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Francesco Guardiani
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LUIGI MALERBA
ITACA PER SEMPRE
Milano: Mondadori, 1997. 185 pp.
Se due, come si rileva dal corsivo firmato in fondo al volume, sono stati
gli stimoli dell'autore a stendere questa riscrittura romanzata degli ultimi
canti del secondo poema omerico, altrettante siano le argomentazioni
critiche che ne giustificano la presenza alla fine, per ora, della sua lunga
e gloriosa produzione letteraria.
Ma vorrei dire, preliminarmente, quanto è ricco di suspense e
d'intrigo questo racconto nuovo della antica storia. Nel romanzo essa
corre rapida sul doppio binario del monologo alternato. Le voci, di pari
sonorità, sono quelle di Ulisse e Penelope. Il mito, generalmente,
impone un esito narrativo fisso e tuttavia, in questo caso, se sappiamo
la fine dell'Odissea, meno certo è l'approdo definitivo, psicologico
soprattutto, di Ulisse. La suspense viene, comunque, soprattutto da
Penelope, personaggio rivisitato con grande sensibilità psicologica, che
tiene testa al consorte in scaltrezza e dissimulazione, governandolo anzi,
con intuito sottile e generoso, nelle pagine conclusive del romanzo.
Suspense e intrigo sono certo frutto di una capacità affabulatoria non
comune, ma i meriti dello scrittore che più ammiro, qui come altrove,
sono nella zona più alta del suo stile, quella in cui l'artigiano abile e
ispirato, per scelta di materiali, novità di disegno e impulso cognitivo,
si fa senza cattedra (dioneliberi) maestro e filosofo.
Luigi Malerba è un viaggiatore instancabile (Cina, Turchia, Canada,
Stati Uniti, Russia, Bulgaria, Grecia, Tailandia, Egitto...) e facilmente
anche i lettori meno impegnati, ma fedeli, scoprono "schede di viaggio"
nei suoi romanzi, oltre che, naturalmente, nei libri fatti di esperienze
odeporiche (Cina Cina [1985] e Il viaggiatore sedentario [1993]). Itaca
è nata a Corfù, pare l'isola dei Feaci, ovvero l'ultima tappa di Ulisse
prima della conclusione del suo viaggio di ritorno. Lì, ricorda
lo scrittore,
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Qualche anno fa [...] un vecchietto seduto su uno sgabello all'angolo
di una strada vicina al porto raccontava, per poche dracme, antiche
storie e favole di amore e di morte. Fra queste le vicende
romanzesche di un re guerriero che ritorna in patria vittorioso dopo
un lungo assedio e un lunghissimo viaggio nel Mediterraneo e trova
nella sua isola i principi dei dintorni che si sono insediati dentro la
reggia e pretendono di sposare la regina sua moglie. (183)
Ciò lo sollecita a riprendere l'antico racconto, ma con la coscienza di
un doppio passaggio "storico" del testo: dall'epoca della oralità
originaria a quella della stampa e da qui alla presente era della
comunicazione elettronica. Un'era, questa, che si può ben definire della
"nuova oralità" e quindi di ritorno al mito, a ben intendersi, comunque,
che "nuova oralità" non definisce propriamente, in senso pratico, la
nuova comunicazione letteraria, ma si propone metaforicamente come
marca distintiva di una condizione culturale che presenta caratteristiche
particolari.
Queste caratteristiche non sono solo quelle pregutenberghiane che, con il manoscritto, offrono una oralità di secondo
grado (intonata, McLuhan insegna — e tanto basti a evitare una lunga
discussione — a una percezione tattile del testo che, peraltro, si preferiva
leggere ad alta voce), ma sono tali da definirsi principalmente intorno
a una cultura in cui la letteratura è tutta orale nel vero senso della
parola, per cui più marcate sono le sue originarie componenti, tràdite e
tradite prima dal codice e poi dal libro a stampa.
Di queste caratteristiche quella che interessa di più, quella cui tutte
le altre, relative a idiosincrasie compositive immaginative ed elocutive
fanno riferimento, è quella costitutiva. "Il libro a viva voce" su cui si
fonda una civiltà e si riflettono i suoi desideri è la grande impresa del
cantore omerico. Come la Bibbia (ricordiamo di Northrop Frye La
Scrittura secolare), esso ha un carattere fondativo prima che
prescrittivo. "Dice" ciò che il mondo è, prima di asserire come deve
essere stato, deve essere ο dovrà essere, ché Omero è Omero e non
Virgilio, Dante ο Tasso.
Riconoscere il mondo racchiudendolo in una sola storia è ciò che
si fa quando si ha la coscienza di essere alle soglie di un nuovo mondo.
Il passato, ciò che c'è di più importante nel passato, viene offerto come
dichiarazione di identità in momenti di grande trasformazione, quando,
appunto, l'identità collettiva è chiamata in discussione. Non è un caso
— il paradosso è di Borges — che il passato sia un'ossessione delle
culture senza passato, ovvero delle nuove nazioni; e, come ha notato il
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curatore dell'epica longobarda (Gian Carlo Alessio per la Cronaca di
Ν ovale sa) che l'identità di un popolo tenda ad affermarsi con vigore
soprattutto nelle zone di confine.
Siamo anche noi, alla vigilia del terzo millennio, in una zona di
confine, in un momento di grande incertezza e di necessità rifondativa.
Malerba se ne occupa da anni, dalla constatazione della scomparsa della
civiltà contadina (La scoperta dell'alfabeto, 1963; Le parole
abbandonate, 1978) alla, ad essa certamente connessa, è convinzione
ferma di chi scrive, angosciosa crisi dell'Io (Il serpente, 1965; Salto
mortale, 1965; Il protagonista, 1971); dalla inquietudine planetaria che
turba la psiche dell'uomo moderno (Il pianeta azzurro, 1986) alla
preoccupazione per la "grande transizione" millenaria (Le pietre volanti,
1992).
E Itaca è allora la risposta. Si ricomincia, si riafferma, anzi ci si riafferma, ci si ri-narra. Quale storia? "There is one story and one story
only / that will prove worth your telling" dice Robert Graves. E in
questo solstizio d'inverno, che non solo per Graves è buona metafora
della nostra attuale condizione esistenziale, la sola storia del grande
mitico ritorno può ben prendere la forma di Itaca per sempre, ché se
per il poeta inglese "da donna si torna a donna" (from woman back to
woman) è ben vero che "tutto" comincia con Elena e poi si torna a
Penelope.
È una storia antica, ma anche nuova, perché il ricorso non è mai
identico al corso, come in maniera credibilissima e perentoria ha
spiegato graficamente per Vico la spirale di Wöllflin: si ritorna, ovvero,
nell'area di partenza, ma a un altro livello o, meglio, in un'altra
dimensione. Il che mi porta al secondo dichiarato stimolo che sta alla
base di questo romanzo di Malerba.
Si parlava una sera di Omero [...] Penelope, ha detto mia moglie,
aveva capito subito che sotto quelle vesti di mendicante si nascondeva
Ulisse, ma ha voluto fingere un po' di non riconoscerlo per fargli
scontare le sue avventure amorose durante il viaggio di ritorno, ma
soprattutto la sua mancanza di fiducia che lo aveva indotto a rivelarsi
a Telemaco e alla vecchia nutrice Euriclea e non a lei. Insomma una
storia d'amore e gelosia e di intrighi coniugali tutta da interpretare e
riscrivere per i lettori di oggi. (184)
È questa la nuova dimensione: la "revisione" della storia ha due
"eroi" e l'eroismo inedito di Penelope nulla toglie a quello tradizionale
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di Ulisse, ma anzi lo rende più credibile e attuale. Se l'età della forza
bruta, vogliamo sperare, è decisamente alle spalle, Penelope dimostra la
sua parità con Ulisse sullo stesso piano, nuovo, dell'intelligenza. Opera
non solo affettuosa, ma giusta, sarà allora il dar rilievo maggiore a lei,
piuttosto che a Elena, nei poemi di Ulisse (perché è lui, per Malerba
l'autore originario dell'Iliade e dell'Odissea: "non è l'ipotesi più
semplice e seducente?" [185]):
Ulisse mi ha fatto una promessa solenne [dice Penelope] [...] "Resterò
a Itaca per sempre. Gli dèi mi sono testimoni.
Mi ha fatto un'altra promessa. Che Elena avrà una piccola parte
nel poema sulla guerra di Troia, in ogni caso inferiore alla parte che
avrò io nel poema del ritorno a Itaca. (180-81)
Resta da spiegarsi la ragione della decisione dell'eroe dichiarata nel
titolo del romanzo, ma contraria a una antica tradizione in cui ha
creduto persino Dante. Mi pare che si debba puntare sulla sua scoperta
dell'arte. Mi spiego subito. Ulisse ha ora i due poemi da comporre, una
nuova e grande impresa. "Non solo la guerra è una cosa da uomini, [...]
ma anche la poesia" (181) dice a Penelope, che naturalmente
acconsente, per farlo contento, visto che è stata lei stessa a suggerire al
consorte "di non disperdere i ricordi delle sue avventure a cominciare
dalla guerra di Troia fino al suo ritorno a Itaca e alla nostra
riconciliazione dopo la strage dei Proci" (175). Il suggerimento di
Penelope è stato raccolto con entusiasmo da Ulisse. Perché? Il seme è
caduto su terreno fertile, pronto a riceverlo; evidentemente c'è stata una
trasformazione nell'eroe. Ce ne dà conto Borges, che al pari di Malerba
deve aver a lungo meditato intorno ai canti conclusivi dell' Odissea.
Così al suo Ulisse che, stanco di prodigi, come quello di Malerba si
scioglie volentieri in lacrime, si rivela l'arte nella verde eternità di Itaca:
Cuentan que Ulises, harto de prodigios,
Llorò de amor al divisar su Itaca
Verde y humilde. El arte es esa Itaca
De verde eternidad, no de prodigios.
(Arte Poetica, in El Hacedor [L'Artefice])
FRANCESCO GUARDIANI
University of Toronto
Toronto, Ontario