Anche il caso di monopolio si può leggere (stirandolo un po’) come esternalità
Ci possono essere altre ragioni per cui un mercato è servito da un monopolista. Ciò può derivare
da una norma vigente (monopolio legale): per esempio, in Italia la produzione e vendita di tabacchi
è per legge in mano ad un monopolio. Oppure può derivare da “barriere economiche” che il monopolista presente riesce ad imporre: per esempio, il monopolista potrebbe annunciare che è disposto
ad abbassare drasticamente il prezzo di vendita se un concorrente entra nel mercato, così da infliggergli delle perdite. Occorre però che questa “minaccia” sia credibile: se abbassare il prezzo drasticamente comporta perdite anche per il monopolista già presente, quest’ultimo potrebbe poi non attuare la minaccia. Ma è probabile che chi è già nel mercato da tempo abbia in qualche modo già
ammortizzato i costi fissi dell’investimento iniziale, e dunque abbia più possibilità di sopportare,
almeno per un certo periodo, di vendere a prezzi bassi il proprio prodotto.
In ogni caso, la causa principale dell’esistenza di monopoli nel mondo delle tecnologie
dell’informazione pare essere quella che abbiamo esplorato (forma delle curve di costo); talvolta si
registra anche il fenomeno delle “barriere economiche all’entrata”.
Ricordate la proprietà generale delle decisioni prese da soggetti che ambiscono ad ottenere il
massimo risultato per sé: costoro devono spingere il proprio livello di attività (produzione, consumo, ecc.) sino al punto in cui il loro beneficio marginale eguaglia il loro costo marginale (BMa =
CMa). In tal modo essi otterranno il massimo surplus privato.
Nel caso di un’impresa, il lato ‘beneficio’ è costituito da suoi ricavi ottenuti dalla vendita del
prodotto, dunque anziché utilizzare la dizione ‘beneficio marginale’ diremo ‘ricavo marginale’
(RMa). Il lato costo ha l’usuale significato (costo di produzione). Allora, per massimizzare il proprio surplus, che poi è il suo profitto, un’impresa farebbe bene a produrre sino al punto in cui vale
l’uguaglianza RMa = CMa.
Nel caso che stiamo esaminando (impresa monopolista con elevato costo fisso e basso costo di
replica) il costo marginale è piccolo, e supponiamo come prima che esso sia costante: quindi è una
retta orizzontale piuttosto vicina all’asse orizzontale; nessun problema a disegnarlo. Dobbiamo ora
scoprire come disegnare il suo ricavo marginale; solo dopo sapremo finalmente individuare la quantità in corrispondenza della quale accade RMa = CMa. Come nel caso del costo marginale (v. inizio
di questo pezzo), il ricavo marginale si definisce così: di quanto varia il ricavo se l’impresa produce una unità in più.
Ora, dovete ricordare che un’impresa monopolista, per definizione, è l’unica che soddisfa l’intera
domanda di mercato (che, come al solito, supporremo essere una retta decrescente per le ragioni
ormai note). Dunque sa che se vuole vendere di più deve ridurre il prezzo, ovvero che se aumenta il
prezzo potrà vendere meno.
Nel caso più diffuso, si badi bene, un’impresa di questo tipo deve vendere ogni unità di quelle da
lei prodotte al medesimo prezzo: se così non fosse, gli acquirenti che sanno che in seguito altre unità
verranno vendute a prezzo inferiore aspettano ad acquistare sino a quando il prezzo non sia sceso.
In altri termini, l’impresa monopolista ha di fronte a sé un insieme di soggetti anonimi, che non svelano la propria disponibilità a pagare (e sappiamo che davvero esistono individui che sono disposti a
pagare di più ed altri a pagare di meno): non gli conviene. Dunque, stiamo dicendo che il monopolista non riesce, in genere, a discriminare i propri acquirenti in base a quanto sono disposti a pagare,
ed è costretto a vendere ad un prezzo uniforme. L’unica cosa che sa è che se per caso volesse vendere di più, dovrebbe abbassare il prezzo per catturare altri consumatori disposti a pagare meno del
prezzo ora vigente.
Bene: cerchiamo di capire allora come varia il ricavo (totale) dell’impresa quando questa decidesse ipoteticamente di vendere una unità in più. In seguito all’aggiunta di una unità accadono le
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seguenti due cose: (a) la nuova unità viene venduta al suo prezzo (più basso di prima), e dunque pro
tanto contribuisce a fare aumentare il ricavo; (b) tuttavia anche le unità che già prima vendeva vengono ora vendute al nuovo prezzo più basso: ergo c’è un minor ricavo sulle unità che già prima vendevo. Sintesi: il ricavo varia per due ragioni: (a) un’aggiunta positiva (il prezzo della nuova unità) e
(b) un’aggiunta negativa (il minor ricavo sulle unità che già prima vendevo). Ne segue che la variazione di ricavo (il ricavo marginale) è pari al nuovo prezzo meno qualcosa, dunque è inferiore al
prezzo (di vendita della nuova unità).
Esempio (un po’ diverso da quello fatto a lezione): prima vendevo 10 unità al prezzo unitario di
20, cioè il ricavo totale era 200. Ora vendo una unità in più, cioè 11 unità, al prezzo unitario di 19, e
dunque il ricavo totale è pari a 11x19=209. Il ricavo è aumentato di 9 in seguito all’aumento di una
unità, vale a dire che il ricavo marginale è appunto 9. Di quali parti si compone questo ricavo marginale? (a) la nuova unità venduta al prezzo di 19 fa aumentare il ricavo di 19, appunto; (b) le precedenti 10 unità, che prima venivano vendute al prezzo unitario di 20, ora sono vendute al prezzo
unitario di 19, vale a dire che su quelle unità ho un minor ricavo di 10. Sommando +19 e −10 ottengo appunto +9. Chiaro?
Cosa ne deduco? Che il ricavo marginale è inferiore al prezzo di vendita! Notate però quanto segue: quando immagino di non produrre nulla e poi suppongo di aumentare di uno la quantità venduta, il secondo addendo (la parte (b) dei precedenti ragionamenti) non esiste. Infatti, se prima non
vendevo nulla, non alcun minor ricavo sulle unità precedentemente vendute. Ne segue che
l’addendo (b), quello negativo, è in questo caso pari a zero; allora il ricavo marginale è pari al prezzo. Dunque, in corrispondenza della primissima unità il ricavo marginale è uguale al prezzo, mentre
procedendo verso destra il ricavo marginale è inferiore al prezzo di vendita.
Ma il prezzo di vendita delle diverse quantità è rappresentato dalla curva di domanda. Ecco allora che abbiamo la seguente rappresentazione grafica delle curve di domanda e di ricavo marginale
P, RMa
RMa
D
Q
La curva D è quella di domanda. Una volta che avete disegnato (liberamente) questa curva, per
tracciare la curva di ricavo marginale (RMa) basta partire dalla stessa intercetta verticale, visto che
la ‘primissima’ unità ha un ricavo marginale pari al prezzo, indicato appunto dalla curva di domanda; le unità successive implicano invece un ricavo marginale inferiore al prezzo: cioè, la curva RMa
sta più in basso della curva D.
Bene, dotati di questo pezzo di analisi, procediamo a vedere qual è la scelta ottima del monopolista. Come abbiamo detto, essendo il massimo profitto privato l’obiettivo del monopolista, la sua
scelta ricade sulla quantità tale per cui RMa = CMa. Rispetto al grafico appena precedente, ci basta
aggiungere la curva di costo marginale, che come abbiamo detto prima possiamo supporre orizzontale (costo marginale costante).
La figura che segue illustra la situazione. La scelta del monopolista, al fine di massimizzare il
profitto, ricade sulla quantità QM, perché proprio in corrispondenza di quella si verifica la condizione RMa = CMa. Usando poi la curva di domanda D, possiamo anche dire quale deve essere il prez2
zo di vendita per quella quantità: tale prezzo non può che essere PM, visto che solo per quel prezzo i
consumatori sono disposti ad acquistare proprio la quantità QM.
P,
RMa
B
PM
D
RMa
0
CMa
Q
QM
Con il grafico precedente siamo anche in grado di dire quanto profitto ottiene il monopolista. Il
profitto è la differenza tra ricavi totali e costi totali. I ricavi totali sono dati dal prodotto della quantità venduta (QM) per il prezzo unitario di vendita (PM), dunque sono pari al segmento O-QM moltiplicato per il segmento O-PM. ma questo dà semplicemente l’area del rettangolo O-PM-B-QM. I costi
totali, come già sappiamo da precedenti lezioni, sono dati da tutta l’area sotto la curva di costo marginale. Allora il profitto, che poi è anche il surplus del produttore, è dato dall’area del rettangolo
ombreggiato della figura precedente.
Ora, siccome il monopolista è l’unico che produce, e quindi sopporta costi, per produrre il bene
in questione, la sua curva di costo marginale corrisponde anche a quella di costo marginale sociale
(CMaS). D’altra parte, come sappiamo, la curva di domanda coincide con la curva di beneficio
marginale sociale (BMaS). Dunque siamo in grado di scoprire quale sarebbe la quantità socialmente
efficiente, cioè quella in cui il surplus sociale è massimo, e cioè deve valere BMaS = CMaS (si veda
ancora documento chiamato “surplus e efficienza al punto 1 della parte di lezioni dedicate a “problemi dell’informazione”, sulla mia pagina web).
Graficamente nella figura che segue la quantità QEFF è la quantità socialmente efficiente:
P,
RMa
PM
C
RMa
QEFF
QM
CMaS
D=BMaS
Q
Qual è dunque il problema sollevato a carico del monopolio? Se lasciato a se stesso, il monopolista produce la quantità QM. In corrispondenza di tale quantità possiamo facilmente individuare il
surplus di consumatori e produttori: si tratta delle due aree tratteggiate in diagonale nella figura appena precedente (il surplus dei consumatori è il triangolo superiore, mentre quello dei produttori è il
rettangolo inferiore). Il surplus sociale è la somma dei due.
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Se si riuscisse invece a indurre il monopolista a produrre e vendere ai consumatori la quantità
QEFF, il surplus sociale aumenterebbe, perché a quello precedente si aggiungerebbe anche la parte
costituita dall’area triangolare tratteggiata in orizzontale. Questo è il difetto del monopolio: fornire
alla società un surplus sociale inferiore a quello che sarebbe altrimenti possibile.
La figura precedente può anche essere formalmente letta come un caso di “esternalità positiva”:
il monopolista, quando decide quanto produrre, non tiene conto del fatto che il beneficio marginale
arrecato alla società dal suo prodotto è superiore al beneficio marginale privato, cioè il ricavo marginale, che egli ne ottiene.
Più avanti vedremo che anche i casi di bene pubblico e di “azione nascosta” può essere visti come casi di esternalità positiva. Dunque le esternalità possono essere considerate come la fonte quasi
pervasiva dei “fallimenti del mercato”, cioè invalidità del primo teorema del benessere.
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