Come “forma” pensiamo spesso a un contenitore di sostanza. Sostanza
materiale e filosofica insieme. Ma il concetto apparentemente così semplice
di forma nasce come “eidos” nel Timeo di Platone ad indicare ben altro che
un contenitore: eidos è l’idea stessa, archetipo comune di tutti i concetti, ciò
che ci permette di riconoscere l’essenza di un oggetto o di un essere vivente
e di rintracciarne l’unità nella molteplicità. La forma perfetta, incorruttibile.
Poi “forma”, dall’Iperuranio platonico, si mescola alla terra e alla realtà
aristoteliche. Col vantaggio di poterla codificare e, quindi, di parlarne («Di ogni
cosa si può parlare in quanto ha una forma e non per il suo aspetto materiale
in quanto tale». Metafisica VII, 1035a). La forma agisce, in realtà, e modella il
proprio contenuto. Non esistono, in arte, modelli vuoti da riempire: i modelli
sono necessità naturali e ogni forma artistica ne rispecchia una diverso. O
forse una soltanto… Pensiamo che ogni cosa, in musica, presuppone un
richiamo alle componenti più semplici e basilari della vita: il respiro. Dunque
l’alternanza. Non ci può essere una eterna tensione, od una eterna
distensione. Non si può trattenere il respiro per sempre. Il cuore batte, ed
ogni cosa ha un suo ciclo fatto di due semplici (ma necessari) momenti. In
musica questi due momenti sono diventati la “tonica” e la “dominante”. L’una
afferma, l’altra si tende. Sono necessarie l’una all’altra, perché la bellezza e la
certezza della tonica non esistono se non vi sia qualche cose che le relativizza,
ossia che vi tenda spasmodicamente. Sono due semplici accordi, lo yin e yang
della musica. Il giorno ha bisogno della notte, l’amore della solitudine, la gioia
del dolore, e tutto è necessario. La “forma Sonata” nasce e viene codificata
lentamente. Il suo unico denominatore comune è l’alternanza fra temi e
sezioni contrastanti. “Sonata” era ciò che la parola suggerisce, qualcosa che,
semplicemente, veniva “suonato” sulla tastiera (di un clavicembalo, di un
fortepiano, infine di un pianoforte) e distinto da ciò che fosse già
precisamente nominato come “Toccata”, “Preludio”, “Fuga”. Altre “forme”.
Domenico Scarlatti, di Sonate, ne scrisse ben 555. Di scuola napoletana, visse
per lunghissimi anni in Spagna, come insegnante della principessa (poi Regina)
Maria Magdalena Barbara. Le sue “Sonate” sono brevi composizioni brillanti
che si poggiano su di una dualità semplice e concisa: due o più temi, diversi e
molto caratterizzanti, due sezioni, che si tendono fra la tonica e la dominante,
respirando armonicamente. La tecnica tastieristica spregiudicata, i ritmi
spagnoleggianti, la bellezza dell’invenzione melodica, fanno di ognuno di
queste piccole opere, dei capolavori. La “forma Sonata” cresce, come
crescono la curiosità e la possibilità dei compositori di sperimentare e come
cambiano le necessità dei tempi. La musica per tastiera assume una dignità
via via maggiore, grazie a compositori come Haydn, Mozart e Clementi, legati
a doppio filo al Maestro della Sonata, Beethoven, che prese il “modello” della
forma Sonata, ne mantenne intatto il concetto, lo forzò dall’interno, lo ruppe
in maniera commovente. Haydn fu, invece, maestro di ironia ma, forse per
alcuni, insospettabile cantore di toccanti profondità. La Sonata in Si minore
ne è un esempio: solido il primo movimento, sognante e a tratti severo il
Minuetto, travolgente e spiritoso il breve Finale (un elemento, questo,
comune a quasi tutte le grandi Sonate del compositore viennese). L’italiano
Clementi lo abbiamo odiato un po’ tutti noi pianisti, perché nel mondo
accademico, come Carl Czerny, è diventato sinonimo di quelle “Sonatine” che
abbattono la scatenata fantasia dei giovani pianisti con quell’idea di disciplina
alla quale faticano e forse faticheranno per tutta la vita a fare i conti… Ma
Clementi ha scritto delle Sonate meravigliose, come quella proposta in questo
concerto. Primo movimento espressivo e cantabile, un “Lento patetico”
straordinariamente intimo e riflessivo, ed un finale furioso. Dopo aver subito
ogni genere di metamorfosi, la forma Sonata, dopo Liszt e i suoi emuli, passa
nelle mani dei compositori del ‘900, fra i quali il russo Prokofiev, che ne
compose 9 e ne abbozzò una decima. Prokofiev è un compositore neoclassico:
con strumenti moderni fa ciò che già amava fare Beethoven, poi Brahms: far
nascere un intero edificio sonoro da una singola cellula tematica. Ma anche
Prokofiev sperimenta nuove forme adatte a nuovi contenuti, e questa Sonata
non ubbidisce già più alle regole della forma Sonata “classica” cui siamo
abituati: all’esposizione iniziale dei due temi, alla loro rielaborazione e poi
riesposizione finale. Il primo movimento vive del contrasto fra due sole sezioni
tematiche, diversissime (sognante la prima, più tumultuosa la seconda);
l’Andante riflette il profondo senso lirico del migliore Prokofiev, mentre di
sfrenato dinamismo vive il Vivace finale, un Rondo con carattere di Giga.
«Prokofiev è stato sempre estraneo tanto alla sensualità raffinata che alla
contemplazione astratta. La sua testa lavorava con lucidità e chiarezza, senza mentire
mai a se stesso, senza mistica, senza teosofia. La sua musica è molto terrestre nel
senso più umano di questa parola, e sembra dire, la vita è bella, curiosa, intelligente,
non vale la pena di evadersene, rendiamola ancora più interessante» (E. Neuhaus)
Vincenzo Maltempo