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Ideazione, motivazioni e preparativi
L'attacco fu ideato fin dal novembre del 1940, allorché il viceammiraglio Yamamoto era stato promosso ammiraglio e nominato
comandante
in capo della
Marina
giapponese
dal Ministro,
ammiraglio
Koshiro
Oikawa.
I giapponesi,
dopo
aver
occupato
la
Manciuria nel
1931 ed averla trasformata in uno stato satellite chiamato
Manchukuo, avevano iniziato fin dal 1932 l'invasione della Cina. Le
difficoltà incontrate nel sottomettere questo vasto e popoloso
paese li portarono a cercare altre strade per espandersi ed allo
stesso tempo bloccare le risorse che la Cina repubblicana riceveva
dall'esterno.
La Marina giapponese rimase fortemente impressionata dal
bombardamento inglese di Taranto, avvenuto nella notte fra l'11
ed il 12 novembre 1940, nel corso del quale la flotta della Marina
italiana subì gravi perdite ad opera degli aerosiluranti inglesi
decollati dalla portaerei Illustrious. Da tale azione, ideata dal
comandante della flotta britannica del Mediterraneo, ammiraglio
Andrew Cunningham, l'ammiraglio Yamamoto trasse spunto ed
ispirazione per l'attacco al Pearl Harbor.
L'embargo e le sue conseguenze
Con la sconfitta della Francia ad opera delle truppe tedesche
nell'estate del 1940 e la costituzione della Repubblica di Vichy il
Giappone, dopo la firma del Patto tripartito con Germania ed Italia
(27 settembre 1940), aveva approfittato della debolezza francese
per invadere l'Indocina (4 ottobre 1940). Gli Stati Uniti attuarono
perciò una sorta di embargo verso il Giappone, relativamente alla
esportazione verso quel paese di prodotti petroliferi (il Giappone
dipendeva quasi al 100%, per quanto riguardava il suo fabbisogno
di prodotti petroliferi, dalle importazioni provenienti dagli USA) e
dei rottami ferrosi.
I negoziatori giapponesi durante le estenuanti trattative con gli
americani prima dell'attacco di Pearl Harbor: a sinistra l'inviato
speciale
S.Kurusu,
a
destra
l'ambasciatore
a
Washington,
K.Nomura.
Questo primo embargo riguardava i beni necessari all'industria
pesante per alimentare la macchina da guerra giapponese: petrolio
e acciaio. Tuttavia esso era di fatto continuamente disatteso. Per
questi beni il Giappone si approvvigionava da fornitori americani
nei porti della California, con permessi rilasciati di volta in volta,
ma con una certa generosità, da parte americana. Nei mesi di
luglio e ottobre del 1940, il Call Bullettin di San Francisco fotografò
sul molo del porto cittadino alcuni lavoratori che stavano
provvedendo allo stoccaggio di numerosi container nelle stive di
due navi da trasporto nipponiche, la Tasukawa Maru e della
Bordeau Maru. Entrambe furono caricate con ingenti quantità di
quel materiale ferroso di cui aveva fortemente bisogno l'industria
pesante Giapponese.
Terminate le operazioni militari di occupazione giapponese
dell'Indocina, il 26 luglio del 1941 gli Stati Uniti d'America
dichiararono l'embargo su tutti i prodotti petroliferi, sulle forniture
di metalli e di altre merci strategiche al Giappone e, poco dopo, il
congelamento (indisponibilità per i proprietari) di tutti i beni
giapponesi negli USA, seguiti in questo da Gran Bretagna e dal
governo olandese in esilio a Londra, ed intimarono al Giappone di
lasciare l'Indocina, escludendo inoltre le imbarcazioni giapponesi
dal transito attraverso il canale di Panama. L'embargo petrolifero
fu da questo momento rigidamente rispettato. Il provvedimento
trovava il Giappone dotato di scorte di prodotti petroliferi sufficienti
per tre anni, in caso di consumo normale, ma per non più di uno e
mezzo in caso di conflitto bellico.
Le zone più vicine dotate di fonti di approvvigionamento petrolifero
tale da rendere inefficace l'embargo erano le Indie olandesi,
specificatamente le isole di Giava e Sumatra, la cui occupazione
militare sarebbe stata abbastanza facile per i giapponesi, data la
situazione dell'Olanda, occupata militarmente dall'alleato tedesco e
con un governo in esilio, se non fossero intervenuti militarmente
gli Stati Uniti. L'unico modo per impedire, o quanto meno ritardare
per lungo tempo l'intervento americano, era quello di rendere
inoffensiva la flotta americana del Pacifico. Tale provvedimento
avrebbe praticamente dato carta bianca al Giappone nell'intero
Sud Est asiatico, permettendo alla potenza del Sol Levante di
cacciare anche gli inglesi, impegnati con tutte le loro forze in
Europa contro la Germania nazista, e di arrivare ad occupare
anche la città di Singapore, chiave di accesso per la potenza
europea all'Estremo Oriente. Quando gli americani si fossero
ripresi dal colpo ed avessero ricostituito la loro flotta del Pacifico, i
giapponesi avrebbero già consolidato le loro posizioni nei paesi
occupati e la loro macchina bellica sarebbe stata decisamente
superiore a quella nemica.
Il piano di attacco
Per ridurre fortemente le probabilità di intercettazione da parte di
imbarcazioni
mercantili
e/o
ricognitori
aerei,
l'ammiraglio
Yamamoto scelse una rotta più lunga di quella che ci si sarebbe
aspettati: anziché la rotta più breve, attraverso le isole Midway, od
una più meridionale, che passava a nord dell'arcipelago delle isole
Marianne e quindi sopra le isole Marshall, decise di far risalire
verso nord la flotta attaccante dal Giappone fino alle isole Curili
per poi piegare verso sud-est e giungere sull'obiettivo da nord,
dopo aver aggirato da settentrione le Midway. Per punto di
raccolta della flotta di attacco aeronavale, e di partenza per la
destinazione, fu scelta la baia di Hitokappu (Tankan Bay), situata
di fronte all'isola di Iturup, nelle Curili del Sud. La scelta era
dovuta al fatto che l'isola era poco abitata e le condizioni
atmosferiche erano spesso tali da celare alla vista da terra anche
un raggruppamento così imponente di navi come la flotta di
attacco. Inoltre la zona era poco frequentata da naviglio
commerciale.
Insieme
a
questa
operazione
Yamamoto
organizzò
la
contemporanea conquista della basi americane, poco difese, poste
sull' atollo di Wake e sull'isola di Guam, la più grande delle isole
Marianne. La conquista di queste basi, oltre all'attacco a Pearl
Harbor, aveva lo scopo di tenere lontane le forze americane dal
teatro di operazioni di conquista del Giappone nell'Estremo
Oriente, ove i giapponesi contavano di occupare, fra l'altro e come
di fatto faranno, le Filippine, il Borneo e Singapore.
I preparativi
Per poter lanciare le divisioni navali all'attacco degli obiettivi che si
era prefissato, Yamamoto iniziò a ritirare fin dai primi di settembre
le forze aereo-navali dal teatro di guerra della Cina per
raggrupparle opportunamente secondo le esigenze per l'attuazione
delle previste nuove operazioni. Alle unità che partecipavano
all'attacco, ed a quelle destinate alla conquista di Wake e Guam,
l'ammiraglio Yamamoto impose il silenzio radio per tutto il tempo
che sarebbe durata l'azione a partire dal 26 novembre, ma la
consegna non fu rispettata appieno e alcuni messaggi furono
intercettati dai servizi a questo designati della Marina USA.
La flotta destinata all'attacco di Pearl Harbor era costituita da due
divisioni navali: la forza di attacco e quella di scorta. La Forza di
attacco consisteva in sei portaerei con a bordo un totale di 389
velivoli (350 destinati all'attacco e 39 con incarico di riserva e
protezione delle portaerei) fra i quali bombardieri d'alta quota,
bombardieri in picchiata, aerosiluranti e caccia per la scorta, oltre a
vari ricognitori, ed era posta agli ordini del viceammiraglio Chuichi
Nagumo, imbarcato sulla portaerei Akagi. Quella di scorta era
composta da due corazzate, due incrociatori pesanti, nove
cacciatorpediniere, tre sommergibili e 8 navi cisterna per il
rifornimento delle due flotte in mare. Inoltre una flotta di
sommergibili
(fra
i
quali
5
tascabili),
al
comando
del
viceammiraglio Mitsumi Shimitzu, imbarcato sulla nave da guerra
Katatori ed accompagnato da altre navi-appoggio, avrebbe dovuto
portare un attacco supplementare destinato ad affondare le navi
americane che fossero riuscite a prendere il largo e comunque ad
aumentare il disorientamento provocato dall'attacco aereo.
La scelta del giorno (alba del 7 dicembre, tempo di Honolulu) fu
dettata da una serie di considerazioni di varia natura: il giorno era
una Domenica, giorno di libera uscita e di preghiera per moltissimi
militari, quindi scarsa efficienza nella reazione all'attacco, la notte
precedente era di luna nuova e l'oscurità avrebbe favorito la
sorpresa, ed altre considerazioni di carattere meteorologico.
La partenza e gli obiettivi
Le due forze si riunirono nella baia di Hittokappu, di fronte all'isola
di Iturup, nelle Curili del Sud il 22 novembre 1941 e da lì partirono
alle ore 6.00 del 26 novembre 1941 con destinazione Pearl Harbor.
Gli obiettivi dell'attacco erano innanzitutto le portaerei americane,
considerate dai giapponesi le forze più temibili in probabili
interferenze ostili degli Stati Uniti nelle operazioni di conquista
giapponese dell'Estremo Oriente (i giapponesi contavano di
trovarne da 3 a 6 ancorate a Pearl Harbour,) poi le corazzate,
quindi
i
depositi
di
carburante
ed
i
principali
aeroporti
dell'arcipelago con i relativi hangar e gli aerei ivi parcheggiati.
Nel frattempo i diplomatici giapponesi stavano conducendo
un'ultima
trattativa
con
quelli
americani
per
ottenere
la
cancellazione dell'embargo, il ripristino della disponibilità dei beni
giapponesi "congelati" ed altre concessioni. L'attacco non era
quindi un evento scontato alla partenza della flotta: due fattori
considerati primari avrebbero potuto far rientrare l'armata
aeronavale prima della battaglia, il primo "tecnico" ed il secondo
"politico":
"
avvistamento da parte americana della flotta nemica prima del
6 dicembre
"
conclusione positiva (per i giapponesi) delle trattative in
extremis con il governo americano
Questa seconda condizione aveva un significato particolare. Il
Giappone si era creato una dubbia fama nel mondo politico
internazionale quando, all'inizio della guerra russo-nipponica (1904
- 1905), la marina giapponese l'8 febbraio 1904 silurò a Port
Arthur due navi russe senza che fosse ancora stata dichiarata la
guerra.
Le disposizioni al comando della Forza di attacco erano di
attendere il "via libera" che sarebbe stato comunicato nel caso
(probabile) in cui le trattative con gli americani non si fossero
concluse positivamente. Il tutto era calcolato in modo che, nel
caso di attacco, i primi aerei giapponesi sarebbero giunti
sull'obiettivo mezz'ora dopo che l'ambasciatore giapponese a
Washington avesse consegnato al Segretario di Stato americano
Cordell Hull la dichiarazione di guerra. Ciò, se da una parte
salvaguardava l'immagine giapponese di fronte al mondo, giacché
l'attacco sarebbe iniziato a stato di guerra formalmente dichiarato,
dall'altra permetteva ai giapponesi di usufruire largamente del
fattore sorpresa, dato che l'esiguo tempo a disposizione degl'ignari
americani di Pearl Harbor non sarebbe stato sufficiente a
consentire loro di preparare una difesa adeguata.
Paradossalmente la via per le Hawaii era libera: nella terza decade
di novembre, sulla base di informazioni ricevute dall'ambasciatore
americano a Tokyo, Joseph Grew, oltre alle segnalazioni di altre
fonti che facevano presumere imminente una guerra con il
Giappone, la Marina statunitense dichiarò il settore dell'Oceano
Pacifico Settentrionale "mare libero" invitando tutte le navi
americane e quelle alleate ad evitare le rotte che attraversavano
quell'area. Ciò rendeva più agevole il compito al viceammiraglio
giapponese
Nagumo,
per
altro
ignaro
del
provvedimento
americano, poiché l'assenza di naviglio civile sulla rotta prevista
riduceva
ulteriormente
le
possibilità
di
un
indesiderato
avvistamento della sua formazione da parte di occhi indiscreti.
Il fallimento delle trattative
Le trattative fra Giappone e Stati Uniti per dirimere le controversie
e far abolire l'embargo erano iniziate nella primavera del 1941, ma
non erano ancora giunte ad un esito fino al tardo autunno. In
ottobre, nell'estremo tentativo di giungere ad un accordo, il capo
del Governo giapponese, principe Konoye, propose al Presidente
degli Stati Uniti un incontro bilaterale ad Honolulu, durante il quale
egli sarebbe stato accompagnato dai responsabili dell'esercito e
della marina giapponesi, coinvolti così nelle decisioni che ne
sarebbero scaturite. Ma Franklin D. Roosevelt respinse la proposta
e le critiche con cui l'iniziativa del capo del governo era stata
accolta in Giappone costrinsero Konoye, dopo il rifiuto americano,
alle dimissioni. Gli successe così come capo del governo il generale
Tojo, che mantenne il dicastero della Guerra e assunse anche
quello degli Affari Interni.
Il 6 novembre 1941 l'ambasciatore giapponese a Washington,
ammiraglio Kichisabur Nomura, aveva presentato al Segretario di
Stato americano Cordell Hull una proposta di accordo. Tuttavia gli
americani, i cui servizi segreti già da oltre un anno avevano
scoperto il modo di decrittare i messaggi scambiati fra il Ministero
degli Esteri giapponese e le sue ambasciate all'estero (che
venivano criptati con il sistema chiamato PURPLE), sapevano che il
Giappone aveva in serbo un'altra proposta di riserva e quindi
questa fu respinta. La seconda, giunta alla Segreteria di Stato
americana il 20 novembre, fu ritenuta anch'essa inaccettabile.
Tuttavia gli americani fecero a loro volta una proposta di accordo,
detta Hull note, dal nome del suo estensore, il Segretario di Stato
Cordell Hull. Essa fu inoltrata all'ambasciatore giapponese a
Washington nel pomeriggio (ora di Washington) del 26 novembre
(in quel momento la flotta giapponese di attacco a Pearl Harbor
era già partita dal punto di incontro della baia di Hitokappu per
seguire la rotta prevista verso le Hawaii). Allorché il Primo Ministro
giapponese, generale Hideki Tojo (1884 - 1948), ebbe letto la nota
disse ai suoi ministri: "Questo è un ultimatum". Pertanto, non
vedendo i giapponesi più alcuno spiraglio per una soluzione
pacifica, il 1º dicembre l'imperatore Hirohito, in una riunione con il
Governo giapponese, approvò la guerra contro Stati Uniti, Gran
Bretagna e Paesi Bassi e di conseguenza l'attacco a sorpresa
contro Pearl Harbor fu confermato. A questo punto la cronologia
degli avvenimenti salienti, la consegna della dichiarazione di
guerra e l'incursione aerea sulla base americana delle Hawaii,
diviene molto ravvicinata, causa non trascurabile anche la forte
differenza di fuso orario fra il Giappone, da dove pervenivano
dettagliate istruzioni all'ambasciatore Nomura, e quello della
capitale americana, dove risiedevano sia il mittente ufficiale che il
destinatario
della dichiarazione. La criticità dei
tempi era
determinata dalla volontà giapponese di vibrare il colpo poco dopo
(mezz'ora) la consegna della dichiarazione di guerra al nuovo,
potente nemico per beneficiare al massimo del fattore sorpresa.
Il Ministero degli Esteri giapponese inviò l'ultimo giorno utile una
serie di messaggi dettagliati all'ambasciatore Nomura, in uno dei
quali gli veniva imposto di consegnare la dichiarazione di guerra
alla Segreteria di Stato americana alle ore 13 di Washington,
corrispondenti alle 7 e 30 delle isole Hawaii. In realtà, per una
serie di contrattempi ed a causa delle lungaggini imposte dal
sistema di decrittazione della dichiarazione di guerra, redatta
direttamente a Tokyo e poi trasmessa all'ambasciatore a
Washington nella notte fra il 6 ed il 7 dicembre, Nomura riuscì a
consegnare il documento ufficiale alla Segreteria di Stato solo alle
14 e 20, ora di Washington, quando le bombe degli aerosiluranti e
dei bombardieri giapponesi cadevano già da oltre mezz'ora sulle
navi americane ancorate a Pearl Harbor.
Le forze americane alle Hawaii
Nell'ottobre 1940, in risposta alla minacciosa spinta espansionistica
giapponese in Indocina (settembre 1940) e alla firma del Patto
Tripartito, il Presidente Roosevelt aveva deciso di dislocare a
tempo indeterminato la Flotta del Pacifico americana (appena
creata, dopo la divisione della U.S.Navy in due flotte oceaniche
separate) alle Hawaii, nella base navale di Pearl Harbor. Questa
mossa aggressiva, presa contro il parere del comandante in capo
della Marina statunitense ammiraglio James O. Richardson
(timoroso per la sicurezza delle proprie navi e quindi incline a
lasciare la flotta a San Diego), puntava a intimidire e frenare le
velleità aggressive del Giappone e a favorire quindi, da una
posizione di forza (accresciuta anche dal minacciato embargo
economico), la felice conclusione delle trattative in corso tra i due
paesi, limitando e riducendo le conquiste nipponiche, secondo
gl'intendimenti della politica estera americana La presenza della
potente flotta americana nelle Hawaii avrebbe dovuto, secondo gli
intendimenti degli stati maggiori americani, impedire con la sua
sola presenza ogni ulteriore progressione giapponese verso la
Malesia, le Filippine (possedimento americano) e le Indie Orientali
Olandesi. La possibilità che la Flotta del Pacifico a Pearl Harbor
invece di divenire una spina nel fianco del Giappone, potesse
trasformarsi in un possibile bersaglio per la aggressiva potenza
asiatica venne scarsamente presa in considerazione a livello di
dirigenza politico-militare americana per due ragioni principali:
"
La sottovalutazione delle capacità operative e delle qualità
tecnico tattiche delle forze navali giapponesi, a cui non veniva
assolutamente accreditata la possibilità di sferrare un attacco su
vasta scala a grande distanza dalle proprie basi.
"
La presenza nelle Hawaii di un sistema difensivo aeroterrestre
moderno e quantitativamente adeguato, apparentemente in grado
di individuare con grande anticipo eventuali minacce e di
distruggere il nemico che si fosse temerariamente spinto verso le
isole.
Devesi inoltre rilevare che agli inizi del 1941 l'attenzione principale
dell'amministrazione Roosevelt era sempre indirizzata verso la
guerra europea e la minaccia della Germania, considerata di gran
lunga il nemico principale e più pericoloso; quindi nella primavera
1941, una grossa parte della Flotta del Pacifico (la moderna
portaerei Yorktown, le corazzate New Mexico, Idaho e Mississippi,
quattro incrociatori e diciotto cacciatorpediniere) venne addirittura
trasferita sull'Atlantico per aiutare la Royal Navy in una sorta di
guerra navale non dichiarata contro la Germania.
L'ottimismo di Roosevelt e dei capi degli stati maggiori (Marshall,
Stark e Arnold) riguardo ad una guerra contro il Giappone (basato
anche sull'imminente entrata in linea delle nuove navi previste
dalle leggi di riarmo navale votate dal Congresso americano nel
1938 - Carl Vinson Act - e nel 1940 - Two oceans Navy Act) era
condiviso anche dal prestigioso generale MacArthur (nominato a
luglio del 1941 comandante in capo delle forze americane in
Estremo Oriente, con base a Manila) che contava non solo di poter
difendere
efficacemente
le
Filippine,
ma
di
poter
agire
offensivamente, con i nuovi bombardieri pesanti B-17 promessigli,
contro le basi giapponesi a Formosa e in Cina.
Le forze americane nelle Hawaii erano affidate all'ammiraglio
Husband Kimmel, nuovo comandante della Flotta del Pacifico dopo
il ritiro di Richardson, e al generale Walter Short, comandante
delle forze terrestri nelle Hawaii, comprese le formazioni aeree
dell'Esercito (guidate dal generale Frederick Martin).
L'attacco dei sommergibili
Il capitano di fregata Minoru Genda, grande esperto di aviazione
navale e principale pianificatore dell' "Operazione Z".
Anche la flotta dei sommergibili era giunta a destinazione, ma non
ebbe fortuna alcuna. 5 sommergibili tascabili furono sganciati nei
pressi dell'isola, con il compito di penetrare nel porto e contribuire
agli affondamenti che avrebbero provocato gli attacchi aerei.
Tuttavia due di questi furono intercettati dalla marina ed affondati
fra le ore 6 e 45 e le 7 e 00. Gli altri sommergibili della flotta del
viceammiraglio Mitsumi Shimitzu non dettero alcun contributo
sostanziale.
Il piano delle incursioni aeree
Gli attacchi aerei furono progettati e coordinati dal capitano di
fregata e pilota lui stesso Mitsuo Fuchida e dal capitano di fregata
Minoru Genda. Le portaerei giapponesi si sarebbero avvicinate al
punto più prossimo all'obiettivo con il favore delle tenebre ma,
dopo le operazioni di decollo, esse si sarebbero allontanate lungo
un'altra rotta e i velivoli, al ritorno, avrebbero percorso un tratto
più
lungo.
Questo
accorgimento
consentiva
una
maggior
probabilità di sfuggire ad un eventuale inseguimento da parte di
aerei americani, che avrebbero dovuto percorrere tratte più lunghe
di andata e ritorno, con ovvi problemi di carburante.
Erano previste due ondate di incursioni aeree ed una terza come
riserva nel caso in cui la ricognizione sull'obiettivo dopo le prime
due ne avesse evidenziata la necessità. Già il 6 dicembre era
pervenuta la notizia all'ammiraglio Nagumo (i giapponesi avevano
un efficiente agente segreto presso il consolato giapponese di
Honolulu, il guardiamarina Takeo Yoshikawa (1914 - 1993), giunto
ad Honolulu il 27 marzo 1941 ed accreditato fra il personale
diplomatico come cancelliere con il falso nome di Tadashi
Morimura) che in rada non era ancorata alcuna delle portaerei
previste. Il numero ed il tipo di obiettivi disponibili tuttavia fu
ritenuto sufficiente a giustificare la prosecuzione della missione.
La prima ondata
La prima ondata era costituita da 3 gruppi distinti, per un totale di
183 velivoli, posti al comando del capitano di fregata Mitsuo
Fuchida. Gli aerei decollarono alle ore 6.00 dalle portaerei poste
nel punto di lancio 26°N 156°W, 550 km c.a. a di Nord di Oahu e
l'attacco ebbe inizio alle ore 7.55 ora locale (ore 18.25 del 7
dicembre secondo il Meridiano di Greenwich).
il Primo gruppo, avente come obiettivi le corazzate, era costituito
da:
 49 bombardieri Nakajima B5N (al comando diretto del capitano
di fregata Fuchida) armati con bombe perforanti da 800 kg ed
organizzati in quattro formazioni;
 40 aerosiluranti Nakajima B5N armati di siluri Type 91, al
comando del capitano di corvetta Murata (della Akagi)
il Secondo gruppo, avente come obiettivi Ford Island e Wheeler
Field, era guidato dal capitano di corvetta Takahachi della
portaerei Shokaku e era costituito da:
 51 bombardieri in picchiata Aichi D3A, armati con bombe da
249 kg, divisi in due gruppi
il Terzo gruppo, avente come obiettivi gli aerei a terra presso Ford
Island, Hickam Field, Wheeler Field, Barber's Point, Kaneohe, era
guidato dal capitano di corvetta Itaya della portaerei Akagi ed era
costituito da:
 43
caccia
Mitsubishi
A6M
"Zero"
per
la
scorta
ed
il
mitragliamento a bassa quota, divisi in sei gruppi.
Alle ore 7.02 la prima ondata fu avvistata dalla postazione radar di
Opana Point (l'unica attiva delle 9 installate sull'isola) dove il
soldato Elliot si stava addestrando sotto la supervisione del soldato
addestratore Lockard. I due radaristi alle 7.15 avvisarono il centro
di Fort Shafter dove la comunicazione fu passata al tenente pilota
Kermit A.Tyler. Questi, privo di solida esperienza, ritenne che
dovesse trattarsi di uno stormo di sei bombardieri americani tipo
B-17 il cui arrivo era atteso a breve e quindi fece rassicurare i due
addetti al radar che avevano effettuato il rilevamento dal
centralinista di turno che tacitò le preoccupazioni dei due con la
semplice frase: Don't worry about it (Non preoccupatevi). La rotta
di avvicinamento della prima ondata di attacco in effetti si
discostava poco da quella lungo la quale i bombardieri americani si
sarebbero dovuti avvicinare. Il primo attacco ebbe inizio alle ore 7
e 49 minuti antimeridiane (ora di Honolulu, le ore 3 e 18
antimeridiane dell'8 dicembre, ora di Tokyo). Proprio alle 7.49 il
capitano Fuchida diramò il segnale radio di attacco a tutte le
squadriglie (To...to...to.., da Totsugekiseyo= attaccare) e quindi
alle 7.53, ormai sicuro dell'insperata riuscita dell'avvicinamento a
sorpresa all'isola di Oahu (non erano infatti in vista aerei americani
e tutto era tranquillo nell'isola) dette via radio anche la famosa
comunicazione che confermava il successo del Kishu-seiko (attacco
a sorpresa): Tora...tora...tora (Tigre...tigre...tigre, in riferimento
ad un antico proverbio giapponese); il celebre messaggio venne
captato sia da Nagumo, che lo ritrasmise subito in Giappone, che
da Yamamoto, in ansiosa attesa nella baia di Hiroshima.
La seconda ondata
La seconda ondata, anch'essa suddivisa in tre gruppi, era
composta da 167 velivoli e comandata dal capitano di corvetta
Shigekazu Shimazaki, della portaerei Zuikaku. Gli aerei decollarono
alle ore 7.15 Il suo attacco ebbe inizio alle ore 8.55.
Il Primo gruppo, guidato direttamente da Shimazaki, era composto
da:
 27 Nakajima B5N, armati di bombe da 249 e da 54 kg, aventi
come obiettivi gli hangar di Kaneohe, di Ford Island e di
Barbers Point
 27 Nakajima B5N, aventi come obiettivo gli hangar e gli aerei di
Hickam Field
il Secondo gruppo, il cui obiettivo era colpire gli incrociatori (e le
portaerei, se fossero state presenti), era guidato dal capitano di
corvetta Egusa della portaerei Soryu e era composto da:
 78 Aichi D3A, armati con bombe da 249 kg, ripartiti in quattro
sezioni
il Terzo gruppo, con obiettivo gli aerei stazionanti sulle piste di
Ford Island, Hickham Field, Wheeler Field, Barber's Point e
Kaneohe, era guidato dal tenente di vascello Iida della portaerei
Soryu ed era composto da:
 35 caccia Mitsubishi A6M "Zero" con compiti di scorta e
mitragliamento a bassa quota, divisi in quattro formazioni
La terza ondata
Nonostante le insistenze di numerosi giovani ufficiali, fra i quali i
"progettisti"
dell'attacco,
Mitsuo
Fuchida
e
Minoru
Genda,
l'ammiraglio Nagumo decise di soprassedere e rinunciò a lanciare
una terza ondata per bombardare i serbatoi di carburante ed i
depositi di siluri a terra e alle ore 13.00 la flotta giapponese invertì
la rotta. I motivi per la rinuncia furono, in sintesi, i seguenti:
 la reazione dell'artiglieria contro aerei americana era divenuta
notevolmente più efficace nel corso della seconda ondata: due
terzi delle perdite di velivoli giapponesi si erano verificate nel
corso di questa ondata ed il rischio di una terza ondata era
quello di perdere una percentuale troppo elevata della forza
aerea
 la posizione delle tre porterei americane, di cui originariamente
era prevista la presenza in porto od alla rada, era al momento
ancora sconosciuta e gli aerei su queste imbarcati avrebbero
potuto attaccare da un momento all'altro. Inoltre non era noto il
numero totale di aerei da combattimento presenti nelle basi
dell'arcipelago e Nagumo temeva di non averli resi tutti o quasi
inoffensivi
 il lancio di una terza ondata avrebbe richiesto tempi di
preparazione tali da condurre ad un rientro dei velivoli a bordo
delle portaerei nelle ore notturne, grazie anche al sistema
adottato dalle portaerei di allontanarsi subito dopo l'attacco,
esperienza che fino a quel momento nessuna marina al mondo
aveva ancora fatto
 le scorte di carburante della flotta di attacco non avrebbero
consentito una permanenza troppo lunga nelle acque del
Pacifico a nord delle Hawaii, il che comportava il rischio di dover
abbandonare in panne alcune navi da battaglia
 Nagumo era convinto che i risultati raggiunti avessero
sostanzialmente soddisfatto le aspettative della missione.
Era inoltre pratica comune nella marina giapponese privilegiare la
conservazione della forza di combattimento rispetto al vantaggio di
una distruzione totale dell'obiettivo.
L'esito dell'attacco
La ex-corazzata Utah, riclassificata prima come bersaglio e poi
come nave addestramento cannonieri (AG-16), venne quasi subito
sventrata da due siluri, e iniziò a sbandare; dietro di essa
l'incrociatore leggero Raleigh venne centrato da un siluro.
Anche l'incrociatore Helena, ormeggiato in coppia con il posamine
Oglala, venne colpito da un siluro: l'Oglala, sebbene non incassò
esso stesso il siluro, ricevette danni addirittura più gravi di quelli
riportati dall'Helena e si rovesciò lentamente su di un fianco,
affondando.
Non migliore fu la situazione al Battleship Row, il viale delle
corazzate: delle 7 corazzate che vi erano ormeggiate, quattro
(Oklahoma, West Virginia, California e Nevada) furono ormeggiate
all'esterno oppure totalmente esposte; una quinta, l'Arizona, fu
protetta solo in minima parte dalla nave officina Vestal. Solo tre
corazzate furono protette dai siluri: Tennessee e Maryland,
rispettivamente da West Virginia e Oklahoma, e l'ottava corazzata,
la Pennsylvania, nave ammiraglia, che però si trovava in un bacino
di carenaggio e non nel Battleship Row.
La California venne colpita da almeno quattro siluri; West Virginia
e Oklahoma vennero centrate da un siluro ciascuna quasi
contemporaneamente, mentre l'Arizona venne colpita da due siluri,
uno a prua e uno a poppa; la Nevada mise le macchine in
pressione e tentò di uscire dal porto, ma venne bloccata da un
siluro e da tre bombe: in fiamme, devastata e con cinquanta morti,
la corazzata rischiò di affondare ostruendo l'ingresso del porto; per
evitare ciò, il comandante la fece incagliare.
Nel
frattempo,
la
corazzata
California,
già
gravemente
danneggiata, venne colpita da altre due bombe, s'inclinò
leggermente e affondò sui bassi fondali: i morti furono novantotto.
La corazzata Arizona venne colpita da altre due bombe e da una
terza bomba da 250 kg che perforò il ponte tra la prima e la
seconda torre prodiera da 356 mm, sfondando ponti e paratie
scendendo nell'interno della nave, arrestando la sua corsa solo nel
deposito munizioni, che conteneva i proiettili e la polvere da sparo.
La bomba esplose facendo saltare letteralmente in aria l'Arizona; la
prima torre di cannoni andò in pezzi, la seconda collassò, il tripode
crollò sulla sovrastruttura prodiera che a sua volta collassò. Tutto
prese poi fuoco. I morti furono 1177, tra di essi l'ammiraglio Kidd e
il comandante Van Valkenburgh. Dei 2403 morti di Pearl Harbor, i
morti sull'Arizona furono quasi la metà.
La West Virginia fu colpita da altri cinque siluri e completamente in
fiamme affondò all'ormeggio, con 105 morti. L'Oklahoma venne
colpita da almeno altri quattro siluri tutti sulla stessa fiancata e
iniziò lentamente ad inclinarsi. Gradualmente lo sbandamento
raggiunse i 90 gradi, mentre gli uomini a bordo cercarono di
salvarsi aggrappandosi alle balaustre sul ponte oppure rimasero
intrappolati in sala macchine.
Sul ponte di coperta, l'equipaggio scivolò lungo il ponte da un lato
all'altro cadendo in acqua. Il tripode prodiero si ruppe alla base e
si schiantò in acqua; Dopo meno di dieci minuti la corazzata si
capovolse completamente (180 gradi) e mentre la carena fuoriuscì
dall'acqua, le eliche e i timoni emersero dal mare. Gli uomini
dell'equipaggio tentarono di salvarsi arrampicandosi sulla carena
ma la maggior parte dei macchinisti rimase intrappolata nello
scafo. I morti furono 429.
Gli aerei mitragliarono a bassa quota gli equipaggi dell'Oklahoma e
della West Virginia che nuotavano vicino alle loro navi.
Alle corazzate protette dai siluri non andò comunque meglio: la
Tennessee venne centrata da due bombe provocando 5 morti e la
Maryland venne anch'essa colpita da due bombe e mitragliata dagli
aerei nipponici. Solo la Pennsylvania si salvò. La nave officina
Vestal venne colpita da due bombe mentre la nave d'appoggio
idrovolanti Curtiss fu dilaniata da almeno una bomba; il
rimorchiatore Sotoyomo venne invece colpito e affondato. Nel
frattempo la Utah, che era stata gravemente colpita, si capovolse.
La seconda ondata, composta da 173 aerei, completò l'opera.
La Pennsylvania venne colpita da una bomba che fece esplodere i
serbatoi di carburante provocando un incendio e 18 morti,
venendo poi colpita anche da una seconda bomba, mentre i
cacciatorpediniere Cassin e Downes - ormeggiati nello stesso
bacino - vennero colpiti e danneggiati in maniera molto più grave:
il Cassin venne colpito da una bomba e si rovesciò addosso al
Downes; quest'ultimo venne colpito e incendiato da due bombe.
Nel bacino galleggiante il cacciatorpediniere Shaw venne colpito da
una bomba nel deposito munizioni. facendo esplodere la nave e
spezzandola in due; la prua si rovesciò e la poppa affondò.
Alla fine dell'attacco, Pearl Harbor fu un mare di fiamme. Ovunque
fuoco, fiamme, rottami e navi affondate.
Su 96 navi statunitensi 3 furono distrutte o capovolte in maniera
irrimediabile (le corazzate Arizona e Oklahoma, la corazzata
bersaglio Utah), 6 affondate, rovesciate o arenate seppur
recuperabili (le corazzate California, West Virginia, Nevada, il
posamine
Oglala,
i
cacciatorpediniere
Cassin
e
Shaw),
7
gravemente danneggiate (la corazzata Pennsylvania, la nave
officina Vestal, la nave appoggio idrovolanti Curtiss', gli incrociatori
Raleigh, Helena e Honolulu e il cacciatorpediniere Downes), 2
mediamente danneggiate (le corazzate Tennessee e Maryland) e 4
danneggiate lievemente (3 incrociatori e il cacciatorpediniere
Helm). Sui campi d'aviazione di Oahu furono distrutti 188 aerei
americani e altri 159 danneggiati; le perdite umane ammontarono
a 2.403 morti americani (2.008 della Marina, 109 dei Marines, 218
dell'Esercito, 68 civili) e 1.178 feriti. Secondo i calcoli di Tokyo i
giapponesi persero 29 aerei, tra cui 9 caccia, 15 bombardieri e 5
aerosiluranti, un grande sommergibile e tutti e cinque i
sommergibili tascabili.
I morti da parte nipponica furono 64 di cui 55 aviatori. Non si
seppe mai quanti fossero stati i marinai a bordo del grande
sommergibile. Alle 5,05 (ora in Giappone), l'ammiraglio Nagumo
confermò alle supreme autorità militari il "kishu-seiko", il successo
dell'attacco di sorpresa. Sette ore più tardi il Mikado appose il
sigillo imperiale al rescritto che proclamò lo stato di guerra con gli
Stati Uniti d'America.
Reazioni
L'8 dicembre del 1941 il Congresso degli Stati Uniti dichiarò guerra
al Giappone, con il solo voto contrario di Jeannette Rankin.
Dibattito sulla riuscita o meno dell'operazione
L'attacco fu nel contempo per i giapponesi un successo ed un
fallimento. È considerato un successo perché i giapponesi
riuscirono a ottenere il loro scopo: mettere fuori causa le corazzate
americane.
Può invece essere considerato un fallimento per i seguenti motivi:
 l'attacco non distrusse bersagli chiave facilmente distruggibili,
come i grandi depositi di carburante e di siluri. Basti pensare
che dal 1943 la campagna sottomarina americana contro i
mercantili giapponesi porterà il Paese del Sol Levante sull'orlo
della fame;
 nonostante
gli
irrimediabilmente
enormi
perse;
danni,
le
altre,
solo
anche
3
navi
se
con
furono
molte
riparazioni, rientrarono in servizio prima della fine della guerra;
 i giapponesi sopravvalutarono le difese dell'isola e questo portò
al terzo fallimento: dopo la seconda ondata, non vollero
rischiare un terzo attacco aereo. Una forza da sbarco anche
solo delle dimensioni di quella che attaccò la Malesia e
Singapore (30.000 uomini) avrebbe inoltre potuto, con la
superiorità aerea nipponica, conquistare l'isola privando la U.S.
Navy del suo comando nel Pacifico e costringendola ad operare
dalla California;
 le tre portaerei americane, Enterprise, Lexington e Saratoga,
obiettivo primario dell'azione giapponese, non erano in porto al
momento dell'attacco. Le tre portaerei furono successivamente
impiegate dagli Stati Uniti d'America nella guerra del Pacifico
contro il Giappone.
 L'attacco a Pearl Harbor (e le operazioni concomitanti nel sud
est asiatico e in Melanesia) fecero entrare in guerra il Giappone
con gli Stati Uniti, l'impero Britannico, l'Olanda e i loro numerosi
alleati; un conflitto troppo grande e impegnativo per le risorse,
tutto sommato magre e già logorate nella guerra con la Cina,
dell'impero nipponico. Solo con grande fortuna, coraggio
fanatico e audacia le forze giapponesi, sfruttando anche la
distrazione
causata
dalla
guerra europea,
riuscirono
ad
effettuare un'eccezionale espansione nel '41-'42, venendo poi
sconfitte.
Teorie cospiratorie
La tesi revisionista
Alcuni scrittori, e tra questi Robert Stinnett, ritengono che l'attacco
a Pearl Harbor non solo avrebbe potuto essere validamente
contrastato, ma che addirittura sia stato favorito dalle massime
autorità americane, specificatamente per volontà e determinazione
dell'allora presidente degli Stati Uniti d'America Franklin Delano
Roosevelt. Secondo questa teoria, il Giappone sarebbe stato
deliberatamente provocato alla guerra attraverso misure restrittive
quali l'embargo petrolifero e quello su altre materie essenziali
all'economia giapponese. Inoltre, tra marzo e luglio 1941, navi
della Marina militare americana in assetto di guerra si avvicinarono
diverse volte alle acque territoriali giapponesi. Il 31 luglio 1941 il
Ministero della Marina giapponese consegnò all'ambasciatore negli
Stati Uniti una lettera formale di protesta.
In seguito la dislocazione delle navi da guerra americane nelle
Hawai sarebbe stata elaborata in modo da costituire un'esca
attraente per il bellicoso governo giapponese. Inoltre i segnali
evidenti del movimento della flotta del Sol Levante, destinata a
portare gli aerei che avrebbero attaccato Pearl Harbor, sarebbero
stati deliberatamente ignorati dalla marina americana per ordini
provenienti dall'alto.
Tutto questo avrebbe avuto un solo scopo: invitare il Giappone a
vibrare un colpo di forte rilevanza militare (e politica) contro gli
Stati Uniti, in modo tale che l'opinione pubblica americana (e
quella dei suoi rappresentanti al Congresso) passasse da una larga
maggioranza anti-interventista, rispetto alla guerra che si stava
combattendo
in
Europa,
ad
una
opinione
maggioritaria
interventista. Franklin Delano Roosevelt infatti aveva capito che il
popolo da lui governato non si accontentava dell'indignazione
contro Hitler per il proditorio attacco alla Polonia e di quella
destata dal comportamento aggressivo dei giapponesi in Cina e
negli altri paesi asiatici, per accettare l'ingresso in guerra degli
Stati Uniti a fianco d'Inghilterra e Francia contro le potenze
dell'Asse, ma che solo lo shock di un attacco diretto al proprio
paese avrebbe modificato decisamente l'atteggiamento degli
americani verso la guerra.
A settembre del 1940, cioè poco più di un anno prima dell'attacco
a Pearl Harbor, il Giappone aveva stipulato con Germania ed Italia
un patto di mutua alleanza, dando origine al cosiddetto RoBerTo
(Asse Roma-Berlino-Tokyo): Roosevelt riteneva che un'eventuale
vittoria delle Potenze dell'Asse in Europa (Germania ed Italia) ed in
Asia (Giappone), che nella situazione di allora pareva probabile,
avrebbe condotto successivamente ed inevitabilmente ad una
guerra fra queste ultime e gli Stati Uniti d'America i quali, in quel
momento, si sarebbero trovati attaccati su due fronti e in un
momento di impreparazione militare.
A Roosevelt non sfuggivano inoltre nè i pericoli derivanti
dall'ambiguo atteggiamento della Spagna di Francisco Franco, la
cui neutralità si sarebbe presumibilmente mutata in alleanza con
l'Asse in caso di vittoria di quest'ultima sull'Inghilterra, nè le
simpatie di cui godeva la Germania di Hitler in ampi strati della
popolazione sudamericana.
La nascita della diatriba
La teoria che dietro l'attacco a Pearl Harbor ci fosse in realtà una
sapiente regia americana emerse molto presto, tanto che Liddell
Hart scrisse: "… il colpo di Pearl Harbor nel 1941 costituì un tale
shock da suscitare non solo quasi unanimi critiche verso le autorità
capeggiate dal presidente Roosevelt, ma anche il profondo
sospetto che il disastro fosse da attribuire a fattori più gravi della
cecità e della confusione." e poi: "In realtà, anche se da tempo il
presidente Roosevelt sperava e cercava di trovare un modo per far
scendere in guerra l'America contro Hitler, quanto si sa con
certezza della presunzione e degli errori di calcolo degli alti
esponenti dell'esercito e della marina è sufficiente a ridimensionare
le tesi di quegli storici americani "revisionisti" virgolettato nel testo,
n.d.r.], i quali sostengono, sulla base di prove scarse e tutt'altro
che convincenti, che Roosevelt escogitò e preparò il disastro di
Pearl Harbour per spingere il paese ad entrare in guerra."
Lo storico britannico sposò qui la tesi dell'assenza di qualsivoglia
azione (o non azione) intenzionale per provocare il disastro bellico
da parte di Roosevelt e dei suoi più stretti collaboratori. In effetti,
al momento della pubblicazione del libro di Hart, il 1970, i
documenti della marina che avrebbero potuto contribuire a chiarire
i fatti e le intenzioni, erano ancora coperti da segreto militare. Solo
con l'autorizzazione, da parte del Presidente Jimmy Carter, di
rendere disponibili i testi tradotti delle intercettazioni dei messaggi
della Marina Nipponica di quel periodo, avvenuta nel 1979, e con
l'applicazione più aperta del Freedom of Information Act è stato
possibile approfondire gli aspetti della questione, anche se la tesi
revisionista non è al momento accettata dagli storici.
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