prevede al comma 1 che
"l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.In tali casi resta comunque fermo l'obbligo
di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene
debitamente conto della condotta di cui al primo periodo".
Occorre dunque valutare l'impatto dell'art. 3 della L. n. 189 del 2012 ("legge Balduzzi") sul delineato sistema della
responsabilità in ambito sanitario e sulla responsabilità del medico in particolare.
Il dibattito che si è sviluppato in dottrina dopo l'entrata in vigore della legge si è incentrato principalmente sul secondo
inciso della norma ("In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile") ed è
caratterizzato da opinioni contrapposte, rispecchiate nelle pronunce giurisprudenziali di merito note.
Il richiamo esplicito alla disciplina della responsabilità risarcitoria da fatto illecito (art. 2043) è stato visto da alcuni come
una sorta di "atecnico" rinvio alla responsabilità risarcitoria dell'esercente la professione sanitaria (in tal senso, fra gli
altri, Tribunale di Arezzo 14/2/2013 e Tribunale di Cremona 19/9/2013), mentre altri (Tribunale di Varese 29/12/2012)
hanno inteso da subito vedere nella previsione in esame una indicazione legislativa (di portata indirettamente/
implicitamente interpretativa) volta a chiarire che, in assenza di un contratto concluso con il paziente, la responsabilità
del medico non andrebbe ricondotta nell'alveo della responsabilità da inadempimento/inesatto adempimento
(comunemente detta «contrattuale») bensì in quello della responsabilità da fatto illecito (comunemente detta
«extracontrattuale»).
Gli estremi delle contrapposte opinioni emerse nella giurisprudenza di merito paiono ben rappresentati da una pronuncia
del Tribunale di Torino del 26/2/2013 e da quella del Tribunale di Rovereto del 29/12/2013.
Secondo il giudice piemontese il legislatore del 2012 avrebbe dettato una norma che smentisce l'intera elaborazione
giurisprudenziale precedente e l'art. 2043 sarebbe ora la norma a cui ricondurre sia la responsabilità del medico pubblico
dipendente sia quella della struttura pubblica nella quale opera (non essendo ipotizzabile secondo quel giudice un
diverso regime di responsabilità del medico e della struttura), per cui l'art. 3 della legge Balduzzi cambierebbe il "diritto
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vivente" operando una scelta di campo del tutto chiara e congruente con la finalità di contenimento degli oneri risarcitori
della sanità pubblica e "getta alle ortiche" la utilizzabilità in concreto della teorica del contatto sociale.
Il giudice trentino ha ritenuto invece che nessuna portata innovatrice deriverebbe dalla legge Balduzzi in merito alla
responsabilità civile del medico in quanto il richiamo all'art. 2043 c.c. contenuto nell'art. 3 andrebbe riferito solo al giudice
penale per il caso di esercizio dell'azione civile in sede penale, mentre la responsabilità civile del medico andrebbe
comunque ricondotta al disposto dell'art. 1218 c.c. in caso di inadempimento e/o inesatto adempimento dell'obbligazione
"legale" gravante anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge istitutiva del S.S.N. (L. n. 833
del 1978).
Anche la Suprema Corte si è pronunciata sulla possibile portata innovatrice della legge Balduzzi nel regime della
responsabilità civile medica, sinora escludendola.
In una prima decisione del febbraio 2013 la Cassazione (in un "obiter") ha affermato che "(...) la materia della
responsabilità civile segue le sue regole consolidate (...) anche per la c.d. responsabilità contrattuale del medico e della
struttura sanitaria, da contatto sociale", richiamando quale "punto fermo, ai fini della nomofilachia, gli arresti delle
sentenze delle Sezioni Unite nel novembre 2008 (...)" (Cass. 19/2/2013 n. 4030). In tale sentenza non sono fornite
indicazioni interpretative del secondo inciso dell'art. 3 comma 1 L. 189/2012, che invece si rinvengono nella successiva
pronuncia della Cassazione del 17/4/2014 n. 8940 così massimata: "l'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158,
come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189, nel prevedere che "l'esercente la professione
sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica non risponde penalmente per colpa lieve", fermo restando, in tali casi, "l'obbligo di cui all'articolo 2043 del
codice civile", non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del
sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza
della colpa lieve".
Non sono condivisibili le concrete applicazioni dell'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi fatte in alcune delle pronunce di
merito sopra richiamate, mentre l'interpretazione della norma operata dalla Cassazione nell'ordinanza n. 8940 del 2014
risulta solo in parte convincente.
Come si è già avuto modo di argomentare più diffusamente, il tenore letterale del comma 1 dell'art. 3 L. 189/2012 e le
esplicite finalità perseguite dal legislatore del 2012 - di contenimento della spesa pubblica e di porre rimedio al cd
fenomeno della medicina difensiva anche attraverso una limitazione della responsabilità dei medici - non sembrano
legittimare semplicisticamente un'interpretazione della norma nel senso che il richiamo all'art. 2043 c.c. sia atecnico o
frutto di una svista.
Prima di prendere posizione sulle possibili ricadute che la legge del 2012 pare avere sulla responsabilità del medico, è
tuttavia opportuno far chiarezza sul suo ambito applicativo e sgombrare il campo da alcune riferite letture della nuova
previsione normativa che non convincono affatto.
Innanzitutto, nessuna portata innovativa può avere l'art. 3 della legge 189/2012 - che si riferisce espressamente alla
responsabilità dell'esercente una professione sanitaria autore della condotta illecita - sulla natura "contrattuale" della
responsabilità civile (ex artt. 1218 e 1228 c.c.) della struttura sanitaria (pubblica o privata) nella controversia risarcitoria
promossa nei suoi confronti dal danneggiato.
Sia che si ritenga ravvisabile un contratto atipico fra la struttura sanitaria ed il paziente, sia che si preferisca individuare
nella legge la fonte dell'obbligo per la struttura (pubblica o convenzionata) inserita nel S.S.N. di erogare determinate
prestazioni in favore del paziente, in ogni caso come detto la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è
responsabile ai sensi dell'art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni derivati dall'inadempimento (o dall'inesatto
adempimento) di una delle prestazioni a cui è direttamente obbligata.
In secondo luogo, non può essere condivisa l'opinione - fatta propria da una minoritaria giurisprudenza di merito - che in
sostanza finisce per ritenere l'intero articolo 3 comma 1 una legge penale o comunque una legge che fa eccezione a
regole generali e ne fa discendere che, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, troverebbe applicazione nei soli casi ivi
previsti.
L'art. 3 della legge Balduzzi oltre ad introdurre indubbie restrizioni alla responsabilità penale - prevedendo una parziale
abolitio criminis degli artt. 589 e 590 (Cass. pen. 29/1/2013 n. 16237) - disciplina infatti vari aspetti della "responsabilità
professionale dell'esercente le professioni sanitarie" compresa la responsabilità risarcitoria, di cui si occupa
espressamente non solo nel comma 1, con il richiamo all'obbligo di cui all'art. 2043 e con la previsione di tener conto
nella determinazione del risarcimento del danno del fatto che il responsabile si è attenuto alle linee guida, ma anche nel
comma 3, che introduce un criterio legale di liquidazione del danno biologico mediante il rinvio alle tabelle previste negli
artt. 138 e 139 del D.Lvo n. 209/2005 (cod. ass.), e, in qualche modo, nel comma 5, ove è previsto l'aggiornamento
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periodico e l'inserimento di specialisti nell'albo dei CTU. Peraltro, oltre che non rispondente ai comuni criteri ermeneutici,
l'interpretazione secondo cui l'art. 3 comma 1 sarebbe "legge penale" o "eccezionale" destinata in quanto tale a
disciplinare ex art. 14 delle preleggi solo i casi dalla stessa espressamente previsti - esonero dalla responsabilità penale
del medico in colpa lieve che si è attenuto alle linee guida e responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. dello stesso
professionista solo in caso di proscioglimento/assoluzione in sede penale - porrebbe forti dubbi di legittimità
costituzionale, per l'ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento e diversità di disciplina che verrebbero a crearsi
a seconda che una determinata condotta illecita del medico (causativa di danni risarcibili) venga preventivamente
vagliata dal giudice penale oppure no.
Né può condividersi l'affermazione secondo cui l'obbligazione del medico avrebbe fonte "legale", in quanto scaturirebbe
direttamente dalla legge istitutiva del S.S.N. (l. 833/1978), con conseguente applicabilità del regime giuridico della
responsabilità ex art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni derivanti da inadempimento.
L'opinione largamente maggioritaria individua, come detto, nel contratto di "spedalità" o di "assistenza sanitaria" (non
nella legge) la fonte del rapporto obbligatorio fra la struttura sanitaria e il paziente e, ove pure non si ritenga di aderire a
tale conclusione, al più nella legge istitutiva del S.S.N. potrebbe eventualmente individuarsi la fonte delle obbligazioni
gravanti sulle strutture (pubbliche e private) inserite nel variegato servizio sanitario ma non certo di obbligazioni verso il
paziente direttamente gravanti sul singolo medico, inserito a vario titolo (come dipendente o collaboratore esterno) in
complesse strutture - che autonomamente organizzano le risorse ed i mezzi di cui dispongono - presso le quali viene di
solito in contatto con gli utenti solo perché ciò è insito nell'espletamento delle sue mansioni lavorative (al pari di quanto
avviene ad altri dipendenti o collaboratori di pubbliche amministrazioni o di soggetti privati che erogano servizi pubblici).
Tant'è che per circa vent'anni dopo l'istituzione del S.S.N. la giurisprudenza (sino alla sentenza della Cassazione n. 589
del 1999) ha continuato a qualificare extracontrattuale la responsabilità del medico ospedaliero per i danni arrecati ai
pazienti (vd Cass. 13/3/1998 n. 2750 e Cass. 24/3/1979 n. 1716), senza mai ravvisare nella legge 833/1978 la fonte di
un'obbligazione "legale" ex art. 1173 c.c. in capo al singolo medico che ha eseguito la sua prestazione in virtù del
rapporto organico con la struttura sanitaria.
Come pure va sgombrato il campo dall'equivoco che l'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi possa disciplinare ogni ipotesi
di responsabilità del medico (e di ogni altro esercente la professione sanitaria), come sembra affermare il Tribunale di
Torino nella sentenza sopra richiamata.
Ferma la responsabilità (distinta ed autonoma) ex art. 1218 c.c. della struttura sanitaria, qualora il danneggiato intenda
agire in giudizio (anche o soltanto) contro il medico, occorre infatti necessariamente distinguere l'ipotesi in cui il paziente
ha concluso un contratto con il professionista da quella in cui tali parti non hanno concluso nessun contratto. Non pare
dubitabile che il danneggiato può utilmente continuare ad invocare la responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c.
del medico qualora provi che le parti hanno concluso un contratto d'opera professionale, senza che assuma alcun rilievo
il fatto che la prestazione medico-chirurgica sia stata eventualmente resa (in regime ambulatoriale o di ricovero) presso
una struttura sanitaria (pubblica o privata). In tal caso il medico è legato al paziente da un rapporto contrattuale (diverso
sia dal rapporto che lega il sanitario alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il paziente e la
struttura) e pertanto la sua responsabilità risarcitoria ben può (e deve) essere ricondotta alla responsabilità da
inadempimento ex art. 1218 c.c.
In presenza di un contratto fra paziente e professionista, nessun riflesso quindi può avere sulla qualificazione della
responsabilità risarcitoria del medico la previsione contenuta nel comma 1 dell'art. 3 della legge Balduzzi, in particolare il
richiamo all'art. 2043 c.c. Va in tal senso pienamente condivisa l'affermazione della Cassazione secondo cui è escluso
che la legge 189/2012 abbia inteso esprimere un'opzione a favore della qualificazione della responsabilità medica
"necessariamente" come responsabilità extracontrattuale (Cass. n. 8940 del 2014).
Non può invece essere condivisa l'interpretazione complessiva del secondo inciso dell'art. 3 comma 1 della legge
Balduzzi che emerge dalla motivazione (non anche dalla massima sopra richiamata) dell'ordinanza della Cassazione n.
8940 del 2014 - laddove la Corte conclude che a tale norma non andrebbe attribuito alcun rilievo che possa indurre a
superare l'orientamento giurisprudenziale "tradizionale" in tema di responsabilità medica - la quale pare inserirsi nel
solco delle letture che sostanzialmente tendono a vanificare la portata della norma.
Nel motivare la sua decisione la Cassazione afferma che l'art. 3 comma 1 L. 189/2012 "(...) poiché omette di precisare in
che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità
penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art.
2043 c.c., dev'essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il
legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità
extracontrattuale civilistica". La Corte smentisce la bontà della ricostruzione della disciplina della responsabilità medica
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fatta dal Tribunale di Torino (nella sentenza sopra citata) ed invocata dalla difesa ricorrente e precisa (in modo del tutto
condivisibile) che "deve, viceversa, escludersi che con detto inciso il legislatore abbia inteso esprimere un'opzione a
favore di una qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità extracontrattuale (...)", per
poi affermare in conclusione che - sulla base della suddetta interpretazione del secondo inciso dell'art. 3 comma 1 "deve, pertanto, ribadirsi che alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il superamento dell'orientamento
tradizionale sulla responsabilità medica come responsabilità da contatto sociale e sulle sue implicazioni (...)" (vd Cass.
17/4/2014 n. 8940 in motivazione).
Anche secondo la Cassazione del 2014, in sostanza la previsione normativa in questione conterrebbe un evidente errore
e risulterebbe priva di qualsiasi rilievo. Se infatti la responsabilità civile dell'esercente la professione sanitaria per i danni
arrecati a terzi nello svolgimento della sua attività costituisce comunque pur sempre una responsabilità da "contatto"/
inadempimento ex art. 1218 c.c. anche in assenza di un contratto fra il sanitario ed il paziente - secondo l'orientamento
consolidato in tema di responsabilità medica che la Corte si affretta a ribadire - risulterebbe errato oltre che superfluo il
richiamo all'obbligo risarcitorio di cui all'art. 2043 c.c., che non verrebbe in rilievo neppure "in tali casi". Stando alle
suddette conclusioni cui perviene la Cassazione, si dovrebbe ritenere che il distratto legislatore del 2012 avrebbe inserito
(inutilmente) il richiamo all'art. 2043 all'interno di una norma (art. 3 comma 1 L. 189/2012) che disciplina espressamente
anche la responsabilità civile del medico, "soltanto" per la preoccupazione di escludere (in ossequio al principio "in lege
aquilia et levissima culpa venit") che la colpa lieve potesse condurre - nei casi in cui vi è esonero dalla responsabilità
penale - a far ritenere esclusa la responsabilità risarcitoria extracontrattuale, evidentemente dimenticando (o comunque
senza tener conto) che in base al "diritto vivente" la responsabilità del medico viene comunemente ricondotta alla
responsabilità da "contatto"/inadempimento ex art. 1218 c.c. e non a quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c. Inoltre,
risulterebbe irragionevole la stessa preoccupazione del legislatore - nella quale la Corte ravvisa la ragione unica del
secondo inciso dell'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi - di escludere l'irrilevanza della colpa lieve in ambito di
responsabilità aquiliana/extracontrattuale ("in lege aquilia et levissima culpa venit") all'interno di una disciplina sulla
responsabilità civile dell'esercente la professione sanitaria che continuerebbe ad essere "contrattuale" e sulla quale
(secondo la Corte) la legge Balduzzi non avrebbe nessun impatto ("alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il
superamento dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come responsabilità da contatto sociale e sulle
sue implicazioni" secondo quanto afferma in motivazione Cass. 8940/2014).
L'interprete non pare autorizzato a ritenere che il legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla norma cardine della
responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è premurato di precisare che, anche qualora l'esercente una
professione sanitaria "non risponde penalmente per colpa lieve" (del delitto di lesioni colpose o di omicidio colposo)
essendosi attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, "in tali casi resta
comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile".
Nell'interpretare la norma vigente non sembra del tutto trascurabile che inizialmente il comma 1 dell'art. 3 del decreto
legge n. 158 del 2012 [«fermo restando il disposto dell'articolo 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve
nell'attività dell'esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell'art. 1176 del codice civile, tiene conto in
particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica nazionale e internazionale»] non conteneva nessuna previsione destinata ad incidere sulla responsabilità
penale dell'esercente una professione sanitaria e nessun richiamo alla responsabilità da fatto illecito, ma si limitava a
prevedere che, ferma la limitazione della responsabilità civile alle ipotesi di dolo o colpa grave qualora la prestazione
avesse implicato la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (ex art. 2236 c.c.), nell'accertamento
dell'adempimento dell'obbligo di diligenza professionale (ex art. 1176 comma 2 c.c.) il giudice doveva tener conto in
particolare dell'osservanza nel caso concreto da parte del sanitario delle linee guida e delle buone pratiche accreditate.
In sede di conversione del decreto il legislatore (per meglio perseguire gli obiettivi prefissati) ha radicalmente mutato il
comma 1 dell'art. 3, prevedendo che "non risponde penalmente per colpa lieve" l'esercente la professione sanitaria che
si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate, inserendo il richiamo all'obbligazione risarcitoria ex art.
2043 c.c. (che grava comunque sul soggetto esente da responsabilità penale) ed imponendo al giudice di tener conto
"anche nella determinazione del risarcimento del danno" dell'avvenuto rispetto delle linee guida da parte del sanitario/
responsabile. Le significative modifiche introdotte in sede di conversione del decreto legge (tali da indurre alcuni a
dubitare del rispetto dell'art. 77 Cost.) contribuiscono a far escludere che l'art. 3 comma 1 della legge vigente sia frutto di
una "svista" e che l'intenzione del legislatore del 2012 possa essere limitata alla preoccupazione indicata dalla
Cassazione nella pronuncia del 2014 più volte richiamata. Qualora l'intenzione del legislatore fosse stata soltanto quella
indicata dalla Corte e la previsione normativa in esame fosse da interpretare nel senso che non avrebbe inteso scalfire in
nessun modo il consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità medica come responsabilità ex art.
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1218 c.c. da "contatto sociale" (con tutte le sue implicazioni), non vi sarebbe stata nessuna apprezzabile ragione per
inserire in sede conversione il richiamo all'art. 2043 ed è ragionevole ritenere che nell'art. 3 comma 1 sarebbe rimasto
immutato il richiamo alle diverse norme (art. 1176 e art. 2236) contenuto nel decreto legge.
Sia il richiamo letterale alla norma cardine che prevede nell'ordinamento il "risarcimento per fatto illecito" (art. 2043 c.c.)
e "l'obbligo" in essa previsto (in capo a colui che per dolo o colpa ha commesso il fatto generatore di un danno ingiusto),
sia l'inequivoca volontà della legge Balduzzi - resa manifesta, come detto, oltre che dal comma 1 anche dal comma 3 del
medesimo art. 3, laddove vengono richiamati gli artt. 138 e 139 del D.Lvo 209/2005 per la liquidazione del danno
biologico - di restringere e di limitare la responsabilità (anche) risarcitoria derivante dall'esercizio delle professioni
sanitarie, per contenere la spesa sanitaria e porre rimedio al cd fenomeno della medicina difensiva, inducono ad
interpretare la norma in esame nel senso che il richiamo alla responsabilità da fatto illecito nell'art. 3 comma 1 impone di
rivedere il criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria del medico (dipendente o collaboratore di una struttura
sanitaria) per i danni provocati in assenza di un contratto concluso dal professionista con il paziente.
È senz'altro vero che nell'art. 3 comma 1 della L. 189/2012 non può rinvenirsi un'opzione a favore di una qualificazione
della responsabilità medica "necessariamente come responsabilità extracontrattuale" (per richiamare le parole della
Cassazione), ma compito dell'interprete non è quello di svuotare di significato la previsione normativa, bensì di attribuire
alla norma il senso che può avere in base al suo tenore letterale e all'intenzione del legislatore (art. 12 delle preleggi).
Nell'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi il Parlamento Italiano, in sede di conversione del decreto e per perseguire le
suddette finalità, ha voluto indubbiamente limitare la responsabilità degli esercenti una professione sanitaria ed
alleggerire la loro posizione processuale anche attraverso il richiamo all'art. 2043 c.c. - escludendo la responsabilità
penale nei casi di colpa lieve riconducibili al primo periodo, ma facendo salva anche in tali casi la responsabilità civile (da
inadempimento nei casi in cui preesiste un contratto concluso dal medico con il paziente e da fatto illecito negli altri casi,
come si dirà meglio in seguito) - mentre nel comma 3 del medesimo articolo ha poi introdotto un criterio limitativo
dell'entità del danno biologico risarcibile in tali casi al danneggiato (mediante il richiamo agli artt. 138 e 139 cod. ass.).
Sembra dunque corretto interpretare la norma nel senso che il legislatore ha inteso fornire all'interprete una precisa
indicazione nel senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista da un rapporto contrattuale, il
criterio attributivo della responsabilità civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va individuato in
quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c., con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell'onere
della prova, sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno.
Così interpretato, l'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi porta dunque inevitabilmente a dover rivedere l'orientamento
giurisprudenziale pressoché unanime dal 1999 che riconduce in ogni caso la responsabilità del medico all'art. 1218 c.c.,
anche in mancanza di un contratto concluso dal professionista con il paziente.
Peraltro, si è segnalato che il superamento della teoria del "contatto sociale" (e della relativa disciplina giuridica che ne
consegue in termini di responsabilità risarcitoria) in relazione al medico inserito in una struttura sanitaria e che non ha
concluso nessun contratto con il paziente, non sembra comportare un'apprezzabile compressione delle possibilità per il
danneggiato di ottenere il risarcimento dei danni derivati dalla lesione di un diritto fondamentale della persona (qual è
quello alla salute): in considerazione sia del diverso regime giuridico (art. 1218 c.c.) applicabile alla responsabilità della
struttura presso cui il medico opera, sia della prevedibile maggiore solvibilità della stessa, il danneggiato sarà infatti
ragionevolmente portato a rivolgere in primo luogo la pretesa risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria.
Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico nell'alveo della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.
dovrebbe altresì favorire la cd alleanza terapeutica fra medico e paziente, senza che (più o meno inconsciamente) venga
inquinata da un sottinteso e strisciante "obbligo di risultato" al quale il medico non è normativamente tenuto (ma che, di
fatto, la responsabilità ex art. 1218 c.c. da "contatto sociale" finisce a volte per attribuirgli, ponendo a suo carico
l'obbligazione di risarcire il danno qualora non sia in grado di provare di avere ben adempiuto e che il danno derivi da
una causa a lui non imputabile) e che è spesso alla base di scelte terapeutiche "difensive", pregiudizievoli per la
collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato.
Né, come detto, la teoria del "contatto sociale" applicabile al medico (non legato al paziente da alcun rapporto
contrattuale) sembra discendere come doveroso precipitato dalla legge 833/1978, che può al più costituire la fonte di un
obbligo per le strutture sanitarie (pubbliche o private convenzionate) di erogare le prestazioni terapeutiche e assistenziali
ai soggetti che si trovano nelle condizioni di aver diritto di usufruire del servizio pubblico. Che tali prestazioni vengano poi
necessariamente rese attraverso il personale dipendente o comunque a vario titolo inserito nella struttura del S.S.N. non
sembra affatto implicare (come inevitabile corollario) di dover ravvisare in capo a ciascun operatore sanitario una distinta
ed autonoma obbligazione avente fonte legale e, quindi, di dover necessariamente ritenere responsabile ex art. 1218
c.c. l'esercente la professione sanitaria per i danni che derivano dal suo inadempimento.
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La legge 833/1978 non consente di ravvisare un'obbligazione legale (ex art. 1173 c.c.) in capo al singolo medico
"ospedaliero", il quale si trova normalmente ad eseguire la sua prestazione in virtù del solo rapporto giuridico che lo lega
alla struttura sanitaria nella quale è inserito, come sembra aver avuto ben presente il legislatore del 2012 nel momento in
cui, in relazione alla responsabilità risarcitoria dell'esercente una professione sanitaria, ha ritenuto di far richiamo
all'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.
2.4 Riepilogo del sistema di responsabilità civile in ambito sanitario dopo la "legge Balduzzi".
Sulla base del delineato ambito applicativo e della interpretazione dell'art. 3 comma 1 L. 189/2012 che si ritiene
preferibile, l'articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario sembra possa essere così sintetizzato:
- l'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica
o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d'opera professionale (anche se
nell'ambito della cd attività libero professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità
della struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (contratto
d'opera professionale) derivano da inadempimento e sono disciplinate dall'art. 1218 c.c., ed è indifferente che il
creditore/danneggiato agisca per ottenere il risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di
entrambi;
- il richiamo nella norma suddetta all'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. per l'esercente la professione sanitaria che non
risponde penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun
riflesso sulla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico con il paziente (o,
se si preferisce, è comunque tenuta ex lege ad adempiere determinate prestazioni perché inserita nel S.S.N.) ed è
chiamata a rispondere ex art. 1218 c.c. dell'inadempimento riferibile direttamente alla struttura anche quando derivi
dall'operato dei suoi dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 c.c.);
- il tenore letterale dell'art. 3 comma 1 della legge Balduzzi e l'intenzione del legislatore conducono a ritenere che la
responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono
inadempimento di un contratto d'opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore
del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l'obbligazione risarcitoria del medico possa
scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito aquiliano (che il danneggiato ha l'onere di provare);
- in ogni caso l'alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico "ospedaliero", che deriva dall'applicazione
del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna
incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa
privata non convenzionata), che è comunque di tipo "contrattuale" ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che l'obbligo di
adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare
tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di "spedalità" o "assistenza sanitaria" con la sola accettazione del
paziente presso la struttura);
- se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in "contatto"
presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria
del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell'illecito ex art. 2043 c.c. che l'attore ha l'onere
di provare;
- se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall'attore anche la struttura sanitaria presso la quale l'autore
materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex art. 2043 c.c. per il
medico e quella ex art. 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell'onere probatorio e diverso
termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il "fatto dannoso" (seppur
distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i
convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell'art. 2055 c.c. (cfr., fra le altre, Cass.
16/12/2005, n. 27713).
3. La responsabilità risarcitoria dei convenuti nel caso concreto.
Va premesso che pur avendo il CTU evidenziato profili di inadempimento dell'obbligo di acquisire dal paziente un
consenso pieno ed informato, prima di procedere all'intervento chirurgico programmato, ciò risulta ininfluente ai fini della
presente decisione.
L'attore non ha mai dedotto tale profilo di responsabilità dei convenuti - in particolare la lesione del suo diritto al cd
consenso informato - prima del maturare della preclusione assertiva.
Gi. Ve., come detto senza allegare di aver concluso un contratto con il medico convenuto, deduce che nel corso
dell'intervento chirurgico di tiroidectomia, al quale è stato sottoposto presso la clinica privata Policlinico di Monza
dall'equipe guidata dal dott. Ca., avrebbe subito la lesione delle corde vocali a causa dell'errata esecuzione
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dell'intervento e, sulla base di tale "inadempimento" (inesatto adempimento) che sostiene imputabile sia al medico che
alla struttura sanitaria, chiede la condanna in solido di entrambi i convenuti a risarcire il danno alla salute e il danno
morale derivati dall'errato intervento chirurgico.
Nessun rilievo assume che l'attore (che ha introdotto la causa prima della legge Balduzzi) abbia qualificato la sua azione
come un'azione di responsabilità da inadempimento anche rispetto al medico convenuto, sulla base del "diritto vivente".
Come noto, il giudice può infatti qualificare diversamente la domanda risarcitoria proposta dal danneggiato, purché
restino inalterati i fatti dedotti dall'attore a sostegno della pretesa e che il giudice pone a fondamento della decisione (cfr.
fra le altre, Cass. 8/2/2007 n. 2746 e Cass. 17/4/2013 n. 9240).
Ora, sulla base dei documenti prodotti dalle parti, delle risultanze della C.T.U. (relazione depositata il 28/12/2012) e di
quanto allegato dall'attore e non contestato specificamente dai convenuti, risulta provato che: il 20/10/2008 Gi. Ve. fu
ricoverato presso la struttura sanitaria convenuta e il giorno stesso sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale ("reso
necessario per la presenza di un voluminoso struma adenoso cistico-emorragico"), eseguito da un'equipe chirurgica
guidata dal convenuto Ig. Ca.; che nel corso dell'intervento chirurgico l'attore subì "un insulto bilaterale dei nervi laringei
ricorrenti che provocò la cospicua adduzione delle corde vocali con disfonia e riduzione dello spazio respiratorio tanto
che dovette essere trasferito in unità di cura intensiva e successivamente trattato in reparto ORL mediante
tracheotomia"; che durante l'intervento del 20/10/2008 "venne prodotto un danno chirurgico irreversibile a carico del
nervo laringeo ricorrente destro (che nella descrizione dell'intervento non venne neppure identificato nel suo decorso) ed
un danno transitorio a carico di quello sinistro (per quanto in descrizione di intervento apparentemente "visualizzato e
conservato") che dopo un certo lasso di tempo (...) riprese la sua funzione"; che "tali danni hanno prodotto come esito
una riduzione dello spazio respiratorio laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una disfonia di grado lieve per
compenso della cv sinistra e delle false corde" (vd p. 7 e 8 della relazione del CTU in atti).
Il materiale probatorio acquisito consente di affermare che nel caso concreto è ravvisabile la responsabilità risarcitoria
sia del medico sia della struttura sanitaria.
In particolare, nella condotta del medico dott. Ig. Ca. si ravvisano tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito ex art. 2043
c.c., necessari come detto per l'affermazione della responsabilità civile del medico-chirurgo non legato nel caso concreto
al paziente da un rapporto contrattuale.
Nella relazione depositata il CTU riferisce: che "l'intervento eseguito dal dott. Ig. Ca. presso la struttura sanitaria
convenuta è consistito in una tiroidectomia totale che in mani esperte non comporta solitamente problemi tecnici di
speciale difficoltà" (p. 14 della relazione); che le linee guida raccomandavano per l'intervento in questione, fra l'altro,
l'uso di "tecniche chirurgiche con dissezione accurata allo scopo di identificare precocemente il nervo", una "attenta
conduzione dell'atto chirurgico nel modo più esangue possibile ed evitando ripetute manipolazioni", il "monitoraggio
intraoperatorio dell'attività del nervo", il "controllo pre e post-operatorio della motilità cordale con conseguente
valutazione otorinolaringoiatrica" (p. 8); che "nel caso de quo, nella descrizione dell'intervento non ci sono evidenze di
isolamento dei nervi laringei ma si cita solo la preventiva legatura e sezione dei peduncoli vascolari e la sola
visualizzazione del nervo laringeo ricorrente di sinistra e la sua conservazione peraltro non scevra da insulto (sofferenza
temporanea) vista l'emergenza respiratoria post-intervento" (p. 9); che "nel caso specifico pur in presenza di campo
operatorio limitrofo ad esiti di precedenti interventi non furono attuate metodiche al tempo disponibili per identificare e
proteggere le strutture nervose causando un danno alle stesse che comportarono subito dopo l'intervento la gestione di
una urgenza respiratoria da parte della unità di crisi intensiva e successivamente un danno irreversibile al nervo laringeo
destro con conseguenze sulla funzione fonatoria e respiratoria della laringe" (p. 14).
Pienamente condivisibile in siffatta situazione risulta la logica conclusione cui perviene l'ausiliare - all'esito dell'attento e
completo esame della documentazione disponibile e degli approfonditi accertamenti compiuti - secondo il quale, nel
"mancato isolamento del nervo laringeo destro durante la procedura chirurgica con conseguente impossibilità di
procedere al monitoraggio intraoperatorio dell'attività dello stesso nervo di destra e di quello contro laterale che,
visualizzato, riportò una sofferenza solo temporanea", sono ravvisabili elementi di responsabilità professionale del
chirurgo.
Le conclusioni del CTU non sono smentite dalle osservazioni critiche dei consulenti di parte, in ampia misura apodittiche,
non suffragate da concreti elementi di prova né sorrette da convincenti argomentazioni scientifiche.
Risulta evidente nel caso concreto il colpevole mancato rispetto delle linee guida da parte dei sanitari, in particolare del
chirurgo convenuto che guidava l'equipe medica.
Il riscontrato danno alle strutture nervose subito da Gi. Ve. è etiologicamente riconducibile alla condotta colposa del
convenuto - che si caratterizza sia per imperizia sia per negligenza - e non costituisce affatto una complicanza
prevedibile ma non evitabile nel caso concreto come dedotto dalla difesa convenuta. Risulta infatti altamente probabile
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che il danno alla salute riscontrato dall'ausiliare sia stato causato da errate manovre poste in atto nel corso
dell'intervento di tiroidectomia, eseguito in spregio alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica dell'epoca, e non vi sono elementi per poter ritenere che, con apprezzabile grado di probabilità, il danno
iatrogeno subito dall'attore si sarebbe verificato anche qualora gli operatori si fossero attenuti (come avrebbero dovuto)
alle linee guida indicate dal CTU.
Oltre al medico convenuto, parimenti responsabile del danno subito dall'attore è la struttura sanitaria, la quale come
ricordato sopra era direttamente obbligata ad adempiere tutte le prestazioni dovute in base al "contratto di spedalità"
concluso con il paziente.
Si è detto che la responsabilità della struttura per i danni che si verificano in ambito sanitario è una responsabilità che
scaturisce dall'inadempimento e/o dall'inesatto adempimento di una delle varie prestazioni (non necessariamente di
quella principale come nel caso di specie) che è direttamente obbligata ad eseguire in base al contratto atipico concluso
con il paziente - o in base alla legge se si preferisce aderire alla tesi della fonte legale dell'obbligazione - e non una
responsabilità per fatto altrui. Ai fini della diretta riferibilità ex artt. 1218-1228 c.c. delle conseguenze risarcitorie
dell'illecito non assume particolare rilevo che il contraente/debitore (solitamente un ente collettivo, pubblico o privato)
nell'adempimento delle sue obbligazioni si avvale - deve avvalersi per l'esecuzione delle prestazioni strettamente
sanitarie di particolari figure professionali abilitate (le sole che possono eseguire tali prestazioni) - necessariamente di
propri dipendenti o di collaboratori esterni. Ne deriva che la struttura sanitaria per essere esonerata dalla responsabilità
risarcitoria verso il paziente non può utilmente invocare la condotta illecita del proprio dipendente o collaboratore individuato come responsabile (corresponsabile) dalla stessa struttura o direttamente dal danneggiato - ma è tenuta a
fornire nel processo la prova positiva che le conseguenze dannose di tale condotta non le sono imputabili a titolo di
inadempimento delle obbligazioni oggetto del contratto di spedalità.
Nel caso di specie non solo la struttura sanitaria non ha neppure tentato di provare di aver compiutamente adempiuto le
sue obbligazioni, ma vi è la prova in atti dell'inesatto adempimento della prestazione principale ed è quindi tenuta ex artt.
1218-1228 c.c. a risarcire integralmente i danni derivati dall'operato dei propri dipendenti e collaboratori (fra i quali il dott.
Ca.) di cui si è avvalsa.
4. I danni subiti dall'attore.
4.1 Il danno non patrimoniale.
Dall'illecito descritto, avvenuto il 20/10/2008, l'attore Gi. Ve. (nato il 17/4/1956) ha riportato "un danno chirurgico
irreversibile a carico del nervo laringeo ricorrente destro (...) ed un danno transitorio a carico di quello sinistro (...) che
hanno prodotto come esito una riduzione dello spazio respiratorio laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una
disfonia di grado lieve per compenso della cv sinistra e delle false corde" .
Secondo il condiviso responso del C.T.U., ciò ha comportato per il danneggiato una maggior durata della malattia rispetto a quella che un paziente con analoga patologia e nelle medesime condizioni soggettive avrebbe comunque
sopportato - con temporanea totale inabilità alle ordinarie occupazioni per 30 giorni e parziale per ulteriori 60 giorni (20
giorni al 75%, 20 giorni al 50% e 20 giorni al 25%); inoltre, i postumi residuati concretizzano un danno all'integrità psicofisica dell'attore di natura esclusivamente iatrogena pari all'11 % (vd p. 10 della relazione in atti).
Pur ritenendosi che il criterio legale previsto dall'art. 3 co. 3 della legge Balduzzi - ove come detto si fa espresso richiamo
alle tabelle degli artt. 138 e 139 del cod. ass. per la liquidazione del danno biologico conseguente alla responsabilità
professionale dell'esercente una professione sanitaria - trova applicazione anche in relazione ai fatti dannosi verificatisi
prima dell'entrata in vigore di tale legge (come già affermato in altre pronunce di questo tribunale alle quali si rinvia), la
mancata adozione della tabella prevista dall'art. 138 per le cd macropermanenti (menomazioni dell'integrità psico-fisica
comprese tra 10 e 100 punti) rende impossibile procedere nel caso concreto alla liquidazione del danno secondo il
criterio legale (allo stato applicabile solo alle cd micropermanenti previste nella tabella adottata ex art. 139).
Occorre pertanto fare ancora applicazione nel caso di specie delle note tabelle elaborate da questo tribunale,
comunemente adottate per la liquidazione equitativa ex artt. 1226-2056 c.c. del danno non patrimoniale derivante dalla
lesione dell'integrità psico/fisica e che, come detto, rappresentano un criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema
Corte, la quale l'ha ritenuto applicabile sull'intero territorio nazionale in assenza di un diverso criterio legale per la
liquidazione del danno alla persona (vd Cass. 7/6/2011 n. 12408).
A fronte delle riferite conclusioni del CTU, sulla base delle richiamate tabelle giurisprudenziali di liquidazione equitativa
del danno alla persona il pregiudizio da temporanea può quantificarsi in moneta attuale in complessivi euro 5.900,00,
mentre quello permanente - tenuto conto dell'età (52 anni) del danneggiato all'epoca dei fatti e dell'entità del gradiente
invalidante riscontrato dal CTU (11%) - può essere monetizzato all'attualità in complessivi euro 23.715,00.
!49
Il danno alla salute sopra indicato non esaurisce tuttavia nel caso concreto l'intero danno non patrimoniale risarcibile al
danneggiato.
Si ritiene infatti che taluni apprezzabili aspetti (o voci) che vengono in rilievo e che da tempo sono solitamente ricondotti
dalla giurisprudenza prevalente nella unitaria categoria generale del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), non
risulterebbero adeguatamente risarciti con la sola applicazione dei predetti valori monetari della tabella.
Per l'integrale risarcimento del danno non patrimoniale sofferto dall'attore è infatti necessario procedere ad una adeguata
"personalizzazione", avendo riguardo a quei profili riconducibili alla sofferenza soggettiva, ai pregiudizi alla vita di
relazione e ai riflessi negativi sulle abitudini di vita che possono ritenersi sussistenti in relazione alle conseguenze
dell'errato intervento chirurgico. Il danneggiato è stato sottoposto a un periodo di terapia intensiva (necessitata
dall'insorta insufficienza respiratoria), poi ha dovuto subire una tracheotomia (temporanea) e in seguito - a causa della
disfonia e della ridotta capacità respiratoria che sono residuate dall'errata prestazione sanitaria - si è visto costretto ad
una quotidiana difficoltà nella vita di relazione e a dover rinunciare a svolgere pienamente anche talune comuni attività
che caratterizzano la vita di un soggetto della sua età (come evidenziato dalla difesa attrice e non specificamente
contestato dai convenuti).
Alla luce di tali considerazioni e per addivenire ad un integrale risarcimento che tenga conto dei vari aspetti che
concorrono nella individuazione del composito danno di cui si discute - senza discostarsi dall'orientamento della
giurisprudenza di legittimità, che richiama ad una liquidazione unitaria del danno alla persona onde evitare inammissibili
duplicazioni di poste risarcitorie (fra le altre, Cass. Sez. Un. 11/11/2008 n. 26972; Cass. 20/11/2012 n. 20292 e Cass.
23/1/2014 n. 1361) - si ritiene di "personalizzare" il danno subito dall'attore aumentando la somma suddetta risultante
dall'applicazione delle tabelle (euro 29.615,00) fino ad euro 38.000,00, che costituisce quindi il complessivo danno non
patrimoniale risarcibile liquidato al valore attuale dalla moneta.
4.2 Il danno patrimoniale.
L'attore non deduce di aver subito danni patrimoniali diversi ed ulteriori rispetto a quello che invoca per il mancato
tempestivo risarcimento del danno non patrimoniale.
Il danneggiato chiede che tale voce di danno (patrimoniale) gli venga risarcita attraverso la rivalutazione monetaria di
quanto liquidato a titolo di danno non patrimoniale e attraverso il riconoscimento degli interessi legali su tale importo
(rivalutato) con decorrenza dall'illecito.
4.3 Il lucro cessante per il ritardato risarcimento del danno.
L'intero danno non patrimoniale è stato liquidato equitativamente - sulla base della richiamata tabella di liquidazione del
danno alla persona - ai valori attuali della moneta e non deve quindi farsi luogo alla sua rivalutazione.
Inoltre, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (risalente alla sentenza del 17/2/1995 n. 1712),
vertendosi in tema di debito di valore non sono dovuti al danneggiato sul credito risarcitorio suddetto gli interessi legali
con decorrenza dall'illecito.
Si ritiene tuttavia, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dall'illecito (6 anni) e delle caratteristiche del
danneggiato, che vada riconosciuta all'attore un'ulteriore somma a titolo di lucro cessante provocato dal mancato
tempestivo risarcimento del danno da parte dei responsabili - e conseguentemente dalla mancata disponibilità
dell'equivalente pecuniario spettante al danneggiato - potendo ragionevolmente presumersi che il creditore, ove avesse
avuto la tempestiva disponibilità della somma, l'avrebbe impiegata in modo fruttifero.
Ai fini della liquidazione necessariamente equitativa di tale ulteriore voce di danno patrimoniale, non si ritiene di far
ricorso al criterio - sovente applicato dalla giurisprudenza - degli interessi legali al saggio variabile in ragione di anno
(determinato ex art. 1284 c.c.) da calcolarsi sull'importo già riconosciuto, dapprima "devalutato" fino all'illecito e poi
"rivalutato" annualmente con l'aggiunta degli interessi, ovvero sul capitale "medio" rivalutato.
Si ritiene preferibile, perché più rispondente alla finalità perseguita e scevro da possibili equivoci che possono derivare
dall'applicazione ai debiti di valore di istituti previsti dall'ordinamento per i debiti di valuta, adottare per la liquidazione
equitativa del lucro cessante in questione un aumento percentuale nella misura risultante dalla moltiplicazione di un
valore base medio del 3% - corrispondente all'incirca al rendimento medio dei Titoli di Stato negli anni compresi nel
periodo che viene in rilievo - con il numero di anni in cui si è protratto il ritardo nel risarcimento per equivalente. Tale
criterio equitativo sembra meglio evitare, da un lato, di far ricadere sul creditore/danneggiato le conseguenze negative
del tempo occorrente per addivenire ad una liquidazione giudiziale del danno e, dall'altro, più idoneo a prevenire il rischio
che il debitore/danneggiante (la cui obbligazione di risarcire per equivalente il danno diventa attuale dal momento in cui
esso si verifica), anziché procedere ad una tempestiva riparazione della sfera giuridica altrui lesa, sia tentato di
avvantaggiarsi ingiustamente della non liquidità del debito risarcitorio e della potenziale redditività della somma di denaro
dovuta (che resta nella sua disponibilità fino alla liquidazione giudiziale del danno).
!50
Nel caso di specie, considerato il tempo trascorso da quando il danno subito dall'attore si è pienamente verificato (2008)
l'importo in questione viene dunque equitativamente liquidato attraverso una maggiorazione del 18% dell'intero danno
suddetto (già rivalutato) e risulta pari ad euro 6.840,00.
4.4 Il complessivo danno risarcibile e la condanna solidale dei responsabili.
Dalla somma delle voci di danno sopra liquidate si ottiene quindi un credito complessivo del danneggiato pari ad euro
44.840,00 (euro 38.000 + euro 6.840).
Su tale somma, corrispondente all'intero danno risarcibile liquidato al creditore/danneggiato, sono altresì dovuti dai
responsabili gli interessi al tasso legale sino al saldo, con decorrenza dalla data della presente pronuncia coincidente
con la trasformazione del debito di valore in debito di valuta.
I convenuti vanno pertanto condannati in solido ex art. 2055 c.c. a pagare all'attore a titolo di risarcimento del danno la
somma complessiva di euro 44.840,00 oltre interessi legali dalla presente sentenza al saldo.
5. La domanda di manleva della struttura sanitaria contro il medico.
Come detto, sin dalla comparsa costitutiva tempestivamente depositata il Policlinico di Monza s.p.a. ha chiesto in via
subordinata (per il caso in cui la domanda dell'attore fosse risultata fondata) la condanna del medico convenuto (dott.
Ca.) a manlevare e tenere indenne la struttura sanitaria dalle conseguenze della soccombenza.
A fondamento di tale domanda la società convenuta invoca il "contratto di collaborazione libero professionale"
sottoscritto dalle parti (doc. 2).
Non si tratta pertanto di un'azione di regresso ex art. 2055 c.c., dal momento che il diritto azionato dalla struttura
sanitaria non deriva dalla legge ma ha fonte (negoziale) nel contratto concluso dalle parti.
Nella clausola 10 del contratto in questione, "il medico dichiara sin d'ora di manlevare e tenere indenne il Policlinico di
Monza da ogni conseguenza pregiudizievole che si riferisca ad ogni domanda promossa nei suoi confronti e nei confronti
del Policlinico (...) dai pazienti suoi personali o da pazienti di Policlinico di Monza che siano stati da lui assistiti (...) in
conseguenza dell'attività da lui svolta presso la Casa di Cura" (punto 1 della clausola), con l'ulteriore specificazione che
la suddetta "(...)manleva è formulata sia con riferimento ai casi di eventuale responsabilità per colpa grave o dolo (...) sia
ai casi di responsabilità per scarsa diligenza (...) e comunque in ogni caso in cui venga accertata giudizialmente la
responsabilità professionale del medico" (clausola 10.2).
Non vi è dubbio che nel suddetto "patto di manleva" (che prevedeva anche l'obbligo del dott. Ca. di avere una copertura
assicurativa, fino ad un determinato massimale, a garanzia dei rischi derivanti dalla sua attività professionale e ad esibire
alla struttura sanitaria la polizza, alla quale era condizionata la validità e l'efficacia del contratto di collaborazione fra le
parti) il medico convenuto si è obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria dalle pretese risarcitorie relative ai danni
subiti dai pazienti in conseguenza dell'attività medico-chirurgica svolta dal professionista all'interno della casa di cura
privata (sia in relazione ai pazienti personali del medico sia ai pazienti della casa di cura come l'odierno attore).
Nel processo il medico convenuto non contesta l'esistenza di un interesse meritevole di tutela alla conclusione di siffatto
accordo e non solleva eccezioni in merito alla validità e all'efficacia della clausola contrattuale che contiene l'atipico patto
di manleva (vd al riguardo Cass. 30/5/2013 n. 13613; Cass. 2/3/1998 n. 2365 e Cass. 8/3/1980 n. 1543) - che in
sostanza finisce per scaricare sul professionista il rischio di impresa della clinica per i danni conseguenza delle
prestazioni sanitarie eseguite dal dott. Ca. all'interno della struttura - e non si ravvisano profili di invalidità rilevabili
d'ufficio che possano indurre a ritenere inefficace il suddetto accordo frutto dell'autonomia negoziale delle parti.
In accoglimento della domanda di manleva, il medico convenuto va pertanto condannato a restituire alla Policlinico di
Monza s.p.a. l'importo complessivo che tale parte in base alla presente sentenza fosse costretta a pagare all'attore in
relazione alla pretesa risarcitoria oggetto di causa.
6. La domanda di garanzia del medico contro l'assicuratore.
Infine, va altresì accolta la domanda di garanzia avanzata dal medico nei confronti del proprio assicuratore (convenuto)
nella citazione introduttiva della causa riunita (R.G. 27231/2011).
È incontroversa la validità e l'efficacia della polizza (n. 900304560) per la responsabilità professionale sottoscritta da Ig.
Ca. con la Milano Assicurazioni s.p.a.: tant'è che sin dalla comparsa costitutiva la compagnia assicuratrice ha concluso
dichiarandosi pronta a "tenere indenne" il medico proprio assicurato da quanto fosse eventualmente tenuto a pagare
all'esito del giudizio promosso nei suoi confronti da Gi. Ve..
Va pertanto condannata la Milano Assicurazioni s.p.a. a tenere indenne il proprio assicurato Ig. Ca. dalla soccombenza
e, quindi, a rimborsare al medico convenuto quanto da tale parte dovuto alle controparti sulla base della presente
sentenza anche a titolo di spese di lite (cfr. Cass. 20/11/2012 n. 20322 e Cass. 31/5/2012 n. 8686).
7. Le spese di lite.
!51
In applicazione del principio della soccombenza (art. 91 c.p.c.) ed in relazione alla causa R.G. 63082/2010, i convenuti
Ig. Ca. e Policlinico di Monza Casa di Cura Privata s.p.a. vanno condannati, in solido, a rifondere all'attore le spese di
lite, liquidate come in dispositivo in base allo scaglione in cui è compreso il credito risarcitorio riconosciuto al
danneggiato e comprensive degli oneri di CTU anticipati dalla parte vittoriosa.
Il convenuto Ig. Ca., soccombente sulla domanda di manleva, va invece condannato a rifondere le spese di lite in favore
di Policlinico di Monza Casa di Cura Privata s.p.a., liquidate come in dispositivo sulla base del medesimo criterio
suddetto.
Infine, sempre in base alla soccombenza l'assicuratore convenuto nella causa riunita (R.G. 27231/2011) è tenuto a
rifondere le spese di lite in favore di Ig. Ca., anch'esse liquidate con lo stesso criterio come in dispositivo.
TRIBUNALE DI AREZZO 14.02.2013
CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Premesso che:
- gli attori, in proprio e quali genitori esercenti la potestà sul figlio XXX, convenivano in giudizio l'Azienda USL 8 di Arezzo
per sentirla condannare al risarcimento dei danni subiti dal minore a seguito alla perdita del testicolo sinistro (conseguita
a tardiva diagnosi di torsione del funicolo) e di quelli sofferti dai genitori per il comprensibile "ingiusto patimento";
- deducevano, in particolare, che:
- alle ore 4,42 del 18.2.2007, la YYY, ricoverata presso la U.O. di Ostetricia-Ginecologia dell'Ospedale di Arezzo, aveva
dato alla luce il figlio XXX;
- alle ore 19,40 dello stesso giorno era stato eseguito un esame obiettivo del bambino dal quale era emerso: "genitali:
emiscroto sx duro di colorito bluastro, aumentato di dimensioni";
- era stata richiesta una consulenza urologica che aveva diagnosticato un "quadro di scroto acuto" ed aveva consigliato il
ricovero in centro specializzato per eventuale asportazione chirurgica;
- il bambino era stato trasferito all'Ospedale Meyer di Firenze (con partenza da Arezzo alle ore 20,30 e arrivo a
destinazione alle ore 22,10) ove, alle ore 23,59, era iniziato l'intervento chirurgico di asportazione del testicolo sx;
- successivamente, in data 4.7.2007, "il bambino era stato sottoposto ad ulteriore intervento chirurgico di fissazione del
testicolo dx";
- assumevano che era "del tutto evidente ... un forte ritardo di diagnosi della torsione del testicolo" che aveva
"comportato la irreversibile necrosi dello stesso con conseguente necessità di asporto", quantificavano nella misura del
10% i postumi permanenti riportati dal bambino e quantificavano in complessivi euro 69.700,00 il risarcimento dovuto al
minore e in euro 10.000,00 quello dovuto a ciascun genitore a fronte del patimento sofferto;
- costituendosi in giudizio, la USL 8 contestava la pretesa assumendo che "anche una maggiore tempestività
nell'effettuazione dell'intervento non avrebbe conseguito il risultato di recuperare l'integrità anatomo-funzionale del
testicolo", in quanto "qualsiasi intervento diretto ad evitare la necrosi è ritenuto inutile dalla maggior parte degli autori";
-compiuta l'istruttoria con produzione documentale ed espletamento di C.T.U. medico-legale, la causa passava in
decisione all'udienza del 19.10.2012, sulle conclusioni delle parti trascritte in epigrafe.
Rilevato che dalla relazione di c.t.u. è emerso che:
- la torsione del testicolo o torsione del funicolo spermatico è generalmente considerata un'emergenza chirurgica, le cui
conseguenze variano in relazione alla gravità della torsione, che può essere parziale (180° o 270°) o totale o "con più giri
del testicolo";
- "le conseguenze della torsione sono, inizialmente, un'ostruzione vascolare venosa che porta all'edema del testicolo,
seguita poi a distanza dalla compressione dell'arteria e, quindi, dalla necrosi ischemica del testicolo";
- nel neonato, "in circa il 70% dei casi la torsione avviene prima della nascita o durante il passaggio nel canale del parto,
il restante 30% poco tempo dopo la nascita";
- "la sintomatologia è spesso elusiva e la presentazione è spesso insidiosa, a differenza di quanto avviene nel bambino
più grande e nell'adolescente. I segni fisici variano moltissimo in funzione di quando è avvenuta la torsione, che se
avvenuta molto tempo prima della nascita può avere come unico segno fisico un aumento della consistenza del testicolo
senza altri segni infiammatori, che sono viceversa presenti qualora l'evento sia molto recente";
- "non esiste un accordo sulla terapia della torsione prenatale ... Se la torsione è chiaramente avvenuta in epoca
prenatale, in cui la speranza di salvare il testicolo è inesistente, la maggioranza degli urologi propende per un intervento
differito, con contemporanea fissazione del testicolo controlaterale, viceversa se la torsione sembra essere occorsa in
epoca postnatale l'immediata esplorazione dello scroto è da considerarsi obbligatoria";
!52
- nel caso in esame, "il dato istopatologico (che evidenzia un infarcimento emorragico del testicolo) e le modalità di
presentazione clinica (emiscroto sinistro duro, di colorito bluastro, aumentato di dimensioni) consentono di escludere
l'ipotesi di una torsione prenatale inveterata e depongono per una torsione verificatasi durante il parto o nelle prime ore
di vita del neonato";
- "all'atto della nascita il neonato, come è prassi, veniva sottoposto ad una prima visita da parte del pediatra
neonatologo: nella scheda relativa alle 'condizioni del bambino alla nascita' non vengono segnalate anomalie a carico
della regione genitale; questo dato, tuttavia, non consente di affermare con certezza né in termini di ragionevole
probabilità che alla nascita non fosse presente, in fase iniziale, una torsione del testicolo, in quanto ... il quadro clinico è
spesso subdolo e/o mascherato dalla tumefazione da parto";
- "quando viene riscontrato, alle ore 19,40 del 18.2.07, un quadro di scroto acuto, la condotta dei sanitari della AUSL 8 di
Arezzo risulta pienamente corretta"; in particolare, eseguita immediatamente la visita specialistica urologica, "la scelta di
trasferire il neonato presso una struttura attrezzata per la chirurgia pediatrica risulta del tutto corretta, in quanto le
procedure chirurgiche e soprattutto quelle anestesiologiche richiedono, nel caso del neonato, specifiche competenze";
egualmente corretta è risultata "la scelta di optare per una esplorazione chirurgica dello scroto";
- "nel mancato controllo per circa15 ore delle condizioni del neonato può ravvisarsi l'unico elemento di censura a carico
dei sanitari dell'AUSL 8 di Arezzo";
- tuttavia, "è ragionevolmente certo che una più pronta diagnosi non avrebbe modificato in termini decisivi la prognosi,
comportando solo ipotetiche maggiori chances di salvataggio dell'organo", atteso che "i dati di letteratura depongono,
anche nel caso di pronta diagnosi, per percentuali di salvataggio del testicolo molto basse (che vanno, a seconda dei
casi, dal 5 al 33%);
- "tenuto conto dei dati statistici ... relativamente alla percentuale di salvataggio del testicolo anche in caso di pronta
diagnosi e del tempo necessario al trasferimento del neonato presso una struttura specializzata, non si ritiene che la
perdita del testicolo sinistro possa essere ricondotta in termini di certezza o di ragionevole probabilità alla condotta dei
sanitari dell'Azienda convenuta";
- a seguito delle osservazioni svolte dal c.t.p. di parte attrice, il C.T.U. ha precisato che il dato statistico del 33% di
possibilità di salvataggio del testicolo è ricavato da uno studio (di Kaye JD e coll.) che prende in rassegna solo 3 casi (di
cui uno con salvataggio) che "risulta statisticamente così poco significativa da non poter essere presa a fondamento
nell'attribuzione di responsabilità"; ha aggiunto che "la casistica descritta da Yerkes EB e coll. riporta una percentuale di
salvataggio pari allo 0%, mentre il contributo di Callewaert e Kerrebroeck, ... citando alcuni dati di letteratura in materia,
relativi nel complesso a circa 150 casi di torsione perinatale, suggerisce una percentuale di salvataggio intorno al 5%".
Deve valutarsi, a questo punto, se il recente intervento normativo compiuto col c.d. decreto Balduzzi e con la legge di
conversione n. 189/2912 comporti una modifica dei criteri di accertamento della responsabilità medica, finora consolidati
nel senso dell'applicazione delle regole concernenti la responsabilità contrattuale.
È noto, infatti, che il riferimento all'art. 2043 c.c. contenuto nell'art. 3, co. 1° della citata l. n. 189/12 ha indotto a dubitare
della possibilità di continuare ad applicare in modo generalizzato i criteri di accertamento della responsabilità
contrattuale, fino a far ritenere che "il Legislatore sembra (consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire
l'adesione al modello di responsabilità civile medica come disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in
assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno iatrogeno esercitando l'azione aquiliana" (Trib. Varese, n.
1406 del 26.11.12).
La disposizione in questione recita: "L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si
attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In
tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del
danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma".
La norma che qui interessa è quella del secondo periodo, che dev'essere però interpretata in stretta correlazione con
quella del periodo precedente, alla quale espressamente si collega in virtù dell'incipit "in tali casi".
Tenuto conto che il primo periodo prevede l'esclusione della responsabilità penale (per colpa lieve) in favore dei sanitari
che si attengano alle linee guida e alle buone pratiche accreditate (introducendo quella che - secondo i primi commenti parrebbe integrare un'esimente speciale), la norma del secondo periodo ha la funzione di chiarire che l'esclusione della
responsabilità penale non fa venir meno l'obbligo di risarcire il danno (in ciò sostanziandosi "l'obbligo di cui all'art. 2043
c.c."); il terzo periodo precisa, poi, che nella "determinazione del risarcimento" deve tenersi debitamente conto della
condotta conforme alle linee guida e alle buone pratiche (condotta rilevante, più propriamente, nell'accertamento
dell'obbligo di risarcimento, mentre l'espressione "determinazione del risarcimento" rimanda piuttosto alla quantificazione
!53
dello stesso, ossia ad un momento che presuppone la già avvenuta affermazione della responsabilità, al quale è dunque
estranea ogni ulteriore valutazione della condotta del sanitario).
Atteso che richiamo all'art. 2043 c.c. è limitato all'individuazione di un obbligo ("obbligo di cui all'art. 2043 del codice
civile", che equivale a dire "obbligo di risarcimento del danno"), senza alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare
nell'accertamento della responsabilità risarcitoria (se non che deve tenersi "debitamente conto" del rispetto delle linee
guida e delle buone pratiche), non sussistono ragioni per ritenere che la novella legislativa incida direttamente
sull'attuale costruzione della responsabilità medica ("diritto vivente") e che imponga un revirement giurisprudenziale nel
senso del ritorno ad un'impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute in punto di riparto degli oneri probatori e di
durata del termine di prescrizione.
Va considerato, al riguardo, che, per quanto l'art. 2043 c.c. costituisca la norma cardine della responsabilità risarcitoria
da fatto illecito, la concreta disciplina della responsabilità aquiliana è contenuta altrove (segnatamente negli artt. 2697 e
2947 c.c., in ordine alla distribuzione degli oneri probatori e al termine di prescrizione, e negli artt. 2055 e segg. c.c., in
ordine alla solidarietà passiva e alle modalità risarcitorie), così come la responsabilità contrattuale trova la sua disciplina
non solo nell'art. 1218 c.c., ma anche negli artt. 2946 (prescrizione decennale) e 1223 e segg. c.c. (quanto alla selezione
e quantificazione dei danni risarcibili); non può dunque affermarsi che richiamare un obbligo equivalga a richiamare
un'intera disciplina e deve quindi concludersi che il riferimento all'art. 2043 c.c. (si badi: non alla disciplina dell'illecito
extracontrattuale, ma esclusivamente all'obbligo "di cui all'art. 2043 del codice civile") sia del tutto neutro rispetto alle
regole applicabili e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri della responsabilità contrattuale.
Va ulteriormente considerato che, se fosse vero che il richiamo all'art. 2043 impone l'adozione di un modello
extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza - inaccettabile - di doverlo applicare anche alle
ipotesi pacificamente contrattuali (quali sono quelle ex art. 2330 e segg.), dal momento che il primo periodo dell'art. 3, 1°
co. considera tutte le possibili ipotesi di condotte sanitarie idonee ad integrare reato (che possono verificarsi
indifferentemente sia nell'ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il paziente e il medico libero
professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutte le ipotesi di cui al primo
periodo ("in tali casi"), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale proprio ed assimilato; non sarebbe
dunque consentita la limitazione (affermata per certa da Trib. Varese cit.) del ripristino del modello aquiliano per le sole
ipotesi di responsabilità da contatto. Deve, allora, pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo
tenore letterale, alla collocazione sistematica e alla ratio certa dell'intervento normativo (da individuarsi nella parziale
depenalizzazione dell'illecito sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso operare alcuna scelta circa il regime
di accertamento della responsabilità civile, ma ha voluto soltanto far salvo ("resta comunque fermo") il risarcimento del
danno anche in caso di applicazione dell'esimente penale, lasciando l'interprete libero di individuare il modello da
seguire in ambito risarcitorio civile.
In conclusione: l'art. 3, 1° co. L. n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell'attuale inquadramento contrattuale della
responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad una politica di abbattimento dei risarcimenti giacché la
responsabilità solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che verrebbero riassoggettati al regime aquiliano
conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di 'spedalità' o 'assistenza sanitaria' che viene
tacitamente concluso con l'accettazione del paziente), ma si limita (nel primo periodo) a determinare un'esimente in
ambito penale (i cui contorni risultano ancora tutti da definire), a fare salvo (nel secondo periodo) l'obbligo risarcitorio e a
sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della
responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali).
Ritenuto, pertanto, che anche nel caso in esame (concernente un'ipotesi responsabilità della USL 8 per il pregiudizio che
si assume conseguito a condotta colposa dei sanitari dell'ospedale) debbano applicarsi i criteri propri della responsabilità
contrattuale (cfr. Cass. Sez. Un. n. 577/2008 secondo cui l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare
l'esistenza del contratto - o il contatto sociale - e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare
l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore
l'onere di dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, non è stato eziologicamente
rilevante), si osserva:
- non sono emerse ragioni per disattendere le conclusioni del C.T.U., il cui elaborato risulta fondato su una disamina
completa degli elementi disponibili ed esente da vizi logici o metodologici;
- risulta, dunque, condivisibile - in primo luogo - la conclusione di collocare la torsione del testicolo in periodo perinatale,
ossia al momento del parto o nelle prime ore di vita del neonato;
- parimenti condivisibile appare l'addebito (l'unico) del mancato controllo delle condizioni del neonato per circa 15 ore: la
convenuta - che ne era onerata- non ha provato che nell'intervallo registrato in cartella clinica siano stati effettuati altri
!54
controlli né ha offerto giustificazioni plausibili circa l'insussistenza di ragioni che giustificassero un controllo più
ravvicinato;
- risulta corretto anche il giudizio di adeguatezza dell'operato dei sanitari a partire dal momento in cui venne riscontrata
la tumefazione bluastra dello scroto, e cioè la scelta di far effettuare con immediatezza una visita specialistica urologica
e, subito dopo, di indirizzare con urgenza il neonato verso un centro di alta specializzazione (sicuramente più adeguato
ad affrontare il caso, tenuto conto della delicatezza della patologia insorta in un neonato nel primo giorno di vita),
raggiungibile in poco più di un'ora dall'ospedale di Arezzo;
- accertata pertanto l'esistenza di un ritardo colposo nella diagnosi (che, verosimilmente, avrebbe potuto essere
anticipata di alcune ore se il bambino fosse stato sottoposto prima al controllo), deve escludersi tuttavia che tale ritardo
abbia impedito di salvare il testicolo, causandone la necrosi e la necessità di asportazione;
- sulla base dei dati statistici illustrati dal C.T.U., è emerso, infatti, che le possibilità di salvare il testicolo in caso di
torsione che interessi un neonato sono minime (ossia intorno al 5%, atteso che la percentuale del 33% riferita da uno
studio condotto su tre soli casi non ha significato statistico) anche in caso di diagnosi tempestiva;
- apparendo, dunque, di gran lunga "più probabile che non" l'ininfluenza del ritardo diagnostico, non appare possibile
stabilire un nesso causale apprezzabile fra tale ritardo e la necrosi del testicolo (tanto più che anche in caso di diagnosi
più precoce l'esplorazione chirurgica avrebbe dovuto comunque essere differita per l'evidenziata necessità di trasferire il
neonato in un centro di alta specializzazione);
- esclusa pertanto la sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva dei sanitari e il pregiudizio sofferto dal
neonato, devono rigettarsi entrambe le domande;
- le ragioni della decisione (segnatamente, l'accertata sussistenza di un profilo di colpa e la non palese infondatezza
originaria della domanda) giustificano l'integrale compensazione delle spese di lite, ferme restando le spese di C.T.U. a
carico degli attori.
TRIBUNALE DI TERAMO 20.05.2014
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Omesso lo svolgimento del processo, ai sensi del nuovo testo dell'art. 132, comma 2 nr. 4 c.p.c. introdotto dall'art. 45,
comma 17 legge nr. 69 del 2009 (entrata in vigore il 04.07.2009), ed applicabile ai processi pendenti in forza della norma
transitoria di cui all'art. 58, comma 2 legge cit., appare comunque opportuno ripercorrere, per via di estrema sintesi, le
domande e le eccezioni proposte al fine di esporre le ragioni della presente decisione.
Alla base della controversia che si definisce con la presente sentenza, vi sono i seguenti fatti:
- In data 5.6.2008 la sig.ra Ci. veniva sottoposta presso l'Ospedale Civile di Giulianova ad intervento di colecistectomia
per colecistite acuta.;
- ad un'ora dall'intervento la sig.ra Ci. afferma che aveva iniziato ad avere delle difficoltà respiratorie e che nonostante i
propri parenti richiedessero al personale infermieristico la visita di un medico, solo il mattino seguente veniva visitata e le
veniva somministrata una terapia medica avendo riscontrato un peggioramento della dispnea ed un rialzo pressorio;
- a causa di un enfisema sottocutaneo nelle regioni sovraclaveari e ascellari veniva effettuata di urgenza una radiografia
che metteva in evidenza il detto enfisema ed una TAC torace che evidenziava: aree a vetro "smerigliato" nelle regioni
mantellari polmonari. Presenza di iperdensità occupante il terzo medio della trachea compatibile in prima ipotesi con
raccolta di materiale sieroematico. Si associa importante enfisema mediastinico e sottocutaneo.
- la paziente veniva pertanto condotta all'Ospedale di Teramo e sottoposta a broncoscopia da cui risultava: .... la trachea
presenta, a circa cm 4 dal piano glottico, un voluminoso coagulo ematico associato ad un flap di mucosa staccata dalla
parete posteriore della trachea; tale situazione determina una ostruzione quasi completa del lume tracheale;.
- si decideva quindi di rimuovere il coagulo; si esplorava l'albero bronchiale rimuovendo altri coaguli ematici sia dal
bronco principale dx che dal principale sin, che risultava completamente ostruito; dopo accurata toilette e ripristino della
pervietà delle vie respiratorie si effettuava una nuova accurata esplorazione, osservando la presenza di una lacerazione
lineare della pars membranacea delle trachea, che traeva origine approssimativamente a circa 4-5 cm dalla cricoide e
terminava in prossimità della carena tracheale;
- effettuato il trattamento descritto, la paziente, intubata e sedata veniva ricondotta dall'anestesista di Giulianova presso
la Rianimazione del proprio ospedale per proseguire le cure del caso (nota scheda di anestesia), con diagnosi di
ostruzione tracheale da coagulo da lesione iatrogena;
- la paziente faceva ingresso in reparto alle ore 20,40 e veniva sottoposta ad assistenza respiratoria artificiale attraverso
RA; dopo 1 ora aveva un improvviso calo pressorio con perdita di coscienza ed una nuova crisi dispnoica;
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- veniva dunque trasferita d'urgenza all'Ospedale Civile di Pescara dove veniva sottoposta ad un nuovo intervento
chirurgico con la seguente diagnosi: "lacerazione iatrogena della pars membranacea della trachea - Sutura";
- nell'immediato post operatorio compariva una complicanza vascolare di fistola artero venosa con voluminoso ematoma
inguinale sin da venopuntura femorale omolaterale con rapida anemizzazione; la sig. Ci. veniva politrasfusa, sottoposta
a nuovo intervento chirurgico per la chiusura della fistola ed il drenaggio dell'ematoma;
- la paziente veniva definitivamente dimessa in data 23/06/2008 con diagnosi "Lacerazione tracheale iatrogena della
pars membranacea a livello endotoracico alto - Pregressa colecistectomia effettuata in laparoscopia in altro ambiente Voluminoso ematoma inguinale sin da venopuntura della femorale omolaterale - Sutura di fistola arterovenosa.".
La sig.ra An. Ci. conveniva quindi in giudizio la AUSL di Teramo ed il dott. Fr. Ca. per ottenere il risarcimento dei presunti
danni subiti a seguito del suindicato intervento di colcistectomia eseguito presso l'Ospedale Civile di Giulianova il 5
giugno 2008 e nel corso del quale "a causa di una errata manovra di intubazione da parte dell'operatore, subiva la
rottura della pars membranacea tracheale, lesione che aveva provocato un enfisema sottocutaneo nella regione laterale
ed anteriore del collo che rendeva necessario un ulteriore intervento chirurgico per suturare la lacerazione. Secondo la
tesi attorea, tale lesione "iatrogena" non sarebbe stata notata durante la fase operatoria né curata nella fase post
intervento e solo nel pomeriggio dell'intervento veniva chiesto il trasferimento presso l'Ospedale di Teramo e poi in quello
di Pescara.
Premesso che la sig.ra Ci. fu successivamente sottoposta ad intervento di sutura e copertura della breccia tracheale
presso l'Ospedale di Pescara, risolvendo così del tutto il problema, l'attrice sostiene che sarebbero comunque residuati
danni che sono stati quantificati in complessivi € 82.960,00.
Si costituivano in giudizio la AUSL di Teramo ed il dr. Ca. quale dirigente medico di anestesia e rianimazione dell'O.C. di
Giulianova i quali insistevano per il rigetto della domanda sostenendo che l'attività medica espletata era stata eseguita
osservando tutte le prescrizioni mediche e che i danni erano da ricondurre a cause del tutto estranee alla prestazione
medica, probabilmente legate alle condizioni anatomico-funzionali proprie della trachea della paziente, che non
potevano consentire ai sanitari del nosocomio di prevedere le conseguenze verificatesi.
Il dr. Ca. comunque chiedeva di essere autorizzato a chiamare in causa la Carige Assicurazioni per essere tenuto
indenne nel caso di condanna al risarcimento dei danni.
Si costituiva in giudizio la Carige Assicurazioni la quale in via preliminare eccepiva l'inammissibilità della chiamata
avendo erroneamente indicato il nome del medico da manlevare e facendo presente che l'assicurazione era stata
stipulata dall'Azienda ospedaliera; inoltre faceva rilevare che il dr. Ca. non aveva diritto nel caso di soccombenza
dall'essere tenuto indenne dalle spese legali sostenute in quanto in base all'art. 17 del contratto sottoscritto era
necessario l'assenso della società nella scelta del procuratore; nel merito insisteva per il rigetto della domanda attorea.
La causa è stata istruita con ctu medico-legale ed all'esito trattenuta in decisione all'udienza del 21 gennaio 2014 con la
concessione dei termini ex art. 190 c.p.c..
I dati fattuali così come sopra riassunti sono supportati dalla documentazione medica prodotta dalla parte attrice e
dall'esame peritale operato dal consulente tecnico d'ufficio.
Si è già introduttivamente illustrata la ricostruzione fattuale emersa all'esito dell'espletamento dei mezzi istruttori,
coincidente con quella allegata da parte attrice nell'atto di citazione e che i convenuti non hanno contestato sotto il profilo
fattuale, dandone però una lettura tale da escludere ogni profilo di colpa in capo ad essi.
Conseguentemente, il thema decidendum si restringe alla qualificazione in termini di colpa della condotta del sanitario
convenuto e della azienda ospedaliera provinciale, alla sussistenza del nesso eziologico tra tale condotta e i pregiudizi
lamentati dalla sig.ra Ci..
Quanto al profilo di inadempimento professionale riguardante lo svolgimento in sé dell'attività professionale medica, è da
premettere che da tempo la giurisprudenza ha chiarito che la responsabilità del medico ha natura contrattuale ed è
regolata dagli articoli 1176 e 2236 del codice civile. A tal proposito una importante sentenza della Corte di Cassazione n.
23918 del 9 novembre 2006 ha espresso in maniera chiara e convincente le argomentazioni che sorreggono tale
orientamento (a cui questo Tribunale aderisce con convinzione) con riferimento alla natura del contratto, alla nozione di
diligenza nell'adempimento, al riparto dell'onere della prova.
In merito alla natura del contratto di spedalità si afferma che la responsabilità sia del medico che dell'ente ospedaliero
per inesatto adempimento della prestazione ha natura contrattuale ed è quella tipica del professionista, con la
conseguenza che trovano applicazione il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell'onere
della prova e i principi delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza e al
grado della colpa (Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in motiv.; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; 14 luglio 2003, n. 11001; 21
luglio 2003, n. 11316, in motiv.).
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Sulla diligenza del debitore si argomenta che trattandosi di obbligazioni inerenti all'esercizio di attività professionali, la
diligenza nell'adempimento deve valutarsi, a norma dell'art. 1176 c.c., comma 2, con riguardo alla natura dell'attività
esercitata. Dispone poi l'art. 2236 c.c. che se la prestazione implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà, il
prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo e colpa grave.
Gli artt. 1176 e 2236 c.c. esprimono dunque l'unitario concetto secondo cui il grado di diligenza dev'essere valutato con
riguardo alla difficoltà della prestazione resa.
Se è vero che la colpa è inosservanza della diligenza richiesta, si afferma anche che l'obbligazione assunta dal
professionista consiste in un'obbligazione di mezzi, cioè in un'attività indirizzata ad un risultato. Il mancato
raggiungimento del risultato non determina inadempimento (v. Cass. 26 febbraio 2003 n. 2836). L'inadempimento (o
l'inesatto adempimento) consiste nell'aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, mentre il
mancato raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale alla non diligente prestazione o alla colpevole
omissione dell'attività sanitaria.
Tale essendo la natura della responsabilità in discussione, è da rilevare che quanto al riparto dell'onere della prova le
Sezioni Unite (30.10.2001, n. 13533), nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno
enunciato il principio secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno,
ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera
allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere
della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato enunciato con riguardo all'inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente
la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando
ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento.
Applicando questo principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico, deve affermarsi
che il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il
contratto e allegare l'inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento.
Sotto il profilo poi della causalità è oramai consolidato un orientamento che, discostandosi da quello tradizionale, afferma
che la valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i
quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo,
nonché al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar
rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, presenta tuttavia
notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità
penale e responsabilità civile. Nel processo civile vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile
che non", mentre nel processo penale vige infatti la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio".
La distinzione poi tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di
particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell'onere della prova, ma dovrà essere
apprezzata per la valutazione del nesso causale, del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando
comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.
Al riguardo, la giurisprudenza ha ormai da tempo elaborato un sistema ad hoc in materia di responsabilità medica nella
prospettiva di rafforzare la tutela del paziente, soggetto debole per definizione, il quale è tenuto a provare
esclusivamente la propria condizione precedente all'intervento medico, il nesso causale tra il peggioramento dello stato
di salute e la prestazione del sanitario, o comunque il mancato raggiungimento del risultato programmato, e, ove
eccepito, la non speciale difficoltà dell'intervento ex art. 2236 c.c. In presenza di tali elementi - si è detto - è possibile
argomentare in via presuntiva l'imputabilità dell'evento pregiudizievole alla condotta colposa del sanitario sul quale,
pertanto, ricade l'onere di provare di aver eseguito la prestazione con diligenza, ossia che l'esito negativo dell'intervento
è derivato da un evento imprevisto o imprevedibile o comunque non accertabile secondo l'ordinaria diligenza
professionale ex art. 1176, secondo comma, c.c.
Infine si richiama il noto principio della c.d. "vicinanza della prova". Porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la
prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno quella linea evolutiva della giurisprudenza in
tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento
dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla.
Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma
costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l'oggetto
è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio
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che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto
di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto.
Orbene, il consulente tecnico d'ufficio, nella sua relazione e nei successivi chiarimenti resi, con argomentazioni logiche e
conclusioni coerenti, che in questa sede si condividono, ha affermato che la lesione iatrogena riportata dalla sig.ra Ci. è
da porre in nesso causale diretto con una condotta anestesiologica poco scrupolosa e non aderente alle evidenze
scientifiche: 1) per non aver compiutamente valutato la previsione di difficoltà all'IOT seguendo i criteri proposti dalle
leges artis sull 'argomentoe, all''occorrenza, aver predisposto ed usufruito di altri presidi di assistenza respiratoria ad
esempio sovraglottici; 2) per aver procurato una lesione da IOT verosimilmente legata anche alla scelta di tubo
orotracheale di dimensioni esuberanti rispetto al caso in oggetto o alla broncoaspirazione o alla estubazione con cuffia
ancora in tensione. Condizione questa che potrebbe aver creato una condizione irritativa o delle micro lesioni
ischemiche della parete tracheale poi manifestatesi più compiutamente nel post operatorio anche in seguito a colpi di
tosse o a vomito, eventi per i quali non sono state prescritte terapie, anche al bisogno 3) per non aver verificato che la
prescrizione di monitoraggio frequente dei parametri vitali fosse posta in essere al di là di un routinario controllo
infermieristico di reparto.
Tale condotta negligente configura i profili della responsabilità professionale colposa da parte dell'anestesista.
Non sono invocabili altre cause relative a patologie tracheali preesistenti sulla paziente né anamnestiche né obiettivate
nel preoperatorio, periodo in cui la sig.ra Ci., oltre ai medici del reparto di degenza, è stata visitata da cardiologo
( ...respiro eupnoico), anestesista (app. resp:ndr) ed ha effettuato RX torace (negativo per patologie) senza alcun rilievo
di patologia a carico dell'apparato respiratorio. Del resto le " ...condizioni anatomico funzionali proprie della trachea della
sig. ra Ci. che avrebbero favorito o indotto la lesione della trachea... " invocate dal dott. Lo. non sono state da lui
descritte o circostanziate nella descrizione dell'intervento d'urgenza da lui effettuato in data 07/06/08.
Si ritiene pertanto che la lesione iatrogena legata alla manovra di intubazione/estubazione rimanga la causa unica e
sufficiente da sola a determinare l'evento: tale causa infatti, oltre a rispondere, come visto, alla possibilità scientifica ed
alla esclusione di altre cause, possiede i caratteri qualitativi, quantitativi, cronologici e modali idonei al verificarsi
dell'evento avendo già escluso patologie documentate preesistenti a carico della trachea.
Riguardo l'evoluzione dell'evento stesso non si può fare a meno di segnalare una inadeguata condotta assistenziale da
parte del personale infermieristico di reparto nell'immediato post operatorio laddove, a fronte della prescrizione da parte
dell'anestesista di " ..controllare con frequenza PA, FC, respirazione e diuresi" effettuava sporadiche misurazioni della PA
tralasciando completamente gli altri parametri richiesti. Non si può escludere che tale condotta negligente abbia influito
negativamente sulla gravità e la tempestività della diagnosi.
Dal reperto broncoscopico del rinvenimento di coagulo ostruente l'albero bronchiale trova riscontro anche quanto
lamentato nell'atto di citazione di parte attrice riguardo l'emottisi che sarebbe comparsa durante la notte e di cui non
risulta traccia nel diario infermieristico.
Il c.t.u. arriva alla formulazione di tali conclusioni dopo aver evidenziato quali sono le attività mediche che devono essere
poste in essere nelle manovre di intubazione per prevenire/evitare lacerazioni del tipo di quelle subite dall'attrice.
Dopo aver indotto l'anestesia per via endovenosa attraverso la somministrazione di farmaci, ottenuta la paralisi
muscolare, deve seguire necessariamente il supporto della ventilazione da parte dell'anestesista attraverso i dispositivi
che ritiene idonei alla circostanza. Nella maggior parte dei casi, soprattutto negli interventi che prevedano l'intervento
sulle cavità toracica e addominale , si ricorre alla IOT [intubazione orotracheale]. La manovra, pur essendo ben nota e
codificata per 1'anestesista secondo criteri clinici, teoricopratici e nel rispetto delle LG, non è scevra da rischi. Consiste
nel visualizzare, attraverso l'uso del laringoscopio, l'aditus ad laringem attraverso cui introdurre un tubo che garantisca la
ventilazione artificiale.
Le difficoltà e le relative complicanze possono presentarsi in tutti gli step della manovra: vi può essere, ad esempio, una
difficoltosa visualizzazione dell'aditus per una conformazione anatomica particolare del paziente, per difetto o ridotta
apertura della bocca, per la presenza di progenismo o prognatismo etc. Tutte queste condizioni anatomo funzionali sono
oggetto di valutazione da parte dell'anestesista che è tenuto ad effettuarle, in caso di intervento programmato, prima
dell'induzione dell'anestesia durante la visita preoperatoria.
Poiché la gestione delle vie aeree rimane un punto cruciale per l'anestesista, le società scientifiche di settore hanno
codificato una serie di accorgimenti utili e mirati alla prevenzione di eventi avversi legati alla difficoltosa gestione delle vie
aeree essendo risultati questi ultimi la maggiore causa di morbilità e mortalità anestesiologica. Tali accorgimenti sono
legati a valutazioni antropometriche che, una volta rilevate e messe in relazione tra loro, danno un buon indirizzo sulla
possibilità di trovarsi di fronte ad una intubazione agevole o meno.
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Come è noto agli addetti ai lavori, lo score di Mallampati in scala crescente di difficoltà da grado I a IV, rappresenta solo
uno di questi strumenti di valutazione di predittività di IOT difficile, legata alla visibilità, in visione diretta, delle strutture
del cavo orale e faringeo; a questa valutazione, ritenuta da sola insufficiente per stabilire la difficoltà all'intubazione,
vanno associate le altre misurazioni (distanza interincisiva; distanza di Patil; angolo di Bellhouse e Dorè, ecc ...)l che,
nell'insieme, consentono un più preciso inquadramento della situazione anatomica del paziente ed una adeguata
informazione sulla possibilità di IOT difficoltosa con le relative scelte strategiche che ne conseguono.
Alla luce di tali considerazioni scientifiche il c.t.u. fa notare che dalla cartella anestesiologica si ricava che la visita di
valutazione preoperatoria veniva effettuata il giorno precedente l'intervento in data 04/06/2008; riguardo la valutazione
della gestione delle vie aeree veniva descritta la presenza di protesi dentaria fissa e la classe di Mallampati 3. Da
quanto appena detto e da tutta la vasta letteratura di settore, tale valore preannuncia una intubazione potenzialmente
difficoltosa, certo non impossibile; tale sospetto di difficoltà deve essere validato o smentito attraverso altre
valutazioni cliniche che non risultavano riportate nella scheda anestesiologica.
Per cui il consulente ritiene ragionevole che l'anestesista, non avendo adeguatamente verificato e valutato la possibile
difficoltà all'IOT, abbia dovuto procedere all'introduzione del tubo tracheale in maniera non agevole traumatizzando
strutture anatomiche faringo-laringo- tracheali.
Inoltre rileva dalla scheda che è stato posizionato un tubo orotracheale di diametro 7,5; stando alla antropometria della
paziente (alt. circa 150 cm, peso 40 Kg definibile brachitipo) anche sulla scelta di tale presidio muove qualche riserva
facendo presente che è ben noto che il diametro del tubo deve essere proporzionato alla corporatura ed all'aditus del
paziente (motivo per cui sono disponibili tutti i diametri di tubo la cui ampiezza di lume varia di volta in volta di mezzo mm
affinché siano adattabili il più possibile alle caratteristiche anatomiche di ciascuno); a questo va aggiunto che il tubo,
nella paziente, era stato cuffiato creando verosimile incongrua iperpressione sulle pareti tracheali. Proseguiva ritenendo
che la scelta di un tubo orotracheale di calibro inferiore sarebbe stato sufficiente per ventilare una paziente con le
caratteristiche somatiche della sig.ra Ci..
Pertanto, in relazione al descritto score Mallampati n 3, ad un tubo tracheale verosimilmente incongruo per eccesso,
poteva considerarsi fondata l'ipotesi della lesione iatrogena da intubazione orotracheale nella paziente anche in accordo
con la letteratura di settore e le evidenze scientifiche; esse sono infatti univocamente concordi nel far risalire le lesioni
tracheali sovrapponibili a quelle della sig.ra Ci. a due tipologie di cause: 1) cause meccaniche riconducibili a problemi
legati alla manovra di intubazione orotracheale, alla incongua pressione della cuffia o a manovre improprie a paziente
intubato (alle manovre di laringoscopia propriamente detta con più tentativi, alla introduzione del tubo, alla tensione della
cuffia del tubo, a dislocazione del tubo cuffiato, ad estubazione con tubo
non perfettamente scuffiato, a broncoapirazione con sondino etc.); in altre parole sono tutte fasi estremamente delicate
che possono essere causa di lesione iatrogena della trachea; 2) cause anatomiche legate a malformazioni congenite,
stati di malacia della trachea, esiti di traumi, esiti di chemio/radioterapia etc.
Ma in cartella non risultava alcuna evidenza relativa a patologie in atto o pregresse a carico della parete tracheale della
paziente e più in esteso a patologie dell'albero respiratorio.
Un ulteriore dato che il c.t.u. definisce insolito nella conduzione dell'anestesia condotta dal dott. Ca. risulta poi quello
relativo al punto 10) della memoria a suo favore da parte dell'avv. Milia " ..verificata la giusta pressione della cuffia
annessa al tubo orotracheale mediante manometro apposito ... "; tale procedura descritta dall'avvocato esula dalla prassi
anestesiologica ordinaria, non è prevista né raccomandata dalle LG sull'argomento per la routine anestesiologica; è
riservata a situazioni in cui il tubo resti a dimora per lungo tempo (terapia intensiva, rianimazione) o in particolari
interventi di chirurgia toracica che prevedano l'impiego di tubi particolari, cannule tracheostomiche etc. Il dato non viene
riportato sulla scheda di anestesia, peraltro scrupolosa e dettagliata compilata dall'anestesista. Un secondo momento
che merita approfondimento è la prescrizione dell'anestesista per il post operatorio "... controllare con freq uenza PA, FC,
respirazione e diuresi ... ", indicazione peraltro parzialmente disattesa che, se da una parte esprime una diligente
condotta professionale, sottintende una preoccupazione ed una eccessiva misura cautelare non giustificate per il tipo di
intervento chirurgico effettuato e per un'anestesia che, per come è descritta, era andata scevra da alcun tipo di
complicanza.
In ogni caso lo stesso controllo dei parametri vitali prescritti per il reparto doveva essere effettuato dall'anestesista stesso
nell'immediato post operatorio cosa che, stando alle tempistiche riportate in cartella, non risulta essersi verificato.
Il consulente conclude che l'invalidità permanente residuata alla sig. ra Ci. sia rappresentata da: " ipostenia del cingolo
scapolare dx - inestetismo sostenuto da esiti cicatriziali post chirurgici a carico dell'emitorace sottoscapolare dx e radice
coscia sin.". Tali postumi sono valutati come danno biologico effettivo pari a 6 (sei) %.
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In ordine alla richiesta di parte attrice di indicare il danno psicologico subito dalla stessa, in particolare l'evidente
sindrome ansioso-depressiva con crisi di panico causata da stress post-traumatico, il dott. St. espone che la paziente, al
di là di un inevitabile ricordo negativo degli eventi di cui ha memoria solo parziale, non presenta patologie della sfera
psichica propriamente dette né, alla visita peritale o in precedenza, ha documentato il ricorso a specialisti del campo o
prescrizioni diagnostiche o terapeutiche ad esso inerenti.
Erra inoltre il ctp di parte convenuta laddove afferma che la complicanza subita dalla sig.ra Ci. non sia affatto da
ascrivere ad una condotta negligente, con conseguente profilo di responsabilità professionale colposa da parte
dell'anestesista, bensì ad una situazione contingente che, nel caso specifico, rientra nel rischio, casuale, insito nella
procedura anestesiologica dell'intubazione/estubazione.
In particolare il prof. Ma. sostiene che in relazione alla previsione di intubazione difficile, il Dott. Am. Ma., autore della
visita anestesiologica preoperatoria, pur avendo valutato un Mallampati III, e avendo verificato, come sempre accade gli
altri parametri, non avesse ritenuto che vi fossero le condizioni per una intubazione difficile.
Ma tale affermazione del CTP non è provata da alcuna risultanza documentale in cartella; non risulta cioè in cartella che
l'anestesista abbia valutato gli altri parametri come richiesto e raccomandato dalle LG in materia; quindi che l'anestesista
abbia effettuato tali controlli e che non li abbia descritti sono libere deduzioni ed affermazioni del CT di parte che non
trovano risultanza in cartella; infatti, secondo il CTU, non è mancante la descrizione di "possibile intubazione difficile",
come sottolinea il CTP , quanto la verifica e la relativa descrizione degli altri parametri predittivi, già descritti, da
affiancare al Mallampati III per una valutazione più completa, nonché la riferita misurazione della pressione della cuffia
endotracheale.
In ordine al diametro del tubo e alla pressione della cuffia, il CTP di parte convenuta osserva che dalle cartelle di Teramo
e Pescara emerge che i colleghi anestesisti hanno utilizzato lo stesso calibro di tubo endotracheale (vedi descrizioni
interventi); fa notare il c.t.u. che un tubo attraverso il quale passare con apparecchi endoscopici per la fibroscopia
operativa deve necessariamente avere un calibro più ampio rispetto ad un tubo che garantisca ossigeno e aria per la
ventilazione intraoperatoria; quindi necessariamente i colleghi chiamati ad intervenire strumentalmente sulla trachea
della paziente avevano dovuto fare ricorso al tubo più ampio possibile; del resto la stessa letteratura citata dal CT riporta
tra le cause di lesione tracheale l'uso di tubi di calibro più largo di quello appropriato in pazienti donne.
Riguardo la misurazione della pressione della cuffia, nella cartella anestesiologica, peraltro molto accurata, non risulta
descritta ma risulta riferita a voce. In tema di responsabilità professionale del medico, le omissioni nella tenuta della
cartella clinica al medesimo imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto adempimento, per difetto di
diligenza, in relazione alla previsione generale dell'art. 1176, secondo comma, cod. civ., sia come possibilità di fare
ricorso alla prova presuntiva, poiché l'imperfetta compilazione della cartella non può, in linea di principio, tradursi in un
danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria. In tema di responsabilità professionale del
medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere
che l'opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate possibilità di evitare il danno; a
tal fine, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa
condotta del medico e le conseguenze dannose sofferte dal paziente, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a
provocare il danno, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della "vicinanza
alla prova", cioè della effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla.
Infine in relazione alle prescrizioni e al controllo post-operatorio, non risulta documentato in cartella alcun periodo di
controllo post operatorio nonostante le prescrizioni dell'anestesista; risulta infatti dalla scheda di anestesia che le
procedure anestesiologiche si sono protratte almeno fino alle ore 10.20 e che alle 10,30 la paziente veniva inviata in
reparto.
Non vengono prese in esame dal CT di parte convenuta il tipo, l'entità delle lesioni che la paziente ha riportato ma
soprattutto la causa eziologica dotata di fondatezza scientifica che possa essere addotta come nesso causale atta a
determinarle secondo la criteriologia medico legale: "a circa cm 4 dal piano glottico, un voluminoso coagulo ematico
associato ad un flap di mucosa staccata dalla parete posteriore della trachea; tale situazione determina una ostruzione
quasi completa del lume tracheale " .... «L'esplorazione della trachea con fibroscopio permette di documentare una
ampia breccia della mucosa della parte membranacea della trachea che origina subito al di sopra della carena tracheale
attraverso la quale protrude l'esofago determinando una quasi completa ostruzione del lume tracheale". Tali dati clinici
non possono essere valutati quale una mera complicanza: si trattava di intervento di "routine" e, comunque, di non
difficile esecuzione, per cui una volta adottati tutti gli accorgimenti imposti dalla tecnica utilizzata il verificarsi di una
complicanza come quella della fattispecie de qua, è un'ipotesi rarissima, che si poteva evitare con l'uso dell'ordinaria
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diligenza, vale a dire con l'adozione di tutte le misure idonee a prevenire il danno, diligenza che il sanitario era in grado
di osservare.
Va inoltre qui ribadito che secondo la regola sopra ribadita in tema di ripartizione dell'onere probatorio, provati dal
paziente la sussistenza ed il contenuto del contratto, se alla prestazione dell'attività non consegue il risultato
normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso incombe invero al medico (a fortiori ove trattisi di
intervento semplice o routinario) dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata
diligenza che lo stesso ha impedito di ottenere. In caso di mancata o inesatta realizzazione di tale intervento il medico e
la struttura sono conseguentemente tenuti a dare la prova che il risultato "anomalo" o anormale rispetto al convenuto
esito dell'intervento o della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull'esperienza,
dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza
dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto.
L'imposizione, secondo la sopra richiamata regola generale, mediante la previsione della presunzione dell'onere della
prova in capo al debitore, il cui fondamento si è indicato nell'operare del principio di c.d. vicinanza alla prova o di
riferibilità (v. v. Cass., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 21/6/2004, n. 11488; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez.
Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n. 12103), va ancor più propriamente ravvisato, come sottolineato anche in
dottrina, nel criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua
sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista nell'applicazione di
regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del
debitore come nel caso specializzato nell'esecuzione di una professione protetta. Il danneggiato è tenuto a provare il
contratto e ad allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una
condotta improntata alla dovuta diligenza. Mentre al debitore, presunta la colpa, incombe l'onere di provare che
l'inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivo (v. Cass.,
2875/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488).
E laddove tale prova non riesca a dare, secondo la regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., il medesimo rimane
soccombente.
Senza sottacersi che laddove la causa del danno rimanga alfine ignota, le conseguenze non possono certamente
ridondare a scapito del danneggiato (nel caso, del paziente), ma gravano sul presunto responsabile che la prova
liberatoria non riesca a fornire (nel caso, il medesimo e/o la struttura sanitaria), il significato di tale presunzione
cogliendosi - come sopra esposto - nel principio di generale favor per il danneggiato, nonché della rilevanza che assume
al riguardo il principio della colpa obiettiva, quale violazione della misura dello sforzo in relazione alle circostanze del
caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione dovuta arrechi danno (anche) a terzi, senza peraltro indulgere a
soluzioni radicali, essendo attribuita la possibilità di liberarsi dalla responsabilità (cfr., in diverso ambito, Cass.,
20/2/2006, n. 3651). Né può d'altro canto trascurarsi che, in caso di concretizzazione del rischio che la regola violata
tende a prevenire, in base al principio del nesso di causalità specifica non può prescindersi dalla considerazione del
comportamento dovuto e della condotta nel singolo caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni
conseguenti a quest'ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584;
Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582. e, da ultimo, Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., 29/8/2011, n. 17685).
Orbene, con specifico riferimento alle doglianze di parte convenuta, il consulente ha chiaramente affermato che la
lesione verificatasi era certamente evitabile dal medico convenuto ove l'intervento fosse stato correttamente praticato. In
definitiva per quanto emerso nel corso del presente processo vi è stata proprio quella "concretizzazione del
rischio" (complicanza rara) che la regola violata tende a prevenire, ragion per cui in base al principio del nesso di
causalità specifica non può prescindersi dalla considerazione del comportamento dovuto e della condotta nel singolo
caso in concreto mantenuta, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest'ultima astringe rimane invero
presuntivamente provato.
In conclusione, alla luce delle succitate linee guida interpretative, deve ritenersi che nel caso di specie sia "più probabile
che non" che se fosse stata rispettata la regola cautelare di effettuare la manovra di intubazione in maniera corretta, la
lesione non si sarebbe verificata. Da quanto sopra non può non conseguire la responsabilità delle parti convenute, non
solo della struttura ospedaliera ma anche del dott. Ca. il quale eseguì personalmente l'intervento de quo.
Ciò posto, può procedersi alla quantificazione dei danni in aderenza a quanto statuito dalla Suprema Corte a Sezioni
Unite (sentenza 11 novembre 2008, n. 26972), la quale ha ribadito la bipolarità, nel sistema della responsabilità aquiliana
previsto dal vigente codice civile, tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c., nella
sua lettura costituzionalmente orientata).
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Al riguardo è da premettere che sono stati lamentati danni di natura patrimoniale, costituti dalle spese sostenute, e di
natura non patrimoniale subiti dalla persona di Ci. An. consistenti nella lesione biologica lamentata nonché il danno,
definito da parte attrice, morale ed esistenziale.
Sotto tale ultimo profilo il consulente tecnico d'ufficio, nominato nel corso del giudizio, ha evidenziato, che le lesioni
subite dalla sig.ra Ci. hanno determinato un'inabilità temporanea totale per 40 giorni e 60 giorni di inabilità temporanea
parziale al 50%.
Secondo i barèmes comuni nella pratica medico legale, i postumi invalidanti residuati, quale maggior danno subito, sono
stati quantificati dal consulente in una misura pari a sei punti percentuali di invalidità.
La consulenza viene condivisa in toto da questo giudicante per l'adeguatezza dell'iter logico che la caratterizza e la
coerenza delle conclusioni.
Passando dunque alla individuazione dei danni patiti dall'attrice e riferendosi a quelli non patrimoniali, è da prestare
ossequio all'insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, contenuto nei passaggi motivazionali che di
seguito si riportano alla stregua dell'art. 118 disp. att. c.p.c. "Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale,
nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.
Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla
lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non
suscettiva di suddivisione in sottocategorie.
Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita
del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.
È compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli,
individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale
riparazione.
Viene in primo luogo in considerazione, nell'ipotesi in cui l'illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente
accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di
durata, integra pregiudizio non patrimoniale.
Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio
non patrimoniale. Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell'animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio,
dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza.
Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o
psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta
attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un
terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note
tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva
consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua
interezza" (Cass. Civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
Per quanto, allora, parte attrice abbia richiesto il risarcimento del danno biologico, del danno morale, del danno alla vita
di relazione, del danno esistenziale, intesi come categorie ontologiche differenziate, la liquidazione del pregiudizio non
patrimoniale subito sarà in questa sede unitaria, poiché la sofferenza lamentata è strettamente attinente alla lesione
dell'integrità psicofisica.
In accordo con l'orientamento giurisprudenziale di questo Ufficio giudiziario, venendo in rilievo un danno alla salute è
opportuno utilizzare, quale criterio base di liquidazione, quello del c.d. "punto tabellare", basato su un criterio progressivo
in relazione alla gravità della menomazione ed uno regressivo in relazione all'età del danneggiato, utilizzando all'uopo le
tabelle elaborate nel 2009 dal Tribunale di Milano (così come aggiornate all'anno 2013), le quali tengono in conveniente
conto che la lesione all'integrità psicofisica implica altresì una naturale sofferenza che, pur non potendo essere
configurata come autonomo danno di natura morale, deve ottenere adeguato ristoro.
Al riguardo è appena il caso di evidenziare che mentre in passato questo giudicante aveva espresso una preferenza per
la liquidazione a mezzo tabelle romane, a seguito del recente intervento della Suprema Corte in funzione di uniformità
sul piano dell'utilizzo del potere equitativo (cfr. Corte di cassazione, sezione III, sentenza 7 Giugno 2011, n. 12408
"poiché l'equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da
lesione dell'integrità psico-fisica presuppone l'adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione
uniformi che, in difetto di previsioni normative (come l'art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve
entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati
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presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto") appare maggiormente
opportuno adottare il criterio liquidativo della tabelle milanesi .
Chiaramente, come già ritenuto in altre pronunzie di merito (Trib. Torino, 4 giugno 2009, n. 4297, in
www.lex24.ilsole24ore.com) , l'adozione dei criteri milanesi (che pure hanno l'innegabile pregio di rendere prevedibile il
quantum risarcitorio, favorendo in tal senso accordi stragiudiziali) non vale ad escludere la possibilità, da un lato, di
"personalizzare il trattamento liquidatorio sulla base delle allegazioni delle parti e delle prove raggiunte, modulando il
trattamento liquidatorio anche al di sotto dei valori minimi (e non solo oltre i massimi) laddove manchi del tutto la prova,
anche presuntiva, circa la sussistenza dei pregiudizi componenti il danno non patrimoniale ulteriori rispetto al danno
biologico, posto che, come puntualizzato dalla stessa Suprema Corte, in assenza di situazioni che apprezzabilmente si
discostino da quelle ordinarie, l'esigenza di personalizzazione non può essere intesa come «dovere del giudice di
riconoscere sempre e comunque più di quanto liquidabile in applicazione dei valori tabellari» (così Cass. Sez III n.
28423/2008)"; dall'altro, "di valorizzare l'eventuale lesione concorrente di diritti costituzionali fondamentali diversi dal
diritto alla salute, ma incidenti sulla dignità morale dell'individuo (ad esempio lesione del diritto alla famiglia ex art. 29
Cost., all'onore ecc), tramite un'ulteriore personalizzazione del danno in termini di ulteriore - aumento del quantum
liquidato a titolo di danno non patrimoniale in considerazione della maggior gravità del danno stesso discendente dalla
plurioffensività dell'illecito, sempre subordinatamente al riscontro della rilevanza del danno e della gravità dell'offesa e
tenuto presente che si tratta sempre di un unico danno non patrimoniale".
Ed invero, anche a prescindere dalle molteplici ed accese controversie, soprattutto dottrinarie, in relazione al dictum
della Cassazione a Sezioni Unite ed alla autonomia ontologica del danno morale, della configurazione ed individuazione
del danno esistenziale nonché alle tecniche liquidative dei danni in questione, un dato certo che questo Giudicante
ritiene sussistente nel diritto vivente della Suprema Corte e che risulta consegnato all'interprete con decisione dalle citate
"sentenze di S. Martino" è che il danno non patrimoniale, integralmente risarcibile, va inquadrato nella categoria del
danno conseguenza e pertanto non liquidabile automaticamente in caso di illecito aquiliano ma deve essere
specificamente allegato e provato dalla parte che intende ottenerne il ristoro.
Si è molto discusso sull'onere di allegazione e di prova di tale danno a seguito delle pronunzie a Sezioni Unite del 2008.
È infatti un dato evincibile dalla stessa sentenza in esame che detta prova può essere fornita per presunzioni in
relazione alla rilevanza del bene attinto ed alla gravità e serietà della lesione subita.
A riguardo, questo Giudice ritiene che l'onere di allegazione e prova da parte dell'attore in relazione al danno non
patrimoniale patito sia tanto più gravoso quanto meno evidente sia la lesione subita alla persona.
È in particolare da distinguere, secondo tale ricostruzione, il caso in cui l'attore abbia subito direttamente dall'illecito un
danno biologico ed in relazione ad esso chieda la liquidazione del danno non patrimoniale nella sua integrità - addirittura
ricollegato ad un fatto astrattamente qualificabile come reato - (dove peraltro più rilevante sarà il pregiudizio biologico e
meno rigorosa sarà la prova richiesta in relazione agli ulteriori pregiudizi) dai casi in cui il danno non patrimoniale
biologico sia richiesto come conseguenza solo indiretta dell'illecito lamentato (si pensi ai casi di danni riflessi da perdita
parentale o affettiva) ovvero sia stato richiesto il risarcimento di pregiudizi non patrimoniali non consistenti nella lesione
del bene salute.
In questi ultimi casi il giudice dovrà richiedere e verificare con maggior rigore l'allegazione della prova dei pregiudizi non
patrimoniali (anche biologici indiretti), non potendo agevolmente ricorrere allo strumento dell'allegazione implicita e della
presunzione di prova.
È questa, a parere di questo Giudice, la principale portata innovativa in termini di prova del danno non patrimoniale che
sembra uscire dal dettato delle sentenze del 2008 e su tali principi è da ritenere che si debba assestare la valutazione
dell'interprete.
Orbene, fatta questa debita premessa, è da rilevare che, nel caso di specie, parte attrice non ha dedotto elementi tali da
indurre il giudicante a discostarsi in aumento dagli standard liquidatori delle tabelle, né può ritenersi (anche in
considerazione della intensità della lesione all'integrità psicofisica) che manchi del tutto la prova, anche presuntiva, circa
la sussistenza di una componente di sofferenza e su base organica (dolore) e su base emozionale (sensazione
spiacevole collegata al ricordo dell'accaduto). Parte attrice avrebbe dovuto provare, per ottenere la personalizzazione del
danno subito, uno stravolgimento definitivo (non transeunte) delle sue abitudini di vita, un'alterazione/cambiamento della
sua personalità estrinsecantesi in uno sconvolgimento dell'esistenza, e cioè in radicali cambiamenti di vita; quello che
può presuntivamente dedursi dagli elementi raccolti è la sussistenza di quella sofferenza che come innanzi precisato
oramai viene considerata come componente insita nello stesso danno biologico, per il solo fatto della lesione al bene
salute, unitariamente considerata (si può dunque operare una liquidazione congiunta del danno non patrimoniale
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derivante da lesione permanente all'integrità psicofisica e del danno non patrimoniale derivante dalla stessa lesione in
termini di dolore e sofferenza soggettiva).
Pertanto nel passare alla liquidazione dei danni non patrimoniali, intesi correttamente come categoria ampia ed
omnicomprensiva, occorre tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il
risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici (cfr. Cass. Civ., sez. un., 11 novembre 2008, n.
26972).
Le parti convenute fanno riferimento alla nuova disciplina della responsabilità medica a seguito dell'intervento del
decreto Balduzzi. Come è noto il legislatore, con decreto legge n. 158/2012 (come convertito dal la legge 189/2012) ha
introdotto all'art. 3, comma 1, una disposizione del seguente tenore: " L'esercente la professione sanitaria che nello
svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile. Il
giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma". Invocano
in particolare tale disciplina sostenendo che vadano applicate le tabelle delle micropermanenti.
In primis occorre subito rilevare che, in ogni caso, la disposizione citata lascia senza dubbio immutata la responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria, sia per il fatto proprio sia per il fatto del personale dipendente o ausiliario,
riguardando esclusivamente la responsabilità del personale sanitario.
Con riguardo a tale ultima ipotesi (la responsabilità del personale sanitario), il riferimento all'art. 2043 c.c. contenuto
nell'art. 3, co. 1° della citata l. n. 189/12 ha indotto a dubitare della possibilità di continuare ad applicare in modo
generalizzato i criteri di accertamento della responsabilità contrattuale, fino a far ritenere che "il Legislatore sembra
(consapevolmente e non per dimenticanza) suggerire l'adesione al modello di responsabilità civile medica come
disegnato anteriormente al 1999, in cui, come noto, in assenza di contratto, il paziente poteva richiedere il danno
iatrogeno esercitando l'azione aquiliana"(Trib. Varese, n. 1406 del 26.11.12).
Sennonché, il Tribunale di Arezzo, con una recentissima sentenza (sentenza del 14/02/2013) offre una interpretazione
della disposizione citata senz'altro più conforme ai principi dell'ordinamento giuridico vigente, negando che ne discenda
una configurazione di natura extracontrattuale della responsabilità del medico. Il Giudicante, muovendo da analisi
letterale del testo normativo, ne individua la ratio, rilevando come il legislatore abbia inteso, con la citata norma,
escludere la responsabilità penale del sanitario che sia incorso in colpa lieve pur attenendosi alle linee guida e buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Il secondo periodo della disposizione, continua il Giudice di merito, è
riferito a tale specifica ipotesi, e chiarisce che l'esclusione della responsabilità penale non fa tuttavia venir meno l'obbligo
di risarcire il danno (in ciò sostanziandosi l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.), nella cui quantificazione il giudice dovrà
tenere conto dell'avvenuto rispetto delle linee guida e buone pratiche.
Pertanto, poiché la norma deve essere unitariamente interpretata, precisa la sentenza in commento, non può
estrapolarsi dal secondo periodo (" In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile") un
principio generale ed autonomo riguardante la natura giuridica della responsabilità medica " che imponga un revirement
giurisprudenziale nel senso del ritorno ad un'impostazione aquiliana, con le consequenziali ricadute in punto di riparto
degli oneri probatori e di durata del termine di prescrizione" (come vorrebbe la sentenza del Tribunale di Varese n. 1406
del 26.11.12). Infatti, il generico richiamo all'art. 2043 c.c. (senza alcuna indicazione in merito ai criteri da applicare
nell'accertamento della responsabilità risarcitoria - se non che deve tenersi "debitamente conto" del rispetto delle linee
guida e delle buone pratiche - e senza un richiamo alle altre norme costituenti il sistema della responsabilità
extracontrattuale) deve essere inteso unicamente come "limitato all'individuazione di un obbligo ('obbligo di cui all'art.
2043 del codice civile', che equivale a dire 'obbligo di risarcimento del danno')", non potendosi affermare "che richiamare
un obbligo equivalga a richiamare un'intera disciplina" e dovendosi quindi concludere "che il riferimento all'art. 2043 c.c.
(si badi: non alla disciplina dell'illecito extracontrattuale, ma esclusivamente all'obbligo "di cui all'art. 2043 del codice
civile") sia del tutto neutro rispetto alle regole applicabili e consenta di continuare ad utilizzare i criteri propri della
responsabilità contrattuale ".
Ad ulteriore sostegno delle proprie argomentazioni, rileva il Giudice di merito che "se fosse vero che il richiamo all'art.
2043 impone l'adozione di un modello extracontrattuale, si dovrebbe pervenire, a rigore, alla conseguenza - inaccettabile
- di doverlo applicare anche alle ipotesi pacificamente contrattuali (quali sono quelle ex art. 2330 e segg.), dal momento
che il primo periodo dell'art. 3, 1° co. considera tutte le possibili ipotesi di condotte sanitarie idonee ad integrare reato
(che possono verificarsi indifferentemente sia nell'ambito di un rapporto propriamente contrattuale, quale quello fra il
paziente e il medico libero professionista, che in un rapporto da contatto sociale) e il secondo periodo richiama tutte le
ipotesi di cui al primo periodo ("in tali casi"), senza operare alcuna distinzione fra ambito contrattuale proprio ed
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assimilato; non sarebbe dunque consentita la limitazione (affermata per certa da Trib. Varese) del ripristino del modello
aquiliano per le sole ipotesi di responsabilità da contatto ".
Pertanto, deve pervenirsi alla ragionevole conclusione che, conformemente al suo tenore letterale, alla collocazione
sistematica e alla ratio certa dell'intervento normativo (da individuarsi nella parziale depenalizzazione dell'illecito
sanitario), la norma del secondo periodo non ha inteso operare alcuna scelta circa il regime di accertamento della
responsabilità civile, ma ha voluto soltanto far salvo ("resta comunque fermo") il risarcimento del danno anche in caso di
applicazione dell'esimente penale, lasciando l'interprete libero di individuare il modello da seguire in ambito risarcitorio
civile. Ritiene questo Giudicante che l'art. 3, 1° co. l. n. 189/12 non impone alcun ripensamento dell'attuale
inquadramento contrattuale della responsabilità sanitaria (che non sarebbe neppure funzionale ad una politica di
abbattimento dei risarcimenti giacché la responsabilità solidale della struttura nel cui ambito operano i sanitari che
verrebbero riassoggettati al regime aquiliano conserverebbe comunque natura contrattuale, in virtù del contratto di
'spedalità' o 'assistenza sanitaria' che viene tacitamente concluso con l'accettazione del paziente), ma si limita (nel primo
periodo) a determinare un'esimente in ambito penale, a fare salvo (nel secondo periodo) l'obbligo risarcitorio e a
sottolineare (nel terzo periodo) la rilevanza delle linee guida e delle buone pratiche nel concreto accertamento della
responsabilità (con portata sostanzialmente ricognitiva degli attuali orientamenti giurisprudenziali) ".
Va inoltre ricordato che ai sensi dell'art. 3, terzo comma del Decreto Balduzzi, D.L. n. 158/2012, è stato prevista per la
quantificazione del risarcimento del danno conseguente a malpractice sanitaria, l'applicazione delle tabelle contenute
negli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni.
Questo Giudicante, ritornando su quello che era stato inizialmente il suo convincimento, ritiene che il decreto Balduzzi e
di conseguenza i criteri risarcitori previsti nello stesso non possano essere applicati al caso in esame in quanto il fatto
illecito generatore dell'obbligo risarcitorio si è verificato in epoca precedente alla sua entrata in vigore.
Il diritto al risarcimento del danno sorge in capo al danneggiato sin dal momento in cui si è verificato il fatto illecito da cui
siano derivate le lesioni. Lo scarto temporale tra il sorgere del diritto e la definizione del quantum da risarcire non può
che avere carattere di neutralità e tantomeno può risolversi a detrimento del diritto stesso del danneggiato come
accadrebbe con una modifica in pejus dei criteri liquidativi in corso di trattazione del sinistro; quando si parla di
risarcimento del danno da fatto illecito, l'obiettivo non è altro che la reintegra del patrimonio del danneggiato qual' era
all'epoca del prodursi del danno e il riferimento al valore del bene perduto dal danneggiato all'epoca del fatto illecito.
Il Tribunale di Pisa, con una pronuncia del 2013, muovendo dalla qualificazione in termini di norma sostanziale
dell'articolo richiamato, chiarisce come il medesimo non possa essere applicato retroattivamente. Ne consegue che per
tutti i fatti verificatisi prima dell'entrata in vigore del decreto Balduzzi (il caso in esame riguardava, ad esempio, un
intervento operatorio svoltosi nell'anno 2000) potranno trovare applicazione, in sede di liquidazione del danno, le Tabelle
Milanesi, la cui vocazione nazionale è stata più volte richiamata dalla Corte di Cassazione (Cass. 7 giugno 2011 n.
12480 e Cass. 30 giugno 2011 n. 14402).
Circa le altre ombre che l'art. 3 del Decreto Balduzzi ha gettato sulla disciplina della responsabilità sanitaria, con
particolare riferimento al sibillino richiamo all'art. 2043 c.c., in un contesto che da anni si era assestato sui canoni della
responsabilità contrattuale (sia per quanto concerne i rapporti medico-paziente che quelli ospedale-paziente) il Tribunale
di Pisa sembrerebbe allinearsi a quell'orientamento, già espresso dal Tribunale di Arezzo con sentenza 14 febbraio 2013
che, a dispetto del nuovo dato normativo, tende comunque a ricondurre la responsabilità medico-sanitaria al paradigma
dell'art. 1218 c.c. piuttosto che a quello della tutela aquiliana. Precisa infatti il Tribunale di Pisa che "in tema di
responsabilità professionale del medico chirurgo e della struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, sussistendo un
rapporto contrattuale (quand'anche fondato sul solo contatto sociale), in base alla regola dell'art. 1218 c.c., il paziente ha
l'onere di allegare l'inesattezza dell'adempimento, non la colpa né, tantomeno la gravità di essa, dovendo il difetto di
colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all'art. 2236 c.c.) essere allegata e provata
dal medico".
È quindi evidente che, in ogni caso, le novità del Decreto Balduzzi non potrebbero applicarsi ai processi in corso, pena
la lesione dell'affidamento del cittadino per l'improvviso mutamento delle regole del gioco (in tal senso anche Tribunale di
Cremona, sentenza del 19 settembre 2013). Il diritto al risarcimento della lesione alla salute, essendo danno
conseguenza, come più volte ricordato dalla Suprema Corte, viene ad esistenza solo quale effetto (conseguente) della
condotta illecita. Ciò significa che il diritto al risarcimento, sorge nel momento stesso in cui si concretizza la lesione del
diritto alla salute, e tale fatto avviene, salvo rarissimi casi, nel momento in cui il sinistro si verifica.
Ma se così è, come in effetti è, allora il diritto sostanziale alla tutela risarcitoria entra nel patrimonio del danneggiato sin
dal momento in cui avviene la lesione e, quale diritto quesito, non può essere limitato o addirittura eliminato da
disposizioni di natura sostanziale (come quelle di cui ai commi in questione) venute in essere successivamente, giusto il
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disposto dell'art. 11 delle preleggi. In caso contrario, infatti, si violerebbe quello che la Corte Costituzionale ha definito
"l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica" (Corte Cost. 12 novembre 2002, n. 446; in dottrina, dello stesso
avviso, M. Bona, La nuova R.C.A. dopo la l. 27/2012, Maggioli editore, 2012, pag. 84 e ss; in tema di diritto quesito
all'indennizzo del danno alla salute da errore nelle emotrasfusioni ed irretroattività delle norme si veda Cass. 23 marzo
2010, n. 6923). Che le disposizioni in questione abbiano natura sostanziale e non meramente interpretativa o
processuale è palese, e non risulta nemmeno che la legge abbia espressamente sancito la loro retroattività.
Appare, opportuno ricordare, comunque, che, in caso di dubbio, deve propendersi per la irretroattività della norma (cfr
Cass. 29 gennaio 2003, n. 1379).
Il risultato non cambia anche accedendo alla teoria c.d. del "fatto compiuto", secondo la quale le nuove disposizioni di
legge non estendono la loro efficacia ai fatti "compiutamente" perfezionatisi sotto il vigore della legge precedente,
benché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti.
Per dirla con le parole della Suprema Corte, "il principio fondamentale della irretroattività della legge, enunciato nell'art.
11 preleggi, comporta da un lato che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti esauriti, a quelli
sorti anteriormente ed ancora in vita se in tal modo si disconoscono gli effetti già verificatisi dell'atto (o del fatto) o si
venga a togliere efficacia in tutto o in parte alle conseguenze attuali o future di esse; dall'altro, che la nuova legge possa
essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute, ancorché conseguenti ad un fatto passato
quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbono essere presi in considerazione in sé stessi
prescindendo dal fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che attraverso tale applicazione sia modificata la
disciplina giuridica dell'atto (o del fatto) generatore". (Cass. 25 luglio 1978, n. 3709).
Possono, dunque, applicarsi all'estimatio del danno i criteri fissati dalle tabelle milanesi, senza necessità di alcuna
correzione.
In base a tali criteri di liquidazione può dunque riconoscersi, ad una inabilità temporanea totale di giorni 40 ed ad una
inabilità parziale al 50 % per 60 giorni una quota di risarcimento pari ad € 10.080,00 (€ 144,00 x 40 giorni € 5.760,00 +
144,00 x 50% x 60 giorni, € 4.320,00, considerato l'importo massimo applicabile in tabella, tenuto conto del fatto che il
periodo di inabilità è stato particolarmente doloroso e travagliato con molteplici ricoveri e rilevanti disturbi).
Poiché, alla data dell'evento dannoso, Ci. An. aveva 62 anni e la percentuale di invalidità permanente è pari al 6%,
l'applicazione dei criteri più volte citati porta ad un'ulteriore quota di risarcimento di € 8.327,00 (punto del danno non
patrimoniale - applicato il coefficiente moltiplicatore e l'aumento per la sofferenza - pari ad € 1.996,89; coefficiente
demoltiplicatore di 0,695).
Tali somme sono liquidate all'attualità.
In definitiva i danni non patrimoniali risarcibili ammontano ad € 18.407,00.
Oltre alla rivalutazione del credito, già riconosciuta, è stato chiesto da parte istante anche il riconoscimento degli
interessi sui rispettivi crediti, con decorrenza dalla data del fatto.
Infatti, su tutte le somme liquidate a titolo di risarcimento del danno deve essere riconosciuto all'attore anche il cd. lucro
cessante e cioè il risarcimento del danno derivante dalla mancata tempestiva disponibilità della somma che, ove
tempestivamente posseduta, avrebbe determinato un lucro finanziario.
In conformità al combinato disposto degli artt. 2056, 1223, 1226 e 1227 c.c., il danno da ritardo in materia di
responsabilità da fatto illecito non è presunto ex lege (non essendo applicabile, come precisato dalla Suprema Corte
nella citata sentenza, l'art. 1224 I comma c.c.), ma deve essere allegato e provato facendo ricorso anche e soltanto a
presunzioni semplici ed al criterio equitativo di cui all'art. 2056 II comma c.c.
Quindi, non avendo fornito l'attore alcun elemento di prova in ordine ai possibili impieghi delle somme dovute, il cd. lucro
cessante dovrà pertanto essere equitativamente calcolato ex art. 2056 c.c., secondo l'orientamento della Suprema Corte
(Cass. Sez. Un. 17.2.1995 n. 1712 sul calcolo di interessi per debiti di valore), applicando, ad una base di calcolo
costituita dall'attuale credito come sopra determinato devalutato all'epoca del fatto (5.6.2008), e rivalutato anno per anno
secondo gli indici Istat, un saggio di interesse corrispondente al rendimento medio degli interessi sui titoli di Stato (Bot,
CCT) nel periodo di riferimento.
Sul complessivo ammontare del credito risarcitorio così come determinato decorrono interessi in misura legale dalla
pubblicazione della sentenza al saldo.
Passando infine ai soggetti tenuti a risarcire il danno, essi sono il medico convenuto, dott. Fr. Ca., soggetto che ha
operato l'intervento e le cure, e la Azienda Unità Sanitaria Locale di Teramo, dovendo ritenersi fondata anche la
domanda che imputa alla Azienda la responsabilità per l'operato del professionista convenuto.
Con riferimento al tipo di responsabilità si osserva che la responsabilità dell'ente ospedaliero, gestore di un servizio
pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione
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della prestazione medica, inserendosi nell'ambito del rapporto giuridico pubblico tra l'ente gestore ed il privato che ha
richiesto ed usufruito del servizio, ha natura contrattuale di tipo professionale.
Ne consegue che la responsabilità diretta dell'ente e quella del medico, inserito organicamente nella organizzazione del
servizio, sono disciplinate dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in
esecuzione di un contratto d'opera professionale (segnatamente dalla disposizione di cui all'art. 2236 c.c.).
Il medico convenuto ha chiesto di essere manlevato dalla compagnia di assicurazioni per quanto egli stessi fosse tenuto
a pagare in conseguenza della invocata responsabilità.
La terza chiamata ha tuttavia chiesto il rigetto anche della domanda di manleva sostenendo (sorvolando sulla prima
eccezione in quanto è palese l'errore materiale in cui è incorso la parte nell'indicare un nome diverso da quello del
soggetto che doveva essere manlevato) che legittimata a chiamare in causa la società poteva essere solo la AUSL di
Teramo ed inoltre ha chiesto che venisse rigettata la domanda della chiamante di rimborso delle spese di lite per le
ragioni illustrate nella parte espositiva.
In primis va precisato che è pacifico che il Ca. fosse dipendente della Asl Teramo, e che l'Azienda avesse stipulato con la
CARIGE una polizza assicurativa a copertura della propria responsabilità civile. In tale polizza si legge che
l'assicurazione è estesa alla responsabilità civile personale dei dipendenti dell'Assicurato.
Tale clausola, interpretata secondo i criteri di cui agli artt. 1362, 1366 e 1370 c.c., rende palese che quella stipulata tra
CARIGE e la Asl è una polizza a favore del terzo, ex art. 1411 c.c., per effetto della quale l'assicuratore si obbliga a
tenere indenne dalle pretese risarcitorie dei terzi non solo la Asl, ma anche i suoi dipendenti o medici convenzionati. Ne
deriva che ben poteva il medico chiamare in causa la Compagnia una volta evocato in giudizio dalla sig.ra Ci.,
nell'inerzia della società di Assicurazioni, nonostante la denuncia del fatto illecito.
Per quanto concerne infine la contestata operatività della polizza nella vigenza dell'art. 17 in base al quale la società non
riconosce le spese incontrate dall'Assicurato per legali o tecnici che non siano da essa designati, si fa notare che è del
tutto irrilevante tale richiamo in quanto l'assicurato va tenuto indenne di quanto lo stesso dovrà versare al danneggiato a
titolo di danni, interessi e spese di lite della parte avversa, non chiede cioè il rimborso delle spese che dovrà rifondere al
proprio difensore.
Ne deriva che l'azione di manleva proposta dal medico convenuto deve essere accolta.
Venendo infine alla regolazione della spese di lite, nei rapporti tra attore e convenuti, le stesse seguono la soccombenza
dell'Asl e di Ca. Fr..
Nel rapporto processuale tra Ca. Fr. e terza chiamata, sussistono gravi motivi per compensare tra le parti le spese di lite.
Per i medesimi motivi le spese di consulenza tecnica d'ufficio devono essere poste definitivamente a carico di Ca. Fr. e
della Azienda Unità Sanitaria Locale di Teramo in egual misura.
SENTENZA CASS. CIV. 4030/2013
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
7. Il ricorso principale merita accoglimento, mentre inammissibile risulta il ricorso incidentale. Per chiarezza espositiva si
offre una sintesi dei motivi di ricorso ed a seguire la confutazione in diritto.
7.1. SINTESI DEI MOTIVI DEL RICORSO B..
Nel primo motivo si deduce error in procedendo per avere la Corte di appello ritenuto nuova domanda in appello la
specificazione della causa petendi non nella errata conduzione dello intervento chirurgico ma nella errata diagnosi
compiuta dai sanitari circa la patologia da cui era affetta la paziente e sulla cui sussistenza era stato reputato dai medici
necessario tale intervento.
Nel secondo motivo si deduce error in iudicando per violazione dell'art. 1218 c.c., ed il vizio della motivazione in
relazione allo accertamento di un peggioramento della patologia della paziente quale conseguenza della conclusione
dello intervento. Si rileva in particolare che mentre la prova del peggioramento è medicalmente accertata, la Corte
esclude che tale esito sia di per sè imputabile a colpa medica, piuttosto che ad una c.d. complicanza non prevedibile.
Nel terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 1218 e 2697 c.c., art. 13 Cost., e art. 54 c.p., nonchè il vizio della
motivazione in relazione alla prova del danno da mancato consenso informato e del diritto del paziente ad essere
informato. La tesi del ricorrente è che nella fattispecie in esame il consenso fu disinformato o male informato. Infatti la
erroneità della diagnosi che accertava la presenza di un tumore, peraltro inesistente, indusse il paziente a sopportare un
intervento chirurgico lesivo della sua integrità fisica anche se per finalità salvifiche, ma l'errore diagnostico, accertato dal
consulente di ufficio sulla base di circostanze e riscontri documentali medici, risulta aver vulnerato lo assenso
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all'intervento, che ebbe esiti in parte nefasti e peggiorativi delle condizioni preesistenti, che pure esigevano cure, ma non
invasive o invalidanti.
7.2. SINTESI DEL RICORSO DELLA REGIONE EMILIA ROMAGNA. Deduce la Regione nell'unico motivo l'error in
iudicando in relazione agli artt. 2059 e 2697 c.c., ed il vizio della motivazione. La ricorrente incidentale chiede
correggersi al motivazione della sentenza di appello nel punto in cui riconosce la violazione del consenso informato,
senza poi provvedere alla quantificazione del danno. La correzione deriva dalla evidenza della corretta esecuzione dello
intervento, con tutti gli accorgimenti per la riduzione del rischio delle complicanze.
8. CONFUTAZIONE IN DIRITTO. 8.1. ACCOGLIMENTO DEI TRE MOTIVI DEL RICORSO PRINCIPALE. Il procuratore
generale ha concluso per lo accoglimento delle tre censure, con precisa e coerente argomentazione che tiene conto
degli arresti di questa Corte di cassazione sulla complessa e delicata materia della responsabilità medica, che indotto il
legislatore ad una recente novella depenalizzatrice della responsabilità penale del medico per il caso di colpa lieve. Il
riferimento è al D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3 comma 1, convertito nella L. 8 novembre 2012, che esclude la
responsabilità medica in sede penale, se l'esercente della attività sanitaria si attiene a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica. Ma la stessa norma prevede che in tali casi, la esimente penale non elide l'illecito
civile e che resta fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto
positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. La novellazione, che non riguarda la fattispecie in
esame, ha destato non poche perplessità anche di ordine costituzionale, in relazione all'art. 77 Cost., comma 2, in
quanto il testo originario del decreto legge non recava alcuna previsione di carattere penale e neppure circoscriveva il
novero delle azioni risarcitorie esperibili da parte dei danneggiati.
La premessa che indica una particolare evoluzione del diritto penale vivente, per agevolare l'utile esercizio dell'arte
medica, senza il pericolo di pretestuose azioni penali, rende tuttavia evidente che la materia della responsabilità civile
segue le sue regole consolidate, e non solo per la responsabilità aguiliana del medico, ma anche per la c.d.
responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale. PUNTO fermo, ai fini della
filomachia, gli arresti delle sentenze delle Sezioni unite nel novembre 2008, e tra queste la n.26973, ed in particolare nel
punto 4.3 del c.d. preambolo sistematico, che attiene ai c.d. contratti di protezione conclusi nel settore sanitario, ed agli
incipit giurisprudenziali ivi richiamati, e seguiti da decisioni di consolidamento.
Orbene, tenendo conto del diritto vigente, arricchito della interpretazione del diritto vivente e dalla giurisprudenza
nomofilattica di questa Corte di legittimità, la prima censura risulta fondata, posto che la Corte di appello erroneamente
ritiene nuova la specifica censura svolta nell'atto di appello in ordine alla deduzione dell'errore diagnostico sulla patologia
che determina i medici ad un atto chirurgico invasivo e invalidante, erroneamente assentito.
Sul punto è da osservare come il tema originario della responsabilità medica sin dai due primi atti introduttivi, avesse
indicato unitariamente il medesimo fatto dannoso, evidenziando l'errore diagnostico poi riscontrato in sede di consulenza
medica, di guisa che la causa petendi, riconducibile alla responsabilità aquiliana e alla responsabilità da contatto sociale,
sì riferiva ad unico fatto costitutivo della fattispecie circostanziata, da sussumere sotto la disciplina dei principi di
responsabilità professionale e della struttura sanitaria, ribaditi sistematicamente nelle sezioni unite citate e successive
conformi tra cui Cass. 3^ sez. civile 8 giugno 2012 n. 9290 su conformi conclusioni del PG e Cass. sez. sesta ord. 13269
del 2012.
La specificazione dello error in iudicando riferito alla sequela dello errore diagnostico e intervento chirurgico assentito
sulla base di errata informazione delle condizioni di salute, non costituisce domanda nuova, ma è atto intrinseco alla
deduzione di una domanda diretta ad accertare la responsabilità civile secondo le circostanze note ed allegate.
PARIMENTI incongrua è la motivazione che da un lato accerta il peggioramento delle condizioni del paziente a seguito
dell'intervento chirurgico e d'altro lato esclude la imputabilità soggettiva in ordine alla mancata realizzazione della
prestazione di garanzia, in un intervento detto routinario.
LA PROVA della colpa lieve non esime dalla responsabilità civile, che considera la colpa in una dimensione lata,
inclusiva del dolo e della diligenza professionale, e nel caso di specie i medici e la struttura non hanno dato la prova
esimente della complicanza non prevedibile o non prevenibile, prova che incombe alla parte che assume l'obbligo di
garanzia della salute, e che non è stata data, mentre, al contrario il paziente ed i consulenti di ufficio e di parte attestano
un aggravamento delle condizioni di salute non altrimenti spiegabile se non per una difettosa conduzione della
prestazione sanitaria nella sua continuità.
SUSSISTE pertanto e la violazione della regola generale dell'art. 1218 c.c., in relazione ad una situazione di
inadempimento obbiettivamente grave,per la configurazione del rapporto contrattuale di garanzia, e per la difettosa
motivazione che non considera il tema e l'onere della prova, che il paziente fornisce come prova dell'aggravamento e
della sequenza naturale tra l'atto invasivo ed ablativo e la invalidazione scientificamente non dovuta.
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PARIMENTI FONDATO è IL TERZO MOTIVO, che ha impegnato il Procuratore generale in una accurata ricostruzione
dello stato della giurisprudenza, a partire dalle SU 11 gennaio 2008 n.576 richiamate dalle successive SU del novembre
appena citate, cui questa Corte aggiunge la recente sentenza del 27 novembre 2012 n. 20894, che ancora puntualizza
le condizioni di manifestazione e di formazione del consenso informato, che ha natura bilaterale ed esprime un incontro
di volontà libere e consapevoli, consenso che si configura quale diritto inviolabile della persona e che trova precisi
referenti negli artt. 2, 13 e 32 Cost..
La fattispecie in esame si caratterizza da un contestuale errore di informazione e di assenso all'atto chirurgico, ma
l'errore diagnostico non deriva da colpa lieve, ma da una gravissima negligenza, l'avere operato prima di avere la
certezza di un tumore conclamato e diffuso tale da rendere improrogabile lo intervento.
Mentre, si assume, che si trattava di intervento routinario.
NON è dunque avvenuto un incontro di volontà efficace in relazione ad un contenuto di informazione medica
assolutamente carente e fuorviante.
Sulla base di queste considerazioni il ricorso principale deve essere accolto e la cassazione è con rinvio vincolante
quanto ai principi di diritto da osservare, pur nella valutazione delle prove iuxta alligata et probata ma pur sempre
facendo attenzione all'onus probandi.
8.2. INAMMISSIBILITA' DEL RICORSO DELLA REGIONE EMILIA ROMAGNA. Il ricorso nell'unico motivo deduce un
error in iudicando per la violazione degli artt. 2059 e 2697 c.c., per pervenire ad una correzione della motivazione nel
punto in cui la Corte di appello ammette in astratto l'an debeatur per violazione del consenso informato. Ma sul punto
questa Corte accoglie proprio la censura proposta dalla vittima di un consenso disinformato, e dunque il motivo, nella
sua formulazione, difetta di specificità.
PARIMENTI incomprensibile appare il motivo dedotto come vizio motivazionale, con citazione di un arresto
giurisprudenziale di Cass. 9 febbraio 2007 n. 2847, che non appare pertinente al caso di specie.
ANCHE su questo punto la censura non attiene alla logica motivazionale ma ad un error in iudicando che
sostanzialmente configura la ripetizione della prima censura.
SENTENZA CASS. CIV. 8940/2014
RESPONSABILITÀ CIVILE - Professionisti - medici e paramedici - Art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012,
convertito in legge n. 189 del 2012 - Esercenti la professione sanitaria - Irresponsabilità penale per le ipotesi di
colpa lieve - Clausola di salvezza dell'obbligo ex art. 2043 cod. civ. - Portata - Configurazione legislativa della
responsabilità del sanitario come extracontrattuale - Esclusione - Irrilevanza della colpa lieve anche nell'ambito
della responsabilità civile - Esclusione. L'art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di conversione 8 novembre 2012, n.
189, nel prevedere che "l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee
guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve", fermo restando,
in tali casi, "l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile", non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la
configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma
intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della colpa lieve.
Responsabilità medica - Art. 3, legge n. 189/2012 - Istituzione di una responsabilità extracontrattuale Esclusione. L'art. 3, comma 1, l. n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione
sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando
dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., poiché "in lege aquilia et levissima culpa venit", vuole
solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve in ambito di
responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità
medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento
dell'orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n.
4792/2013).
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Cass. Civ. 26 giugno 2012, n. 10616
Massima
Stante la sussistenza di un generale obbligo del medico di controllare gli strumenti utilizzati durante l'intervento
chirurgico, il chirurgo operatore ha un dovere di controllo specifico del buon funzionamento dell'apparecchiatura
necessaria all'esecuzione dell'intervento, al fine di scongiurare possibili e non del tutto imprevedibili eventi che possano
intervenire nel corso dell'operazione.
Cass. Civ. 17 febbraio 2011, n. 3847
Massima
Il medico che operi all'interno di una clinica privata, ne sia o meno dipendente, ha sempre il dovere di informare il
paziente di eventuali carenze o limiti organizzativi o strutturali della clinica stessa: ove ciò non faccia, egli risponde in
solido con la clinica del danno patito dal paziente in conseguenza di quel deficit organizzativo o strutturale, ove possa
presumersi che il paziente, se correttamente informato, si sarebbe avvalso di altra struttura sanitaria.
Cass. Civ. 25 febbraio 2005, n. 4058
Massima
Il primario ospedaliero non può essere chiamato a rispondere di ogni evento dannoso che si verifichi in sua assenza
all'interno del reparto affidato alla sua responsabilità, non essendo dal medesimo esigibile un controllo continuo e
analitico di tutte le attività terapeutiche ivi attuate. Tuttavia, il suo dovere di vigilanza sull'attività del personale sanitario
implica, quantomeno, che egli si procuri informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri medici, cui il paziente
sia stato affidato ed, indipendentemente dalla responsabilità degli stessi, con riguardo a possibili, e non del tutto
improbabili, eventi che possono intervenire durante la degenza del paziente in relazione alle sue condizioni, allo scopo di
adottare i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche.
Cass. Civ. 14 giugno 2007, n. 13953
Massima
Il principio generale emergente dall'art. 1228 c.c., secondo il quale, nell'adempimento dell'obbligazione importante la
possibile insorgenza di una responsabilità di tipo contrattuale, il debitore risponde anche dell'opera dei terzi della cui
collaborazione si avvale, é applicabile anche al rapporto tra medico operatore e personale di supporto messogli a
disposizione da una struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende, dovendosi esigere dal chirurgo operatore un
dovere di controllo specifico sull'attività e sulle iniziative espletate dal personale sanitario, con riguardo a possibili e non
del tutto imprevedibili eventi che possono intervenire non solo durante, ma anche prima dell'intervento ed in
preparazione di esso.
Cass. Civ. 26 gennaio 2006, n. 1698
Massima
Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a
prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del
corrispettivo (che può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente),
insorgono a carico della casa di cura, accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del
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personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in
vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei
confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 c.c., all'inadempimento delle
obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell'art. 1228 c.c., all'inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro
subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione
aziendale, non rilevando in contrario a riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche 'di fiducia' dello stesso
paziente, o comunque dal medesimo scelto.
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