40 L’OPINIONE Nestore, il matelico e altri tipi siciliani uanti siciliani esistono e si contendono il campo nella terra dell’isola? Quanti tipi umani? Quante maschere della vita e del dolore? Domande. Queste, che in qualche modo riecheggiano le intense pagine che con impareggiabile acutezza Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia vollero dedicare a meglio comprendere l’isola dei loro natali, a scavarne il cuore denso di bellezza e di storia, ma sempre come intriso dal sapore di una imminente fine, di una non revocabile condanna. C’è dunque il catanese, nutrito di spirito composito, insieme greco, fenicio, normanno, e perciò dotato di una “vis” personalissima, che lo conduce alla battuta mordace, all’ironia anche volgare ma sempre tagliente come una affilatissima lama, votato alla cerca di relazioni umane autentiche al crocevia delle quali guazzare come un pesce nell’acqua, pure allo scopo di capire l’altrui buona fede, l’altrui credulità e che ha trovato nella maschera di Angelo Musco la sua più vera e indimenticabile espressione. C’è il palermitano che, per il catanese, non può che darsi come “matelico”, intraducibile epiteto destinato a designare l’animo di artistico decaduto a quella certa indolente e di se compiaciuta mollezza che gli è spesso inconsapevole compagna, figlia palese d’un che d’arabeggiante. C’è il siracusano, capace di battezzare il proprio figlio – in virtù di una sopita ascendenza – con il nome di Nestore o di Aiace; e di farlo con estrema naturalezza, come si trattasse di nomi di abituale e serena sobrietà, ai quali tutti possono e debbono essere avvezzi. C’è il girgentino, disincantato dal mondo e dall’orizzonte che rimane sempre troppo lontano, inavvicinabile; ed ancora, c’è il messinese, da generazioni in attesa di una giuntura col continente che facesse della Q sua città – così gli hanno giurato – un’attrazione mondiale; e il gelose, il randazzese, l’ennese… e non si finirebbe mai, non si potrebbe mai completare questa ricchissima ed infinita galleria di tipi umani, segnati dal tempo e dalla storia. Tutti diversi, connotati in modi di inconfondibile specificità l’uno rispetto all’altro; eppure tutti assolutamente simili, come impastati dal senso di un’attesa e di una irrimediabile stanchezza per aver troppo atteso. Ed è questo, a ben guardare, il tratto umano più caratteristico della nostra genìa, unica davvero, anche perché d’origine remota, perduta nella lontananza dei secoli, dei millenni. Siamo tutti diversi: a distanza di pochi chilometri, perfino l’accento, la parlata, la flessione dei verbi assume quasi la patente della incomprensibilità. Il catanese stenta a capire in pieno la parlata del brontese e questi a malapena intende lo stretto dialetto nisseno. Tuttavia, l’insularità si lascia cogliere come una dimensione che tutti ci accomuna indissolubilmente e che tutti ci assegna al medesimo destino di trepidante abbandono. I tempi lontani, per le scorrerie del conquistatore di turno; oggi, in forza di una ragione politica e sociale che non riesce a dispiegarsi come dovrebbe nel tessuto umano e relazionale dell’isola. Lo stesso disincanto, la stessa smaliziata rassegnazione albergano negli occhi del contadino “strambo” – come gli ennesi appellano con una evidente punta di senso di superiorità gli abitanti Calascibetta (da ex “extra.urbem”) – ed in quelli dell’uomo d’affari palermitano e del professionista catanese. E, forse, è questa la vera democrazia: l’unica possibile. Quella di una superiore e disincantata antropologia. Vincenzo Vitale