Il teatro, la città, l`Imperatore e il Carnevale

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STEFANO LO VERME
Il teatro, la città, l’Imperatore e il Carnevale: il caso di Alessandro Piccolomini
In
I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo.
Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza,
18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi,
Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 9788890790546
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=581
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I cantieri dell’Italianistica
STEFANO LO VERME
Il teatro, la città, l’Imperatore e il Carnevale: il caso di Alessandro Piccolomini
Il tema del “teatro in festa” è affrontato di seguito mediante un’analisi delle circostanze di composizione e di messa in scena
delle due commedie teatrali firmate da Alessandro Piccolomini, L’amor costante e L’Alessandro, al fine di evidenziare lo
stretto legame fra l’attività letteraria dello scrittore senese nell’ambito dell’Accademia degli Intronati ed il relativo contesto
storico e sociale, anche in base alle peculiari contingenze che diedero origine o che influenzarono in maniera significativa la
realizzazione delle suddette commedie: nel caso de L’amor costante (1536), l’omaggio – clamorosamente ‘mancato’ – nei
confronti dell’Imperatore Carlo V, al cospetto del quale l’opera avrebbe dovuto essere rappresentata; mentre per quanto
riguarda L’Alessandro (1544), composta al ritorno di Piccolomini a Siena, la celebrazione della riapertura dell’Accademia
degli Intronati nella cornice del Carnevale cittadino, in un intenso e vivace dialogo, non privo di sottotesti ironici e di notazioni
polemiche, fra l’autore e il pubblico senese.
Il legame fra le rappresentazioni teatrali e la dimensione comunitaria della città costituisce un
connubio inscindibile nel panorama della commedia del Cinquecento; un connubio sotto la cui
insegna si può ascrivere anche la produzione per il palcoscenico di Alessandro Piccolomini. Una
produzione, quella dello scrittore senese, che per quanto riguarda il teatro risulta limitata a due
soli testi di sua esclusiva composizione, L’amor costante e L’Alessandro, entrambi collocabili in uno
specifico contesto storico, geografico e culturale e legati a precise contingenze. Tali contingenze
sono riconducibili appunto a quel binomio – il teatro e la festa – la cui centralità appare
evidente anche da un’analisi dell’attività di Piccolomini in qualità di commediografo, laddove le
stesse scelte artistiche dell’autore risultano ineluttabilmente influenzate, se non addirittura
determinate, da circostanze esterne relative alla celebrazione di un momento di festività da parte
dell’intero corpo cittadino.
A tal proposito, è significativo notare come, nella prospettiva di Piccolomini, la natura del
teatro non costituisca semplicemente il prodotto dell’estro di un commediografo, ma debba
essere configurata all’interno di un rapporto – che si potrebbe definire come un ideale ‘dialogo’
– fra l’artista, i mestieranti del palcoscenico e la città nel suo insieme: una ‘comunità in festa’,
per l’appunto, considerata come un destinatario dal quale non si può mai prescindere. Tale
prospettiva, volta ad includere quanto più possibile il pubblico dei concittadini senesi nella
messa in scena di uno spettacolo teatrale, trova riscontro nelle modalità compositive adoperate
da Piccolomini, il quale, nelle proprie commedie, in molteplici occasioni induce i personaggi a
infrangere la ‘quarta parete’ rivolgendosi direttamente agli spettatori, o si concede riferimenti
più o meno esplicità alla stretta attualità.
Entrambe le commedie firmate da Piccolomini nascono nell’ambito delle attività culturali
dell’Accademia degli Intronati1, della quale Piccolomini era entrato ufficialmente a far parte nel
1532, attraverso una cerimonia – il cosiddetto ‘Sacrificio d’amore’ – avvenuta proprio in
occasione di un importante momento di festa per la comunità cittadina, ovvero il Carnevale.
Nel corso di tale cerimonia a Piccolomini, allora ventitreenne, era stato attribuito il nomignolo
accademico di Stordito, secondo la tradizione adottata dagli Intronati fin dalla fondazione della
loro Accademia. Il rituale del ‘Sacrificio d’amore’ era stato messo in scena dagli Intronati
durante la notte dell’Epifania, al culmine dei festeggiamenti per il Carnevale: trenta nuovi
sodali, appena ammessi tra le fila dell’Accademia, avevano recitato alcuni versi poetici, per poi
1 A proposito dell’Accademia degli Intronati, e in particolare in riferimento al primo periodo della sua
esistenza, dalla sua fondazione (presumibilmente nel 1525) passando per le fasi di altalenante fortuna
attraversate durante il XVI secolo, si riportano di seguito alcune indicazioni bibliografiche essenziali, utili
soprattutto per un approfondimento sulle intense attività teatrali dell’Accademia: F. IACOMETTI,
L’Accademia senese degli Intronati, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1950; N. BORSELLINO, Rozzi e
Intronati. Esperienze e forme di teatro dal “Decameron” al “Candelaio”, Roma, Bulzoni, 1974; N. NEWBIGIN,
Politics and Comedy in the Early Years of the Accademia degli Intronati of Siena, in M. de Panizza Lorch (a cura di),
Il teatro italiano del Rinascimento, Milano, Edizioni di Comunità, 1980, 123-134; D. SERAGNOLI, Il teatro a
Siena nel Cinquecento. “Progetto” e “modello” drammaturgico nell’Accademia degli Intronati, Roma, Bulzoni, 1980; L.
RICCÒ, La “miniera” accademica. Pedagogia, editoria, palcoscenico nella Siena del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2002.
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sacrificare tra le fiamme di un falò gli oggetti legati alle donne di cui erano innamorati, con un
gesto dal valore allegorico che simboleggiava il desiderio di distacco dalle donne senesi, ritenute
insensibili ed ingrate2.
Proprio a sottolineare l’intima connessione fra il teatro e la festa, è interessante rilevare che,
nel 1532, l’evento-culmine del Carnevale senese, nel giorno della sua conclusione (il 12
febbraio), fu la pubblica rappresentazione, nella Sala Grande del Consiglio del Palazzo
Comunale, di una commedia dal titolo Gli ingannati, la cui realizzazione, ad opera degli
Intronati, rientra in quella pratica di ‘composizione collettiva’ (senza che vi fosse dunque un
singolo autore al quale attribuire la paternità dell’opera) molto diffusa in quegli anni presso varie
Accademie italiane3. L’allestimento della commedia venne finanziato grazie a un contributo
dell’erario pubblico, stabilito da una delibera della Balìa senese, a testimonianza di come il
teatro rientrasse a pieno titolo nell’ambito dell’offerta culturale e delle attività ludiche promosse
dall’amministrazione di Siena a beneficio dell’intera comunità.
La validità del binomio teatro/festa, e di conseguenza il significativo ruolo della collettività
cittadina all’interno della storia del teatro del Cinquecento, verranno di seguito analizzati
prendendo in esame il ‘caso’ di Alessandro Piccolomini, il quale, presumibilmente, aveva già
partecipato in maniera attiva alla composizione de Gli ingannati insieme ai suoi sodali
accademici. Quattro anni più tardi, all’inizio del 1536, Piccolomini si dedicò alla scrittura della
sua prima commedia, L’amor costante, che sarebbe poi stata pubblicata per la prima volta a
Venezia nel 1540 dal tipografo di origine mantovana Andrea Arrivabene4. Testo fortemente
debitore della tradizione comica del primo Cinquecento, e caratterizzato da numerose analogie
– a livello narrativo quanto tematico – rispetto a Gli ingannati, L’amor costante fu prodotto in virtù
di un’occasione ben precisa, che influenzò sotto molteplici punti di vista l’estro creativo di
Piccolomini. Piuttosto significativi, per questo tipo di indagine, risulteranno in particolare i
prologhi delle due commedie, emblematici del rapporto che Piccolomini instaura con il proprio
uditorio.
Nel febbraio del 1536, la Balìa ricevette notizia di un grande avvenimento in procinto di
avere luogo nella città di Siena: la visita dell’Imperatore Carlo V. Carlo V si trovava in Italia già
da un anno, dalla clamorosa vittoria nella battaglia di Tunisi contro le truppe del Sultano
Orham I, e nell’aprile del 1536, sulla via del ritorno verso il Sacro Romano Impero, fece sosta a
Roma per conferire con il nuovo Papa, Paolo III Farnese. Fra le successive tappe nell’itinerario
di Carlo V e del suo seguito vi era anche Siena, città le cui sorti erano strettamente legate al
potere imperiale; la Balìa, pertanto, in previsione dell’arrivo di Carlo V e dei relativi
festeggiamenti aveva commissionato all’Accademia degli Intronati la messa in scena di una
commedia che avrebbe fatto parte delle celebrazioni in onore dell’Imperatore. Tale ‘retroscena’
non costituisce certo un dettaglio secondario da relegare fra le mere curiosità storiche, dal
2 Sui dettagli della celebrazione del ‘Sacrificio d’amore’ si rimanda a D. SERAGNOLI, Il teatro a Siena…, 3741, e N. NEWBIGIN, “Il sacrificio” e “Gli ingannati” nel Carnevale senese del 1532, prefazione a “Gl’ingannati” con
“Il sacrificio” e “La canzone nella morte d’una civetta”, Bologna, Arnaldo Forni, 1984, V-XIX.
3 La questione delle modalità compositive de Gli ingannati è stata oggetto, nel corso degli anni, di un ampio
dibattito critico; a tal proposito cfr. la nota introduttiva al testo de Gli ingannati in N. Borsellino (a cura di),
Commedie del Cinquecento, Feltrinelli, Milano, 1962, vol. I, 198. Sulla fortuna de Gli ingannati e la sua
influenza sulla produzione drammaturgica coeva e successiva, cfr. invece ACCADEMICI INTRONATI DI
SIENA, La commedia degli Ingannati, edizione critica con introduzione e note di Florindo Cerreta, Leo S.
Olschki, Firenze, 1980, 34-44.
4 A. PICCOLOMINI, L’amor costante. Comedia del S. Stordito Intronato, composta per la venuta dell’Imperatore in Siena
l’anno del XXXVI. Nellaqual comedia intervengono varij abbattimenti di diverse sorti d’armi & intrecciati, ogni cosa in
tempi è misure di morescha, cosa non manco nuova che bella, in Venetia al segno del Pozzo, MDXL. Nella lettera
dedicatoria a Giovanni Soranzo, datata Venezia, 15 novembre 1540, Arrivabene dichiara di aver ricevuto
una serie di sonetti e altre composizioni di vario genere provenienti dall’Accademia degli Intronati, fra cui
il testo della commedia dei Piccolomini.
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momento che l’intera opera fu pensata da Piccolomini tenendo ben presente che alla
rappresentazione dello spettacolo avrebbero assistito Carlo V e vari dignitari della sua corte.
La prima necessità della quale lo Stordito Intronato si trovò a dover tenere conto, in fase di
scrittura, fu l’esigenza di rendere comprensibile un intreccio narrativo decisamente complesso,
come da tradizione per la maggior parte delle commedie dell’epoca, non soltanto per il consueto
pubblico dei propri concittadini senesi, ma anche per gli ospiti stranieri, che naturalmente
avrebbero potuto riscontrare notevoli difficoltà in tal senso, essendo di madrelingua spagnola.
La soluzione adottata da Piccolomini risiede nell’inserimento, fin dal prologo de L’amor costante,
di un personaggio denominato Spagnuolo, che è anche il primo personaggio a comparire sulla
scena ed al quale sono affidate le prime battute del testo:
Spa. O como me spanto en ver estas maravillas. que pueden significar estos aparatos, y estas
casas a qui? y estos hidalgos con estas mugeres, y donzellas tan hermosas? que quieren
hazer estos señores. todo sta muy bien y muy lindamente puesto, por vida mia que los
Italianos saben mucho, y entienden muy bien las cosas del mundo. Pluguiesse a dios que me
topasse cō alguna persona que me declarasse todo este magisterio.5
Mentre esprime con toni altisonanti la propria ammirazione per le ‘maravillas’ di Siena e per
le sue ‘donzellas tan hermosas’, lo Spagnuolo viene raggiunto sul palco dal Prologo, al quale decide
appunto di rivolgersi affinché possa illustrargli il ‘magisterio’ di questa città tanto affascinante.
Sull’incontro fra i due personaggi Piccolomini innesta un vivacissimo quanto serrato scambio di
battute, in cui allo stupore e all’ingenua curiosità dello Spagnuolo fanno da contraltare la
schiettezza ed il brusco pragmatismo del Prologo, che irrompe al cospetto degli spettatori
esortando lo Spagnuolo a lasciar libero il proscenio affinché la commedia possa finalmente avere
inizio. Alle pressanti domande dell’ospite straniero, che ribadisce «quisieralo yo saber todo», il
Prologo replica con toni aspri e sdegnati, fino al punto di esclamare: «partitevi di gratia. Qui
s’ha da far una comedia»6.
Le parole del Prologo sono accolte dal fervido entusiasmo dello Spagnuolo, il quale,
eccitatissimo alla prospettiva di assistere a uno spettacolo teatrale, esorta il Prologo a narrargli
l’argomento della commedia. A questo punto comincia il ‘gioco’ fra gli attori e il pubblico; il
Prologo, difatti, si rivolge alternativamente allo Spagnuolo e agli spettatori, instaurando con essi
un dialogo non privo di sottintesi ironici, che trascende i limiti della diegesi e si richiama al tòpos
del rapporto diretto fra gli Accademici e le gentildonne senesi, destinatarie privilegiate dei
cimenti artistici degli Intronati:
Pro. Donne mie, mi bisogna contentar costui che altrimenti nō ci si levarebbe dinanzi hoggi.
Vostre signorie stieno attente che questo medesimo servirà à loro ancora, poi che la mia
disgratia m’ha impedito el mio disegno che era di voler parlare un poco con esso voi à solo
à solo, ma lo serbaremo à un’altra volta.7
La presenza dello Spagnuolo, figura buffonesca e sopra le righe, nel corso dell’esposizione
dell’argomento della commedia risponde a una duplice funzione: innescare immediatamente un
duetto dalle sfumature comiche con il Prologo, soddisfacendo l’esigenza di catturare l’attenzione
degli spettatori e di suscitare il loro divertimento; e in secondo luogo, elemento di rilievo ancora
maggiore, garantire la piena comprensione del complicato antefatto della vicenda da parte di
ogni tipologia di pubblico, superando così la barriera della differenza linguistica. L’espediente
adoperato da Piccolomini a tale scopo consiste infatti nel far ripetere allo Spagnuolo, nella sua
lingua, tutto ciò che viene detto dal Prologo, per accertarsi di aver capito correttamente ogni
A. PICCOLOMINI, L’amor costante, edizione anastatica con prefazione di N. Newbigin, Bologna, Arnaldo
Forni Editore, 1990, 3r (la numerazione delle pagine della commedia aderisce a quella dell’edizione
stampata a Venezia nel 1541).
6 Ibidem.
7 Ivi, 3v.
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dettaglio («siga el argumento, y yo lo verne preguntando de ratto en ratto, por ver si lo
entiendo»8).
Il Prologo illustra dunque agli spettatori la tormentata vicenda familiare dei fratelli Consalvo
e Pedrantonio, costretti ad abbandonare la città di Castiglia e separati dai due figli di
Pedrantonio, Ginevra e Ioandoro; i suddetti personaggi, dopo una serie di disavventure, sono
stati costretti a mutare identità e ad assumere nomi falsi (Pedrantonio si fa chiamare Guglielmo,
mentre Ginevra e Ioandoro hanno preso rispettivamente i nomi di Lucrezia e Giannino), e ora i
loro destini sono in procinto di incrociarsi nuovamente nella città di Pisa, dove è ambientata la
commedia. Fin dal suo antefatto, L’amor costante mostra di riprendere gli ingredienti tipici della
commedia regulata di ispirazione classica, con una struttura narrativa volta a favorire l’equivoco e
lo scambio di persona e improntata in direzione di una preannunciata agnizione.
Pur nel suo pedissequo rispetto delle convenzioni e dei meccanismi comici del teatro del
Cinquecento, il testo di Piccolomini tiene comunque in considerazione la circostanza essenziale
della sua stessa composizione, ovvero l’intrattenimento di spettatori di lingua spagnola; e proprio
per stimolare un maggiore coinvolgimento da parte di questa ampia fascia di pubblico,
Piccolomini scelse di attribuire una nazionalità spagnola a quasi tutti i protagonisti della
commedia. Intanto, mentre il Prologo elenca le varie vicissitudini che hanno portato alla
disgregazione di un’unità familiare in attesa di essere ricomposta grazie al provvidenziale
contribuito della sorte, lo Spagnuolo traduce, passo dopo passo, l’intero racconto del Prologo,
presentando anche all’Imperatore e al suo seguito i numerosi personaggi della commedia e gli
eventi che precedono l’azione (matrimoni contratti in segreto, fughe, rapimenti, perfino
un’aggressione da parte dei pirati).
Assolto dunque il compito di comunicare in entrambe le lingue al pubblico il lungo elenco di
fatti, di spostamenti e di assunzioni di identità fittizie che costituiscono l’antefatto della
commedia, Piccolomini si può permettere di portare avanti il suo gioco metatestuale fra gli attori
e l’uditorio, attraverso precisi riferimenti autoironici con i quali lo Spagnuolo e il Prologo
offrono una sorta di ‘presentazione’ dell’Accademia degli Intronati e dell’autore de L’amor
costante:
Spa. Muy sabia, y galana es esta fabula, mas digame quien la ha compuesto, y de quien es
obra esta Comedia? es quiza obra del divinissimo Pedro Aretino?
Pro. D’uno che e d’una accademia che è, in Siena già molt’anni.
Spa. Como se llama esta academia?
Pro. L’Academia dell’Intronati.
Spa. Los entronados hazen esto? por dios que en todas las partes de Spaña se ha esparzido
la gran fama de esta academia, y tanto ha ido el nombre della adelante, que ha llegado alas
oreias del Emperador? O como me pretiaria, y gozaria io tan bien de ser puesto en esta
Academia, y si me quereis tener obligado todo el tiempo de mi vida, poneme entra
vosotros.9
Alla parentesi autocelebrativa nei confronti dell’Accademia degli Intronati fa seguito un
canonico esempio di captatio benevolentiae all’indirizzo del pubblico femminile, sempre nell’ottica
di quel dialogo privilegiato fra i membri dell’Accademia e le gentildonne senesi. Il Prologo,
infatti, ripropone il tòpos del servitium amoris, in ossequio alla concezione del letterato come colui
che utilizza la propria arte quale veicolo per esprimere la sua totale devozione per il gentil sesso:
«cercar sempre di sapere, pigliare el mondo per el verso, & esser schiavo servo affettionato, &
sviscerato di queste donne, & per amor loro far qualche volta qualche Comedia, ò simil cosa da
mostrarli l’animo nostro»10. Una dichiarazione d’intenti, quella pronunciata dal Prologo e
attribuita alla totalità degli Intronati, che funge da ideale ritrattazione rispetto alla presa di
distanze verso le gentildonne senesi enunciata pochi anni prima mediante il ‘Sacrificio d’amore’.
Ibidem.
Ivi, 5v-6r.
10 Ivi, 6r.
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Sembra possibile, a tal proposito, individuare in filigrana un sottotesto di ‘gioco’ e di
maliziosa messa in scena in questo costante dialogo fra gli Intronati e il pubblico femminile: un
dialogo costruito sulla canonica alternanza fra schermaglie e ricongiungimenti, fra aspre
recriminazioni e giuramenti di fedeltà assoluta e incondizionata. Un’ambivalenza, quella fra
l’omaggio alle grazie muliebri, il rimprovero semiserio per gli atteggiamenti di ingratitudine
delle donne e gli accenni di velata e scherzosa misoginia, che contraddistinguerà tutta la
produzione di carattere teatrale e ‘ludico’ di Piccolomini, con un’ambiguità ulteriormente
esplorata nel testo conosciuto come il Dialogo della bella creanza delle donne11. Sempre nel suddetto
contesto, risulta significativo il monologo declamato dal Prologo subito prima dell’inizio del
primo atto, con l’elogio delle gentildonne e l’accorata richiesta affinché esse concedano il
proprio favore e il proprio plauso alla commedia alla quale stanno per assistere:
Pro. […] solo vi dirò che questi Intronati son piu vostri che fusser mai, & da voi hanno cio
che glihanno, & ogni giorno piu s’aveggono che senza voi male potrebben fare, & hanno
piu di bisogno di voi che di generatione che sia al mondo. Però vi pregan di cuore, che li
vogliate hoggi far favore in questa loro comedia perche da voi depende il tutto, che se
guardarete o tratterete quest’huomini la comedia andara invisibile & se per il contrario
guardarete a noi & ci favori rete con l’attentione tutti quest’altro vi verran drieto.12
Non a caso, del resto, tale invito precede la spiegazione del titolo, con la celebrazione del
cosiddetto ‘amor costante’ quale sentimento meritevole di essere preservato e difeso: «Perche
quel pietosissimo Dio che si chiama Amore non abandona mai chi con fermezza lo serve, &
questo vo che vi basti […]». Poco prima lo Spagnuolo, rinnovando la propria ammirazione per
l’Accademia degli Intronati, aveva domandato se ci fosse l’opportunità di partecipare alla
rappresentazione; il Prologo non aveva esitato ad accontentarlo, assegnandogli subito il ruolo di
un Capitano: «Per dio che ci potreste far servitio: perche havian de bisogno d’uno che facci
meglio un Capitano, voi lo fareste per eccellentia»13. Il suddetto espediente servirà anche da
giustificazione per la presenza di un personaggio spagnolo in una commedia ambientata a Pisa,
e permetterà a Piccolomini di inserire altri dialoghi in lingua spagnola all’interno del testo, in
modo da sollecitare di volta in volta l’interesse degli spettatori stranieri.
Nel corso della commedia, infatti, la figura dello Spagnuolo ritornerà saltuariamente nelle
vesti del Capitano Francisco Marrada: si tratta prevalentemente di intermezzi dal taglio comico,
slegati dal plot principale e utilizzati alla stregua di piacevoli siparietti con lo scopo di divertire il
pubblico, sfruttando i caratteri buffoneschi e sopra le righe del personaggio (accostabile, per
determinati aspetti, al modello del miles gloriosus plautino, pur non corrispondendo appieno
all’archetipo del soldato Pirgopolinice). Verso la fine del primo atto, ad esempio (per la
precisione, nella scena tredicesima), il Capitano si manifesta al cospetto della licenziosa fantessa
Agnoletta, oggetto del suo assiduo corteggiamento, e tenta di convincerla a trascorrere un’ora ad
amoreggiare con lui in una cantina; Agnoletta, per tutta risposta, si finge corrucciata con il
proprio spasimante poiché costui ha l’abitudine di adulare anche altre donne, riproducendo i
consueti battibecchi sentimentali che, dopo un vivace scambio di battute, si concluderanno con
l’immancabile riconciliazione. L’intero duetto fra Agnoletta e il Capitano viene giostrato da
Piccolomini in equilibrio tra i registri del farsesco, con l’ufficiale che si esprime in lingua
spagnola e con toni iperbolici, e della leziosità, con le affettate effusioni fra i due innamorati.
11 ID., Dialogo de la bella creanza de le donne, per Curtio Navo e fratelli, MDXXXIX. Oggetto di una notevole
fortuna e di numerose riedizioni già negli anni immediatamente successivi alla sua originaria
pubblicazione, il Dialogo godette di una discreta diffusione anche nel corso dell’Ottocento con il titolo La
Raffaella, adoperato inoltre per tutte le edizioni odierne dell’opera: fra le più recenti, si segnalano quelle di
Sonzogno (Milano, 1927), Le Monnier (Firenze, 1942), Longanesi (Milano, 1969) e di Salerno Editrice
(Roma, 2001), quest’ultima a cura di Giancarlo Alfano, oltre a una traduzione francese, La Raphaelle,
curata da Mireille Blanc-Sanchez e pubblicata da Ellug (Grenoble, 2000).
12 PICCOLOMINI, L’amor costante, 6v.
13 Ivi, 6v.
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Il Capitano Francisco, tuttavia, non è relegato soltanto ad un ruolo prettamente comico, ma
adempie anche alla funzione di riepilogare al pubblico di nazionalità ispanica le nozioni che è
necessario tenere a mente ai fini di una corretta comprensione della trama. Ad esempio, la
prima scena del secondo atto si apre con l’incontro tra il fratello di Pedrantonio, Consalvo
Molendini (altro personaggio di origine spagnola), e il Capitano Francisco, con Consalvo che
racconta all’ufficiale la storia della propria famiglia, elencando una serie di informazioni già in
possesso degli spettatori fin dal primo atto, ma che Piccolomini ritiene importante ripetere (in tal
senso si denota la preoccupazione dell’autore nel voler garantire un’efficace fruizione del
proprio spettacolo).
Tuttavia, come ha rilevato Daniele Seragnoli, sarebbe limitativo ridurre la ragion d’essere
del personaggio dello Spagnuolo, alias il Capitano Francisco, ad un semplice strumento di
comprensibilità linguistica. Nell’ottica delle circostanze peculiari che avevano portato alla
composizione de L’amor costante, non si può trascurare anche una dimensione di carattere più
sottilmente ideologico riguardante il rapporto fra Siena e il potere imperiale:
Significato particolare acquista il rapporto tra la struttura drammaturgica e il pubblico.
L’adozione di un duplice linguaggio – nel prologo soprattutto – non può essere spiegata
soltanto mediante l’esigenza di rendere comprensibile la fabula a entrambe le componenti
degli spettatori, ma anche attraverso il vagheggiato invito di adesione tra Siena e la Spagna:
i due diversificati strati del pubblico dovrebbero raggiungere un livello effettivo di
equilibrio, al di là di ogni possibile ambiguità, attraverso la tecnica drammaturgica prescelta
da Piccolomini.14
Questa dimensione risulta con particolare evidenza, ad esempio, nella dodicesima scena del
quarto atto, quando il Capitano Francisco si adopera – benché con vani risultati – per porre fine
alle ostilità tra le due fazioni opposte di messer Giannino e di Lattanzio, in procinto di
incrociare le spade in una sfida che potrebbe sfociare in un autentico massacro; in tale
occasione, l’ufficiale ispanico dà prova di una saggezza, di una nobiltà d’animo e di
un’autorevolezza che lo elevano ben al di sopra rispetto ai canoni dell’archetipo dell’individuo
spavaldo e donnaiolo, reso puntualmente oggetto di ridicolo. Emblematico, in proposito, il
confronto tra Francisco e Giglio, il personaggio spagnolo inserito invece dagli Intronati nella
commedia Gli ingannati: figura, quest’ultima, buffonesca e macchiettistica, priva di una reale
utilità narrativa. Se ne Gli ingannati Giglio si proponeva come una sorta di capro espiatorio sul
quale erano indirizzate le invettive contro gli occupanti spagnoli15, ne L’amor costante il clima
politico è visibilmente mutato; di conseguenza, Piccolomini trasforma una figura – lo Spagnuolo
– nata essenzialmente come veicolo di pura comicità in un personaggio che non si limita a far
divertire gli spettatori, ma si rivela anche in grado di incarnare valori di lealtà e di humanitas.
Proprio quando il combattimento è sul punto di cominciare, l’inevitabile agnizione
determina il repentino e reciproco riconoscimento dei familiari separati dalla sorte e la
conseguente risoluzione di tutti i conflitti. Il lieto fine della commedia culmina, al termine del
quinto atto, con una grande scena corale di danza in cui tutti gli attori si esibiscono in una
moresca, mentre il Capitano Francisco suggella questa atmosfera gioiosa con la seguente
esclamazione: «Muy gozo por mi vida en ver vos amigos, dios vos mantenga en esta amistad, y
fratellanza»16.
All’interno de L’amor costante, oltre alle sequenze recitate in spagnolo, è possibile rintracciare
degli espliciti omaggi allo spettatore più illustre della commedia, Carlo V. Verso la fine del
primo atto Guicciardo, amico di Guglielmo, dichiara con entusiasmo di voler fare tappa a Siena
per vedere con i propri occhi l’Imperatore. Lo scambio di battute fra Guglielmo e Guicciardo
alterna il tono encomiastico in ossequio a Carlo V con una riaffermazione della fedeltà dei
14 SERAGNOLI,
Il teatro a Siena nel Cinquecento…, 28-29.
Nel corso della commedia la fantesca Pasquella mostra esplicitamente la propria insofferenza verso gli
spagnoli, definiti «tafani di sorte che o mordete o infastidite altrui».
16 PICCOLOMINI, L’amor costante, 78r.
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senesi nei confronti dell’Imperatore, accompagnata però dall’amara constatazione delle difficili
condizioni finanziarie in cui purtroppo versa la città:
Gug. Con gran pompa, & festa lo debbe haver ricevuto quella Citta: perche sempre ho
inteso dire ch’ella e stata affettionatissima & sviscerata di sua Maesta.
M. Guic. Svisceratissima & fedele quanto dir si puo. ma la festa & l’honore che gli faranno,
sara piu nei cuori & ne glianimi che in altre apparentie, che infino alle imura debbono gittar
lagrime d’allegrezza. & questo, o tengo certo, perche da molti anni in qua quei signo[r]i
Senesi per rispetto d’infinite disgratie ch’egli hanno havute sono molto esausti di denari. ma
si come l’oro & l’argento è mancato in loro in questo tempo, cosi l’amore & la fede inverso
sua maesta è cresciuta continuamente.17
Il dialogo, del quale è stato riportato solo un breve estratto, prosegue con un durissimo
attacco contro la decadenza morale dello Stato Pontificio, messo appunto in contrapposizione
con la grandezza di Carlo V. Questa parte della conversazione fra Guglielmo e Guicciardo
risulta totalmente estranea rispetto all’intreccio narrativo della commedia, ma in compenso
risponde alla volontà, a parte di Piccolomini, di elaborare in maniera piuttosto esplicita un
panegirico in lode di Carlo V, accompagnato da una riflessione – in tutto e per tutto accostabile
alla prospettiva ideologica dell’autore stesso – rispetto alla situazione politica del tempo18.
Paradossalmente, però, l’intero apparato di riferimenti più o meno velati e di ossequi
all’indirizzo di Carlo V messo in piedi da Piccolomini si sarebbe rivelato clamorosamente vano:
la rappresentazione de L’amor costante venne soppressa poco prima dell’arrivo dell’Imperatore per
decisione della Balìa senese, presumibilmente proprio a causa di quella carenza di fondi nelle
casse dell’erario cittadino della quale parlavano i personaggi della commedia19. Una grande
occasione mancata, per Piccolomini e per gli Intronati, per un testo teatrale destinato a
riscuotere un tardivo successo, in circostanze ben differenti da quelle per le quali era stato
originariamente ideato (L’amor costante, infatti, sarebbe stato messo in scena per la prima volta
solo cinque anni dopo, a Venezia, in occasione dei festeggiamenti per il Carnevale). Al di là del
suo mancato allestimento al cospetto dell’Imperatore, L’amor costante rimane tuttavia un perfetto
esempio dell’imprescindibile correlazione esistente tra i nuclei della cultura accademica del
Cinquecento, i mutevoli equilibri del potere politico, non solo a livello locale, e la dimensione
collettiva e popolare di un importante centro cittadino quale appunto Siena; tre aspetti che
trovano un significativo punto d’incontro proprio nel momento topico della festa e del ‘teatro in
festa’: «Fattore integrante del nesso società-cultura, la commedia è espressione della dialettica
dilagante nelle correlazioni tra potere politico, forma urbana e spettacolo tout court al di fuori
dunque di un precario inserimento nell’ambito ristretto del fenomeno di costume»20.
Un ulteriore esempio di come il binomio teatro/festa possa costituire un’interessantissima
chiave di lettura nell’analisi della produzione letteraria di Alessandro Piccolomini ce lo fornisce
la seconda ed ultima commedia composta integralmente dall’autore senese, L’Alessandro.
Rientrato nella propria città natale nell’estate del 1543, dopo un lungo soggiorno prima a
Padova (dove era entrato a far parte della neonata Accademia degli Infiammati) e in seguito a
Bologna, nelle prime settimane del 1544 Piccolomini si adoperò a scrivere L’Alessandro, testo
teatrale che avrebbe celebrato la riapertura ufficiale dell’Accademia degli Intronati e la piena
Ivi, 24v.
A proposito delle implicazioni politiche nel testo de L’amor costante e dell’operazione encomiastica nei
confronti di Carlo V, presentato come «l’uomo della Provvidenza», cfr. M. CELSE, Alessandro Piccolomini,
l’homme du ralliement, in A. Rochon (a cura di), Les ecrivains et le pouvoir en Italie à l’Epoque de la Renaissance: A.
Piccolomini, Bandello, Guichardin, Castiglione, l’Arétin, l’Académie deshumidi, Paris, Université de la Sorbonne
Nouvelle (Centre de la Recherche sur la Renaissance Italienne), 1973, vol. 1, 7-76.
19 La questione dell’insufficienza di fondi per l’allestimento della commedia è trattata in una memoria del
Consiglio Generale di Siena datata 1536; cfr. F. CERRETA, Alessandro Piccolomini. Letterato e filosofo senese del
Cinquecento, Siena, Accademia Senesa degli Intronati, 1960, 14.
20 SERAGNOLI, Il teatro a Siena nel Cinquecento…, 30.
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ripresa delle attività dei suoi sodali. L’Accademia, difatti, negli anni immediatamente precedenti
era stata relegata in una relativa ‘oscurità’, condizione alla quale aveva contribuito un bando
della Balìa mediante il quale si imponevano pesanti restrizioni in ambito teatrale.
Il nuovo corso della politica senese e il rientro di Piccolomini tra le fila degli Intronati furono
dunque gli elementi che favorirono la ‘resurrezione’ dell’Accademia, nonché il rinsaldarsi del
legame fra l’élite culturale cittadina e la comunità nel suo complesso. Un preciso riferimento alla
ricostituzione degli Intronati è contenuto proprio nel testo de L’Alessandro, e per l’esattezza nella
scena quinta del secondo atto, quando due personaggi, il giovane innamorato Cornelio e
l’irriverente servo Querciola, in un breve scambio di battute danno vita ad un ironico
slittamento dalla finzione alla realtà:
Cor. […] ho ritenuto Alessandro, che voleva cavalcare oggi alla volta di Siena per veder non
so che commedia bella, che fan questo Carnevale gli Intronati.
Quer. È vero, a questi dì, ch’io fui là per conto di vostro padre, la mettevano in ordine
gagliardamente; e son gli Intronati più floridi che fusser mai; han preso di nuovo casa a San
Giusto.
Cor. Dove? in quella strada sì favorita?
Quer. Favoritissima. Oh che divin vicinato, M. Domeneddio.21
Un rinnovato connubio, quello fra gli Intronati e la comunità senese, celebrato non a caso
nel contesto del Carnevale, con un allestimento organizzato per la giornata di chiusura dei
festeggiamenti, il 24 febbraio, e accolto da un sensazionale responso di pubblico. Dato alle
stampe per la prima volta a Roma l’anno successivo22, L’Alessandro fu portato in scena a Bologna
nel 1545, sempre durante il Carnevale, per poi riscuotere un’ampia diffusione anche in altre
città italiane. La notevole fortuna della commedia di Piccolomini, non solo all’interno dell’area
toscana, è confermata del resto dalle undici edizioni de L’Alessandro pubblicate fra il 1545 e il
1596 e dal fastoso allestimento realizzato a Milano il 6 gennaio 1549, al cospetto di Re Filippo II
di Spagna. Una testimonianza diretta dell’ottima accoglienza tributata dagli spettatori senesi alla
commedia ce la offre del resto lo stesso Piccolomini: l’affluenza alla rappresentazione del
Carnevale del 1544, infatti, fu di tale portata da indurre gli Intronati ad organizzare una replica
pochi giorni più tardi, come Piccolomini specifica appunto nel prologo composto appositamente
per questa seconda messa in scena23.
Ambientata nella città di Pisa, come già L’amor costante, L’Alessandro punta, fin dal prologo, a
recuperare il dialogo fra gli Intronati e le gentildonne senesi (dialogo interrotto a causa della
chiusura dell’Accademia), sempre nel segno di una captatio benevolentiae non priva di lievi sottotesti
ironici, benché l’incipit del prologo faccia leva su una strumentale – ed ovviamente artificiosa –
‘serietà’ di registro, utile all’autore per aprire una polemica di carattere letterario nella quale
Piccolomini non esita a rituffarsi:
Bellissime donne, io son qui mandato da vostri Intronati per farvi il prologo della lor
commedia, ma non piena di tratti doppi, come dire, fare l’argomento più per un verso che
per un altro, dar in zero e simili altri scherzi, come solevano qualche volta nelle lor comedie
in quel tempo che così spesso ve ne facevano; la causa, sto per dire la lite, che abbiam con
voi donne, importa troppo e non ci lascia scherzare a questa volta.24
21 A. PICCOLOMINI, L’Alessandro. Commedia di Alessandro Piccolomini, ristampa anastatica con prefazione a
cura di N. Newbigin, Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1974, 50-51.
22 ID., Comedia intitulata Alessandro del sig. Alessandro Piccolomini conominato il Stordito, in Roma l’anno
MDXXXXV. Benché lo stampatore non sia indicato esplicitamente sul frontespizio dell’opera, l’edizione
è stata ricondotta alla tipografia di Girolamo Cartolari.
23 I due prologhi preparati da Piccolomini per le due rappresentazioni de L’Alessandro non erano presenti
nell’editio princeps del 1545, ma sono stati inseriti per la prima volta in un’edizione a stampa nel 1547, nel
volume pubblicato a Mantova da Giacomo Ruffinelli. Il testo dei due prologhi è reperibile in A.
PICCOLOMINI, L’Alessandro, a cura di F. Cerreta, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1966, 109-114.
24 Ivi, 109.
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Piccolomini pone al centro della questione il risentimento degli Intronati e prosegue
rievocando l’origine dell’idillio fra gli esponenti dell’Accademia e il pubblico femminile, da
sempre principale ispiratore e destinatario privilegiato delle loro composizioni: «Nacquero gli
Intronati, donne mie care, del seme delle bellezze vostre, ebbero il latte e si nutrirno della vostra
grazia e finalmente, col favor vostro, salirono a quella altezza che piacque a voi»25. Piccolomini
ribadisce quindi come lo scopo primario degli Intronati sia sempre stato quello di lodare ed
intrattenere le donne; lo Stordito Intronato, tuttavia, distingue recisamente il raffinato ‘sollazzo’
offerto dagli esponenti dell’Accademia dalle ‘buffonarie’ e i ‘ciaffi’ per i quali alcune spettatrici
avrebbero mostrato al contrario il proprio gradimento:
Né mancarono gli Intronati, or l’uno, or l’altro, di avvertirle e cercare di rimuoverle da così
fatti giuochi indegnissimi del valor loro, come quelli a’ quali crepava il cuore di veder che,
col seguir tal pedate, venivano in poco tempo ad oscurare il nome che aveva Siena per tutta
Italia d’esser ricca di donne non sol bellissime, ma modestissime e di buono giudizio.26
Preoccupati dal rischio che la ‘peste’ dei cattivi intrattenimenti arrivasse a diffondersi fra tutte
le abitanti di Siena, gli Intronati hanno deciso dunque di riunirsi e di riprendere le loro attività
al fine di offrire al pubblico femminile una commedia del tutto nuova; questa volta, però, gli
Intronati lasceranno che siano le donne a riconquistare la reputazione che hanno perduto. La
querelle legata alle modalità del corteggiamento e all’ottenimento dei favori delle spettatrici si
intreccia quindi con una contesa di natura strettamente culturale, volta a riaffermare il valore
della produzione accademica. L’intento di nobilitazione delle attività degli Intronati, e più nello
specifico del valore del genere comico, include una convinta attestazione dell’utilità morale delle
commedie come strumento di stigmatizzazione di vizi e debolezze: «Quanto a la comedia, ell’è
piena di quella modestia che ricerca la presenza vostra, e non solamente è tale che possa portar
solazzo a odirla, ma utilità grandissima a considerarla, però che qual si voglia grado di persona
potrà da lei pigliar utilissimo esempio della vita sua»27. Un punto fondamentale, sul quale
Piccolomini tornerà a dibattere in seguito nelle sue opere di carattere teorico28.
Successivamente il prologo reitera le accuse contro i ‘satraponi’ ed i ‘paternostrissimi
galantuomini’ che, avvalendosi della loro età avanzata, affibbiano giudizi fondati unicamente
sull’ignoranza e sulla malizia. Gli Intronati, tuttavia, sono intenzionati a smontare le loro
critiche proprio attraverso l’esempio fornito dalla rappresentazione sul palcoscenico:
Ma io vi so ben dire che, se dican così, come ignoranti delle cose del mondo, e’ non ci
manca de li Intronati che con ragioni, auttorità ed esempi faranno lor vedere che le
comedie sono utilissime e importantissime al viver nostro, ordinate ne le gran republiche, ne
i regni e in ogni regolatissimo principato, e le mostreranno come le furono introdotte, e a
che cagione e in qual guisa in diverse maniere furono ridotte di tempo in tempo.29
La commedia, genere ritenuto meritevole di una piena dignità artistica, segna pertanto anche
il momento dell’incontro e, soprattutto, del confronto diretto fra la città e l’Accademia, fucina
del dibattito culturale e della produzione letteraria. Un organismo che, tuttavia, non si limita a
‘sopravvivere’ all’interno di una ristretta cerchia di sodali (le cosiddette adunanze), ma per
Ibidem.
Ivi, 110.
27 Ivi, 111.
28 La riflessione di Piccolomini sulle peculiarità del genere della commedia e sulle implicazioni morali
della comicità a teatro, ritenuta fonte di grande beneficio per gli spettatori anche da un punto di vista
etico, approderà, diversi anni più tardi, nell’ambiziosa operazione esegetica costituita dal suo
commentario alla Poetica di Aristotele, pubblicato per la prima volta nel 1575: cfr. A. PICCOLOMINI,
Annotationi di M. Alessandro Piccolomini, nel Libro della Poetica d’Aristotele; con la traduttione del medesimo Libro, in
lingua Volgare. Con Privilegio, in Vinegia, Presso Giovanni Guarisco, & Compagni.
29 ID., L’Alessandro, 111-112.
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propria natura tende a guardare all’esterno, ad espandersi, nel tentativo di abbracciare e di
coinvolgere un’intera comunità – o, come dimostra il caso de L’amor costante, di diventare uno dei
principali strumenti di costruzione del consenso e di celebrazione di un organismo politico o di
una figura pubblica (a prescindere dal mancato allestimento del singolo spettacolo). L’esperienza
di Alessandro Piccolomini, e il suo ruolo di spicco nel panorama accademico, possono così
essere ascritti ad un fenomeno più vasto, complesso e variegato, a testimonianza di quel trait
d’union, talvolta ambiguo o dalle sfumature contraddittorie, ma in ogni caso ineludibile, che lega
cultura e società, collettività e potere nell’Italia del XVI secolo.
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