Nella celebrazione degli ultimi Congressi Eucaristici

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Alla mensa del Signore.
Capolavori dell'arte europea da Raffaello a Tiepolo
Ancona, Mole Vanvitelliana, 2 settembre 2011 – 8 gennaio 2012
A cura di Giovanni Morello
TESTI IN CATALOGO (ad esclusivo uso stampa)
LA DISPUTA DEL SACRAMENTO DI RAFFAELLO
1508-1511: sono gli anni che vedono Raffaello affrescare la “Stanza della Segnatura” nei Palazzi Apostolici. Oggi, insieme alla
Sistina di Michelangelo, attrazione massima nel percorso dei Musei Vaticani.
Si chiama “della Segnatura” perché, nel 1541, vi ebbe sede il tribunale ecclesiastico di quel nome. In realtà, nel progetto di Giulio II
della Rovere che aveva stabilito di collocare qui il suo appartamento privato, doveva essere il luogo destinato alla biblioteca. Nella biblioteca di
un papa come in quella di un intellettuale del Rinascimento, ci devono essere libri che parlano di Filosofia, di Teologia, di Estetica, di Diritto
canonico e di Diritto civile e penale. Gli affreschi di Raffaello obbediscono a questa partitura tematica, illustrano e celebrano la disciplina che i
libri collocati nei mobili posti ai piedi dei grandi murali, custodiscono, testimoniano e commentano. I libri non ci sono più perchè è mutata nei
secoli la funzione dell’ambiente ma gli affreschi si sono conservati, praticamente intatti, fino ai giorni nostri.
Esaminandoli ad uno ad uno vediamo emergere una teologia dell’Uomo straordinariamente moderna e affascinante. Cominciamo dalla
cosiddetta “Scuola di Atene”. È la celebrazione della umana sapienza che ha il suo vertice nei protofilosofi Platone e Aristotele collocati al
centro della figurazione e in posizione sopraelevata. Da loro, rappresentanti rispettivamente della filosofia idealista e della filosofia sperimentale,
discendono le tendenze filosofiche e i saperi testimoniati dall’assemblea dei grandi spiriti riuniti a convegno. C’è Socrate dal profilo silenico che
argomenta con il suo allievo Alcibiade bello e vanitoso, c’è Epicuro che, coronato di pampini, sembra affidare la sua teoria sul piacere al libro
che sta leggendo compiaciuto, c’è il cinico nichilista Diogene che si abbandona seminudo, solo e indifferente a tutto, sui gradini di una
immaginaria accademia. In primo piano Pitagora tiene lezione di aritmetica e di teoria musicale a un ristretto gruppo di allievi fra i quali si
distingue il musulmano Averroè in turbante, chino con tesa attenzione su quello che il mastro sta scrivendo. Euclide, il grande geometra sta
illustrando un teorema. Alla sua destra ci sono gli scienziati del cielo e della terra: Zoroastro con il planetario, Tolomeo con il globo terraqueo.
A sovrastare la scena c’è la figura allegorica della Filosofia. I putti collocati ai lati del trono inalberano una iscrizione in latino che dice
“causarum cognitio”. Perché a questo mira l’umana conoscenza: comprendere e dominare le ragioni delle cose.
La parete con la “Scuola di Atene” ci dice che dovere primario dell’uomo è il sapere. Conoscere e capire noi stessi e il mondo che ci
circonda, non è una opzione facoltativa. È un obbligo etico. In questo senso la scienza è laica. Non ha, non può avere connotazioni confessionali.
Anche l’ateo Epicuro, anche il musulmano Averroè, anche il cinico Diogene, hanno diritto di cittadinanza nella repubblica della filosofia e delle
scienze. Dobbiamo sforzarci di studiare, di conoscere, di capire tutti i sapienti, nessuno escluso, senza pregiudizi, senza preclusioni.
Questo fa dire Giulio II a Raffaello nella “Stanza della Segnatura” e bisogna riconoscere che si tratta di un messaggio straordinario
per libertà mentale, per lucidità e modernità di visione.
Di fronte alla “Scuola di Atene”, uguale per dignità e per dimensioni, c’è la cosiddetta “Disputa del Sacramento” dedicato al mistero
inconcepibile ed ineffabile (nel senso che non c’è mente che possa contenerlo né lingua che possa esprimerlo) del Verbo Incarnato. La Teologia,
la figura allegorica femminile che sovrasta la scena, recita, nella sentenza in latino: “divinarum rerum notitia”.
Della “Disputa del Sacramento” parleremo in dettaglio in seguito. È importante tuttavia sottolineare l’importanza della distinzione
epigrafica. Gli umani saperi sono “cognitio” (come sta scritto sopra la “Scuola di Atene”) perché essi sono praticabili alle umane facoltà. I
supremi Veri della religione sono invece “notitia”. Dio li rivela, in certo senso ce li “notifica”. Sta all’uomo accettarli oppure rifiutarli, essendo
la libertà (il “libero arbitrio”) suo supremo diritto e privilegio.
L’Uomo è chiamato alla conoscenza, è libero di accettare la Rivelazione essendo aperta per lui la via della eterna salvezza, ma non
sarebbe tollerabile la vita su questa terra se non ci fosse la consolazione della Bellezza e la certezza della Legge. Le altre due pareti della Stanza
della Segnatura illustrano i supremi Beni del Diritto e della Poesia.
“Ius suum uniquique tribuit” recita l’epigrafe che accompagna la figura allegorica della “Giustizia” nella parete che celebra la nascita
dei grandi codici con Triboniano che consegna il “Corpus iuris” all’imperatore Giustiniano, con Gregorio IX (qui immaginato come Giulio II)
che accetta dalle mani del giureconsulto Raimondo di Peñafort le “Decretali”, il codice di diritto canonico.
Le leggi danno a ciascuno quello che merita afferma la Giustizia che tiene la spada del castigo nella mano destra e la bilancia del
giusto peso nella sinistra. Ma le leggi per essere buone devono essere ispirate dalle virtù. Dalle Virtù cardinali (Forza, Giustizia, Temperanza,
Prudenza) che si chiamano così perché “cardini”, caratteri distintivi e identitari della natura umana; dalle Virtù Teologali (Fede, Speranza,
Carità) che vengono da Dio e fanno la pienezza della sapienza, della misericordia e dunque della vera e buona Giustizia.
La parete affrescata con la raffigurazione del Parnaso è dedicata a Febo Apollo il dio della Poesia e della Bellezza. Intorno a lui ci sono
le nove muse e i massimi poeti della storia; Omero, Dante, Virgilio. Altri poeti antichi e moderni (Saffo ed Orazio, Petrarca e Boccaccio fra gli
altri) si offrono alla nostra ammirazione mentre salgono al sacro monte del Parnaso.
Da notare che la figura allegorica che sovrasta l’affresco e ne dà la chiave interpretativa, è coronata di alloro ed è alata. Si presenta a
noi come un messaggero celeste, come un angelo del Signore. Il cartiglio in latino, “numine afflatur”, è esplicito. La bellezza diffusa dai versi e
dalla musica è ispirata da Dio, è ombra di Dio sulla terra. Febo Apollo suona la lira perché lo tocca lo spirito dell’Altissimo. Questo vuol dire
Raffaello nell’affresco con il “Parnaso”. Questo è anche il pensiero del suo committente Giulio II della Rovere e degli intellettuali della corte
pontificia.
L’umanista Paolo Giovio che di Raffaello fu protettore, amico e anche primo biografo, scrive che l’urbinate, nell’appartamento del
Papa, lavorò “ad praescriptum Julii”. Non c’è dubbio che l’iconografia generale dell’ambiente sia stata concepita da Giulio II. È ragionevole
pensare tuttavia che il papa, stabilito l’ordinamento generale della decorazione e i soggetti cui dare figura, abbia messo a disposizione del pittore
i suoi teologi, letterati ed eruditi migliori.
La decorazione della Stanza della Segnatura ha inizio nel 1508 e si conclude nel 1511. In quei tre anni che segnano il momento
zenitale nella storia della Chiesa di Roma e nella gloria del Rinascimento italiano, Raffaello dà immagine a una profonda coltissima antropologia
culturale che tuttavia egli riesce a presentare a noi (questo è l’aspetto più seducente del suo genio) con straordinaria efficacia didattica e con
immensa capacità di coinvolgimento.
L’Uomo ha il dovere di conoscere il mondo che Dio gli ha dato, ha bisogno della Bellezza come del pane, leggi virtuose devono
governare le sue azioni. Ma come si pone l’Uomo ideale di Giulio II della Rovere e di Raffaello di fronte alla Religione? Si pone in libertà
perché la Rivelazione – lo abbiamo detto – è “notitia”, non “cognitio”. Non ci si arriva per speculazione filosofica ma per libera e tuttavia
razionale adesione dell’anima.
Il cuore della dottrina cristiana è l’“Incarnazione”; il Verbo che si fa carne e diventa corpo eucaristico. Nella parete che fronteggia la
“Scuola di Atene” perfettamente uguale per dimensioni, per centralità e per dignità, Raffaello dipinse l’“Incarnazione del Verbo” e quindi
l’istituzione eucaristica e lo fece con semplicità sublime. Non esiste nella storia universale delle arti un altro caso nel quale un concetto così
vertiginosamente arduo sia stato espresso in modo altrettanto profondo e altrettanto comprensibile.
Il fuoco prospettico e concettuale della intera composizione è l’ostensorio con la particola consacrata collocato al centro dell’altare.
Nella parte alta dell’affresco le tre Persone della Santissima Trinità stanno in asse con l’ostia eucaristica e visibilmente la incarnano. In alto c’è
l’Eterno Padre benedicente, al centro Cristo fra la Vergine e San Giovanni il Precursore. Tutto intorno disposti ad emiciclo si dislocano i santi, i
patriarchi, i profeti della Chiesa trionfante. In basso e al centro della schiera celeste c’è la colomba dello Spirito Santo che irradia l’ostensorio. I
sacri protagonisti della mirabile Teofania riposano su soffici nubi fatte di angioletti. Intessuto di angeli vibranti nell’oro è la paradisiaca cortina
che sta dietro l’Onnipotente.
Nella parte inferiore dell’affresco è rappresentata una vasta assemblea di Dottori della Chiesa: Ambrogio e Agostino, Girolamo e
Gregorio in posizione eminente seduti sui troni, tutti gli altri in piedi o variamente disposti.
Si riconoscono, fra gli altri, San Bonaventura da Bagnoregio, San Tommaso d’Aquino, ma anche il Beato Angelico, anche Dante
Alighieri, anche Girolamo Savonarola condannato al rogo a Firenze non molti anni prima e che ora il francescano Giulio II Della Rovere vuole
collocato fra i santi, in odio al suo odiato predecessore, Alessandro VI Borgia, che ne aveva voluto la morte.
“Disputa del Sacramento” si chiama da sempre l’affresco. La responsabilità del titolo, del tutto inappropriato, è di Giorgio Vasari il
quale aveva scritto, nelle sue “Vite”, di personaggi disputanti. In realtà i santi e i dottori non “disputano” ma piuttosto venerano, stupiscono, si
emozionano di fronte al vertiginoso mistero, cercano risposta nei loro libri a quell’inconcepibile prodigio.
La mente umana si smarrisce, prova sgomento e inadeguatezza infinita di fronte alla Verità rivelata. Ci aiuta, per nostra fortuna, la
misericordiosa presenza di Dio che manda il suo angelo a sostenerci e a consolarci. A questo allude il bellissimo angelo biondo che, al limite del
presbiterio dove sono raccolti i teologi, ci invita, con amabile grazia, alla adorazione eucaristica.
Gli affreschi di Raffaello nella “Stanza della Segnatura” incominciano a prendere forma nella tarda estate o nel primo autunno
dell’anno 1508. Perché il 13 Gennaio 1509 il pittore riceve un acconto dalla tesoreria apostolica “ad bonum computum picture camerae de
medio”. Gli acconti si pagano quando il lavoro commissionato è a uno stato di avanzamento ancora iniziale però sufficiente per poter esprimere
un giudizio di merito. Dobbiamo immaginare quindi al Gennaio 1509 la parete con la “Disputa del Sacramento” in parte già realizzata.
Perché da lì ha avuto inizio il cantiere della Segnatura. Su questo io non ho dubbi. La parete con la “Disputa del Sacramento” è la più
antica; ancora con qualche memoria di “mise en page” quattrocentesca, ancora con qualche residua nostalgia di ritmi perugineschi, di ordinata
venustà fiorentina alla Frà Bartolomeo, alla Mariotto Albertinelli. Subito dopo è venuta la “Scuola di Atene” e dopo ancora fino a toccare l’anno
1511, le pareti brevi con il “Parnaso” e con gli affreschi della Giustizia.
Ed ecco porsi subito, di fronte alla “Disputa”, il mistero Raffaello. Come è potuto accadere che un ragazzo di 25/26 anni (perché tanti
ne aveva quando dipingeva il “Verbo Incarnato”) abbia potuto toccare fino da subito, con sublime facilità, un livello espressivo a tal punto
eccelso da diventare archetipo e paradigma per le generazioni degli artisti a venire?
Era molto giovane Raffaello quando affrontava la parete della “Disputa”, però già celebre per l’eco dei successi fiorentini che avevano
sbalordito l’ambiente artistico della capitale toscana allineando una serie di fulgidi capolavori (la “Madonna del Cardellino” degli Uffizi, i due
“Ritratti Doni” della Palatina, per dire solo di alcuni) e già in possesso di una cultura figurativa immensa. Una cultura che era nata nell’ambiente
di Urbino (fra le preziosità fiamminghe, il nitore formale di Laurana e di Piero della Francesca) che era cresciuta nella cerchia di Pietro Perugino
dal quale aveva appreso, per non dimenticarlo mai più, il segreto del ritmo che governa le forme e della bellezza che le intenerisce; una cultura
che maturò infine nel soggiorno fiorentino del 1504-08, durante il quale egli si mostra soprattutto sensibile alle opere di Leonardo e del giovane
Michelangelo, di Frà Bartolomeo e di Mariotto Albertinelli ma aperto anche a tutta la storia artistica toscana più o meno recente: da
Luca Della Robbia e da Verrocchio fino a Donatello, a Nanni di Banco, al Beato Angelico, a Masaccio.
“…studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle dei nuovi, prese da tutti il meglio e fattone raccolta, arricchì l’arte della Pittura di
quella intera perfezione che ebbero anticamente le figure di Apollo e di Zeusi.”
Così Giorgio Vasari definiva l’eclettismo sublime di Raffaello; un eclettismo che ci appare sintesi e reinterpretazione del genio
figurativo di tutto un popolo. Raffaello assume, metabolizza e trasfigura tutto. Prende, manipola, assembla le forme prefigurate dalla storia e,
con assoluta naturalezza, le fa sue e le fa nuove. Questo è stato il suo carisma e il suo destino. Per questo generazioni di critici e di artisti lo
hanno chiamato “divino”.
Di fronte alla parete della “Disputa”, sua prima opera vaticana, il ragazzo di Urbino ha saputo essere insieme facile e profondo,
speculativo e seduttivo. L’“Incarnazione del Verbo” così come ce la presenta Raffaello consegnandoci una icona destinata a vivere per sempre,
è perfettamente comprensibile all’umile popolo cristiano così come all’intellettuale più raffinato. La sua “Istituzione eucaristica” è una festa
colorata, è il Paradiso che apre ad ognuno le sue porte, è dottrina incommensurabile e ineffabile, però gioiosa, serena, consolante. Come l’amore
di Dio per gli uomini.
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