La morte di Giovanni Paolo II. Pera

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La morte di Giovanni Paolo II. Pera: «Ci ha insegnato che il
male esiste» di Mario Sechi
Il Giornale, 3 aprile 2005
Il Cardinal Angelo Sodano intona il De Profundis in piazza San Pietro.
E' la fine di un pontificato lungo e fondamentale per la storia del
Novecento. Giovanni Paolo II «muore mentre più alta era la sua voce e
più sentito il bisogno della sua missione. Per la dignità dell'uomo, la
libertà, la tolleranza, il rispetto, la pace» commenta Marcello Pera,
mentre scorrono davanti alla tv le immagini di una piazza San Pietro in
preghiera. Karol Wojtyla, il Papa venuto dall'Est, se ne va lasciando un
segno indelebile nella gente comune ma anche nelle istituzioni. «Allo
sgomento dei credenti - dice Pera - si unisce il silenzio attonito di tutto
il mondo che perde con lui un protagonista della nostra storia e una
guida morale e spirituale delle nostre coscienze». Presidente Pera,
in quest'era di relativismo culturale che cosa ha significato per
lei, uomo laico, il pontificato di Giovanni Paolo II? «Proprio una
grande battaglia contro il rischio del relativismo culturale. Per capirci: il
relativismo è la dottrina secondo la quale le culture o le civiltà non si
possono commensurare e giudicare da fuori. Perciò, per il relativista,
non esiste la verità, se non come autocomplimento che ciascuna
cultura fa a se stessa quando qualcosa le piace o le serve. Questa tesi,
che è nata nel campo della filosofia del linguaggio e dell'epistemologia,
è penetrata anche nella teologia. Essa porta a dire che il cristianesimo
non è migliore di altre fedi. Così il cristiano non potrà mai dire che
Cristo è il figlio di Dio. E neppure potrà consentire con Gesù quando
dice: ego sum via, veritas et vita. Gesù è un profeta, come tanti altri,
con la sua verità». E perché questo è un rischio anche per un
laico? «Intanto, è chiaramente un rischio per un credente, perché,
seguendo il relativismo, egli non diventa più tollerante o dialogante,
come molti pensano, ma semplicemente perde la fede. Poi è un rischio
per tutti, anche per i laici. Giustamente, nella Centesimus Annus, il
Papa mise in guardia contro le insidie di quella che egli chiamò "la
alleanza fra democrazia e relativismo etico". Questa alleanza porta alla
perdita di identità. Chi siamo noi se "tutto va bene"? In che cosa
crediamo? Per che cosa combattiamo? Anzi: perché dovremmo
combattere? ll rischio, come si vede, è enorme». Si è detto che in
politica non bisogna parlare troppo facilmente di bene e male.
Nel libro "Memoria e identità" Giovanni Paolo II compie una
grande indagine intorno a questi due temi e alle "ideologie del
male". Quale insegnamento può trarne la nostra
politica? «Intanto che il male esiste. Poi, che il male va combattuto.
E siccome il male non è mai definitivamente sconfitto - perché per i
credenti è frutto del peccato originale e per i laici degli errori della
volontà degli uomini -, ne deriva che la lotta al male è un dovere per le
persone e il compito della politica. Questo è ciò che fece il Papa contro
il comumsmo e che ha continuato a fare contro altri mali. Un compito
inesauribile, perché il bene non è uno stato, bensì un
processo». Autorevoli pensatori hanno teorizzato lo scontro
delle civiltà. Lei ha messo più volte l'accento sull'atteggiamento
poco lungimirante dell'Occidente nei confronti della minaccia
del fondamentalismo islamico. E' sufficiente la via del dialogo
inter-religioso promossa da Giovanni Paolo II? «Credo
francamente che l'idea stessa di dialogo inter-religioso sia sbagliata. E
credo anche che il Papa stesso ne abbia compreso i limiti. Se Cristo è
l'unica verità, come si può dialogare con chi afferma un'altra verità? Le
religioni non dialogano tra loro, perché sono esclusive. Perciò tendono
più facilmente a ignorarsi o separarsi o scontrarsi. Ma il dialogo è
invece possibile e obbligatorio al livello sub-religioso dei valori secolari
che dalle religioni derivano. Ad esempio, dal cristianesimo derivano i
valori della dignità umana, della libertà, della tolleranza,
dell'uguaglianza. Su questi valori, oggi negati dal fondamentalismo
islamico, il dialogo è possibile e la politica è il miglior strumento per
praticarlo. Lo scontro di civiltà, se ci fosse, sarebbe la fine della
politica». Guerra e pace, come l'antinomia tra male e bene.
Giovanni Paolo II ha vissuto la Seconda guerra mondiale e
l'orrore del nazismo, poi la Guerra Fredda e gli anni bui
dell'Unione Sovietica. Secondo lei quanto questa esperienza ha
influito sulle posizioni assunte da Giovanni Paolo II nei
confronti della guerra? Definirebbe questo Papa un
pacifista? «Un Papa non è un pacifista. Non è scritto: "Beati i
pacifisti", bensì: "Beati i facitori di pace", che è un'altra cosa e talvolta
una cosa opposta. Non a caso Giovanni Paolo II è stato un
combattente e non si è mai arreso. In questo, non solo il Vangelo, ma
le sue tragiche esperienze di figlio della Polonia, prima invasa dai
nazisti e poi dai comunisti, sono state determinanti». Un'Europa
ancora in cerca di identità e incapace di ritrovare le sue radici
cristiane. Perché il magistero di Giovanni Paolo II è rimasto
inascoltato? «Perché i capi di Stato e di governo europei non sono
ancora in grado di dire che cos'è l'Europa di cui parlano e che vogliono,
quando la vogliono davvero. Siamo onesti: l'Europa come entità
politica non è matura, se non per alcune cose importanti e utili, ma
minori. Certamente l'Europa non è matura come entità culturale e
spirituale, proprio quella che aveva in mente il Papa. La sua è l'Europa
degli apostoli Pietro e Paolo e dei santi Cirillo e Metodio. La nostra è
l'Europa dei mercati e dei diritti e valori connessi. Sarebbe sbagliato
svilirla, soprattutto adesso che, dopo tanti sforzi, è a rischio anch'essa;
ma non è lungimirante neppure farne un idolo o
un'ideologia». Patria, Europa, Chiesa, mondo. Il Papa ha detto
che è inscindibile la storia dell'Europa da quella della Chiesa. Il
cristianesimo ha plasmato davvero quello che oggi chiamiamo
spirito europeo? «E' impossibile negarlo. Chi volesse farlo, studi un
saggio dei nostri classici o legga un nostro grande romanzo o faccia
una passeggiata in una qualunque grande piazza europea o esamini le
nostre costituzioni e i nostri codici. Che aria di famiglia vi
respira?». Il Papa ha detto che "dopo la caduta dei sistemi
totalitari le società si sono sentite libere, ma quasi
simultaneamente è sorto un problema di fondo: quello dell'uso
della libertà". Esso attende ancora una soluzione? «Credo che
questo sia stato il grande problema del Papa, il perno della sua
missione. Egli vedeva che i totalitarismi avevano negato la libertà, ma
temeva fortemente che i regimi della libertà negassero la verità. La
vittoria dell'Occidente sul comunismo, come prima sul nazismo e il
fascismo, non equivaleva ancora alla vittoria della spiritualità. Anzi,
nell'analisi del Papa, proprio l'Occidente rischiava di più, perché mentre
sotto i regimi totalitari l'identità e l'appartenenza religiosa si
rafforzano, nel mondo dei beni e dei mercati si affievoliscono. Per
questo Giovanni Paolo II è sempre stato tenacemente avverso a tutte
le "libertà" in materia di bioetica che l'Occidente sente invece come
diritti. Per questo è stato diffidente, anche oltre i fatti, dell'America e
della "cultura della moderna metropoli" come disse a Denver nel 1993
e per questo ha criticato il capitalismo. Per lui, la società secolarizzata
era al tempo stesso un progresso e un regresso: un progresso verso la
libertà, un regresso verso l'assenza di spiritualità. Alla base di questo
atteggiamento c'era l'angosciata domanda: che farsene della libertà se
è soltanto "da" e non "per"?». Ricerca scientifica e religione. E'
dai tempi di Galileo che sembra impossibile superare
l'antagonismo tra queste due sfere della conoscenza. Le scuse
date a Galileo dalla Chiesa le hanno riconciliate? «Sul caso
Galileo, Giovanni Paolo II è stato coraggioso. Ha riconosciuto l'errore
della Chiesa e la grandezza di Galileo non solo come scienziato, ma
anche come interprete della Scrittura. Ma le "scuse" si fermano qui.
Sarebbe sbagliato concludere che Giovanni Paolo II abbia anche
sostenuto il diritto alla totale libertà di ricerca scientifica. Questo non
era, nè poteva essere, il suo pensiero. Perché, per un credente, la
scienza è una forma circoscritta di conoscenza che non può contraddire
la vera conoscenza, che è quella di fede. E perché la conoscenza
scientifica, per acquisire le sue parziali e fallibili verità, non può usare
strumenti che neghino la conoscenza di fede. In altri termini, si è liberi
di sperimentare con biglie metalliche come Galileo o prismi di vetro
come Newton o tubi pieni d'acqua come Torricelli e Pascal, non si è
liberi di sperimentare su geni o cellule o embrioni. Se uno scienziato
rivendicasse questa libertà con l'argomento che egli lavora nella sua
"sfera di conoscenza" distinta e separata dalla "sfera della fede", come
dice lei, un altro caso Galileo sarebbe inevitabile». E secondo lei, il
conflitto che abbiamo visto a proposito della legge sulla
procreazione e il referendum, non ripropone questo
scontro? «Esattamente. E su questo non c'è accomodamento, non
c'è compromesso. Non si patteggia col Vangelo. Quelli che, su questo
terreno, hanno accusato il Papa di tradizionalismo si ostinano a non
capire la fede cristiana. O l'accetti, questa fede, o sei fuori. Non puoi
fartene una a immagine tua e dei tempi». Come è cambiato il
rapporto tra Chiesa e politica durante il pontificato di Giovanni
Paolo II? «Giovanni Paolo II è stato il Papa più politico e meno
politico al tempo stesso. Il meno politico, perché si rivolgeva agli
individui e alle loro coscienze, più che alle nazioni e ai governi. Il più
politico, perché esigeva dalla politica il rispetto dei princìpi cristiani.
Mentre rispettava la separazione Stato-Chiesa, sapeva che la
separazione politica-religione non produce gli stessi frutti di libertà. Il
risveglio religioso cui stiamo assistendo anche in Occidente è in gran
parte merito suo». Restò lontano dalle cose italiane? «Rispetto
ad altri suoi predecessori, sì. Con un'eccezione vistosa, mi sembra: il
problema della giustizia, che egli sollevò con un gesto, l'abbraccio al
senatore Andreotti, e con una richiesta, la clemenza per i detenuti. Per
il resto, il suo orizzonte era altro. E' stato un grande Papa, perché la
sua parola, i suoi gesti, le sue sofferenze sono stati una sfida per tutti,
credenti e non».
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