Economia dei Sistemi finanziari

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Economia dei Sistemi Finanziari
Materiali per il Corso
Parte I
1
Rischi finanziari e assetti istituzionali
2
Evoluzione dei sistemi finanziari
3
Crisi finanziarie idiosincratiche e sistemiche
4
Crisi finanziarie idiosincratiche: analisi di casi
Prof. Mario Tonveronachi
Dipartimento di Economia politica e Statistica
Università di Siena
A.A. 2016-17
Prof. Mario Tonveronachi
I.1 Rischi finanziari e assetti istituzionali
Dato che i contratti finanziari estendono i loro effetti nel futuro, un problema
fondamentale della finanza è costituito dal permettere agli operatori di prendere
decisioni informate circa il futuro
Comune è affermare che il futuro è incerto, ossia che le informazioni sono incomplete.
Per un singolo operatore ciò può significare che egli non ha accesso a informazioni che
comunque esistono nel sistema. Si parla in questo caso di asimmetrie informative o di
incertezza idiosincratica. Ma significa anche che alcune informazioni circa il futuro non
esistono; in questo caso si parla di incertezza sistemica.
La precedente distinzione è importante perché nel primo caso si possono sviluppare
istituzioni e contratti tesi a limitare le asimmetrie informative, o comunque i loro effetti
negativi. Nel secondo caso si possono affinare tecniche di previsione basate
sull’esperienza passata; dato però che per sua natura il sistema economico produce
continui cambiamenti, che, come quelli causati dal progresso tecnologico, sono
sovente strutturali, il futuro, specie quello più lontano, è largamente non prevedibile.
Qualsiasi contratto finanziario implica quindi l’assunzione di rischi, ossia la possibilità
che le decisioni correnti possano non essere convalidate dai risultati futuri. Incertezza
sistemica e idiosincratica concorrono congiuntamente, seppur in misura diversa, a
determinare e caratterizzare i rischi finanziari. La presenza di incertezza sistemica
pone seri limiti ai metodi di misura dei rischi basati sull’estrapolazione dei dati presi dal
passato.
Vediamo sinteticamente le principali tipologie di rischio.
Rischio di credito
Il rischio di credito si riferisce ad una potenziale perdita di valore di un attivo causato
dall’incapacità della controparte di onorare pienamente un contratto. Il caso classico è
quello della possibilità che un debitore non assolva in parte o totalmente gli obblighi
previsti dal contratto di debito (prestito), ossia il pagamento degli interessi e il rimborso
del capitale. Il rischio di credito è però presente in molte altre tipologie di contratti. I
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titoli obbligazionari comportano un rischio di credito in relazione a cambiamenti del
merito di credito (probabilità di servire il debito) dell’emittente. Il rischio di credito è
presente quando si offrano garanzie, quindi anche in contratti derivati come i Credit
Default Swaps.
Sul rischio di credito influiscono fattori sia di natura sistemica (ad esempio la crescita
economica in quanto si rifletta sul merito di credito dello specifico debitore), sia di
natura idiosincratica (ad esempio relativi alla qualità della gestione dell’impresa
debitrice). Il rischio di credito può essere scomposto in due fattori principali. La
probabilità di default e la percentuale di non ripagamento in caso di default.
Come gli studenti hanno visto in altri Corsi, la valutazione del rischio di credito è
complessa. In questa sede ci limitiamo a ricordare, per questa come per le altre
tipologie di rischio, la differenza esistente tra una piena misura teorica e misurazioni
empiriche. Trattandosi di contratti i cui effetti si traslano nel futuro, essi sono soggetti
all’incertezza sistemica ed idiosincratica per cui non esiste quell’insieme completo di
informazioni che sarebbe necessario per il calcolo ‘oggettivo’ dei fattori del rischio di
credito. Informazioni più esaurienti sono invece disponibili per il passato. Da qui lo
sviluppo di metodi statistici di stima di quei fattori. Al di là dei limiti intrinseci delle varie
metodologie statistiche e dei dati quantitativi disponibili, si tratta di stime operate su
un’esperienza passata che può differire, anche sostanzialmente, dalla dinamica futura.
Più il sistema produce cambiamenti, quantitativi e qualitativi, rispetto al passato, meno
queste misure empiriche sono di guida sicura per il futuro. Ciò non elimina la necessità
di ricorrere a quelle stime; occorre però che gli operatori siano consapevoli dei loro
limiti.
Rischio di controparte
Tradizionalmente il rischio di controparte è riferito a operazioni di trading nella quali è
caratteristico uno sfasamento temporale negli adempimenti delle due parti. Una delle
due parti può risultare inadempiente al momento dell’esecuzione del contratto.
Riportiamo la definizione data dalla Banca d’Italia, che tiene conto di esposizioni
assunte mediante strumenti derivati.
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Il rischio di controparte è il rischio che la controparte di una transazione avente a
oggetto determinati strumenti finanziari risulti inadempiente prima del regolamento
della transazione stessa.
Il rischio di controparte grava su alcune tipologie di transazioni, specificamente
individuate, le quali presentano le seguenti caratteristiche: 1) generano una
esposizione pari al loro fair value positivo; 2) hanno un valore di mercato che evolve
nel tempo in funzione delle variabili di mercato sottostanti; 3) generano uno scambio
di pagamenti oppure lo scambio di strumenti finanziari o merci contro pagamenti.
Si tratta di una particolare fattispecie del rischio di credito, che genera una perdita se
le transazioni poste in essere con una determinata controparte hanno un valore
positivo al momento dell’insolvenza. A differenza del rischio di credito generato da un
finanziamento, dove la probabilità di perdita è unilaterale, in quanto essa è in capo
alla sola banca erogante, il rischio di controparte crea, di regola, un rischio di perdita
di tipo bilaterale. Infatti, il valore di mercato della transazione può essere positivo o
negativo per entrambe le controparti.
Per i contraenti il rischio di controparte può venire ridotto in presenza di una
organizzazione (in genere un mercato o una clearing house) con buon merito di credito
che agisca come intermediario e che a fronte di un limitato compenso assuma in
proprio quel rischio. Ovviamente nell’aggregato il rischio non scompare, viene solo
traslato ad un diverso soggetto.
Rischio operativo
È un rischio presente in qualsiasi impresa, legato alla variabilità dei suoi risultati. In
campo finanziario (intendendo con ciò anche la gestione finanziaria di imprese non
finanziarie) esso assume però caratteri specifici. In primo luogo, come meglio vedremo
parlando delle crisi finanziarie, la volatilità dei mercati finanziari può divenire estrema in
alcuni periodi, sottoponendo ad enormi stress i conti di molti intermediari. In secondo
luogo, a differenza dell’operatività tipica dell’attività di produzione, quella finanziaria
può velocemente spostare ingenti capitali tra usi diversi perché non soggetta a elevati
costi di uscita (sunk costs), ovvero perché gode di costi di transazione assai limitati. Se
ciò permette pronti e poco costosi aggiustamenti di portafoglio, permette anche
cambiamenti repentini del profilo di rischio non sempre ben valutati o in alcuni casi non
voluti. Una fattispecie di questi ultimi è il rischio di frode (vedi il recente caso del trader
di UBS).
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Rischio di mercato
Il rischio di mercato deriva dal detenere attivi il cui prezzo è determinato nei mercati nei
quali sono scambiati. A seconda del tipo di attivo, si parla di:
rischio d’interesse, per titoli obbligazionari il cui valore è inversamente relazionato ai
tassi d’interesse di mercato;
rischio azionario, per le azioni il cui valore fluttua in relazione a fattori macro e
microeconomici;
rischio di cambio, quando si ha una posizione (attiva e/o debitoria) in valuta estera.
Rischio di liquidità
La liquidità assume connotazioni complesse, derivanti dalle specifiche caratteristiche
degli strumenti finanziari, da quelle dei mercati nei quali sono scambiati e da come le
diverse attività e passività finanziarie strutturano l’operatività degli intermediari.
Sgombriamo il campo da possibili fraintendimenti. L’abbandono di un attivo liquido per
eccellenza, la moneta legale, a favore di una qualsiasi attività finanziaria è ovviamente
fonte di tutti i rischi finanziari. Per rischio di liquidità non si intende il complesso di rischi
derivanti dall’abbandono della posizione in moneta legale. Si intende, più
limitatamente, il rischio derivante da assumere una posizione più o meno liquida, come
definita di seguito, indipendentemente dagli altri tipi di rischio che possono essere
associati.
Iniziamo con una definizione riferita ad uno strumento: il grado di liquidità di un attivo
finanziario equivale alla probabilità di convertirlo in un certo ammontare di valore
(contante) entro un determinato periodo di tempo. Le dimensioni della liquidità sono
quindi: valore, tempo e probabilità.
Confrontiamo ad esempio un deposito bancario a vista con un titolo obbligazionario
scambiato in un mercato secondario, non considerando gli altri tipi di rischio che
possono essere associati ai due strumenti. Il deposito bancario è prontamente
liquidabile o trasferibile a valore certo, cioè al suo valore nominale; con costi di
transazione trascurabili, il valore netto di realizzo equivale sostanzialmente al valore
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nominale. Da qui la denominazione dei depositi bancari come quasi moneta. Un titolo
non è utilizzabile negli scambi al dettaglio, è liquidabile nel mercato secondario con
costi di transazione significativi e ad un valore di realizzo incerto. Come vedremo tra
breve, i prezzi nei mercati secondari possono muoversi indipendentemente dal variare
degli altri tipi di rischio. La dimensione temporale è ora importante: data la variabilità
del prezzo nel mercato secondario, la probabilità di ottenere il valore massimo, o quello
desiderato, aumenta col tempo disponibile per la sua liquidazione. Mentre il deposito
bancario è quasi perfettamente liquido, il grado di liquidità del titolo è inferiore e
dipende dai costi di transazione e dalla variabilità del suo prezzo nel mercato
secondario. Altro esempio: i prestiti bancari non hanno mercati secondari (non
consideriamo qui i processi di cartolarizzazione), per cui il grado di liquidità di un
prestito si relaziona alla sua durata.
Quindi il grado di liquidità dipende da un lato dalle caratteristiche specifiche degli
strumenti finanziari e dall’altro lato dall’esistenza e dalle caratteristiche di mercati
secondari. L’esistenza di mercati secondari organizzati permette di ridurre i costi di
transazione, i tempi di liquidazione e di rendere meno casuale la fissazione del prezzo.
Non sempre esistono mercati secondari organizzati e non tutti permettono scambi
fluidi. Se consideriamo un immobile, sappiamo che il suo costo di transazione, specie
la provvigione per l’agenzia immobiliare, incide significativamente sul valore netto e
che il prezzo dipende fortemente dal tempo di attesa, che può raggiungere molti mesi.
Il mercato immobiliare è quindi scarsamente liquido, in gran parte a causa
dell’eterogeneità dei beni scambiati. La standardizzazione di attivi reali e finanziari è,
infatti, un requisito indispensabile per l’esistenza di mercati secondari liquidi. Strumenti
finanziari non standardizzati sono i cosiddetti contratti over the counter (OTC); essi
hanno il vantaggio di poter essere configurati con le caratteristiche specifiche richieste
dalla controparte, ma proprio per questo non hanno mercati secondari e sono
sostanzialmente illiquidi.
Veniamo quindi alle caratteristiche specifiche che conferiscono liquidità ai mercati.
Questa è definita come la possibilità di operare transazioni rapidamente, con bassi
costi e con impatto nullo sul prezzo. Quindi un importante connotato della certezza del
valore nei mercati secondari è che l’operazione di acquisto o di vendita non deve
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influenzare il prezzo dell’attività. La liquidità dei mercati ha quattro dimensioni. Il grado
di tensione (tightness), misurato dalla differenza tra prezzo di acquisto e di vendita
(bid-ask spread); minore è lo spread, maggiore è la liquidità. Lo spessore (depth),
ovvero l’ammontare delle transazioni che possono essere assorbite senza influenzare
il prezzo. L’immediatezza (immediacy), ovvero la velocità di esecuzione degli ordini. La
resilienza (resiliency), ovvero quanto prontamente i prezzi tornano al livello
antecedente al verificarsi di uno squilibrio negli ordini.
Ovviamente, l’andamento e la volatilità dei prezzi nei mercati secondari dipendono non
solo dalle caratteristiche appena viste, ma anche dal flusso di informazioni capaci di
indurre la maggior parte degli operatori a rivedere la valutazione attuale dei titoli. Si
può trattare di informazioni specifiche sulla qualità dell’emittente e/o di informazioni su
andamenti macroeconomici capaci di influenzarne redditività e solvibilità. Questo flusso
complesso di informazioni può quindi influenzare sia il prezzo di un attivo rispetto agli
altri, sia il livello generale di una o più tipologie di strumenti. Il flusso di informazioni
capaci di mutare prontamente aspettative e valutazioni è ormai ingente e continuo, e la
sensibilità dei prezzi si è accentuata per l’accresciuta gestione attiva dei patrimoni.
Quanto precede potrebbe far pensare che il rischio di liquidità riguardi le posizioni in
surplus, cioè gli investitori finanziari, nelle loro scelte e gestioni di portafoglio. Dato che
ad ogni credito corrisponde un debito, problemi di liquidità si pongono anche ai debitori.
Quando una posizione finanziaria si finanzia tramite debito essa assume il rischio di
liquidità dell’indebitamento (funding liquidity risk), derivante dalla possibilità che il
creditore non rinnovi il finanziamento alla scadenza, o non alle condizioni precedenti o
comunque non a quelle previste dal debitore. Un maggior costo di rifinanziamento può
incidere fortemente sull’equilibrio finanziario della posizione; l’impossibilità di
rifinanziare il debito in scadenza può renderla insolvente. Ciò non avviene per chi si
finanzia solo per mezzo di capitale, proprio o altrui. È questo, ad esempio, il caso di un
fondo comune d’investimento, il valore delle cui quote sia proporzionale al valore
dell’attivo; tutti i rischi, a parte quello operativo, sono a carico dei possessori delle
quote.
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Questo rischio è particolarmente severo quando il passivo è di breve termine, in quanto
necessita frequenti rinnovi, e l’attivo ha scadenza di medio-lungo termine. È questo il
caso tipico in cui si trova una banca dato il suo passivo a vista e a breve termine a
fronte di un attivo formato da titoli, ma ancor più da prestiti privi di mercato secondario
e con scadenza più prolungata (trasformazione delle scadenze). Anche operatori non
bancari, come gli hedge fund con leva, sono soggetti a questi rischi, specie quando la
loro strategia d’investimento è di lungo termine.
Per qualsiasi posizione finanziaria funding liquidity risk e market risk possono
interagire, dando luogo a processi cumulativi che possono condurre a situazioni di
insolvenza e di crisi generalizzate.
Ad esempio, se una banca fa fronte ad un eventuale ritiro dei depositi liquidando parte
dell’attivo detenuto in strumenti di mercato, il valore di realizzo di quegli attivi può
comportare perdite significative, tanto più se il mercato non è liquido e la vendita incide
negativamente sui prezzi. La realizzazione di perdite può indurre un ulteriore ritiro dei
depositi, e così via. In quest’ottica il grado di capitalizzazione di una banca, quindi il
suo leverage, e il grado di liquidità dell’attivo e del passivo sono indicatori della forza
con la quale essa può affrontare una illiquidità temporanea di tipo funding. Minore è la
leva, minore in termini relativi sarà l’effetto sull’attivo e minore l’effetto sul conto
economico di un eventuale aumento del costo di rifinanziamento. Maggiore è il grado di
liquidità dell’attivo, minori saranno le perdite derivanti dalla liquidazione. Minore il grado
di liquidità del passivo, più diluito nel tempo, e quindi più facilmente gestibile, il suo
rifinanziamento.
Lo shock iniziale può partire dall’attivo bancario, nella forma di una caduta del valore
dei titoli o di un aumento dei crediti inesigibili. In quanto ciò peggiori il merito di credito
della banca, un aumento del costo di rifinanziamento o, al limite, l’impossibilità di
rifinanziare il debito in scadenza, danno luogo al processo cumulativo dianzi descritto.
Attivi liquidi e capitalizzazione costituiscono di fatto ammortizzatori rispetto
all’operatività centrale di una banca, che dovrebbe essere quella tradizionale di
erogare prestiti all’economia. Se problemi di funding sono risolti con la liquidazione di
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parte degli attivi liquidi ed eventuali perdite sono assorbite dal capitale, la banca può
non trasmettere lo shock del passivo all’attività di finanziamento dell’economia. In altri
termini, la banca starebbe operando con una leva variabile, almeno nel breve-medio
periodo.
Più in generale, per qualsiasi posizione finanziaria l’interazione tra funding liquidity risk
e market risk è più rilevante quando la leva è sostanzialmente fissa. Vediamo due
esempi relativi all’attività di trading.
Il primo esempio è relativo a uno speculatore in titoli (trader) che opera sul mercato
tramite un broker. Lo speculatore deposita presso il broker una somma (margine) il cui
ammontare è legato non al valore dell’investimento, ma alla variabilità del mercato in
cui opera. In altri termini, il broker si cautela da eventuali perdite del cliente
obbligandolo a depositare un margine commisurato alle perdite potenziali. Nella tavola
1 la situazione iniziale vede un margine percentuale del 10% che permette allo
speculatore di acquisire un attivo pari a 100 versando un margine di 10, quindi con un
moltiplicatore pari a 10. Siamo in presenza di un diverso tipo di leva rispetto a quella
finanziaria; essendo relativa al tipo di operatività dello strumento è denominata leva
strumentale (instrument leverage).
Se si verifica una perdita di valore dell’attivo pari al 5% essa intacca il capitale versato,
cioè il margine, che costituisce ora solo il 5,3% del nuovo valore dell’attivo, con un
moltiplicatore pari a 19. A questo punto il broker effettua un margin call, ossia chiede al
cliente di ricostituire il margine o di liquidare parte dell’attivo per tornare alla
percentuale iniziale. La tavola 1 mostra il caso di un cliente che sceglie di liquidare
parte dell’attivo, per cui con un margine di 5 dovrà liquidare attività per 45 unità. La
tavola 2 mostra invece il caso in cui lo speculatore vuole mantenere la posizione al
nuovo valore di 95, per cui dovrà versare 4,5 di nuovo capitale sul suo conto presso il
broker per riportare il margine al 10%. In più, se il broker interpreta la perdita da cui
siamo partiti come un aumento della volatilità del mercato, chiederà una più elevata
percentuale del margine, poniamo del 20%. Nel caso della tavola 1 ciò significa
liquidare ulteriore attivo per un ammontare pari a 25, portando così a 70 la
smobilizzazione dell’attivo che si è resa necessaria a seguito di una iniziale perdita di
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5. Nel caso della tavola 2 ciò significa una nuova iniezione di capitale, portando a 14
quanto è necessario reintegrare a fronte di una perdita iniziale di 5.
Tavola 1 – Margine e smobilizzazione (unwinding) dell’attivo
Margine iniziale
Perdita di valore
Nuovo margine
10%
5%
20%
Valore dell’attivo
(1)
Margine
(2)
Margine %
(3)
100,0
95,0
50,0
25,0
(-70)
10,0
5,0
5,0
10,0
5,3
10,0
Instrument
leverage
(4 = 1/2)
10,0
19,0
10,0
5,0
20,0
5,0
Valore dell’attivo
(1)
Margine
(2)
Margine %
(3)
Inizio
Dopo la perdita di valore
Dopo il margin call
100,0
95,0
95,0
10,0
5,3
10,0
Dopo l’aumento del margine
95,0
10,0
5,0
9,5
19,0
(+14)
Instrument
leverage
(4 = 1/2)
10,0
19,0
10,0
20,0
5,0
Inizio
Dopo la perdita di valore
Dopo il margin call
Dopo l’aumento del margine
Tabella 2 - Ricostituzione del margine
Margine iniziale
Perdita di valore
Nuovo margine
10%
5%
20%
In entrambi i casi la variazione iniziale del prezzo di mercato induce variazioni
amplificate a causa del moltiplicatore con il quale opera lo speculatore. Il primo caso
(quello della tavola 1) può condurre all’interazione tra market e funding liquidity risk,
quando l’impossibilità di rifinanziare il margine o un costo eccessivo di quel
rifinanziamento conducano a smobilizzare una quota consistente dell’attivo. Ciò è
particolarmente rilevante quando l’investitore ha costituito il margine per mezzo di
debito. In quest’ultimo caso il disturbo iniziale può provenire dall’impossibilità di
rinnovare in tutto o in parte il debito contratto, per cui l’attivo deve essere smobilizzato.
Quando ciò interessa molti, o pochi ma grandi, operatori si produce un’ulteriore
riduzione del prezzo di realizzo (si riduce la liquidità dei mercati), comportando così
nuove perdite, e così via.
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Con poche modifiche l’esempio vale anche per una banca che subisca una perdita nei
prestiti erogati e sia soggetta a una regolamentazione che impone una leva finanziaria
massima. Se la perdita fa aumentare la leva al di sopra di quanto consentito, la banca
deve smobilizzare parte dell’attivo o ricapitalizzarsi. Si tratta in questo caso di
un’interazione tra rischio di credito e rischio di liquidità. Oppure la banca può perdere
parte del passivo, non è in grado di sostituirlo con capitale e deve quindi smobilizzare
parte dell’attivo.
Il secondo esempio è relativo a un intermediario che acquisisce titoli usando la leva
finanziaria e dando i titoli stessi in garanzia del prestito. La tavola 3 mostra il caso di
una posizione iniziale costituita acquisendo 100 unità di un titolo dal valore unitario di
10. I titoli dati in garanzia hanno permesso una leva pari a 10 in quanto il finanziatore
ha applicato un haircut del 10% sul loro valore di mercato per cautelarsi da eventuali
perdite nella copertura del prestito. Come è per il margine nell’esempio precedente,
l’haircut è commisurato alla stima della volatilità dei titoli in questione. Come è noto, la
logica di operare con leva finanziaria è quella di massimizzare la redditività del capitale
quando ci si attende che il rendimento derivabile dall’operatività supererà il tasso di
interesse sui prestiti. Vediamo cosa avviene se il prezzo dei titoli aumenta del 5%. Il
nuovo valore dell’attivo (1050) riduce la leva finanziaria da 10 a 7 e comporta un 50%
di aumento del valore del capitale. Dato che conviene mantenersi alla massima leva
permessa, l’intermediario chiede un supplemento di prestiti di 450 con i quali acquisire
ulteriori 42,9 unità di titoli (per semplicità l’esempio comprende una sola categoria di
titoli) e riportare a 10 la leva. Poniamo ora che il prezzo di mercato dei titoli torni al
valore iniziale di 10. Il nuovo valore dell’attivo comporta una perdita di 71 (quasi
dimezzando il capitale), una leva di 18 e un haircut ridotto al 5,5%. A questo punto i
meccanismi di risposta sono analoghi a quelli dell’esempio precedente. Si può
adeguare l’attivo al nuovo valore del capitale o ricapitalizzare la posizione per tornare
al valore iniziale dell’attivo. Eventuali adeguamenti della percentuale di haircut alla
volatilità
produrrebbero,
come
nel
caso
dei
margini,
ulteriori
amplificazioni
nell’adeguamento dell’attivo o nella ricapitalizzazione.
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Tavola 3 – Intermediario con prestiti garantiti dall’attivo
Attivo
Valore unitario
Valore totale
di mercato
attivo
10
10X100=1000
10,5
10,5X100=1050
10,5
10,5X142,9=1500
10
10X142,9=1429
Alternative
Adeguamento
10X79=790
dell’attivo
Ricapitalizzazione
10X100=1000
Passivo
Haircut
Prestiti
Capitale
10%
14%
10%
5,5%
900
900
900+450=1350
1350
100
150
150
79
Leva
finanziaria
10
7
10
18
10%
1350-639=711
79
10
10%
900
79+21=100
10
L’esempio della tavola 3 mostra anche l’asimmetria nei risultati quando la ricerca del
miglior risultato conduce a tenere la leva al valore massimo permesso. Mantenendo la
leva a 10 dopo l’aumento di prezzo si produce una secca perdita di capitale quando il
prezzo torna al valore iniziale.
Entrambi gli esempi mostrano cosa succede quando si ha una proporzionalità rigida tra
capitalizzazione e attivo valutato ai prezzi di mercato. Essa impone pronti
aggiustamenti che si riflettono necessariamente in perdite, smobilizzazioni dell’attivo
e/o ricapitalizzazioni. Si può da questi esempi valutare quanto sia cruciale anche la
dimensione temporale. Una maggiore flessibilità negli aggiustamenti significa poter
guadagnare tempo sia nella ricerca di nuovi fondi, sia nell’attesa che i prezzi possano
tornare su livelli più favorevoli.
Rischio di cambio
Al di là della residenza della controparte, posizioni caratterizzate da attivi e passivi
denominati in valute diverse implicano l’assunzione di un rischio di cambio. Vediamo
alcuni esempi.
Parte del debito di uno Stato è denominato in valuta estera, mentre le sue entrate
(imposte) sono in valuta nazionale. Le entrate necessarie per servire la parte del debito
denominata in valuta estera dipendono quindi anche dal tasso di cambio. Se la valuta
nazionale si apprezza rispetto a quella in cui è denominato il debito, diminuisce
l’ammontare di valuta nazionale necessario per servire il debito estero; e viceversa. Si
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noti che il debito nazionale denominato in valuta estera può essere detenuto da
residenti, che quindi assumono un rischio speculare a quello dello Stato.
Se una famiglia accende un mutuo denominato in valuta estera il ragionamento è
analogo al precedente. Se una famiglia acquista titoli pubblici denominati in valuta
estera il rischio di cambio ricade sulla famiglia e non sullo Stato emittente.
Una banca finanzia parte del suo attivo denominato in valuta locale acquisendo
depositi in valuta estera. Si ha una posizione non bilanciata in valuta, per cui se la
valuta nazionale si deprezza si ha un aumento in valuta nazionale sia del debito, sia
del costo del passivo.
Una banca bilancia passivo e attivo in valuta estera prestando in questa valuta a
residenti. Il rischio di cambio ricade sui debitori se questi hanno posizioni non coperte
in valuta (ad esempio perché hanno redditi in valuta nazionale). Trasferendo il rischio
di cambio ai debitori la banca aumenta però il suo rischio di credito nei loro confronti.
Nel decidere se investire in titoli denominati in valuta estera occorre considerare due
grandezze: la differenza di rendimento di titoli di pari rischiosità in due diverse valute e
l’andamento del tasso di cambio tra le stesse. Se ci si attende che il tasso di cambio
resterà immutato fino alla scadenza del contratto, in mercati valutari perfetti i tassi
d’interesse nazionale ed estero a parità di rischiosità devono essere uguali. Se ci si
attende che la valuta nazionale si apprezzerà, il rendimento in valuta estera deve
superare quello in valuta nazionale di un ammontare tale da azzerare la perdita dovuta
al nuovo tasso di cambio. E viceversa.
Si parla quindi di parità coperta dei tassi d’interesse quando:
(1)
(1  iI ) 
F
(1  iE )
S
dove iI è il tasso d’interesse nella valuta nazionale, iE è il tasso d’interesse in valuta
estera, F è il tasso di cambio nel mercato forward e S il tasso di cambio a pronti (dove il
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tasso di cambio è qui definito come la quantità di valuta nazionale necessaria per
acquisire una unità di valuta estera).
Si parla di parità coperta in quanto in quelle condizioni è indifferente la valuta in cui
investire in quanto il rischio di cambio è azzerato da un contratto di cambio forward. Se
i valori effettivi dei tassi d’interesse e dei cambi a pronti e a termine non conducono a
quella uguaglianza c’è spazio per operazioni di arbitraggio a rischio nullo. Se, ad
esempio, il segno della precedente equazione fosse di maggiore, si avrebbe un profitto
certo indebitandosi in valuta estera al tasso iE, cambiarla in valuta nazionale al tasso S,
investirla in titoli nazionali al tasso iI, entrando nel contempo in un contratto di cambio
forward al tasso F.
Se non si entra in un contratto di cambio forward, il rischio di cambio non è coperto e si
assume una posizione speculativa. Un esempio di operazioni di questo tipo è il carry
trade. Si tratta di un arbitraggio basato sul prendere a prestito in aree caratterizzate da
bassi tassi d’interesse e impiegare quei fondi in aree con rendimenti più elevati.
Classico è stato il carry trade tra i bassi tassi d’interesse del Giappone e i più elevati
rendimenti ottenibili in altre aree (anche restando su titoli sicuri come i Treasury Bonds
USA). La scommessa insita in queste operazioni riguarda l’andamento dei tassi di
cambio; il differenziale nominale di rendimento (es. 4% derivante da 1% in Giappone e
5% in USA, non considerando i costi di transazione) deve coprire eventuali variazioni
del tasso di cambio a favore dello yen durante il periodo di investimento.
Questo tipo di arbitraggio non conduce in genere ad eliminare il vantaggio comparato
di investire in valuta estera in quanto il flusso di capitali in uscita tende ad indebolire il
cambio della valuta nazionale. Ad esempio, se la vendita di yen per operazioni di carry
trade compensa il forte avanzo in dollari delle partite correnti della BdP giapponese, lo
Yen non si rivaluta e l’arbitraggio, finché perdura questa condizione, risulta vincente.
Come mostra l’esempio riportato di seguito, eventi che incidano sul tasso di cambio in
direzione sfavorevole portano a smontare le operazioni di carry trade e a produrre
perdite per le posizioni esistenti.
____________________________________________________________________
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
14
Prof. Mario Tonveronachi
Da: IMF, International Capital Markets Report, 1998, p. 44
Box 2.9. The Asian Carry Trade
International commercial and investment banks were heavily involved in dollar and yen carry
trades in Asia. Dollar carry trades became popular beginning in 1992 and yen trades following
the yen’s peak against the dollar in Apri1 1995. One technique was to borrow on the interbank
market in dollars and yen, to convert the proceeds into local currency, and to on-lend on the
local currency short-term interbank market. At the end of the loan period, principal and interest
were converted back into dollars or yen. An alternative was for banks and other institutional
investors to borrow in the dollar or yen short-term debt market (through, for example, a treasury
term repo agreement), to convert the proceeds into local currency, and to hold a time deposit. A
final technique was to utilize the money markets. International investors issued money market
securities in mature markets and invested the proceeds in local-currency-denominated money
market instruments (promissory notes, bankers’ acceptances, and other short-term corporate or
government paper). And, of course, hybrids of these three techniques were also used.
Data for the Thai baht confirm that all three techniques were profitable for an extended period.
Returns computed using the interbank market (subtracting from the interest rate differential the
realized change in the exchange rate over the holding period) suggest that in 18 of the 20
quarters up to mid-1997 the carry trade generated a higher spread than investing in the mature
markets. The returns on the yen carry trade were profitable in 13 of these 20 quarters, showing
greater variability because of volatility in the yen exchange rate. Carry trades using term repos
and Thai time deposits tell a similar story. The effects of speculative pressure in the period
leading up to the crisis, as well as the authorities’ response, are evident in the limited time
series available on the local money market instruments series for Thailand (see table below).
Although returns on dollar carry trades were substantial in the second quarter of 1997 because
the squeeze applied at the time of the speculative attack raised yields while not allowing the
baht-dollar exchange rate to move, returns to both carry trades turned sharply negative with the
depreciation of the baht in the third quarter.
Yields on U.S. Dollar and Japanese Yen Carry Trades in the Thai Baht (Using Money Markets) (1)
Index
Japanese
Profit from
Index Returns
U.S. Dollar
Profit from
Returns
Yen LIBOR
Yen Carry
in U.S.
LIBOR
U.S. Dollar
Quarter
in Yen (2)
(Three-month)
Trade
Dollars (2)
(Three-month)
Carry Trade
1996:Q3
15.66
0.52
15.09
8.88
5.63
3.13
1996:Q4
23.42
0.49
22.85
6.03
5.56
0.45
1997:Q1
36.24
0.58
35.52
3.97
5.77
–1.73
1997:Q2
–1.33
0.66
–1.98
34.47
5.78
27.54
1997:Q3
–64.90
0.56
–65.15
–71.32
5.77
–73.47
Source: International Monetary Fund, International Financial Statistics; Bloomberg Financial Markets L.P.; and
Peregrine Securities.
(1) All returns are annualized.
(2) Computed by converting Thai money market index returns into U.S. dollars and yen.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
15
Prof. Mario Tonveronachi
Rischio paese
Indipendentemente dal rischio di cambio, unità economiche con attività all’estero
devono valutare e gestire un insieme di rischi che sinteticamente è denominato rischio
paese. Dato che una trattazione estesa di questo rischio non può essere condotta in
questa sede, ci limiteremo a tratteggiarne alcuni aspetti principali.
In termini molto generali si può definire il rischio paese come la possibilità che fattori di
natura politica, finanziaria ed economica possano influenzare negativamente la
redditività e/o il valore delle attività investite in uno specifico paese. In genere, quindi, si
considerano come componenti del rischio paese i rischi politico, finanziario ed
economico che le società di valutazione internazionale, tra le quali le società di rating,
variamente scompongono in unità più elementari impiegando metodologie diverse. La
tavola 4 riporta la scomposizione adottata da Political Risk Services.
Tavola 4 - The International Country Risk Guide Rating System
% of Composite
Political
Economic expectations versus reality
6%
Economic planning failures
6%
Political leadership
6%
External conflict
5%
Corruption in government
3%
Military in politics
3%
Organized religion in politics
3%
Law and order tradition
3%
Racial and nationality tensions
3%
Political terrorism
3%
Civil war
3%
Political party development
3%
Quality of bureaucracy
3%
Total Political Points
50%
Financial
Loan default or unfavorable loan restructuring
5%
Delayed payment of suppliers' credits
5%
Repudiation of contracts by government
5%
Losses from exchange controls
5%
Expropriation of private investments
5%
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
16
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Total Financial Points
25%
Economic
Inflation
5%
Debt service as a % of exports of goods and services 5%
International liquidity ratios
3%
Foreign trade collection experience
3%
Current account balance as % of goods and services 8%
Parallel foreign exchange rate market indicators
3%
Total Economic Points
25%
Overall Points
100%
La tavola rende evidente che non si tratta di valutare il rischio di una controparte
privata residente in una diversa giurisdizione, bensì il rischio sistemico derivante
dall’operare in uno Stato estero, la cui componente principale attiene alle decisioni
sovrane di quello Stato.
Esempi specifici riguardano i controlli valutari, tra i quali il divieto o limiti posti al
rimpatrio di profitti da parte delle imprese estere operanti in quella giurisdizione e
vincoli posti ai flussi internazionali di capitali; vincoli sul commercio estero; controlli sui
prezzi; limiti al commercio estero; ecc.
Gestione dei rischi
L’analisi della gestione dei rischi a livello di singoli intermediari è affrontata in altri
Corsi. In questa sede interessa mostrare la relazione esistente tra la morfologia
istituzionale di un sistema finanziario e come i rischi vengono allocati al suo interno.
A questo fine è utile una prima distinzione tra istituzioni che operano come principale o
come agente. Un principale impegna capitale proprio, possiede un portafoglio, assume
rischi operativi e finanziari e opera una gestione attiva del rischio. Un agente opera per
conto di altri, in genere assume solo rischi operativi e impegna pertanto bassi livelli di
capitale; può operare una gestione sia attiva che passiva del rischio. La tabella 5
mostra quella distinzione per alcune principali categorie di operatori.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
17
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Tabella 5
Principale
Gestione attiva del
rischio
Agente
- Fondi pensione a
capitalizzazione pura
- Fondi aperti e chiusi
- Hedge funds
- Fondi indice
- Clearing Houses
- Promotori
- Banche commerciali
- Dealers
- Assicurazioni vita
Gestione passiva del
rischio
Ponendo in relazione la funzione di principale e di agente con i rischi che le varie
tipologie istituzionali assumono in proprio nelle loro operatività tipiche si ottengono gli
esempi presentati nella tabella 6.1
Tabella 6
Rischi di --->
Mercato
Banche commerciali
X
Dealers
X
Assicurazioni vita
X
Credito
Controparte
Liquidità
Operativi
X
X (1)
X
X
X
X
X
X
X
X
X(2)
Fondi pensione a
capitalizzazione (3)
X
Fondi invest. aperti
X
Fondi invest. indice
X
Promotori
X
(1)
Quando comprende attività di trading.
In presenza di prestiti agli assicurati contro versamenti effettuati
(3)
A contributi definiti. In assenza di garanzie per gli assicurati
(2)
Quando le X non sono presenti i rischi sono assunti da altre istituzioni finanziarie o dai
risparmiatori-investitori. Una funzione degli intermediari che attuano come principale è
quindi quella di assumere in proprio e gestire una quota dei rischi presenti nel sistema.
Una morfologia spostata su strumenti di mercato e su agenti implica che i rischi sono
prevalentemente sopportati direttamente dalle unità in surplus. Cerchiamo di chiarire
meglio questo punto. In termini aggregati il rischio è sempre sopportato dalla generalità
delle unità in surplus. Quando si afferma che le istituzioni ‘principali’ assumono rischi si
intende che questi ricadono indirettamente sui loro azionisti e sui loro creditori. Il punto
1
Si possono avere che assetti istituzionali complessi, cioè istituzioni assommano una pluralità
di funzioni come le tradizionali banche universali. I conglomerati finanziari sono quindi soggetti a
un insieme complesso di rischi.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
18
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è quindi quali rischi sono assunti e gestiti direttamente o indirettamente. Consideriamo
come esempio un sistema semplificato dove esistono solo banche o solo fondi
d’investimento. Nel primo caso le unità in surplus assumono solo il rischio di fallimento
bancario (un evento estremo); nel secondo caso esse assumono e devono gestire
direttamente la totalità dei rischi.
Da un punto di vista sistemico due principi sono generalmente accolti: i rischi
dovrebbero essere allocati su operatori che vogliono sopportarli ed hanno i mezzi per
affrontare una loro eventuale conversione in perdite; i rischi, per volume e tipologia,
dovrebbero essere dispersi su molti operatori (quindi non concentrati). L’allocazione
dei rischi, correlata alla morfologia dei sistemi finanziari, ha quindi riflessi sistemici
dovuti sia agli incentivi che i diversi operatori hanno nel gestirli, sia alle reazioni di
quest’ultimi a fronte del verificarsi di perdite.
Differenti tipologie di operatori hanno differenti incentivi nella gestione dei rischi. Ad
esempio, un promotore, che non assume rischi finanziari, è incentivato a massimizzare
il volume d’affari più che a verificare il merito di credito del debitore o a informare
compiutamente l’investitore sulle caratteristiche rischio/rendimento degli strumenti
venduti. Un intermediario che tenga in bilancio i rischi creati da un prestito è invece
incentivato ad effettuare una loro più precisa valutazione.
Si hanno anche differenze nelle reazioni di chi assume e gestisce direttamente i rischi
a fronte della loro eventuale trasformazione in perdite. Una banca che subisce
sostanziali perdite da crediti inesigibili reagisce in genere riallocando l’attivo verso
attività meno rischiose e comunque limitando l’attività di prestito a imprese e famiglie;
se le perdite interessano una frazione rilevante del settore bancario, l’effetto è un credit
crunch, ossia una rarefazione del credito erogato al sistema economico, che ne frena
la dinamica dell’offerta e della domanda. La reazione è tanto più ‘smussata’ quanto
maggiore è la redditività del settore bancario e quanto minori sono gli incentivi ad
interrompere consolidati rapporti con la propria clientela. Per il settore famiglie perdite
di valore dell’attivo di mercato del proprio portafoglio possono indurre effetti ricchezza
negativi sul consumo, quindi sulla domanda aggregata, e una ricomposizione del
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
19
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portafoglio verso attività meno rischiose. La forza di quest’ultima reazione può essere
eccessiva partendo da soggetti con scarse informazioni e bassa capacità di analisi.
Questi aspetti dell’allocazione dei rischi sono quindi rilevanti per la dinamica dei sistemi
finanziari e in particolare, come vedremo, nel causare e caratterizzare le crisi
finanziarie.
Come vedremo meglio nella parte dedicata all’evoluzione dei sistemi finanziari, i
recenti sviluppi nel campo degli strumenti derivati ha dato maggior rilievo a tecniche di
mitigazione dei rischi, comprendenti strumenti per il loro trasferimento. Una specifica
gestione ottimale dei rischi può infatti comportare la necessità di trasferire, in parte o in
toto, alcuni rischi ad altri soggetti.
L’annesso che segue riporta sinteticamente le caratteristiche salienti di queste
tecniche.
ANNESSO
Esistono tre metodologie principali per trasferire i rischi (dal testo Finance di Bodie e
Merton; vedi anche la voce Derivatives da Wikipedia inclusa come file Derivatives.doc
nella sezione Strumenti del sito del Corso):
Hedging: riduce o elimina l’esposizione ad una possibile perdita rinunciando a un
possibile guadagno.
Esempi:
Contratti forward e futures
Contratti swaps
Armonizzazione (matching) di attivo e passivo
Assicurazione: si corrisponde un premio per evitare possibili perdite, in alcuni casi
senza rinunciare a possibili guadagni.
Esempi:
Garanzie nei contratti di prestito
Caps and floors
Opzioni
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
20
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Diversificazione: suddivisione del rischio tra più soggetti
Esempi:
Prestiti sindacati (syndicated loans)
HEDGING
Contratto FORWARD: accordo tra due parti per scambiare una data quantità di un bene o di un
attivo finanziario ad una data futura ad un prezzo predeterminato al momento del contratto.
Terminologia:
Prezzo a termine (forward price) – prezzo a termine prefissato nel contratto
Prezzo a pronti (spot price) – prezzo per consegna immediata
Valore nominale del contratto (face value) – prezzo a termine per quantità
Long position – la posizione assunta da chi si impegna a comprare
Short position – la posizione assunta da chi si impegna a vendere
Chi prende una posizione long è in genere chi vuole coprirsi da un rischio (ad esempio da un
aumento di prezzo della farina per un panettiere); chi prende una posizione short può volersi
coprire da un rischio speculare di prezzo (una diminuzione del prezzo per un produttore di
grano). Entrambi i tipi di posizione possono anche riflettere l’assunzione di posizioni
speculative.
Contratto FUTURES: è un contratto forward standardizzato, scambiato in mercati organizzati.
Esempi tipici: mercati futures delle valute, dei commodities e dei titoli.
SWAP: accordo tra due parti per scambiare una serie di flussi di cassa a specifici intervalli di
tempo. Un contratto swap è equivalente a una serie di contratti forward.
Esempi tipici: swaps per merci, valute e rendimenti dei titoli.
MATCHING: si usa in genere per coprire il rischio di default, ad esempio acquistando un attivo
con caratteristiche che combaciano con quelle del passivo.
Esempi tipici: imprese che usano materie prime possono acquistare un attivo finanziario
denominato nella materia prima utilizzata; le banche possono coprire il rischio d’interesse sui
depositi a breve acquisendo titoli a rendimento variabile.
ASSICURAZIONE
GARANZIA FINANZIARIA: si tratta in genere di un’assicurazione contro il rischio di credito.
Esempi tipici: garanzie sui prestiti (loan guarantees) nelle quali il garante subentra al debitore in
caso di default di quest’ultimo; carte di credito, con l’istituzione che emette la carta che assicura
il pagamento al commerciante; assicurazione (pubblica) dei depositi, con l’ente assicuratore che
liquida i depositi in caso di default di una banca.
CAPS and FLOORS: valori massimo e minimo del livello o del tasso di variazione dei tassi
d’interesse nel caso di contratti a tasso variabile.
OPZIONI: dietro il pagamento di un premio si acquisisce il diritto, ma non l’obbligo, di comprare
o vendere in futuro un bene o un attivo finanziario ad un prezzo predeterminato (exercise price
o strike price).
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
21
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Una opzione si differenzia da un contratto forward in quanto per quest’ultimo si ha l’obbligo di
comprare o vendere alla data specificata (o di pagare la differenza tra il prezzo fissato dal
contratto e il prezzo spot al momento della sua scadenza).
Opzioni di tipo europeo: il diritto si può esercitare solo alla data di scadenza (expiration o
maturity date).
Opzioni di tipo americano: il diritto si può esercitare in qualsiasi data fino a quella di scadenza.
Opzione Call – opzione all’acquisto
Opzione Put – opzione alla vendita
Alcuni esempi tipici di opzioni:
- Opzioni put su azioni, assicurano contro diminuzioni di prezzo
- Opzioni put su obbligazioni, assicurano contro il rischio d’interesse e di default (dato che
variazioni del tasso d’interesse e del merito di credito incidono sul prezzo di mercato
dell’obbligazione)
- Opzioni call su commodities, assicurano contro loro aumenti di prezzo
Chi compra queste opzioni si assicura; chi le vende si pone in genere in posizione speculativa.
Esempi di trasferimento dei rischi
- Elevato leverage (Banche, Leveraged buyouts, …)
- Contratti a tassi e rendimenti variabili (Repricing attivo banche, Fondi pensione a
capitalizzazione)
- Futures e Options su titoli, tassi di cambio e commodities
- Securitization
- Credit derivatives
2
- Asset Backed Securities (ABS) 3
- Collateralized Mortgage Obligations (CMO) 4
- Collateralized Debt Obligations (CDO) 5
Da Wikipedia: “Credit derivatives in their simplest form are bilateral contracts between a buyer and seller
under which the seller sells protection against certain pre-agreed events occurring in relation to a third
party (usually a corporate or sovereign) known as a reference entity, which affect the creditworthiness of
that reference entity.”
3 Da Wikipedia: “An asset-backed security is a type of bond or note that is based on pools of assets, or
collateralized by the cash flows from a specified pool of underlying assets. Assets are pooled to make
otherwise minor and uneconomical investments worthwhile, while also reducing risk by diversifying the
underlying assets. Securitization makes these assets available for investment to a broader set of investors.
These asset pools can be made of any type of receivable from the common, like credit card payments,
auto loans, and mortgages, or esoteric cash flows such as aircraft leases, royalty payments and movie
revenues. Typically, the securitised assets might be highly illiquid and private in nature.”
4 Da Wikipedia: “CMO is a special purpose entity that is wholly separate from the institution(s) that create
it. The entity is the legal owner of a set of mortgages, called a pool. Investors in a CMO buy bonds issued
by the entity, and receive payments according to a defined set of rules. The mortgages themselves are
called the collateral, the bonds are called tranches (also called classes), and the set of rules that dictates
how money received from the collateral will be distributed is called the structure. The legal entity, collateral,
and structure are collectively referred to as the deal.”
2
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
22
Prof. Mario Tonveronachi
Mitigazione dei rischi – Esempi per le banche commerciali
Diversificazione dell’attivo
Tipologie di contratti
- Il repricing dei prestiti e dei depositi a date ravvicinate allenta il rischio di funding. Il rischio
viene spostato sui debitori
Hedging fisico
- Le riserve liquide allentano il rischio di liquidità. Il costo della copertura è costituito dal
rendimento non percepito. Con 100% di riserve si ha hedging completo (giro banks). In genere
le riserve sono frazionarie, correlate alla probabilità di un eccesso dei ritiri sui nuovi depositi.
- La dimensione dell’intermediario diminuisce il rischio di liquidità per una minore probabilità di
ritiro dei depositi.
- Costituzione di riserve per il rischio di credito.
- Garanzie collaterali richieste ai propri affidati.
Assicurazione
- Con l’assicurazione sui depositi la banca paga un premio per eliminare il rischio di credito
sostenuto dai suoi depositanti.
I costi del detenere riserve liquide e assicurazione sui depositi equivalgono al rendimento non
percepito più il premio assicurativo. I loro benefici derivano dalla minore rischiosità del passivo
bancario, quindi da minori costi di funding.
Hedging finanziario
- Short-term Futures su riserve nel mercato interbancario (liquidità)
- Swaps interessi fisso-variabile (rischio d’interesse)
- Swaps sui tassi di cambio (rischio di cambio)
- Securitization, allenta rischio di credito e di liquidità
I.2 Evoluzione dei sistemi finanziari
Si è accennato a come la morfologia dei sistemi finanziari dipenda in forte misura dalla
dominanza di strumenti finanziari con caratteristiche differenziate di rischio e di
liquidità. Negli ultimi decenni la morfologia dei sistemi finanziari è stata sottoposta a
Da Wikipedia: “In financial markets, collateralized debt obligations (CDOs) are a type of asset-backed
security and structured credit product. CDOs gain exposure to the credit of a portfolio of fixed income
assets and divide the credit risk among different tranches: senior tranches (rated AAA), mezzanine
tranches (AA to BB), and equity tranches (unrated). Losses are applied in reverse order of seniority and so
junior tranches offer higher coupons (interest rates) to compensate for the added risk. CDOs serve as an
important funding vehicle for portfolio investments in credit-risky fixed income assets.”
5
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
23
Prof. Mario Tonveronachi
notevoli cambiamenti a seguito della liberalizzazione dei sistemi finanziari, della loro
successiva globalizzazione, di una nuova impostazione sulla regolamentazione in
campo finanziario, delle innovazioni nella teoria della finanza e degli enormi progressi
nel campo informatico e telematico. Quella dinamica è stata accompagnata da
altrettanto notevoli cambiamenti nel campo dei rischi. Alcuni rischi hanno assunto
maggior rilievo quantitativo e qualitativo (come il rischio di controparte), la loro
allocazione tra le unità economiche ha subito forti cambiamenti e più complessa è
risultata la loro gestione. È oggetto di dibattito se nel complesso i rischi finanziari si
siano acuiti.
Per un’analisi dell’evoluzione dei sistemi finanziari negli ultimi decenni si rimanda a due
lavori scaricabili dal sito del Corso. Si noti che i due articoli sono stati scritti prima del
palesarsi della crisi recente.
G. Schinasi (2007), “Understanding Financial Stability: Towards a Practical
Framework”, IMF, February, pagine 3-11
C. Borio (2007), “Change and constancy in the financial system: implications for
financial distress and policy”, BIS Working Papers, no. 237, October, pagine 1-10
Si consiglia di effettuare per il momento la lettura delle pagine sopra indicate,
rimandando la lettura completa a dopo terminato il Corso.
I.3 Crisi finanziarie idiosincratiche e sistemiche
I sistemi economici sono normalmente soggetti a fenomeni di variabilità nel tempo in
molti dei loro indicatori macroeconomici, come la crescita del reddito nazionale,
l’occupazione, i tassi d’inflazione, ecc. La storia mostra che fenomeni di crescita lineare
sono praticamente assenti. I cosiddetti cicli economici, che di norma sono fenomeni di
limitata variabilità attorno a un trend di crescita, ne sono un esempio. Quando i
fenomeni assumono caratteri di accentuata variabilità entriamo nel campo di dinamiche
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
24
Prof. Mario Tonveronachi
che derivano o producono distorsioni che alla fine conducono a crisi finanziarie ed
economiche. Come vedremo nelle pagine che seguono, queste crisi comportano
elevati costi sociali; comprendere la loro genesi aiuta a predisporre soluzioni
istituzionali e di politica economica che possano almeno limitarne la frequenza e la
forza.
Quanto si è finora visto sulle funzioni e sulle dinamiche dei sistemi finanziari rende
palese l’esistenza di strette interconnessioni tra fenomeni in campo reale e in campo
finanziario. Seppure il Corso è focalizzato sulle dinamiche finanziarie, occorre non
dimenticare che la finanza vive in stretta connessione con il settore reale e che nella
sostanza le decisioni degli agenti economici sono insieme reali e finanziarie.
Torneremo più diffusamente su questi temi nelle successive parti del Corso.
Le crisi che interessano il sistema finanziario possono essere classificate in crisi
idiosincratiche, che interessano una parte limitata del sistema finanziario, e in crisi
sistemiche, che interessano la globalità del sistema finanziario. Un’ulteriore distinzione
è tra crisi interne, le cui cause ed effetti sono di ordine interno ad un paese, e crisi
internazionali, per le quali si hanno forti processi di trasmissione della crisi tra paesi
diversi.
Le crisi finanziarie possono originarsi nei mercati dei capitali o nel sistema bancario.
Data la crescente integrazione tra mercati e intermediari, gli effetti della crisi dell’uno si
ripercuotono con prontezza sull’altro. L’accento è in genere posto sulle crisi bancarie.
Ciò per svariate ragioni. Una, di ordine storico, deriva dalla maggiore frequenza con cui
nel passato le banche hanno originato crisi finanziarie, idiosincratiche o sistemiche.
Inoltre, dato il ruolo centrale svolto dal sistema bancario nel circuito dei pagamenti, una
sua crisi produce immediatamente una crisi di liquidità per l’intero sistema economico,
con forti e immediati effetti negativi su di esso. In campo internazionale le crisi
finanziarie si trovano spesso abbinate a crisi valutarie (crisi gemelle o twin crises). I
meccanismi per queste crisi gemelle sono svariati e verranno considerati nella seconda
parte del Corso analizzando alcune crisi sistemiche.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
25
Prof. Mario Tonveronachi
La figura che segue (tratta da una presentazione di Luis Cortavarria del FMI) mostra,
per il periodo 1980-2003, quanto le crisi bancarie siano frequenti e non limitate ai paesi
meno avanzati. Portando la data finale al 2010 le zone rosse si estendono agli USA e a
molti paesi europei.
La tavola 7 riporta le date delle principali crisi bancarie, e la loro frequenza, seguendo
le due ricerche ivi citate. La tavola 8 riporta il costo delle crisi in termini di perdita di
PIL.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
26
Prof. Mario Tonveronachi
Tavola 7 - Banking crises in BCBS countries since 19851
Reinhart and Rogoff
(2008)(1)
Argentina
1989, 1994, 2001
Laeven and Valencia
(2008)(1)
1989, 1995, 2001
Australia
1989
Belgium
2008
2008
1990, 1994
1990, 1994
China
1997
1998
France
1994, 2008
2008
Germany
2007
2007
Hong Kong
1998
Brazil
Canada
India
Indonesia
Italy
1993
1993
1992, 1997
1997
1990
Japan
1992, 2008
1997, 2008
Korea
1986, 1997
1997
Luxemburg
2008
2008
Mexico
1992
1994
Netherlands
2008
2008
1995, 1998
1998
Russia
Saudi Arabia
South Africa
1989
Sweden
1991
1991
Switzerland
2008
2008
1991, 2000
2000
1991, 1995, 2007
2007
2007
1988, 2007
Turkey
United Kingdom
United
States2
Frequency of banking crises 1985-20093
All BCBS countries
5.20%
3.60%
G10 Countries
5.20%
4.10%
Da: BCBS, “An assessment of the long-term economic impact of stronger capital and liquidity requirements”, August
2010.
1 Both papers were published prior to the failure of Lehman. The dating of the recent crisis is based on the strict crisis
definition by Borio and Drehmann (2009).
2 The beginning of the savings and loan crisis according to Reinhart and Rogoff is 1984 and therefore excluded from
the table.
3 The frequency is calculated as the number of crises divided by the number of countries in the sample times the years
from 1985 to 2009. Adjusting for a three-year duration of crises and considering Russia and China only from 1992
onwards will increase the frequency to 5.9% (6.8%) and 3.9% (4.3%) for all BCBS (G10) countries.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
27
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Tavola 8 - Estimated costs of different crisis episodes: results of selected studies for a range of
crises. As a percentage of pre-crisis GDP1
Start of crisis2
Peak to
trough
Cumulative losses until end of crisis
Laeven
Cecchetti
and
et al
Valencia
Hoggarth
et al
Cecchetti
et al
Argentina
1980
14.1
10.8
25.9
44.5
Argentina
1989
12.1
10.7
16.1
16.2
Argentina
1995
6.1
7.1
5.8
5.2
Argentina
2001
15.1
42.7
26.9
Brazil
1990
11.4
12.2
6
Brazil
1994
2.5
0
Canada
1983
Finland
1991
France
1994
Indonesia
1997
Japan
0
1.9
0
11.8
59.1
44.9
18.1
67.9
20.1
50.7
1997, 1992, 1990a
3.4
17.6
71.7
6.7
Korea
1997
9.2
50.1
12.8
9.3
Mexico
1981
51.3
0
Mexico
1994
10.4
4.2
5.4
10.7
Norway
1991, 1988, 1987b
1.5
0
27.1
0.6
Spain
1977, 1982c
Sweden
1991
5.8
30.6
Turkey
2000
9.3
5.4
UK
1974
UK
2008
US
1988,1984, 1990d
Average of shown crises
Haugh
et al
40.7
0
0
473.9
97.2
72
2.7
525.7
55.6
694.4
17.7
34.8
313.5
86.4
10.1
466.4
186.2
16.7
256.7
58.4
40.6
0.7
122.2
3.8
Cumulative losses
allowing for permanent
effects
Boyd Boyd
et al et al Haldane4
(M 2)3 (M 1)3
11
12.3
9.1
26.5
130-520
9.3
4.1
0
23.4
22.5
17.1
11.4
0
0
21
311.4
56
300
Da: BCBS, “An assessment of the long-term economic impact of stronger capital and liquidity requirements”, August
2010.
1 Costs are expressed relative to pre-crisis GDP. If studies normalise costs by the trend, the table assumes that the
discount rate equals the trend growth rate. In per cent.
2 The dating of crises is not the same across studies. If several years are provided, the references for the crisis dating
used in the studies are (a) Laeven and Valencia (LV) 1997, Hoggarth et al (HO) and Haugh et al (HA) 1992, Boyd et al
(B) 1990; b) LV 1991, HO and HA 1988, B 1987; c) LV 1977, HO 1977, B 1977, HA 1982; d) LV 1988, HO 1988, HA
1990. Cecchetti et al (2009) base their crisis dating on LV.
3 To calculate cumulative costs of permanent effects, Boyd et al (2005) rely on projections of future GDP (M 2). To
provide conservative estimates, the study also shows results when only actual data are used (M 1).
4 As a percentage of 2009 output.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
28
Prof. Mario Tonveronachi
Le forti perdite di reddito nazionale indotte dalle crisi significano anche forti e perduranti
aumenti della disoccupazione e un aumento del grado di povertà in molti paesi, specie
in quelli meno sviluppati.
La Tavola 9, che si riferisce ad un sub-periodo diverso, mostra in primo luogo come le
crisi abbiano interessato in misura prevalente le economie dei paesi emergenti e come
siano state prevalenti le crisi gemelle. Si mette anche in rilievo quanto esse siano
collegate al rischio di credito (crediti in sofferenza) e come il costo fiscale della
risoluzione della crisi sia maggiore per le crisi gemelle e per i paesi in via di sviluppo.
Per costo fiscale delle crisi si intende il costo che deve sopportare la collettività per
mezzo dell’intervento pubblico teso a risolvere le crisi.
Tavola 9 - Average Cumulative Fiscal Costs of Banking Crises in 24 Crises, 1977-2000
Number of
crises
Non-performing loans
(% of total loans)
Fiscal costs of banking
resolution (% of GDP)
All countries
24
22
16
Emerging market countries
17
28
17.5
Developed countries
7
13.5
12
Banking crisis alone
9
18
4.5
Banking and currency crises
15
26
23
Emerging market countries
11
30
25
Developed countries
4
18
16
Banking and currency crises with
previous fixed exchange rate
11
26
27.5
Emerging market countries
8
30
32
Developed countries
3
18
16
Da Allen e Gale, Competition and Financial Stability, Wharton Financial Institutions Center, wp 26, 2003.
La tavola 10 mostra le crisi che hanno interessato i paesi sviluppati (G10) a partire
dagli anni ’70 e fino al 2002. Si mostrano i tipi di rischi sui quali hanno agito gli shock
che le hanno determinate, l’impatto circoscritto o sistemico che hanno prodotto e le
modalità e i costi di risoluzione. In essa sono considerate alcune crisi che analizzeremo
in dettaglio nella sezione successiva.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
29
Prof. Mario Tonveronachi
Tavola 10 - Summary of G10 banking crises
Da: Basel Committee on Banking Supervision, Bank Failures in Mature Economies, Working Paper No. 13, April 2004
Switzerland
Spain
Germany
Norway
Sweden
Japan
(91-96)
(78-83)
BCCI
(1991)
Small Banks
(91-92)
Barings
(1995)
Herstatt
(1974)
(88-93)
(91-94)
(94-02)
Cont’tal Illinois
(1984)
S&L
(82-95)
New England
(90-91)
Sub-Prime
(98-00)
Credit
Yes
Yes
Yes
Yes
NO
No
Yes
Yes
Yes
Yes
Yes
Yes
Yes
Market
No
No
Operational (inc. fraud)
No
Yes
No
No
Yes
Yes
No
Yes
No
No
Yes
No
No
Yes
No
Yes
Yes
No
No
No
No
No
No
Yes
Yes
Yes
Yes
Yes
No
No
Yes
Yes
Yes
No
Yes
Yes
No
Yes
Yes
No
Yes
No
No
Yes
Yes
Yes
No
Yes
Yes
No
Financial liberalisation
Yes
Yes
Yes
Yes
No
Yes
Yes
Yes
Yes
No
Yes
No
No
Poor regulation/ supervision
No
Yes
No
No
No
No
Yes
Yes
Yes
No
Yes
No
No
Risk concentration
Yes
Yes
No
Yes
No
No
No
Yes
Yes
No
Yes
No
Yes
No
No
Yes
No
Yes
Yes
No
No
No
Yes
Yes
No
Yes
Whole banking system
No
Yes
No
No
No
No
Yes
Yes
Yes
No
Yes
No
No
Small banks only
Yes
No
No
Yes
No
No
No
No
No
No
No
Yes
Yes
One bank
No
No
Yes
No
Yes
Yes
No
No
No
Yes
No
No
No
Systemic risk
No
Yes
No
Yes
No
Yes
Yes
Yes
Yes
Yes
Yes
No
No
quick
quick
quick
slow
quick
quick
quick
quick
slow
quick
slow
quick
quick
No
No
Yes
Yes
Yes
Yes
No
No
No
No
No
No
Yes
private
public/
private
No
private/
public
No
No
public/
private
private/
public
public
public
public
public
public
<1
5
Nil
0.007
Nil
Nil
3.1
4.0
(a)
.0003
2.1
Nil
Nil
Risk Type
UK
US
Shock
Macro: real economy
asset prices
Banking system
Bank specific
Impact
Crisis resolution
Speed of resolution
Mainly closures
Main type of support
Fiscal cost of resolution (% of
annual GDP)*
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
30
Prof. Mario Tonveronachi
I.6 - Crisi idiosincratiche – Casi e analisi
Si tratta di crisi che mettono in risalto la cattiva gestione di uno più dei rischi assunti.
Nel sito del Corso sono presenti i file degli studi di caso prodotti da Sungard Ambit ERisk
per Continental Illinois e LTCM. Dal sito del Corso si scarichi anche un’analisi sulla
recente crisi della banca britannica Northern Rock.
Di seguito si riporta l’analisi di Sauer della crisi dei mercati USA del 1987.
Da S. Sauer (“Three liquidity crises in retrospective: Implications for central banking
today”, University of Munich, Department of Economics, Discussion Paper 2007-26, pp. 23)
Stock market crash in October 1987
Black Monday 1987
On 19 October 1987 (‘BlackMonday’), the Dow Jones Index dropped by 22.6%. ….
Many commentators blamed institutional investors that followed a portfolio insurance
investment strategy for the dramatic crash in prices. Similar to stop-loss-orders, portfolio
insurance implies automatic sell orders when the value of a portfolio or single shares falls
below a certain threshold. If the absorption capacity of the market is limited, portfolio
insurance can cause a vicious circle of price falls and further sell orders. .. [O]fficial
statistics … show that institutional investors who followed a portfolio insurance investment
strategy were the heaviest net sellers on the New York Stock Exchange and in the S&P
500 index futures market.
Furthermore, a number of traders such as arbitrageurs who traded in shares
involved in takeovers or recapitalisations faced margin calls that forced them to sell
shares into the falling market. Neely reports enormous problems for brokerage houses
and market makers as they had accumulated unusually large inventories and banks were
reluctant to provide them with further credit. Garcia notes that futures, options and stock
markets differed in the timing of settlement obligations, which created additional liquidity
problems for investors trading off-setting positions across markets.
Grossman and Miller describe the events on 19 and 20 October against the
background of their model in which market liquidity is determined by the demand and
supply of ‘immediacy’, i.e. the willingness to trade immediately rather than to wait some
time for a possibly better price. They argue that order imbalances were so great that
market makers became incapable of supplying further immediacy. Market illiquidity
materialised as delays in the execution and confirmation of trades and as the virtual
impossibility of executing market sell orders at the quoted prices at the time of order entry.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
31
Prof. Mario Tonveronachi
The Fed’s response
As chairman of the Fed, Alan Greenspan managed to improve the confidence of investors
and the liquidity of the market by issuing the following statement at 9 am on 20 October
1987:
The Federal Reserve, consistent with its responsibilities as the Nation’s
central bank, affirmed today its readiness to serve as a source of liquidity
to support the economic and financial system(Greenspan, 1987).
The Dow Jones regained 5.9% and 10.1% on this and the following day, respectively. …
[T]he different tools the Fed used to limit the extent of the stock market crash … included,
besides communication via the quoted statement, mainly open market operations and the
use of the discount window to provide liquidity in the form of additional money to the
market as well as the ‘persuasion’ of banks to lend freely to their customers at Wall Street.
The handling of the crisis by Alan Greenspan, who had been appointed as Fed Chairman
only two months earlier, laid the foundations for the belief in an insurance against stock
market losses, termed ‘Greenspan put’ in the popular press.
COMMENTI
Le analisi precedenti hanno mostrato come un’inaccurata gestione dei rischi possa
condurre alla crisi di intermediari e mercati. Hanno anche mostrato quanto problemi
esterni alle singole istituzioni concorrano a metterne in risalto elementi di fragilità e quanto
singole fragilità possano propagarsi all’intero sistema. Concentriamo l’attenzione su tre
problemi:
(1) L’esistenza di intermediari “too big to fail” e, più in generale, quello della risoluzione
delle crisi.
(2) La possibilità che una crisi idiosincratica si trasformi in crisi sistemica ed il ruolo del
funding liquidity risk.
(3) La funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort) della banca centrale.
Il caso di LTCM mostra sia la pericolosità di sottovalutare i rischi di liquidità, sia le forti
ricadute che sarebbero derivate dal permettere il fallimento di una grande istituzione
finanziaria. La struttura del capitale del Fondo vedeva fortemente esposte alcune grandi
banche per importi elevati, anche in forma di indebitamento a breve. A peggiorare la
situazione queste banche avevano passivamente adottato in proprio le strategie di LTCM,
esponendosi così a una non avvertita concentrazione di rischi. Il fallimento di LTCM
avrebbe quindi comportato forti perdite per queste banche, con probabili effetti negativi
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
32
Prof. Mario Tonveronachi
sulla fiducia nei confronti di tutto il sistema. L’intervento delle autorità monetarie, sia nel
favorire una coalizione di istituzioni private tese al salvataggio del fondo, sia nel rifornire il
mercato della liquidità richiesta, scongiurò un effetto domino sul resto del sistema
finanziario e quindi il verificarsi di una crisi sistemica. Si è quindi in presenza di una
istituzione “too big to fail”, ma anche di forti interconnessioni tra intermediari, di un
intervento di salvataggio (avvenuto in questo caso senza costi fiscali) e di un intervento di
prestatore di ultima istanza della banca centrale.
Il caso del Lunedì nero del 1987 mostra il sorgere di una crisi di liquidità nel mercato dei
capitali causato da un “comportamento gregario” (herding behaviour) la cui responsabilità
si fa risalire all’omogeneità di strategie, automatizzate e non, di trading. Di nuovo il pronto
intervento delle autorità monetarie scongiurò che la crisi di liquidità si trasformasse in crisi
di insolvenza. Come spiega Persaud, nell’Annesso su Herding posto alla fine di queste
note, non solo un aumento della volatilità di un attivo induce a ridurre l’esposizione verso
di esso (come si è già visto parlando dei rischi di liquidità); il dover colmare perdite può
comportare la vendita di altri attivi con rischi sui propri fondamentali micro non correlati ai
primi, col risultato di renderli correlati e di indurre un contagio.
L’analisi della crisi di Northern Rock porta ad ampliare quanto visto discutendo del rischio
di liquidità a crisi di liquidità sistemiche. Anche quando una crisi si presenta inizialmente
come solo di illiquidità temporanea, la sua non soluzione conduce in breve tempo a
trasformarla in crisi di insolvenza. Vari sono i meccanismi per i quali questo può avvenire.
Nel caso di Northern Rock la qualità dell’attivo non era inizialmente in discussione, ma
l’illiquidità dell’attivo non permetteva di liquidalo per far fronte al ritiro dei depositi
all’ingrosso e al dettaglio. In assenza di fonti alternative di finanziamento privato, la banca
era impossibilita a soddisfare la domanda dei creditori, creando i presupposti per il suo
fallimento. Quando gli attivi possono essere ceduti, ciò può avvenire a prezzi
significativamente minori di quelli posti a bilancio comportando perdite in conto economico
e perdite di capitale; queste vendite, se di valore significativo, producono a loro volta
ulteriori cadute dei prezzi, in una spirale che provoca ben presto fallimenti. Effetti simili si
hanno per aumenti nel costo della raccolta dovuti alla accresciuta percezione del rischio
dell’istituto emittente. Guardando alle banche, il fallimento di alcune si riflette, specie per
tramite del mercato interbancario, sui bilanci delle altre istituzioni finanziarie e produce
comunque un innalzamento dei premi per il rischio e una rarefazione dell’offerta di credito.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
33
Prof. Mario Tonveronachi
Il tutto si riflette quindi pesantemente anche sul settore non finanziario e sull’economia nel
suo complesso.
Si ricordi che, operando una trasformazione di orizzonti temporali diversi tra unità in
surplus e unità in deficit, il sistema finanziario, considerato nel suo complesso, è per
definizione non liquido. A fronte della liquidità secondaria (i depositi bancari) creata in
regime di riserve frazionarie stanno immobilizzazioni, come i prestiti, e strumenti di
mercato. Obbligazioni e azioni sono nel loro complesso illiquidi perché capaci di generare
flussi di liquidità solo nel corso del tempo. Il sistema finanziario non può quindi soddisfare
contemporaneamente le domande di trasformazione di tutti i contratti finanziari in liquidità
primaria, quella emessa dalla banca centrale. In altri termini, il sistema finanziario
funziona con un moltiplicare rispetto alla liquidità primaria, la quale costituisce il limite alla
liquidazione degli attivi finanziari. L’intero sistema si fonda sulla fiducia degli operatori di
poter tornare liquidi, con i tre attributi prima visti di valore, probabilità e tempo, quando se
ne presenti la necessità.
In condizioni normali la liquidità prodotta dal sistema finanziario è sufficiente per un
ordinato svolgimento delle transazioni. Le banche detengono riserve di liquidità primaria
in vista dei normali sfasamenti tra entrate e uscite di contante. I mercati secondari
accomodano le normali transazioni senza produrre eccessiva volatilità. Se viene a
mancare la fiducia nella liquidità in una parte del sistema si produce quella che è definita
una fuga verso la qualità (flight to quality), che significa di fatto una fuga verso la migliore
forma di liquidità. Carattere di queste crisi è, infatti, di voler tornare ‘liquidi’, cioè con attivi
ritenuti di valore più certo. Quelle fughe comportano processi cumulativi che sono tipici
delle esposizioni verso i mercati. Negli esempi delle precedenti tavole 1-3, uno shock
iniziale sul prezzo dei titoli può essere tale da far rivedere verso l’alto il grado di variabilità
dei mercati e far quindi aumentare le percentuali di margine e di haircut; ne risultano non
solo perdite, ma anche una contrazione della leva, dello strumento o finanziaria (deleveraging). Le difficoltà di finanziare posizioni esistenti con maggiore liquidità primaria, e
l’insufficiente redditività di molte posizioni quando ne viene meno l’effetto moltiplicatore
derivante dalla leva, conducono infatti a liquidare parte degli attivi. I prezzi delle attività
finanziarie sono ulteriormente sospinti verso il basso producendo un’ulteriore tornata di
aggiustamenti delle posizioni, e così via con ulteriori processi di retroazione (feedbacks)
fino ad intaccare seriamente la liquidità dei mercati secondari. Anche le banche sono
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
34
Prof. Mario Tonveronachi
soggette a fenomeni simili; in presenza di un forte aumento nell’incertezza sul valore dei
futuri flussi di cassa e degli attivi le banche aumentano le proprie scorte liquide, anche
liquidando posizioni sui mercati.
In generale, qualsiasi tipo di intermediario finanziario che assuma valori dati di debito per
finanziare attività il cui valore può variare per effetto di cause idiosincratiche o sistemiche
è sottoposto a queste forme di instabilità, che saranno tanto più accentuate quanto più la
leva è fissa, o ancora peggio quanto più è pro-ciclica. Questi processi dinamici verso il
basso sono spesso denominati di debt deflation, ossia di una deflazione dei valori indotta
dal tentativo di ridimensionare le posizioni debitorie. Esso può condurre ad una seria crisi
di liquidità generale; con riferimento ai black holes presenti nello spazio, un noto esperto
di finanza, Avinash Persaud, parla di buco nero della liquidità, dove la discesa dei prezzi
non si arresta perché non capace di indurre l’arrivo di nuovi compratori, ma anzi si
autoalimenta attraendo un maggior numero di venditori.
Un’analisi classica della trasformazione di una crisi bancaria idiosincratica in crisi
sistemica è quella basata sulla “corsa agli sportelli” (bank run). La liquidità solo frazionaria
detenuta dalle banche rispetto al loro debito, e il predominare del debito a vista o
comunque a breve termine, spiega perché parlando della moneta bancaria si parla di
moneta fiduciaria. Un ulteriore elemento fiduciario deriva dalla opacità, cioè non
trasparenza, dei bilanci bancari, ovvero dall’impossibilità di valutare dall’esterno con
sufficiente attendibilità la situazione di solvibilità di una banca. Se per una qualche
ragione (anche non fondata) tale fiducia si incrina nei riguardi di una o poche banche, i
depositanti sono incentivati a liquidare, senza costi sensibili, i loro depositi. L’impossibilità
della banca di soddisfare questa domanda di liquidità con le sole proprie riserve induce
reazioni che possono essere senza esito o possono minarne la solvibilità. Può vendere
parte del proprio attivo liquido, ma se ciò avviene ad un valore scontato rispetto al valore
iscritto a bilancio essa incorre in perdite che possono intaccare la sua solidità
patrimoniale. Può rifinanziarsi sul mercato interbancario, se va bene a tassi punitivi, ma
verosimilmente senza esito dato che quel mercato può divenire restio a concedere linee
di credito nella situazione data. Può cercare di frenare l’emorragia dei depositi
aumentando i tassi passivi, dando però un ulteriore segnale negativo ai suoi creditori. Il
fallimento di una o poche banche può generare una perdita di fiducia per l’intero sistema
(cioè per la moneta bancaria in generale) data la difficoltà per i depositanti di distinguere
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
35
Prof. Mario Tonveronachi
tra banche sane e insolventi. La “corsa agli sportelli” può quindi generalizzarsi, con gravi
danni al sistema dei pagamenti e al credito in generale. Gli effetti sull’intera economia
possono essere molto pesanti.
L’evoluzione degli ultimi decenni ha reso più complesso il quadro precedente, che
abbiamo centrato sull’operatività tradizionale delle banche commerciali, con debito
costituito in prevalenza da depositi al dettaglio e un attivo composto in maggior parte da
prestiti. Si è però visto che una delle caratteristiche più salienti è rappresentata dalla
crescente interconnessione tra banche e mercati, sia dal lato dell’attivo che del passivo.
Le banche si finanziano ora in misura consistente sui mercati all’ingrosso e detengono
attività di mercato. Ne discende che rispetto al modello tradizionale, che poneva problemi
di liquidità a causa della trasformazione delle scadenze, le banche sono ora soggette
anche alla combinazione del market risk e di un funding liquidity risk potenziato
dall’esposizione verso passivi che si sono rivelati più volatili dei depositi al dettaglio.
Inoltre, nelle condizioni attuali la fiducia nella solvibilità bancaria può essere messa in
dubbio da cadute nel prezzo degli attivi di mercato e il bank run può iniziare con un ritiro
dei finanziamenti all’ingrosso.
Anche la liquidità primaria può essere oggetto di fuga verso la qualità quando cade la
fiducia sul valore della valuta nazionale.
In sintesi, crisi sistemiche di liquidità possono sorgere dal venir meno della fiducia:
-
nella moneta nazionale, con la fuga verso altre valute o verso beni rifugio, come
l’oro, da cui una crisi valutaria;
-
nella moneta bancaria, dove la fuga verso la qualità (liquidità primaria) porta al
ritiro dei depositi, producendo una crisi bancaria;
-
nella valutazione dei prezzi che il mercato sta esprimendo, quindi rivalutando i
rischi o comunque additando con la fuga verso la qualità la difficoltà di valutarli
correttamente. Da qui una crisi di mercato.
Il contagio nella perdita di fiducia si amplifica quanto più intermediari finanziari e mercati
sono interconnessi e quanto più sono esposti in valuta estera. Come vedremo studiando
le crisi sistemiche, frequenti sono le cosiddette crisi gemelle, valutarie e finanziarie.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
36
Prof. Mario Tonveronachi
La funzione di prestatore di ultima istanza della banca centrale serve a interrompere la
conversione di una specifica crisi di illiquidità temporanea in una di insolvenza
generalizzata. Nella sua essenza il meccanismo di rifinanziamento della banca centrale
prevede l’erogazione di credito a banche che siano in grado di fornire garanzie
considerate di buona qualità, con ciò distinguendo tra banche solo illiquide (che sono in
grado di fornire tali garanzie) e banche insolventi, che non essendo in possesso delle
necessarie garanzie non verranno rifinanziate. Nella dottrina classica enunciata nel 1873
da Bagehot, la banca centrale, nell’intervenire “quickly, freely and readily”, dovrebbe
comunque applicare tassi punitivi al rifinanziamento in modo da eliminare eventuali
comportamenti di azzardo morale da parte delle banche. A questo intervento diretto della
banca centrale nei confronti delle banche si sono da tempo aggiunte le operazioni di
mercato aperto. Con queste operazioni la banca centrale interviene direttamente nei
mercati finanziari acquistando (vendendo) titoli, in genere ma non necessariamente titoli
pubblici, in tal modo cedendo (ritirando) liquidità primaria ai mercati.
Secondo questa impostazione tradizionale, nel definire gli attivi accettabili come garanzia
(collaterals) dei prestiti di emergenza concessi alle banche, la banca centrale dovrebbe
escludere quelli che comportano rischio di credito. Accettando quelle garanzie, la banca
centrale accetta i rischi impliciti in quegli strumenti nel caso che la banca che li ha forniti
risulti insolvente. Come emittente di liquidità primaria la banca centrale può acquisire in
garanzia attivi con scarsa liquidità e al limite con rischio di mercato, non avendo problemi
di tempo per la loro liquidazione. Non dovrebbe invece assumere rischio di credito in
quanto eventuali perdite private ricadrebbero su tutti i cittadini, implicando un ruolo fiscale
che non l’autorità monetaria, ma il governo dovrebbe assumere.
L’evoluzione di cui abbiamo parlato ha reso ancor più cruciale l’intervento di prestatore di
ultima istanza della banca centrale per le condizioni di maggiore volatilità di attivi e passivi
bancari. Ma ha anche cambiato la tipologia delle garanzie che le banche sono in grado di
fornire alla banca centrale. Mentre banche impegnate in prestiti a breve potevano
scontare presso la banca centrale carta commerciale con scarso rischio di credito in
quanto rappresentativa di merci di magazzino (real bill), nelle condizioni attuali questo tipo
di attivo è limitato, mentre la maggiore disponibilità è per attivi caratterizzati da rischio di
mercato e non trascurabile rischio di credito. Ciò rende problematico per le autorità
monetarie definire le garanzie ammissibili in termini ristretti, rispetto al rischio di perdite,
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
37
Prof. Mario Tonveronachi
dato che ciò limiterebbe significativamente l’entità del loro intervento. La soluzione
adottata da molte banche centrali è quella di scontare il valore nominale degli strumenti
accettati in garanzia, non diversamente dagli haircut che abbiamo visto sono applicati nel
settore privato. Nella seconda parte del Corso si analizzerà come nella recente crisi
finanziaria le banche centrali abbiano dovuto ampliare la loro operatività al di là della
classica regola di Bagehot ed abbiano sempre di più dovuto ampliare la loro operatività al
di là del solo settore bancario.
Herding – da A. Persaud, “Sending the herd off the cliff edge”, ERisk.com, December
2000
By herding behaviour I mean that banks or investors like to buy what others are
buying, sell what others are selling, and own what others own. There are three main
explanations for why bankers and investors herd. First, in a world of uncertainty, the best
way of exploiting the information of others is by copying what they are doing. Second,
bankers and investors are often measured and rewarded by relative performance, so it
literally does not pay for a risk-averse player to stray too far from the pack. Third,
investors and bankers are more likely to be sacked for being wrong and alone than being
wrong and in company.
Imagine that over time a herd of banks has acquired stocks in two risky assets that
have few fundamental connections, say, Korean property and UK technology stocks.
Imagine too that some bad news causes volatility in UK technology stocks and the banks
most heavily invested there find that their DEAR limits are hit. As these banks try and
reduce their DEAR by selling the same stocks (Korean property and UK technology) at
the very same time, there are dramatic declines in prices, rises in volatility in both markets,
and rises in the correlation between Korean and UK markets. Rising volatility and
correlation trigger the DEAR limits of banks less heavily invested in these markets but
invested in other markets. As they join the selling milieu, volatility, correlation and
contagion rise. The key to this environment is that market participants behave strategically
– in relation to one another – but DEAR measures risk “statically” – without strategic
considerations. Previous volatility and correlations were measured over a period of time,
when the herd gradually built up, and are therefore almost certain to underestimate the
impact on prices, volatility and correlations when many investors sell the same asset at
the same time.
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
38
Prof. Mario Tonveronachi
DEAR = daily earnings at risk
Materiale per il corso di Economia dei sistemi finanziari – Parte I
39
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