Analysis,dicembre2016 ISSN2421-308X Evoluzione della disciplina giuridica del licenziamento di Umberto Maria Ceci1 Alla stregua di un principio generale di diritto radicato nell’autonomia dei privati, ciascuna delle parti, in un rapporto di lavoro, è legittimata a porre fine ai rapporti di durata, contraddistinti anche dalla reciprocità delle prestazioni, eseguendo un congruo preavviso nel rispetto dei termini di legge oppure liquidando la c.d. indennità sostitutiva, tranne che, il sopravvenire di una giusta causa consenta alla parte interessata di recedere in via istantanea. Nella circostanza in esame, le contrapposte condizioni di potere di cui gode il datore di lavoro e di assoggettamento del prestatore di lavoro incidono in misura rilevante sulla fisionomia e la normativa applicabile relativamente agli atti attraverso i quali i soggetti del rapporto di lavoro possono determinarne la cessione. Il recesso del datore di lavoro assume il nome di licenziamento, il quale atto è rappresentativo della volontà di interrompere la collaborazione in virtù del venir meno dell’interesse alla prosecuzione della prestazione di lavoro; pertanto, il licenziamento costituisce la causa di estinzione del rapporto più diffusa, nonché maggiormente rilevante e più controversa, in quanto espone il lavoratore, al rischio di perdere il posto di retribuzione, per effetto di un provvedimento “datoriale”. Indi per cui, si avverte la necessità sempre più pressante stante l’evoluzione della branca del diritto del lavoro, di apprestare adeguate tutele dell’eventuale interesse del prestatore d’opera, assicurandogli congrue vie giuridiche affinché il rapporto di lavoro continui. Ciò nonostante, è da escludersi tuttavia tuttora la drastica e incostituzionale soluzione di sottoporre il recesso del datore di lavoro a procedure di autorizzazione e/o controllo ad opera di autorità amministrative o di organismi sindacali. Le normative dettate del legislatore e la contrattazione collettiva battono invece la via della predisposizione di oneri formali e procedurali, e dell’imposizione di requisiti o limiti sostanziali, per la validità del licenziamento. Il recesso del lavoratore assume invece il nome di dimissioni, per mezzo del quale si attua la volontà di quest’ultimo di svincolarsi dal rapporto dal vincolo di subordinazione nei confronti del datore; in tal caso, la facoltà di far proseguire o no il rapporto nella consapevole valutazione dei suoi interessi non può essere sottoposta ad altro limite o condizionamento, se non quello del preavviso o della corresponsione dell’indennità sostitutiva2. Nell’alveo delle cause volontarie che possono portare alla risoluzione del rapporto di lavoro un ruolo marginale spetta infine alla risoluzione del rapporto per effetto dell’accordo intervenuto tra datore e prestatore di lavoro: il c.d. mutuo consenso. A proposito del licenziamento, in una lunga fase della disciplina giuridica del diritto del lavoro subordinato, resta ancora oggi fermo alla regola formalistica contrattuale della libera recedibilità del rapporto del datore e del prestatore di lavoro. 1AbilitatoallaprofessionediAvvocatodal2015,giàPraticantenotaio. 2 R.Sconnamiglio,Dirittodellavoro,Jovine,Napoli,1997,514 1 Analysis,dicembre2016 ISSN2421-308X Difatti, l’art. 9 R.D.L. n. 1825/1924 statuisce che: “ il contratto d’impiego a tempo indeterminato non può essere risolto da nessuna delle parti senza previa disdetta e senza indennità…”, il quale dettato normativo deve collegarsi al perimetro normativo di cui all’art. 2118c.c. dispone in linea generale che ciascuna delle parti “ può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nei tempi e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi e secondo equità.” Motivo per il quale il licenziamento rappresenta un atto negoziale caratterizzato esclusivamente dalla funzione estintiva del rapporto, senza che il datore recedente debba dar conto dei motivi del provvedimento che si ritengono irrilevanti ed insindacabili. Solamente a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione si forma un indirizzo dottrinale, che afferma l’illegittimità, e la conseguente nullità, del licenziamento viziato da un motivo illecito ed ingiusto, consistente nell’eccesso o abuso di potere del datore di lavoro, in contrasto con l’art.4 Cost. in quanto sancisce il diritto al lavoro e con l’art.42 Cost. il quale stabilisce che l’iniziativa economica privata non può attuarsi in contrasto con l’utilità sociale ed in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Sembra così potersi escludere che dai principi costituzionali inerenti alla tutela di beni interessi delle categorie lavoratrici di contenuto diverso e più esteso, come l’impegno della Repubblica a realizzare il diritto dei cittadini al lavoro e l’imposizione di freni all’iniziativa economica privata, si possa desumere la fissazione di limiti al potere discrezionale di recesso del datore di lavoro. Indi per cui, fondatamente la Corte Costituzionale (sent. n.45/1965) respinge l’eccezione d’illegittimità dell’art. 2118c.c., pur manifestando l’auspicio che il legislatore intervenga a disciplinare al più presto la materia a salvaguardia di interessi vitali dei lavoratori. Piuttosto si deve considerare che singole norme del codice civile e successivamente della legislazione speciale pongono vincoli alla facoltà di recesso del datore, per la sopravvenienza di eventi afferenti alla sfera personale del prestatore di lavoro, che esigono un’adeguata tutela del suo interesse alla conservazione del posto. L’art. 2110c.c. sospende il potere di recesso ex art. 2118 del datore di lavoro nei casi di infortunio, malattia, gravidanza; gli artt. D.L.gs. C.P.S. n. 303/1946, 77 D.P.R. n.237/1964 e 22L. n. 958/1986 sanciscono il diritto alla conservazione del porto dei lavoratori chiamati alle armi per adempiere agli obblighi di leva; la L. n.860/1950 e poi la L. n. 1204/1971 sanciscono i periodi dei quali la lavoratrice gestante e madre non può essere licenziata, l’art. 1 L. 9.1.1963 n.7 sancisce la nullità delle c.d. clausole di nubilato, che prevedono la risoluzione del rapporto di lavoro in conseguenza del matrimonio della lavoratrice, nonché la nullità del licenziamento intimato a causa del matrimonio. Le prime iniziative di regolamentazione generale del potere di recesso del datore di lavoro, dopo il temporaneo blocco dei licenziamenti imposto nell’immediato dopo guerra, vengono prese invece dall’autonomia sindacale. L’accordo interconfederale per il settore dell’industria del 7.8.1947, ed in seguito gli accordi interconfederali (sempre per l’industria) del 18.10.1950, reso obbligatorio erga omnes con D.P.R. 14.7.1960 n.1011, e del 29.4.1965 dettano disposizioni relativamente alla forma ed alla causa giustificatrice del licenziamento nonché alle conseguenze delle loro trasgressioni , che costituiscono un importante precedente della disciplina legislativa. 2 Analysis,dicembre2016 ISSN2421-308X Il datore di lavoro deve comunicare per iscritto il licenziamento al lavoratore , che può esigere la motivazione. Il lavoratore, che ritenga ingiustificato il licenziamento può chiedere , una volta decorso inutilmente il termine previsto per il tentativo di accordo, la convocazione a mezzo dell’associazione sindacale di categoria di un collegio di conciliazione e arbitrato appositamente costituito. Il collegio effettua un tentativo di accordo e, in caso di esito negativo, decide secondo equità e senza obbligo di formalità procedurali. Il lodo invita il datore di lavoro, che non indica e prova motivi idonei per giustificare il recesso, a ripristinare il rapporto di lavoro e a dare comunicazione della sua disponibilità a riassumere il lavoratore entro il termine massimo di tre giorni, oppure versargli una penale in misura variabile a seconda che l’azienda abbia oltre ovvero fino a sessanta dipendenti e che l’anzianità di servizio del lavoratore sia inferiore a trenta mesi o sia superiore a venti anni. A breve distanza di tempo la L.15.7.1966 n.604 stabilisce, nell’ambito d’operatività determinato dalla consistenza numerica del personale dipendente, che il licenziamento individuale deve essere effettuato con le modalità prescritte, e sorretto da una adeguata giustificazione (giusta causa o giustificato motivo). Il datore di lavoro è obbligato a riassumere il dipendente illegittimamente e/o ingiustamente licenziato o a corrispondergli altrimenti una penale che può oscillare entro parametri prestabiliti. Una volta trascorso qualche anno, è intervenuto l’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori il quale introduce, riguardo alle imprese industriali e commerciali ed alle loro unità produttive, nonché alle imprese agricole, entro diversi limiti di consistenza numerica del personale dipendente, un ben più energico regime di tutela della prosecuzione del rapporto, riconoscendo al dipendente, in caso di accoglimento dell’impugnativa di licenziamento, il diritto alla reintegra nel posto di lavoro oltre che il risarcimento del danno. Successivamente, la L. n.108/1990, modificando sostanzialmente la precedente disciplina, ha abbattuto il limite della consistenza numerica del personale dipendente riguardo alla esigenza di giustificatezza del licenziamento con effetti obbligatori; estende i confini del diritto alla reintegra nel posto di lavoro, rafforza il regime del risarcimento del danno conseguente al licenziamento illegittimo e/o ingiustificato. 3