NUMERO 53 | PRIMAVERA 2016 | COPIA GRATUITA | WWW.BEAUTIFULFREAKS.ORG INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE Sommario INTERVISTE 4 Audiopath CONCERTI 6 The Winstons RECENSIONI 8 Le Specialità Tipiche 9 Full Length 26 EP RUBRICHE 29 Bu!Cce Candite 33 33 Giri Di Piacere 45 L’opinione Dell’incompetente 36 Chi L’ha Visti? LE RECENSIONI Stanley Rubik | Slivovitz | Everest Magma | Slubber Pop | the Winstons | Astolfo Sulla Luna | Ono | Psicotaxi | Boban | La Notte | Fractal Reverb | Io e La Tigre | EvilMrSod | Manuel Gordiani | Diverting Duo | La Teiera Di Russell | The Three Blind Mice | Lucio Leoni | I Fratelli La Strada | Giufà | Viridanse | Tommaso Primo | The Clipper | Galapaghost | Toxydoll | The Ties And The Lies | Brother & Bones | Enrico Negro | Colonnelli ||| Ronin / Uyuni | The Yellow Traffic Light | Ummagma | CHVE | Slowmother | Stella Diana | Larry Manteca | The Computers // BEAUTIFUL FREAKS Sito web: www.beautifulfreaks.org E-mail Redazionale: [email protected] Twitter: http://twitter.com/bf_mag Facebook: http://www.facebook.com/beautifulfreaksmag WikiFreaks: www.beautifulfreaks.org/wikifreaks E-mail Wiki: [email protected] Direttore editoriale: Andrea Piazza Caporedattore: Agostino Melillo Direttore responsabile: Mario De Gregorio Redazione: Maruska Pesce, Marco Mazzinga, Marco Petrelli, Vincenzo Pugliano, Pablo, Bernando Mattioni, Anthony Ettorre, Antonia Genco, Lorenzo Briotti, Rubby. Hanno collaborato: Alberto Sartore, Marica Lancellotti, Andrea Plasma, Piergiorgio Castaldi, Gabriele O, Daniela Fabozzi, Daniele Bello, Andrea Schirru, Giacomo Salis, Alberto Giusti, Greta Margherita, Frank Angius, Tiziano Ciasco, Ocramilluna. Infine un ringraziamento particolare a Marco M. e Pablo S. Le illustrazioni a tema sono di Greta Margherita, le illustrazioni di Bu!Cce Candite sono di Antonia Genco. Beautiful Freaks è una testata edita da Associazione Culturale Hallercaul Errata Corrige: Circolano alcune copie cartacee del numero 52 di BF con il voto “9” nella recensione “Attribution - Why Not”, il voto originale era “7”. editoriale Scorrere sotto l’asfalto, sotto i palazzi, sotto il calpestio sordo del traffico umano negli umidi viali luminescenti del centro, ormai mi è indifferente. Non modifica in alcun modo le fluide meccaniche dei miei pensieri. La mia immagine riflessa sul vetro opaco della metro sembra redarguirmi nel sussurrarmi questo. Strizzo gli occhi, rimetto il visore e riporto lo sguardo alla lettura. IlFumo24ore:“L’inq uinamento semantico ha raggiunto livelli critici. Gartmann stima che nel 2100 troppe parole e immagini renderanno la vita nel Mondo insostenibile”. IlDronedellaSera:“Il partito dei Verdi e i Laconici si coalizzano: fermiamo il mondo prima della deriva!”. LaSettimaRepubblica:“Budapest, neonato con due cervelli. I ricercatori: un’evoluzione della specie umana per l’esigenza di percepire più informazioni”. Il vagone è vuoto. L’odore di sudore e sperma che mi punge le narici ricorda che non lo è sempre stato. In lontananza si sente un rumore metallico, acuto, ritmato. Un uomo, in piedi, elegante, morbida barba bianca e pipa leggera tra le labbra semichiuse, sta picchiettando un anello d’oro sul ferro della maniglia. È un 5/4. Spengo il visore e avanzo verso di lui, tre vagoni più in là. Avanzo calcando i passi, facendo risuonare i miei tacchi di cuoio sul pavimento grigio della carrozza, due colpi per passo. Lo supero, senza fermarmi. Senza scambiare una parola o uno sguardo che interrompessero quella musica. Nella densa coltre di informazioni emanate da ogni scambio culturale diretto o indiretto, acustico o grafico, fisico o telematico, voglio che la musica sia principalmente questo. Qualcosa che avviene, consapevolmente, condivisa. Un arredo sonoro, in armonia con il luogo fisico o virtuale che abito, visito, o percorro in quel determinato momento. - Ma dici tipo ‘na scoreggia di gruppo profumata? - Circa. Roma, Metro D, 21 marzo 2046 Alberto Sartore Invia il tuo album alla casella email [email protected] o all’indirizzo postale che trovi sul nostro sito web. Potrebbe trovare spazio tra i dischi recensiti su questa rivista. BF AUDIOPATH Incontriamo Roberto Fega, musicista sperimentale e ideatore della piattaforma Audiopath in un locale al Pigneto in Roma. Ne scappa un’intervista dove gli chiediamo di raccontarci qual’è la situazione attuale tra locali e artisti della musica elettronica sperimentale in Italia e del perchè abbia avuto l’idea di creare con Francesco Giannico questa piattaforma atta a raccogliere tutto ciò che si muove nell’ambito. Tra lo stupito e il meravigliato di ritrovarsi davanti “l’unica fanzine che ancora stampa in Italia” registriamo le sua parole tra sgabelli e mixer... Come nasce e in che modo si sta sviluppando l’idea di Audiopath? Nell’idea iniziale Audiopath voleva essere una risposta al problema di trovare delle location per la musica sperimentale in Italia, con delle condizioni economiche e tecniche dignitose. Con il tempo abbiamo riscontrato un po’ di difficoltà perché di fatto molto musicisti si erano iscritti ma poche erano le location e i promoters che avevano fatto altrettanto. Quindi il lancio di questa piattaforma è stato rimandato più di una volta proprio per cercare di capire come partire in maniera decente sul fronte delle location. Piano piano ci siamo accorti che la situazione non cambiava e quindi abbiamo deciso di trasformare Audiopath in un database riguardo la musica sperimentale in Italia. Quali sono i criteri per la selezione di band e solisti che andranno a formare la vostra rete Per prima cosa abbiamo chiesto ai musicisti che si sono iscritti di mandarci dei loro brani oltre alla loro biografia, e abbiamo fatto una selezione dal punto di vista qualitativo. Diciamo che un 10% dei musicisti sono stati esclusi perché purtroppo c’è chi ha mandato addirittura le proprie produzioni cantautoriali e quindi non erano attinenti alla piattaforma. Esiste una realtà forte di locali interessati a proporre la sperimentazione? Ci sono dei locali, promoters e associazioni che organizzano eventi nell’ambito della sperimentazione, sono tutti un po’ a macchia di leopardo e non sono delle situazioni molto aperte. Infatti Audiopath ha l’intenzione di mettere in comunicazione i vari musicisti dell’area sperimentale con i promoters che magari sono un po’ troppo ancorati su dei nomi che di fatto sono presenti da molti anni, se non da decenni sulla scena italiana. Avete notato da parte di pubblico e critica una crescente attenzione nei confronti della musica di ricerca? Tendenzialmente non c’è un grande pubblico per questo genere di musica. Ci sono degli eventi che a volte hanno una presenza molto forte ma che durante l’anno non si manifesta. Quindi presi in considerazione episodi isolati si può pensare che esista un seguito per eventi INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF di questo tipo; ti faccio un esempio, a Roma c’è l’Half Die Festival, dove tutti e quattro gli appuntamenti estivi registrano una grande affluenza di persone che di fatto non ritroviamo durante l’anno per altre proposte… Il vostro progetto prevede in futuro o anche nell’immediato una finalità formativa per avvicinare un pubblico a questa musica che necessita di mezzi e di particolari chiavi di lettura? Si, il fatto che i musicisti siano iscritti alla piattaforma da loro la possibilità di segnalare dei percorsi formativi, dei workshop…segnalo che ci sono dei musicisti del collettivo field recording italiano AIPS – Archivio italiano dei paesaggi sonori, che tengono dei seminari e workshop a riguardo. Avete dei criteri di selezione locale, affinché la musica sperimentale venga fruita nel migliore dei modi? Questo era uno dei criteri di partenza di Audiopath, nel quale gli ipotetici promoters che si sarebbe iscritti avrebbero assicurato dei criteri economici e soprattutto tecnici soddisfacenti. Però come ripeto questo alla fine non è avvenuto. Se ci fossero state, ad esempio, una decina di location sicure, queste sarebbero state monitorate da parte degli artisti che avrebbero suonato in questi posti tenendoci informati su vari fronti: cachet concordato, strumentazione ecc… Nell’epoca dei social qual’è il punto di forza di una tale rete che si andrà a creare con audiopath. Ovviamente nel periodo dei social è molto facile fare rete. La prima cosa che abbiamo fatto è stata creare una pagina gruppo e via dicendo. Sapendo benissimo di non poter fare molto affidamento su queste reti social perché di fatto, da un po’ di anni cominciano a dare uno scarso affidamento dal punto di vista della partecipazione. Devono essere individuate tutta una serie di soluzioni proprio per differenziarsi dalla pubblicità facile e disimpegnata di facebook. Ritornare ad avere una presenza sul territorio, pubblicizzando con flyer, manifesti, cercando di mettere in mezzo quelle poche realtà radiofoniche che si occupano di queste cose. Questo è uno dei punti più importanti che bisogna affrontare, perché spesso si mettono in piedi delle cose interessanti dal punto di vista dell’idea ma di come “creare il pubblico” non se ne parla mai. Per ulteriori informazioni o per visitare la piattaforma www.audiopath.it - Percorsi Sonori Sperimentali in Italia Intervista di Giacomo Salis editing di Andrea Piazza INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF The winstons 24/1/2016 @ teatro coppola - catania Pare che questa temperatura voglia farci aspettare ancora per molto... Ma eccoci tornati al nostro periodico appuntamento con i live...questa volta ve ne racconto uno. Contro di me hanno giocato i troppi impegni lavorativi, troppe uscite discografiche da seguire direttamente e troppo poco tempo a disposizione per seguire i concerti, seppur pochi, capitati in questi freddi mesi catanesi. L’appuntamento è al Teatro Coppola, con i cari Dellera e Gitto, accompagnati da Enrico Gabrielli (mica robetta) per la presentazione del nuovo e folle progetto The Winstons. L’ambiente è quello di sempre: folla, amati e odiatissimi colleghi ‘musicofili’, finti amatori e alternativoni convinti della scena siciliana. Il teatro è un pò più affollato del solito, l’occasione è sicuramente da non perdere. Inizia il concerto per la platea e un sacco di gente in piedi alle spalle. La musica inizia a parlarci e a farci tacere allo stesso tempo. Già dalle prime note è chiaro che sarà uno spettacolo di notevole qualità. Sul palco il basso molesto di Roberto, una batteria ridotta all’essenziale per Lino e tastiere e Rodhes per Enrico...e tre microfoni, ma non per intonare cori, tuttaltro. Iniziano subito atmosfere che ci riportano indietro di molti anni (sebbene non sono più così giovane, non è musica che appartiene alla nostra generazione, ma che sicuramente ci ha aiutato a crescere meglio), le tastiere e il piano bistrattati incantevolmente, la ritmica accompagna questi viaggi temporali che hanno sfumature psichedeliche e vintage allo stesso INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF tempo. I tre si scambiano di posto più e più volte, quasi si passassero a vicenda la parte da protagonista. L’alcol comincia a scorrere prepotentemente nelle vene per assecondare meglio il viaggio che si è intrapreso. Tutto è molto surreale, si spazia con la mente e a volte si perde il filo perchè si tenta di capire e carpire i movimenti che quei tre fanno sul palco. Un paio di volte mi sono imbambolata a guardare solo loro, escludendo quello che le mie orecchie stavano ascoltando. Devo ammetterlo, per quanto io sia una agguerrita estimatrice di questi tre personaggi, non mi aspettavo che riuscissero ancora una volta a stupirmi. Già, non si sono inventati nulla di nuovo ma lo spettacolo è enorme. (Tralascio i commenti che io stessa a caldo ho fatto, ricordo che avevano a che fare con qualcosa tutt’altro che spirituale). Il concerto per quanto ben articolato prevede anche qualche cover di tutto rispetto: pure quel pezzone dei Genesis che proprio non si può ignorare, quello che quando lo risenti pensi immediatamente «ca... da quanto tempo non lo sentivo...è un pezzone!» eseguite magistralmente. Il concerto si chiude ed è come se fossero passati solo pochi minuti o un’intera giornata. C’è tempo per i saluti e gli abbracci di rito alla band e per un rapimento lampo dei tre per l’ultima e infinita sbevazzata della nottata. Tutto è come doveva essere: ci si lascia alle spalle quei visetti ormai amici, un cuore spezzato, la bocca che sa di troppe cose, storie di piscine, pini e troppe risate. Poi si ritorna a casa, completamente ubriachi, tanto da non riuscire a scegliere nemmeno un’adeguata colonna sonora per la restante notte. La verità è che l’indomani mattina, appena ripreso conoscenza ho rimesso l’album e ho ascoltato The Winstons fino allo sfinimento, tanto da doverlo necessariamente recensire. Nulla di nuovo all’orizzonte...ma le date non sono finite. Smentitemi o datemi ragione, comunque sia andate a sentirli. Così chiude questo breve, brevissimo Diario di Bordo. La prossima volta vi racconterò altro e sarà questo profumo di primavera dietro l’angolo (che al momento della stampa sarà già arrivata) ma ci sono in aria molti concerti da sudare nei prossimi mesi. L’età avanza miei cari freakers ma non ho intenzione di diventare saggia. STAY FREAKS ON THE ROAD! sempre! (p.s. la foto è stata scattata dal mio modestissimo cellulare, abbiate pietà.) Maruska Pesce BEAUTIFUL FREAKS al B-FOLK in Roma Venerdì 25 marzo con Ingravalle Duo e Palombaro Amaro DJset a seguire INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF LE SPECIALITÀ TIPICHE di Beautiful Freaks Abbiamo diviso le recensioni che troverai nelle prossime pagine ordinandole per regione. Specialità tipiche di stagione selezionate per te da Beautiful Freaks! Boban Fractal Reverb Larry Manteca Psicotaxi Ronin Slowmother The Three Blind Mice The Winstons Enrico Negro La Teiera Di Russell The Yellow Traffic Light Viridanse Everest Magma Io e La Tigre Ono The Ties And The Lies Uyuni Colonnelli La Notte The Clipper Lucio Leoni Manuel Gordiani Stanley Rubik Diverting Duo Astolfo Sulla Luna Slivovitz Stella Diana Tommaso Primo Le nostre importazioni Giufà I Fratelli La Strada Belgio - CHVE Canada - Ummagma Germania - Toxydoll Spagna - EvilMrSod UK - Brother & Bones, The Computers USA - Galapaghost, Slubber Pop INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF RECENSIONI Stanley Rubik KURTZ STA BENE INRI, 2015 Inizialmente non era il caos, ogni tassello colorato dell’esistenza era al suo posto, in quella scatola cubica che noi chiamiamo vita. Poi per gioco, il disordine ha capovolto tutto, dando vita ad un’infinità di soluzioni possibili. Non si vuole fare della filosofia improvvisata, non è la sede giusta, ma è l’approccio più corretto se si vuole ascoltare il primo disco degli Stanley Rubik, Kurtz Sta Bene, esplicito riferimento al colonnello conradiano. Tre giovani romani, Gianluca, Dario e Andrea, che dopo l’Ep Lapubblicaquiete, si sono cimentati nel loro primo lavoro prodotto dalla INRI (Linea77, Levante). Etichettarli in una categoria musicale è molto limitativo, gli Stanley Rubik hanno intrecciato l’elettronica al progressive e al metal, componente sicuramente predominante. È chiaro, fin dal primo ascolto, che i tre musicisti non sono alle prime armi: ne hanno portati di kg sulle spalle tra i vari palchi della Capitale, con le loro macchine colme di strumenti e metri di jack. Arrangiamenti curati e sonorità cinematiche, per utilizzare un termine da loro tanto amato. Non è sulla musica che mi voglio soffermare, non perchè sia scontata, ma perchè è un dato certo e concreto del disco, sono i testi che sbilanciano completamente il peso di Kurtz. Un concept album che si divincola tra i massimi sistemi e la ricerca dell’io; freudiani fino al midollo parlano a sé e di sé: dalla crisi sociale nelle parole di Cado, singolo “bomba”, al grido disperato dell’io inchiodato a terra dalle convenzioni sociali imposte su Distacco. Dalla dimensione onirica e progressive della suite di 10:10, passando per i “frammenti e ricordi” di Prognosi, ai dubbi di un’intera generazione in Edipo. Testi accomunati da un filo conduttore e che sembrano essere stati scritti di getto, contemporaneamente; l’unico ad allontanarsi dalla matassa è A, che parla di una perdita, così lontana e straziante. La perla del disco è proprio la title track: l’accompagnamento del piano appoggia questo viaggio dell’io tra una vita avvitata e ripiegata su sé stessa e la necessità di scoprirsi. C’è ognuno di noi nelle parole di Kurtz, chiunque si è posto davanti allo specchio non sapendo chi fosse e con la paura di vivere, sentendosi folle e diverso nella propria oscenità. [8/10] • Elisa Angelini LE PROVE SONO FINITE. SÒNO LIVE Cerchi un palco dove esibirti? Contattaci. scrivi a: INTERVISTE INTERVISTE [email protected] LIVE RECENSIONI RUBRICHE 10 BF Slivovitz ALL YOU CAN EAT MoonJune Records 2015 All You Can Eat è un disco in equilibrio, sospeso tra i generi e il tempo, tra l’avantgarde e il b-movie, tra l’astruso e il divulgativo. Gli Slivovitz (come il celebre booze balcanico) si formano nel 2001, fanno diversa strada, e girano un bel po’, facendo tappa persino allo Sziget, subendo nel frattempo qualche cambio di lineup. L’ultima pubblicazione del sestetto campano fa seguito a Bani Ahead (2011), Hubris (2009) e l’omonimo primo album. Questa ultima loro fatica racchiude in otto tracce un ispirato percorso artistico, derivante ma non derivativo, che paga omaggio alla corposa tradizione prog dei mid seventies, ma anche alla fusion (penso in particolar modo a Return to Forever e ai progetti affini di Steve Gadd Cobham), con una diffusa vena armonica mediterranea, congiunta a soluzioni melodiche la cui provenienza alterna culture diverse in modo piacevolmente stridente. Pertanto, Yathzee sta alla klezmer come Passannante sta ai Primus (perlomeno nei riff, finche non si vira verso Mike Stern) tanto per farsi un giretto nello spazio-tempo dell’universo evocato in All You Can Eat. Cionondimeno, l’ottimo lavoro della band non è da ammirare solamente sul piano compositivo: le scelte di produzione (e anche, semplicemente, la scelta dei suoni) conferiscono ulteriore profondità ad un lavoro di per sé già solido. Le chitarre di Marcello Giannini sbattono tra gli argini del funk rock (cuttywurst) e distorsioni ambient (hangover), pur cedendo il passo ad una coralità più che necessaria in frangenti come la stessa Persian Nights. L’andamento dell’album assume in più punti le sembianze di una jam balkan-jazz, ma rimane un lavoro di cui si può godere se l’ascolto prevede un alto livello di attenzione. L’album può entusiasmare sia gli amanti dei Calibro 35 per la coniugazione di potenza ed intelligenza, così come acchiappare prontamente l’orecchio del pubblico di gruppi come Balkan Beat Box per la riappropriazione delle sonorità tradizionali e Jaga Jazzist per la freschezza delle orchestrazioni. Un lavoro facile, ma non facile. “In che senso?”, direte voi. Beh, ascoltare, ascoltare. [7,5/10] • Bernardo Mattioni Everest Magma MODERN/ANTIQUE Boring Machine, 2015 Il prolifico Rella The Woodcutter mette da parte le visioni onirico lisergiche del suo folk psicotico per dar vita al progetto Everest Magma. Somma diavolerie di ogni genere, effettistica, pedali, nastri per la messa in discussione di quei confini labili , come espressi dal titolo, tra moderno e antico. Un’elettronica poco convenzionale che si materializza sotto varie facce: dalla desert techno di “Nan Nan”, dove loop acidi si disciolgono come nella mente di un ascoltatore dallo stato alterato, all’altrettanta techno triviale di “Dres Dued Del”; il dub primitivo e soffocante di “Cuarteo Sa”, le ascendenze kosmische di “Oior Rade, Raiod Ode”, fino al vortice ritmico di “Maigam Aleer” nel suo continuo invilupparsi sino all’annullamento di sé. Durante l’ascolto si concretizzano visioni terrestri e cosmiche, spiagge incendiate e universi in frantumazione, percussioni tribali e voci arcane, dove paesaggi sonori seducenti si giustappongono ad altri sgraziati con un senso di straniamento che ci accompagna a fine ascolto. Il moderno e l’antico del titolo è un miscuglio di misticismo echeggiato da suoni lontani ed evocativi e un’elettronica sporca e malata, sfuocata e sfuggente. Apparentemente imprendibile nel suo cambiar volto non appena si ha la sensazione di averla afferrata. [7,5/10] • Giacomo Salis INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 11 Slobber Pup POLE AXE RareNoiseRecords, 2015 Registrato nel dicembre del 2013 al Potterville International Sound studio di Jamie Saft, questo secondo lavoro a firma Slobber Pup, presenta un cambio di formazione rispetto al precedente; non più il basso di Trevor Dunn ma il sax dello svedese Mats Gustafsson. A modellare l’improvvisazione frenetica ed esagitata dell’open track ci pensa il drumming di Balazs Pandi il cui stile energico e vivace tradisce apertamente il suo retroterra metal. La seconda lunga traccia “Pole Of Combustible Memory”, cuore dell’opera, è caratterizzata da continue oscillazioni tra caos sonoro e immediata stasi carica di tensione e serve solo da falso riposo uditivo per una successiva e ancor più lancinante esplosione sonica. Nella prima parte è Gustafsson a farla da padrone con i suoi gemiti accentratori e calamitanti; poi la frenesia si srotola nei tappeti di Saft che memore dell’esperienza “Swami Lateplate” con il batterista e compositore Bobby Previte, colora di tracce badalamentiane il brano, un incubo opprimente con saturazioni d’organo e chitarra, dove emerge lo stile compulsivo di Morris. Medesimi elementi nella finale “Bring Me Desire And Arrows To Shoot” , psycho doom dal sapore cinematografico con riff dilatati e alienanti. Gli elementi delle varie tracce si intersecano l’un l’altro, sovrapponendosi in un susseguirsi di getti sonori, suoni slabbrati, visioni su visioni, creando deflagrazioni senza concederci mai un riposo sensoriale, così siamo costretti a seguire la corrente per evitare di finire di sotto. Se musicalmente nulla è consolante e alcuni momenti sono volutamente sfilacciati, “Pole axe” resta la fotografia quasi perfetta di quattro musicisti visionari il cui unico interesse pare quello di inzupparsi di suono. [9/10] • Giacomo Salis The Winstons THE WINSTONS AMS RECORDS, 2016 Psichedelici, suoni sporchi e sempre più confuse le strade di questi poliedrici tre artisti. Così abbiamo imparato ad amarli negli anni e così li preferiamo: imprevedibili e appassionatamente dannati. The Winstons è l’ultima follia musicale che riunisce tre volti noti, Enrico Gabrielli, Roberto Dell’Era e Lino Gitto. Tre musicisti, tre anime, tre diversi background che poi tanto diversi non sono. L’album è un viaggio nei meandri della psichedelia, un aggrovigliarsi di suoni decisi e caotici, con un piede nel funk e il fermento dei ruggenti anni ‘70. Le tracce si ascoltano, permettendo alla mente di spaziare e vagabondare nelle molteplici atmosfere, e si ignorano a lungo andare: una volta imboccato il tunnel è difficilissimo rimanere concentrati. Questo lavoro è un magnifico oblio, l’occasione di rimanere immobili e inermi per tutta la durata fissando un punto indefinito davanti a noi. Dimestichezza non da nulla posseduta dai tre musicisti che hanno pescato qui e lì nel noise, nel funk, nel prog, fino alle basi del più puro rock psichedelico, e magari sbaglierò ma mi è venuto in mente un disco dei Tangerine Dream del quale non ricordo nemmeno il nome. Picchi di sublime bellezza sicuramente la partenza di Nicotine Freak, la notevole struttura densa di suoni di Viaggio nel suono a tre dimensioni... e quella Number Number che richiude tutto alle sue spalle. Bentornati ai tre Winston e se questo è l’esordio di un’idea così grandiosa, ben venga tutto il resto. Attenderemo la prossima mossa. [7,5/10] • Maruska Pesce INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 12 BF Astolfo Sulla Luna Ψ² MiaCameretta Records / Toten Schwan Records / I Dischi Del Minollo / Cave Canem DIY / Edwood Records, 2015 Astolfo Sulla Luna, nome che ricalca i passi dell’ “Orlando Furioso” incentrato appunto sull’intervento provvidenziale di Astolfo, per la vittoria dei cristiani; è colui che va a recuperare il senno per riportarlo sulla terra e rinsavire Orlando dalla sua pazzia, rappresentando la vanità dei desideri degli uomini, che porta alla follia. È un trio con una naturale inclinazione alla ricerca di combinazioni fra letteratura e matematica. Il disco Ψ² esprime già dal titolo l’inclinazione matematica, così come alcuni nomi delle tracce. Viaggiano tra jazz, doom metal, sperimentale, post-hardcore e tanti altri universi, ma allo stesso tempo ne escono creandone un unico chiamato, per l’appunto, Astolfo Sulla Luna. Davvero uno degli orgogli italiani; si riesce ad intuire lo studio e l’impegno che sta dietro ai testi di Rosalia, che con la sua voce femminile, riesce a sposarsi perfettamente con le sonorità più crude che l’accompagnano. Il lavoro concettuale si capisce fin dai titoli dei pezzi che vanno da formule matematiche (A cos(π/2) ), passando per leggende irlandesi (Fergus), arrivando a celebri frasi latine figlie del responso della Sibilla (Ibis redibis non morieris in bello). Sul serio, un disco prima pensato pensato e poi partorito, una vera forma d’arte che inserisce in circa 40 minuti di audio matematica, letteratura e musica. Ti stimola alla ricerca, ti fa pensare e t’immerge nel loro universo. Un lavoro completo a 360°. Poche parole, necessita l’ascolto. [7,5/10] • Ocramilluna Ono SALSEDINE Autoprodotto, 2015 Sembra essere ormai fenomeno diffuso quello di comunicare a gran voce le proprie idee, fregandosene quasi delle imposizioni di alcuni schemi musicali e sembra allo stesso tempo, che essere alternativi ad ogni costo porti comunque ad uniformarsi con i fenomeni più riusciti di ogni contesto. È un pò il caso degli Ono, bravi in tutto ma simili a troppe cose che si sono sentite nel panorama indipendente italiano negli ultimi anni. Non è assolutamente una pecca se si è convincenti e assolutamente convinti della propria forza comunicativa, come in questo caso. Nulla di nuovo insomma, ma fatto per bene. Ci piace sicuramente l’atmosfera estranea al nostro bel paese abbellita dalle parole italianissime, ci piace ancora di più l’elettronica miscelata con cura con gli altri elementi, equilibratamente e senza strafare. Suona bene Salsedine, suona di esperienza nonostante la giovane età della band. I testi sembrano intrecciarsi ma alla fine rimane una chiara sintesi dei concetti, racconti chiari, rumori, parole che sembrano pronunciate enfaticamente a caso ma che hanno un senso reale e veritiero. Le parti ‘suonate’, nel vero senso della parola, sono la punta di diamante del disco. A volte ci si perde dietro a troppi concetti quando il succo del discorso è racchiuso in una semplice sequenza di note. Ci piacciono davvero gli Ono, certo è che vorremmo sentirli leggermente discostarsi dai fenomeni mediatici da social a cui tanto e mal volentieri ci siamo abituati. Loro hanno una marcia in più, sanno farla la musica. Ironia e intelligenza, qualità che non possono deludere mai. Riascoltiamo volentieri Perec, Orbite e Il giovane Niccolò ecc... [6,5/10] • Maruska Pesce INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 13 Psicotaxi EFFECT OF THE HEAD’S MASS Subsphera, 2015 Se il pifferaio di floydiana memoria dovesse comporre una melodia adatta ai nostri tempi, probabilmente anche lui rimarrebbe influenzato dal mix di elettonica noisy, psichedelia d’avanguardia e stoner rock progressivo che si respira all’interno di questo disco. Un disco d’esordio, tra l’altro, di un quartetto milanese che fa della contaminazione e della sperimentazione la propria bandiera. La collaborazione col giornalista e scrittore Manlio Benigni, la cui voce compare nei pochi, surreali stralci di testi che contornano il delirio lisergico di pezzi come “Performance”, in cui immagini forti, come il dono dei bulbi oculari da parte di un amante alla propria donna, conferiscono un tono lirico e al tempo stesso profetico a quello che, da semplice esperimento strumentale, incrocia la vera e propria pièce poetica tipica di interpreti come Max Collini (si legga in tal senso “Il mondo nuovo”, in cui è espresso il concetto di alienazione caro all’artista reggiano). Ma ciò che più di ogni altra cosa caratterizza questo disco è la sua capacità di assorbire le emozioni più disparate – angoscia, ansia, desiderio di redenzione, decadente spleen baudelairiano – e di sputarle fuori in maniera decisa e potente, sia dal punto di vista ritmico che da quello compositivo. Una gigantesca testa globale che registra vizi e virtù della società moderna, mettendoli in scena anche in maniera ironica e divertente, come accade ad esempio in “Un tram che si chiama pornodesiderio”, citazione di un famoso film con Marlon Brando, in cui è presente un dialogo tra due amici sul come sarebbe avere una relazione stabile con una pornostar; una piccola scheggia di goliardia in un universo folle e profondamente destabilizzante, ma indiscutibilmente di grande effetto. [8,5/10] • Alberto Giusti Boban BOBAN.FM Autoprodotto, 2015 La pratica di recensire un album non può non tenere conto delle donne e degli uomini che si sono impegnati nella realizzazione di quel dato disco, oltre che della provenienza e della loro storia. Nel caso specifico di Boban.Fm, questa consapevolezza diviene preponderante, perché non si può parlare di un album come questo senza capire l’importanza della controcultura, del concetto di opposizione, e di come queste forze possano tradursi in musica. La “music-azione” dell’idea che avevano in mente per questo disco i Boban (al secolo Boniardi, basso, Mazzon, batteria, Ringo, chitarre, suoni e registrazioni) è passata per le mani e la mente di Luca Ciffo (Fuzz Orchestra), consentendo alla band milanese di produrre queste 6 tracce di psycho-noise-punk. Dopo esperienze diverse con diverse band, i Nostri pubblicano nel 2015 Boban.Fm, che ovviamente si apre (la traccia d’apertura Zvonimir) e si chiude (l’audio della telecronaca della punizione realizzata da Zvone) con un omaggio al leggendario calciatore milanista. Nel mezzo molto punk, molta resistenza (l’abuso di potere delle camice nere sbiadiva sotto il sole, sbiadiva sotto il sole), molte interpolazioni di registrazioni di discorsi, molto, molto, molto rumore, ma anche cenni di shoegaze e no wave (metropolis). Il sound è lercio, manco a dirlo, ma è così che deve essere. E il risultato va oltre la semplice scopiazzatura di un disco dei CCCP che potrebbe derivare da queste premesse, arrivando a sfiorare pure impressioni come Swans o Wovenhand. Bello e riottoso. [7/10] • Bernardo Mattioni INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 14 BF La Notte LA NOTTE Tirreno Dischi, 2015 Da un grande artista come Karim Qqru (Zen Circus, La Notte Dei Lunghi Coltelli), non ci si poteva aspettare che una produzione di altissimo livello. Una produzione che porta all’esordio cinque ragazzi romantici e cinici, oscuri e solari, timidi e sfacciatamente aggressivi. Contrasti che si riflettono in tutte e otto le tracce dell’omonimo album, nonostante la forte impronta stoner (“Posso avere tutto”, “Piede nel girp”) sia la base di partenza da cui poi prendere direzioni diametralmente opposte. È il caso di “A terra”, splendida ballata psycho-pop in cui pianoforte, chitarra acustica e suoni spaziali convivono in uno stupendo e inteso stridore di sensazioni. Sentimenti simili si avvertono anche all’interno di “Super Io”, dove la solitudine esistenziale emerge sin da quegli scarni accordi iniziali, che fanno poi eco ad una voce strascicata e inquieta che canta “Il mio unico amico è il Sole”, fulgido esempio di un solipsismo di barrettiana memoria. Il trait d’union tra quest’alternare furia hardcore e intimismo lirico è sicuramente “Il mio rifugio ideale”, brano in cui una martellante sezione ritmica e una chitarra distorta fanno da sottofondo alla richiesta d’aiuto tardiva di un uomo innamorato. Se poi questo amore sia per se stesso, cercando quindi rifugio da un universo in frantumi, o per la vita, questo fa parte della natura schizofrenica di un album volutamente enigmatico, a tinte fosche, ma modernissimo in ogni sua parte. [8,5/10] • Alberto Giusti Fractal Reverb SONGS TO OVERCOME THE EGO MIND Dischi Soviet Studio, 2015 A distanza di un anno i Fractal Reverb riconfermano quanto anticipato dal loro primo EP How To Overcome The Ego Mind e lo fanno aggiungendo alcune tracce a quelle già racchiuse nel primo EP. La scelta del titolo di questo secondo lavoro è di richiamo al primo, quasi a dare delle risposte rafforzative del concetto. Il trio di Lodi, spazia molto musicalmente e per molto tempo, introducendo il cantato solo dopo diversi minuti dall’inizio del brano, tanto da ingannare l’ascoltatore dandogli l’idea di trovarsi di fronte a delle tracce strumentali in cui invece fa poi capolino la voce (es. 20th January 2013). La voce non ha il ruolo di protagonista, affidato invece ai singoli strumenti quali chitarra, batteria e basso (molto presente e sempre autore di una linea qualificante per quasi tutti i brani). Il primo brano, Introspective, richiama effettivamente il titolo per il tono intimo e profondo che la presenza solista del pianoforte apporta, discostandosi completamente dal resto delle tracce per genere e musicalità. I’ll Find My Way infatti spazza via fin dall’inizio e con decisione la delicatezza espressa dal pianoforte della prima traccia andando a caratterizzare quello che è poi il sound dell’album: alternative e sperimental. A seguirla troviamo la carica Song Of Nothing, capofila delle altre due Song Of Something e Song Of Everything, che si evolve in un crescendo espressivo musicale e vocale abbastanza incisivo. Incisive anche Dystonic Wave e Trees In Circle che è probabilmente il pezzo meglio riuscito del disco, sia come struttura compositiva che come orecchiabilità (e forse l’unico che riesce a farsi seguire/canticchiare). L’ultima traccia, Outroot, riprende l’introspezione accennata dall’incipit di Introspective e questa volta lo fa affiancando il violino al pianoforte ma sfociando però in una sorta di traccia fantasma con del parlato confusionale come sottofondo. Notevoli le influenze post-grunge del disco ma mai troppe da risultare esagerate e confusionali, in generale hanno sempre il livello sotto controllo e richiamano qualche sonorità degli Smashing Pumpkins. L’ascolto e il sound sono piacevoli ma le canzoni possono essere indirizzate su qualche struttura più definita e facile da seguire. In tutto questo c’è però da considerare molta sperimentazione quindi tutto sommato ci può stare. [6,5/10] • Daniela Fabozzi INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 15 Io e La Tigre 10 e 9 Garrincha Dischi, 2015 Chi dice che il cantautorato al femminile ha un sapore più educato si ricrederà ascoltando questo disco, ma c’è sicuramente di più in questo lavoro, c’è un progetto ben ideato e costruito, una simbiosi forte che viene sputata continuamente fuori e in tutte le dodici tracce. C’è anche un’idea curiosa di fondo: due identità non chiarissime che incuriosiscono: una è IO aka Aurora Ricci che suona e canta di tutto, l’altra la TIGRE Barbara Suzzi, mente dietro alla ritmica... dicono di bastarsi in due. Rispetto al precedente lavoro, l’educato EP uscito nel 2014, 10 e 9 è un lavoro più articolato, si sono aggiunte parecchie atmosfere nuove rispetto al passato, si veste tutto con l’elettronica, si risuonano e riarrangiano i vecchi pezzi. Il cantautorato, quello dei nostri cari maestri italiani di un tempo è lì nascosto nella penna di Aurora, non si lascia intimidire dall’ondata di novità di cui si sono riempite alcune nuove canzoni. La bravura di queste due signorine-menti è proprio questa: riuscire a mantenere un equilibrio velato tra il passato della forma canzone e il presente del suono distorto e freddo. È come se il disco volesse scrutare dentro ognuno di noi, i pezzi man mano raccontano di qualche esperienza che può farci venire alla mente qualcosa di familiare e lo fa con suoni pacati, signorili, ma non legati al gentil sesso, forse hanno a che fare con un voler addolcire una pillola fin troppo amara, la vita. Oltre a I Santi, notevolmente stupiscono pezzi intermedi che staccano l’atmosfera serrata di altri: Lentamente e Buonanotte sembrano essere nati per questo. Interessante sviluppo di un progetto da tenere d’occhio, ma si rimane in attesa del meglio che deve arrivare. [6,5/10] • Maruska Pesce EvilMrSod STILL WELL AND ALIVE Keep It A Secret Records, 2015 Scritto in fretta, suonato grezzamente, registrato malamente, quasi privo di produzione. Non sono io a dirlo, ma MrSod stesso dal suo bandcamp. A ragione. Allo spagnolo trapiantato in Germania il rock’n’roll piace “veloce e il più possibile lontano dall’intellettualismo”, e anche questo si sente chiaramente. Still Alive and Well è quanto di più lo-fi e semplice si possa immaginare: una chitarra acustica quasi sempre in overdrive e la voce smaccatamente nitida e pop nonostante il gracchiare del buon MrSod, che vuole a tutti i costi fare l’indemoniato anche se ha una voce pulita che pare Ben Harper. Canzoni ridotte all’osso che girano attorno agli stessi accordi e le stesse strutture mediate dal blues e testi elementari che ripetono le stesse parole fino al mantra-ossesso. E punk rock, punk rock ovunque. Ricorda Dave Matthews, anche, però con tutte le corde spezzate tranne due. Il malvagio signor Sod non è affatto marcio come verrebbe da pensare, e nasconde a malapena e con fatica una forte attitudine di songwriter, che esplode invece chiarissima nelle sue performances live (le trovate su YouTube). Un finto analfabeta musicale che cerca rozzezza e produce un tutto sommato godibile mix di blues rock, punk folk e orecchiabilissime melodie pop. Musica onesta e diretta, che pare realizzarsi appieno nelle sopracitate performances live, dove (complice l’acustica scatenata e gracchiante di MrSod) sicuramente gli astanti non potranno evitare di scuotere le membra. Una confezione da b-movie pulp che racchiude lo spirito pulito di un bluesman bianco (ed europeo). [6,5/10] • Marco Petrelli INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 16 BF Manuel Gordiani MEU CARO AMIGO Homezero Production, 2015 “Meu Caro Amigo” è il quarto album di Manuel Gordiani, un artista eclettico che riesce ad esprimersi in vari campi: oltre ad essere un musicista, è anche fotografo e scrittore. Manuel Gordiani aderisce al progetto web “Home Zero”, una comunità di artisti che hanno deciso di promuovere la propria opera attraverso il cd copyleft: un nuovo modello di gestione dei diritti di autore attraverso il quale l’autore indica ai fruitori dell’opera che essa può essere liberamente utilizzata, diffusa e volte anche modificata. L’artista (che non ama essere definito “cantautore”) definisce il suo lavoro come “un omaggio, ma anche un virtuale appuntamento tra due grandi artisti del nostro tempo. In questo album opere di Chico Buarque e di Fabrizio De Andrè vengono reinterpretate e tradotte: ciascuna nella lingua madre dell’altro”; e tutto questo grazie all’aiuto dei suoi “caros amigos”: i musicisti e gli strumenti musicali. Del resto, egli è noto per essere un abile polistrumentista, per di più dotato di una grande perizia nell’utilizzo del suono, delle tecnologie e del web. In effetti, l’album si presenta subito come un incontro tra stili, strumenti e linguaggi diversi, che regalano molti momenti di buona musica; non ce ne voglia l’autore, ma secondo il giudizio di chi ascolta il risultato non è ancora pienamente “maturo”, dovendo ancora il musicista raggiungere la sua piena akmè artistica; suggestive e ben riuscite sono invece le rievocazioni della musica brasiliana, specialmente i tributi al grandissimo De Andrè (spiccano “A cancao de Marinella”e “O pescador”). [7,5/10] • Daniele Bello Promosso, ma… può fare di più. Diverting Duo DESIRE Etch Wear / DeAmbula Records, 2015 Desire è il capolavoro della scienza della semplicità. Un disco fatto di lunghissime curve e accenti che se chiudi gli occhi ti passano davanti come alberi lungo una strada lunghissima, e tu guidi al rallentatore. È un disco bellissimo, che ha qualcosa dei Portishead, qualcosa che arriva direttamente dagli anni ‘80, però guarda, non è facile da spiegare. Cioè è che arriva proprio da lì, non è tradizione orale, non ce l’ha tramandato qualche ex bombarolo. E poi, naturalmente, c’è il dream pop. L’etereo. Il parossistico. Il soavemente sensuale. Mi rendo conto che incensare a tal punto un album del genere possa provocare sbigottimento o incredulità, ma credetemi, non capita spesso di trovare un lavoro così onesto, con tutti gli elementi al posto giusto, seppur certamente allineato con una produzione piuttosto corposa. I Diverting Duo si aggiungono a colleghi come la nostrana Matilde Davoli, Beach House o i Cvrches di The Bones of What You Believe, ma con più pacatezza e climax, meno effetti speciali. La traccia d’apertura Fire è commovente e azzeccatissima per calarci nelle forme d’onda di Desire, oltre ad avere (quasi) le carte in regola per passare da singolone synth pop. La voce di Sara Cappai è incredibilmente ben tarata, tra la presenza più consona al pop vero e proprio e la cremosità dell’ethereal. Se riusciranno ad uscire spesso dalla Sardegna, e magari anche dall’Italia, i due cagliaritani avranno un bel po’ di onde da cavalcare, davanti a sé. Bravi davvero. [7/10] • Bernardo Mattioni INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 17 La Teiera Di Russell NMR DreaminGorilla Records / V O L L M E R – Industries, 2015 Il trio piemontese composto da Pietro Caramelli – chitarre, Tommaso Fia - tastiere, synths, Paolo Bertazzoli – batterie, all’esordio discografico, presenta un lavoro completamente votato alla rielaborazione della tradizione strumentale del cosiddetto post rock, con inserti e digressioni progressive, psichedeliche, fusion, math rock. Il disco è lunga divagazione e un omaggio (involontario?) a gruppi e generi della storia del rock dai King Crimson ai Mogwai, dagli Area ai Karate che incuriosisce e interessa l’ascoltatore, ma al tempo stesso lo confonde e ne distoglie l’attenzione con troppi richiami e suggestioni. E stranamente quello che manca ascoltando NMR è la sorpresa e lo scossone emotivo che ne deriva. Infatti se l’impegno quasi calligrafico e la perizia tecnica sono degli interpreti sono encomiabili, quello che latita è la forza evocativa dei brani, come se lo sforzo dei tre sia orientato eccessivamente al razionale, tralasciando la parte emotiva e sensibile delle composizioni. Non è questione di coerenza stilistica, ma di forza sentimentale. Questo è un giudizio troppo severo, gli spunti coinvolgenti ci sono, nella lunga suite Dogma Quindici, per esempio, o soprattutto in Mathcalina o in Brodo Primus, pezzi questi più vicini a suoni ed atmosfere math ed indie rock. In conclusione, NMR è un lavoro acerbo, ben suonato con risvolti pregiati, ma troppo frenato per reggere al lavorio della memoria. [6/10] • Vincenzo Pugliano The Three Blind Mice THE CHOSEN ONE Digital Pale Music, 2015 The Three Blind Mice è il nome del progetto nato intorno a Manuele Scalia, voce e chitarra della band. Una vita tra Milano e Berlino, che ci consegna un album fatto di sehnsucht post-industriale, ombre alt-country e blues dannato. Il viaggio, l’apolidia sentimentale, la solitudine vissuta in città metropolitane, la nostalgia sono spettri che infestano tutte le dieci canzoni di cui si compone questo convincente secondo album della band milanese, come testimoniato dalla copertina di hopperiana memoria. Nick Cave, naturalmente, è una presenza importante per questo album, ma ben più ramificate sono le ispirazioni che sembra di intuire ascoltando The Chosen One. Woody Guthrie ma anche Television, Einstürzende Neubauten, Lambchop, persino Tom Waits... e se un disco ricorda tante cose senza assomigliare a nessuna esiste una sola parola che può spiegare questo fatto: identità. L’album funziona, mastica il linguaggio del rock ma con melodie struggenti e malate (il solo di Sailor Song), l’intelligenza di arrangiamenti curatissimi (Neon Lights) e la giusta fighezza (Everything That Rises). Il magniloquente incipit affidato alla opening track River of No Return, una super antiballad, cede subito il passo al pulp di Ring Song, un pezzo che sarebbe piaciuto a Johnny Cash, se si fosse trasferito ad est del Muro. L’amicizia con Kristof Hahn degli Swans (presente alla voce chitarre nei credits dell’album) può spiegare una delle componenti, quella violenta e nichilista che l’ottimo chitarrista della band di Mike Gira può aver apportato a The Chosen One, ma non basta certamente ad inquadrare un lavoro profondo, maturo e oscuramente poetico che forse non vuol proprio lasciarsi inquadrare. [7,5/10] • Bernardo Mattioni INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 18 BF Lucio Leoni (Bu Cho) LOREM IPSUM Lapidarie Incisioni, 2015 Cosa stabilisce i confini tra una generazione e l’altra? Il cambio di mode e tendenze sembra una sfumatura nella grande storia, eppure a forza di decenni ci siamo evoluti parecchio. Senza voler rispondere ad alcuna domanda su passato, presente e futuro, Lucio “Bu Cho” Leoni racconta la sua a proposito di tutte e tre. Lo fa da Roma e non da pochi anni bazzica l’ambiente, praticamente da sempre. Sarà per questo che la romanità è una componente fondamentale di Lorem Ipsum, intesa come tipo di parlata, ma anche e soprattutto come spunto concettuale, visti i molti pregi e difetti capitolini. I piu noti di questi si sovrappongono a riflessioni generazionali dal gusto agrodolce, capaci di trovare un riscontro in un pari-età qualunque, anche fuori dal raccordo. Tra una chitarra acustica e rumori dall’andamento scostante ci osserviamo dall’alto, eppure in un attimo ci ritroviamo così vicini all’intimo del nostro Lucio, che abbiamo paura parli anche di noi. Poi ha scelto bene la forma delle parole, per dire qualcosa. Sembrerà scontato, ma la comunicazione non lo è mai; il disordine di Leoni comunica, dice molto, di una fascia d’età ampia. Ho il dubbio che siamo tutti a cavallo di una generazione o l’altra e ad un certo punto scegliamo noi da che parte stare, in base a come ci sentiamo. Di sicuro, ci sono solo i ricordi, di quelli Bu Cho ne ha molti e molti ne contiene il suo disco, un flusso di coscienza ragtime. Cantautorato, vagamente nostalgico, a suo modo rivoluzionario, apoliticizzato. [7/10] • Pablo Sfirri I Fratelli La Strada POP* (*OCTOPUS VULGARIS) ViceVersa Records, 2015 Primo disco per questo originale duo siculo-andorrano capace di creare dei mélange sonori e linguistici che mirano all’intrattenimento dell’ascoltatore per divertirlo piacevolmente. Antonino D’Antoni e Anna García y Alba danno vita ad una sorta di spettacolo misto fra cantato e cabaret per le vie di Barcellona e per i teatri in cui le loro musiche sono la colonna sonora di numerosi spettacoli. L’atmosfera quasi onirica della breve The Magical Quest alza il sipario su questo album variopinto che con i suoi mille colori ci porta talvolta seduti al tavolino di un café parigino, uscito da Il Favoloso Mondo Di Amélie, e talvolta a bordo di una nave che viaggia per il Mediterraneo, alla ricerca di nuove avventure e storie da mettere in musica. Oltre al richiamare sonorità differenti come quelle siciliane-mediterranee, spagnole, francesi e balcaniche (per citarne alcune), altra particolarità del disco è quella di mischiare francese, italiano, spagnolo e greco spesso anche all’interno della stessa canzone, creando un effetto di curiosità per l’orecchio che non resta mai annoiato. L’alternanza tra la voce più giocosa di Anna e quella più profonda di Antonino, accompagnate da strumenti come violino, chitarra e fisarmonica, vengono a volte contornate da qualche elemento elettronico non troppo sovrastante ma dalla funzione ritmica (Mr. Desappointment, Faccio Finta). Generalmente le loro canzoni creano delle atmosfere vivaci per l’intrattenimento anche di un pubblico meno adulto, proprio per il fatto di raccontare storie che fanno viaggiare la fantasia dei più piccoli (es. Gramelot). In questo è di sostanziale influenza anche il mondo del cabaret e del circo, che ritornano in diverse canzoni, o per i temi o per i toni; ad esempio, nell’omonima canzone, la regina della notte viene annunciata tra una strofa e l’altra come una star del circo in questa canzone dalla melodia delle canzoni italiane anni ‘50/’60. La musicalità e lo stile dei Fratelli La Strada ricordano a volte quelli del collega Vinicio Capossela, un po’ per le atmosfere di paese che vanno a ricreare con le loro storie, un po’ per lo stile musicale. Pop Roquer conclude allegramente il viaggio musicale abbandonandoci nel magico mondo dell’infanzia e, per restare in tema di teatro, il sipario cala tra gli applausi. [7/10] • Daniela Fabozzi INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 19 Giufà TRINAKRISTAN The Web Engine Records, 2015 Giufà è una band siciliana nata nel 2008, in provincia di Siracusa. La loro musica mescola varie sonorità mediterranee, che spaziano dai Balcani al Maghreb, dalla Sicilia alla Spagna (con una forte attitudine per la musica Gypsy). Il loro primo singolo, dal titolo “Brucia”, esordisce nel 2012 e anticipa di poco l’album “Ritmo Gitano”, pubblicato nell’aprile 2013; il disco proietta direttamente il gruppo nel panorama internazionale della musica “Balkan”. “Trinakristan” è la seconda esperienza musicale dei Giufà, forti di una collaborazione con la “Municipale Balcanica”: contiene dieci brani ed è un vivace miscuglio di musiche balcaniche, melodie arabeggianti, tarantella, ritmi gitani e musica Klezmer (la musica che accompagna matrimoni, funerali e altri episodi della vita quotidiana nelle comunità ebraiche dell’Europa orientale). Per dirla con gli autori: “Trinakristan si propone di rappresentare l’Oriente nell’ Occidente come fusione di tradizione ed innovazione, come melange culturale in continuo movimento”. Fiati, chitarre, casse e suggestioni dell’Est sono gli ingredienti principali di una musica che trascina e coinvolge: una esplosione di suoni, spensieratezza ed allegria, con uno sguardo ironico anche alle tematiche sociali. Oltre all’irresistibile “Trinakristan”, che dà il nome all’intero album, da segnalare: “I re della città”, un incalzante Klezmer che racconta le disavventure di un gruppo di artisti di strada, e “Dalla Grecia alla Sicilia”, una potente Tarantella zingaresca che dipinge le vicende di un “mancato matrimonio”; per chi ama i ritmi balcanici, invece, si consiglia l’ascolto degli ultimi brani: spiccano “Vento dell’Est” e “Radio [8/10] • Daniele Bello Bucarest”. Viridanse VIRIDANSE Danze Moderne, 2015 I Viridanse si formano ad Alessandria nel 1983, dall’idea di Flavio Gemma e Paolo Boveri, entrambi provenienti dai Blaue Reiter, gruppo dei primi anni ‘80. Nel settembre 1984 esce l’EP, Benvenuto Cellini, pubblicato dalla Contempo Records, etichetta dei primi lavori dei Diaframma e Litfiba. Ne fa seguito, nel 1985, il primo disco, Mediterranea, che ottiene ottimi riscontri da parte di pubblico e critica musicale, e li consacra tra i gruppi più in voga del post punk italiano. Da quel primo ad oggi il nulla, per un improvviso scioglimento della band. Poi la decisione di pubblicare nel 2015 l’omonimo disco Viridanse. La prima considerazione che ne esce fuori ascoltandolo è che la band sembra essere rimasta criogenizzata in questi 30 anni. Se non fosse per un loro inevitabile cambiamento fisico, calvizie che hanno preso il posto di ciuffi new wave, le sonorità sono le stesse dell’epoca. Rabbia, esoterismo, dark fino al midollo e colmi di quei virtuosismi vocali che riportano, inevitabilmente ed eccessivamente, a Piero Pelù. Le considerazioni che se ne traggono non sono delle più fantasiose, le aspettative erano quelle di sentire un gruppo new wave per così dire “classico”, il lavoro è pulito e fila liscio come l’olio. Ma non c’è quel guizzo che ti fa rizzare i capelli in testa. Ok, i Viridanse hanno fatto bene il loro compitino, ma che ci dobbiamo aspettare per i prossimi 30 anni, un’ulteriore ibernazione?! [6,5/10] • Elisa Angelini INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 20 BF Tommaso Primo FATE, SIRENE E SAMURAI Full Heads / Arealive, 2015 “Fate, Sirene e Samurai” è l’album d’esordio del cantautore napoletano Tommaso Primo, prodotto dalle etichette partenopee Full Heads e Arealive e distribuito da iCompany. Già dal titolo, si capisce come il disco si ispiri alla contaminazione tra varie culture e tra diversi generi musicali: Si parte dalle “fate” che richiamano il tropicalismo del Brasile, che ritroviamo nei testi e nelle musiche dell’album; poi si passa per le “sirene” di tradizione napoletana (l’album è interamente cantato in dialetto); ed infine troviamo l’esotismo dei “samurai”, un omaggio al Giappone come simbolo dell’unione tra tradizione e modernità. In effetti l’impressione che si ricava dall’ascolto dell’album è quello di un incontro tra pop e world music, in cui fanno capolino il cinema felliniano, i testi di Caetano Veloso e il tono fiabesco alla Walt Disney (costante e quasi ossessivo il richiamo alla figura di Peter Pan), il tutto in una interpretazione rigorosamente ancorata alla tradizione della canzone napoletana pura. Anche i testi sono interessanti: l’artista canta l’amore, ma anche l’immigrazione, la guerra e i valori della natura, attraverso metafore e suggestioni interessanti; per essere un album d’esordio merita senz’altro l’incoraggiamento di chi va alla ricerca di nuovi talenti. Tra i brani da segnalare, una menzione speciale meritano a nostro giudizio “Bumba meu boi”, in collaborazione con Dario Sansone, e la meravigliosa “Prayer for Kumbaya”, da gustare anche con il video realizzato su “youtube”: un inno di amore, pace e fratellanza tra popoli, dal ritmo coinvolgente e dal testo da incorniciare (“Cammina insieme a me nun te fermà / Se credi in te la manna arriverà / Arapi o’ core e senza ce pensà / allucca peace and love for Africa, for Africa. / E si te sentarrai figlie e nisciuno / acrobata da vita senza fune / Sulo miez o’ deserto e in miez’ e’ dune / Aiza a’ capa e guarda chellà scia / e’ stelle tutte insieme fanno à via / Si a bordo e’ na cometa pò tu saje / e arrivi fori a’ casa”) [7,5/10] • Daniele Bello The Clipper SECOND HAND MARKET La Rivolta Records, 2015 Di origini salentine, ma con un’attitudine decisamente albionica, i The Clipper cercano la propria identità in melodie accattivanti, pop (“I Don’t Care Of You”, con i suoi riff efficaci e lineari), ma anche raffinate ed intime (da leggere in tal senso “Sad Eyes”, la traccia conclusiva), e capaci di trascinare in derive sentimentali dal sapore tutto italiano. Se tuttavia si vuol cercare qualcosa di innovativo, il titolo dell’album ci mette già in guardia dal farlo: infatti com’è possibile, rovistando tra vecchie cassette o dischi in vinile, imbattersi in qualcosa di innovativo. Eppure, tra la polvere accumulata su vecchi dolori e sentimenti frustrati, si può ugualmente trovare della musica ben orchestrata, dotata di una sezione ritmica potente, capace di costruire giri orecchiabili come l’apertura della batteria in “Lost” e “Like A Passenger”, oppure il basso distorto di “Histrionic Order”, che conferisce un groove pazzesco al pezzo senza risultare fastidioso o pleonastico. Una scelta di guardare sì al passato (in particolare quello del brit-pop anni Novanta e primi anni Duemila), ma non in maniera nostalgica, suscitando piuttosto quella sensazione di dejavù che proviamo di fronte a una melodia orecchiabile, e che quindi assolve in pieno alla sua funzione d’intrattenimento. [7/10] • Alberto Giusti INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 21 Galapaghost I NEVER ARRIVED Autoprodotto, 2015 Galapaghost, musicista americano di stanza ad Austin, Texas (al momento, il paradiso degli statunitensi strambi: Keep Austin Weird!), si presenta con un curriculum di tutto rispetto. Ha infatti partecipato alla colonna sonora de “Il Ragazzo Invisibile” di Gabriele Salvatores con ben due pezzi. Da noi ha anche registrato il suo secondo disco, Dandelion (niente male), con membri di Africa Unite e Nadàr Solo. Suona musica malinconica da abbandono rilassato su una spiaggia deserta (o ai confini del deserto). Folk acustico dolceamaro all’incontro tra James Taylor e le derive psichedeliche del rock islandese. Science of Lovers sa di Martin Grech nell’andamento struggente da carillon elettrico, mentre The Greatest Roommate chiama Simon & Garfunkel da ogni nota. I Never Arrived porta insomma il segno di quarant’anni di songwriting d’autore scelto con colto eclettismo. Nonostante questo è un disco abbastanza monotono negli equilibri e nella costruzione, e la voce limpida e impeccabile di Casey Chandler spesso non aiuta. Intendiamoci, siamo di fronte al classico caso di un album dove funziona tutto e tutto è al suo posto, e proprio per questo sconta forse gli effetti di una certa freddezza che non inserisce momenti memorabili. Ci sono alcuni passaggi, alcuni momenti nei quali la musica di Galapaghost trova veramente se stessa, come la delicatissima Bloom, che ho infatti ascoltato più volte, ed è lì che si capisce dove voglia andare a parare il folletto hippie con le sue corde. Aereo. [6/10] • Marco Petrelli Toxydoll BULLSHEEP Aut Records, 2015 Bullsheep è il primo album in studio del quartetto Berlin-based Toxydoll. La band si forma nel 2013, ed ha già pubblicato un live album presso la stessa etichetta berlinese Aut Records. L’album e la band stessa, tuttavia, hanno numerosi legami con l’Italia: il concetto per Bullsheep è nato nel nostro paese, durante un tour della band nel 2014. Anche larga parte del processo produttivo dello stesso è avvenuto da noi, e due membri della band (Alberto Cavenati, gtr, e Bob Meanza, keys & electronics) sono italiani. Il quartetto, sax, tastiere+campionamenti, chitarra e batteria rivela immediatamente un approccio trasversale, con una batterista punk e un sassofonista free a completare la costellazione. Le premesse su cui Bullsheep fa leva sembrerebbero radicate nel jazz. Tuttavia, pur preservandone alcuni linguaggi (quello del free jazz, in maggior misura), il sound della band integra ed evolve il discorso, impattando e frammentandosi contro corpi solidi come noise, prog ed elettronica d’avanguardia. Se Renato Pulled a Number fosse stata la prima traccia dell’album, per i primi 69 secondi un ipotetico ascoltatore avrebbe potuto aspettarsi un disco più vicino agli Zeni Geva che a Ornette Coleman. Eppure non siamo così lontani. Certo, Naked City Noise Jazz Conspiracy e progetti affini vengono subito in mente, così come si può ricercare una radice comune nei vari Pharoah Sanders, Wadada Leo Smith e Cecil Taylor, ma la ruminazione di linguaggi e la digestione degli stessi è un aspetto caratterizzante e certamente interessante dell’album in questione. Tsk tsk tsk, ad esempio, dopo un incipit tra Horace Silver e Masada Guitar abbraccia un processo di straniamento improvvisativo che fa da contraltare all’approccio quasi standard del brano, sia ritmicamente che armonicamente parlando. La bellissima Mantis Dance fonde un complesso solistico fatto di campionamenti, sax, batteria e chitarra, mentre Zoft Mascheen espone splendidamente la dialettica prog, che per fare un paragone calzante si potrebbe avvicinare a Ultimate Adventure di Corea. Un disco intelligentissimo, che non si abbandona al solipsismo, ma sa districarsi nella moltitudine dei linguaggi che lo compongono, rivelando il piacere di fare musica nel perdersi. [8/10] • Bernardo Mattioni INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 22 BF The Ties And The Lies TRUTH OR CONSEQUENCES Autoprodotto, 2015 Truth Or Consequences è il secondo disco per i bolognesi The Ties And The Lies, che con la frizzante In The Mood For a Night Drive ci portano da subito on the road in una di quelle calde sere d’estate percorrendo le lunghe strade americane tra le luci dei lampioni e dei semafori. La voce corposa e una chitarra dal riff molto catchy rendono il pezzo un’ottima scelta per rompere il ghiaccio e probabilmente rendono il brano d’impatto maggiore rispetto gli altri cinque, che si caratterizzano per il sound American rock post anni ’90. Non mancano però i toni e i temi un po’ più distesi ed introspettivi con le più intime Home Is Where Heart Is e Winchester 1873. Più incisive invece Gunners And Citizens e Latitude 33. Curioso il titolo dell’album che prende il nome da una piccola cittadina del New Mexico ribattezzata appunto Truth Or Consequences nel 1950 per essersi aggiudicata il nome vincendo un quiz da un’omonima trasmissione radiofonica della NBC. Sì, questo fatto è già di per sé molto American style, ma aggiungiamoci questo cocktail di 6 tracce come colonna sonora e l’immagine del viaggio in auto è [7,5/10] • Daniela Fabozzi subito nitida e in movimento. Brother & Bones BROTHER & BONES Last Step Records 2015 I Brother & Bones sono al loro album di debutto omonimo e ho proprio la sensazione che non sarà l’unico della loro carriera (eccezion fatta per scioglimenti precoci della band!!), perchè hanno uno stile molto personale e molto radiofonico con un sound preciso e gradevole. Tutte le undici tracce di questo lavoro sono caratterizzate da una doppia anima, quella rock e quella folk, che fa sicuramente parte del loro background e loro sono stati capaci di fonderla al meglio in ogni canzone. Sin dalla canzone iniziale “Kerosene” c’è un attacco quasi acustico che sembra prospettare un album di James Morrison (loro conterraneo oltretutto) per poi vedersi colpiti in faccia da un pugno di chitarra distorta e batteria martellante, con la voce del frontman Rich Thomas che si alza di tonalità e di potenza con incredibile forza. E allora si scoprono i veri Brothers & Bones, che sicuramente richiamano il rock/ postgrunge avendo come riferimenti sicuri i Pearl Jam (mica bruscolini!) e i più recenti Kings of Leon e 30 seconds to Mars. La seconda traccia “To be alive” è già pronta per il mercato radiofonico (e infatti girovagando su internet ho scoperto un passaggio su Virgin Radio, che sembra la radio perfetta per il loro sound), in “Omaha” invece molto bello l’inizio caratterizzato da chitarra acustica e timpano per poi far attaccare subito chitarra elettrica e tornare indietro per strofa e avanti per ritornello. (verse/ chorus/verse il vecchio Kurt aveva già capito tutto e loro sembrano aver imparato bene la lezione). Al centro del disco c’è un passaggio più calmo con “For all we know” per poi tornare al leitmotiv già vissuto nella prima parte del disco. Se c’è una critica da fare è proprio la mancanza di cambiamenti e di originalità nella seconda parte del disco che suona tutto un po’ troppo uguale, ma penso che questo sia un difetto che si può tranquillamente correggere. I Brother & Bones sono destinati a riempire locali, palazzetti e stadi e se vi piace il genere meritano sicuramente un ascolto e una visita ad un loro concerto. [8/10] • Piergiorgio Castaldi INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 23 Enrico Negro LA MEMORIA DELL’ACQUA Solitunes Records, 2015 La memoria dell’acqua è musica neoclassica acustica iperattiva. L’esecuzione è impeccabile, lo stile fluido negli arpeggi, e scivola tra armonici, percussioni e cambi dinamici. È musica complessa, messa insieme con attenzione e con tecnicismo anche auto-compiaciuto nei barocchismi e nelle progressioni a cascata che rallentano e accelerano vorticosamente attraversando influenze di vario tipo tra cui melodie che suonano popolari, folk celtico, tra gli altri, uniti dall’impronta forte che la formazione classica di Enrico Negro lascia su ogni pezzo. La filosofia dell’acqua che conserva memoria del suo passaggio viene presa sul serio dal chitarrista, almeno a giudicare dalle righe che accompagnano il disco, dove si filosofeggia sul potere liberatorio di essere come “acqua che imparando crea”, e la musica di Negro scorre davvero come un fiume che attraversando terre diverse si conforma agli usi e alle necessità locali come un turista entusiasta. Limpidissimo nel mimare quanto nel comporre, Negro è, ripeto, un compositore classico rigoroso, con uno smaccato gusto barocco, e questo è un disco d’immagini stravaganti cesellate nel marmo. Da chitarrista, ascoltare La memoria dell’acqua vuol dire rimanere stupiti dai virtuosismi continui e dall’estro circense con il quale si passa da un rag a melodie rinascimentali a danze occitane. Ubriacante nell’impeccabile, nordica eleganza. [6,5/10] • Marco Petrelli Colonnelli VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI (R)esisto, 2015 Una grande citazione a Cesare Pavese accompagna il disco d’esordio dei Colonnelli, band di Grosseto nata attorno al 2012. Fin dal primo ascolto, ci colpiscono i numerosissimi elementi presi in prestito dai Metallica e dall’hardcore punk, fusi in un’unione solida e naturale: già dalla prima traccia “Il Boccone Amaro”, uno dei pezzi meglio riusciti di quest’album, risulta evidente. Questo disco cade difatti a metà tra il thrash di fine anni 80/inizio anni 90 e il punk, sia hardcore che quello più classico; il risultato è un disco metal con un groove aggressivo e una voce rabbiosa, benché essa risulti melodica rispetto ad altre band di genere analogo. Eh già: quest’album è pura rabbia, perfino i testi sono irati, ricchi di citazioni e... in italiano! Quest’ultima scelta potrà limitare i Colonnelli nella popolarità fuori dai confini della bella penisola, ma più di uno tra noi non può che mostrarsi positivo davanti ad essa. Ma la lirica è solo il riflesso dell’ira della musica presentata: i riff di chitarra presenti sono duri e pesanti, tipici, ma che servono al loro scopo; la batteria è martellante e ispirata, oltre ai generi succitati, allo speed metal (anche se l’accordatura del rullante risulta molto metallica all’orecchio... quasi al punto di ricordare il malfamato St. Anger) e il mixaggio non fa che risaltare questi pregi. D’altra parte i soli di chitarra sono piuttosto scarni e anonimi, tuttavia non stonano con l’atmosfera delle canzoni. Questo disco può essere un’aggiunta piuttosto gradita alle vostre playlist, soprattutto se siete dei fan del thrash di scuola Metallica e Testament e degli amanti del punk che ha fortemente ispirato questi ultimi (la presenza di una ghost track al termine è solo la ciliegina sulla torta). Sommate il fatto che questo sarà il primo di una serie di album e saprete con certezza che dei Colonnelli ne sentiremo parlare in futuro. [7,5/10] • Tiziano Ciasco INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 24 BF INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 25 INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 26 BF EP Ronin / Uyuni SPLIT #1 Area51 Records, 2015 Esordio d’eccellenza per la label Area51 Records che presenta in questo primo split due gruppi, i Ronin (Bruno Dorella: chitarra, Cristian Naldi: chitarra, Diego Pasini: basso, Matteo Sideri: batteria) e gli Uyuni (Nicola “Lompa” Lombardi: chitarre, synth, drones e voce, Inserirefloppino: percussioni, elettroniche, synth, Alice Berni: pianoforte, synth e voce) apparentemente diversi per ambienti e toni musicali, per atmosfere e suggestioni, ma accomunati dalla ricercata ricchezza dei suoni, dalle soluzioni personali e dal forte impatto emotivo dei loro brani. Entrambi i gruppi con varie esperienze e produzioni alle spalle, si amalgamano proprio nel pathos e nella forza evocativa dei loro pezzi, testimonianza ne è il brano interpretato insieme, Shared_track#1, lunga cavalcata psichedelica dai toni intensi e drammatici. Polverosi e desertici i Ronin, quasi cinematografici, dipingono quadri intensi ed essenziali, venati di malinconia solitaria non lontani da impressioni folk alla Calexico, ma non estranei a dissertazioni più oscure e lunari vagamente drone con Ashtral alla maniera dei Godspeed You! Black Emperor. Lisergici e progressive gli Uyuni, con frequenti incursioni elettroniche e folk, quasi etniche, che raccontano di viaggi dalla quinta dimensione agli spazi siderali, dai mercati d’oriente alla pulsante frenesia delle metropoli come in Cardamomo. Folktronica tra Caribou e Cul de Sac, in esplorazione tra oriente e occidente. [7,5/10] • Vincenzo Pugliano The Yellow Traffic Light TO FADE AT DUSK Autoprodotto, 2015 Dietro l’inglese e l’imponente muro di suono di questo EP si nascondono quattro ragazzi torinesi, che però sembrano essere usciti dalla fine degli ‘80 in piena epoca new-wave e post-punk. Si ha un po’ la sensazione di rivivere l’epoca di Cure, Smiths e Joy Division, con la voce che incanala melodie all’interno di chitarre taglienti e riverberate, un basso e una batteria ben presente e precisa e quell’atmosfera da notte londinese. Le quattro tracce che compongono questo lavoro dimostrano una certa sicurezza nella strada che il gruppo vuole intraprendere e sono tutte molto coerenti, a partire dal muro sonoro alzato con l’iniziale Hideaway fino al lento e progressivo finale di Fall, passando per le armonie secche e ben distinte di Burger shot e Cole drives too fast. Purtroppo gli EP lasciano solo il sapore di un assaggio, è sempre poco per sapere se si è maturi abbastanza o meno, per quello serve un LP che aspettiamo per meglio giudicare il lavoro di questa promettente band. [7/10] • Alberto Giusti INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 27 Ummagma FREQUENCY Moon Sounds Records / Raphalite Records, 2015 Il duo ucraino canadese (Alexander Kretov, voce, elettronica, Shauna McLarnon, voce, testi e arrangiamenti) pubblica questo nuovo breve lavoro orientato decisamente al dream pop e all’ambient. I nostri tratteggiano atmosfere dilatate ed eteree, venate di malinconia, impreziosite dalla voce delicata della McLarnon. I riferimenti sono presto chiari dai Cocteau Twins ai Brian Jonestown Massacre con una predilezione per il lato più romantico e tranquillo della scena dream pop. Questo però limita l’ascolto venendo a mancare una necessaria dose di passione e intensità emotiva in alcuni brani come Winter Tale e Ocean Girl, tristi, quasi sussurrate ma che svivolano via senza sussulti. Più interessanti e coinvolgenti l’iniziale Orion e soprattutto Lama, ballata elettro pop che si dilata e si espande con una maggiore attenzione alla ritmica e ad una melodia più trascinante. Il lavoro si chiude con tre remix proprio di Lama, francamente troppi. In conclusione, un ep con qualche pecca, da ascoltare se si è in vena di dolcezza. [6/10] • Vincenzo Pugliano CHVE RASA Consouling Sounds, 2015 Recensire un pezzo da 30 minuti non è semplice. Necessità di immergersi completamente nella traccia, senza limiti di tempo, và assimilata ascolto dopo ascolto. È il cantante degli Amenra solista. È solo un uomo con i suoi pensieri, con i suoi ricordi e con le sue cicatrici, con la sua voce e il con suo strumento. L’album è magnificamente prodotto da Dehn Sora. Porta in lunghi paesaggi sonori e catturara ambienti e ronzii; suoni che si trovano al di là di ciò che può essere afferrato con le parole. È un lento divenire, una di quelle tracce che necessitano che sia te ad entrare in loro, nel loro universo e non viceversa. Amo sta roba. Va solo ascoltata. Le parole sono superflue; non sarebbero convincenti quanto le sensazioni, quindi provate. [8/10] • Ocramilluna Slowmother SLOWMOTHER Autoprodotto, 2015 Gli italianissimi “Slowmother” -duo attivo dal 2012- con questo EP dal suono compatto, scoprono finalmente le loro migliori carte allo showdown: 4 brani sorprendentemente diversi tra loro, che cercano di riecheggiare e condensare un universo Rock estremamente vasto. Attraverso le note dei passaggi spiccatamente Garage del primo inciso, evolvendosi nel Blues rielaborato in chiave Hard Rock di “Lipstick”, si cambia di nuovo scenario passando per l’estro alternativo di “Outlaw”, infine per chiudere il cerchio di nuovo in chiave Heavy con il quarto brano. Il Dna di questo lavoro è “blues-rock” alternativo, con varie risonanze Rock Heavy anni 70’ e anni ‘80. Già dal primo inciso,”Liar” esprime bene la complementarietà di 2 forti personalità all’interno del duo. Inoltre l’aggiunta di Roberto Paladino al basso permette di non sottrarre frequenze preziose a questo gruppo, frutto del pensiero e della volontà condensata nelle corpi e nelle menti di Alessio (chitarra e voce) e Grace (Batteria). [8/10] • Francesco Angius INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 28 BF Stella Diana ALHENA Vipchoyo Sound Factory, 2015 Napoli?! Si, sono proprio partenopei gli Stella Diana. Il gruppo, attivo dal 1998, ha già prodotto quattro dischi e da poco è uscito Alhena, primo di due EP che ripercorreranno tutta la loro produzione. Ripeto, napoletani, strano non perché la città non sia solita generare incredibili musicisti, ricordiamo che è la patria del “bel canto” e che proprio i napoletani sono il cuore blues della nostra nazione… ed un’inevitabile lacrima nostalgica ci scappa se pensiamo a Pino Daniele e Napoli Centrale. Ma le sonorità proposte dagli Stella Diana di sole, mare e pizza non hanno proprio nulla: occhiolino ai mai dimenticati anni ’80 con echi lontanissimi, ma proprio lontani, dei Joy Division in Mira, la quarta traccia; colpo di coda alle atmosfere degli Explosions in the Sky nell’intro di Shohet, apertura dell’EP e tanto shoegaze. I testi sono poco comprensibili, non me ne voglia il cantante Dario Torre, ma sono ermetici e non particolarmente incisivi. Purtroppo anche gli Stella Diana sembrano essere contagiati da una “malattia” che sta facendo molte vittime nei gruppi alternativi italiani degli ultimi due decenni: la “Godanite”… poveri Marlene Kuntz, tutto a loro insaputa. Il pezzo che mi convince di più è la seconda traccia, Caufield, è brit, è pop, è ariosa e nella sua totale semplicità potrebbe essere il sostegno totale dell’EP. La cover dei Kula Shaker, Govinda, a chiusura?! No ragazzi, non ci siamo, state alla psichedelia come gli Jefferson Airplane stavano ad una mazurka. Speriamo che proprio Alhena, la vostra stella invernale, vi guidi nella direzione giusta. [6/10] • Elisa Angelini Larry Manteca MUTANT VIRGINS FROM PLUTO Against ‘Em All Records, 2015 Mutant Virgins From Pluto è la colonna sonora di un ipotetico b-movie fantaerotico tutto tette cazzotti. Aliene formose si muovono sinuose seguendo ritmi brasileiri e flauti serpeggianti, terrestri inermi spalancano la bocca stupiti tra le raffiche elettriche di wah. Si fa festa, si scopicchia, si scappa, poi la resa. Insomma il film è un gran casino con un lieto fine. Divertente. Il disco, colonna sonora leggera per un b-movie che non esiste. Divertissement. Tra i credits c’è anche il direttore della fotografia, e a questo punto il dubbio che in realtà il film esista davvero mi assale... ormai la recensione è fatta, nel caso rettifichiamo nel prossimo numero... [6/10] • Alberto Sartore The Computers WANT THE NEWS? HERE’S THE BLUES One Little Indian, 2015 Introduciamo qui un EP della band anglosassone “The Computers” dal titolo quantomai spiazzante, sopratutto per l’accostamento a primo impatto casuale tra le parole che lo compongono. “Want the news, here’s the Blues” è un lavoro di un gruppo già ampiamente apprezzato sia dalla critica che dal pubblico britannico, oltre che da importanti emittenti radiofoniche del calibro della BBC 1, BBC 6 e di XFM. “The Computers” sono una band Pop Rock a mio avviso piuttosto stereotipata, con inclinazioni vagamente soul, “punk ‘n’ roll”. A dirla tutta le 4 tracce presenti non comunicano una freschezza e originalità degna di particolare nota, sebbene la qualità della band e di produzione dell’EP è buona. Voto complessivamente positivo per questo Extended play, che è un assaggio del loro terzo album registrato in studio in uscita prevista a primavera del 2016. [6,5/10] • Francesco Angius INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 29 INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 30 BF INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 31 INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE 32 BF Rubrica a cura di AntoNia Genco, architetto e designer . Per info e progettazione Ciddì: [email protected] con oggetto “Bu!Cce Candite”. INTERVISTE LIVE RECENSIONI RUBRICHE BF 33 33 giri di piacere Il fenomeno delle incisioni straniere in Italia Andando ad analizzare la lunga discografia italiana uscita nella metà degli anni Sessanta si nota una sterminata presenza di artisti stranieri che cantano in italiano. Il perché ciò sia accaduto è stato argomento di libri (come “Mondo Beat” di Luciano Ceri ed Ernesto De Pascale uscito nel 1993 per la Fuori Thema) ed è tuttora argomento di blog (basti citare l’ottimo www.musicaememoria.com). Come spesso accade, si tratta di un fenomeno prevalentemente italiano. Perché decine di artisti soul e beat, verso la metà degli anni Sessanta decisero di incidere un disco in italiano? I motivi sono diversi. I discografici italiani erano alla ricerca di talenti da lanciare nel Bel Paese come nuovi Beatles o nuovi fenomeni musicali “che vengono dall’estero”, cosa che all’epoca faceva molto fico. Se poi, ed è stato il caso di un gruppo che si chiamava Motowns, questi venivano da Liverpool proprio come i Beatles… La stessa cosa la stavano facendo i produttori di musica, americani o inglesi. Per poter lanciare un’artista sul mercato italiano serviva un 45 giri apripista, meglio se cantato nella nostra lingua. Un altro motivo era il Festival di Sanremo. Verso la fine del decennio una numerosa schiera di artisti prevalentemente soul vennero in Italia a cantare abbinati con un artista italiano (come ad esempio Wilson Pickett che cantò “Un’avventura” di Battisti nel 1969). A Roma c’era poi l’americana Rca che aveva aperto degli studi importanti e molto imponenti dalle parti di piazzale Clodio, che venivano usati per le colonne sonore italiane (grande vero cavallo di battaglia della musica italiana del’epoca). Gli studi, per l’evenienza venivano usati anche dai “complessi” per incidere i loro brani. Non a caso molti stranieri che vennero in Italia, grazie all’esperienza acquista finirono per fare i turnisti con artisti famosi come De Gregori o Venditti che infatti incisero i loro album degli esordi proprio con l’Rca italiana. Il fenomeno vede le sue punte dell’iceberg con i famosissimi Rokes e Mal & the Primitives, i già citati Motowns, Bad Boys, Sopworth Camel (poi solo Camel), Casuals, Sorrows e Renegades, questi INTERVISTE LIVE ultimi tre vantavano già dei singoli in Inghilterra di discreto successo, fino al Doc Thomas Group e ai Thane Russal & the Three. Oltre a questi nomi però, tralasciando la lunghissima discografia di artisti soul e r’n’b (magari me ne occuperò in un prossimo numero di BF) e quella di artisti di vari paesi d’Europa come i francesi 5 gentlemen o gli spagnoli Los Brincos e Los Bravos, ecco una lista di artisti prevalentemente beat o psichedelici che hanno realizzato uno o più singoli in italiano. L’elenco è in ordine alfabetico ma non rispetta nessun ordine cronologico ed è volutamente selettivo. Quello che si vuole far conoscere in questo breve scritto è un fenomeno a molti completamente sconosciuto: ad aver inciso in italiano sono stati anche molti nomi importanti dei sixties britannici e statunitensi. E così, spulciandolo nell’elenco che segue si scopre che il compianto David Bowie ha inciso in italiano la sua Space Oddity e che Rod Evans e Ian Paice dei Deep Purple hanno cantato nella nostra lingua con una band di nome Maze nel 1967. Tra parentesi la versione originale del brano: molte volte, si trattava infatti della versione italiana di un successo già cantato in inglese. 1910 Fruitgum Co. - C’e Qualcosa Che Non Ricordo Piu (Reflections From The Looking Glass) 1910 Fruitgum Co. - Hip Hip Hip Urrah! (1-2-3 Red Light) 1910 Fruitgum Co. - Semplicissimo (Simon Says) Aphrodite’s Child - Lontano dagli occhi Aphrodite’s Child - Quando l’amore diventa poesia(End of the world) David Bowie - Ragazzo solo, ragazza sola (Space oddity) Box Tops - Mi sento felice (Cry like a Baby) Brain Auger & The Trinity - Gatto nero (Black cat) Chad & Jeremy - Adesso Sì Chad & Jeremy - Nessuno più di me Cowsills - Vola con noi (We can fly) Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich - Follemente vivo(Save me) Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich - Zabadak (in italiano) RECENSIONI RUBRICHE 34 BF Grapefruit - Dolce Delilah Grapefruit - Mai Nessuno Grass Roots - Guarda Guarda (Wake Up, Wake Up) Grass Roots - Mi hai Perdonato Lo So (Tip of my tongue) Harmony Grass - Te Lo Ricordi (I Remember) Hollies - Devi Avere Fiducia In Me Hollies - Non prego per me Honeybus - Chi Eri Tu (Ceiling N.2) Honeybus - La Cicogna (She Sold Blackpool Rock) Love Affair - Io Senza Te(Rainbow Valley) Maze - Aria Del Sud (Rod Evans e Ian Paice dei Deep Purple nel 1967) Maze - Non Fatemi Odiar (Rod Evans e Ian Paice dei Deep Purple nel 1967) Move - Something (in italiano) Neil McArthur - Ma Non è Giusto (She’s Not There, singolo in italiano del cantante degli Zombies) Ohio Express - Da Lulu(Down At Lulu’s) Ohio Express – Grazia(Mercy) Ohio Express - Yummy Yummy Yummy Paul Revere & the Raiders - Little Girl in the 4th Row (in italiano) Peter And Gordon - Che cos’è una rosa Peter And Gordon - Il Messaggio Plastic Penny - Guarda Nel Cielo(Noboy knows It) Plastic Penny - Tutto Quello Che Ho (Everything I Am) Procol Harum - Il Tuo Diamante (Shine on brightly) Procol Harum - La Fortuna(Repent Walpurgis) Rascals - Corri nel sole, Sentirai la pioggia (A Beautiful Morning) Rascals – Groovin (in italiano) Tommy James & The Shondells - Soli Si Muore (Crimson And Clover) Tremeloes - E in Silenzio (Silence Is Golden) Youngbloods - Qui Noi, Tra Noi (Grizzly Bear) Youngbloods - Se Qualcuno Mi Dirà (Get Together) Lorenzo Briotti INTERVISTE LIVE Ascolta Nartraradio Roma. La webradio vicina di casa di Beautiful Freaks RECENSIONI RUBRICHE BF 35 l’opinione dell’incompetente “Anche se tutti gli altri sono così. Siate diverso almeno voi.” Al primo ascolto il disco mi è piaciuto, ora però lo rimetto e lo riascolto con più attenzione. L’odore del caffè che invade casa mia deve aver valicato i muri ed attirato qui Madhu, il mio vicino di casa singalese. Sorride sempre Madhu, è curioso, molto, vuole sempre sapere tutto di tutti. “Chi è questa ragazza che canta?”, chiede, “ha la voce molto bella di donna molto bellissima ”, aggiunge, “si può vedere?”, conclude. I dischi si ascoltano, non si vedono. Non è detto poi che le donne dalla bella voce siano anche di bell’aspetto, anzi, a volte, è vero l’esatto contrario. A dire il vero però, la voce sensuale che ripete: “already yours”, fa volare anche me con la fantasia e mi consente di visualizzare l’immagine di una donna che può esistere solo nei sogni. Volendo dimostrare a Madhu, e a me stesso, che la vita raramente fa dono alla stessa persona di una bella voce e di un bell’aspetto, apro il PC e su YouTube scrivo: “Curve”, poi: “already yours”, poi invio e poi ...‘azzarola! Antoinette “Toni” Halliday, oltre ad essere musicista, vocalist, scrittrice di testi e occasionalmente chitarrista dell’alternative rock band Curve, è anche una donna “molto bellissima”. Ma ora non ho più tempo per le divagazioni, devo recensire il disco, non posso dilungarmi sull’avvenenza della cantante, ho bisogno di scrivere in merito alla performance artistica. Chiedo a Madhu cosa ne pensa lui del disco da un punto di vista musicale e, mentre lo faccio, penso arrogante: “ma cosa ne può sapere Madhu? sente solo musica melodica!” Il mio amico mi guarda tranquillo e replica: “oltre all’abilità tecnica dei musicisti è rilevante la capacità di esplorare il subconscio attraverso storie fantastiche; un ibrido fatto di inflessioni progressive, memorie psichedeliche e stralci di alternative rock anni novanta”. Devo essere rimasto con la mascella spalancata e lo sguardo da triglia per circa un paio di minuti. Poi Madhu, preso da rimorso, ha confessato che, per fare colpo sulla ragazza del negozio di strumenti musicali, quello in fondo alla via, sta imparando a INTERVISTE LIVE (Fëdor Michajlovič Dostoevskij) Curve - Doppelgänger memoria tutto quello che nelle copie di BF che gli ho regalato lo ha colpito di più. Ah!, l’Amour! Venendo al disco: “Doppelgänger”, un termine preso dal tedesco che rimanda ad oscuri e funesti presagi, è un CD notevole che ha nella varietà il suo punto di forza. La suadente e sexy voce della Halliday si dimostra parecchio versatile su “Already Yours” ad alternare momenti angelici ad altri perversi quando l’accompagnamento si fa più duro. In un giusto mix tra Rock ed Elettronica troviamo la splendida “Horror Head” e “Ice That Melts The Tips” , elettronica in quantità invece in “Clipped” (bonus track presente solo nella versione USA) e sul singolo “Fait Accompli” (tra le cose migliori dell’album). Convincente e trascinante la possente titletrack “Doppelganger”. Splendida ancora la voce nel quinto brano “Lillies Dying” e nella surreale visionaria “Think & Act”. Da segnalare le ritmiche di “Wish You Dead”, la calma atmosfera dark di “Sandpit”, e le chitarre in “Split Into Fractions”. È un vero peccato che il duo dei Curve si sia sciolto nel 2005. Felice esistenza! Rubby RECENSIONI RUBRICHE “CHI L’HA VISTI?” Ovvero: Breve scheda di identità di gruppi inutili scomparsi nel nulla e che (per ora) ci hanno risparmiato una reunion ancora più inutile. a cura di Mazzinga M. LIQUID GOLD Genere: Disco Pop-Rock. Nazionalità: inglese. Formazione: Ray Knott (basso); Ellie Hope (voce); Syd Twynham (chitarra); Wally Rothe (batteria). Discografia: Liquid Gold (Lp, 1980). Segni particolari: Lustrini, paillettes e cineserie sonore. Data e luogo della scomparsa: 1984, nello studio del produttore Adrian Baker. Motivo per cui saranno (forse) ricordati: Il singolo “Dance Yourself Dizzy” e la coglionaggine esibizionista di Wally Rothe. Motivo per cui dovrebbero essere dimenticati e mai più riesumati: L’inevitabile decadimento psicofisico dell’essere umano dovuto a un altrettanto inevitabile scorrere del tempo. Se nel 1980 la fastidiosa abitudine del batterista di suonare praticamente in mutande per ricoprire il ruolo del “simpaticissimo” buffone del gruppo mostrava gia’ allora: a) un fisico da lanciatore di coriandoli; b) un cervello con pochissimi neuroni ma tutti andati a male; pensare che tutto cio’ possa riproporsi a distanza di ben 36 anni - con tutte le conseguenze del caso - mi inquieterebbe non poco. EZO Genere: Hair Metal. Nazionalità: Giapponese. Formazione: Masaki Yamada (voce); Hirotsugu Homma (batteria); Shoyo Iida (chitarra); Taro Takahashi (basso). Discografia: EZO (Lp, 1987); Fire Fire (Lp, 1989). Segni particolari: Cambia il nome ma non i suonatori. E la musica rimane sempre la stessa. Data e luogo della scomparsa: Luglio 1990, fuori gli uffici della Geffen Records U.S.A. Motivo per cui saranno (forse) ricordati: La trovata del cambiamento di nome da Flatbacker a EZO orchestrata dal famoso produttore Gene Simmons dei famosissimi Kiss. Motivo per cui dovrebbero essere dimenticati e mai più riesumati: Goldrake, Mazinga e Jeeg robot d’acciaio. Se negli anni ’80 la terra del Sol Levante ce la ricordiamo solo per i suoi cartoni animati e non per i suoi musicisti, un qualche straccio di motivo ci sara’ pure. O no?