Il banditismo come fenomeno sociale

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Il banditismo come
fenomeno sociale
Lo storico anglosassone E. J.
Hobsbawm, nato nel 1917, ha scritto
nel 1969 un’opera per analizzare i
fenomeni di banditismo che si sono
presentati varie volte sulla scena
europea. Riferendosi al brigantaggio
italiano postunitario, Hobsbawm
sostiene che esso, come altre forme di
banditismo, non aveva una reale
valenza rivoluzionaria. I capi briganti
non avevano di mira la sollevazione
contadina, ma solo la vendetta contro
un nuovo governo ritenuto disonesto e
antimeridionale. Tuttavia, egli ricorda
che il banditismo può assumere un
carattere rivoluzionario quando, proprio
come accade in Italia, esso si allea con
le forze di un ordine tradizionale in
pericolo (o che è stato appena
scalzato); benché tale alleanza possa
essere stata casuale, tuttavia sovente
produce (e ciò accadde in Italia) un
rafforzamento del banditismo.
L’altro motivo per cui il banditismo può
divenire rivoluzionario è costituito dal
carattere idealistico che talvolta
assume la figura del brigante: anche in
una società rassegnata alla fame e alla
miseria, non scompare mai
l’aspirazione a un mondo più giusto.
Quando riaffiora tale confusa
aspirazione, in periodi di grandi
mutamenti politici, essa può condurre a
rivolgimenti che, pur non avendo
obiettivi politici determinati, possiedono
un carattere di rivolta sociale.
Quale parte hanno i banditi, se ne
hanno una, in queste trasformazioni
della società? Come individui, più che
ribelli politici o sociali, o ancor meno
rivoluzionari, sono contadini che si
rifiutano di sottomettersi e perciò si
staccano dagli altri contadini o, più
semplicemente, sono uomini che si
trovano esclusi dalla occupazione
usuale del proprio ceto e pertanto sono
costretti a diventare fuorilegge e a
«darsi al crimine». En masse, sono
soltanto sintomi di crisi e di tensione
all’interno della società in cui vivono sintomi di carestia, di pestilenza, di
guerra o di qualunque altra causa di
sconvolgimento. Il banditismo in sé,
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perciò, non è un programma della
società contadina, ma una forma di
autonomia per sottrarsi a essa in
circostanze particolari. I banditi, a parte
la loro volontà o capacità di rifiutare la
sottomissione individuale, non hanno
idee diverse da quelle della società
contadina (o di una parte di quella
società) di cui fanno parte. Sono uomini
d’azione e non ideologi o profeti, da cui
ci si possa aspettare nuove visioni o
nuovi piani di organizzazione politica e
sociale. Sono capi, nella misura in cui
uomini duri e sicuri di sé, forniti spesso
di personalità forti e di talento militare,
sono pronti a incarnare quel ruolo; la
loro funzione, comunque, è sempre di
aprirsi la via, non di scoprirla. Alcuni
capi briganti dell’Italia meridionale tra il
1860 e il ‘70, come Crocco e Ninco
Nanco, rivelarono doti di comando che
suscitarono l’ammirazione degli ufficiali
che combatterono contro di essi, ma per
quanto gli «anni del brigantaggio»
costituiscano un raro esempio di
un’importante sollevazione contadina
capitanata da banditi sociali, i capi
briganti non incitarono mai, in nessun
momento della rivolta, i propri uomini a
occupare le terre, e a volte, anzi,
parvero addirittura incapaci di concepire
una «riforma agraria», come oggi
verrebbe chiamata.
Il «programma» dei banditi, quando ne
hanno uno, è di difendere o di
restaurare l’ordine tradizionale, di
ristabilire le cose come «dovrebbero
essere» (e cioè, per le società
tradizionali, come si credeva che
fossero in un passato, reale o mitico). I
banditi raddrizzano i torti, correggono e
vendicano le ingiustizie, applicando un
criterio più generale di giustizia e di
equità nei rapporti fra gli uomini in
generale, e in particolare tra il ricco e il
povero, tra il potente e il debole. Il fine,
però, è modesto, e ammette che il ricco
sfrutti il povero (ma senza oltrepassare i
limiti riconosciuti tradizionalmente come
«equi»), che il potente opprima il debole
(ma entro i limiti del ragionevole, senza
dimenticare i propri doveri morali e
sociali). Il banditismo non chiede che
non ci siano più padroni e neppure si
aspetta che i signori non prendano più
le donne dei propri sudditi, ma esige
che quando lo fanno non si sottraggano
poi all’obbligo di dare un’educazione ai
propri bastardi. I banditi sociali sono, in
questo senso, dei riformatori, non dei
rivoluzionari.
Due cose però possono trasformare
quest’obbiettivo modesto, se pure
violento, dei briganti - e della società
rurale a cui essi appartengono - in un
genuino moto rivoluzionario. La prima si
ha quando il brigantaggio diventa il
simbolo, anzi la punta avanzata di
resistenza dell’intero ordine tradizionale
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contro le forze che cercano di scalzarlo
e di distruggerlo. Una rivoluzione
sociale non è meno rivoluzionaria
perché si schiera a favore della
«reazione», secondo la definizione di
chi ne è al di fuori, contro il
«progresso». I banditi - e i contadini del Regno di Napoli che insorsero in
nome del papa, del re e della fede
contro i giacobini e gli stranieri erano
dei rivoluzionari, mentre il papa e il re
non lo erano. (Come disse, verso il
1860, un capo brigante insolitamente
acuto a un avvocato suo prigioniero,
che sosteneva di essere anche lui
favorevole ai Borboni: “Tu hai studiato,
sei avvocato e credi che noi fatichiamo
per Francesco II?»). I briganti non
insorgevano a difesa del regno dei
Borboni «reale» - molti, anzi, pochi mesi
prima avevano collaborato con
Garibaldi per abbatterlo - ma per l’ideale
della società del buon tempo antico,
simbolizzata naturalmente dall’ideale
del Trono e dell’Altare. In politica i
banditi tendono a essere dei
tradizionalisti rivoluzionari.
L’altra ragione per cui i banditi
diventano dei rivoluzionari è inerente
alla società contadina. Anche chi
accetta lo sfruttamento, l’oppressione e
la soggezione come norma di vita,
sogna un mondo dove essi non
esistano: un mondo di uguaglianza, di
fratellanza e di libertà, un mondo
totalmente nuovo, privo di male.
Raramente esso è qualcosa di più di un
sogno. Raramente è qualcosa di più di
un’aspettazione apocalittica, benché in
molte società il sogno millenaristico
persista, nell’attesa dell’Imperatore
Giusto che un giorno verrà, della
Regina dei Mari del Sud che un giorno
sbarcherà (secondo la versione
giavanese di questa speranza
sommersa), e tutto allora sarà diverso e
perfetto. Ci sono, è vero, momenti in cui
l’apocalisse appare imminente; quando
l’intera struttura della società esistente,
di cui l’apocalisse simbolizza e predice il
crollo totale, sembra sul punto di
sfasciarsi, e allora la tenue fiammella
della speranza diventa la luce di una
possibile aurora.
In momenti come quelli, anche i
briganti, come tutti gli altri, sono
spazzati via. Non sono essi sangue del
sangue del popolo? Non sono forse
uomini, che nel loro modo limitato,
hanno dimostrato che il vivere alla
macchia offre libertà, uguaglianza e
fratellanza a chi paga il prezzo di essere
senza una casa, di vivere nel rischio,
sotto la minaccia di una morte quasi
certa? (Le bande dei cangaeiros
brasiliani furono paragonate seriamente
da un sociologo moderno a «una sorta
di confraternita laica» e gli osservatori
rimasero colpiti dalla straordinaria lealtà
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che regolava le relazioni personali
all’interno delle bande). I briganti non
ammettono forse, consciamente o
inconsciamente, la superiorità del
movimento rivoluzionario o
millenaristico sulle proprie attività?
da E. J. Hobsbawm, I banditi. Il
banditismo sociale nell’età moderna,
Einaudi, Torino 1971, pp. 19-22.
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