Mauda Bregoli-Russo 151_ LA LOCANDIERA DI GOLDONI AL

Mauda Bregoli-Russo
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LA LOCANDIERA DI GOLDONI AL CINEMA
Scopo di questo intervento è quello di verificare se le due produzioni
cinematografiche della Locandiera di Carlo Goldoni (La Locandiera del
1943 diretta da Luigi Chiarini e quella con regia di Paolo Cavara)
possano veramente, più di quelle teatrali (di Visconti, Enriquez,
Missiroli e Cobelli) illustrare il senso della "riforma" goldoniana a
cavallo fra vecchia Commedia dell'Arte e Commedia Nuova, tra
seduzione ed educazione. Per esempio, il Cavaliere di Ripafratta
riconosce lo statuto verbale-sociale delle due commedianti — esempio
della donna del vecchio teatro — mentre ignora la parola di Mirandolina,
il suo testo: testo progettato e finalizzato, d'autore potremmo dire, e i
monologhi che la locandiera dice al pubblico.
Se volessimo rintracciare il gestus sociale di Mirandolina,
potremmo vederlo nel suo mercantile accettare quei regali (gioielli,
fazzoletti) che servono a rivelare il carattere del donatore (l'aristocratico
parvenu ed il povero) ma non Foro (la boccetta del Cavaliere) e,
inversamente, le due commedianti falliscono F accaparramento di oggetti
rivelatori mentre riescono a mettere le mani sull'oro della loro essenza
mercenaria.
In questa differenza sta il divario fra il teatro goldoniano e quello
dell'Arte, con una ricchezza di simboli così interna al progetto d'una
rifondazione del teatro, da apparire nella veste di leggeri, fatui,
rappresentanti dei diversi comportamenti della civetteria femminile.
Perciò la dedica al lettore, premessa da Goldoni all'edizione della
commedia, va interpretata alla lettera: si tratta proprio della più morale,
la più utile, la più istruttiva delle sue commedie, come quella che
interamente trasferisce al teatro le vicende del mondo e, attraverso il
teatro, trasforma la seduzione — del Cavaliere e del pubblico — in
educazione al mondo.
La Locandiera di Carlo Goldoni entrò nel mondo del cinema nel
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1943, grazie alla regia di Luigi Chiarini. In quest'ultimi anni la
famosissima opera del Goldoni è apparsa in un film, parzialmente
musicale, di Paolo Cavara (1983), con attori popolari, come sarebbero
forse piaciuti al commediografo veneziano quali Adriano Celentano,
Claudia Mori e Paolo Villaggio.
Non sembra che il cinema abbia mai eccessivamente valorizzato
l'opera. È proprio il caso di dire che qui il teatro ha vinto sul cinema
(moltissimi gli allestimenti teatrali della Locandiera sotto la regia di
Luchino Visconti, 1952, Enriquez, Mario Missiroli, 1972, e Giancarlo
Cobelli, 1979; senza citare gli spettacoli con i ragazzi dell'Accademia
Nazionale d'Arte Drammatica, 1970).
Ma esaminiamo attentamente i due film nominati e verifichiamone
la portata rappresentativa.
Quest'anno, 1993, oltre che segnare il 150 anniversario della morte
di Goldoni, è anche il cinquantenario della prima produzione
cinematografica della Locandiera, diretta da Luigi Chiarini proprio nel
1943. Ma chi era Chiarini?
Chiarini, anche se non lo si nomina spesso, non era per nulla un
dilettante nell'arte cinematografica, ma un vero teorico di film. Fu
allievo di Giovanni Gentile, fondatore della rivista cinematografica
Bianco e Nero (1937), fondatore e direttore del Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma (1935) nel periodo fascista.
La Locandiera di Chiarini visse (purtroppo per la sua diffusione e
conoscenza) in pieno clima fascista: i due attori principali, Luisa Ferida
e Osvaldo Valenti, furono così coinvolti politicamente da trovare la
morte a Milano, per mano dei partigiani, immediatamente dopo la fine
del regime, nell'aprile del 1945. Chiarini era rimasto a Roma nel
frattempo, ma credo che le sue capacità di regista siano state oscurate
nel dopoguerra proprio per il fatto di aver operato sotto il fascismo.
Il Professor Guido Fink, dell'Università di Firenze, in una sua
conferenza all'Istituto Italiano di Cultura (Chicago, aprile 1993) ha
parlato di Chiarini come di un regista che ebbe una sorta di
riconoscimento solo agli inizi degli anni Ottanta, durante le celebrazioni
di Venezia.
La Locandiera del Chiarini (Cines) apparve negli stessi anni
assieme a film quali Ossessione, I bambini ci guardano, ecc., ma,
purtroppo, passò come una specie di sottogenere di film. La sua
sceneggiatura fu scritta da Chiarini, Umberto Barbaro (altro teorico di
film) e Pasinetti.
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Come regista Chiarini fece il suo esordio nel 1942, quando una
nuova schiera di uomini del cinema combatteva una aristocratica
battaglia contro la retorica del regime e l'incultura dei film dei "telefoni
bianchi" proponendo, con raffinata sensibilità, trasposizioni sullo
schermo di testi letterari del passato. Alcuni film di Chiarini furono
infatti Via delle Cinque Lune, ispirato ad un racconto di Matilde Serao,
e La Bella Addormentata, dove il regista si richiama al dramma di
Rosso di San Secondo. E nel 1943-44 il ciclo si chiude con La
Locandiera opera poco conosciuta anche perché la divisione del Paese
non ne consentì una circolazione effettiva. Benché anch'essa si rifaccia
ad un testo, è già fuori del clima culturale del "calligrafismo": Chiarini
vi trova, tuttavia, inconsueta autenticità e brio, già rinvenibile nell'arioso
inizio con la barca dei comici che scorre lungo il fiume, fra le ville dei
patrizi veneti settecenteschi (notizie desunte da Filmlexicon degli autori
e delle opere).
La storia della locandiera nel film di Chiarini, appare racchiusa in
una cornice (ugualmente nel film diretto da Cavara) e vengono dati
importanza ai sub-plots. C'è una folla di buoni attori: la parte di
Goldoni è affidata a Gino Cervi, una delle comiche è Paola Borboni. Ho
avuto la fortuna di veder proiettato questo film (ormai quasi
introvabile), in video, presso l'Istituto Italiano di Cultura di Chicago in
aprile 1993. Ciò che ho notato nell'opera di Chiarini è questo:
1) l'ambiente è forse un po' troppo fastoso anche se realistico. Ricordo
che la locanda, chiusa e scura, è in realtà un maestoso palazzo, con
un'alta scalinata di marmo. Forse un ambiente inappropriato per la
commedia, come la vediamo noi mentalmente, pur tuttavia si nota un
certo gusto degli interni e della scena.
2) il Cavaliere di Ripafratta ed il personaggio Goldoni palesano
apertamente idee politiche di uguaglianza, del tipo Rivoluzione Francese
(forse influenze marxiste?). La frase tipica è: "Il tempo delle parrucche
è finito." Oppure un'altra frase comune è questa: "Questo è il vero
teatro" (alla maniera di Pirandello), Il Cavaliere tratta con uguaglianza
il suo valletto e Mirandolina gira tra i comici, tutti riuniti a tavola, come
una matura padrona di una locanda, procace ed un po' sfacciata. Non
esiste in Mirandolina quel non so che di fresco ed acerbo che intuiamo
dalle battute del Goldoni.
3) il film inizia con il barcone dei comici che naviga sul fiume Isonzo.
Quindi chiaramente il teatro viene dal Veneto, anche se La Locandiera
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vive a Firenze. I comici e le comiche mangiano frugalmente — solo
pasta asciutta — e questo lato, della povertà e frugalità della vita di
teatro, viene posto in evidenza.
Per quanto riguarda il film La Locandiera di Paolo Cavara, ci
sembra abbia un certo valore pur nel suo essere un'opera non
impegnata, non accademica. Il regista non è eccessivamente noto, gli
attori sono la coppia Celentano-Mori della canzone italiana. Paolo
Villaggio, un comico che recentemente ha ottenuto validi riconoscimenti
artistici, recita bene la parte del Marchese squattrinato. La Locandiera
di Cavara offre una freschezza piacevole data dalla musica e dalla
danza: è quasi più un melodramma metastasiano che un film vero e
proprio. Goldoni, come personaggio, è sempre presente nell'opera,
dando consigli ed incitando all'azione personaggi come il Marchese ed
il Conte, forse caratteri più deboli in confronto agli altri. Goldoni,
inoltre, non solo interviene e commenta, ma sembra stia a guardare il
farsi della commedia: spesso è seduto ad un tavolino, in posizione
ambigua — visto ο non visto? — intento a fare i suoi solitari di carte.
Poi, alla fine del film, il personaggio Goldcni paragona i due teatri,
quello fittizio, fatto di povertà, avventura, dispersione, dove regna
l'illogicità (quello in cui vorrà perdersi Fabrizio) e il vero teatro ο la
vera vita della logica e del buon senso ir cui regna incontrastata
Mirandolina.
Dal film di Cavara ho tratto queste osservazioni:
1) più che un film, è un vero melodramma, un operetta dove campeggia
la parte musicale e dove esistono i monologhi.
2) l'ambiente, pieno d'aria e di luce, è prettamente e totalmente toscano
nella parlata, nei detti e nei modi. La locanda è come ce la potremmo
immaginare dalla lettura della commedia goldoniana. C'è molta fedeltà
e rispetto del dialogo goldoniano.
3) pur avendo una cornice musicale e danzante, Mirandolina campeggia
in tutta l'opera cinematografica, calcando un po' troppo la parte della
civetta consapevole della sua avvenenza.
Ora il problema rimane nel risolvere una serie di questioni così
compendiabili: perché Chiarini scelse di filmare La Locandiera? Quali
scopi artistici si prefiggeva? Quale dei due film (Chiarini ο Cavara)
contribuisce meglio alla riforma teatrale volute dal Goldoni? L'opera del
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Goldoni è adatta alla trasposizione cinematografica? Per rispondere a
tali domande cercherò innanzitutto di approfondire la conoscenza del
regista Chiarini e delle sue teorie.
In Italia, al tempo di Chiarini (1935) il cinema era ancora neonato
(in genere era d'importazione americana; cfr. Lizzani, 82) e gli studi
teorici di Usevolod Pudovkin, tradotti da Umberto Barbaro, esercitarono
dal 1952 un'influenza significativa e contribuirono notevolmente a
creare nel nostro paese una nuova coscienza critica, ad aprire sbocchi
nuovi, a demolire pregiudizi, a formare una cultura propriamente
cinematografica. Le teorie di Pudovkin (Film e fonofilm) e poi quelle di
Béla Balàzs (L'uomo visibile), il lavoro autonomo di Umberto Barbaro
(Film, soggetto e sceneggiatura), l'opera volgarizzatrice di Ettore Maria
Margadonna e l'attività teorica di Luigi Chiarini forniranno a coloro che
in quegli stessi anni erano intenti al lavoro pratico, gli strumenti teorici
necessari per un approfondimento delle stesse ricerche tecniche, e
costituiranno la base della preparazione culturale di molti giovani.
Il montaggio, il materiale plastico, l'uso funzionale del
contrappunto visivo e sonoro, diventarono i termini più usuali del nuovo
linguaggio critico, e fornirono i presupposti per una interpretazione
grammaticalmente corretta delle opere cinematografiche dei vari paesi
e per la comprensione esatta dei valori, dei limiti e delle proprietà
precipue dei film (Lizzani, 80-1).
Mentre sugli schermi si moltiplicavano i "polpettoni" di propaganda
bellica, alcuni registi scoprirono il territorio inesplorato della "forma"
e si garantirono un approdo ο un rifugio accanto a tanta parte della
cultura italiana del tempo. L'ideale di un cinema colto, di un cinema
pulito ed elegante, si guadagnò le simpatie di un Soldati, Castellani,
Chiarini, Lattuada e Poggioli. Così scrive Giuseppe De Santis nel 1941:
Dovrebbe essere proprio del cinema la preoccupazione di una
autenticità, sia pur fantastica, dei gesti, del clima, in una parola dei
fattori che debbono servire ad esprimere tutto il mondo nel quale gli
uomini vivono [...]. Si sono mai accorti i nostri registi quanto
importante sia, per il loro mestiere, un attento ed accurato studio della
pittura? [...] Oppure manca l'Italia di un paesaggio? (Lizzani, 89).
Anche Antonio Pietrangeli parla di realismo del primo cinema italiano
e della "predilezione per i particolari reali e veri della vita e della
società che certo anticiparono il realismo che fu poi effettuato con meno
ingenuità e con mezzi più evoluti dalla cinematografia russa, americana
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e francese" (Lizzani, 94-5).
C'era a quei tempi, e proprio grazie al cinema, un modo diverso
d'intendere l'arte, opposto a quello che dominava incontrastato in Italia.
Ecco, per esempio, una frase del grande critico d'arte Roberto Longhi
per i documentari su Carpaccio e Caravaggio:
Nel corso di quei lavori furono i fotogrammi in movimento e le
modeste carrellate sulle immagini del Caravaggio, con la loro forza
di verità, Γ argomento determinante per convincermi dell'urgenza di
reintrodurre più comunemente nel discorso critico quel concetto di
"realismi" che l'imperante astrattismo idealistico ci aveva per tanti
anni precluso.
(Barbaro, Il film [...] dell'arte, XIV)
Mentre il teatro si dibatte nella contraddizione del rapporto testo e
spettacolo, il cinematografo elimina questa contraddizione in quanto "è
libera ed autonoma creazione in tutte le sue fasi, che debbono essere
considerate come successive elaborazioni della materia compiute da un
complesso collaborante al conseguimento dell'unità dell'opera. Le
macchine cinematografiche sono strumenti soggetti alla volontà
creatrice" (Barbaro, Il film [...] dell'arte, XVIII).
È il Chiarini, che sulla base della distinzione fra teatro e cinema,
nel suo saggio "Spettacolo e film" (Belfagor 1952) si avvicina ad una
teoria del cinema come elaborazione creativa della realtà, avente una
propria tecnica, lo "specifico filmico," cioè il montaggio. Lo "specifico
filmico" implica e compendia non solo inquadratura e primo piano, ma
anche soggetto e sceneggiatura, nonché modi di illuminazione e
recitazione e, in una parola, tutta la tecnica cinematografica che è
determinata dalla previsione della sua fase ultima, il montaggio strictu
sensu.
Se si accetta la definizione del film data da Eisenstein — la
rappresentazione di un conflitto in una idea — Chiarini preferisce, più
modernamente, l'idea incarnata nella vita di un popolo, piuttosto che il
protagonista incarni l'idea. Mentre, nel film, l'individuo dovrebbe
rappresentare l'elemento di resistenza, il conflitto, evitando così di
cadere nell'individualismo borghese e nella retorica del protagonista
romanzesco. Di qui scaturisce l'importanza morale e sociale del film.
Ora, con queste ultime idee in mente, riandiamo ad analizzare La
Locandiera di Goldoni. Il significato più profondo della commedia
risiede proprio nel contrasto fra due elementi, quello amoroso e quello
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matrimoniale (in quest'ultimo termine si comprende ogni dovere di
carattere concreto e quotidiano). L'ambientazione apparentemente
anodina della Locandiera serve a garantirci il rimando alla realtà. Essa
dà concretezza anche a figure apparentemente ancora collegate col
"buffo" tradizionale, come il Marchese. Che il giuoco di Mirandolina sia
vero, con tutti i rischi che la verità comporta, lo dimostra non solo lo
sviluppo dell'intreccio, le difficoltà o, addirittura, i pericoli in cui viene
a trovarsi la protagonista, ma un paio di personaggi emblematicamente
significativi, la coppia delle due commedianti. La vittoria di Mirandolina
non è solo sul Cavaliere, ma su tutta una concezione di vita ed un modo
di intendere l'amore di questi nobili, veri e fasulli, ricchi ο decaduti che
siano: fra di loro c'è una specie di solidarietà di classe che, al momento
della sconfitta, rompe le finzioni della convenzione.
Mettendo a confronto queste osservazioni con le teorie del Chiarini,
constatiamo che il regista scelse La Locandiera di Goldoni perché era
un testo aderente alle proprie idee di realismo ("specifico filmico"),
conflitto, ed importanza morale e sociale del film. Senza dubbio il film
di Chiarini è più conseguenziario alla riforma goldoniana di quanto lo
sia quello del Cavara. Ma, data la scarsa risonanza di tutte le
trasposizioni filmiche delle opere del Goldoni, si è più inclini a
concludere che la parola di Goldoni, i suoi dialoghi, le sue battute
trovino la loro sede più autentica soltanto a teatro.
MAUDA BREGOLI-RUSSO
University of Illinois at Chicago,
Chicago, Illinois
OPERE CITATE
Balàzs, Béla. L'uomo visibile. Roma: Ediz. di Italia, 1937.
Barbaro, Umberto. Film, soggetto e sceneggiatura. Roma: Edizioni di Bianco
e Nero, 1939.
. Il film ed il risarcimento marxista dell'arte. Roma: Editori Riuniti, 1974.
Chiarini, Luigi. "Spettacolo e film," Belfagor 7, No. 2 (1952), 129-43.
Filmlexicon degli autori e delle opere. A-C. Roma: Edizioni Bianco e Nero,
1958.
Lizzani, Carlo. Il cinema italiano 1895-1979. 2 Volumi. Roma: Editori Riuniti,
1979.
Pudovkin, Usevolod. Film e fonofilm. Roma: Ediz. di Italia, 1935.