Anno 2015 - Rivista quadrimestrale di Diritto dell`Ambiente

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RIVISTA QUADRIMESTRALE
DI
DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
G. Giappichelli editore
INDICE
GIAMPAOLO ROSSI, Presentazione
Pag. 1
ARTICOLI
GIAMPAOLO ROSSI, Diritto dell’ambiente e diritto dell’alimentazione
Pag. 3
ANGELO RINELLA, “Food sovereignty”
Pag. 15
FIAMMETTA MIGNELLA CALVOSA, FIAMMETTA PILOZZI, SIMONA TOTAFORTI,
Disarticolazione del rapporto terra-uomo-cibo e politiche dell’alimentazione
Pag. 37
ANTONIETTA LUPO, Sostenibilità del settore agro-alimentare, biotecnologie e food
safety nell’Unione Europea: il paradigma degli organismi geneticamente modificati
Pag. 50
MASSIMO MONTEDURO, Diritto dell’ambiente e diversità alimentare
Pag. 88
GIULIANO LEMME, Lo strabismo di Bacco. L’etichettatura dei prodotti vitivinicoli
tra tutela del consumatore e reticenze legislative
Pag. 132
NOTE A SENTENZA
ENRICA BLASI, I nuovi margini del potere decisionale degli stati europei in materia
di organismi geneticamente modificati.
Pag. 150
FRANCESCO GRASSI, La Corte di Giustizia conferma che sul proprietario
“incolpevole” non grava l’obbligo di effettuare le attività di bonifica.
Pag. 186
OSSERVATORIO
ANNAMARIA GIGLI, Osservatorio giurisprudenziale sui vincoli paesaggistici ex lege
(art. 142 del d.lgs. n. 42/2004)
Pag. 232
INDEX
GIAMPAOLO ROSSI, Presentation
Pag. 1
ARTICLES
GIAMPAOLO ROSSI, Environmental Law and Food Law
Pag. 3
ANGELO RINELLA, “Food sovereignty”
Pag. 15
FIAMMETTA MIGNELLA CALVOSA, FIAMMETTA PILOZZI, SIMONA TOTAFORTI,
Disarticulation of earth-man-food relationship and food policies
Pag. 37
ANTONIETTA LUPO, Sustainability of Agro-food sector, biotechnologies and food
safety in the European Union: the paradigm of genetically modified organisms
Pag. 50
MASSIMO MONTEDURO, Environmental Law and food diversity
Pag. 88
GIULIANO LEMME, The Strabismus of Bacchus. The labeling of wine products,
between consumer protection and legislative reticence
Pag. 132
NOTES TO JUDGEMENT
ENRICA BLASI, The new margins of European States decision-making power
regarding cultivation of genetically modified organisms
Pag. 150
FRANCESCO GRASSI, The European Court of justice confirm that the "not-guilty"
owner is not obliged to effect the remediation activities
Pag. 186
OBSERVATORY
ANNAMARIA GIGLI, Jurisprudencial observatory about landscape constraints ex lege
(art. 142 del d.lgs. n. 42/2004)
Pag. 232
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
PRESENTAZIONE
Questo numero della RQDA, della quale ho riassunto la Direzione, è dedicato
in particolare al tema ambiente e alimentazione. Non si tratta solo di un
omaggio all’EXPO. Il tema dell’alimentazione era stato finora assente o molto
marginale negli studi di diritto dell’ambiente. Con questo numero della Rivista
si da, mi sembra, un contributo significativo a promuovere la dovuta attenzione
al tema.
Gli scritti hanno, ovviamente, carattere giuridico ma è apparso utile
comprendere anche la riflessione di carattere sociologico che viene offerta da
Fiammetta Mignella Calvosa, Fiammetta Pilozzi, Simona Totaforti.
La lettura dei testi potrà, credo, confermare l’intuizione originaria della
Rivista: il tema dell’ambiente consente e anzi richiede di superare la netta
distinzione fra riviste informative, destinate ai “pratici”, e riviste scientifiche.
La trattazione delle problematiche del diritto dell’ambiente non può che far
riferimento ai dati reali e alle acquisizioni che derivano da altre discipline
tecniche e umanistiche. Nello stesso tempo, però, le caratteristiche di questa
nuova disciplina giuridica, per le ragioni che abbiamo più volte esposto,
stimolano considerazioni di teoria generale e richiedono un approccio
metodologico adeguato.
Auguro buona lettura e …buon pranzo!
Giampaolo Rossi
ARTICOLI
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
GIAMPAOLO ROSSI*
Diritto dell’ambiente e diritto dell’alimentazione
SOMMARIO: 1. Il rilievo scientifico del diritto dell’alimentazione 2. La
“materializzazione” del diritto dell’ambiente 3. Rapporti di conflittualità, di
contemperamento o di sinergia fra gli interessi dell’alimentazione e
dell’ambiente 4. Studi collegati o integrati
Che fra “ambiente” ed “alimentazione” vi sia una interazione è di tutta
evidenza. Entrambe le tematiche sono strettamente connesse all‟assetto e alla
salubrità del territorio, al clima, alle risorse idriche, alle condizioni di vita delle
popolazioni. Se da questa prima constatazione si passa ad un approfondimento
di carattere giuridico i rapporti si articolano in vario modo.
1.
Il rilievo scientifico del diritto dell’alimentazione
Dal punto di vista giuridico le tematiche alimentari erano state in passato
prese in considerazione sotto profili particolari: quelli igienici (a partire dal
R.D. 3 agosto 1890, n. 7045) avevano ricevuto l‟interesse degli
amministrativisti e dei penalisti1; per il resto avevano occupato una parte
marginale della disciplina di diritto agrario.
Il tema era stato oggetto nei tempi più recenti di un rilevante interesse
comunitario sotto due diversi profili: a) quelli connessi alla politica agraria
comune (PAC) e b) quelli connessi alla sicurezza alimentare.
L‟Unione europea ha progressivamente modificato la propria politica
agraria. In una prima fase l‟interesse perseguito era essenzialmente quello del
mercato comune e della concorrenza fra gli operatori europei in un settore, per
altro, molto regolamentato e con tratti di protezionismo verso l‟esterno. In
*
Professore Straordinario di Diritto Amministrativo presso l‟Università di Roma LUMSA.
S. LESSONA, Trattato di diritto sanitario, I, Milano 1914; C. VITTA, I singoli obiettivi della
amministrazione sanitaria, Parte II, in F. CAMMEO, C. VITTA. Sanità pubblica, in Primo trattato
completo di Diritto Amministrativo Italiano, a cura di V.E. ORLANDO, vol. IV, Milano 1905, 395.
Per i penalisti v. ad es. G. BORTOLOTTO, Sanità pubblica, in Enciclopedia del diritto penale
italiana, monografie curate da E. P ESSINA, vol. XIII.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
seguito è stata attribuita una particolare rilevanza alla tutela dei consumatori
(Reg. 1169/2011 sull‟informazione alimentare) e della sicurezza alimentare (v.
regol. 852, 853, 854, 882 / 2004), anche con la creazione di un‟apposita
Autorità con compiti di carattere tecnico (Reg. 178/2002). Nei tempi più recenti
la politica agraria comune (PAC) ha assunto fra le proprie finalità anche quella
dello sviluppo rurale (Reg. UE 1305/2013)2.
Questo diverso orientamento è derivato da una diffusa maturazione culturale
sui temi dell‟alimentazione che ne ha messo in evidenza le connessioni con il
tema della qualità della vita e del rapporto tra i popoli.
Il tema dell‟alimentazione ha quindi assunto negli ultimi tempi un
particolare interesse, tanto da indurre i giuristi di varie discipline non solo ad
occuparsene ma anche a farne oggetto di studi monografici e di riviste3.
L‟approccio prevalente è restato quello civilista, per la derivazione dal diritto
agrario della maggior parte degli studiosi, ma non sono mancati rilevanti
contributi che ne hanno messo in evidenza i profili pubblicistici4. Il tentativo di
alcuni è di arrivare a configurare il diritto alimentare come una disciplina
giuridica avente propria autonomia scientifica5.
2
Sull‟evoluzione della normativa e della giurisprudenze europee v. fra gli altri F. ALBISINNI,
Strumentario di diritto alimentare europeo, Torino 2009. F. ADORNATO, Pulsa la vita del diritto,
in Riv. dir. agr. 2013. N. 3, I, 490
3
V. la rivista Dir. e giur. agr, alim. e dell’amb., nata negli anni‟50 come giur.agr.it. Vedi inoltre
la Riv. dir. alim. (rivistadirittoalimentare.it)
4
V. S. CASSESE, La nuova disciplina alimentare, in Per una autorità nazionale della sicurezza
alimentare, Milano 2008. Sul tema e con riferimento anche alla normativa del WTO e alle
questioni giuridiche che si sono poste fra UE e WTO v. D. BEVILACQUA, La sicurezza alimentare
negli ordinamenti giuridici ultrastatali, Milano 2012. Gli studiosi di diritto amministrativo se ne
sono occupati soprattutto a seguito della normativa europea, v. A. FIORITTO, Agricoltura, in
M.P.CHITI e G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Parte Speciale, I,
Milano 2007, pagg. 25 e ss. ). Da segnalare, per altro in precedenza, P ERICU, MIGNONE,
Alimentazione, in G. GUARINO (a cura di), Dizionario amministrativo, Milano 1983.
5
V. L. COSTATO, Una ricognizione sui principi fondanti il diritto alimentare, in Riv. dir. agr.,
2005; Compendio di diritto alimentare, III ed. Padova 2007. S. RIZZOLI, I principi generali del
diritto alimentare nella legislazione e giurisprudenza comunitarie, Roma, 2008. S. MASINI,
Diritto alimentare. Una mappa delle funzioni, Milano ,2014. G. GALLONI, Teoria generale del
diritto agroalimentare, in Dir. giur. agr. amb. 2003, 5. Sembra dubitarne L. P ERFETTI, Principi
della disciplina pubblicistica dell’alimentazione. Premesse ad un diritto amministrativo
dell’alimentazione, in Riv.dir. agr. 93(1):3-20, che però conclude in termini che condividono la
tesi della proponibilità di un “diritto amministrativo dell‟alimentazione”. Come è noto sono stati
frequenti i dibattiti sull‟autonomia di una disciplina giuridica. I più interessanti si sono avuti a
proposito dell‟autonomia del diritto commerciale. V. T. ASCARELLI, Appunti di diritto
commerciale, I, Parte generale, Milano, 1931, ID, in Lezioni di diritto commerciale, Introduzione,
Milano 1955, 57, evidenziava la forza espansiva del diritto commerciale i cui istituti finivano per
4
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Non costituirebbe un ostacolo la circostanza che la materia comprende
questioni che fanno capo a diversi settori del diritto: alcuni dei profili nei quali
si articola ricevono una disciplina civilistica (quelli attinenti alla produzione, al
commercio, alla distribuzione e alla tutela dei consumatori), altri hanno
certamente carattere pubblicistico sia di diritto amministrativo ( la sicurezza
alimentare, le autorità che vi sono preposte, i procedimenti amministrativi di
determinazione di standards, di controllo, sanzionatori), sia di diritto
costituzionale ( quelli che si riconducono al tema della “sovranità alimentare”),
sia di diritto penale (frodi alimentari). Ma sono ormai molte le discipline
giuridiche sulla cui autonomia scientifica nessuno pone dubbi che “tramezzano
tra il pubblico e il privato”: basti pensare alle costruzioni teoriche e agli
strumentari operativi del diritto amministrativo.
Non è questa la sede per prendere posizioni in merito alla questione
dell‟autonomia scientifica del diritto alimentare. Certamente la materia non solo
ha un oggetto specifico ma ha un consistente apparato normativo, propri
soggetti, tipi di contratti, procedimenti. Si sostiene anche che abbia propri
principi, in particolare quello di precauzione, ma si tratta di un principio che
non è nato dal diritto dell‟alimentazione ma vi è stato semplicemente applicato6.
Concludendo, per ora, su questo punto, la grande importanza che ha assunto
la tematica alimentare spiega e merita l‟aumentato interesse da parte della
scienza giuridica e può anche tradursi in attività formative e didattiche senza
che vi sia la necessità di assumerne una autonomia di carattere scientifico.
2.
La “materializzazione” del diritto dell’ambiente
Un percorso per molti versi analogo, e anzi in forma più marcata, è quello
compiuto negli ultimi decenni dal diritto dell‟ambiente.
Sono note la recente emersione e la fluidità che ancora caratterizza la
nozione giuridica di ambiente. Si è ormai sufficientemente chiarito che il valore
ambientale ha assunto una rilevanza e consistenza giuridica negli ultimi
essere utilizzati come istituti generali dell‟attività economica. ID con riferimento al Diritto
agrario, L’importanza dei criteri tecnici nella sistemazione delle discipline giuridiche e del diritto
agrario, in Atti del primo Congresso nazionale del diritto agrario, Firenze 1939, 105.
6
V. fra gli altri L. M ARINI, Il diritto di precauzione nel diritto internazionale e comunitario,
Padova 2004. Sulla necessità di applicare un regime di prevenzione alla tutela degli alimenti v.
già E. ORESTANO, voce Alimenti e bevande (igiene degli), in Nuovo Dig.. It, I, 1937, 342.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
decenni, quando «l‟equilibrio tra il fatto creativo e il fatto distruttivo
dell‟uomo… si è rotto…e le forze distruttive sono maggiori delle forze
costruttive»7.
L‟attenzione a questo fenomeno ha fatto si che una serie di problematiche
settoriali rette da varie normative che individuavano specifiche competenze,
venissero ricondotte a una nuova materia giuridica. Era corretta, fino agli anni
„70 dello scorso secolo, l‟osservazione di Giannini: la denominazione di
ambiente poteva essere intesa in senso naturalistico (paesaggio, bellezze
naturali, parchi florofaunistici, ecc..), oppure come l‟insieme degli aspetti
inerenti al fenomeno dell‟inquinamento (sanità, igiene del suolo, difesa delle
risorse idriche, difesa dell‟atmosfera, ecc..), o, ancora, in senso urbanistico,
come sinonimo di “assetto del territorio”, con la conseguenza che sono
soprattutto le leggi urbanistiche ad occuparsene8. Anche studiosi di altri paesi
rilevavano, in quegli anni, che «tutto può rientrare nell‟ambiente; vi si possono
includere contemporaneamente l‟insegnamento, il tempo libero, il problema dei
trasporti, il sistema di comunicazione nel suo insieme, … la medicina»9.
Da allora, come è noto, questa nozione si è, invece, “materializzata”, è
diventata una materia giuridica alla quale fanno capo organizzazioni
amministrative, procedimenti, situazioni giuridiche soggettive specifiche, e che
è certamente dotata di propri principi che sono stati poi applicati ad altri settori
del diritto10.
Come ciò sia avvenuto è di grande interesse per la scienza giuridica:
l‟intensità, la forza con la quale è stato avvertito l‟interesse all‟ambiente ha
avuto un effetto di polarizzazione, di attrazione sulla funzione tutelatrice di
7
M.S.GIANNINI, Diritto dell’ambiente e del patrimonio naturale e culturale, in Riv. trim. dir.
pubbl. 1971, 1125.
8
M.S.GIANNINI, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl. ,
1973, 1, 15 e ss.
9
J. LAMARQUE, Droit de la protection de la nature et de l’environnement, LGDJ, 1973. Nello
stesso senso M.PRIEUR, Droit de l’environnement, Dalloz, 1984, n.2. R. DRAGO, La protection du
voiçinage et de l’environnement, PPS,1979 n. 457 definiva “assurdo” considerare il diritto
dell‟ambiente come una nuova disciplina giuridica. Significativa del mutamento di prospettiva è,
ad esempio, la nuova tesi di M. P RIEUR che, aveva dapprima definito l‟ambiente un semplice
raggruppamento normativo privo di una propria specificità, poi, sulla base di un approccio
sistematico, lo ha considerato un diritto ormai maturo caratterizzato da tratti particolari del tutto
autonomi, che giustificavano la fondazione di un‟apposita rivista: Pourquoi une revue juridique
de l’environnement, in RJE, 1976 n. 3.
10
V. G. ROSSI, Parte generale, in G. ROSSI (a cura di) Diritto dell’ambiente, III ed. Torino
2015, p. 11.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
fattispecie (come la salubrità, l‟igiene, la tollerabilità di fatti inquinanti, gli
scarichi, i rifiuti, ecc..) che erano prima appannaggio di altre. Cosi alcune
competenze amministrative che erano sparse in vari ministeri (industria,
agricoltura, salute, ecc..) sono state accorpate in un nuovo organismo apposito
che ha per missione quella ambientale; l‟interesse all‟ambiente non è stato più
preso in considerazione come un aspetto del diritto alla salute o alla salubrità
dell‟acqua o dell‟aria ma ha assunto una configurazione propria, di valore
primario, di diritto soggettivo.
La delimitazione della materia è determinata secondo una scelta empirica del
legislatore, non è uguale in tutti i paesi e mantiene carattere fluido, oggetto di
frequenti cambiamenti. Per lo più, comunque, si va estendendo rispetto alle
prime previsioni. Anche il peso, il grado di rilevanza e tutela che riceve
l‟interesse all‟ambiente nei confronti degli altri interessi resta variabile
seguendo orientamenti ondivaghi (l‟interesse è posto nello stesso livello degli
altri ed è quindi bypassabile nella conferenza di servizi, oppure diventa primario
e non è più bypassabile, oppure lo è solo con procedimenti complessi).
Naturalmente, sia in Italia che in altri ordinamenti, l‟effetto attrattivo del
diritto all‟ambiente non poteva estendersi a ogni profilo che avesse una qualche
valenza ambientale. Alcune questioni materiali (come rifiuti, gli inquinamenti)
sono state assorbite; altre invece, sono rimaste inquadrate nel loro assetto
precedente e il profilo della tutela ambientale è stato inserito con strumenti
procedimentali che intervengono in altri procedimenti. L‟interesse ambientale
interagisce e interferisce così con altri interessi, in procedimenti che
disciplinano questioni diverse ma, ovviamente, non assorbe queste materie che
mantengono una configurazione propria.
3. Rapporti di conflittualità, di contemperamento o di sinergia fra gli
interessi dell’alimentazione e dell’ambiente
Fra le varie interazioni che ha la tematica ambientale, quella con
l‟alimentazione è la più marcata: entrambe attengono al rapporto fra l‟uomo e la
natura e le sue trasformazioni. Il problema dell‟ambiente ha origine da un
eccessivo e sbagliato consumo del creato e quello dell‟alimentazione attiene al
consumo dei beni della terra o collegati alla terra.
Ciò posto, è sbagliato dedurre che la soddisfazione di entrambi gli interessi
abbia carattere sinergico. In realtà le caratteristiche del ciclo che conduce alla
7
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
soddisfazione dei bisogni alimentari e le necessità di tutela dell‟ambiente
possono avere fra loro vari tipi di rapporti: di conflittualità, di contemperamento
o di sinergia.
Il carattere conflittuale del rapporto è emerso negli ultimi decenni in
particolare per due ragioni.
La prima è stata l‟aumento del consumo alimentare dovuto in parte
all‟aumento della popolazione e in parte alla disuguale distribuzione del cibo fra
le varie popolazioni che ne lascia una parte con problemi di scarsità e di
sopravvivenza e un‟altra con l‟opposto problema di consumo eccessivo e di
insopportabili scarti alimentari.
Il bene che presenta maggiori criticità è l‟acqua. Si tratta di un bene “finale”,
destinato al consumo diretto, e anche “strumentale” alla produzione di altri cibi,
sia di quelli vegetali che di quelli animali (virtual water). I prodotti animali
presentano un contenuto di acqua “virtuale” maggiore rispetto a quelli coltivati.
Il consumo di acqua da parte delle popolazioni varia quindi a seconda dei
costumi alimentari ed è molto più elevato nei paesi ricchi, ad elevato consumo
di carne11.
Il potenziale conflitto fra interessi alimentari ed ambientali nasce dal fatto
che l‟acqua è un bene finito perché una parte viene consumata e una parte si
depaupera durante il consumo; solo una quota evapora e rientra nel ciclo
naturale. Si ritiene che da almeno un quarto di secolo il consumo di acqua si è
sviluppato in modo insostenibile su scala mondiale. L‟ipotesi che vi si possa
provvedere attraverso processi di dissalazione dell‟acqua marina è ancora
lontana dal verificarsi in termini economicamente praticabili. L‟ineguale
distribuzione fra le diverse parti del pianeta accentua il rischio di problemi e
conflitti. L‟aumento del consumo alimentare presenta quindi rilevanti criticità
per la tutela dell‟ambiente.
11
Per queste considerazioni v. A.A. vari, Acqua e energia, Acc. Naz. Lincei, Roma 2011. Gli
studi in materia sono numerosissimi, una parte dei quali svolti dall‟ONU, da Governi nazionali,
da Accademie e Università. V. ad es. WORLD ECONOMIC FORUM, Global risks, ed. 2011. Si
calcola che un individuo utilizzi in media da due a cinque litri d‟acqua al giorno per bere (sprechi
compresi), mentre il consumo d‟acqua virtuale giornaliero varia da circa 1.500-2.600 litri nel caso
di una dieta vegetariana e circa 4.000-5.400 litri nel caso di una dieta ricca di carne.
L‟acqua è anche strumentale alla produzione di energia e viene consumata in grandi quantità in
tutti i sistemi di produzione di energia, salvo che in quella eolica, e in misura massiccia nel
raffreddamento degli impianti nucleari e ancor più nella produzione di energia da biomasse.
8
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La seconda ragione che ha determinato un rapporto conflittuale tra ambiente
e alimentazione è derivata dalla trasformazione dei modi di produzione.
La chimica ha assunto un ruolo di rilievo nella produzione agricola, non solo
nei diserbanti e fertilizzanti, ma anche nella confezione dei prodotti. È il noto
tema degli organismi geneticamente modificati (OMG, vedi l‟articolo di
Antonietta Lupo). Anche questo tema presenta notevoli varianti e non è quindi
suscettibile di una soluzione univoca: in alcuni casi la mutazione genetica
preserva da malattie o crea un valore energetico o di conservabilità ulteriore; in
altri, invece, le qualità del prodotto vengono alterate in modo da creare
incertezze sulla sua salubrità, o anche semplicemente da privarlo dei tratti
naturali che lo contraddistinguono.
Molti problemi giuridici vi sono connessi: l‟applicazione del principio di
precauzione, il sistema delle verifiche, la “sovranità alimentare” (sulla quale v.
l‟articolo di Angelo Rinella), ma sono di grande rilievo anche i problemi che ne
derivano sul tessuto produttivo dell‟agricoltura, sul contesto sociale che lo
esprime e anche sull‟assetto del territorio perché gli OMG favoriscono
coltivazioni standardizzate e molto estese12.
Anche a prescindere della diffusione degli OMG, la produzione agricola ha
subito una trasformazione. Il settore veniva definito come “primario” non solo
per l‟importanza basica del cibo ma anche perché assorbiva la più alta
percentuale di addetti. Questa percentuale è progressivamente diminuita negli
ultimi decenni pur con l‟aumento della produzione, a vantaggio del settore
industriale di trasformazione e commercializzazione, che ha assunto una
rilevanza centrale fino a configurare i produttori agricoli come subfornitori delle
imprese industriali13. Questo insieme di ragioni mette in crisi le piccole unità
produttive, rende più precaria la tutela della biodiversità e si trova quindi in
rapporto conflittuale con le esigenze ambientali.
Diritto al cibo e diritto ambientale possono quindi avere un rapporto
conflittuale. È ormai una vicenda comune al rapporto fra vari diritti
fondamentali, come la recente esperienza del conflitto tra diritto del lavoro e
diritto alla salute e all‟ambiente che si è avuta nel caso dell‟ILVA. La dottrina
giuridica, abituata all‟idea che nelle singole fattispecie vi sia un solo interesse
12
V. fra gli altri L. PAOLONI, Diritti degli agricoltori e tutela della biodiversità, Torino 2005.
A. JANNELLI, I prodotti agricoli tra alimenti e merci: alle radici della “eccezionalità” agricola,
in Riv. Dir. Agr. 2013, I, 425. E. ROOK BASILE, Prodotti agricoli, mercato di massa e
comunicazione simbolica, in Riv giur. agr. amb. 1995, 139.
13
9
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ANNO 2015 / NUMERO 1
primario al quale gli altri, secondari, si piegano, deve rivedere le proprie
categorie quando si trova di fronte a più interessi primari confliggenti.
Gli interessi ambientali e dell‟alimentazione possono avere, invece, un
rapporto di contemperamento se le attività produttive rispondono al principio di
“sostenibilità ambientale”.
È questo un profilo particolare del più generale problema dello “sviluppo
sostenibile” che venne elaborato nel Rapporto Brundtland nel 1987 dalla
Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED) istituita su mandato
dall‟Assemblea Generale dell‟ONU. È “sostenibile” lo sviluppo in grado di
«soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle future
generazione di soddisfare i propri».
Il successo che ha avuto questa nozione, almeno sul piano delle
enunciazione di principio, si spiega anche con il suo elevato grado di
indeterminatezza. Sviluppo e tutela ambientale vanno bilanciati, ma nessuna
indicazione se ne ricava in ordine al punto nel quale fissare l‟equilibrio tra i due
valori14. Qualche ulteriore implementazione si è avuta in seguito: nell‟Agenda
21, approvata Conferenza delle Nazioni Unite sull‟Ambiente e lo Sviluppo
(UNCED) a Rio de Janeiro nel 1992, si è introdotto un profilo di carattere
sociale stabilendo che “requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile” è
l‟eliminazione della povertà e una maggiore equità nella distribuzione delle
risorse tra le popolazioni del mondo (Principio 5). Il principio, poi inserito
nell‟ordinamento dell‟U.E. dal Trattato di Amsterdam (1997) (art. 2 Tratt.
C.E.), mantiene però un largo margine di indeterminatezza ed è stato oggetto di
critiche perché sembra assumere lo sviluppo come valore primario rispetto al
quale l‟ambiente funge solo da limite15.
14
Sul tema v. F. FRACCHIA, Il principio dello sviluppo sostenibile, in G. ROSSI (a cura di) Diritto
dell’ambiente, cit., p. 175 e l‟ampia bibliografia riportata; G. C ORSO, La valutazione del rischio
ambientale, ivi, p. 164
15
C. PETRINI, Terra madre, Firenze 2009. S. LATOUCHE, La scommessa della discrescita, 2006,
trad. it. V ed. Milano 2013, pag. 74 critica la nozione di sviluppo sostenibile che ha soppiantato
quella, più appropriata, di “ecosviluppo” (Conf. ONU Stoccolma 1972).
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Negli ultimi anni ha incominciato a svilupparsi una nuova convinzione: i
modelli di produzione e consumo del cibo possono avere, invece, un rapporto
non solo di contemperamento ma anche sinergico con quelli di cura
dell‟ambiente se avvengono con modalità che non si limitano a diminuire gli
inconvenienti ecologici ma costituiscono essi stessi uno strumento di tutela
ambientale impedendo il degrado del terreno, evitando sia la deforestazione che
la perdita di spazi coltivabili, con sistemi di irrigazione che ottimizzino il
consumo e il recupero idrico, salvaguardando la biodiversità, e con varie altre
misure che sono oggetto delle riflessioni e degli studi “agroalimentari” e
“agroecologici”16.
Alcune correnti di pensiero teorizzano un ritorno al passato e una
“decrescita” sulla base di una diversa scala di valori17. Sono posizioni opinabili
come lo sono quelle che vi si oppongono. Non è vero, però, che il contrasto al
deterioramento progressivo dell‟ambiente debba avvenire necessariamente con
modalità che si oppongono alle necessità di uno sviluppo che sappia soddisfare
anche le accresciute esigenze alimentari delle popolazioni. Le stesse
multinazionali dell‟alimentazione, che hanno contribuito oltremisura a
standardizzare la produzione agricola e il consumo alimentare, si vedono ora
costrette a prendere in considerazione la prospettiva di lungo periodo che, salvo
inversioni degli attuali orientamenti, lascia prevedere, senza catastrofismi,
scenari decisamente preoccupanti.
Non mancano conferme del fatto che la consapevolezza dell‟emergenza
ambientale possa comportare, anziché un freno, una nuova fonte di sviluppo.
Basti pensare al consistente sviluppo delle energie rinnovabili, all‟evoluzione
che è in atto nel ciclo dei rifiuti che da costo per chi li produce e per la
collettività che deve assicurarne lo smaltimento stanno diventando una nuova
materia prima.
Con maggiore ritardo un cambiamento analogo ha iniziato a prodursi nel
settore agroalimentare dove il cibo naturale ha acquisito valore economico e le
forme di associazionismo e cooperativismo fra i produttori e fra i consumatori si
stanno sviluppando.
16
V. fra gli altri A. LERNER, Ecologia, persona, solidarietà: un nuovo ruolo del diritto civile, in
Tecniche giuridiche e sviluppo delle persone N. LIPARI a cura di, Bari 1974, 353. V. l‟ampia
bibliografia contenuta nell‟art. di M. MONTEDURO.
17
S. LATOUCHE, La scommessa della decrescita, cit.
11
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Gli interessi dell‟ambiente e gli interessi dell‟alimentazione possono quindi
essere, e in parte già lo sono, non solo non oppositivi o compatibili ma anche
sinergici.
4.
Studi, collegati o integrati
Questa evoluzione ha comportato, da parte degli studiosi di scienze sociali,
la nascita di un tipo integrato di studi che tengono insieme i profili
dell‟agricoltura, dell‟alimentazione e dell‟ecologia, intesa come studio
dell‟insieme di fattori produttivi, sociali, di assetto del territorio che determina
la conservazione della natura e la qualità della vita. Se è vero, come osservava
Romagnosi18, che nessuna delle scienze umane è autosufficiente e che ogni
specializzazioni deve comprendere, almeno nei profili essenziali, la conoscenza
dei dati, delle informazioni, delle “scoperte” che vengono da altri settori, ciò è
vero in modo evidente nelle materie dell‟ambiente e dell‟alimentazione.
Pur nella innegabile connessione delle problematiche affrontate da queste
due “discipline”, sono state fin ora molto pochi gli studi che ne hanno
dimostrato consapevolezza. Nei lavori, anche di carattere trattatistico, di diritto
dell‟ambiente sono comprese analisi dei settori che sono interferenti (come
l‟energia, l‟acqua, l‟assetto urbanistico). Non si fa, invece riferimento ai
problemi dell‟alimentazione.
Allo stesso modo, per chi si è occupato di questi ultimi la problematica
ambientale è rimasta solo sullo sfondo.
Gli ultimi avvenimenti, e fra questi certamente la manifestazione dell‟EXPO,
potranno contribuire a rimuovere questa separatezza. Se poi ciò produrrà o no
una disciplina integrata, l’agriecological law che alcuni stanno teorizzando
(vedi l‟articolo di Massimo Monteduro), è ancora presto per dirlo perché, come
si è prima visto nell‟esame separato delle due problematiche, si tratta di un
evoluzione che è in atto ed è lontana dal trovare forme di assestamento. È
comunque essenziale che entrambi i settori di studi, pur procedendo con la
18
G. D. ROMAGNOSI, Della necessità di unire lo studio della politica economica con quello della
civile giurisprudenza, in Annali universali di statistica 1932, vol. XXXIII.
12
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
propria specializzazione, perdano però i caratteri di una, infondata,
autosufficienza.
Dallo studio congiunto19, o effettuato separatamente ma con informazione
reciproca e con consapevolezza delle interconnessioni, può derivare un
arricchimento complessivo. Si è visto che il diritto dell‟alimentazione ha
recepito il principio di precauzione elaborato con riferimento al diritto
dell‟ambiente. Altri principi e acquisizioni potrebbero trasmigrare fra i due
settori, come quello della responsabilità estesa del produttore, o, al contrario,
della rilevanza dei luoghi e dei processi di produzione nelle fasi successive della
filiera di conservazione, trasformazione e commercializzazione.
Le reciproche consapevolezze potranno offrire spunti e stimoli ulteriori per il
recupero di un uso del territorio confacente alle esigenze della natura, degli
esseri umani e delle loro collettività pur in un contesto nel quale l‟evoluzione
tecnologica rende incontrastabile un grado consistente di apertura dei sistemi e
di globalizzazione dell‟economia20.
Nell‟articolo di Fiammetta Mignella Calvosa, Fiammetta Pilozzi, Simona
Totaforti, si osserva giustamente che la tutela e la valorizzazione delle
eterogeneità locali e delle tradizioni produttive particolari rappresentano forme
di conservazione dinamica della biodiversità, ma anche di recupero e diffusione
delle varietà autoctone intese come serbatoi di conoscenza e cultura materiale
da tramandare.
La rinnovata centralità della “multifunzionalità agricola” evidenzia
l‟attitudine del settore “primario” a fornire un contributo materiale e culturale al
rapporto ambiente-società.
19
V. fra tanti S. CARMIGNANI, Agricoltura e ambiente. Le reciproche implicazioni, Torino 2012.
Sul tema v. G. ROSSI, Pubblico e privato nell’economia semiglobalizzata, in Riv. It. Dir. pubbl.
comm. 2014, I, p.1. Sulle tensioni che si determinano nei settori inevitabilmente connessi al
territorio e, insieme, coinvolti nei processi di delocalizzazione v. G. ROSSI, Parte generale, cit.
p. 53.
20
13
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ABSTRACT
Giampaolo Rossi – Diritto dell’ambiente e diritto dell’alimentazione
Le due discipline hanno avuto un percorso analogo: il diritto dell‟ambiente si è
“materializzato” solo di recente; anche il diritto dell‟alimentazione ha assunto
solo negli ultimi tempi un particolare interesse, tanto da indurre i giuristi di
varie discipline a farne oggetto di studi specifici fino a rivendicarne una
autonomia scientifica. Che fra “ambiente” e “alimentazione” vi sia una
interazione è di tutta evidenza. Entrambe le tematiche sono strettamente
connesse all‟assetto e alla salubrità del territorio, al clima, alle risorse idriche,
alle condizioni di vita delle popolazioni. In realtà fra “ ambiente” e
“alimentazione” i rapporti possono essere di conflittualità, di contemperamento
o di sinergia. Gli studi delle due problematiche devono quindi mantenersi
separati ma nella piena consapevolezza delle interrelazioni che intercorrono fra
le stesse e dalle quali può derivare un reciproco arricchimento.
The two disciplines have had a similar path: the right of environment has
"materialized" only recently; also the right for food has only recently taken a
particular interest, so much so that lawyers from various disciplines to make
them the subject of specific studies to vindicate a scientific autonomy. That
between "environment" and "nutrition" there is an interaction is quite evident.
Both issues are closely related to the spatial idea and health of the land,
climate, water resources, living conditions of the populations. Indeed between
"environment" and "nutrition" relations may be of conflict, of reconciliation or
synergy. Studies of the two issues should therefore remain separate but in the
full knowledge of the interrelationships that exist between them and which pose
a mutual enrichment.
14
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ANGELO RINELLA*
“Food Sovereignty”
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Food Sovereignty: origini ed evoluzione di
un’idea – 3. La sovranità alimentare di fronte all’attuale “food system” – 4. Il
quadro economico-sociale di contesto: povertà, fame e malnutrizione – 5.
Politiche agricole e distorsioni del mercato quali fattori di incidenza sulle
condizioni delle aree rurali – 6. Cenni conclusivi: aree di intervento e politiche
di attuazione della Food Sovereignty.
1. Premessa.
Il concetto di food sovereignty pone una questione di ordine globale che
vede da un lato il ruolo che viene svolto da quella rete internazionale di soggetti
governanti l’economia internazionale (WTO, FMI, World Bank) secondo
categorie neoliberali, e dall'altra il dilagante problema della fame, della
malnutrizione e della povertà che minaccia in prospettiva, specie per le sue
implicazioni sociali e demografiche, anche le nazioni ricche.
Per altro verso, la food sovereignty richiama l’attenzione anche su quelle
politiche nazionali che possono essere rivolte a ridurre la povertà nelle aree
rurali e a eliminare la malnutrizione e la fame. In linea di principio, il
riconoscimento e la corretta applicazione del “diritto al cibo” costituiscono uno
strumento giuridico in grado di assicurare, all’interno di uno Stato, standard
legali e misure politiche di contrasto alla fame e alla malnutrizione. Dunque, il
concetto di sovranità alimentare richiama necessariamente la questione del
diritto al cibo, inteso come fondamentale diritto umano dal quale scaturiscono,
anche in virtù dei trattati internazionali sui diritti umani, una serie di obblighi a
carico degli Stati.
Si stima che per i prossimi quattro decenni la maggioranza della
popolazione povera mondiale continuerà a vivere nelle aree rurali. Le politiche
coerenti con l’idea di sovranità alimentare rappresentano dunque un importante
*
Ordinario di Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di
Roma LUMSA.
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
contributo alla ricerca di vie alternative e innovative per contrastare il fenomeno
della fame e della malnutrizione. Il punto di partenza comune rinvenibile nel
dibattito internazionale sul tema della food sovereignty sta nella potenziale
idoneità delle politiche correlate a questo concetto a far fronte alla fame e alla
povertà nelle aree rurali.
Il dibattito contemporaneo sul tema vede coinvolti soggetti della società
civile e istituzioni internazionali, oltre che esponenti del mondo scientifico
impegnati a ricercare risposte credibili alle questioni nascenti intorno all’idea di
sovranità alimentare. La ricchezza del dibattito in corso e delle sollecitazioni
provenienti da attori nazionali e internazionali, le interpretazioni e le espressioni
delle politiche agricole praticate in varie parti del mondo che pure si ispirano
all’idea della food sovereignty, rappresentano ancora oggi una sorta di
caleidoscopio che non consente di definire un modello unitario di sovranità
alimentare; appare piuttosto un concetto dinamico, che può fare da incubatore
per nuove idee e da motivo ispiratore per nuove politiche.
2. Food Sovereignty: origini ed evoluzione di un’idea.
In occasione della Conferenza Internazionale promossa da Via
Campesina, a Tlaxcala, in Messico, nell’aprile del 19961, venne forgiata l’idea e
il concetto di food sovereignty con lo scopo di incoraggiare, a livello globale, le
Organizzazioni non governative e le Organizzazioni della società civile a
discutere e avanzare proposte alternative al sistema economico neoliberale per il
conseguimento di condizioni di food security.
«We, the Via Campesina, a growing movement of farm workers, peasant,
farm and indigenous peoples’ organizations from all the regions of the world,
know that food security cannot be achieved without taking full account of those
who produce food. Any discussion that ignores our contribution will fail to
1
VIA CAMPESINA, Tlaxcala Declaration of the Via Campesina, Tlaxcala, Mexico, 18-21 Aprile
1996, www.virtualsask.com/via/lavia.deceng.html. Per una più ampia ricostruzione delle origini
del concetto cfr. H. WITTMAN - A. DESMARAIS - N. WIEBE, The Origins and Potential of Food
Sovereignty, in ID. (eds), Food Sovereignty: Reconnecting Food, Nature and Community,
Fernwood Publishing, Halifax-Winnipeg, 2010; W. SCHANBAKER, The Politics of Food: the
Global Conflict between Food Security and Food Sovereignty, Praeger, Santa Barbara (CA),
2010.
16
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
eradicate poverty and hunger. Food is a basic human right. This right can only
be realized in a system where Food Sovereignty is guaranteed»2.
Da questa prima e sintetica definizione emerge che uno dei punti centrali
del concetto di food sovereignty è il diritto dei piccoli produttori agricoli di
partecipare al processo produttivo del cibo che, allo stato attuale, è controllato e
governato in base alle politiche di regolazione del commercio agroalimentare
internazionale. Si tratta di politiche producono i loro effetti anche verso i paesi
in via di sviluppo; anzi, potremmo dire che si impongono come condizioni di
accesso al mercato; si tratta di politiche regolamentari scaturite dagli organismi
che operano in seno al WTO e nell’ambito dei programmi di adeguamento
strutturale dei sistemi economici e produttivi locali.
Secondo Via Campesina, la food sovereignty è in primo luogo «the right
of each nation to maintain and develop their own capacity to produce foods that
are crucial to national and community food security, respecting cultural
diversity and diversity of production methods».
Dunque, evocare la sovranità con riferimento ai processi di produzione e
commercializzazione del cibo, implica evidentemente prospettare un sistema
alternativo alle politiche commerciali dominanti su scala internazionale.
In occasione del World Food Summit di Roma, nel 1996, Via Campesina
presentò un documento 3 nel quale si dichiarava che «Food Sovereignty is a
precondition to genuine food security» e che il “diritto al cibo” costituisce uno
strumento essenziale per assicurarla. In questo stesso documento, che poi ha
costituito la base per successive e ulteriori dichiarazioni, Via Campesina ha
indicato sette principi cui si ispira l’idea della food sovereignty:
a) Food: a Basic Human Right
b) Agrarian Reform
c) Protecting Natural Resources
d) Reorganizing Food Trade
e) Ending the Globalization of Hunger
f) Social Peace
g) Democratic Control
2
VIA CAMPESINA, Food Sovereignty: A Future without Hunger, Roma, 11-17 Novembre 1996,
www.viacampesina.org/imprimerphp3?id_article=38.
3
VIA CAMPESINA, Food Sovereignty: A Future without Hunger, cit.
17
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Secondo la concezione promossa da questo movimento, il diritto al cibo
rappresenta un fondamentale diritto umano. Ogni persona dovrebbe avere il
libero accesso ad un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato; la qualità
e la quantità del cibo accessibile deve essere idoneo ad assicurare una vita sana
e la piena dignità umana. Inoltre, secondo questa prospettiva, ogni Stato
dovrebbe includere il diritto al cibo tra i diritti costituzionalmente garantiti e
sostenere lo sviluppo del settore primario al fine di assicurare la concreta
realizzazione e applicazione del fondamentale diritto al cibo.
In questa prospettiva, diventa essenziale una riforma agraria che assegni
ai coltivatori privi di terra, e in particolare le donne, il controllo della terra che
coltivano e che consenta il ritorno alle loro terre delle popolazioni indigene. Il
diritto alla terra da coltivare deve essere garantito senza discriminazioni di
ordine religioso, razziale, sociale o ideologico; le terre appartengono a coloro
che le coltivano. Questi, organizzati in imprese familiari o piccole proprietà,
devono poter accedere agli strumenti che offre la tecnologia, ai servizi offerti
dal mercato e al credito. A garanzia dei finanziamenti bancari dovrebbe essere
posta non tanto la proprietà della terra quanto la capacità di coltivarla. Per
incoraggiare i giovani a rimanere nelle campagne e nelle comunità rurali come
cittadini attivi, è necessario che il lavoro svolto nel processo di produzione del
cibo sia sufficientemente valutato sul piano economico e sociale. In tal senso i
governi nazionali dovrebbero da un lato istituire e sostenere un sistema di
credito rurale su base locale destinato a sostenere in via prioritaria la produzione
di cibo per il consumo locale e, dall’altro, investire risorse pubbliche a lungo
termine per sviluppare infrastrutture rurali socialmente ed ecologicamente
appropriate. Attraverso queste misure, sostiene Via Campesina, si favorirebbe la
sovranità alimentare.
Inoltre, i popoli che lavorano la terra devono poter esercitare anche il
diritto di gestire in modo sostenibile le risorse naturali di cui si avvalgono e
preservare la diversità biologica. Le risorse naturali sulle quali si estende la
sovranità alimentare sono principalmente la terra, l’acqua, le sementi ed il
bestiame allevato. L’uso sostenibile di queste risorse, nel lungo periodo,
richiede che sia interrotta la dipendenza dai preparati chimici, dalle monoculture
intensive, dai modelli di produzione industrializzata.
In altre parole, l’idea di sovranità alimentare si associa alla tutela delle
risorse naturali nel senso di un recupero di quella tradizione agricola
18
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
appartenente all’umanità, che si è andata sviluppando attraverso l’esperienza di
generazioni di uomini che hanno lavorato la terra e dei popoli indigeni. Le
condizioni di commercializzazione e di brevetto imposte dalle multinazionali,
supportate dai regolamenti del WTO, sono del tutto incompatibili con l’idea di
sovranità alimentare. Le comunità rurali locali hanno il diritto, secondo questa
visione, di fare libero uso e di tutelare le risorse naturali tradizionali che
appartengono alla storia di quei popoli e proteggere la biodiversità. Il modello
di produzione agricola dovrebbe valorizzare la biodiversità piuttosto che
l’industrializzazione. La biodiversità tiene conto dell’esperienza dei popoli
indigeni e dei coltivatori diretti che nel corso di 12.000 anni, e attraverso il
libero scambio delle stesse risorse, hanno costituito un patrimonio comune di
risorse e di conoscenze. L’avvento dell’agricoltura industriale e la
globalizzazione dei mercati ha profondamente indebolito i processi tradizionali
basati sulla biodiversità e, con l’introduzione degli organismi geneticamente
modificati, ne ha compromesso il valore e l’utilità.
È del tutto evidente che, alla luce di queste considerazioni, sia necessario
prospettare anche una riorganizzazione del sistema di commercio del cibo. Il
punto da cui Via Campesina intende muovere è che il cibo rappresenta in primo
luogo una risorsa per il nutrimento degli esseri umani e solo secondariamente
un bene di commercio.
Le politiche agricole nazionali dovrebbero anzitutto privilegiare la
produzione di cibo sufficiente per il consumo nazionale; l’importazione di cibi
da altri paesi non dovrebbe porsi in contrasto con la produzione locale né
determinare un crollo dei prezzi incompatibile con le condizioni effettive di
produzione e distribuzione del cibo al livello locale e nazionale. I piccoli
produttori e le imprese agricole familiari locali hanno il diritto di controllare il
mercato locale per assicurare il giusto compenso per il lavoro svolto. È
inaccettabile, secondo la logica della sovranità alimentare, che il commercio
internazionale del cibo finisca per colpire i soggetti più deboli della catena,
estromettendoli dal mercato, e per di più determinando un degrado progressivo
dell’ambiente attraverso metodiche di coltivazione non rispettose della
biodiversità e delle risorse naturali.
Le istanze che scaturiscono dalla Food Sovereignty conoscono l’aperta
avversione delle multinazionali che hanno visto costantemente incrementarsi il
controllo da parte loro sulle politiche commerciali nel settore
19
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
dell’agroalimentare; a tal proposito, i protagonisti del capitalismo speculativo a
livello internazionale sono stati facilitati dalle politiche economiche e
regolamentari promosse da organismi multilaterali come il WTO, la World Bank
e l’IMF. A queste politiche si contrappone la prospettiva avanzata da Via
Campesina che vuole agire nel senso di porre fine ai processi di globalizzazione
delle condizioni di povertà e fame.
Infatti, i movimenti che sostengono la sovranità alimentare si fanno
portavoce anche di quelle popolazioni che, nei loro paesi, soffrono un costante
incremento dei livelli di povertà e di emarginazione. In questi paesi, il “cibo”, o
meglio le condizioni di accesso al cibo, vengono utilizzate come un’arma: uno
strumento di oppressione delle minoranze etniche e delle popolazioni indigene;
un sistema di consolidamento delle ingiustizie sociali. Contro la violenza che fa
uso dell’arma del cibo, la sovranità alimentare sostiene l’idea di una pace
sociale.
Infine, la sovranità alimentare implica anche il controllo democratico da
parte dei piccoli coltivatori sulla elaborazione delle politiche agricole, a
qualunque livello di governo. Le Nazioni Unite e gli organismi internazionali,
in particolare, dovrebbero avviare un processo di riforma interna che assicuri
l’effettiva partecipazione democratica degli individui ai meccanismi decisionali
in vista dell’adozione di quelle misure che incidono su scala globale sul ciclo
produttivo del cibo.
A partire dal documento diffuso nel 1996, numerose altre dichiarazioni
sono intervenute sul tema della sovranità alimentare. Gli stessi principi posti a
base della prima dichiarazione di Roma del 1996 sono stati progressivamente
riformulati in modo da individuare obiettivi politici più concreti4.
Nel luglio del 2004, la Asian Civil Societies Organization pubblica un
progetto di Convention for Food Sovereignty, al cui articolo 2 si legge: «in base
a questa Convenzione, la sovranità alimentare costituisce il diritto dei popoli e
delle comunità di decidere e di attuare le loro politiche agricole e alimentari e
4
Tra gli altri contributi, si vedano: S. SUPPAN, Food Sovereignty in the Era of Trade
Liberalization: Are Multilateral Means Feasible?, IATP, Geneva, 2001; VIA CAMPESINA, What is
Food Sovereignty?, 2003, www.viacampesina.org/IMG/_article_PDF/article_216.pdf; IATP (ed),
Toward Food Sovereignty: Constructing an Alternative to the World Trade Organization’s
Agreement on Agriculture Farmers, Food and Trade, International Workshop on the Review of
the AoA, Geneva, 2003; M. RITCHIE, A Constructive Approach towards Agricolture, Food and
Water in Cancun, IATP, Minnesota (USA), 2003.
20
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
le strategie per una produzione e distribuzione sostenibile del cibo. Essa
comporta il diritto a un cibo adeguato, sano, nutritivo e culturalmente
appropriato e il diritto a produrre cibo in modo sostenibile ed ecologico. Essa
comporta inoltre il diritto di accedere alle risorse naturali come la terra,
l’acqua, le sementi per un utilizzo sostenibile e nella tutela della biodiversità».
Questo documento ha fornito le basi argomentative ai diversi movimenti
internazionali sensibili al tema della sovranità alimentare, per avanzare apposite
istanze nei confronti dei rispettivi governi riguardo alle riforme agricole e alle
nuove politiche sul cibo.
Nella dichiarazione di Nyéléni (Sélingué, Mali) del 27 febbraio 2007, i
partecipanti al Forum for Food Sovereignty, in rappresentanza di ottanta paesi e appartenenti a organizzazioni contadine, pescatori tradizionali, popoli
indigeni, popoli senza terra, lavoratori rurali, migranti, allevatori nomadi,
comunità che vivono nelle foreste, movimenti ecologisti e urbani - hanno
rielaborato i principi cardine della sovranità alimentare, offrendone una
definizione articolata.
«La sovranità alimentare è il diritto dei popoli ad un cibo nutritivo e
culturalmente adeguato, accessibile, prodotto in forma sostenibile e ecologica,
nonché il diritto di poter determinare il proprio sistema alimentare e e di
produzione degli alimenti.
Questa sovranità pone coloro che producono, distribuiscono e
consumano alimenti nel cuore dei sistemi e delle politiche alimentari e al di
sopra delle esigenze dei mercati e delle imprese.
Essa difende gli interessi e l’integrazione delle generazioni future.
Sostiene le scelte politiche secondo cui i sistemi alimentari, agricoli, di
pastorizia e di pesca siano gestiti dai lavoratori locali.
La sovranità alimentare dà priorità all’economia e ai mercati locali e
nazionali, attribuendo le scelte strategiche ai contadini, alle imprese agricole
familiari, alla pesca e all’allevamento tradizionali e assicura che la
produzione, la distribuzione e il consumo del cibo, si svolgano sulla base di una
sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
La sovranità alimentare promuove un commercio trasparente che possa
garantire un reddito dignitoso per tutti i popoli e il diritto per i consumatori di
controllare il proprio cibo e la propria nutrizione. Essa garantisce che i diritti
di accesso e di controllo e gestione delle nostre terre, dei nostri territori, della
21
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
nostra acqua, delle nostre sementi, del nostro bestiame e della biodiversità,
siano in mano a coloro che producono il cibo.
La sovranità alimentare implica delle nuove relazioni sociali, libere da
oppressioni e disuguaglianze fra uomini e donne, popoli, razze, classi sociali e
generazioni.»
La letteratura politica e sociale che ha preceduto e seguito la
dichiarazione di Nyéléni mostra che sostanzialmente i principi della sovranità
alimentare conservano il loro originario significato; cambiano invece gli
elementi che vengono di volta in volta evidenziati o le problematiche sulle quali
si intende attirare maggiormente l’attenzione. Tutte le dichiarazioni e i
documenti esordiscono in genere con il riconoscimento della necessità di
mutamenti radicali nelle politiche agricole, sia a livello nazionale che
internazionale, per superare i problemi della fame e della povertà.
Da un’analisi comparativa dei documenti emerge che almeno le seguenti
cinque questioni sono abitualmente considerate:
1. Per quanto l’idea di Food Sovereignty sembri evocare una dimensione
internazionale, chiamando in causa per l’appunto la sovranità degli Stati, in
realtà essa viene sempre riferita anche alla dimensione nazionale e locale dei
problemi connessi alle politiche agricole. In particolare si sottolinea la necessità
di riforme agrarie che consentano il libero accesso alle terre; riforme che
richiedono un intervento dei governi nazionali e locali.
2. In tutti i documenti si sottolinea come le politiche commerciali nel
settore agro alimentari richiedono un cambiamento sostanziale. L’orientamento
contro-egemonico dei movimenti che si ispirano all’idea di sovranità alimentare
è in aperta contrapposizione con l’attuale regime che vede le multinazionali del
comparto agro alimentare governare, con il sostegno degli organismi
internazionali preposti al commercio, il mercato globale e le politiche agricole.
3. Una terza questione, strettamente connessa a quella precedente e che
emerge in tutti i documenti, riguarda il tema della sovranità rispetto alle sementi
e al bestiame allevato. Numerose Organizzazioni non governative e
Organizzazioni della società civile denunciano in termini forti la posizione
dominante delle multinazionali che operano nella commercializzazione dei
prodotti agricoli e che esercitano i diritti di proprietà intellettuale su brevetti
relativi a beni e prodotti della catena di produzione alimentare (in particolare,
sementi, prodotti per l’allevamento del bestiame, prodotti e servizi
22
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
indispensabili alla protezione delle coltivazioni e del bestiame dalla aggressione
di agenti biologici, eccetera.)
4. Il rigetto di ogni forma di monopolio nel settore agroalimentare risulta
ampiamente respinta in quasi tutti i documenti che si ispirano alla sovranità
alimentare.
5. Viene altresì condannata ogni forma di privatizzazione delle risorse
naturali che potenzialmente può condurre a un regime di monopolio su beni e
risorse comuni quali, ad esempio, l’acqua potabile.
“Right to adequate food” e “Food security” sono concetti correlati a
quello di sovranità alimentare e strettamente correlati ai temi delle aree rurali
più povere e della fame cronica che offende alcune popolazioni del mondo. Si
tratta tuttavia di concetti che oltre a distinguersi per il significato e i principi che
esprimono, si collocano altresì su piani diversi ancorché complementari.
Il diritto al cibo rappresenta uno dei diritti umani di base, riconosciuto già
dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite (1948).
In quanto diritto riconosciuto in capo ai singoli, ciascuna persona può chiederne
la piena applicazione nei confronti dei propri governanti, qualora si tratti
ovviamente di Stati parte dei trattati internazionali. Lo Stato e la comunità
internazionale degli Stati hanno l’obbligo di tutelare, rispettare, garantire e
rendere effettivo il diritto al cibo attraverso politiche attive che determinino
condizioni di sicurezza alimentare. Dunque il diritto al cibo assume una
connotazione non solo valoriale e politica, ma anche strettamente giuridica;
tant’è vero che lo si ritrova proclamato anche in molte Carte costituzionali con
tutte le implicazioni che da questo derivano.
Il concetto di sicurezza alimentare (Food Security), esprime un
complesso di finalità e obiettivi piuttosto che delle azioni concrete. Nel 1996, in
occasione del World Food Summit, si formulò la seguente definizione: «Food
security existing when all people at all times have access to sufficient, safe,
nutritious food to maintain a healthy and active life».
La sicurezza alimentare, dunque, è una condizione che può essere
perseguita dalle pubbliche autorità attraverso politiche che di volta in volta
saranno ritenute opportune in relazione alle caratteristiche del sistema sociale,
economico e politico del paese. Si tratta di un concetto piuttosto vago, di per sé
non idoneo a imporre vincoli giuridici ai governi; manca infatti ogni riferimento
a meccanismi o strumenti che possano imporre questo obiettivo ai governi degli
23
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Stati; manca inoltre, nei documenti che richiamano il concetto di sicurezza
alimentare, ogni riferimento ai mezzi attraverso i quali essa può essere
conseguita né offre ai governanti criteri e orientamenti definiti per attivare
particolari politiche idonee ad realizzare la sicurezza alimentare5.
3. La sovranità alimentare di fronte all’attuale governance del “global food
system”.
La crisi alimentare nel 2007 ha messo in luce come l’attuale regime dei
processi di produzione e distribuzione del cibo (food system) a livello globale
presenti un accentuato grado di volatilità, di imprevedibilità, di pericolosità per
le popolazioni povere e, in definitiva, di iniquità.
Alla radice dei movimenti che si ispirano all’idea della sovranità
alimentare sta la convinzione che il cibo non può essere trattato come un
qualunque altro bene di consumo.
L’attuale sistema di produzione del cibo a livello globale nasce
all’indomani della seconda guerra mondiale ed è, al momento, sotto il controllo
delle multinazionali agro-alimentari e del WTO. Questo assetto ha determinato
condizioni di iniquità su scala mondiale.
In primo luogo, l’attuale sistema attribuisce ai paesi cosiddetti sviluppati
e industrializzati una serie di vantaggi sproporzionati; questi paesi sostengono
in modo consistente i propri agricoltori a differenza di quanto avviene nei paesi
in via di sviluppo dove gli agricoltori, per carenza delle risorse, non ricevono
alcun supporto dai propri Stati nazionali e dunque non riescono a mettere in
campo azioni adeguate per controbilanciare la situazione di squilibrio. Questo
sistema tende a penalizzare e emarginare i piccoli produttori e i paesi non
industrializzati.
Da parte sua, inoltre, il WTO esercita un potere di interferenza e di
influenza sulle politiche agricole statali che appare obiettivamente abnorme. La
5
Cfr. T. POGGE, World Poverty and Human Rights, 2nd ed., Polity Press, Cambridge, 2010; ID., A
Cosmopolitan Perspective on the Global Economic Order, in G. BROCK - H. BRIGHOUSE (eds),
The Political Philosophy of Cosmopolitanism, Cambridge University Press, Cambridge, 2005.
24
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
regolamentazione dettata dal WTO favorisce le multinazionali del settore
agroalimentare a danno dei produttori che operano su piccola scala.
Infine, la produzione agricola intensiva sostenuta, soprattutto nei riguardi
dei paesi in via di sviluppo, dagli organismi internazionali che governano i
flussi finanziari, danneggia la biodiversità e presenta forti implicazioni negative
per l’ambiente e la salute umana.
Contro questo regime, i promotori della sovranità alimentare mettono in
luce come tale sistema presenti numerosi fallimenti ed è pertanto bisognoso di
una radicale riforma. In estrema sintesi i punti che emergono dal dibattito
attuale sono i seguenti6:
- quanto alla produzione, la prima questione da definire riguarda le
politiche commerciali che hanno ad oggetto prodotti alimentari. Il cibo non può
essere assoggettato agli stessi accordi di commercio internazionale che
governano il commercio degli altri beni di consumo; l’accesso al cibo è un
bisogno essenziale ed è un diritto fondamentale.
- Allo stato attuale gli accordi internazionali privilegiano la quantità
rispetto alla qualità e alla biodiversità (la varietà dei prodotti). Un sistema
ispirato ai principi della sovranità alimentare pone al primo posto nella
gerarchia dei valori da preservare la biodiversità, la tutela dell’ambiente e della
salute umana, la giustizia sociale. Il cibo, per le funzioni che assolve, non può
ricadere sotto le ordinarie norme regolamentari che disciplinano il commercio
internazionale; si deve riconoscere la sua condizione speciale e
conseguentemente sottoporlo a una disciplina speciale.
- I sostenitori della sovranità alimentare richiamano anche il principio di
sussidiarietà. Essi infatti criticano l’enorme potere che al momento è
riconosciuto al WTO e alle multinazionali del settore agroalimentare (Monsanto,
Cargill, Syngenta, DuPont, Basf, Bayer Dow, ADM, Bunge, Dreyfuss, ecc.);
sostengono la necessità che la governance del cibo venga restituita ai livelli di
governo locale, affinché siano preferite politiche di sostegno alla produzione
locale commisurata ai bisogni locali, piuttosto che alle colture intensive e
devastanti del territorio.
6
Cfr. K. ISSAOUI - MANSOURI, Food Sovereignty as Emerging Concept, in Philippine Journal of
Third World Studies, 2011, 26, pp. 11-21; J.F. ARIATE, Doubts and Dissents on Food Sovereignty,
in Philippine Journal of Third World Studies, 2011, 26, pp. 378-382; V. FABE, International Food
Organizations, Global Summits, and People’s Movements, in Philippine Journal of Third World
Studies, 2011, 26, pp.435-441.
25
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
- Affermare il principio di sussidiarietà non significa sostenere
l’autarchia; piuttosto si guarda ad un sistema sostenibile che tenda a trasferire il
potere decisionale al livello di governo più prossimo ai cittadini.
- Le politiche di liberalizzazione degli scambi commerciali perseguite dal
WTO e dal IMF hanno messo in ginocchio le economie agricole dei paesi più
deboli. Infatti, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno
orientato i loro finanziamenti in modo da indurre i governi dei paesi del sud del
mondo a smantellare Le politiche di sostegno all’agricoltura locale, ad aprire i
mercati nazionali a operatori internazionali, a meccanizzare la produzione
agricola per intensificare la produzione e favorire l’esportazione a basso costo;
in definitiva, hanno sostenuto riforme che gradualmente hanno emarginato
quelle iniziative economiche agricole di piccola dimensione o familiari che
garantivano alle popolazioni locali l’accesso al cibo.
- Per quanto riguarda la distribuzione dei prodotti agroalimentare, i
movimenti sostenitori della sovranità alimentare promuovono una
semplificazione della catena distributiva, basata sulla riduzione degli
intermediari tra produttori e consumatori, il contenimento dell’influenza (oggi
eccessiva) delle aziende della grande distribuzione, e il diritto ad una
informazione corretta sul cibo a favore dei consumatori obbligo di apporre
l’etichetta sui prodotti).
- Infine, la crescente dipendenza dei consumatori dai prodotti altamente
trasformati dovrebbe essere interrotta per restituire una posizione primaria ai
cibi organici e non trasformati.
In definitiva, il regime agro-alimentare tuttora vigente a livello globale è
un regime senza coltivatori 7 . I movimenti che promuovono la sovranità
alimentare denunciano alla comunità internazionale:
a) la necessità di riportare al centro del sistema il diritto al cibo;
b) il contrasto all’ingannevole affermazione secondo cui per assicurare il
nutrimento per la popolazione mondiale si deve garantire la food security,
attraverso un sistema di mercato cui solo una minoranza dei popoli a livello
mondiale partecipa;
7
Cfr. P. MCMICHAEL, Historicizing Food Sovereignty: a Food Regime Perspective, in AA.VV.,
Food Sovereignty: a Critical Dialogue, International Conference Yale University, September
2013.
26
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
c) la ricerca di soluzioni democratiche per la food security, che
garantiscano la tutela della salute umana e dell’ambiente.
4. Il quadro economico-sociale di contesto: povertà, fame e malnutrizione.
Le stime per il biennio 2011-2013 indicano che le persone al mondo che
soffrono di fame in cronaca e che non hanno cibo sufficiente per condurre una
vita sana e attiva sono 842 milioni, vale a dire circa una su otto.
Questo è il dato evidenziato dal rapporto annuale congiunto The State of
Food Insecurity in the World - SOFI 2013 pubblicato dalle agenzie alimentari
delle Nazioni Unite: l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura
(FAO), il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD) e il Programma
alimentare mondiale (PAM).
I dati indicano che il numero complessivo delle persone affette da fame
cronica è sceso rispetto agli 868 milioni del periodo 2010-12; i fattori che hanno
contribuito a determinare una maggiore disponibilità di cibo sono da ricondurre
alla costante crescita economica registrata nei paesi in via di sviluppo che ha
portato un miglioramento del reddito e un migliore accesso al cibo; una ripresa
della produttività agricola, sostenuta da un aumento degli investimenti pubblici
e da un rinnovato interesse degli investitori privati nel settore agricolo. Inoltre,
in alcuni paesi, le rimesse degli emigranti hanno avuto un ruolo importante
nella riduzione della povertà consentendo una maggiore sicurezza alimentare e
contribuendo, in alcuni casi, anche a stimolare investimenti produttivi da parte
dei piccoli agricoltori.
Nonostante i progressi compiuti a livello globale, persistono tuttavia
marcate differenze geografiche nella riduzione della fame. La stragrande
maggioranza delle persone che soffrono la fame vive ancora nei paesi in via di
sviluppo, mentre 15,7 milioni vivono nei paesi sviluppati.
L’Africa sud sahariana ha fatto molti progressi in questi ultimi anni
rimane la regione con la più alta percentuale di denutrizione con un africano su
quattro (24,8%) che ne soffre. Non si registrano progressi in Asia occidentale,
mentre l’Asia meridionale e l’Africa settentrionale hanno fatto piccoli passi
avanti.
27
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Riduzioni più consistenti, sia nel numero di affamati che nella diffusione
della denutrizione, si sono registrate nella maggior parte dei paesi dell’Asia
orientale, del Sud-est asiatico e dell’America Latina8.
Nella prefazione al rapporto i responsabili della FAO, dell’IFAD e del
PAM esortano i paesi a intervenire subito con maggior impegno; raccomandano
interventi in agricoltura e sui sistemi alimentari nel loro complesso. «Le
politiche volte a migliorare la produttività agricola e ad aumentare la
disponibilità di cibo, soprattutto per i piccoli agricoltori, possono conseguire
una riduzione della fame anche laddove la povertà è molto diffusa. Quando
sono associati con misure di protezione sociale che aiutano a far aumentare i
redditi delle famiglie povere, possono avere un effetto ancora più positivo e
stimolare lo sviluppo rurale, attraverso la creazione di mercati e opportunità di
lavoro, con una conseguente crescita economica equa».
Il rapporto, inoltre, sottolinea che la crescita economica è certamente
importante per il progredire nel processo di riduzione della fame cronica; ma di
per sé la crescita economica potrebbe non generare necessariamente posti di
lavoro, migliori opportunità e il reddito per tutti. E necessario a tal fine che
siano previste politiche specifiche per i poveri, soprattutto nelle aree rurali: «nei
paesi poveri, la riduzione della fame e della povertà potrà essere raggiunta con
una crescita che non solo deve essere sostenibile ma anche ampiamente
condivisa».
In altre parole, il problema della fame è principalmente un problema di
accesso al cibo, ha un salario sufficiente, alle risorse naturali che consentano
alla popolazione povera sia di produrre che di acquistare cibo sufficiente.
L’iniqua distribuzione del cibo, della terra e delle altre risorse naturali e
produttive sono la causa principale della fame e della malnutrizione.
8
FAO, IFAD, PAM, The State of Food Insecurity in the World SOFI 2013,
www.fao.org/docrep/018/i3434e/i3434e00.htm; dal 1990-92 ad oggi il numero totale delle
persone sotto nutrita nei paesi in via di sviluppo è sceso delle 17%, passando da 995,5 milioni a
826,6 milioni. Nonostante i dati siano disomogenei, il rapporto sottolinea come da disegno di
sviluppo nel loro insieme abbiano fatto notevoli progressi verso l’obiettivo di dimezzare la
percentuale di persone che soffrono la fame entro il 2015 (il primo degli Obiettivi di Sviluppo del
Millennio (MDG) concordati a livello internazionale). Se il calo medio annuo dal 1990 ad oggi
dovesse continuare sino al 2015, secondo le organizzazioni che hanno curato il rapporto la
percentuale di denutrizione riuscirebbe a raggiungere un livello vicino a quello richiesto
dall’obiettivo di sviluppo del millennio sulla fame nel mondo. Rimane invece fuori portata, a
livello globale, l’obiettivo più ambizioso fissato dal World Food Summit del 1996 (WFS), di
dimezzare il numero delle persone che soffrono la fame entro il 2015.
28
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La metà della popolazione mondiale affetta da fame cronica vive in aree
rurali; le condizioni di sopravvivenza di queste popolazioni dipendono
principalmente dalla coltivazione della terra.
Inoltre, due terzi di questa popolazione vive in terre caratterizzati da
condizioni difficili: problemi ambientali, esposizione a disastri naturali,
eccetera. Più del 22% della popolazione povera è costituita da famiglie prive di
terra da coltivare, costrette a procurarsi i mezzi di sopravvivenza attraverso
lavori precari in condizioni che violano la dignità umana.
Le situazioni di ingiustizia sociale sono per di più esasperate dal fatto che
le politiche agricole, sia nei paesi industrializzati che in quelli poveri, sono
orientate a soddisfare le esigenze della grande industria agro-alimentare e non
certo dei piccoli produttori agricoli, dei pescatori e dei pastori.
Tutte le definizioni dell’idea di Food Sovereignty riflettono queste
circostanze e sottolineano l’importanza di incrementare e rendere effettivi i
diritti di accesso al cibo e alle risorse naturali, l’esigenza di politiche
commerciali eque, l’attuazione di buone prassi per la produzione sostenibile e,
infine, l’effettivo riconoscimento e attuazione del “diritto al cibo”.
L’urgenza della questione e dettata anche dal fatto che, per il futuro, si
prevede una riduzione della disponibilità di cibo a livello globale. Le cause che
vengono normalmente indicate sono tre: l’incremento della popolazione a
livello mondiale; l’incremento della domanda di cibo, specie da parte dei paesi
in via di sviluppo; e infine l’aumento delle condizioni di degrado ambientale
che colpiscono Le terre coltivate e le risorse ittiche. A questo proposito, il
degrado ambientale viene ricondotto ai processi di urbanizzazione spinta e alla
espansione delle infrastrutture, nonché la riduzione di terre fertili a causa della
erosione del suolo, della desertificazione, della contaminazione, della
salinizzazione, ecc.
da ultimo, non vanno trascurati i problemi che derivano dai cambiamenti
climatici. A questo proposito, peraltro, si sottolinea che l’esposizione delle
popolazioni povere ai disastri naturali dipende in gran parte anche dalla carenza
di risorse e strumenti per esercitare un controllo sulle risorse naturali.
Un’ultima annotazione di rilievo: oltre ai fattori ambientali e sociali,
concorrono a peggiorare le condizioni delle popolazioni povere i regimi politici
che dominano nei loro paesi. Non di rado situazioni politiche complesse, che
sfociano anche in conflitti e guerre civili, costituiscono elementi di ostacolo alle
29
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
politiche di sviluppo e di liberazione dalla povertà (si calcola che circa 60
milioni di individui poveri vivono in regimi politici caratterizzati da condizioni
di incertezza e insicurezza).
5. Politiche agricole e distorsioni del mercato quali fattori d’incidenza sulle
condizioni delle aree rurali povere.
Le condizioni delle aree rurali più povere sono state aggravate nel tempo
dal fatto che Le politiche agricole, sia a livello nazionale che internazionale,
non si sono presi cura delle necessità specifiche di quelle zone. Per lungo tempo
l’indirizzo politico dominante si è preoccupato di investire nell’industria e nelle
infrastrutture urbane, destinando alle questioni rurali un budget finanziario
sempre più contenuto (la FAO ha calcolato che gli investimenti in agricoltura
sono stati dimezzati del 50%)9.
Solo recentemente le organizzazioni internazionali hanno riconosciuto
che per far fronte ai problemi della povertà globale è necessario rivolgere
l’attenzione verso le esigenze delle aree rurali meno sviluppate.
A livello nazionale, nei paesi in via di sviluppo Le politiche di sostegno
all’agricoltura sono principalmente rivolte agli aspetti commerciali; raramente i
governi si preoccupano delle aree rurali e degli agricoltori che traggono
sostentamento da quelle terre; raramente questi Stati si preoccupano di
adempiere di obblighi assunti a livello internazionale con riferimento alla tutela
dei diritti umani fondamentali, tra i quali assume una posizione centrale il
“diritto al cibo”.
D’altra parte, Le politiche nazionali a favore delle aree rurali più povere
hanno subito forti interferenze provenienti dagli indirizzi assunti a livello
internazionale da organizzazioni quali il WTO e il IMF. La regolamentazione
del WTO in materia di produzione e commercio dei prodotti agro-alimentari
(Agreement on Agricolture – AoA), costituisce per i paesi aderenti un vincolo
insuperabile, a pena di sanzioni commerciali e penalità economiche. Questa
regolamentazione, peraltro, non si limita a disciplinare le tariffe, ma pone anche
condizioni per regole stringenti che incidono sulle politiche nazionali: dalle
9
Cfr. FAO, International Alliance against Hunger, Rome, 2012.
30
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
norme sulla sicurezza del cibo alle disposizioni in materia di tutela della
proprietà intellettuale, dai sussidi all’agricoltura alla regolamentazione dei
prezzi; in altre parole, i regolamenti del WTO incidono profondamente sulle
politiche nazionali, tanto più se si tratta di paesi in via di sviluppo10.
Strettamente correlata a questa problematica e quella che deriva dagli
obblighi di liberalizzazione dei mercati nazionali cui sono tenuti i paesi aderenti
al WTO AoA.
Negli ultimi vent’anni i paesi in via di sviluppo, in adempimento agli
obblighi di liberalizzazione, hanno aperto i loro mercati alle importazioni di
beni e prodotti agricoli provenienti dall’estero. A causa delle limitate risorse
economiche, questi stessi paesi non sono stati in grado di sostenere
adeguatamente i produttori agricoli locali; pertanto da un lato hanno dovuto
rimuovere le barriere commerciali, dall’altro non hanno potuto mettere in
campo politiche agricole a protezione delle quote di mercato degli agricoltori
locali. I paesi industrializzati, per parte loro, hanno proseguito con le politiche
di sostegno al settore agricolo; non tanto, però, a sostegno dei piccoli
agricoltori, quanto piuttosto a favore delle aziende agricole di grandi
dimensioni. L’ammontare dei finanziamenti a favore degli agricoltori dei paesi
industrializzati ha consentito loro di mettere sul mercato prodotti agricoli a
prezzi più bassi dei costi di produzione.
Naturalmente, queste circostanze hanno posto gli agricoltori delle aree
rurali più povere in condizioni di concorrenza svantaggiata. Il primo effetto di
queste politiche è stato quello di veder gradualmente scomparire dal mercato i
piccoli produttori agricoli e le aziende agricole familiari non essendo in
condizioni di competere con i loro prodotti sul mercato globale.
Peraltro, il fenomeno della graduale dissoluzione degli operatori agricoli
di dimensione familiare o piccola si registra anche nell’Unione europea11.
Le politiche di supporto a favore dei piccoli coltivatori nei paesi in via di
sviluppo non sono ancora in grado di controbilanciare gli effetti delle
10
Cfr. R. MELENDEZ-ORTIZ – C. BELLMANN – J. HEPBURN, Agriculutural subsidies in the WTO
green box: ensuring coherence with sustainable development goals, Cambridge University Press,
Cambridge, 2009.
11
Cfr. COMMISSIONE EUROPEA, Rural Development in the EU - Statistical and Economic
Information
Report
2013,
http://ec.europa.eu/agriculture/statistics/ruraldevelopment/index_en.htm; EUROSTAT, Agriculture, fishery and forestry statistics 2013,
epp.eurostat.ec.europa.eu/cache/ITY.../KS.../KS-FK-13-001-EN.PDF.
31
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
distorsioni di mercato dovute alle cause di cui sopra. D’altra parte, le grandi
multinazionali nel settore agroalimentare adottano tutte le iniziative utili ad una
politica di prodotti a basso costo. In tal senso vanno letti i fenomeni di
progressiva concentrazione e internazionalizzazione delle aziende agricole e
agroalimentari e di pressione sugli operatori agricoli affinché producano sempre
più a basso costo.
Le grandi multinazionali che operano su scala transnazionale hanno
altresì perseguito politiche di estensione del proprio controllo su diversi
segmenti del processo produttivo del cibo e sulla sua commercializzazione a
livello globale. Molte aziende che tradizionalmente producevano sementi sono
state acquistate dalle aziende del comparto agro-chimico e petrolifero; il regime
dei diritti di proprietà intellettuale che è stato imposto su materiale genetico e
forme di vita animale ha contribuito a determinare condizioni di monopolio e di
privilegio su beni che una volta appartenevano alla categoria dei beni comuni, i
beni del genere umano. Oggi, il regime vigente non soltanto impedisce di libero
scambio di questi beni (sementi, bestiame, eccetera), ma consente anche alle
grandi multinazionali di espropriare gli agricoltori del loro patrimonio di
conoscenze, accumulato nei secoli, e di impedirne la condivisione con gli altri
agricoltori.
6. Cenni conclusivi: aree d’intervento e politiche di attuazione della Food
Sovereignty.
Il dibattito sul tema della sovranità alimentare ha attraversato, negli
ultimi 20 anni, una rete sempre più fitta di Organizzazioni non governative,
Organizzazioni della società civile e Movimenti sociali. Il dibattito, tuttora in
corso, mette in evidenza quattro aree prioritarie di intervento per il
conseguimento degli obiettivi della sovranità alimentare.
Si tratta anzitutto del diritto al cibo, inteso come diritto umano di base.
Come già si è sottolineato, il diritto al cibo viene violato ogniqualvolta lo Stato
o la comunità internazionale non consentano agli individui di accedere
liberamente ad un cibo adeguato e sufficiente, un cibo sano, nutriente e
culturalmente compatibile con le tradizioni delle diverse comunità umane. Per
rendere effettivo questo diritto, tutti i popoli necessitano della possibilità di
32
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
accedere liberamente, fisicamente ed economicamente ad un cibo
quantitativamente e qualitativamente sufficiente; inoltre i popoli devono poter
governare i processi produttivi del cibo e le risorse naturali da cui esso deriva
(terra acqua e sementi).
In secondo luogo, un’area di intervento prioritaria è quella delle risorse
produttive. I sostenitori della sovranità alimentare reclamano il diritto per i
piccoli agricoltori, i pastori, i pescatori e le popolazioni indigene, di condividere
i benefici che derivano dalle risorse naturali utilizzate nella produzione agroalimentare. In tal senso, viene auspicato l’avvio di riforme agrarie che
restituiscano terre agli agricoltori e alle popolazioni indigene; che liberino la
circolazione delle sementi e del bestiame dai vincoli di diritti di proprietà
intellettuale; che assicurino l’integrità delle risorse naturali dalle contaminazioni
degli organismi geneticamente modificati; che garantiscano la biodiversità.
Una terza area di intervento in vista della sovranità alimentare è quella la
produzione del cibo secondo il modello agro-ecologico. L’agroecologia consiste
nella «applicazione dei concetti e dei principi propri dell’ecologia nella
gestione di agroecosistemi sostenibili; ... l’agroecologia si occupa sia della
produzione che della conservazione delle risorse naturali; ... gli agroecosistemi
sono culturalmente sensibili, socialmente equi ed economicamente
sostenibili»12. In altri termini, si tratta di un approccio olistico all’agricoltura
che si propone di armonizzare le esigenze ambientali con quelle degli esseri
umani13.
Infine, il quarto pilastro dell’azione a favore della sovranità alimentare
consiste nel promuovere politiche commerciali eque che mettano in condizioni i
gruppi di individui e i paesi più esposti al rischio della fame e della
malnutrizione, di produrre quantità sufficienti di cibo sano e di respingere gli
effetti devastanti della concorrenza delle grandi aziende del settore
agroalimentare, sostenute finanziariamente nei propri stati e capaci di invadere
il mercato con prodotti a basso costo.
12
Cfr. M. ALTIERI, Agroecology: the science of natural resources management for poor farmers
in marginal environments, in Agriculture, Ecosystems and Environment, 2002, 12, pp. 1-24; ID.,
Agroecology: the Science of Sustainable Agriculture, Westview Press, Boulder (CO), 1995.
13
Cfr. J. PRETTY – P. KOOHAFKAN, Land and Agricolture: from UNCED, Rio de Janeiro 1992 to
WSSD, Johannesburg 2002: a compendium of recent sustainable development initiatives in the
field of agriculture and land management, FAO, Rome, 2002; N.E. SIALABBA – C. HATTAM,
Organic Agriculture, environment and food security, in Environment and Natural Resources
Series, No. 4, FAO, Rome, 2002.
33
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Queste quattro aree prioritarie sono considerate dai sostenitori della
sovranità alimentare come i quattro pilastri portanti della propria azione
politica. Si registrano, tuttavia, diversità di interpretazione con riferimento alle
misure che sono necessarie per attuare in concreto gli obiettivi e intervenire
efficacemente nelle suddette aree. Si tratta di una circostanza del tutto naturale
se si considera che lo stesso concetto di sovranità alimentare che scaturisce da
un’analisi politica mette in risalto e valorizza l’autodeterminazione delle
comunità locali e, dunque, affida ad esse la determinazione degli strumenti per
la soluzione dei problemi locali.
Al di là delle dichiarazioni adottate dai diversi movimenti e fatte proprie
anche dagli organismi internazionali, le proposte e le iniziative che allo stato
attuale sembrano essere le più accreditate in vista del conseguimento degli
obiettivi della sovranità alimentare sono le seguenti:
- l’adozione di un Codice di condotta sul diritto al cibo, che impegni le
istituzioni nazionali e internazionali, nonché le multinazionali, a porre in essere
politiche e azioni idonee a garantire il diritto al cibo;
- la stipula di una Convenzione internazionale sulla sovranità alimentare,
che sostituisca l’attuale Agreement on Agriculture (AoA) e le clausole vessatorie
imposte dagli accordi e dalle regolamentazioni del WTO. Questa Convenzione
sarebbe destinata a realizzare le finalità della sovranità alimentare e assicurare a
tutti i popoli i diritti fondamentali ad un cibo salutare, ad un impiego dignitoso
nel settore agricolo, a condizioni di lavoro dignitose e salutari, ad un ambiente
naturale rispettato nella sua biodiversità. La Convenzione, inoltre, dovrebbe
includere anche le disposizioni normative relative alla produzione agroalimentare;
- la riforma delle Nazioni Unite, al fine di rafforzarne il ruolo
specialmente nella sfera della tutela dei diritti fondamentali e della realizzazione
di condizioni eque per la produzione e il commercio del cibo;
- l’istituzione di un meccanismo indipendente di risoluzione delle
controversie, integrato nella Corte internazionale di giustizia, specialmente per
contrastare le pratiche scorrette condotte dalle multinazionali;
- la stipula di un trattato internazionale che definisca i diritti dei piccoli
agricoltori ai benefici che derivano dalle risorse naturali e che appresti una
34
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
protezione giuridica adeguata alla loro partecipazione ai processi produttivi
agro-alimentari14.
14
Cfr. M. WINDFUHR – J. JONSÉN, Food Sovereignty. Towards democracy in localized food
systems, ITDG Publishing, UK, 2005.
35
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ABSTRACT
Angelo Rinella – Food Sovereignty
La formula linguistica “sovranità alimentare” esprime un concetto
complesso i cui elementi caratterizzanti sono riconducibili ad una matrice
unitaria di ordine politico, sociale e economico. Si tratta di un progetto
politico che scaturisce dal basso e si propone come alternativo al modello
neoliberale, che a livello globale domina il settore agro-alimentare. Contro
un sistema egemonico, i sostenitori della “food sovereignty” prospettano una
serie di riforme legislative e costituzionali allo scopo di democratizzare il
processo decisionale che allo stato attuale governa la “catena del cibo”. Il
cibo non può essere trattato alla stregua di una comune merce e –
sostengono le teorie della sovranità alimentare – il diritto al cibo deve essere
riconosciuto come un fondamentale diritto umano. L’articolo mette a fuoco
gli elementi chiave della sovranità alimentare da una prospettiva
interdisciplinare.
-------------------------------------------------------------------------------------------The “food sovereignty” linguistic formula expresses a complex concept, the
key elements of which are attributable to a unitary matrix of political, social
and economic order. It is, in other words, a political plan which is
alternative to the neoliberal model, which on a global level dominates the
agro-food sector. Against this hegemony, proponents of the food sovereignty
are calling for reforms and regulations to democratize the decision-making
processes that currently govern the food chain and for the recognition of the
right to food as a fundamental human right. This article examines the
concept of food sovereignty in its evolution and highlights its fundamental
features, in an interdisciplinary perspective.
36
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
FIAMMETTA MIGNELLA CALVOSA*, FIAMMETTA PILOZZI*, SIMONA
*
TOTAFORTI
Disarticolazione
dell’alimentazione
del
rapporto
terra-uomo-cibo
e
politiche
SOMMARIO: 1. Agricoltura e cibo. – 2. Politiche e regolazione
europea. – 3. Ricostruzione del rapporto uomo-terra-cibo.
1. Agricoltura e cibo
Analizzare il modo in cui si è trasformata l’alimentazione, la sicurezza e
salubrità del cibo, comporta prendere in considerazione preliminarmente
l’attuale configurazione degli equilibri economici a livello globale, le criticità
ecosistemiche che questi hanno prodotto, la regolazione internazionale,
l’impatto in termini bioetici che l’innovazione tecnologica nel settore
agroalimentare comporta. In altri termini, per studiare l’alimentazione e la
sicurezza alimentare è necessario considerare gli assetti della proprietà terriera e
il modo in cui precipitano le pratiche agricole globalizzate sui territori e sulle
comunità locali.
L’architettura mondiale della produzione alimentare è governata da
squilibri che appaiono sempre più intollerabili e che generano incessanti perdite
sotto il profilo del patrimonio ecosistemico ma anche in relazione alla ricchezza
sociale e culturale naturalmente connessa alle pratiche agricole, di
trasformazione del cibo e del suo consumo. Ragionare sulla complessità dei
fenomeni che contribuiscono a generare tali squilibri, significa, in primis,
ripartire dalla terra, dalle dinamiche che ne hanno trasformato la proprietà, dalle
pratiche con cui viene lavorata, dal legame fisico e culturale che con essa
stabiliscono le diverse comunità: intorno alla terra si costruisce la storia più
remota e, al tempo stesso quella più attuale, dello sfruttamento delle risorse e
*
Professore Ordinario di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio, Dipartimento di
Giurisprudenza, Università di Roma LUMSA.
*
Ricercatrice di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi, Università per Stranieri “Dante
Alighieri” di Reggio Calabria.
*
Professore Associato di Sociologia Urbana presso l’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di
Reggio Calabria.
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
delle popolazioni. Sottratta ai contadini dai latifondisti in America Latina, dagli
scavi minerari in Africa, dalle dighe in India e in Cina, ma anche dai fenomeni
diffusi dell’inquinamento, della desertificazione, della cementificazione, della
riconversione di aree agricole in aree industriali, la proprietà della terra, e dei
frutti che essa produce, rimane al centro delle dinamiche che governano la
possibilità dei popoli di affermare la propria sovranità alimentare.
Come osservava Polanyi «Quella che noi chiamiamo terra è un
elemento della natura inestricabilmente intrecciato con le istituzioni dell’uomo.
Isolarlo e farne un mercato è stata forse la meno naturale di tutte le imprese dei
nostri antenati. Tradizionalmente terra e lavoro non sono separati: il lavoro
costituisce parte della vita, la terra rimane parte della natura, e uomo e natura
formano un insieme articolato. La terra si lega quindi alle organizzazioni di
parentela, di vicinato, di mestiere, di credo, alla tribù, al tempio, al villaggio,
alla corporazione e alla chiesa. [...]»1. Segno della disconnessione fra sovranità
alimentare dei popoli e perdita di possesso della propria terra – o anche solo dei
frutti che produce – da parte delle comunità è sicuramente la scomparsa della
biodiversità, che si impone come uno dei più grandi pericoli legati alle pratiche
di produzione alimentare in atto a livello globale, e che è esito
dell’appiattimento dei saperi locali che sembrano scomparire nelle maglie della
globalizzazione.
Proprio le dinamiche globali appaiono come configurare una nuova
forma di enclosure of the commons, anch’essa frutto di processi di
privatizzazione – delle terre ma anche dei saperi – e di dislocazioni forzate delle
risorse messe in atto dalle multinazionali, che producono il risultato di replicare
e moltiplicare fenomeni di povertà, esclusione e marginalità, il tutto in un
meccanismo che subordina qualsiasi forma di sviluppo sostenibile locale alle
logiche del profitto dei grandi attori economici internazionali. Fra le forme più
gravi di scollamento fra la dimensione del rapporto uomo-agricoltura-terra e le
pratiche economiche globali vi è sicuramente quella, operata dalle
multinazionali, connessa alla pratica di brevettare i semi: vengono così
ingabbiati, in codici proprietari, gli esiti della cultura e dell’interazione fra le
comunità e la natura. Conservare la diversità, e dunque anche tenere in vita
forme alternative di produzione, è alla base delle politiche di tutela e
valorizzazione delle eterogeneità locali e delle tradizioni produttive in
1
K. POLANYI, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974.
38
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
particolare, che rappresentano forme di conservazione dinamica della
biodiversità, ma anche di recupero e diffusione delle varietà autoctone intese
come serbatoi di conoscenza e cultura materiale da tramandare. Prevedere
incisive forme di tutela per questo patrimonio vuol dire confrontarsi proprio con
il tema della sovranità alimentare dei popoli, ovvero quel diritto delle comunità
a definire le proprie politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione
e consumo di alimenti che garantiscano a loro volta il diritto all’alimentazione
per tutta la popolazione, rispettando le singole culture e la diversità dei metodi
contadini, garantendo ad ogni comunità l’accesso e il controllo delle risorse di
base per la produzione, quali terra, acqua, patrimonio genetico, per ribadire
l’inapplicabilità della logica brevettale sul frutto della natura che prende vita e
valore dal rapporto fra la creatività di centinaia di anni di lavoro contadino e la
varietà delle risposte della terra a questo impegno2.
L’indipendenza degli agricoltori è messa dunque in serio rischio poiché
aumenta la loro dipendenza dal diritto di utilizzare i semi appartenenti alle
aziende che si occupano di scienze agricole a livello globale3. La multinazionale
Monsanto quando fornisce un seme geneticamente modificato ad un agricoltore,
non pone in essere un atto di compravendita, bensì un accordo di concessione in
rete, fornendo l’accesso alle informazioni codificate nel DNA del seme, ma solo
per il tempo di una stagione. Il seme è infatti brevettato e rimane di proprietà
intellettuale della Monsanto, con la conseguenza che i semi successivamente
raccolti non potranno essere riutilizzati dall’agricoltore poiché protetti da
brevetto. Alla luce della corsa delle multinazionali del cibo alla pratica di
brevettare la biodiversità indigena, ma anche in relazione al fenomeno del land
grabbing e delle implicazioni che esso comporta per la preservazione di
un’agricoltura di territorio, le azioni per la tutela e la pubblicità’ della
biodiversità legata alle pratiche locali assumono un’enfasi politica di grande
valore, in base alla quale appare, mai come oggi, necessario un intervento
regolatore su base internazionale.
Un’ulteriore forma di disarticolazione del rapporto uomo terra, oltre
quella appena analizzata, è quella fra produttori e consumatori di cibo. Tale
perdita di connessione si consuma a livello di più dimensioni – geografiche,
2
J. RIFKIN, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, 2000.
V. SHIVA, Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale, Edizioni Ambiente,
Milano, 2001.
3
39
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
identitarie, culturali e valoriali – producendo una progressiva perdita di contatto
fra uomo e pratiche di produzione e di consumo del cibo. Ciò contribuisce
altresì ad alimentare il distacco (quando non anche un vero e proprio senso di
sfiducia) nei confronti di quei sistemi di controllo il cui scopo è quello di
assicurare la qualità del cibo dal campo alla tavola, passando dunque per un
controllo di tutte le fasi di produzione e distribuzione.
2. Politiche e regolazione europea
In particolar modo in Europa, una tale disarticolazione del rapporto
produttore-consumatore, ma anche della relazione fra il cittadino e i soggetti
deputati a garantire la qualità e la sicurezza della produzione agroalimentare,
appare come l’esito involontario e paradossale di una delle più attive politiche
di regolazione a livello di UE: il settore agroalimentare è, infatti, uno dei più
intensamente regolati, e ciò anche a ragione delle crisi alimentari e delle gravi
emergenze sanitarie che hanno afflitto l’Europa negli anni ’90, inducendo la
Commissione europea a emanare regolamenti che fossero orientati da un lato
alla tutela della salute dei consumatori, al fine di garantire adeguati livelli di
qualità dei cibi, dall’altro, soprattutto, alla tutela del mercato4.
In tal senso, proprio la necessità di ponderare e conciliare le diverse
pressioni e necessità economiche degli Stati membri per mantenerne vitali i
flussi commerciali, ma anche, per altri versi, la spinta prodotta dall’innovazione
tecnologica e dal relativo cambiamento delle pratiche di produzione,
manipolazione e trasformazione delle materie prime, hanno contribuito a
produrre una massiccia regolazione tesa a tutelare il consumatore in termini di
sicurezza e di controllo degli standard igienico-sanitari, ma non con riferimento
al concetto di qualità dei cibi. Tutto ciò ha determinato che si producesse il
permanere di una costante attenzione alle istanze dello scambio e
dell’innovazione tecnologica a scapito di quelle del consumatore, favorendo, ad
esempio, l’incentivazione della standardizzazione dei processi di produzione a
danno della tutela delle specificità agroalimentari, specificità spesso connesse a
4
F. MIGNELLA CALVOSA, F. PILOZZI, S. TOTAFORTI, La regolazione della sicurezza alimentare, in
F. MIGNELLA CALVOSA, F. PILOZZI, S. TOTAFORTI, (a cura di), Politiche e strategie di better
regulation, Carocci, Roma, 2014.
40
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
tradizioni produttive locali ontologicamente non assoggettabili a regole
omologanti, pena la loro stessa sopravvivenza.
In particolare nel contesto italiano, il territorio, considerato nelle sue
peculiarità agricole produttive ma anche nelle relative tradizioni di
trasformazione e di consumo del cibo, rappresenta una risorsa in grado di
attrarre a sua volta risorse, uno strumento che, se compreso, tutelato,
valorizzato, può generare valore su più dimensioni. Riconnettere le politiche
agricole e alimentari, alla rivalutazione di tutto ciò che è espressione di cultura
materiale, significa rimettere al centro delle politiche di sviluppo il rapporto
terra-agricoltore in una dimensione locale.
Tuttavia, tale ricomposizione stenta a verificarsi, proprio a causa delle
politiche economiche sovranazionali e nazionali, che contribuiscono a porre in
evidenza un’altra faccia del processo di disarticolazione dei rapporti economici
che gravitano nel comparto agricolo: quello del rapporto fra produttore e
distributore. Le politiche di distribuzione, infatti, hanno generato una vera e
propria frattura fra le “ragioni” del prezzo al dettaglio e quelle del “prezzo”
corrisposto al produttore, con il risultato di porre in essere un vero e proprio
schiacciamento di quest’ultimo, soprattutto laddove vi sia stata una scelta di
produzione con metodi etici e sostenibili, determinando quindi la condizione
disincentivante costituita dal fatto che, molto spesso, coltivare ed allevare in
modo rispettoso degli equilibri ecosistemici può comportare la non sostenibilità
economica dell’impresa.
Un’azione forte in termini di politica
dell’alimentazione, utile alla ricomposizione di molte delle fratture cui abbiamo
fatto cenno, in relazione al rapporto produttore-consumatore-distributore,
sarebbe la previsione della specificazione, in etichetta, del prezzo sorgente (il
prezzo applicato dal produttore), nonché dei chilometri percorsi da ciascun
alimento prima di arrivare al consumatore (food miles). Applicare in etichetta il
prezzo praticato all’origine rende tracciabile, visibile, evidente non solo il
ricarico economico praticato all’interno della catena commerciale, ma anche i
chilometri attraversati da ciascun prodotto per arrivare al commercio al
dettaglio. Sensibilizzare ad un consumo che abbia come effetto un
accorciamento della filiera è un’esigenza sentita da entrambi gli estremi della
catena: da chi produce e giustamente pretende una più adeguata remunerazione
del proprio lavoro e da chi compra e assiste impotente e stupito alla crescita del
prezzo finale sui banchi della distribuzione, nella maggior parte dei casi dovuto
a pratiche logistiche e scelte economiche insostenibili.
41
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
È importante costruire percorsi di pensiero e pratica tra elementi di
universalità e aspetti di territorialità: per porre rimedio al deficit di fiducia del
consumatore occorre individuare un binario in cui ragioni ambientali, sociali,
economiche e politiche producano soluzioni di base radicate nella tutela del
cittadino e del suo ambiente, al fine di costruire una filiera di coproduzione in
cui siano comunicabili e comunicate le relazioni sociali ed economiche ad essa
sottostanti. Al consumatore andrebbe pertanto riconosciuto il diritto di
ricostruire a proprio beneficio il percorso fatto dal prezzo, oltre che dal
prodotto, individuando per ciascun acquisto i rispettivi costi ambientali, sociali
ed etici.
Tutto ciò, tuttavia, può contribuire solo parzialmente a porre rimedio al
preoccupante impoverimento delle conoscenze maturate dagli individui, fin
dalla prima infanzia, rispetto a ciò di cui si nutrono. È chiaro come il
miglioramento della qualità alimentare non può che prodursi attraverso il
potenziamento delle competenze e delle conoscenze di tutti gli attori della
catena, e primariamente dei consumatori, ma non unicamente per mezzo di
esplicitazioni in termini di informazioni sulla filiera o di definizioni di standard
di sicurezza.
Recuperare la connessione natura-cibo-persona implica infatti ristabilire
lo spazio cognitivo per la riconquista di un approccio ragionato al cibo, uno
spazio in cui, al tempo stesso, il cibo sia in grado di riaffermarsi come
espressione dell’identità culturale, come strumento e strada per agire nell’ottica
di politiche improntate ad uno sviluppo sostenibile radicato sul territorio, come
superficie d’elezione per l’imporsi di politiche incisive di educazione al
consumo e tutela della salute, ma anche, di pari passo, di alfabetizzazione
ecologica. Ed è proprio in tali ambiti che le istituzioni sono chiamate ad
elaborare interventi per la regolazione e il controllo oltre che ad incentivare le
occasioni di comunicazione interattiva e trasversale tra i diversi attori della
filiera.
Tuttavia, come abbiamo avuto modo di osservare, ad impattare sulla
produzione, e dunque anche sulla regolazione del cibo sono processi, interessi e
decisioni spesso lontani e non in relazione con la vita culturale e le pratiche
alimentari dei destinatari delle norme, nonché delle tradizioni agricole e
produttive che legano questi ultimi ai propri territori. Nello specifico, lo spirito
che sembra aver animato gli interventi regolatori europei in materia alimentare,
in particolar modo per quanto riguarda l’Italia, pare aver incentivato quelle
42
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
dinamiche globali di orientamento del settore primario verso i tre vettori di
sviluppo della specializzazione, dell’intensificazione e della settorializzazione.
Tuttavia, uno sviluppo così orientato non può che essere insostenibile perché
generatore di depauperamento della ricchezza del patrimonio colturale e
culturale dei contesti rurali5. L’introduzione nella PAC, negli ultimi vent’anni,
del concetto di multifunzionalità agricola che riscopre la centralità delle
dimensioni culturali, sociali e ambientali 6 , non ha comunque impedito lo
sviluppo di una politica europea tendente a nutrire la frattura fra mondo urbano
e mondo rurale e la disarticolazione del rapporto di reciprocità fra chi produce e
chi consuma generando quelle “perdite” a catena, cui abbiamo accennato, per
entrambi i soggetti (basti guardare al valore corrisposto dal consumatore al
distributore, di cui meno del 15-20% viene corrisposto al produttore agricolo).
Forme di comunicazione istituzionale quali le attestazioni di origine
hanno rappresentato gli strumenti di base per la ritessitura del legame
terra/specificità territoriale/cibo/individuo nel tentativo di arginare l’aumento
delle distanze cognitive e fisiche – e del relativo impoverimento delle
competenze relazionali – dell’uomo con il contesto produttivo
dell’agroalimentare. Il percorso di ricongiungimento fra le comunità locali e le
loro forme di cultura materiale legate al cibo, e i processi di produzione
agroalimentare, è stato in parte favorito dagli ultimi interventi regolatori quali,
in particolare, il Regolamento (UE) N.1305/2013 del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 17 dicembre 2013 sul sostegno allo sviluppo rurale, ma anche dal
Reg. 1169/2011 sull’Informazione alimentare ai consumatori, entrato in vigore
il 13 dicembre 2014, il cui obiettivo appare quello di garantire al consumatore
«informazioni essenziali, leggibili e comprensibili per effettuare acquisti
consapevoli» 7 : etichette più chiare e leggibili, maggiore trasparenza con
riferimento ai metodi di lavorazione, indicazione allergeni (anche per la
ristorazione), estensione dell’obbligo di indicare la provenienza anche per carni
suine, ovine, caprine e pollame, etc. Tale Regolamento, tuttavia, se da un lato
mira a proteggere la salute e gli interessi dei consumatori, punta al tempo stesso
5
S. BOCCHI, Per una nuova reciprocità città/campagna, in S. AGOSTINI et al., Per un’altra
campagna. Riflessioni e proposte per un’agricoltura periurbana, Maggioli, Santarcangelo di
Romagna, 2010, pp. 35-43.
6
M. FERRETTO, L’evoluzione delle politiche agricole: verso il riconoscimento dell’agricoltura
come bene pubblico, in S. AGOSTINI et al., op. cit., pp. 59-64.
7
Regolamento UE n. 1169/2011 relativo alla Fornitura di informazioni sugli alimenti ai
consumatori, 25 ottobre 2011.
43
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
a garantire primariamente il regolare funzionamento del mercato interno (a
scapito di quella funzione di empowerment delle conoscenze del consumatore
cui si faceva cenno): tale secondo obiettivo è probabilmente alla base delle di
alcune ambiguità che sono riscontrabili, in particolare, nella mancanza di
indicazione rispetto al luogo di nascita, riguardo la provenienza delle carni, e
nel cessato obbligo dell’indicazione in etichetta dello stabilimento di
produzione (precedentemente obbligatorio in Italia – d.lgs. n. 109/1992).
3. Ricostruzione del rapporto uomo-terra-cibo
Alla luce dei deficit osservati, dunque, va riconosciuto come le azioni
più incisive per la ricostruzione delle relazioni agricoltore-consumatore, nonché
per la diffusione di conoscenze in materia di cibo e pratiche di consumo
alimentare sane, sostenibili e territorialmente connotate,
si debbano
principalmente alle azioni che hanno avuto origine “dal basso”, e che si sono
ancorate a quei movimenti che hanno posto in essere politiche di
sensibilizzazione ed azioni di tutela per il recupero delle pratiche tradizionali e
sostenibili di coltivazione, per la protezione ed il recupero della biodiversità
agricola e delle tradizioni enogastronomiche locali, per la ricostruzione della
filiera corta e di un sano rapporto sociale, culturale ed economico fra produttore
e consumatore. Ne sono testimonianza la presenza massiccia dei Farmers
market nei contesti urbani, ma anche il successo di associazioni come AMAP –
Association pour le Maintien de l’Agriculture Paysanne, Reseau International
Urgenci o Slow Food – quest’ultima fortemente impegnata nei temi della tutela
della biodiversità e del sostegno dei metodi di coltivazione tradizionali e biocompatibili a livello transnazionale – ma anche tutto il circuito di movimenti
d’opinione che gravita attorno ai temi della salvaguardia della natura, della
sicurezza alimentare, della protezione e valorizzazione dei prodotti e delle
tecniche di preparazione dei cibi legati alle tradizioni locali, fino alla difesa dei
diritti umani, con iniziative economiche come quelle collegate al movimento
del Commercio Equo e Solidale-Trans Fair, ma anche con la nascita di nuovi
soggetti ibridi come i GAES (Gruppi di Acquisto Equo e Solidale) o i più
recenti GAT (Gruppo di Acquisto Terreni), che affondano le proprie radici nel
rifiuto per le politiche economiche globali a vantaggio di piccole minoranze e
che puntano sul recupero del rapporto diretto fra produttore e consumatore,
quando non addirittura sul porre in essere iniziative di autoproduzione di
44
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
gruppo attraverso l’acquisto di terreni o il sostegno finanziario diretto a piccoli
agricoltori locali la cui produzione sarà destinata per la gran parte ai finanziatori
stessi.
Una tale straordinaria molteplicità di attori coinvolti nelle politiche
alimentari, e l’eterogeneità delle relative istanze, è dunque sicuramente uno dei
fattori alla base della complessità del sistema stesso di regolazione del settore. I
risultati del Fitness check - state of play and next step 8 sulla regolazione
connessa alla catena alimentare – esame che si inserisce nell’ambito delle
review avviate dalla Commissione europea sugli interi corpi legislativi di
specifici settori pilota con l’obiettivo di individuare eccessivi oneri,
sovrapposizioni, vuoti normativi, obsolescenza delle norme, etc. – presentati nel
2013 dalla Commissione europea, hanno rappresentato le basi per il REFIT
(Regulatory Fitness and Performance Programme), introdotto alla fine del
2012, con il doppio obiettivo sia di offrire una valutazione globale della
normativa di settore, sia di produrre una road map dei successivi passi da
compiere nell’ambito della regolazione di un settore di straordinaria
complessità. Alla valutazione dell’impatto degli obiettivi di smart regulation sul
settore (fra cui la riduzione degli oneri amministrativi, l'impatto sulle PMI, la
semplificazione, le ripercussioni in materia di salute pubblica e di benessere) ha
fatto seguito la mappatura dell’intero corpus legislativo sulla base di quattro
ambiti prioritari (food safety, consumer choice, competitiveness, innovation). I
problemi emersi hanno messo alla luce quanto già l’analisi sociologica aveva
sottolineato, vale a dire la complessità e multidimensionalità del sistema della
catena alimentare, la molteplicità di attori e interessi coinvolti che operano
pressioni corporative e condizionano gli indirizzi politici, e la frammentarietà
degli interventi.
In tale scenario è dunque risultata palese la sostanziale incoerenza
dell’intero quadro normativo, generata, come già detto, sia dalle caratteristiche
proprie del settore alimentare, che dallo sviluppo di lungo periodo della
regolazione. Ciò comporta che la criticità della normativa del settore alimentare
sia spesso collegata più alla difficoltà di interpretazione e di attuazione del
quadro giuridico, che al testo giuridico stesso. A tale criticità si potrebbe
ovviare sia attraverso una totale revisione regolatoria sia prevedendo la
8
COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT, A fitness check of the food chain, State of the play and
next steps, European Commission, Brussels, 5.12.2013 SWD(2013) 516 final.
45
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
predisposizione di linee guida in grado di condurre ad un’interpretazione
armonizzata del complesso di norme esistenti.
È bene tenere presente come le tecniche di command and control si
siano rivelate non adatte alla complessità e al ritmo di evoluzione del settore,
suggerendo come opzione da preferire quella dell’introduzione di meccanismi
di soft governance, più flessibili e innovabili, e dunque più in grado di evolversi
in base alle esigenze del sistema da regolare (si pensi, ad esempio, alle forme di
potenziamento delle attività di informazione e comunicazione come forme
indirette di regolazione, ma anche ai regimi di regolazione privata e, in
particolare, agli approccio di co-regolazione).
Infatti, una regolazione efficace implica l’implementazione di strumenti
che incentivino la cooperazione dei diversi portatori di interessi, sia in termini
di consultazione preventiva e valutativa, sia attraverso forme di reale
partecipazione al processo regolatorio, come può avvenire, ad esempio, proprio
attraverso forme eterogenee di co-regolazione. L’orientamento verso una tale
opzione comporterebbe altresì la diminuzione del rischio di controversie
commerciali, proprio grazie allo sviluppo di un una regolazione improntata alla
partecipazione e alla trasparenza, capace di mediare più facilmente fra i forti
interessi coinvolti per meglio garantire, all’interno di sistemi giuridici nazionali
eterogenei, e nello spazio complesso del mercato globalizzato, l’obiettivo della
sicurezza della catena alimentare9. Solo attraverso un processo così articolato
sarà possibile promuovere un reale cambiamento di paradigma per un sistema
regolatorio più diffusamente legittimato.
Tutto ciò, tuttavia, sarà possibile solo passando, come si è osservato
all’inizio del ragionamento, attraverso una riconsiderazione del valore
economico e sociale della terra, riconsiderazione che potrebbe essere attuata
attraverso il conferimento di una rinnovata centralità della “multifunzionalità
agricola”, ricordando che con tale locuzione si intende quell’attitudine del
settore primario a fornire, insieme con la produzione di merci convenzionali per
le filiere del food e del fiber processing, un contributo materiale e culturale al
rapporto ambiente-società. L’approccio multifunzionale riconosce la centralità
delle pratiche agricole quali catalizzatori delle comunità rurali, ma anche in
qualità di attivatori di processi di sviluppo sostenibile attraverso il
miglioramento del reddito degli agricoltori, l’aumento-mantenimento della
9
S. CASSESE, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo stato, Einaudi, Torino, 2009.
46
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
vitalità e dell’occupazione rurale, la tutela e la valorizzazione delle piccole
strutture aziendali, la custodia delle tradizioni contadine. Il sostegno ad
un’agricoltura multifunzionale incentiva anche la salvaguardia dell’eredità
culturale e del senso di appartenenza alla comunità, la contestualizzazione e
storicizzazione del patrimonio conoscitivo delle nuove generazioni rispetto al
territorio di appartenenza, le opportunità di sviluppo di nuove professioni che
coniughino tradizione ed innovazione, quanto il rafforzamento delle azioni di
tutela ambientale, per mezzo della conservazione e del controllo del paesaggio,
del mantenimento degli spazi aperti e della conservazione della biodiversità.
Una tale reinterpretazione dell’agricoltura in chiave di attivatore
d’elezione di sviluppo sostenibile comporta la previsione di azioni utili a ridurre
in particolare lo scollamento fra il mondo della terra e le nuove generazioni,
urgenza che le istituzioni non possono più delegare alla singola iniziativa di
soggetti locali. Ripercorrere con i bambini e i ragazzi la strada fatta da un frutto
o da un bicchiere di latte, grazie ad azioni educative e esperienziali strutturate e
interdisciplinari, diventa l’unico antidoto alle forme di vero e proprio
straniamento dalla natura di cui la maggior parte delle persone, in particolar
modo se residenti in contesti urbani, sembra essere vittima. Il processo di
“risocializzazione” degli individui al rapporto con la terra e con le pratiche di
produzione alimentare rappresenta dunque, probabilmente, l’argine più efficace
al dilagare di quelle forme di disarticolazione economica, sociale e cognitiva cui
si è accennato, che minacciano il rapporto fra consumatore adulto, agricoltore,
terra/territorio, istituzioni. Tale ricomposizione non può avere luogo al di fuori
di forti interventi istituzionali di regolazione e, al tempo stesso, di
comunicazione, tesi a migliorare la conoscenza diffusa e, soprattutto a incidere
sui comportamenti finali di acquisto, al fine di formare nuove generazioni di
consumatori consapevoli perché riconnessi con la centralità che la terra e il
lavoro agricolo hanno nello sviluppo dell’identità collettiva e della crescita
sociale.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ABSTRACT
Fiammetta Mignella Calvosa, Fiammetta Pilozzi, Simona Totaforti Disarticolazione del rapporto terra-uomo-cibo e politiche
dell’alimentazione
Analizzare il modo in cui si è trasformata l’alimentazione, la sicurezza e
salubrità del cibo, comporta prendere in considerazione preliminarmente
l’attuale configurazione degli equilibri economici a livello globale, le criticità
ecosistemiche che questi hanno prodotto, la regolazione internazionale,
l’impatto in termini bioetici che l’innovazione tecnologica nel settore
agroalimentare comporta. In altri termini, per studiare l’alimentazione e la
sicurezza alimentare è necessario considerare gli assetti della proprietà terriera
e il modo in cui precipitano le pratiche agricole globalizzate sui territori e sulle
comunità locali.
La disarticolazione del rapporto uomo terra è anche quella fra produttori e
consumatori di cibo. Tale perdita di connessione si consuma a livello di più
dimensioni – geografiche, identitarie, culturali e valoriali – producendo una
progressiva perdita di contatto fra uomo e pratiche di produzione e di consumo
del cibo. Ciò contribuisce altresì ad alimentare il distacco nei confronti di quei
sistemi di controllo il cui scopo è quello di assicurare la qualità del cibo dal
campo alla tavola, passando, dunque, per un controllo di tutte le fasi di
produzione e distribuzione.
La ricomposizione di tali fratture non può che avere luogo attraverso forti
interventi istituzionali di regolazione e, al tempo stesso, di comunicazione, tesi
a migliorare la conoscenza diffusa e, soprattutto a incidere sui comportamenti
finali di acquisto, al fine di formare nuove generazioni di consumatori
consapevoli perché riconnessi con la centralità che la terra e il lavoro agricolo
hanno nello sviluppo dell’identità collettiva e della crescita sociale.
Contemporary economic and social transformations expanded the distances
between consumers and producers, generating a progressive disarticulation
and loss of contact and confidence with the control systems that are
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
specifically designed to ensure the quality of food at all stages of production
and distribution. On the other hand, biodiversity and genetic resources are in
the center of national and international economic and political debates about
food sovereignty and land property, access and erosion of critical resources
but also environmental sustainability and food security.
Biodiversity and genetic resources are strictly connected to cultural diversity
and to tangible and intangible heritages. In such a context, homogenization of
food and agriculture is dangerously threatening cultural diversity, food equity,
human rights, local sustainable development.
Rules able to ensure food quality and safety must be based on principles of
solidarity, responsibility and participation, in order to make possible to reach
political and economic decisions aimed at determine the start of a new season
of quality assessment actions.
BIBLIOGRAFIA
BOCCHI S., Per una nuova reciprocità città/campagna, in S. AGOSTINI
et al., Per un’altra campagna. Riflessioni e proposte per un’agricoltura
periurbana, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2010.
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FERRETTO M., L’evoluzione delle politiche agricole: verso il
riconoscimento dell’agricoltura come bene pubblico, in S. AGOSTINI et al., Per
un’altra campagna. Riflessioni e proposte per un’agricoltura periurbana,
Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2010.
MIGNELLA CALVOSA F., PILOZZI F., TOTAFORTI S., La regolazione
della sicurezza alimentare, in MIGNELLA CALVOSA F., PILOZZI F., TOTAFORTI
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POLANYI K., La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974.
RIFKIN J., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy,
Mondadori, Milano, 2000.
SHIVA V., Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale,
Edizioni Ambiente, Milano, 2001.
49
ANTONIETTA LUPO*
Sostenibilità del settore agro-alimentare, biotecnologie e food safety
nell’Unione Europea: il paradigma degli organismi geneticamente
modificati.
SOMMARIO: 1. La sostenibilità del settore agro-alimentare:
l’innovazione tecnologica quale fattore determinante di incremento della
produttività e di efficiente sfruttamento delle risorse naturali. – 2. Le basi
giuridiche della politica alimentare europea: dalle origini all’approccio
«science-based». – 3. Il ruolo della giurisprudenza comunitaria nello sviluppo
della sicurezza e della qualità alimentare. – 4. Gli OGM tra sviluppo
sostenibile e food safety. Il criterio dell’equivalenza sostanziale e la sua
(in)efficacia nella valutazione del rischio. – 5. La gestione del “rischio OGM”
alla luce del principio della libera circolazione delle merci. Le sorti della
sicurezza alimentare a fronte dell’approvando Transatlantic Trade and
Investment Partnership. – 6. Risk communication ed etichettatura dei prodotti
derivati da OGM. – 7. Considerazioni conclusive.
1. La sostenibilità del settore agro-alimentare: l’innovazione
tecnologica quale fattore determinante di incremento della produttività e di
efficiente sfruttamento delle risorse naturali.
Quando Massimo Severo Giannini1, in un noto saggio del 1973,
affermava che gli avvertimenti di biologi ed urbanisti sulla distruzione della
natura e dell‟ambiente in genere non avevano trovato la necessaria attenzione da
parte degli Stati, il diritto ambientale e le problematiche ad esso connesse erano
ancora agli albori.
A distanza ormai di molti anni non può dirsi che i moniti dell‟illustre
maestro siano restati del tutto inascoltati. Al contrario, la tutela dell‟ambiente ha
acquisito autonomia e dignità, grazie soprattutto all‟intervento della Comunità
europea, la quale, nel corso del tempo, ha attuato un‟importante politica di
*
Ricercatore di Diritto Amministrativo presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Storia delle
Istituzioni dell‟Università di Messina.
1
M. S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl.,
1973, p. 15.
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
settore, nell‟ottica della difesa della biodiversità e di un‟equa distribuzione dei
vantaggi connessi all‟attività economica.
Ciononostante, la crisi ambientale, a dispetto dell‟interesse profuso e
delle iniziative intraprese, lungi dall‟essere stata arginata, continua ad
incrementarsi a causa, non solo, del sovrasfruttamento delle risorse naturali, ma
anche dell‟incremento demografico e, per certi aspetti, dell‟inadeguatezza
istituzionale2.
In siffatto contesto entra, inevitabilmente, in scena l‟esigenza di
conciliare l‟inarrestabile crescita economica con il conseguimento
dell‟efficienza e dell‟equità inter ed intra generazionale3.
A partire dal 1987, anno di pubblicazione dell‟ormai noto Rapporto
Brundtland elaborato in seno alla World Commission on Environment and
Development, il dibattito internazionale in subiecta materia4 si è fatto sempre
più intenso, determinando numerosi approfondimenti e ulteriori sviluppi del
concetto di sostenibilità, nel tempo, esteso a tutte le dimensioni che concorrono
al progresso economico-sociale, tra le quali quella agro-alimentare. Non deve,
difatti, dimenticarsi che l‟attività agricola è attività economica che, al pari di
altre, produce esternalità negative5.
Considerato, poi, che secondo le proiezioni dell‟ONU, la popolazione
mondiale sembra destinata a raggiungere i nove miliardi di persone entro il
2050, non pare possa revocarsi in dubbio che uno dei fattori ostativi alla cd.
sostenibilità del settore agro-alimentare sarà rappresentato – nei prossimi anni –
dalla costante crescita della domanda di prodotti alimentari e/o industriali, che,
sino ad oggi, ha indotto le aziende agricole ad utilizzare metodi di produzione
intensiva, con inevitabile incremento della pressione ambientale.
2
Negli stessi termini, F. FONDERICO, Sviluppo sostenibile e principi del diritto ambientale, in
Ambiente&Sviluppo, 2009, p. 921.
3
G. BOLOGNA, Verso una scienza della sostenibilità, in Equilibri, 2004, p. 75 e ss..
4
F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e
tutela della salute della persona umana, Editoriale Scientifica, Napoli, 2010, p. 70; ID., Sviluppo
sostenibile e diritti delle generazioni future, in htttp://www.rqda.eu/; ID., Sulla configurazione
giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. econ.,
2002, p. 215 ss..
5
Sull‟impatto ambientale dell‟attività agricola, cfr. J. CLIVE, Global Status of Commercialized
Biotech/GM Crops: 2013, ISAAA (International Service for the Acquisition of Agri-biotech
Application) Brief No. 46. ISAAA, Ithaca, OMC, disponibile all‟indirizzo internet
http://www.isaaa.org; R. BIANCHI, Alimentazione sostenibile ed effetto serra: due normative
collegate secondo l’ultima conferenza mondiale sul clima, in Ambiente&Sviluppo, 2010, p. 4.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Per rispondere alle sfide emergenti si rende, dunque, indispensabile un
ripensamento del sistema agricolo europeo in modo da proiettarlo verso forme
di agricoltura maggiormente sostenibile, che sia in grado di contribuire – in una
prospettiva di lungo periodo – a preservare le risorse naturali, concorrere alla
protezione dell‟ambiente, adeguarsi al contesto di riferimento (dal punto di vista
delle tecniche impiegate) ed, infine, che sia tollerabile sotto il profilo
economico e sociale.
A fronte della complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura
e attività agricola, la disciplina comunitaria, che ha seguito l‟evoluzione della
politica europea, già a partire dagli anni „90, ha proposto un modello di
agricoltura capace di integrare alla componente economica, la sostenibilità nel
tempo e la compatibilità con territorio, ambiente e società6. Esempio tangibile di
questa strategia è stata, tra l‟altro, l‟apertura alle cd. biotecnologie agroalimentari, ovvero a tecniche che utilizzano, in maniera integrata, differenti
discipline biologiche, chimiche e dell‟ingegneria per produrre o modificare
prodotti o processi grazie all‟utilizzo di organismi viventi, cellule o loro
costituenti.
In effetti, l‟Unione europea ha sempre guardato con favore alle
innovazioni biotecnologie, considerate un settore strategico per l‟economia
comunitaria, in quanto ritenute idonee a rafforzare la competitività tecnologica
ed industriale, nonché le possibilità di sviluppo e di occupazione nell‟area
europea. Questa posizione trapela palesemente fin dalla comunicazione della
Commissione europea del 1º giugno 1994, recante «La biotecnologia e il libro
bianco sulla crescita, la competitività e l‟occupazione: preparare i prossimi
sviluppi», laddove viene significativamente evidenziata la necessità di
prescrivere regole duttili e procedure semplificate per regolamentare il settore
delle biotecnologie.
6
In questo contesto, il documento della Commissione europea, La PAC verso il 2020: rispondere
alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio, Bruxelles, 18 novembre
2010, COM (2010) 672 def., fornisce un‟importante chiave di lettura dello scenario attuale, con
particolare riferimento al riconoscimento e all‟identificazione di quelli che sono considerati le
maggiori sfide per il settore agricolo attuale e del futuro. La Commissione afferma, al par. 3.1.
della Comunicazione, p. 4: «Il ruolo primario dell‟agricoltura è rappresentato dalla produzione di
derrate alimentari. È importante che l‟UE possa contribuire a soddisfare la domanda globale di
prodotti alimentari, che continuerà a crescere a livello mondiale. Pertanto è essenziale che il
settore agricolo europeo mantenga e rafforzi la sua capacità di produzione rispettando nel
contempo gli impegni assunti dall‟UE nell‟ambito delle relazioni commerciali internazionali e
della coerenza delle politiche per lo sviluppo (…)».
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Di tale crescente interesse sembrano, altresì, fornire testimonianza sia le
politiche di incentivazione della knowledge based bioeconomy adottate nel
corso dell‟ultimo decennio, sia l‟ammontare degli investimenti resi disponibili
dai Programmi Quadro delle diverse DG della Commissione europea, sia ancora
il white paper, The european bioeconomy in 2030, in cui si richiama
l‟attenzione sul possibile ruolo delle biotecnologie per una migliore gestione
delle risorse naturali, per la produzione di soluzioni volte a favorire la
sostenibilità ambientale e per la mitigazione degli effetti del climate change7.
L‟affermarsi di tali tecniche innovative ha, nondimeno, generato un
dibattito particolarmente acceso in ambito politico, economico, etico - filosofico
e giuridico, che vede tuttora fronteggiarsi, da una parte, chi sostiene che la
diffusione e lo sviluppo di nuove biotecnologie applicate all‟agricoltura
rappresenti un modo per incrementare il livello produttivo; dall‟altra parte, chi
assume una posizione nettamente negativa, che trae fondamento dall‟esigenza
di tutela e conservazione della biodiversità, dell‟ambiente e della salute umana.
La forte controversia, che spesso accompagna la discussione sull‟uso
delle biotecnologie agricole, è, in realtà, legata ad una sola applicazione
biotecnologica, l‟ingegneria genetica, ed ai suoi prodotti, gli organismi
geneticamente modificati (in seguito OGM), per tali intendendosi quegli
organismi, diversi dagli esseri umani «il cui materiale genetico è stato
modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l‟accoppiamento
e/o la ricombinazione genetica naturale» (art. 2, direttiva n. 2001/18/CE)8.
7
Degno di nota è, altresì, il regolamento UE n. 1305/2013 per lo sviluppo rurale del periodo di
programmazione 2014-2020: “Promuovere il trasferimento di conoscenze ed innovazione nel
settore agricolo e forestale nelle zone rurali”. La strategia ivi delineata potrà essere realizzata
attraverso strumenti aggiuntivi e non presenti nella precedente programmazione, quali il
Partenariato Europeo per l‟Innovazione (PEI) “Produttività e sostenibilità del sistema agricolo”
(PEI-AGRI), per la cui realizzazione sono previste specifiche misure di sviluppo rurale.
8
Sull‟impiego degli OGM nel settore agroalimentare, cfr. G. NAKSEU NGUEFANG, Principe de
précaution et la responsabilité internationale dans le mouvement transfrontière des OGM,
Bruylant, Bruxelles, 2012; D. DI BENEDETTO, La disciplina degli organismi geneticamente
modificati tra precauzione e responsabilità, ESI, Lecce, 2011; B. A. KOCH, Damage caused by
genetically modified organisms: comparative survey of redress options for harm to persons,
property or the environment, Berlin, 2010; S. POLI, La controversia sugli organismi geneticamente
modificati tra obblighi OMC e competenza comunitaria, Editoriale Scientifica, Napoli, 2008; F.
RASPADORI, OGM: lineamenti della disciplina europea, Perugia, 2007; F. DOSSI DAL POZZO,
Profili comunitari ed internazionali della disciplina degli organismi geneticamente modificati,
Giuffrè, Milano, 2005; L. MARINI, Il principio di precauzione nel diritto internazionale e
comunitario: disciplina del commercio di organismi geneticamente modificati e profili di
sicurezza alimentare, Cedam, Padova, 2004.
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Non può sottacersi che l‟Europa abbia, storicamente, assunto una
posizione di massima apertura verso gli OGM. Basti pensare all‟evoluzione che
si è avuta, a partire dal 2003, da un approccio ispirato alla “segregazione” dei
prodotti geneticamente modificati a quello della “coesistenza” tra forme di
agricoltura transgenica, convenzionale e biologica.
Malgrado l‟orientamento complessivamente positivo, il legislatore
comunitario si è comunque mostrato molto prudente rispetto all‟adozione di
varietà vegetali transgeniche9, trovandosi di fronte ad un duplice problema: per
un verso, preservare la biodiversità agricola, nonché la “tipicità” dell‟agricoltura
europea dai possibili rischi dovuti all‟utilizzo di piante transgeniche e, per altro
verso, tutelare la salute dei consumatori dall‟eventuale rischio provocato dal
consumo di prodotti alimentari ottenuti da colture geneticamente modificate.
D‟altra parte, la scienza, pur costituendo il referente principale nel
processo deliberativo sulla gestione dei potenziali rischi ambientali e sanitari,
conosciuti e non, derivanti dall‟uso e dalla diffusione di dette biotecnologie
agricole, non è stata capace di garantire certezze spendibili in sede decisionale10.
Il che ha creato non poche difficoltà anche nella definizione di forme ottimali di
regolamentazione che rafforzassero il legame tra valutazione scientifica e
gestione politica dei rischi.
Nell‟accostarsi al dubbio e al rischio scientifico-tecnologico, l‟Unione
europea ha così privilegiato un approccio di tipo precauzionale - cautelare11,
9
J. C. BUZBY, Effects of Food-Safety Perceptions on Food Demand and Global Trade, 2002, in
www.firstgov.gov/fsearch, p. 64, secondo cui «the European consumers are generally less
trusting of food safety regulatory systems than are U.S. consumers because of recent incidents
where European agencies initially failed to detect the extent of food safety problems and down
played the likely consequences (...). The European consumers are more aware than are U.S.
consumers about the extent to which foods contain biotech ingredients»; J. KINDERLERER,
Genetically modified. A European Scientist’s View, in New York University Environmental Law
Journal, p. 557, per il quale «the population of Europe perceives little benefit to the
biotechnological revolution, and the media reaction to the genetically foods has been hysterical»;
N. SALOMON, A European Perspective on the Precautionary Principle, Food Safety and the Free
Trade Imperative of the WTO, in European Law Review, 2002, p. 141, a giudizio del quale «the
rapid expansion of the biotechnology industry, as well as decreasing pubic confidence in the
regulatory framework fuelled concerns that the existing European regime might no provide an
adequate level of protection for human and environmental health».
10
L. TUMMINELLO, Sicurezza alimentare e diritto penale: vecchi e nuovi paradigmi tra
prevenzione e precauzione, in Dir. pen. contemp., 2013, p. 5.
11
In dottrina, sull‟applicazione del principio di precauzione applicato agli OGM, cfr. M. WEIMER,
Applying precaution in EU autorisation of genetically modified products: challenges and
suggestions for reform, in European law journal, 2010, p. 624 ss.; D. BEVILACQUA, The
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tentando di interpretare le proposizioni scientifiche e di creare una disciplina
teleologicamente preordinata a garantire un corretto bilanciamento di valori
fondamentali, quali la libertà economica e la ricerca scientifica, da un lato, e la
tutela della salute e dell‟ambiente dall‟altro12. Sin dagli anni ‟90, si è, infatti,
optato per un‟impostazione normativa edificata su dati scientifici, in base alla
quale l‟uso commerciale di OGM è vincolato ad un esame pubblico ex ante e ad
una omologazione relativa alla loro sicurezza, rilasciata caso per caso, prima di
qualsiasi applicazione, emissione nell‟ambiente e/o commercializzazione.
Due testi legislativi, la direttiva n. 2001/18/CE (parzialmente,
modificata dalla direttiva n. 2015/412/CE) sull‟emissione deliberata
nell‟ambiente di OGM e il regolamento (CE) n. 1829/2003 relativo agli alimenti
e ai mangimi geneticamente modificati, disciplinano l‟autorizzazione che
precede la commercializzazione di detti prodotti transgenici. Entrambi fissano
criteri scientifici per la valutazione dei rischi potenziali per la salute umana, la
salute animale e l‟ambiente, nonché requisiti di etichettatura. Inoltre, il
regolamento (CE) n. 1830/2003 definisce regole per la tracciabilità ed
etichettatura degli OGM e per la tracciabilità degli alimenti e dei mangimi
prodotti da detti organismi.
La ratio è visibilmente da rintracciarsi nel raggiungimento e
mantenimento di un livello uniforme ed elevato di protezione ambientale su
tutto il territorio dell‟Unione. D‟altra parte, non può sottacersi come tale
obiettivo sia perseguito, in modo limitato e relativo, attraverso un complesso
normativo che, come si avrà modo di evidenziare, pare più attenzionare
esigenze di natura economico-commerciale.
international regulation of genetically modified organisms: uncertainty, fragmentation, and
precaution, in European environmental law review, 2007, p. 314 ss.; L. MARINI, Principio di
precauzione, sicurezza alimentare e organismi geneticamente modificati nel diritto comunitario,
in Il diritto dell'Unione europea, 2004, p. 7 ss.; R. FERRARA, Valutazione di impatto ambientale
organismi geneticamente modificati: alle origini del problema, in Foro amm. Tar, 2002, p. 3456
ss.; G. BOSSIS, Les OGM, entre liberté des échanges et précaution, in Revue européenne de droit
de l’environnement, 2001, p. 255 ss.; F. GIAMPIETRO, Rischio ambientale e principio di
precauzione nella direttiva sugli OGM, in Ambiente, 2001, p. 951 ss.; A. GRATANI, La strategia
precauzionale e le biotecnologie, in Ambiente, 2001, p. 1045 ss.; R. PAVONI, Misure unilaterali di
precauzione, prove scientifiche e autorizzazioni comunitarie al commercio di organismi
geneticamente modificati: riflessioni in margine al caso Greenpeace, in Diritto comunitario e
degli scambi internazionali, 2000, p. 725 ss..
12
G. F. FERRARI, Biotecnologie e diritto costituzionale, in R. FERRARA – J. M. MARINO (a cura di),
Gli Organismi Geneticamente Modificati, Cedam, Padova, 2003, p. 15.
55
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Anche la recente direttiva n. 2015/412/CE, che modifica la direttiva n.
2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli Stati membri di limitare o
vietare la coltivazione di OGM sul loro territorio, pare confermare questa
tendenza laddove, adottando una vera e propria logica “pilatesca”, ricorre al
sofisma giuridico del “divieto di utilizzo” di OGM autorizzati da parte di altri
Stati membri per non infrangere la normativa comunitaria sulla libera
circolazione delle merci nel mercato interno, consentendo la
commercializzazione di sementi e materiale di propagazione vegetale
geneticamente modificati, come tali o contenuti in prodotti, e di prodotti del
loro raccolto in tutta l‟Unione europea (Considerando 16 e 22, direttiva
2015/412/CE).
Di “cavilli linguistici” e di formule approssimative, che renderebbero
difficile applicare un divieto nazionale, si rinviene traccia anche nei
Considerando 13 e 14 della citata direttiva, laddove il diniego di coltivazione di
OGM autorizzati può essere opposto sulla base di motivazioni legate, non già
alla valutazione degli effetti negativi sulla salute umana o animale e
sull‟ambiente, quanto piuttosto ad obiettivi di politiche ambientali o agricole,
oppure alla pianificazione urbana e del Paese, uso del suolo, impatto socioeconomico, politiche pubbliche o di coesistenza. Ad integrazione dei “diritti”
già conferiti agli Stati membri per quanto riguarda gli OGM destinati alla
coltivazione diretta, la Commissione europea ha recentemente presentato una
proposta di revisione decisionale per l‟autorizzazione degli OGM come alimenti
e mangimi, che consentirebbe di vietarne l‟utilizzo nella catena alimentare (cd.
misure di opt - out) degli Stati membri, purché sussistano motivi legittimi
diversi da quelli valutati a livello europeo, vale a dire su rischi per la salute
umana o animale o per l‟ambiente e siano rispettati la legislazione comunitaria
sul mercato interno e gli obblighi internazionali dell‟Unione europea e della
World Trade Organization (WTO).
A fronte di un indebolimento importante e certo delle motivazioni che i
singoli Stati membri possono, oggi, addurre per giustificare il divieto di
coltivazione e di utilizzo di OGM ed alla luce del dogma dello sviluppo
sostenibile, secondo cui le considerazioni in merito alla tutela della salute e
dell‟ambiente dovrebbero prevalere sulle sollecitazioni di natura economica e
commerciale, anche un osservatore disattento non può non notare l‟attuale
prevalenza delle regole del libero mercato sull‟esigenze di concreta protezione
del bene salute e l‟eccessivo ridimensionamento del ruolo e del rilievo che
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andrebbero, invece, riconosciuti al principio di precauzione, nella sua duplice
dimensione etico - morale e giuridica.
2. Le basi giuridiche della politica alimentare europea: dalle origini
all’approccio «science-based».
A livello europeo, il settore agro-alimentare e le problematiche legate
alla cd. food safety hanno assunto, nel corso degli anni, un ruolo di
fondamentale importanza, spingendo la politica comunitaria all‟adozione di una
disciplina quanto più possibile uniforme ed aderente all‟incessante divenire
della scienza, soprattutto nel campo dell‟ingegneria genetica e della ricerca ed
immissione nel mercato di OGM 13.
Fino agli anni ‟80 del secolo scorso, nella Comunità europea è, tuttavia,
prevalsa una maggiore attenzione per le questioni di carattere economico, stante
il dichiarato intento di eliminare gli ostacoli commerciali derivanti dalla
presenza di molteplici normative nazionali e di assicurare un regime di libero
scambio di merci, ivi compresi i prodotti agro-alimentari, ritenuti beni
suscettibili di sola valutazione economica. In tale ottica, la sicurezza alimentare
non poteva che rilevare unicamente sotto il profilo di food security, correlata
com‟era a finalità specifiche della PAC, quali l‟incremento della produttività
agricola, il perseguimento di un tenore di vita equo della popolazione agricola,
la stabilizzazione dei mercati e, appunto, la sicurezza degli approvvigionamenti.
13
La sicurezza alimentare è stata oggetto di numerosi interventi normativi soprattutto negli anni
‟90. Si ricordano, a titolo meramente esemplificativo, la Direttiva n. 92/59/CEE relativa alla
sicurezza generale dei prodotti (recepita in Italia con d.lgs. n. 115/1995); il Regolamento (CE) n.
2092/1991 relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e all‟indicazione di tale
metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari; il Regolamento (CE) n. 2092/1991
concernente il metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e indicazione di tale metodo
sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari; il Regolamento (CE) n. 820/97 del Consiglio
relativo alla creazione di un sistema di identificazione e registrazione dei bovini e
sull‟etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni bovine (in risposta all‟allarme
creato dai casi di BSE); il Regolamento (CE) n. 1139/1998 concernente l‟obbligo di indicare,
nell‟etichettatura di alcuni prodotti alimentari derivati da organismi geneticamente modificati,
caratteristiche diverse da quelle di cui alla direttiva n. 79/112/CEE; il Regolamento (CE) n. 258
del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 gennaio 1997 sui nuovi prodotti e i nuovi
ingredienti alimentari; le Raccomandazioni del Parlamento europeo n. 1398/1998 sulla sicurezza
del consumatore e la qualità dei prodotti alimentari, n. 1417/1999 sulla crisi della diossina e la
sicurezza alimentare, n. 1446/2000 sul divieto di antibiotici nei prodotti alimentari.
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Inizialmente, dunque, gli interventi normativi si sono fondati sulla
procedura agraria di cui all‟art. 37 CE (ora 43 TFUE) ovvero sul
ravvicinamento delle legislazioni, prima sulla base dell‟art. 100 (ora 115 TFUE,
per altro modificato), in seguito su quella dell‟art. 100A (ora 114 TFUE), che
prevede l‟emanazione di atti adottati con votazione a maggioranza qualificata
del Consiglio, inizialmente con la procedura di cooperazione con il PE, poi con
quella di codecisione rinominata procedura legislativa ordinaria.
L‟inadeguatezza di questo approccio ad affrontare le sfide derivanti dal
sempre più complesso scenario di rischi alimentari, che andava dipingendosi a
livello europeo ed internazionale14, ha indotto – a partire dagli anni ‟90 – ad un
mutamento di rotta. Complice anche l‟intervento della WTO, che, nel tentativo
di garantire gli interessi del commercio e della libera circolazione delle merci,
ha aperto una breccia in favore della sicurezza alimentare.
Con l‟adozione dell‟Atto Unico Europeo, la protezione della salute
viene ricompresa tra gli obiettivi fondamentali dell‟Unione attraverso la
previsione di specifiche competenze in capo alla Comunità volte a garantire un
livello elevato di protezione della salute umana e dei consumatori; orientamento
politico questo che si consoliderà, dapprima, con l‟adozione del Trattato di
Maastricht e, successivamente, con il Trattato di Amsterdam.
In questo torno temporale, la produzione normativa europea risulta,
tuttavia, contraddistinta da un‟eccessiva proliferazione e frammentarietà, che i
provvedimenti legislativi, adottati dal 2000 in poi, cercheranno di superare con
la definizione di un quadro normativo avente un approccio globale e non
settoriale.
La prima risposta alla necessità di dar vita ad un corpus organico e
trasparente di norme in materia di sicurezza alimentare risale al 1997, con
l‟adozione del Libro Verde sui “Principi generali della legislazione in materia
alimentare nell‟Unione europea”15, che, sebbene avente natura programmatica,
14
Basti, a tal proposito, rammentare i numerosi episodi di contaminazione alimentare, quali quelli
della BSE, dei pesci al mercurio, dei polli alla diossina, in forza dei quali si è evidenziata
l‟insufficienza del diritto allora vigente a contrastare situazioni di “aggressione alla salute
umana”. Cfr., A. GERMANÒ - E. ROOK BASILE, Manuale di diritto agrario comunitario,
Giappichelli,Torino, 2014, p. 208 ss.; L. LEONE, Nanotecnologie e alimenti tra etica e diritto:
prospettive della regolazione nell’unione europea, in Glocalism: journal of culture, politics and
innovation, 2014, p. 1.
15
V. la Comunicazione della Commissione COM(97) 176 def., sui Principi Generali della
Legislazione in materia alimentare nell’Unione Europea – Libro Verde della Commissione, 30
aprile 1997, Bruxelles.
58
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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apre formalmente la discussione sulla necessità di semplificare e razionalizzare
la legislazione comunitaria in materia di prodotti alimentari, dando risalto a
valori quali la salute, la sicurezza pubblica e l‟ambiente.
Ad esso seguirà, nel 2000, il Libro Bianco sulla sicurezza alimentare16,
che introduce il principio di “approccio integrato dell‟intera catena alimentare”
e tratteggia una strategia globale «dai campi alla tavola», sulla base della
convinzione che «la catena della produzione alimentare sta diventando sempre
più complessa. Ogni singolo anello di tale catena deve essere altrettanto forte
degli altri se si vuole che la salute dei consumatori sia protetta, riconoscendo la
natura interrelata della produzione alimentare».
Il programma trova attuazione nel regolamento comunitario (CE) n.
178/2002 – punto focale del sistema di riforma istituzionale attuato nel settore –
che, appunto, riconosce come obiettivo primario della legislazione alimentare
quello di garantire un livello elevato di tutela della salute umana e degli
interessi dei consumatori in relazione agli alimenti, tenendo conto in particolare
della diversità dell‟offerta di prodotti alimentari compresi quelli tradizionali.
Il regolamento inaugura quello che viene definito l‟approccio globale e
sistemico alla problematica della sicurezza alimentare e spranga le porte ad
interventi episodici e congiunturali, formulando un sistema di prevenzione e
controllo dei rischi della salute umana in materia di alimentazione che interessa
tutte le fasi della catena alimentare.
La nuova disciplina del settore alimentare rappresenta il tipico esempio
di regolazione c.d. science-based, in cui il dato scientifico padroneggia
all‟interno di un apparato volto a combinare la sicurezza alimentare – che
rimane la priorità d‟azione a livello europeo – ed i concomitanti obiettivi della
libera circolazione delle merci e dell‟innovazione tecnologica.
In questo contesto, l‟analisi del rischio assurge a strumento per la
regolamentazione del settore della sicurezza alimentare. Ed invero, è attraverso
la valutazione scientifica dei pericoli e della loro probabilità di verificarsi in un
determinato contesto, che si consente – a livello politico – l‟adozione di atti
normativi finalizzati a ridurre il rischio ad un livello, per così dire, socialmente
accettabile.
16
Commissione delle Comunità Europee, Libro Bianco sulla sicurezza alimentare, COM(1999)
719 def., 12 gennaio 2000, Bruxelles.
59
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Nell‟ottica del legislatore comunitario, insomma, la sussistenza di un
rischio potenziale (ma non ipotetico) è condizione necessaria (e sufficiente) a
legittimare l‟adozione di misure precauzionali di gestione del rischio, attraverso
interventi mirati che anticipino la soglia di tutela rispetto a possibili pregiudizi
alla salute e/o all‟ambiente17.
Appare opportuno, nondimeno, sottolineare come la natura dei rischi
che il modello di analisi del rischio è chiamato ad affrontare appare piuttosto
incerta, riferendosi il regolamento in esame ora all‟esigenza di tutelare «la vita»
e la «salute umana», ora alla sola protezione della salute.
Sulla scorta di quanto disposto dall‟art. 168 del TFU (che si apre con
l‟affermazione per cui nell‟attuazione e nella esplicitazione delle politiche
dell‟Unione deve essere assicurato un elevato livello di tutela della salute
umana), sembrerebbe potersi dedurre che, anche laddove il legislatore
comunitario richiami la sola tutela della salute dell‟uomo esso intenda,
comunque, riferirsi anche alla tutela della vita dell‟individuo18. Conclusione,
questa, confermata peraltro dall‟art. 14 del regolamento (CE) n. 178/2002,
laddove statuisce che, per determinare se un alimento sia a rischio, debbono
valutarsi, fra l‟altro, «le condizioni d‟uso normale dell‟alimento da parte del
consumatore in ciascuna fase della produzione, della trasformazione e della
distribuzione».
A fronte dell‟applicazione da parte di diversi Stati membri di criteri
diversi per la determinazione della sicurezza degli alimenti, gli artt. 14 e 15,
regolamento (CE) n. 178/2002 introducono una serie di requisiti generali di
safety che tutti i prodotti alimentari ed i mangimi debbono presentare per poter
liberamente circolare nel mercato dell‟Unione europea.
In linea di massima, un prodotto si considera “sicuro” se non presenta
rischi per la salute dei consumatori e non risulta inadatto al consumo umano,
ovvero – in conformità con la nozione di rischio di cui all‟art. 3, n. 9, dello
stesso regolamento – se non comporta un pericolo grave (non necessariamente
attuale) per la salute. L‟ampiezza della nozione di prodotto unsafe, derivante
dalla citata disposizione normativa, è tale da comprendere ogni profilo di
17
Peraltro, la fase di valutazione del rischio diviene basilare anche per gli Stati membri – così
come per le Istituzioni dell‟Unione – per giustificare l‟adozione di eventuali misure restrittive
rispetto al libero scambio dei prodotti alimentari, soprattutto a livello internazionale.
18
R. ROSSOLINI, Libera circolazione degli alimenti e Tutela della Salute nel Diritto Comunitario,
Cedam, Padova, 2004, p. 102 ss..
60
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potenziale pericolosità, che spazia dalle condizioni d‟uso normali dell‟alimento
da parte del consumatore, ovvero dal probabile e prevedibile uso che questi
ragionevolmente farà del prodotto, alle informazioni messe a disposizione dello
stesso.
A tali requisiti generali, la normativa comunitaria affianca ulteriori
criteri dettati con riferimento a determinati prodotti alimentari o relativamente a
specifici aspetti della normativa in materia di sicurezza alimentare.
Con riguardo agli OGM, già le direttive cd. di prima generazione, la n.
90/219/CEE e n. 90/220/CEE, sancivano l‟esigenza di stabilire criteri di
valutazione dei rischi collegati o conseguenti allo sviluppo delle biotecnologie,
in condizioni di incertezza scientifica in merito alla loro effettiva natura e la
portata per l‟ambiente e la salute umana. Emblematico, a tal riguardo, è il
preambolo della direttiva n. 90/219/CEE, che evidenziando l‟incertezza circa
«la natura precisa e l‟entità dei rischi associati» alla modificazione genetica di
microrganismi, afferma la correlata necessità di limitare «le (…) possibili
conseguenze negative» sulla salute umana e sull‟ambiente derivanti
dall‟impiego confinato di MGM e di ridurre i «rischi potenziali derivanti da
ogni operazione» che tale impiego comporti.
La normativa risultava, però, fortemente incompleta, atteso che, fra le
altre cose, si applicava indistintamente a tutti gli OGM e ai prodotti derivati da
essi indipendentemente dalla loro destinazione e non stabiliva regole comuni di
valutazione dei rischi. Rimaneva, inoltre, incompleto il sistema di etichettatura
obbligatoria, introdotto dal regolamento (CE) n. 258/1997, e del tutto assente un
sistema di autorizzazione per l‟immissione in commercio di mangimi
geneticamente modificati.
La riscontrata sostanziale inadeguatezza dell‟indirizzo normativo,
creato dalle suddette direttive comunitarie, a risolvere le numerose
problematiche nascenti in tema di OGM ha portato, quindi, alla promulgazione
della direttiva n. 2001/18/CE, cui hanno fatto poi seguito i regolamenti (CE) nn.
1829/2003 e 1830/2003, riguardanti i prodotti alimentari e i mangimi
geneticamente modificati e la loro tracciabilità, nonché il regolamento (CE) n.
1946/2003 sui movimenti transfrontalieri di OGM.
La direttiva n. 2001/18/CE, che secondo le intenzioni del legislatore
avrebbe dovuto rendere più agevoli le autorizzazioni all‟immissione in
commercio di organismi transgenici, si preoccupa di descrivere – a grandi linee
– gli elementi da considerare, i principi e le metodologie da seguire nella
61
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valutazione degli effetti (diretti, indiretti, immediati o differiti) potenzialmente
negativi per la salute umana e l‟ambiente, derivanti da prodotti OGM. In questo
contesto, la food safety viene, quindi, garantita, in via generale, vietando la
messa in circolazione di quegli alimenti e mangimi transgenici i cui rischi per la
salute e/o per l‟ambiente vengono accertati attraverso una valutazione
scientifica, “del più alto livello possibile”, condotta dall‟Autorità europea sulla
sicurezza alimentare19.
La determinazione del rischio e la successiva autorizzazione si basano
su procedure comuni e variabili nel tempo, che risultano contraddistinte da una
complicata trama di procedimenti e centri di competenze20 e che, secondo la
dottrina21, si risolvono in un sostanziale controllo finale della Commissione, la
quale, attraverso le procedure di comitologia e i comitati scientifici di
riferimento, diviene così arbitro della decisione di autorizzazione degli OGM.
La sicurezza alimentare è, altresì, presa in considerazione dalla recente
direttiva n. 2015/412/CE, laddove, nel Considerando 2, si prefigge l‟obiettivo di
raggiungere e mantenere un livello uniforme ed elevato di protezione della
salute, dell‟ambiente e dei consumatori su tutto il territorio dell‟Unione,
richiamando, a tal fine, il principio di precauzione.
Detto livello di protezione è ritenuto idoneo a consentire una
valutazione scientifica uniforme in tutta la Comunità e, pertanto, non può
soffrire interferenze da parte degli Stati membri.
Tant‟è che ogni decisione concernente l‟adozione di misure di gestione
del rischio, volte a vietare e/o limitare la coltivazione di OGM, può fondarsi
unicamente «su motivazioni riguardanti obiettivi di politica ambientali legati a
impatti che sono distinti e complementari rispetto alla valutazione dei rischi per
la salute e l‟ambiente valutati nel contesto delle procedure di autorizzazione di
cui alla direttiva 2001/18/ CE e al regolamento (CE) n. 1829/2003»
(Considerando 14, direttiva 2015/412/CE).
19
Peraltro, non essendo possibile impedire la presenza, accidentale o tecnicamente inevitabile di
materiale OGM nei prodotti convenzionali, il legislatore comunitario fissa delle soglie di
tolleranza, che variano dal 0,9%, per gli OGM autorizzati, al 0,5%, per gli OGM non ancora
autorizzati, purché già valutati favorevolmente dai Comitati Scientifici europei.
20
A. SPINA, La regolamentazione “multilivello” degli OGM: procedure di autorizzazione,
principio di “coesistenza” e vuoti normativi, in www.amministrazioneincammino.it, 2007, p. 24,
secondo cui «Da un punto di vista critico, però la complessità delle procedure, se riduce la
trasparenza dell‟applicazione pratica, rischia di essere una sua intrinseca debolezza».
21
T. H. HERVEY, Regulation of Genetically Modified Products in a Multi-Level System of
Governance: Science or Citizens?, in Reciel 10(3), 2001, pp. 321-333.
62
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
3. Il ruolo della giurisprudenza comunitaria nello sviluppo della
sicurezza e della qualità alimentare.
Qualità e sicurezza alimentare hanno goduto di particolare
considerazione in seno alla Corte di giustizia europea (la cui giurisprudenza, di
seguito, si andrà a ripercorrere seppur nelle sue tappe salienti), che, chiamata a
supplire ai ritardi della politica comunitaria nella realizzazione del mercato
interno, ha contribuito non poco all‟evoluzione della politica dell‟Unione in
subiecta materia.
Basti pensare che l‟ingresso ufficiale del concetto di food safety, nel
quadro degli obiettivi della PAC, si deve proprio alla celebre sentenza sulla
carne agli ormoni del 198822, nella quale la Corte di giustizia, in contrasto con
la concezione restrittiva degli obiettivi della PAC enunciati dall‟allora vigente
art. 43 del Trattato, afferma che «il perseguimento degli obiettivi della politica
agricola comune, specie nell‟ambito delle organizzazioni comuni dei mercati,
non può prescindere da esigenze generali quali la tutela dei consumatori o della
salute e della vita delle persone e degli animali».
Consapevole del fatto che lo sviluppo di un‟efficace strategia in materia
di sicurezza alimentare sarebbe stata fondamentale per garantire la libera
circolazione degli alimenti nel mercato unico la Corte introduce – con le ormai
storiche sentenze Cassis de Dijon23 e Dassonville24– il principio del “reciproco
riconoscimento”, in virtù del quale un prodotto legittimamente fabbricato in uno
Stato membro può circolare in tutta la Comunità, a meno che non se ne dimostri
la dannosità, alla luce di dati certi provenienti da organizzazioni internazionali,
quali la Food and Agricolture Organization o la World Health Organization.
22
Corte giust. CE 23 febbraio 1988, C-68/86, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord
c. Consiglio delle Comunità europee, in Racc., 1988, p. 855.
23
Corte giust. CE 20 febbraio 1979, C-120/78, Rewe – Zentral AG c. Bundesmonopolverwaltung
fur Branntwein, in Riv. dir. agr., 1981, p. 25. Il provvedimento giurisdizionale fu tanto
dirompente che la Commissione diramò, in un secondo momento, una Comunicazione sulle
conseguenze della Cassis de Dijon (pubblicata in G.U.C.E. n. 256 del 03 ottobre 1980), inviata
sotto forma di missiva agli Stati membri, nella quale stabilisce che “uno Stato membro non può,
in linea di massima, vietare la vendita sul proprio territorio di un prodotto legalmente fabbricato e
posto in commercio in un altro Stato membro, anche se tale prodotto è fabbricato secondo
prescrizioni tecniche o qualitative diverse da quelle imposte ai suoi prodotti”.
24
Corte giust. CE 11 luglio 1974, C-8/74, Benoit e Gustave Dassonville, in Racc., 1974, p. 837.
63
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La presunzione di equivalenza, tra le misure di carattere sanitario e
fitosanitario adottate dai vari Stati membri, era evidentemente indirizzata a
vanificare le conseguenze negative derivanti dai diversi regimi di
regolamentazione nel campo della sicurezza alimentare, sì da sollevare il
legislatore dall‟arduo compito di equilibrare tutti gli aspetti della disciplina
degli alimenti a livello europeo.
L‟obiettivo era cioè quello di scongiurare il rischio che dietro
provvedimenti restrittivi all‟importazione di generi alimentari, emanati
ufficialmente allo scopo di proteggere la cittadinanza, si nascondessero intenti
protezionistici. Ed è a tal fine che la Corte di Lussemburgo ammette che la
presunzione di equivalenza delle legislazioni nazionali sulla circolazione dei
prodotti possa soffrire eccezioni se necessarie a perseguire uno «scopo di
interesse generale» e nel rispetto del principio di proporzionalità.
Concetto, questo, ribadito anche nelle pronunce successive25, ove si
elabora la teoria delle c.d. esigenze imperative, che, operando un potenziale
ampliamento delle tassative eccezioni previste dall‟art. 30 del Trattato CE
(ovvero motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza,
di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione
dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico
nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale), consente di
fatto agli Stati membri l‟interposizione di ostacoli alla libera circolazione anche
per necessità di tutela dei consumatori.
In realtà, pur nell‟intento di salvaguardare la salute dei cittadini
comunitari, lo smantellamento degli ostacoli intracomunitari di natura
protezionistica apre la strada ad una circolazione indiscriminata di qualsiasi
tipologia di alimento, addossando sui governi nazionali ogni controllo sulla sua
sicurezza e mantenendo, al posto di rimuoverle, le differenze tecniche in
materia di sicurezza alimentare26.
25
Corte giust. CE 20 settembre 1988, C-302/86, in Racc., 1988, p. 4067 ss..
F. CAPELLI, Il principio del Mutuo Riconoscimento non garantisce buoni risultati nel settore dei
prodotti alimentari, in Jus, 1992, p. 141 ss., secondo cui «La giurisprudenza della Corte di
Giustizia, che ha svolto una funzione determinate nello smantellamento degli ostacoli
intracomunitari di natura protezionistica e discriminatoria, ha però cercato di rendere possibile
essenzialmente la libera circolazione delle merci imponendo il rispetto del principio del mutuo
riconoscimento, senza curarsi troppo delle pretese, anche legittime, degli Stati membri, di
mantenere in vigore le proprie regolamentazioni interne che non perseguivano obiettivi
protezionistici e non risultavano discriminatorie ai danni dei prodotti importati».
26
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Non mancano, poi, casi paradigmatici in cui la Corte di giustizia
privilegia “ad oltranza” il commercio intracomunitario a discapito della qualità
e sicurezza alimentare, subordinando la libera circolazione delle merci alla
condicio sine qua non di un‟adeguata informazione del consumatore.
Esemplificative sono, al riguardo, le decisioni Van der Laan27, relativa a
un prosciutto importato dai Paesi Bassi con un contenuto proteico diverso da
quello tedesco, e Commissione c. Italia28, sulla tutela della denominazione del
cioccolato, in cui si conia il principio cardine secondo cui gli Stati membri
possono esigere dagli interessati la modifica della denominazione di una derrata
alimentare quando un prodotto presentato con una data denominazione sia
talmente differente, dal punto di vista della sua composizione o della sua
fabbricazione, dalle merci generalmente conosciute con la stessa denominazione
nella Comunità da non poter essere considerato appartenente alla medesima
categoria. Viceversa, nel caso di una differenza meno netta, un‟etichettatura
adeguata è sufficiente a fornire all‟acquirente o al consumatore le informazioni
necessarie sulla diversa composizione del prodotto.
Può osservarsi che questa tendenza della Corte ad ampliare la categoria
dei prodotti cd. generici (cioè generi alimentari che hanno perso il riferimento a
un‟unica composizione del prodotto), vada di pari passo con la rinuncia della
Commissione europea ad armonizzare gli obblighi relativi alla qualità del cibo
attraverso ricette di tipo universale.
E‟ questo, ad esempio, il noto caso del formaggio Emmenthal29,
fabbricato in violazione della normativa francese sulla pubblicità perché privo
di crosta, in cui si palesa l‟orientamento della Corte di giustizia volto a
distinguere tra alimenti “generici” e alimenti “specifici” e ad ammettere la
commercializzazione di più varianti dello stesso prodotto anche se con
27
Corte giust. CE 9 febbraio 1999, C-383/97,Van der Laan, in Racc., 1999, I, p. 731, commentata
da L. COSTATO, Brevi note a proposito di tre sentenze su circolazione dei prodotti, marchi e
protezione dei consumatori, in Riv. dir. agr., 1999, p. 157 e da G. FRANCIOSI, Consumatori e
produttori tra tutela della salute, diritto all’informazione e libero mercato: due difficili
“balancing tests” della Corte di giustizia, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 1999, p. 777; Corte giust.
CE 16 marzo 1999, C-289/96, C-293/96 e C-299/96, Regno di Danimarca c. Commissione e
Grecia, in Riv. dir. agr., 1999, p. 130, con nota di A. DI LAURO, Denominazione di origine
protetta e nozione di denominazione generica: il caso Feta.
28
Corte giust. CE 16 gennaio 2003, C-14/00, Commissione c. Italia, in Racc., 2003, p. I-513.
29
Corte giust. CE 5 dicembre 2000, C–448/98, Guimont, in Dir. pubbl. comun., 2001, p. 95 ss.,
con nota di P. PALLARO, La sentenza Guimont: un definitivo superamento “processuale”
dell’irrilevanza comunitaria “sostanziale” delle c.d. “discriminazioni a rovescio”?
65
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
composizione differente da quella prevista dalla ricetta originale. Pur
supponendo che la differenza nel metodo di affinatura tra un Emmenthal munito
di crosta ed uno senza crosta possa costituire un elemento atto ad indurre il
consumatore in errore, sarebbe sufficiente – secondo la Corte – mantenere la
denominazione “emmenthal” accompagnata da un‟informazione adeguata con
riguardo a tale differenza.
Sebbene la Comunità europea preveda la possibilità di riconoscere agli
alimenti tradizionali un marchio di garanzia (DOP, IGP e STG), nondimeno,
non può non evidenziarsi come questo atteggiamento della Corte e la sua
inclinazione ad ampliare l‟ambito di genericità dei prodotti alimentari abbia
inciso negativamente sulla qualità finale dei prodotti, «spingendo i produttori a
investire su qualità inferiori di cibo, che possono poi essere messe in commercio
con la stessa denominazione di altri cibi di qualità superiore, ma a un prezzo
inferiore»30.
L‟esigenza di un sistema coerente ed affidabile di etichettatura è
confermata da una recente pronuncia31, che interviene sulla tematica
dell‟informazione ai cittadini e ai consumatori in relazione agli alimenti definiti
“a rischio”.
La Corte di giustizia, nelle sue brevi motivazioni, precisa anzitutto che
l‟obbligo di informazione dei fruitori di prodotti alimentari sussiste, non solo
nel caso in cui vi siano “ragionevoli motivi” per sospettare che un alimento o
mangime possa comportare un rischio per la salute umana o animale, ma anche
a fronte di un alimento “unicamente” inadatto al consumo umano. I giudici
ricordano che un alimento è, infatti, «inadatto» laddove «inaccettabile per il
consumo umano secondo l‟uso previsto, in seguito a contaminazione dovuta a
materiale estraneo o ad altri motivi, o in seguito a putrefazione, deterioramento
o decomposizione».
In queste fattispecie, non essendo soddisfatti i requisiti relativi alla
sicurezza alimentare e rappresentando l‟alimento una minaccia rispetto
all‟obiettivo di tutela degli interessi dei consumatori, la Corte ritiene che le
autorità nazionali, nel rispetto degli obblighi del segreto professionale, debbano
informare i cittadini riportando in etichetta la denominazione dell‟alimento e la
30
S. BARONCELLI, Giurisprudenza della CGE in materia di sicurezza e qualità degli alimenti, in
Consumatori, diritti e mercato, 2007, p. 138.
31
Corte giust. CE 11 aprile 2013, C-636/11, Karl Berger c. Freistaat Bayern, in
www.rivistadirittoalimentare.it, 2013.
66
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
denominazione dell‟impresa, o la ragione sociale, sotto la quale l‟alimento
stesso è stato prodotto, trasformato o immesso sul mercato.
Nel percorso giurisprudenziale europeo, in materia di sicurezza
alimentare, degna di nota è, altresì, la sentenza Monsanto Italia32, vertente,
essenzialmente, sull‟interpretazione del concetto di equivalenza sostanziale dei
cd. novel foods (cioè di quegli alimenti prodotti a partire da OGM, ma che non
li contengono) con quelli tradizionali.
Nella pronuncia, la Corte di giustizia, dopo aver evidenziato la duplice
finalità che sorregge il regolamento (CE) n. 258/1997 - concernente il buon
funzionamento del mercato interno e la tutela della salute pubblica - accoglie
un‟interpretazione estensiva della nozione di equivalenza sostanziale,
ricomprendendo all‟interno di essa anche i nuovi prodotti alimentari che
presentano differenze di composizione prive di effetti sulla salute pubblica. Di
tal che la mera presenza all‟interno di nuovi prodotti alimentari di residui di
proteine transgeniche a determinati livelli non precluderebbe, secondo la Corte,
che tali prodotti siano considerati sostanzialmente equivalenti a generi
alimentari già esistenti.
La ricostruzione ermeneutica attuata dalla Corte supera,
inequivocabilmente, l‟interpretazione fornita dall‟amministrazione statale, che
legava, invece, l‟equivalenza sostanziale all‟identità di composizione chimica
dei prodotti a confronto, con la dovuta precisazione che siffatta indicazione non
vale qualora le conoscenze scientifiche disponibili all‟epoca della valutazione
iniziale permettano di individuare l‟esistenza di una pericolosità anche solo
potenziale per la salute umana. In altri termini, la decisione colloca in una sorta
di “limbo”, tra i prodotti che non presentano rischi per la salute e gli OGM, i
prodotti e gli ingredienti alimentari a partire da OGM, ma che non li
contengono33.
Temperata così la concezione più restrittiva del principio di
precauzione, si cerca di evitare che l‟incertezza scientifica sulla sicurezza di un
prodotto possa introdurre surrettiziamente misure protezionistiche nei rapporti
32
Corte giust. CE 9 settembre 2003, C-236/01, Società Monsanto Agr. It. c. Presidenza del
Consiglio dei Ministri, in Dir e giust., 2004, p. 112. In argomento, A. BARONE, Organismi
geneticamente modificati (Ogm) e precauzione: il “rischio” alimentare tra diritto comunitario e
diritto interno, in Foro it., 2004, p. 254 ss..
33
M. POTO, Il mais transgenico davanti al T.a.r. del Lazio: storia di una pericolosità ancora tutta
da dimostrare, in Giur. it., 2005, p. 8.
67
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
commerciali. Vero è, però, che da qualche tempo, la Corte di giustizia –
consapevole della natura insufficiente, inconcludente e/o imprecisa dei risultati
scientifici in ordine alla pericolosità di alcune sostanze – inizia ad esigere una
valutazione del rischio più approfondita e rigorosa, giustificando l‟adozione di
misure restrittive, sulla base del principio di precauzione, «qualora risulti
impossibile determinare con certezza l‟esistenza o la portata del rischio asserito
(…), ma persista la probabilità di un danno reale per la salute nell‟ipotesi in cui
il rischio si realizzasse»34.
Si riconosce, così, alle autorità nazionali un potere discrezionale
nell‟adottare misure di carattere precauzionale, a condizione che sia dimostrata
la cd. “necessità ambientale”35. Più esattamente, spetta alle autorità nazionali
provare, alla luce delle abitudini alimentari nazionali e tenuto conto dei risultati
della ricerca scientifica internazionale, che la loro normativa è necessaria per
proteggere gli interessi considerati e, segnatamente, che la commercializzazione
e/o il consumo dei prodotti considerati nel caso concreto presentano un serio
rischio che ponga a repentaglio in modo manifesto la salute umana, la salute
degli animali o l‟ambiente.
Deve, comunque, essere evidenziato che, secondo la giurisprudenza
comunitaria, la valutazione del rischio non può fondarsi un approccio
puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora
accertate scientificamente. Al contrario, eventuali misure di tutela, nonostante il
loro carattere provvisorio e ancorché esse rivestano un carattere preventivo,
possono essere adottate solamente se fondate su una valutazione dei rischi
quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso
di specie, che dimostrino che tali misure sono appunto necessarie.
Il medesimo orientamento è utilizzato dalla Corte di giustizia anche nei
confronti degli OGM, laddove si ribadisce che le misure di tutela adottate in
forza dell‟art. 34 del regolamento (CE) n. 1829/2003 non possono essere
validamente basate su considerazioni ipotetiche e che «uno Stato membro non è
libero di subordinare a un‟autorizzazione nazionale, fondata su considerazioni
di tutela della salute o dell‟ambiente, la coltivazione di OGM autorizzati in virtù
del citato regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune delle varietà
34
Corte giust. CE 2 dicembre 2004, C-41/02, Commissione c. Paesi Bassi, in Racc., 2004, I, p.
11375.
35
M. MONTINI, La necessità ambientale nel diritto internazionale e comunitario, Cedam, Padova,
2001, p. 347 ss..
68
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
delle specie di piante agricole previsto dalla direttiva n. 2002/53/CE . Al
contrario, un divieto o una limitazione della coltivazione di tali prodotti possono
essere decisi da uno Stato membro nei casi espressamente previsti dal diritto
dell‟Unione»36.
In questa prospettiva, i giudici europei se, da un lato, riconoscono
divieti e limitazioni nazionali alla coltivazione in conseguenza di misure di
coesistenza realmente adottate, dall‟altro, escludono che la facoltà di disporre di
tali misure possa essere sostituita da procedure di autorizzazione alla messa a
coltura che consentano ad uno Stato membro di opporsi alla coltivazione di
OGM.
Rifiutando un approccio troppo cautelativo, la giurisprudenza
comunitaria dimostra, insomma, di tollerare situazioni in cui il rischio è
estremamente basso, nella consapevolezza che l‟applicazione del principio di
precauzione non possa implicare il raggiungimento di un livello di “rischio
zero”37.
4. Gli OGM tra sviluppo sostenibile e sicurezza alimentare. Il criterio
dell’equivalenza sostanziale e la sua (in)efficacia nella valutazione del rischio.
La comunità scientifica, anche se non unanimemente, ritiene che gli
organismi geneticamente modificati possano rappresentare una soluzione
efficace e durevole ai problemi della sostenibilità ambientale e di accesso al
cibo, offrendo una migliore qualità alimentare e vantaggi ambientali attraverso
raccolti perfezionati da un punto di vista agronomico, utili finanche per la
prevenzione di patologie e la riduzione di rischi sanitari. Aumentando la
resistenza naturale alle malattie o allo stress delle piante e degli animali sarebbe,
infatti, possibile ridurre l‟uso di pesticidi chimici, fertilizzanti e farmaci e
stimolare il ricorso ad una lavorazione del terreno basata su principi di tutela
dell‟ambiente, con pratiche agricole più sostenibili.
Un‟affermazione di tale portata, tuttavia, deve essere misurata con
l‟inevitabile grado di approssimazione che il concetto di sviluppo sostenibile
36
Corte giust. CE 8 settembre 2011, C-58/10 e C-68/10, in www.ambientediritto.it; Corte giust.
CE 6 settembre 2012, C-36/11, Pioneer c. Italia, in www.dirittoegiustizia.it; Corte giust. CE 8
maggio 2013, C-542/12, Fidenato c. Italia, in curia.europa.eu.
37
G. MONACO, Dal Consiglio di Stato quasi un “decalogo” sull’applicazione del principio di
precauzione, in Urb. e app., 2014, p. 558.
69
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
porta con sé. Non bisogna, infatti, dimenticare che la letteratura ha proposto e
discusso molte definizioni di sviluppo sostenibile, spesso tra loro incompatibili,
che hanno portato all‟emersione di approcci tutt‟altro che univoci basati su
ideologie ambientali alternative.
In generale sono riconosciute due visioni principali dello sviluppo
sostenibile: una più ampia ed una più ristretta38.
La visione più ampia, condivisa dalla WCED, comprende al suo interno
lo sviluppo sociale oltre che quello economico ed ecologico. Quella più ristretta
si riferisce, invece, quasi esclusivamente agli aspetti di gestione ambientale e
alle risorse, delle quali si teme l‟esaurimento nel tempo.
La Comunità europea sembra prediligere un livello di sostenibilità cd.
debole, il cui imperativo non è quello di conservare le risorse naturali, ma di
armonizzarne lo sfruttamento con le varie sfaccettature di sviluppo socioeconomico. In quest‟ottica, la sostenibilità agricola ben si accorderebbe con
l‟utilizzo delle agro-biotecnologie, nella misura in cui la manipolazione
genetica introduca nuove colture e/o forme alternative di produzione che
assicurino la conservazione e la disponibilità delle risorse naturali presenti
anche per le generazioni future.
A tutto ciò fa‟, però, da contraltare la sicurezza alimentare dei prodotti
che da essi derivano. E ciò non tanto per l‟artificialità del processo che conduce
alla loro realizzazione, quanto piuttosto per le tecniche di intervento sul codice
genetico e per la tempistica di realizzazione e diffusione del prodotto,
mediamente inferiore rispetto a quella che, di norma, è necessaria per
l‟accertamento scientifico degli eventuali effetti nocivi39.
Il sempre maggiore impiego di OGM nella produzione di prodotti
agricoli e alimentari e la loro circolazione globalizzata sono, certamente, tutti
fattori che hanno accresciuto il problema della sicurezza alimentare, nella sua
duplice accezione di security food40, intesa come sicurezza delle disponibilità
38
E. BARBIER, Economics, Natural Resources, Scarcity and Development, Earthscan, London,
1989; D. PEARCE – A. MARKANDYA – E. BARBIER, Progetto per un’economia verde, Il Mulino,
Bologna, 1991, p.205.
39
P. BORGHI, Biotecnologie, tutela dell’ambiente e tutela del consumatore nel quadro normativo
internazionale e nel diritto comunitario, in Riv. dir. agr., 2001, p. 365 ss..
40
Ai sensi del par. 1 del World Food Summit Plan of Action (13-17 November 1996, Rome),
«Food security exists when all people, at all times, have physical and economic access to
sufficient, safe and nutritious food to meet their dietary needs and food preferences for an active
and healthy life».
70
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
alimentari (il più possibile proporzionate alle esigenze mondiali di nutrizione,
«per le quali l‟impiego degli OGM potrebbe rappresentare uno degli strumenti
di soluzione dei più urgenti problemi di fabbisogno»41) e safety food, valutata in
termini di sicurezza tossicologica e nutrizionale dei prodotti alimentari.
Nell‟Unione europea, il conseguimento di una piena autosufficienza
alimentare ha consentito di attenzionare maggiormente l‟aspetto della food
safety e della qualità degli alimenti, anche se non può non considerarsi come la
food security sia destinata, negli anni a venire, ad assumere una rilevanza
sempre maggiore all‟interno dell‟agenda politica europea, ove «la sicurezza
degli approvvigionamenti» viene annoverata, all‟art. 39 TFUE, tra le finalità
della Politica Agricola Comune42.
La sicurezza alimentare (in termini di food safety) è nozione imprecisa e
vaga, influenzata, peraltro, dalla grande eterogeneità dei contesti sociali e
giuridici cui fa‟ riferimento. Conferma di tale constatazione si rinviene nelle
svariate discipline di matrice europea, che, pur stabilendo i principi generali ed i
requisiti in materia di legislazione alimentare (fra cui l‟analisi del rischio, la
precauzione, la tutela degli interessi dei consumatori, la consultazione e
l‟informazione dei cittadini), non ne hanno mai chiarito il significato.
Una, seppur minima, definizione di “alimento sicuro” si rinviene
nell‟art. 14 del regolamento (CE) n. 178/2002 (cd. “General Food Law”)43, il
quale si limita a recitare che «gli alimenti conformi a specifiche disposizioni
comunitarie riguardanti la sicurezza alimentare sono considerati sicuri in
relazione agli aspetti disciplinati dalle medesime», aggiungendo che «gli
alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato».
Esiste, tuttavia, un‟idea portante di safety food, emergente dal citato
regolamento (CE) n. 178/2002, intesa quale necessità che ogni prodotto
41
In tal senso, P. BORGHI, Biotecnologie, tutela dell’ambiente e tutela del consumatore, cit., p.
364; ID., Sicurezza alimentare e commercio internazionale, in E. ROOK BASILE – A. MASSART – A.
GERMANO‟ (a cura di), Prodotti agricoli e sicurezza alimentare, Atti del VII Convegno mondiale
di diritto agrario dell‟UMAU in memoria di Louis Lorvellec, Pisa - Siena 5-9 novembre 2002,
Giuffrè, Milano, 2004, p. 449 ss..
42
L. PAOLONI, La Food security nei programmi della PAC, in L. COSTATO – P. BORGHI – L.
RUSSO – S. MANSERVISI (a cura di), Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona. I riflessi sul
diritto agrario, alimentare e ambientale, Atti del Convegno di Ferrara, 6-7 Maggio 2011, Jovene
editore, Napoli, 2011.
43
L. COSTATO, Dal mutuo riconoscimento al sistema europeo di diritto alimentare: il
regolamento 178/2002 come regola e come programma, in Riv. dir. agr., 2003, p. 293 ss., il quale
critica l‟eccessiva lacunosità delle norme comunitarie in materia di sicurezza alimentare,
evidenziando la mancanza di unitarietà ed organicità.
71
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
destinato all‟alimentazione umana e animale non risulti dannoso od inadatto per
la salute del consumatore. Più esattamente, un alimento, nella misura in cui
risulta nocivo per la salute e/o inadeguato al consumo umano, è considerato «a
rischio» perché, da un lato, non soddisfa i parametri di sicurezza enunciati
dall‟art. 14, par. 1, regolamento (CE) n. 178/2002 e, dall‟altro, in ogni caso,
rappresenta una minaccia per gli interessi dei consumatori, la cui tutela è uno
degli obiettivi perseguiti dalla legislazione alimentare, come chiaramente
specificato dall‟art. 5 del medesimo regolamento.
A tale onnicomprensiva nozione di “sicurezza alimentare”, si affiancano
ulteriori specificazioni di essa, che concorrono ad attribuire giuridica rilevanza a
singoli aspetti destinati ad influire sull‟innocuità dell‟alimento.
Così, con riferimento agli OGM, l‟art. 4, par. 1, regolamento (CE) n.
1829/2003 dispone che gli alimenti di cui all‟art. 3, par. 1 (ossia quelli di cui si
occupa il regolamento), non devono avere effetti nocivi sulla salute umana,
degli animali o dell‟ambiente, trarre in inganno il consumatore e differire dagli
alimenti che intendono sostituire in misura tale che il loro consumo normale
sarebbe svantaggioso per i consumatori sul piano nutrizionale. Dal che se ne
deduce che i prodotti alimentari derivanti da OGM, per considerarsi “non a
rischio”, debbono risultare sicuri dal punto di vista tossicologico e
nutrizionale44.
Per garantire un elevato livello di tutela della salute umana e degli
interessi dei consumatori fondamentale risulta allora l‟analisi del rischio, che,
dal punto di vista funzionale, si articola nelle fasi della valutazione (risk
assessement), gestione (risk manangement), e comunicazione (risk
communication).
L‟obiettivo della valutazione del rischio è certamente quello di
individuare e valutare gli effetti (diretti, indiretti, immediati o differiti)
potenzialmente negativi degli OGM sulla salute umana e sull‟ambiente,
provocati dalla loro emissione deliberata o immissione sul mercato. E ciò al fine
di determinare se sia necessario procedere ad una gestione del rischio e, in caso
affermativo, reperire i metodi più appropriati da impiegare.
In questa prospettiva, il risk assessment si presenta come attuazione del
principio di precauzione, che diviene, nell‟intento del legislatore comunitario, il
44
Si veda, al riguardo, L. RUSSO, La sicurezza delle produzioni «tecnologiche», in Riv. dir. alim.,
2010, pp. 3-9.
72
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
criterio guida fondamentale per l‟individuazione del limite della sicurezza – e
dunque della commerciabilità – di un prodotto OGM.
Il ricorso al principio di precauzione presuppone la sussistenza di due
pre-condizioni, ovvero un certo livello di incertezza che un determinato evento
negativo possa verificarsi e un‟insufficiente disponibilità di dati scientifici in
grado di determinare con sicurezza l‟effettiva portata del danno. In questi
termini, il cd. rischio potenziale legittima l‟applicazione del principio di
precauzione nella misura in cui ad un avvenimento è associato un dubbio
accompagnato da seri indici di conseguenze irreparabili per la salute e per
l‟ambiente.
Connaturata al concetto di precauzione è una sorta di “knowledge
condition”45, ovvero l‟esigenza di individuare il livello di prova scientifica
necessaria ad “attivare” l‟applicazione di eventuali misure precauzionali, sì da
conciliare la sicurezza alimentare ed i concorrenti obiettivi della libera
circolazione delle merci e dell‟innovazione tecnologica.
Trovare un meccanismo orientato in funzione precauzionale, secondo il
modello dell‟analisi dei rischi, richiede un processo decisionale strutturato,
basato su informazioni particolareggiate e obiettive di carattere scientifico.
La soluzione sembra rintracciarsi nel concetto di equivalenza
sostanziale, nato attorno agli anni ‟50 del secolo scorso per la valutazione delle
nuove varietà vegetali e, successivamente, elevato in ambito internazionale
dall‟Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) a
parametro di valutazione. Secondo l‟OCSE «l‟equivalenza sostanziale consiste
nell‟utilizzare organismi esistenti, che sono già usati come alimenti o da cui si
derivano alimenti, come pietra di paragone per valutare se un prodotto o un
ingrediente nuovo o modificato ponga problemi di sicurezza per il consumo
umano. Se si riscontra che un prodotto o un ingrediente alimentare nuovo è
sostanzialmente equivalente ad uno esistente, lo si può trattare alla stregua di
quest‟ultimo in fatto di sicurezza, pur tenendo presente che il metodo
dell‟equivalenza sostanziale non corrisponde ad una valutazione della sicurezza
45
Cfr. N. A. MANSON, Formulating the Precautionary Principle, in Environmental Ethichs, 2002,
34(3), pp. 263-247; A. C. PETERSEN – B. C. C. VANDERZWAAN, The precautionary principle:
(Un)certainties about species loss, in B. C. C. VANDERZWAAN - A. C. PETERSEN (eds.), Sharing
the Planet: Popolation – Consumption – Species. Science and Ethics for a Sustainable and
Equitable World, Eburon Academic Publishers, 2003, pp. 133-150.
73
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
o del valore nutritivo, ma è solo un‟analisi comparativa di un potenziale
prodotto nuovo e del suo omologo tradizionale»46.
Detto criterio, di matrice internazionale, è chiaramente richiamato
nell‟allegato II della direttiva 2001/18/CE, che, nell‟individuare i principi e le
metodologie generali da seguire per effettuare la valutazione del rischio, fa‟
esplicito riferimento alle «caratteristiche accertate dell‟OGM ed il suo uso» che
«devono essere confrontati con quelli propri dell‟organismo non modificato da
cui l‟OGM è stato ricavato e col suo uso in situazioni corrispondenti». Analogo
parametro si rinviene, altresì, nel già citato art. 4, par. 1, regolamento (CE) n.
1829/2003, secondo cui gli alimenti OGM non possono differire da quelli che
intendono sostituire.
Qui, a differenza dell‟interpretazione fornita dai Paesi produttori di
OGM – ove le varietà geneticamente modificate vengono considerate, salvo
prova contraria, sostanzialmente equivalenti a quelle convenzionali, sotto il
profilo qualitativo e/o nutrizionale – l‟equivalenza riguarda, essenzialmente, il
confronto delle caratteristiche di uno o più OGM con quelle dell‟entità
biologica non modificata, in condizioni comparabili di emissioni o uso47. Con la
peculiarità che tale raffronto ha il fine di identificare i potenziali effetti negativi
generati dalla modificazione genetica e di appurare eventuali cambiamenti
spontanei che potrebbero potenzialmente verificarsi nel codice genetico
dell‟alimento, a seguito della sua commercializzazione.
In ambito europeo, la difformità biochimica degli OGM giustifica,
quindi, il ricorso al principio di precauzione, nonostante, il campo di
applicazione di tale principio sia stato, nel corso degli anni, ricondotto entro
46
Per una definizione del concetto di equivalenza sostanziale cfr. anche il manuale di procedura
della commissione del Codex alimentarius della FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per
l‟alimentazione e l‟agricoltura), 12ma edizione, 51 e l‟allegato III della comunicazione
provvisoria della commissione del Codex alimentarius della FAO e dell‟OMS, CX 4/10, CL
2000/12 - GP, aprile 2000. In argomento, A. A. OSTROVSKY, The new Codex Alimentarius
Commission standards for food created with modern biotechnology: implications for the EC
GMO framework’s compliance with the SPS Agreement, in Michigan journal of international law,
2004, p. 813 ss.
47
L‟esame comparativo è un esercizio analitico che contiene un elemento dinamico, in quanto la
costante modifica del prodotto presuppone che la base comparativa evolva in modo tale che il
prodotto più recente sia sempre paragonato all‟ex-prodotto nuovo più adeguato, anziché al suo
omologo più tradizionale.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
criteri più oggettivi e di maggiore rigore scientifico48. Peraltro, la stessa
formulazione del principio, ad opera dell‟art. 7, direttiva 2001/18/CE, appare
“fragile”, laddove esso «non trova applicazione obbligatoria ma solo
eventuale»49, a dimostrazione di una notevole cautela del legislatore
comunitario.
Benché investita di «a scientific legitimacy and an academic
pedigree»50, la nozione di equivalenza pone non pochi dubbi interpretativi,
risultando, oltre che indifferente a valutazioni etiche, ambientali e culturali,
priva di uno stringente valore scientifico51. A ben vedere, difatti, l‟identità
sostanziale non comporta, di per sé, una valutazione dei rischi, ma rappresenta
un approccio volto a confrontare il nuovo prodotto alimentare con il suo
equivalente tradizionale, al fine di verificare se esso debba essere sottoposto a
una valutazione dei rischi per quanto riguarda in particolare la sua
composizione e le sue proprietà specifiche.
Sotto altro profilo, peraltro, v‟è da evidenziare come i giudizi scientifici
– che, come detto, possono giustificare l‟adozione di misure precauzionali –
risultino inevitabilmente permeati da molteplici componenti valutative, che
determinano un certo grado di variabilità nell‟interpretazione dei dati a
disposizione. Dette valutazioni, basate su valori pregiudiziali (bias values), che
inducono gli esperti ad omettere dati o ad interpretarli in modo scorretto al fine
di addivenire ad una certa interpretazione, contestuali (contextual values), cioè
legati a preferenze personali e culturali e, infine, metodologici (methodological
values), connessi alla scelta di determinate teorie o regole metodologiche
piuttosto che di altre, alterano il giudizio scientifico che, così, non risulterà mai
imparziale (value-leden) e univoco52.
Considerato poi che, in alcuni casi, la sola valutazione scientifica non è
in grado di fornire tutte le informazioni su cui dovrebbe basarsi una decisione di
48
F. ROSSI DAL POZZO, Profili recenti in tema di organismi geneticamente modificati nel settore
agroalimentare fra procedure di comitato e tutela giurisdizionale, in Dir. comm. int., 2014, p. 339
ss..
49
L. COSTATO, Compendio di diritto alimentare, Cedam, Padova, 2006, III ed., p. 96.
50
E. C. YORK, Global Foods, Local Tastes and Biotechnology: The New Legal Architecture of
International Agriculture Trade, in Columbia Journal of European Law, 2002, p. 425 ss..
51
In senso conforme, M. P. BELLONI, Nel limbo degli OGM: tra divergenze interpretative e
disciplinari, alla ricerca di un accordo tra Stati Uniti e Unione europea. E’ questione di etichetta,
ma anche di etica, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2006, p. 129 ss..
52
M. TALLACCHINI, Principio di precauzione e filosofia pubblica dell’ambiente, in C. QUARTA (a
cura di), Una nuova etica per l’ambiente, Dedalo, Bari, 2006.
75
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
gestione del rischio, sarebbe preferibile vagliare «altri fattori pertinenti, tra i
quali aspetti di natura societale, economica, tradizionale, etica e ambientale
nonché la realizzabilità dei controlli» (Considerando 19, regolamento (CE) n.
178/2002).
In effetti, la direttiva 2001/18/CE richiama, accanto ai criteri tecnico scientifici posti alla base dell‟attività di valutazione del rischio, i principi etici e
le implicazioni socio - economiche. Sulla scorta dei Considerando 9, 57 e 58,
ciascuno Stato membro può, infatti, consultare il Gruppo europeo della
Commissione per l‟etica delle scienze e delle nuove tecnologie o qualsiasi
comitato da esso istituito allo scopo di ottenere un parere sulle implicazioni
etiche della biotecnologia, ferma restando la propria competenza in merito alle
questioni etiche.
Un più attento esame della normativa induce, tuttavia, a ritenere che
detti principi, nell‟articolato della direttiva, riscuotono una rilevanza certamente
inferiore rispetto ai parametri di carattere scientifico, soprattutto laddove si
prevede “l‟opportunità” di interpellare il Gruppo europeo per l‟etica delle
scienze e delle nuove tecnologie, per ottenere «un parere sulle implicazioni
etiche della biotecnologia», lasciando impregiudicate le procedure
autorizzatorie (art. 29, direttiva 2001/18/CE)53. Ciò a dimostrazione del fatto
che la Commissione europea, coerentemente con la sua missione, tende
visibilmente a preservare in misura maggiore le esigenze di natura economicocommerciale, che costituiscono da sempre oggetto di prioritaria attenzione a
livello comunitario.
Ad ogni modo, a prescindere dalla sua inefficacia, dal punto di vista
scientifico, il criterio dell‟equivalenza appare scarsamente obiettivo, in quanto
fortemente sostenuto da pressioni economico-politiche. Ed invero, nell‟ambito
dei controlli e della vigilanza svolti dall‟Agenzia europea per la sicurezza
alimentare (EFSA), esistono ancora dubbi sull‟efficacia degli accertamenti
effettuati e dei metodi utilizzati, posto che, com‟è stato evidenziato, «il rispetto
53
G. FRANCO, Rischio ambientale e principio di precauzione nella direttiva sugli OGM, in
Ambiente, 2001, p. 951 ss., secondo cui «sembra più agevole immaginare che elementi di tale
nature – di tipo soggettivo e quindi opinabili – saranno utilizzati come una seconda linea
argomentativa allorquando (…) in costanza di gravi zone d‟ombra sulla capacità di
individuazione e/o gestione del cd. rischio ambientale»; M. KRITIKOS, Traditional risk analysis
and releases of GMOs into the European Union: Space for non-scientific factors?, in European
Law Review, 2009, p. 425. L. GRADONI, La nuova direttiva sugli organismi geneticamente
modificati, in Dir. comun. sc. int., 2001, p. 758.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
delle procedure non garantisce la salvaguardia della salute e dell‟ambiente,
poiché allo stato non si conoscono i reali effetti, soprattutto a media e lunga
durata, degli OGM sull‟uomo e sull‟ambiente».
A ben vedere, dunque, allo stato attuale la valutazione del rischio
sembrerebbe risolversi in una sorta di «bilanciamento degli interessi in gioco
fondato su aspetti politici piuttosto che scientifici»54.
5. La gestione del “rischio OGM” alla luce del principio della libera
circolazione delle merci. Le sorti della sicurezza alimentare a fronte
dell’approvando Transatlantic Trade and Investment Partnership.
La tematica della sicurezza alimentare all‟interno dell‟Unione europea
non può non essere analizzata anche alla luce della regolamentazione del
commercio internazionale degli alimenti e, in particolare, del quadro normativo
sviluppatosi nell‟ambito della WTO, che, tra le organizzazioni internazionali
competenti nelle materie inerenti i prodotti agroalimentari e i mangimi, riveste,
indubbiamente, una posizione di rilievo.
Fra le norme cui fare riferimento vi è, anzitutto, l‟art. XX GATT 94, a
mente del quale nessuna disposizione dell‟Accordo istitutivo dell‟OMC deve
impedire l‟adozione, da parte di uno Stato contraente, di misure necessarie a
proteggere la vita o la salute umana, animale o vegetale. Dette misure sono, a
ben vedere, strettamente connesse al requisito della necessità, intesa come
indisponibilità di soluzioni alternative che non sia in contrasto con altre
disposizioni del quadro giuridico OMC o che, in ogni caso, implichi un minore
grado di incompatibilità.
54
L. TUMMINELLO, Sicurezza alimentare e diritto penale, op. cit., p. 7. Non bisogna poi
dimenticare che, molto spesso, l‟attività di vigilanza e monitoraggio dell‟EFSA viene per così dire
“assistita” anche da dossier predisposti dalle stesse aziende; il che finisce per costituire un punto
di debolezza delle procedure che portano all‟autorizzazione degli OGM, in quanto i risultati degli
studi scientifici, anche se vagliati da un organo indipendente e neutrale, provengono da soggetti
interessati alla circolazione dei prodotti OGM. Analogamente, G. SPOTO, Tutela del consumatore
e sicurezza alimentare: obblighi di informazione in etichetta, in Contratto e impresa, 2014, p.
1084, per il quale «se da un lato esiste la preoccupazione condivisa in tutti gli ordinamenti
giuridici di garantire una informazione corretta e trasparente, dall‟altro si assiste al proliferare di
comunicazioni derivanti esclusivamente da ricerche scientifiche finanziate dagli stessi produttori
e, solo in via eccezionale, controbilanciate da studi indipendenti».
77
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
In linea di principio, le eccezioni previste dal GATT possono essere
invocate unicamente a giustificazione di restrizioni commerciali inerenti i
prodotti in quanto tali e non già il loro processo di produzione.
Questa distinzione trae origine dal concetto di prodotto similare,
sviluppata nel GATT e successivamente incorporata nel sistema giuridico
dell‟OMC. Non mancano, tuttavia, interpretazioni maggiormente flessibili da
parte della giurisprudenza dell‟OMC, che – in taluni casi – ha esteso le clausole
d‟eccezione anche ai processi produttivi, nel rispetto degli accordi sulle misure
sanitarie e fitosanitarie55.
Il principio espresso nell‟art. XX GATT è completato dalla più ampia e
articolata regolamentazione contenuta nell‟allegato Accordo sulle misure
sanitarie e fitosanitarie (Accordo SPS), che, nel prevedere la possibilità per i
membri dell‟OMC (tra cui l‟Unione europea) di adottare misure precauzionali
volte a proteggere la salute umana, animale e vegetale dai rischi derivanti dalla
diffusione di malattie e dal consumo di alimenti, bevande e mangimi contenenti
sostanze nocive e agenti patogeni, ne limita l‟applicazione alla triplice
condizione che dette misure siano necessarie rispetto allo scopo perseguito,
risultino basate su criteri scientifici messi a punto dalle competenti
organizzazioni internazionali e non siano mantenute in assenza di sufficienti
prove scientifiche.
Il riferimento è – a ben vedere – agli standards, linee guida e
raccomandazioni della Commissione congiunta FAO-OMS del Codex
Alimentarius, di cui l‟Unione europea fa‟ parte, e, per quanto concerne la salute
animale e vegetale, ai principi e standards elaborati rispettivamente sotto gli
auspici dell‟International Office of Epizootics e del Segretariato della
Convenzione Internazionale sulla Protezione delle Piante.
Sebbene il rispetto di detti standards sia volontario, è indubitabile che
essi rivestano uno speciale status nell‟ambito dell‟OMC; tant‟è che le misure
nazionali adottate sulla base di tali guidelines si presumono essere conformi ai
principi della stesso sistema giuridico dell‟OMC, mentre ogni differente
approccio è quasi sempre messo in discussione. A titolo meramente
esemplificativo, basta qui menzionare i conflitti generatisi tra Comunità
europea, Stati Uniti e Canada sull‟utilizzo di ormoni della crescita
55
United States – Import Prohibition of Certain Shrimps and Shrimps Products, Report of the
Appellate Body, WT/DS58/AB/RW, 22 ottobre 2001.
78
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
nell‟allevamento di bovini56, che ha costretto l‟Unione ad abrogare la normativa
fino a quel momento esistente (direttive nn. 81/602/CEE, 88/146/CEE e
88/299/CEE), pur mantenendo il divieto di somministrazione agli animali di
sostanze aventi azione tireostatica, così come il divieto di commercializzazione
e/o di importazione da Paesi terzi di carni o derivati da animali ai quali fossero
state somministrate ormoni o similari.
Il contenzioso, che è risultato il più lungo mai verificatosi nel quadro
dell‟OMC, si è concluso con il riconoscimento da parte dell‟Appellate Body di
una violazione delle norme dell‟OMC da parte della Comunità, ritenendosi che
le misure adottate fossero il frutto di protezionismo commerciale da parte della
Comunità e non già di oggettive e indiscusse prove scientifiche. Conclusione,
questa, poi ribadita in altra occasione (Australia-Salmon)57, in cui si è
confermata l‟insufficienza dell‟esistenza di un rischio meramente speculativo,
derivante da una situazione di “theoretical uncertainty”, per giustificare un
ostacolo al commercio.
Con tutta evidenza, dunque, gli interessi del commercio mondiale
emergono, oggi, al punto da limitare il sistema normativo alimentare non solo
dei singoli Stati, ma anche della stessa Unione, determinando uno spostamento
dell‟effettivo potere di legiferare in materia a favore della WTO58. Postulando,
infatti, «una dimostrazione scientifica del rischio al fine di provare la necessità
delle misure nazionali, le norme dell‟Accordo SPS predispongono limiti interni
di particolare rigidità all‟agire discrezionale delle amministrazioni»59, riducendo
di fatto i poteri decisionali di queste ultime e, in situazioni di incertezza
scientifica, escludendo la facoltà di adottare decisioni ragionevoli, ponderate e
basate su criteri precauzionali.
Dunque, se è innegabile che l‟intero complesso normativo che
costituisce il diritto alimentare – considerato sia sotto il profilo comunitario che
56
European communities - Measures Concerning Meat and meat products, Report of the
Appellate Body, WT/DS26/AB/R, WT/DS48/AB/R, 16 gennaio 1998 e European communitiesMeasure Concerning Meat and meat products, Report of the Panel, WT/DS26/R/USA e
WT/DS48/R/CAN, 18 agosto 1997.
57
Australia–Measures affecting importation of salmon, Report of the Appellate Body,
WT/DS/18/AB/R, 20 ottobre 1998 e Australia – Measures affecting importation of salmon,
Report of the Panel, WT/DS18/R, 12 giugno 1998.
58
L. COSTATO, I principi fondanti il diritto alimentare, in Riv. dir. alim., 2007, p. 1.
59
D. BEVILACQUA, I limiti della scienza e le virtù della discrezionalità: il principio di
precauzione nel diritto globale, in G. DELLA CANANEA (a cura di), I principi dell’azione
amministrativa nello spazio giuridico globale, ESI, Napoli, 2007, p. 4 ss..
79
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
internazionale – è fondato sul principio generale di protezione del consumatore
e della sua salute, molte regole risultano condizionate dalle esigenze del
commercio.
Prova ne è il fatto che la recente direttiva n. 2015/412/CE riconosce agli
Stati membri la facoltà di limitare o vietare la coltivazione di OGM sul proprio
territorio nazionale proprio alla condizione che vengano rispettati gli obblighi
internazionali assunti dall‟Unione europea in seno all‟OMC, fermo restando,
peraltro, la confinazione di dette limitazioni e/o divieti alla sola coltivazione e
non anche alla libera circolazione ed importazione di sementi e materiale di
propagazione vegetale geneticamente modificati, come tali o contenuti in
prodotti (Considerando 16, direttiva n. 2015/412/CE)60.
Rebus sic stantibus, non può non ipotizzarsi un ulteriore significativo
ridimensionamento del rilievo, che, invece, spetterebbe alla sicurezza
alimentare a fronte dei negoziati avviati dall‟Unione europea con gli Stati Uniti
per la stipulazione di un accordo commerciale denominato Transatlantic Trade
and Investment Partnership. Si tratta di un documento, ripetesi in fase di
negoziazione, che permetterebbe di superare barriere doganali basate su
differenze normative e/o di omologazione in relazione anche allo scambio di
prodotti alimentari.
Com‟è facilmente intuibile, questo aspetto non può non sollevare alcuni
dubbi e perplessità alla luce del fatto che le regole tra le due sponde dell‟oceano
su alcuni temi – tra i quali la commercializzazione indifferenziata di prodotti
OGM – è molto diversa.
Negli Stati Uniti, infatti, la manipolazione genetica è considerata in
termini di mero affinamento di precedenti tecniche di ibridazione e, quindi,
contraddistinta da rischi analoghi a quelli già noti da tempo, disciplinabili
ricorrendo a standard tradizionali. Al contrario, l‟Unione europea privilegia un
approccio di tipo precauzionale, sebbene riservi ai politici la facoltà di decidere
in ordine alla gestione del rischio, che spesso, per tal motivo, risulta influenzata
da interessi contrastanti con quelli del consumatore finale.
Altra differenza è data dall‟assenza, negli Stati Uniti, di forme di
segmentazione del mercato, essendo tuttora assente un regime di etichettatura
obbligatoria. Complice, l‟elevato livello di consapevolezza raggiunto dai
60
Il che induce a ipotizzare che eventuali inosservanze potrebbero indurre la Comunità a
“modificare” – in sede di procedura di controllo e informazione di cui al Considerando 17 – il
progetto delle misure precauzionali adottande da ciascun Stato membro.
80
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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consumatori statunitensi nei confronti delle biotecnologie agroalimentari e, più
nello specifico, degli organismi geneticamente modificati61.
Rispetto ai cittadini europei, invero, l‟opinione pubblica statunitense
nutre molte meno preoccupazioni nei confronti degli OGM, ritenendo che i
benefici da essi derivanti siano superiori ai rischi potenzialmente connessi.
Vero è, però, che la vasta accettazione pubblica risulta fondata su una
ridotta conoscenza della pluralità di aspetti che caratterizzano il fenomeno delle
biotecnologie agroalimentari. Non potendo fare leva su una conoscenza solida,
essa risulta, dunque, facilmente influenzabile.
6. Risk communication ed etichettatura dei prodotti derivati da OGM.
Nell‟ambito della legislazione alimentare, l‟etichettatura rimane,
dunque, il canale privilegiato di tutela del consumatore. Ed invero, di fronte
all‟incertezza ed alle contrastanti posizioni scientifiche, il legislatore
comunitario pare essersi limitato ad interventi normativi di carattere permissivo,
preferendo piuttosto porre l‟accento sull‟informazione del consumatore finale,
che è lasciato libero nella scelta di acquisto.
La prima imposizione di un obbligo di etichettatura di OGM, all‟interno
dell‟Unione europea, si rinviene nel richiamato regolamento (CE) n. 258/1997,
a cui è seguito il regolamento (CE) n. 1830/2003, che prevede un sistema di
etichettatura obbligatoria per tutti i prodotti contenenti OGM o da essi costituiti,
in cui vengano menzionati la composizione, i valori nutrizionali, l‟uso previsto
dell‟alimento, le eventuali implicazioni per la salute di certi segmenti della
popolazione, ovvero se l‟alimento possa dare luogo a preoccupazioni di ordine
etico o religioso.
Vale la pena di notare che il regime di etichettatura risulta fortemente
condizionato dalle problematiche legate alla valutazione del rischio62.
61
A. SITTENFELD – A. ESPINOZA, Revealing Data on Public Perception of GM Crops, in Trend in
Plant Science, 2002; T. J. HOBAN, Public Attitudes towards Agricultural Biotechnology, ESA
working Paper, 2004.
62
C. MODICA DONÀ DALLE ROSE, Gli organismi geneticamente modificati e la responsabilità dei
produttori nel diritto francese, in Resp. civ. e prev., 2001, p. 1312 ss., secondo cui «Al di là
dell‟etichettatura, quello che pone non pochi dubbi, nei numerosi considerando del regolamento
in questione, è che il criterio in base al quale si evince che i prodotti non sono OGM si fonda sulla
equiparazione degli stessi ai prodotti tradizionali, in virtù di un discutibile concetto di sostanziale
equivalenza».
81
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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A livello internazionale, si registrano a tal proposito tre differenti
posizioni negoziali relative al livello di informazione del consumatore di
prodotti OGM.
A fronte del criterio di equivalenza qualitativa e/o nutrizionale
abbracciato dai Paesi produttori di OGM, che considera obbligatoria
l‟informazione nell‟ipotesi in cui il prodotto differisca da quello tradizionale in
termini di composizione, valore ed uso al quale è destinato, si rinviene – in
alcuni Paesi, quali l‟India e la Norvegia – un orientamento fondato sul cd.
criterio del consumo critico, secondo cui l‟obbligo di informazione dovrebbe
estendersi a tutti i prodotti ottenuti con l‟impiego di OGM, a prescindere dalle
peculiarità finali del prodotto.
Tra queste posizioni ve ne è una intermedia, sposata dalla Comunità
europea, che limita il diritto all‟informazione ai prodotti destinati al consumo
finale che non contengono tracce di DNA transgenico, anche se ottenuti con
l‟impiego di materie prime geneticamente modificate63. Sulla scorta di detto
parametro, salvo che non se ne dimostri l‟effettiva pericolosità, i succitati
prodotti sono quindi ritenuti sostanzialmente equivalenti, dal punto di vista
tossicologico e nutrizionale, a quelli tradizionalmente commercializzati.
A livello normativo, la direttiva n. 2001/18/CE, nel confermare
l‟indirizzo seguito dalla disciplina comunitaria precedente, stabilisce l‟obbligo
di indicare la presenza di OGM qualora i prodotti alimentari non siano
sostanzialmente equivalenti ai prodotti tradizionali, sotto il profilo nutrizionale,
della composizione e dell‟uso cui sono destinati, prevedendo l‟esenzione
dall‟obbligo di etichettatura per quei prodotti che non contengono tracce di
OGM, sebbene ottenuti da materie prime geneticamente modificate.
Nello specifico, l‟art. 21 della citata direttiva ammette soglie di
tolleranza per le percentuali di contaminazione da OGM sotto le quali i prodotti
contaminati non devono essere etichettati come OGM, per gli alimenti in cui si
rinvengono “tracce non intenzionali e tecnicamente inevitabili”, rimettendone la
fissazione alla Commissione con la procedura comitale di cui all‟art. 30.
A fronte di una tollerabile contaminazione involontaria, la legislazione
europea non fornisce, tuttavia, alcun elemento utile a comprendere quando la
contaminazione sia da considerarsi fortuita e tecnicamente evitabile, sebbene
63
M. SALVADORI, Il diritto internazionale rilevante per la disciplina degli organismi
geneticamente modificati, in R. FERRARA – I. M. MARINO (a cura di), Gli Organismi
Geneticamente Modificati, op. cit., p. 75.
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richieda agli operatori delle filiere alimentari di dimostrare alle autorità
competenti di avere preso tutte le misure appropriate per scongiurare la
presenza accidentale di tracce di OGM nei prodotti non geneticamente
modificati.
La ratio della disciplina, che non prescrive né garantisce – come si è
detto – la realizzazione del dovere di informazione, è delineata dal
Considerando 24 del regolamento (CE) n. 1829/2003, secondo cui «Malgrado
gli sforzi di alcuni operatori per non utilizzare alimenti e mangimi
geneticamente modificati, tracce minime di tale materiale possono trovarsi negli
alimenti e mangimi tradizionali per via della presenza accidentale o
tecnicamente inevitabile nel corso della produzione delle sementi, della
coltivazione, del raccolto, del trasporto o della lavorazione. In tali casi
l‟alimento o il mangime non è soggetto alle norme in materia di etichettatura di
cui al presente regolamento. Per conseguire tale obiettivo occorrerebbe stabilire
una soglia in ordine alla presenza accidentale o tecnicamente inevitabile di
materiale geneticamente modificato negli alimenti e nei mangimi sia quando la
commercializzazione di siffatto materiale è autorizzata nella Comunità sia
quando tale presenza è tollerata a norma del presente regolamento».
Sulla scorta di tali statuizioni, dunque, tutti gli alimenti geneticamente
modificati, destinati al consumatore finale o ai fornitori di alimenti per la
collettività, debbono riportare in etichetta la dicitura relativa alla presenza di
OGM, «contiene (nome dell‟organismo o nome dell‟ingrediente) geneticamente
modificato», ad eccezione di quelli che contengono OGM autorizzati in
proporzione non superiore allo 0,9% degli ingredienti alimentari (art. 12,
comma 2, regolamento (CE) n. 1829/2003).
E‟ evidente come alla base di tale scelta si rintracci l‟esigenza di
realizzare un equilibrio tra l‟obiettivo di tutela della salute umana, da un lato, e
la libera circolazione delle merci – e con essa le esigenze economico-produttive
degli operatori alimentari – dall‟altro; un equilibrio che parrebbe, però,
propendere in favore del perseguimento del secondo dei sopra citati obiettivi.
La corretta informazione, cui sembra ispirarsi la disciplina comunitaria,
non tiene poi in debito conto la capacità di comprensione dei consumatori finali,
finendo così per svilire l‟obbligo di fornire informazioni sugli ingredienti da
riportare in etichetta, che il più delle volte si estrinseca per il tramite di
indicazioni formulate con parole tecniche o sigle incomprensibili alla maggior
parte dei consumatori.
83
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
E‟ questo un ulteriore limite delle norme europee che disciplinano
l‟etichettatura di OGM, ovvero quello «di avere stabilito analiticamente le
informazioni da inserire nelle etichette alimentari senza aver però
contestualmente promosso una effettiva formazione e alfabetizzazione dei
consumatori sui problemi relativi alla sicurezza alimentare»64.
7. Considerazioni conclusive.
E‟ innegabile che le politiche europee perseguite nel settore agroalimentare, pur tendendo alla salvaguardia e, contestualmente, al miglioramento
dell‟ambiente in genere, manifestano un certo favor riconducibile più a ragioni
di natura economico-commerciale che di reale preoccupazione della salute
pubblica e della sicurezza degli alimenti commercializzati all‟interno del
mercato unico.
In questo contesto, non v‟è chi non consideri la disciplina comunitaria,
attualmente vigente, in termini di protezione giuridica del “biocommercio” più
che della “biosicurezza”65.
Certo, si è consapevoli che la scelta di basare gli atti giuridici
comunitari sul principio precauzionale non può indurre ad una assolutizzazione
della tutela dell‟ambiente e del consumatore, fino ad estenderla oltre i limiti
accettati per i prodotti “tradizionali”. Sotto altro aspetto, però, essa solo
raramente evita il sorgere di dubbi e contestazioni circa la sufficiente sicurezza
dei prodotti alimentari.
Nel tentativo di contemperare le diverse esigenze di interesse generale,
l‟azione della Comunità europea prima, e dell‟Unione europea poi, sembra
avere costantemente privilegiato le ripercussioni positive della biotecnologia
sullo sviluppo industriale e commerciale.
64
G. SPOTO, Tutela del consumatore e sicurezza alimentare, op. cit., p. 1085, per il quale «il
limite delle norme che disciplinano l‟etichettatura da parte del legislatore europeo rimane
soprattutto quello di avere stabilito analiticamente le informazioni da inserire nelle etichette
alimentari senza aver però contestualmente promosso una effettiva formazione e alfabetizzazione
dei consumatori sui problemi relativi alla sicurezza alimentare».
65
Analogamente, R. PAVONI, Misure unilaterali di precauzione, prove scientifiche e
autorizzazioni comunitarie al commercio di organismi geneticamente modificati: riflessioni in
margine al caso Greenpeace, cit., p. 733. Nello stesso senso si veda anche P. THIEFFRY, Le
contentieux naissant des organismes génétiquement modifiés: précaution et mesures de
sauvegarde, in Revue trimestrielle de droit européen, 1999, p. 81 ss.
84
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
E‟ in questa prospettiva che le persistenti difficoltà di sopravvivenza del
principio di precauzione, in nome del progresso tecnologico, sembrano
confermare il rilievo attribuito dal legislatore comunitario alla costruzione del
mercato unico europeo e alla promozione della liberalizzazione degli scambi e
della libera concorrenza.
D‟altra parte, stanti le rilevate difformità rispetto ai principi condivisi da
altre Nazioni, appare evidente come il principio di precauzione sia destinato a
generare sempre maggiori problemi di compatibilità anche con gli obblighi
internazionali della Comunità europea.
Da più parti, tuttavia, si auspica una riconsiderazione del principio di
precauzione, secondo cui – come noto – nel caso in cui non vi siano certezze
sulla nocività di un prodotto, è comunque necessario privilegiare le esigenze di
tutela della salute umana. A meno di non voler considerare tale principio come
un intralcio alle prospettive di sviluppo industriale e commerciale.
La tutela di esigenze diverse da quelle puramente commerciali
renderebbe, dunque, necessario operare una modifica più marcata della
disciplina dell‟Unione europea in materia di OGM, che revisioni nella sostanza
la procedura di valutazione del rischio ambientale e sanitario degli OGM, in
modo da colmare le forti lacune dell‟attuale sistema di autorizzazione
comunitario66. Solo così sarà possibile superare l‟attuale impasse politica e
ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini europei.
66
V. RANALDI, Il confronto tra Stati membri ed Unione europea in materia di OGM nella
giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Dir. comm. int., 2014, p. 1011.
85
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ABSTRACT
Antonietta Lupo - Sostenibilità del settore agro-alimentare,
biotecnologie e food safety nell’Unione europea: il paradigma degli organismi
geneticamente modificati.
Il processo di integrazione europea si trova sempre più spesso a dover
fronteggiare il dilemma di garantire la libera circolazione delle merci, da un
lato, e proteggere valori non economici della più svariata natura, tra cui quello
fondamentale della salute, dall‟altro.
La soluzione di tale antinomia di interessi è, inevitabilmente, affidata
alla conoscenza scientifica. Ciò che ne consegue è un processo articolato, in
cui il diritto diventa necessario alla comprensione della scienza nel delimitare i
limiti di azione delle relative pratiche conoscitive e applicative.
La complessa materia degli OGM fornisce un emblematico esempio
dell‟ormai stretta ed ineludibile interazione tra scienza e diritto, dove la
condizione di intrinseca incertezza, che connota il sapere scientifico, deve far i
conti con le istanze di sicurezza contro i possibili rischi alimentari.
Nel tentativo di profilare un quadro dai contorni piuttosto instabili, il
presente contributo intende proporre una riflessione sul sistema normativo
europeo inerente l‟applicazione degli OGM nella filiera alimentare. Si avrà
cura di analizzare sia l‟evoluzione della disciplina in subiecta materia, sia il
ruolo della Corte di giustizia nello sviluppo dei valori sociali e politici e nei
confronti delle sfide poste dalle biotecnologie. Successivamente, l‟attenzione si
incentrerà sulla regolamentazione del cd. “rischio OGM” (che sarà analizzata
nei suoi tre momenti della valutazione, della gestione e della comunicazione),
che si sviluppa sul crinale di un complicato equilibrio tra regolazione pubblica
e libero mercato, tutela degli scambi commerciali e precauzione, crescita
economica e tutela della salute.
86
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
The process of European integration is increasingly having to face the
problem of ensuring the free movement of goods, on the one hand, and
protecting non-economic values of the most varied nature, including the
fundamental health, of the other.
The solution to this contradiction of interests is inevitably assigned to
scientific knowledge. What follows is a complex process, in which the law
becomes necessary to the understanding of science in defining the limits of
action of its knowledge and applicative practices.
The complex subject of GMOs provides an emblematic example of the
now close and inescapable interaction between science and law, where the
condition of intrinsic uncertainty, that characterizes scientific knowledge, has
to reckon with the demands of safety against potential food hazards.
In an attempt to outline a framework rather unstable, this paper will
propose a reflection on the European regulatory system regarding the
application of GMOs in the food chain. Care should be taken to analyze both
the evolution of the discipline in that field, the role of the Court of Justice in
the development of social and political values and to the challenges posed by
biotechnology. Subsequently, attention will focus on the regulation of the cd.
“GMOs risk” (which will be analyzed in its three moments of assessment,
management and communication), which grows on the crest of a complicated
balance between public regulation and free market, trade protection and
precaution, economic growth and protection of health.
87
MASSIMO MONTEDURO*
Diritto dell’ambiente e diversità alimentare
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Esplicitazione del
paradigma presupposto: il modello dei «social-ecological systems». – 3. Sistemi
socio-ecologici e definizione giuridica di «ambiente» di cui all‘art. 5, comma 1,
d.lgs. n. 152/2006. Il carattere federativo del diritto dell‘ambiente. – 3.1. La
perpetuazione della co-esistenza e della co-evoluzione tra natura e società
come fine del diritto dell‘ambiente. Le reciproche implicazioni tra tutela della
vita e tutela della diversità. – 4. Sistemi socio-ecologici, ambiente e
alimentazione: la rilevanza della diversità alimentare. – 5. La diversità
alimentare come concetto di sintesi e le sue molteplici matrici giuridiche. – 6.
L‘insufficienza dell‘approccio basato sul diritto della concorrenza, della
proprietà intellettuale e dei consumatori; il ruolo del principio dello sviluppo
sostenibile declinato dall‘art. 3-quater, d.lgs. n. 152/2006.
1. Considerazioni introduttive
Questo contributo intende tentare di inquadrare il problema della
rilevanza giuridica della diversità alimentare1 con riferimento alla prospettiva di
osservazione del diritto dell‘ambiente2.
*
Professore associato di diritto amministrativo e titolare dell‘insegnamento di diritto
amministrativo dell‘ambiente presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell‘Università del
Salento.
1
Lo scritto sviluppa la prima parte della relazione tenuta in data 7 maggio 2015 all‘interno
della quarta sessione («Food diversity as a legal value: principles, aspects and problems») del
convegno internazionale intitolato «Food diversity between rights, duties and autonomies.
Legal perspectives for a scientific, cultural and social debate on the right to food and
agroecology», svoltosi presso l‘Università del Salento nei giorni 6 e 7 maggio 2015. Il
convegno di Lecce – il primo specificamente dedicato alla diversità alimentare – è stato coorganizzato dal gruppo di ricerca LAIR (―Law and Agroecology – Ius et Rus‖) dell‘Università
del Salento e dall‘ISSiRFA – CNR, con il patrocinio dell‘Associazione Italiana per la Scienza
della Sostenibilità (IASS) ed ha posto a confronto giuristi di varie discipline (diritto
internazionale, comunitario, costituzionale, pubblico comparato, ambientale, amministrativo,
agrario, privato, commerciale, tributario) con studiosi italiani e stranieri di discipline non
giuridiche (agroecologia, economia, sociologia, antropologia, storia, geografia, scienze
dell‘educazione). Il programma del convegno è reperibile all‘indirizzo URL
http://www.giustamm.it/new_2015/Lecce_6_5_15.pdf. Il contributo è debitore di questo serrato
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Ciò muovendo da un dato: ad oggi, nella letteratura internazionale ed
italiana, pur a fronte di un impetuoso sviluppo delle ricerche sul diritto
dell‘alimentazione3, in particolare su profili quali la sicurezza alimentare4, la
qualità5 e la tipicità (con il connesso tema delle indicazioni di origine e di
confronto oltre le barriere dei singoli campi accademici e dell‘allargamento dell‘angolo visuale
ad esso conseguito; l‘autore è grato inoltre a tutti i colleghi del gruppo di ricerca LAIR per il
sostegno, la discussione ed i suggerimenti che hanno reso possibile questa indagine.
2
Inteso come «studio delle ―interdipendenze‖» che implica «categorie giuridiche rinnovate»,
nella direzione tracciata da G. ROSSI, L‘ambiente e il diritto, in questa Rivista, n. 0/2010, p. 11.
3
La produzione dottrinale è ormai talmente imponente da rendere preferibile limitare i riferimenti
ad alcune delle opere monografiche e collettanee più recenti, anche per i necessari riferimenti
bibliografici: C. MACMAOLÁIN, Food law. European, domestic and international frameworks,
Hart, 2015; S. MASINI, Corso di diritto alimentare, 3a ed., Milano, Giuffré, 2015; ID., Diritto
alimentare: una mappa delle funzioni, Milano, Giuffrè, 2014; A. ALEMANNO – S. GABBI (eds.),
Foundations of EU food law and policy. Ten years of the European Food Safety Authority,
Ashgate, 2014; A. GERMANÒ – M.P. RAGIONIERI – E. ROOK BASILE (a cura di), Diritto
agroalimentare. Le regole del mercato degli alimenti e dell‘informazione alimentare, Torino,
Giappichelli, 2014; N.C.S. LAMBEK ET AL. (eds.), Rethinking food systems: structural challenges,
new strategies and the law, Springer, 2014; L. COSTATO - P. BORGHI - S. RIZZIOLI, Compendio di
diritto alimentare, 6a ed., Padova, Cedam, 2013; L. COSTATO – F. ALBISINNI (eds.), European food
law, Padova, Cedam, 2012; M. FERRARI – U. IZZO, Diritto alimentare comparato. Regole del cibo
e ruolo della tecnologia, Bologna, Il Mulino, 2012; A. JANNARELLI, Profili giuridici del sistema
agro-alimentare tra ascesa e crisi della globalizzazione, Bari, Cacucci, 2011; L. COSTATO - A.
GERMANÒ - E. ROOK BASILE (diretto da), Trattato di diritto agrario. Vol. 3: Il diritto
agroalimentare, Torino, Utet giuridica, 2011. Per una prospettiva giuspubblicistica, di recente, v.
l‘innovativa proposta sistematica e le acute considerazioni di L.R. PERFETTI, Principi della
disciplina pubblicistica dell‘alimentazione, in Riv. dir. agr., 2014, pp. 3 ss.
4
Y. CHEN, Trade, food security, and human rights. The rules for international trade in
agricultural products and the evolving world food crisis, Ashgate, 2014; E. ROOK BASILE – S.
CARMIGNANI (a cura di), Sicurezza energetica e sicurezza alimentare nel sistema UE: profili
giuridici e profili economici (Atti del Convegno, Siena, 10-11 maggio 2013), Milano, Giuffrè,
2013; F. COLLART DUTILLEUL (ed.), Legal dictionary of food security in the world, Larcier, 2013;
B. GILIBERTI, Il principio di precauzione nel diritto alimentare e farmaceutico, in GiustAmm.it,
2013; D. BEVILACQUA, La sicurezza alimentare negli ordinamenti giuridici ultrastatali, Milano,
Giuffrè, 2012; F. ADORNATO, La sicurezza alimentare tra primato della tecnica e crisi del diritto,
in Riv. dir. agr., 2012, 405 ss.; E. ROOK BASILE – A. GERMANÒ (a cura di), Agricoltura e insicurezza alimentare, tra crisi della PAC e mercato globale (Atti del Convegno IDAIC, Siena,
21-22 ottobre 2010), Milano, Giuffrè, 2011; M.R. D‘ADDEZIO, Sicurezza degli alimenti: obiettivi
del mercato dell‘Unione europea ed esigenze nazionali, in Riv. dir. agr., 2010, pp. 379 ss.; A.
JANNARELLI, La nuova Food insecurity: una prima lettura sistemica, ivi, 2010, pp. 565 ss.; O.
HOSPES – I. HADIPRAYITNO (eds.), Governing food security: law, politics and the right to food,
Wageningen Academic Publishers, 2010; M. SOLLINI, Il principio di precauzione nella disciplina
comunitaria della sicurezza alimentare: profili critico-ricostruttivi, Milano, Giuffré, 2006.
5
A. GERMANÒ – G. STRAMBI (a cura di), Il nuovo diritto agrario dell‘Unione Europea: i
regolamenti 1169/2011 e 1151/2012 sull‘informazione e sui regimi di qualità degli alimenti, e i
regolamenti del 17 dicembre 2013 sulla PAC (atti dei Seminari, Firenze, 12 settembre 2013, 28
maggio, 6 e 13 giugno 2014), Milano, Giuffré, 2014; G. CORDINI (ed.), Domestic protection of
89
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
garanzia)6, il diritto al cibo e la sovranità alimentare7, mancano invece opere
monografiche o saggi giuridici che siano specificamente dedicati al tema della
diversità alimentare (food diversity).
food safety and quality rights, Torino, Giappichelli, 2013; L. PETRELLI, I regimi di qualità nel
diritto alimentare dell‘Unione Europea: prodotti DOP IGP STG biologici e delle regioni
ultraperiferiche, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012; C. RICCI (a cura di), La tutela multilivello
del diritto alla sicurezza e qualità degli alimenti, Milano, Giuffrè, 2012; A. GERMANÒ, Le
politiche europee della qualità alimentare, in Riv. dir. alim., 2009, pp. 3 ss.; ID., Il libro verde
della Commissione europea del 15 ottobre 2008: alla ricerca di una definizione di alimenti di
qualità, in Riv. dir. agr., 2008, pp. 480 ss.
6
F. CAPELLI, Valorizzazione dei prodotti agroalimentari italiani tipici e tradizionali, in Dir.
comunitario e scambi internaz., 2014, pp. 487 ss.; ID., La protezione giuridica dei prodotti agroalimentari di qualità e tipici in Italia e nell‘Unione Europea, ivi, 2001, pp. 177 ss.; G.
ANGELICCHIO, Le indicazioni geografiche, in M. SCUFFI – M. FRANZOSI (a cura di), Diritto
industriale italiano. Tomo 1. Diritto sostanziale, Padova, Cedam, 2014, pp. 345 ss.; I. TRAPÈ, I
segni del territorio. Profili giuridici delle indicazioni di origine dei prodotti agroalimentari tra
competitività, interessi dei consumatori e sviluppo rurale, Milano, Giuffré, 2012; N. LUCIFERO,
La comunicazione simbolica nel mercato alimentare: marchi e segni del territorio, in COSTATO A. GERMANÒ - E. ROOK BASILE (diretto da), Trattato di diritto agrario. Vol. 3: Il diritto
agroalimentare, cit., pp. 321 ss.; I. CANFORA, Le ―specialità tradizionali garantite‖, ivi, pp. 73
ss.; ID., Marchi e denominazioni di origine protetta: Bavaria e Bayerisches bier, in Dir. giur. agr.
alim. amb., 2010, pp. 91 ss.; V. RUBINO, Indicazioni geografiche indirette e denominazioni di
origine dei prodotti alimentari nella sentenza ‗Bud II‘, in Dir. comunitario e scambi internaz.,
2010, pp. 255 ss.; ID., Le Denominazioni Comunali d‘Origine (De.C.O.) e la loro protezione nel
quadro della disciplina comunitaria sulle denominazioni geografiche dei prodotti alimentari, Dir.
un. eur., 2007, pp. 121 ss.; F. ARFINI - G. BELLETTI - A. MARESCOTTI, Prodotti tipici e
denominazioni geografiche. Strumenti di tutela e valorizzazione, Roma, Tellus, 2010; E.
CRISTIANI – A MASSART (a cura di), Prodotti tipici e turismo sostenibile come strumento di
sviluppo del territorio, Pisa, ETS, 2008; N. LUCCHI, Il dibattito transatlantico sulla tutela delle
indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine, in Riv. dir. agr., 2008, pp. 49 ss.; G.
STRAMBI, Agriturismo e valorizzazione dei prodotti agro-alimentari tipici, in Dir. giur. agr. alim.
amb., 2007, pp. 746 ss.; S. VISSER, La protezione delle indicazioni geografiche e delle
denominazioni d‘origine dei prodotti agroalimentari a seguito del rapporto del Panel
dell‘Organizzazione mondiale del commercio, in Agr. ist. merc., 2007, pp. 179 ss.; D. PISANELLO,
La riforma del sistema comunitario di tutela delle denominazioni d‘origine e delle indicazioni
geografiche dei prodotti agricoli e alimentari, Contratto e impresa Europa, 2006, pp. 556 ss.; G.
STRAMBI - M. ALABRESE (a cura di), I prodotti agro-alimentari tipici e tradizionali come beni
culturali. Nuove forme di tutela e valorizzazione del territorio, Pisa, Campano, 2005.
7
A. RINELLA – H. OKORONKO, Sovranità alimentare e diritto al cibo, in Dir. pubbl. comp. eur.,
2015, pp. 89 ss.; P. ANDREE ET AL. (ed.), Globalization and food sovereignty: global and local
change in the new politics of food, Toronto University Press, 2014; A. LUPONE - C. RICCI – A.
SANTINI (eds.), The right to safe food towards a global governance, Torino, Giappichelli, 2013;
FAO, Guidance note: integrating the right to adequate food into food and nutrition security
programmes, Rome, Food and agriculture organization of the United Nations, 2012; M.J.
MCDERMOTT, Constitutionalizing an enforceable right to food: a new tool for combating hunger,
in B.C. Int‘l & Comp. L. Rev., 2012, pp. 543 ss.; O. DE SCHUTTER, Agroecology, a tool for the
realization of the right to food, in E. LICHTFOUSE (ed.), Agroecology and strategies for climate
change, Springer, 2012, pp. 1 ss.; O. DE SCHUTTER – K.Y. CORDES (ed.), Accounting for hunger.
90
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La stessa «Carta di Milano», recentemente presentata all‘Expo 2015 di
Milano «Feeding the Planet, Energy for Life», non si occupa direttamente della
diversità alimentare8.
Da ciò il tentativo di esplorare il problema al fine di delineare alcune
coordinate di riferimento utili per future indagini.
2. Esplicitazione del paradigma presupposto: il modello dei «socialecological systems»
Sembra corretto dichiarare, in principio, quale sia il paradigma
concettuale presupposto a queste riflessioni: si tratta del noto modello dei
«social-ecological systems»9.
The right to food in the era of globalisation, Hart, 2011; L. PAOLONI, I nuovi percorsi della food
security: dal ―diritto al cibo adeguato‖ alla ―sovranità alimentare‖, in Dir. giur. agr. alim. amb.,
2011, pp. 159 ss.; G. ADINOLFI, Alimentazione e commercio internazionale nel rapporto del 2009
del relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, in Dir. umani e dir. int., 2010, pp. 125
ss.; C. CERTOMÀ, Diritto al cibo, sicurezza alimentare, sovranità alimentare, in Riv. dir. alim.,
2010, pp. 1 ss.; G. KENT (ed.), Global obligations for the right to food, Rowman & Littlefield,
2008; H.M. HAUGEN, The right to food and the TRIPS agreement. With a particular emphasis on
developing countries‘ measures for food production and distribution, Martinus Nijhoff, 2007. Di
grande importanza, per la loro profondità, le riflessioni di A. JANNARELLI, Cibo e democrazia: un
nuovo orizzonte dei diritti sociali, in M. GOLDONI - E. SIRSI (a cura di), Il ruolo del diritto nella
valorizzazione e nella promozione dei prodotti agro-alimentari (Atti del convegno di Pisa, 1-2
luglio 2011), Milano, 2011, pp. 33 ss.
8
La Carta di Milano, presentata dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali in data
28 aprile 2015, contiene nelle sue diverse sezioni una serie di riferimenti, ad esempio: alla
«biodiversità»; alla «diversificazione delle produzioni agricole e di allevamento al fine di
preservare la biodiversità e il benessere degli animali»; alla promozione di attività per «la
conoscenza e lo scambio di culture alimentari diverse, a partire dai prodotti tipici, biologici e
locali» ma – si badi – soltanto «nelle scuole e nelle mense scolastiche» rispetto ai «programmi di
educazione alimentare, fisica e ambientale come strumenti di salute e prevenzione» seguiti dalle
scuole stesse. Manca dunque un riferimento espresso, preciso e di ampio respiro, al valore
giuridico della diversità alimentare. Tuttavia, la Carta di Milano riconosce che «il cibo svolge un
ruolo importante nella definizione dell‘identità di ciascuna persona ed è una delle componenti
culturali che connota e dà valore a un territorio e ai suoi abitanti» e che occorre «considerare il
cibo un patrimonio culturale e in quanto tale […] valorizzarne origine e originalità con processi
normativi trasparenti». Il testo della Carta è reperibile all‘indirizzo URL http://carta.milano.it/wpcontent/uploads/2015/04/Italian_version_Milan_Charter.pdf.
9
J. HINKEL - P.W.G. BOTS - M. SCHLÜTER, Enhancing the Ostrom social-ecological system
framework through formalization, in Ecology and Society, 2014, Vol. 19, Issue 3, pp. 51 ss.; S.
LEVIN ET AL., Social-ecological systems as complex adaptive systems: modeling and policy
implications, in Environment and Development Economics, 2013, Vol. 18, Issue 2, pp. 111 ss.; G.
EPSTEIN ET AL., Missing ecology: integrating ecological perspectives with the social-ecological
91
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
L‘intuizione sottesa al concetto di «sistemi socio-ecologici» è quella
secondo cui i sistemi ecologici (eco-sistemi) e i sistemi sociali (socio-sistemi):
- sono biunivocamente interdipendenti;
- sono inseparabili, nell‘epoca attuale («Antropocene») in cui l‘influenza
diretta o indiretta delle società umane sugli ecosistemi è ormai pervasiva e
rappresenta il principale fattore di cambiamento che altera i processi
fondamentali di funzionamento del sistema Terra10;
- sistemi ecologici e sistemi sociali, in particolare, non possono più essere
considerati indipendentemente gli uni dagli altri in un duplice senso; da un lato,
va superata l‘idea – propria delle teorie ecologiche più risalenti – che le società
umane siano fattori ―esterni‖ (neutrali o di mero disturbo) ad ecosistemi naturali
di per sé in spontaneo e stabile equilibrio, ossia il modello dell‘uomoosservatore che si colloca fuori dalla natura, la quale ―sa dove andare‖ e
procede ―da sola‖ per la sua strada; dall‘altro lato, va superata l‘idea – propria
delle impostazioni più tradizionali nelle scienze sociali, compreso il diritto –
secondo cui gli ecosistemi sarebbero in definitiva un ―oggetto passivo‖ delle
system framework, in International Journal of the Commons, 2013, Vol. 7, Issue 2, pp. 432 ss.; E.
BOYD – C. FOLKE (eds.), Adapting institutions: governance, complexity and social-ecological
resilience, Cambridge University Press, 2012; M. GLASER – G. KRAUSE – B.M.W. RATTER – M.
WELP (eds.), Human-nature interactions in the Anthropocene: potentials of social-ecological
systems analysis, Routledge, 2012; T.A. CRANE, Of models and meanings: cultural resilience in
social–ecological systems, in Ecology and Society, 2010, Vol. 15, Issue 4, pp. 19 ss.; D.R.
ARMITAGE ET AL., Adaptive co-management for social–ecological complexity, in Frontiers in
Ecology and the Environment, 2009, Vol. 7, Issue 2, pp. 95 ss.; J. NORBERG – J. WILSON – B.
WALKER – E. OSTROM, Diversity and resilience of social-ecological systems, in J. NORBERG – G.S.
CUMMING (eds.), Complexity theory for a sustainable future, Columbia University Press, 2008,
pp. 46 ss.; E. OSTROM – M.A. JANSSEN, Multi-level governance and resilience of social-ecological
systems, in M. SPOOR (ed.), Globalisation, Poverty and Conflict, Springer, 2005, pp. 239 ss.; F.
BERKES – J. COLDING – C. FOLKE (eds.), Navigating social-ecological systems: building resilience
for complexity and change, Cambridge University Press, 2003; C.S. HOLLING, Understanding the
complexity of economic, ecological, and social systems, in Ecosystems, Vol. 4, Issue 5, 2001, pp.
390 ss.
10
M.A. MASLIN – S.L. LEWIS, Anthropocene: Earth System, geological, philosophical and
political paradigm shifts, in The Anthropocene Review, May 29, 2015, doi:
10.1177/2053019615588791; AA.VV., Antropocene. Modifiche naturali ed antropiche del fragile
equilibrio della terra (Convegno internazionale dell‘Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2627 novembre 2012), Roma, Scienze e Lettere, 2013; N. CASTREE, The Anthropocene and the
environmental humanities: extending the conversation, in Environmental Humanities, 2014, Vol.
5, pp. 233 ss.; J.R. MCNEILL - W. STEFFEN - P. CRUTZEN, The Anthropocene: are humans now
overwhelming the great forces of nature?, in Ambio: A Journal of the Human Environment, 2007,
Vol. 36, Issue 8, pp. 614 ss.; E. EHLERS – T. KRAFFT (eds.), Earth system science in the
Anthropocene. Emerging issues and problems, Springer, 2006; P. CRUTZEN – E. STOERMER, The
Anthropocene, in Global Change Newsletter, 2000, Vol. 41, pp. 17 ss.
92
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
condotte attive delle società umane, ossia il modello dell‘uomo-centro del
mondo che si organizza in comunità per tutelare interessi collettivi, legati alla
difesa di valori quali la libertà, l‘uguaglianza, la prosperità e la pace sociale, ed
è legittimato ad utilizzare a tal fine tutte le ―risorse‖ necessarie, comprese quelle
fornite dagli ecosistemi, senza dover rispettare limiti diversi da quelli che
vengano imposti dalle stesse comunità ai propri componenti;
- armonizzando i punti di vista delle scienze ecologiche e delle scienze
sociali (basti pensare ai noti studi di Elinor Ostrom, che ha costruito molte delle
sue tesi proprio sul concetto di «sistemi socio-ecologici»11), sistemi ecologici e
sistemi sociali si configurano, propriamente, come dei sub-sistemi i cui
meccanismi di inscindibile interazione e reciproca influenza si svelano soltanto
quando essi vengano integrati e studiati come ―parti‖ del ―tutto‖ rappresentato
da meta-sistemi che li includono, qualificabili appunto come sistemi socioecologici; in essi le società umane sono a pieno titolo ―dentro‖ gli ecosistemi e
―convivono‖ con i limiti di espansione che questi ultimi pongono alle condotte
umane, ricevendone, per converso, i benefici rappresentati dai servizi
ecosistemici (ecosystem services), i quali in grande parte si ascrivono
socialmente alla categoria dei cd. beni comuni (commons);
- proprietà fondamentali come la resilienza e concetti-chiave a
quest‘ultima correlati come quelli di diversità, ridondanza, organizzazione, cicli
di adattamento, processi di feedback e di omeostasi, flussi metabolici e di
informazione, memoria, apprendimento, multiscalarità, panarchia, secondo
questa prospettiva, possono essere correttamente indagati solo considerando i
sistemi socio-ecologici nel loro complesso, mentre uno studio che si svolgesse
con riferimento ai sistemi ecologici e ai sistemi sociali isolatamente considerati
darebbe risultati conoscitivi limitati, parziali e dunque fuorvianti;
- i sistemi socio-ecologici si presentano come sistemi complessi,
dinamici, non-lineari, con equilibri multipli, soggetti a mutamenti caotici più
11
Oltre ai contributi di Elinor Ostrom citati nella nota precedente, si vedano anche E. OSTROM, A
general framework for analyzing sustainability of social-ecological systems, in Science, 2009,
Vol. 325, pp. 419 ss.; O.R. YOUNG – F. BERKHOUT – G.C. GALLOPIN – M.A. JANSSEN – E. OSTROM
– S. VAN DER LEEUW, The globalization of socio-ecological systems: an agenda for scientific
research, in Global Environmental Change, 2006, Vol. 16, pp. 304 ss.; E. OSTROM,
Understanding institutional diversity, Princeton University Press, 2005. Alcuni dei tributi a Elinor
Ostrom per onorarne la memoria sono, in proposito, particolarmente significativi: cfr. J.M.
ANDERIES – M.A. JANSSEN, Elinor Ostrom (1933–2012): Pioneer in the interdisciplinary science
of coupled social-ecological systems, in PLOS Biology, 2012 (16 ottobre),
doi:10.1371/journal.pbio.1001405.
93
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
che regolari e graduali, con attributi non uniformi, ma differenziati e distribuiti
in base alle diverse scale spaziali e variabili in base ai diversi orizzonti
temporali nonché ai diversi livelli di complessità; per questo, non esiste un
―equilibrio ideale‖ astratto o uno ―stato ottimale‖ primigenio dei sistemi socioecologici12.
3. Sistemi socio-ecologici e definizione giuridica di «ambiente» di cui
all‘art. 5, comma 1, d.lgs. n. 152/2006. Il carattere federativo del diritto
dell‘ambiente
Il modello dei sistemi socio-ecologici – che campeggia da tempo al
centro delle piattaforme transdisciplinari di ricerca variamente denominate
Environmental Science13, Earth System Science14, Science of Earth
12
J.A. MATTHEWS – R.J. HUGGETT, Ecosystem Concept, in J.A. MATTHEWS (ed.), Encyclopedia of
Environmental Change, Vol. 1 [A-F], Sage, 2013, pp. 326 ss.; M.E. KRASNY – C. LUNDHOLM – R.
PLUMMER (eds.), Resilience in social-ecological systems: the role of learning and education,
Routledge, 2011; C. FOLKE ET AL., Reconnecting to the biosphere, in Ambio, 2011, Vol. 40, Issue
7, pp. 719 ss.; K. JAX, Ecosystem Functioning, Cambridge University Press, 2010, in particolare
p. 170; N.M. GOTTS, Resilience, panarchy, and world-systems analysis, in Ecology and Society,
2007, Vol. 12, Issue 1, pp. 24 ss.; C. FOLKE, Resilience: the emergence of a perspective for
social–ecological systems analyses, in Global Environmental Change, 2006, Vol. 16, pp. 253 ss.;
K. ROHDE (ed.), Nonequilibrium Ecology, Cambridge University Press, 2005; B. WALKER – C.S.
HOLLING – S.R. CARPENTER – A. KINZIG, Resilience, adaptability and transformability in social–
ecological systems, in Ecology and Society, 2004, Vol. 9, Issue 2, pp. 5 ss.; L.H. GUNDERSON –
C.S. HOLLING (eds.), Panarchy: understanding transformations in human and natural systems,
Island Press, 2002.
13
Denominazione ormai molto diffusa, anche a livello didattico: cfr. R.T. WRIGHT – D.F. BOORSE,
Environmental Science. Toward a Sustainable Future, 12a ed., Pearson New International Edition,
2013; G.T. MILLER JR. – S.E. SPOOLMAN, Environmental Science, 14a ed., Brooks/Cole, 2013;
W.P. CUNNINGHAM – M.A. CUNNINGHAM, Principles of environmental science. Inquiry and
applications, 7a ed., McGraw-Hill, 2013; E.A. KELLER– D.B. BOTKIN, Essential Environmental
Science, John Wiley, 2008; R.K. KAUFMANN – C.J. CLEVELAND, Environmental Science, McGraw
Hill, 2007; M. ALLABY, Basics of Environmental Science, 2a ed., Routledge, 2000. Come osserva
D.D. CHIRAS, Environmental Science, 10a ed., Jones and Bartlett Publishers, 2014, p. 8,
«Environmental science is, in broadest terms, a branch of science that seeks to understand the
many ways that we affect our environment and the many ways that we can address these issues.
Environmental science draws on the research and expertise of specialist from numerous
traditional sciences, including biology, ecology, chemistry, geology, engineering, and physics.
The study of environmental issues and solutions also draws heavily on the humanities:
economics, political science, anthropology, history, law, sociology, and even psychology. Thus,
environmental science is a multidisciplinary field of endeavor. To many observers, myself
included, a full understanding of issues and solutions requires this broad, multidisciplinary
94
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Stewardship15 o, ancora più ampiamente, Sustainability Science16 – inizia da
alcuni anni ad essere recepito, nei suoi presupposti e corollari, anche
approach. We won‘t solve the complex environmental issues that we face today through science
and technology alone. We must understand and address the human element» (corsivo aggiunto).
14
Cfr. E. EHLERS – T. KRAFFT (eds.), Earth system science, cit.; H.J. SCHELLNHUBER - P.J.
CRUTZEN - W.C. CLARK – M. CLAUSSEN – H. HELD (eds.), Earth system analysis for
sustainability, MIT Press, 2004. Come osserva A.J. PITMAN, On the role of geography in Earth
system science, in Geoforum, 2005, Vol. 36, Issue 2, p. 137: «While most sciences have become
reductionist over the last two centuries, they have recently discovered that the Earth is a ―complex
system‖ with ―emergent‖ properties that cannot be explained through understanding the
components parts individually. Many of these sciences are now contributing to a major effort
called Earth System Science, an integrative super-discipline that accepts that biophysical sciences
and social sciences are equally important in any attempts to understand the state, and future of
the Earth System» (corsivi aggiunti).
15
F.S. CHAPIN III ET AL., Earth stewardship: a strategy for social-ecological transformation to
reverse planetary degradation, in Journal of Environmental Studies and Sciences, 2011, Vol. 1,
pp. 44 ss. Nella definizione degli Autori, «Earth Stewardship is the active shaping of trajectories
of change in coupled social–ecological systems at local-to global scales to enhance ecosystem
resilience and promote human well-being» (p. 45). Significativa è la considerazione secondo cui
«the Science of Earth Stewardship requires interdisciplinary collaboration among many natural
and social sciences, including climate, earth, ocean science, environmental sciences, ecology,
psychology, sociology, political science, and anthropology. We must work together to
comprehend causal relationships among human behavior; institutional dynamics; and
environmental, ecological, and earth-system stability and change. At least three communities
must be engaged: (1) earth and biophysical sciences; (2) social and economic sciences; and (3)
planning, resource management, and restoration practitioners […] Social sciences bring not only
their understanding of human institutions, behavior, and population changes but also a keen
understanding of policy and political realities and the nature of the civil dialog that must be
pursued for the sake of Earth Stewardship» (pp. 47-48).
16
G. BOLOGNA, Manuale della sostenibilità. Idee, concetti, nuove discipline capaci di futuro,
Milano, Edizioni Ambiente, 2005; W.C. CLARK – N.M. DICKSON, Sustainability science: the
emerging research program, in Proceedings of the National Academy of Sciences, 2003, Vol.
100, pp. 8059 ss.. Per ulteriori riferimenti, v. altresì F. SPAGNUOLO, Partecipazione, democrazia e
diritto amministrativo nella governance del sistema terra, in questa Rivista, n. 3/2012, pp. 2 ss.
Nell‘ultimo quinquennio, nella vasta bibliografia, cfr. T. DEDEURWAERDERE, Sustainability
science for strong sustainability, Edward Elgar, 2014; T.R. MILLER, Reconstructing sustainability
science: knowledge and action for a sustainable future, Routledge, 2014; ID., Constructing
sustainability science: emerging perspectives and research trajectories, in Sustainability Science,
2013, Vol. 8, Issue 2, pp. 279 ss.; B.J.M. DE VRIES, Sustainability science, Cambridge University
Press, 2013; M.P. WEINSTEIN - R.E. TURNER (eds.), Sustainability science: the emerging paradigm
and the urban environment, Springer, 2012; D.J. LANG ET AL., Transdisciplinary research in
sustainability science: practice, principles, and challenges, in Sustainability Science, 2012, Vol.
7, Issue 1 Suppl., pp. 25 ss.; H. KOMIYAMA ET AL. (eds.), Sustainability science: a
multidisciplinary approach, United Nations University Press, 2011. Si segnala che in Italia, nel
settembre del 2013, è stata fondata l‘Associazione Italiana per la Scienza della Sostenibilità
(IASS), della quale fanno parte, tra i soci fondatori, anche dei giuristi
(http://scienzasostenibile.wordpress.com/): v. F. VOLPE, L‘esperienza italiana sulla scienza della
95
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
nell‘ambito delle scienze giuridiche, in seno al dibattito dottrinale in corso a
livello internazionale17 e nella stessa dottrina italiana18.
sostenibilità: la Italian Association for Sustainability Science, in Riv. giur. ambiente, 2014, pp.
109 ss.
17
Basti pensare al Simposio internazionale dal titolo «Law for Social-Ecological Resilience
Conference» svoltosi nei giorni 17-19 novembre 2010 a Stoccolma, co-organizzato dallo
Stockholm Environmental Law and Policy Centre - Faculty of Law e dallo Stockholm Resilience
Centre, entrambi della Stockholm University, con il patrocinio dell‘Earth System Governance
Project. I contributi scientifici frutto del Simposio sono stati pubblicati nel 2013 sulla rivista
Ecology and Society, la quale ha, più ampiamente, dedicato al rapporto tra diritto e resilienza
socio-ecologica due special features (Law and Social-Ecological Resilience, Part I: Contributions
from Resilience 2011, Issue 2; Law and Social-Ecological Resilience, Part II, Contributions from
Law for Social-Ecological Resilience Symposium Stockholm, Sweden, 2010, Issue 3). Oltre al
pionieristico studio di A.D. TARLOCK, The nonequilibrium paradigm in ecology and the partial
unraveling of environmental law, in Loyola of Los Angeles Law Review, 1994, Vol. 27, Issue 3,
pp. 1121 ss. nonché in R.V. PERCIVAL – D.C. ALEVIZATOS (eds.), Law and the environment: a
multidisciplinary reader, Temple University Press, 1997, pp. 25 ss., v. comunque J. EBBESSON,
The rule of law in governance of complex socio-ecological changes, in Global Environmental
Change, 2010, Vol. 20, Issue 3, pp. 414 ss.; M.H. BENSON – A.S. GARMESTANI, Embracing
panarchy, building resilience and integrating adaptive management through a rebirth of the
National Environmental Policy Act, in Journal of Environmental Management, 2011, Vol. 92, pp.
1420 ss.; J.B. RUHL, General design principles for resilience and adaptive capacity in legal
systems — with applications to climate change adaptation, in North Carolina Law Review, 2011,
Vol. 89, Issue 5, pp. 1373 ss.; ID., Panarchy and the law, in Ecology and Society, 2012, Vol. 17,
Issue 3, pp. 31 ss.; C. VOIGT (ed.), Rule of law for nature. New dimensions and ideas in
environmental law, Cambridge University Press, 2013; L.H. MONTEIRO DE LIMA, The principle of
resilience, in Pace Environmental Law Review, 2013, Vol. 30, Issue 2, pp. 695 ss.; L. WESTRA –
T. TAYLOR – A.S. MICHELOT (eds.), Confronting ecological and economic collapse. Ecological
integrity for law, policy and human rights, Routledge, 2013; C. ARNOLD - L. GUNDERSON,
Adaptive law and resilience, in Environmental Law Reporter News and Analysis, 2013, Vol. 43,
pp. 10426 ss; R.A. BARNES, The capacity of property rights to accommodate social-ecological
resilience, in Ecology and Society, 2013, Vol. 18, Issue 1, pp. 6 ss.; G. CUMMING, Scale
mismatches and reflexive law, in Ecology and Society, 2013, Vol. 18, Issue 1, pp. 15 ss.; D.
ARMITAGE, Resilience and administrative law, in Ecology and Society, 2013, Vol. 18, Issue 2, pp.
11 ss.; A.S. GARMESTANI – C.R. ALLEN C. – M.H. BENSON, Can law foster social-ecological
resilience? in Ecology and Society, 2013, Vol. 18, Issue 2, pp. 37 ss.; J. EBBESSON - E. HEY,
Introduction: Where in law is social-ecological resilience?, in Ecology and Society, 2013, Vol.
18, Issue 3, pp. 25 ss.; A.S. GARMESTANI – C.R. ALLEN (eds.), Social-ecological resilience and
law, Columbia University Press, 2014; O.O. GREEN – A.S. GARMESTANI – M.E. HOPTON – M.T.
HEBERLING, A multi-scalar examination of law for sustainable ecosystems, in Sustainability,
2014, Vol. 6, pp. 3534 ss.; N.A. ROBINSON, The resilience principle, in IUCN Academy of
Environmental Law eJournal, n. 5/2014, pp. 19 ss.; M. MONTEDURO – P. BUONGIORNO – S. DI
BENEDETTO – A. ISONI (eds.), Law and agroecology: a transdisciplinary dialogue, Springer,
2015.
18
Imprescindibile da questo punto di vista, per il dibattito italiano, il riferimento a M. CAFAGNO,
Principi e strumenti di tutela dell‘ambiente. Come sistema complesso, adattativo, comune,
Torino, Giappichelli, 2007 (con amplissima bibliografia relativa agli studi, tra gli altri, di autori
quali HOLLING, GUNDERSON, OSTROM, FOLKE, BERKES). Cfr. anche, nella prospettiva della
96
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Assumere questo modello è molto utile nella prospettiva del giurista ove
si guardi alla definizione giuridica di «ambiente» introdotta per la prima volta
nell‘ordinamento italiano, sia pur indirettamente – perché inserita all‘interno
della definizione di «impatto ambientale» – dall‘art. 5, comma 1, lett. c), del
d.lgs. 152/2006 (cd. Codice dell‘ambiente).
Come è noto, tale disposizione normativa (inserita in un articolo del
Codice dell‘ambiente intitolato significativamente «Definizioni») reca la
seguente formula: «ambiente, inteso come sistema di relazioni fra i fattori
antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici,
culturali, agricoli ed economici»19.
Questa definizione di diritto positivo fornisce una serie di indicazioni
testuali significative:
- l‘ambiente in senso giuridico («sistema di relazioni fra fattori») non
coincide totalmente con l‘ambiente in senso ecologico («fattori naturalistici,
sustainability science, M. MONTINI – F. VOLPE, La scienza della sostenibilità e la necessità di
regolazione, in Riv. giur. ambiente, 2011, pp. 157 ss. Sia consentito infine un rinvio a M.
MONTEDURO, Per una «nuova alleanza» tra diritto ed ecologia: attraverso e oltre le «aree
naturali protette», in GiustAmm.it, 2014.
19
La novità dell‘introduzione in via legislativa di una definizione giuridica, sia pur indiretta, di
«ambiente» è sottolineata da vari studiosi: cfr. ad es. A. GIUFFRIDA, Il quadro organizzativo. Le
tutele differenziate ed i livelli di governo, in A. CROSETTI – N. FERRUCCI (a cura di), Manuale di
diritto forestale e ambientale, Milano, Giuffré, 2008, p. 239; in giurisprudenza, di recente, si veda
Cons. Stato, VI, 31 luglio 2013, n. 4034, secondo cui «sotto il profilo sostanziale, l‘ambiente è
definito dal legislatore delegato il sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici,
chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici (art. 5
comma 1 lett. c D.lgs. n. 152 del 2006). Esso è ―un bene immateriale unitario sebbene a varie
componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di
cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità .... la sua protezione non
persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l‘esigenza di un habitat naturale
nel quale l‘uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo
valori largamente sentiti‖ (Corte Cost., sent. n. 641 del 1987). La nozione globale di ―ambiente‖
comprende in sé ogni componente dell‘habitat (inteso come complesso degli elementi ambientali
e culturali, che caratterizzano gli insediamenti umani) e quindi, soprattutto negli insediamenti
urbani, anche il patrimonio storico-artistico: non a caso, pur in presenza di disposizioni specifiche
per ciascun settore (cfr. art. 1 della L. 8 luglio 1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell‘ambiente,
nonché art. 10 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio), è
infatti previsto (art. 3 L. n. 349 del 1986 cit.) che il Ministro dell‘ambiente ed il Ministro per i
beni culturali assumano di comune intesa le iniziative necessarie, per assicurare il coordinato
esercizio delle attribuzioni di rispettiva competenza. In sintesi, quindi, l‘ambiente è un bene
immateriale unitario ma vi sono sue componenti che sono oggetto di disciplina, cura e tutela
isolatamente e separatamente: tra queste, i beni culturali» (corsivi aggiunti).
97
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
chimico-fisici, climatici») in quanto è più ampio, ricomprendendo il secondo
senza esaurirsi in esso20;
- l‘ambiente in senso giuridico («sistema di relazioni fra fattori»)
comprende in sé, oltre all‘ambiente in senso ecologico, anche l‘ambiente in
senso sociale, ossia l‘ambiente umano («fattori antropici … paesaggistici,
architettonici, culturali, agricoli ed economici»);
- l‘ambiente in senso giuridico è un «sistema» composto non
semplicemente di fattori (non si tratta cioè di una somma algebrica, quantitativa
e statica, di beni, né di una sorta di universitas rerum), ma soprattutto delle
«relazioni fra fattori»: si tratta cioè di una sintesi dinamica e qualitativa delle
interazioni tra beni integrati in un «tutto» che è ben più della somma delle sue
«parti»21, in quanto livello superiore di aggregazione di interessi che esprime
20
In dottrina la questione è cruciale e molto discussa. Cfr. B. CARAVITA, Diritto dell‘ambiente, 3a
ed., Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 22-25, fautore di una «prospettiva ecologica» secondo cui
«―ambiente‖ allora va inteso come equilibrio ecologico, di volta in volta, della biosfera o dei
singoli ecosistemi di riferimento … ―tutela dell‘ambiente‖ va considerata come tutela
dell‘equilibrio ecologico della biosfera o degli ecosistemi di riferimento», con la conseguente
necessità di aprire il diritto «ai dati e alle elaborazioni dell‘ecologia, della scienza, cioè, che studia
le condizioni di vita reali degli organismi sotto il profilo delle interrelazioni fra gli organismi e
l‘ambiente, con la conseguente utilizzazione di quelle elaborazioni per costruire su di essi nozioni
giuridicamente significative». Lo stesso Autore precisa tuttavia (p. 25) che «parlando di tutela
degli equilibri ecologici della biosfera e degli ecosistemi, non si vuole far riferimento alla tutela
dell‘ambiente inteso in senso esclusivamente ―naturale‖: della biosfera e degli ecosistemi fa parte
l‘uomo e ne fanno parte ambienti costruiti e strutturati dall‘uomo e dagli esseri viventi;
l‘equilibrio ecologico non è dunque quello di ambienti irrealisticamente ―naturali‖, ma quello
delle situazioni concrete dove l‘uomo e gli esseri viventi operano e così come lo hanno nei secoli
e nei millenni strutturato». La posizione di Caravita è ripresa da M. CECCHETTI, La disciplina
giuridica della tutela ambientale come ―diritto dell‘ambiente‖, in Federalismi.it, 2006, in
particolare pp. 30 ss.
21
Vengono alla mente le icastiche espressioni utilizzate da Corte cost., 14 novembre 2007, n. 378:
«Occorre, in altri termini, guardare all‘ambiente come ―sistema‖, considerato cioè nel suo
aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto. La
potestà di disciplinare l‘ambiente nella sua interezza è stata affidata, in riferimento al riparto delle
competenze tra Stato e Regioni, in via esclusiva allo Stato, dall‘art. 117, comma secondo, lettera
s), della Costituzione, il quale, come è noto, parla di ―ambiente‖ in termini generali e
onnicomprensivi. E non è da trascurare che la norma costituzionale pone accanto alla parola
―ambiente‖ la parola ―ecosistema‖. Ne consegue che spetta allo Stato disciplinare l‘ambiente
come una entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le
singole componenti considerate come parti del tutto. Ed è da notare, a questo proposito, che la
disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore
costituzionale primario (sentenza n. 151 del 1986) ed assoluto (sentenza n. 210 del 1987), e deve
garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale
inderogabile da altre discipline di settore. Si deve sottolineare, tuttavia, che, accanto al bene
giuridico ambiente in senso unitario, possano coesistere altri beni giuridici, aventi ad oggetto
98
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
proprietà emergenti, ossia proprietà originali e nuove che non è possibile
osservare né prevedere al livello delle singole componenti del sistema22.
componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi giuridicamente tutelati.
Si parla, in proposito, dell‘ambiente come ―materia trasversale‖, nel senso che sullo stesso
oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell‘ambiente e quelli inerenti alle
sue utilizzazioni. In questi casi, la disciplina unitaria del bene complessivo ambiente, rimessa in
via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni o dalle Province
autonome, in materie di competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi. Ciò comporta che
la disciplina ambientale, che scaturisce dall‘esercizio di una competenza esclusiva dello Stato,
investendo l‘ambiente nel suo complesso, e quindi anche in ciascuna sua parte, viene a
funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre
materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o
peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato» (corsivi aggiunti). La differenza,
tuttavia, tra questa posizione della Corte costituzionale e la ricostruzione operata nel testo sta nel
fatto che la Consulta, nella sentenza esaminata, sembra far coincidere l‘ambiente in senso
giuridico con l‘ambiente in senso ecologico, esaurendo il primo nel secondo. Ciò almeno emerge
dai passaggi in cui la Corte afferma: «sovente l‘ambiente è stato considerato come ―bene
immateriale‖. Sennonché, quando si guarda all‘ambiente come ad una ―materia‖ di riparto della
competenza legislativa tra Stato e Regioni, è necessario tener presente che si tratta di un bene
della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia
delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti. In questo senso, del resto, si è già
pronunciata questa Corte con l‘ordinanza n. 144 del 2007, per distinguere il reato edilizio da
quello ambientale. Oggetto di tutela, come si evince anche dalla Dichiarazione di Stoccolma del
1972, è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma
anche per le interazioni fra queste ultime, i loro equilibri, la loro qualità, la circolazione dei loro
elementi, e così via» (corsivi aggiunti). Tale posizione è stata ribadita dalla Corte costituzionale in
successive sentenze: cfr. Corte cost., 18 aprile 2008, n. 104, secondo cui «la competenza a tutelare
l‘ambiente e l‘ecosistema nella sua interezza è stata affidata in via esclusiva allo Stato dall‘art.
117, comma secondo, lettera s), della Costituzione, e per «ambiente ed ecosistema», come
affermato dalla Dichiarazione di Stoccolma del 1972, deve intendersi quella parte di ―biosfera‖
che riguarda l‘intero territorio nazionale» (corsivi aggiunti); da Corte cost., 23 maggio 2008, n.
168, secondo cui «l‘ambiente, inteso come ―sistema‖ […] nel suo aspetto dinamico» si
identificherebbe con «le interazioni e gli equilibri fra le diverse componenti della ―biosfera‖»; da
Corte cost., 13 aprile 2011, n. 128 e 12 marzo 2015, n. 32, secondo cui la «tutela dell‘ambiente»
riguarda «le interazioni e gli equilibri fra le diverse componenti della ―biosfera‖ intesa come
―sistema‖ [...] nel suo aspetto dinamico».
22
Già limitandosi alla prospettiva puramente biologica e dunque ai soli sistemi ecologici (T.M.
SWANNACK - W.E. GRANT, Systems Ecology, in S.E. JØRGENSEN – B.D. FATH [eds.], Encyclopedia
of Ecology, Vol. 4 [P-S], Elsevier, 2008, pp. 3477 ss., p. 3478), i diversi livelli di aggregazione
della vita sono organizzati dalla biologia secondo una gerarchia per gradi crescenti di complessità:
(i) la cellula; (ii) il tessuto; (iii) l‘organo; (iv) l‘apparato; (v) l‘organismo individuale; (vi) la
popolazione – sistema vivente composto da organismi individui della stessa specie –; (vii) la
comunità o biocenosi – sistema vivente composto da organismi di popolazioni diverse –; (viii)
l‘ecosistema – sistema vivente composto da diverse comunità che interagiscono con un biotopo,
ossia con componenti abiotiche rappresentate da un insieme di fattori fisici e chimici quali il
clima, l‘esposizione alla luce, la presenza di acqua, un tipo di suolo e di substrato; (ix) il
paesaggio, che in ecologia è semplicemente un sistema vivente composto da ecosistemi interrelati
dinamicamente tra loro; (x) il bioma o ecoregione, sistema di paesaggi; infine, (xi) la ecosfera,
99
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Tale definizione positiva di «ambiente» sembra presupporre proprio le
linee concettuali del modello dei sistemi socio-ecologici: l‘ambiente inteso
come concetto giuridico, ―prendendo sul serio‖ la nozione fornita dal legislatore
italiano, non si esaurisce perciò negli eco-sistemi né nei socio-sistemi
considerati isolatamente e separatamente, ma assurge a meta-sistema (socioecologico) di sistemi (ecologici e sociali) i quali interagiscono organizzandosi
in un tutto che è più della somma delle sue parti23.
ossia il pianeta composto dai diversi biomi. Ciascuno di tali livelli di organizzazione della vita
biologica può essere considerato un «living system», ossia un sistema complesso (aperto,
dissipativo, autopoietico, capace di auto-organizzarsi e di auto-rinnovarsi) che ha una forma
autonoma di esistenza e di rilevanza biologica, distinta rispetto alle esistenze individuali dei
componenti che fanno parte del sistema. La concettualizzazione che organizza la vita per livelli
crescenti di complessità si fonda proprio sul principio delle «proprietà emergenti»: ogni volta che
si passa, nella piramide gerarchica, da un livello di aggregazione della vita biologica a quello
superiore, il sistema di grado superiore esibisce nuove proprietà, ossia caratteristiche originali che
non è possibile prevedere osservando le singole componenti del livello precedente. Le nuove
proprietà del sistema vivente di livello superiore non sono il risultato della somma quantitativa
delle proprietà dei singoli componenti, ma della loro sintesi qualitativa, in quanto le proprietà
emergenti sorgono ex novo dalla collaborazione e stretta interazione di tutti i sistemi viventi di
livello inferiore che co-esistono. V. Z. NAVEH - Y. CARMEL, Landscape complexity versus
ecosystem complexity: implication for landscape planning and management, in A. FARINA - R.
SANTOLINI - A. PENNA (a cura di), La complessità in ecologia, Atti del XII Congresso Nazionale
della S.It.E., Urbino 16-18 settembre 2002, Società Italiana di Ecologia, 2003, pp. 35 ss., p. 37,
secondo i quali (corsivi aggiunti) «because of their emergent organizational systems properties,
landscapes are more than the sum of their measurable components. They become an entirely new
entity as an ordered whole or ―Gestalt‖ system, in which, like in organisms (or a melody) — all
their parts are related to each other by the general state of the whole». Cfr. sul punto F. JORDÁN S.E. JØRGENSEN (eds.), Models of the ecological hierarchy. From molecules to the ecosphere,
Elsevier, 2012; P. RUSSELL – P. HERTZ – B. MCMILLAN, Biology. The dynamic science,
Brooks/Cole, 2a ed., 2011, pp. 2 ss.; S.A. THOMAS – J. CEBRIAN, Ecosystem pattern ad processes,
in S.E. JØRGENSEN (ed.), Global Ecology, Elsevier, 2010, p. 380; N.A. CAMPBELL - J.B. REECE, E.J. SIMON, L‘essenziale di biologia, Pearson, 2008, pp. 2 ss.; C. LÉVÊQUE, Ecology: from
ecosystem to biosphere, Science Publishers, 2003, in particolare p. 134. Per un approccio
transdisciplinare biosociologico, D. PUMAIN (ed.), Hierarchy in natural and social sciences,
Springer, 2006. Un tentativo di teoria generale dei «living systems», che trascende l‘ambito delle
scienze biologiche proponendosi di assurgere a schema euristico valido anche per le scienze
sociali, è stato prospettato in passato dalla poderosa opera di J.G. MILLER, Living Systems,
McGraw-Hill, 1978, ed. it. La teoria generale dei sistemi viventi, Milano, Franco Angeli, 1978.
23
Per una prospettiva concettuale favorevole a configurare l‘ambiente in senso giuridico come
«sistema» complesso di relazioni (sia pur con accenti diversi rispetto alla tesi qui prospettata),
nella dottrina italiana, v. in particolare M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell‘ambiente.
Come sistema complesso, adattativo, comune, cit., passim; nello stesso senso, cfr. la prima parte
dell‘interessante ricerca di A. FARÌ, Beni e funzioni ambientali. Contributo allo studio della
dimensione giuridica dell‘ecosistema, Napoli, Jovene, 2013, in particolare pp. 3 ss. e 24 ss.
100
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La nozione giuridica di ambiente scelta dal legislatore consentirebbe, a
ben vedere, di affrontare in una chiave nuova nodi problematici sui quali da
decenni si svolge un contrastato dibattito dottrinale e giurisprudenziale,
rinnovando così l‘approccio finora seguito dall‘ancora giovane disciplina
denominata ―diritto dell‘ambiente‖24.
Se l‘ambiente in senso giuridico rappresenta il sistema di relazioni tra
fattori ecologici e sociali (compresi, tra questi ultimi, quelli culturali ed
economici), allora il diritto dell‘ambiente dovrebbe occuparsi dell‘ambiente
come sistema e, dunque, (i) dei presupposti essenziali di struttura per l‘esistenza
del sistema, (ii) dei principi e delle regole fondamentali di flusso per il
funzionamento e l‘evoluzione del sistema, (iii) nonché delle trasformazioni che
le singole componenti subiscono quando, anziché essere considerate
isolatamente, sono inserite nella dinamica delle relazioni con altre componenti
all‘interno del sistema; il diritto dell‘ambiente non dovrebbe invece ―invadere‖
24
L‘articolato dibattito sulla nozione giuridica di ambiente, in corso da oltre un quarantennio
nell‘ordinamento italiano, a partire dalla nota tripartizione gianniniana, dal successivo contrasto
tra tesi pluraliste e moniste, dall‘elaborazione giurisprudenziale dell‘ambiente come oggetto di un
diritto soggettivo fondamentale in contrappunto con le posizioni dottrinali sull‘ambiente come
oggetto di un dovere inderogabile nel prisma del principio di solidarietà ex art. 2 Cost., fino ai
ripetuti interventi della Corte costituzionale a seguito dell‘inserimento nel 2001 della materia
«tutela dell‘ambiente, dell‘ecosistema e dei beni culturali» nel nuovo testo dell‘art. 117 Cost. (lett.
s), con le oscillazioni della Consulta tra immaterialità e materialità dell‘ambiente e qualificazione
dello stesso come materia o valore, è sintetizzato, di recente, da ROSSI G., La ―materializzazione‖
dell‘interesse all‘ambiente, in ID. (a cura di), Diritto dell‘ambiente, 3a ed., Torino, Giappichelli,
2015, pp. 11 ss.; A. GUSMAI, La tutela costituzionale dell‘ambiente tra valori (meta-positivi),
interessi (mercificatori) e (assenza di) principi fondamentali, in Diritto Pubblico Europeo
Rassegna online, febbraio 2015; D. AMIRANTE, Profili di diritto costituzionale dell‘ambiente, in
P. DELL‘ANNO – E. PICOZZA (a cura di), Trattato di diritto dell‘ambiente, Vol. I. Principi generali,
Padova, Cedam, 2012, pp. 233 ss.; R. ROTA, Introduzione al diritto dell‘ambiente, in ID. (a cura
di), Lezioni di diritto dell‘ambiente, Roma, Aracne, 2012, pp. 21 ss.; S. GRASSI, Problemi
costituzionali di diritto dell‘ambiente, Milano, Giuffré, 2012, in particolare pp. 20 ss, 52 ss., 136
ss.; con riferimento al diritto penale, v. G. DE SANTIS, Diritto penale dell‘ambiente. Un‘ipotesi
sistematica, Milano, Giuffré, 2012, in particolare pp. 47 ss.; L. SIRACUSA, La tutela penale
dell‘ambiente. Bene giuridico e tecniche di incriminazione, Milano, Giuffré, 2007, in particolare
pp. 7 ss. Si vedano comunque i seguenti contributi: P. MADDALENA, L‘interpretazione dell‘art.
117 e dell‘art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza costituzionale in tema di
tutela e di fruizione dell‘ambiente, in Riv. giur. ambiente, 2011, pp. 735 ss.; D. PORENA, La
protezione dell‘ambiente tra Costituzione italiana e ―Costituzione globale‖, Torino, Giappichelli,
2009; A. CIOFFI, L‘ambiente come materia dello Stato e come interesse pubblico. Riflessioni
sulla tutela costituzionale e amministrativa, in Riv. giur. ambiente, 2009, pp. 970 ss.; S.
BOLOGNINI, La definizione giuridica di ambiente: una chimera?, in Dir. giur. agr. alim. amb.,
2007, pp. 723 ss.; P. MANTINI, Per una nozione costituzionalmente rilevante di ambiente, in Riv.
giur. ambiente, 2006, pp. 207 ss.
101
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
con regole di dettaglio il dominio della regolazione specifica dei fattori singoli,
ex se considerati, nel caso in cui essi costituiscano de iure condito l‘oggetto di
discipline differenziate sul piano normativo (es.: il diritto del paesaggio e dei
beni culturali, il diritto agrario, il diritto urbanistico, il diritto dell‘economia, il
diritto sanitario, il diritto del lavoro, etc.)25.
Per mutuare un‘espressione utilizzata dalla Corte costituzionale, il diritto
dell‘ambiente dovrebbe allora «disciplinare l‘ambiente come una entità
organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le
singole componenti considerate come parti del tutto» (Corte cost., 14 novembre
2007, n. 378, corsivi aggiunti).
Non si tratta dunque di dover tracciare, in uno spazio cartesiano a due
dimensioni, una serie di ―circoli di competenza‖ in rapporto di separazione,
intersezione o continenza concentrica; piuttosto, occorre metaforicamente
immaginare, in uno spazio a tre dimensioni, l‘ambiente-sistema come un
poliedro sezionabile (in orizzontale e in verticale) in diversi piani, ciascuno dei
quali corrisponderà ad una disciplina differenziata; la pluralità delle discipline
differenziate non si somma in quella della disciplina del poliedro, ma
quest‘ultima presuppone le prime e ne assume i risultati come basi per
l‘individuazione, l‘interpretazione e la sistematizzazione delle proprietà
emergenti del poliedro, maggiori, ulteriori e diverse rispetto alla mera addizione
delle proprietà dei piani bidimensionali che idealmente lo compongono.
Ne deriva che il diritto dell‘ambiente (inteso come sistema di relazioni)
non potrà ignorare le competenze, gli esiti e le elaborazioni delle discipline
differenziate relative ai singoli fattori in relazione, ma dovrà muovere da essi
considerandoli però – questo è il punto cruciale – non uti singuli (come accade
in ciascuna disciplina differenziata) bensì uti socii, ossia elevando l‘angolo di
visione dal livello organizzativo della componente al livello organizzativo, più
complesso e dunque intrinsecamente diverso, del sistema26.
25
Ad esempio, in questa prospettiva, principi quali quelli dello sviluppo sostenibile o di
precauzione, istituti quali la VAS o la VIA, procedimenti quali la pianificazione del bilancio
idrico o concetti quali la definizione giuridica di ―rifiuto‖ o di ―gerarchia‖ del ciclo di gestione dei
rifiuti attengono all‘ambiente come sistema di relazioni tra fattori ecologici e sociali; di contro,
sempre a titolo esemplificativo, la disciplina dei permessi di costruire riguarda il diritto
urbanistico così come quella dell‘etichettatura dei prodotti agroalimentari riguarda il diritto
agrario e quella di dichiarazione dell‘interesse culturale riguarda il diritto dei beni culturali e del
paesaggio.
26
Non diversamente da quanto accade, per vero, in ogni ambito scientifico. Tra le hard sciences,
si prenda come esempio la scienza dell‘ecologia, e si considerino i rapporti tra ecologia, da un
102
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Questo modo di intendere l‘ambiente in senso giuridico e, dunque,
l‘oggetto del diritto dell‘ambiente presenta, a giudizio di chi scrive, alcuni
vantaggi, in quanto consentirebbe di:
- evitare i rischi di una «prospettiva imperialista», nella quale il diritto
dell‘ambiente pretenda di «annettere tutti i settori nei quali interviene» con
riguardo ai «diritti vicini con i quali le sovrapposizioni sono numerose»27;
- superare le insidie della dicotomia tra una «accezione troppo stretta» di
ambiente, ossia limitata alla sola «protezione della natura», e una «accezione
troppo globale» che, come è stato efficacemente detto, finirebbe per «attrarre ad
essa l‘insieme dei problemi che toccano la qualità di vita, la ‗felicità‘ degli
esseri di cui Sant‘Agostino aveva enumerato 228 definizioni»28;
- avanzare anche oltre la prospettiva dottrinale, pur pregevole, dei «cerchi
concentrici», la quale muove comunque dal presupposto (qui non condiviso)
secondo cui il diritto dell‘ambiente e le discipline differenziate di settore si
collocherebbero su un medesimo piano orizzontale, competendo per
l‘occupazione di ―superfici‖ di competenza interferenti o parzialmente
sovrapposte29;
lato, e biologia, chimica, fisica, dall‘altro; o tra ecologia, da un lato, e zoologia, botanica,
micologia, batteriologia, virologia, dall‘altro; o, ancora, tra ecologia, da un lato, e fisiologia,
patologia, morfologia, anatomia, dall‘altro, etc. Gli esempi potrebbero continuare. Non è possibile
per un ecologo studiare un ecosistema come sistema di relazioni tra comunità biotiche e biotopi
abiotici senza presupporre (e conoscere) le acquisizioni delle scienze di base che studiano, in
maniera specializzata e su piani diversi, le diverse componenti biotiche e abiotiche e le loro
caratteristiche in diverse prospettive di analisi; tuttavia l‘ecologo non è un super-scienziato, né un
assommatore di competenze altrui, ma un sintetizzatore di esse al solo e specifico fine di indagare
un livello di aggregazione della vita più complesso di quello molecolare, cellulare o
dell‘organismo, rappresentato, ad esempio, dagli ecosistemi. L‘interesse primario dell‘ecologo
non è infatti rivolto alle proprietà di base delle singole componenti, bensì alle proprietà emergenti,
nuove e diverse, che caratterizzano le componenti quando esse si federano per formare il sistema
ecologico. Si rinvia comunque supra, alla precedente nota 22.
27
M. PRIEUR, Droit de l‘environnement, Paris, Dalloz, 6e éd., 2011, p. 8 (la traduzione è di chi
scrive), il quale rifiuta radicalmente questa prospettiva (l‘Autore fa l‘esempio del diritto
urbanistico e del territorio e del diritto dell‘energia).
28
Così J. MORAND-DEVILLER, Le droit de l‘environnement, Paris, Presses Universitaires de
France, «Que sais-je ?», 2010, p. 10 (la traduzione è di chi scrive).
29
È la nota tesi di M. PRIEUR, Droit de l‘environnement, cit., p. 8, secondo cui, allo stato, sarebbe
preferibile «considerare che il diritto dell‘ambiente attuale si delimita attraverso una serie di
cerchi concentrici che traducono il carattere totalmente o parzialmente ambientale della regola di
diritto dettata. Il nucleo centrale del diritto dell‘ambiente è costituito dal diritto della natura, dal
diritto degli inquinamenti e dei rischi, dal diritto dei monumenti naturali, dei siti e dei paesaggi.
Determinati ambiti giuridici, in una seconda linea, sono interessati dal diritto dell‘ambiente in
maniera privilegiata nella misura in cui le regole, che si applicano all‘oggetto che essi coprono,
103
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
- superare la polarità on/off, del tipo tutto-o-niente, secondo cui un
determinato oggetto (ad es., per quanto qui interessa specificamente,
l‘alimentazione) o è «dentro» il diritto dell‘ambiente o ne è «fuori», restando in
tal caso appannaggio esclusivo di una disciplina contermine30;
- dare un senso più coerente alla distinzione, nel testo costituzionale (art.
117, secondo comma, lettera s]), tra «tutela dell‘ambiente» e «tutela
dell‘ecosistema», senza doverla necessariamente attribuire ad un infortunio
lessicale del legislatore costituzionale o ad un compromesso al ribasso tra
visione antropocentrica ed ecocentrica31; la tutela dell‘«ambiente», nella visione
sono o dovrebbero essere principalmente (ma non integralmente) ispirate dall‘ambiente. Si tratta
del diritto urbanistico, del diritto agrario, del diritto forestale, del diritto dei monumenti storici,
del diritto minerario, del diritto della gestione del territorio, del diritto applicabile agli spazi fragili
(costa, montagna, zone umide), e del diritto sanitario. Infine, occasionalmente, altri diritti possono
essere influenzati dal diritto dell‘ambiente (diritto del lavoro, diritto dei consumatori, diritto
dell‘energia, diritto dell‘economia, diritto dello sport e del tempo libero, diritto del turismo …)».
Aderisce alla tesi di Prieur, ritenendola fornita di «notevole valore sia euristico che pragmatico» e
auspicandone l‘accoglimento anche nell‘ordinamento italiano, D. AMIRANTE, Profili di diritto
costituzionale dell‘ambiente, in P. DELL‘ANNO – E. PICOZZA (a cura di), Trattato di diritto
dell‘ambiente, cit., p. 239.
30
Cfr. ad es. B. CARAVITA, Diritto dell‘ambiente, cit., p. 25, secondo cui «nella disciplina del
―diritto dell‘ambiente‖ rientrano … tutte quelle discipline di settore in cui si persegue come
finalità prevalente la tutela degli equilibri ecologici (e quindi: disciplina dell‘aria, dell‘acqua, del
rumore, della difesa del suolo, dello smaltimento dei rifiuti, della protezione della natura, delle
aree protette; nonché quegli strumenti tipicamente rivolti alla tutela degli equilibri ecologici:
valutazione di impatto ambientale, danno ambientale); restano invece fuori tutte quelle discipline
(ad es. relative al paesaggio; all‘agricoltura; alla sicurezza sul lavoro; ecc.) – che pur presentano
connessioni e collegamenti con il diritto dell‘ambiente – in cui risultano essere prevalenti altre
finalità (quelle di ordine estetico-culturale; o di ordine economico-produttivo; o di tutela della
salute sul lavoro)».
31
Ricostruisce le diverse posizioni espresse dalla dottrina, tutte in chiave molto critica, circa il
binomio costituzionale «ambiente» ed «ecosistema» (tra le quali quelle di FONDERICO, FERRARA,
CAFAGNO e PORENA) D. AMIRANTE, Profili di diritto costituzionale dell‘ambiente, cit., pp. 260 ss.
Circa i rapporti tra le nozioni di «ambiente» e di «ecosistema», secondo Corte cost., 23 gennaio
2009, n. 12, «è evidente che quando ci si riferisce all‘ambiente, così come attribuito alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato dalla lettera s) del secondo comma dell‘art. 117
Cost., le considerazioni attinenti a tale materia si intendono riferite anche a quella, ad essa
strettamente correlata, dell‘―ecosistema‖. Peraltro, anche se i due termini esprimono valori molto
vicini, la loro duplice utilizzazione, nella citata disposizione costituzionale, non si risolve in
un‘endiadi, in quanto col primo termine si vuole, soprattutto, fare riferimento a ciò che riguarda
l‘habitat degli esseri umani, mentre con il secondo a ciò che riguarda la conservazione della
natura come valore in sé. Le finalità dell‘istituzione delle aree protette, quali configurate dalla
lettera a) del comma 3 dell‘art. 1 della relativa legge quadro (e cioè la «conservazione di specie
animali o vegetali, di associazioni vegetali o forestali, di singolarità geologiche, di formazioni
paleontologiche, di comunità biologiche, di biotopi, di valori scenici e panoramici, di processi
naturali, di equilibri idraulici e idrogeologici, di equilibri ecologici»), fanno ritenere che per i
104
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
che qui si propone, corrisponderebbe alla disciplina di base e di principio
relativa al sistema di relazioni fra fattori cui si riferisce l‘art. 5, comma 1, lett.
c), del Codice dell‘ambiente32, mentre la tutela dell‘«ecosistema» riguarderebbe
la scelta del Costituente di attribuire allo Stato anche la potestà legislativa
esclusiva per la disciplina di dettaglio di alcuni fattori privilegiati e prioritari
all‘interno del sistema, ossia i «fattori naturalistici, chimico-fisici, climatici» di
cui all‘art. 5, comma 1, lett. c), del Codice, che corrispondono agli «ecosistemi
naturali» cui fanno riferimento esplicito tanto l‘art. 3-ter, comma 1, quanto l‘art.
3-quater, comma 2, del Codice, imponendo di salvaguardarne «il corretto
funzionamento e l‘evoluzione … dalle modificazioni negative che possono
essere prodotte dalle attività umane»33; lo Stato, in questo schema, risulta
attributario sia della competenza legislativa esclusiva di protezione riferita al
livello del sistema («ambiente»), sia della competenza legislativa esclusiva di
protezione riferita al livello di specifiche componenti – particolarmente rilevanti
– del sistema, ossia i fattori ecologici («ecosistema») nonché quelli culturali
(«beni culturali»); le Regioni sono invece competenti per la disciplina
differenziata e di dettaglio di ulteriori componenti del sistema-ambiente, o in
termini di potestà legislativa concorrente («valorizzazione» di singoli «beni
culturali e ambientali», «promozione e organizzazione di attività culturali»,
«tutela e sicurezza del lavoro», «tutela della salute», «alimentazione»,
«protezione civile», «governo del territorio», «porti e aeroporti civili, grandi reti
di trasporto e di navigazione», «produzione, trasporto e distribuzione nazionale
dell‘energia»), o in termini di potestà legislativa esclusiva residuale (si pensi
all‘agricoltura).
parchi naturali nazionali, per i quali «l‘intervento dello Stato» è richiesto, ai sensi del comma 1
dell‘art. 2, «ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future», debba
considerarsi prevalente la specifica competenza legislativa esclusiva statale relativa
all‘ecosistema» (punto 2.3., corsivi aggiunti). La Consulta, dunque, riferisce la differenza
all‘assunzione di un approccio antropocentrico («ambiente») o ecocentrico («ecosistema»).
32
Ossia alla disciplina (i) dei presupposti essenziali di struttura per l‘esistenza del sistema, (ii) dei
principi e delle regole fondamentali di flusso per il funzionamento e l‘evoluzione del sistema, (iii)
nonché delle trasformazioni che le singole componenti subiscono quando, anziché essere
considerate isolatamente, sono inserite nella dinamica delle relazioni con altre componenti
all‘interno del sistema: v. supra nel testo e alla nota 25.
33
Questo spiega perché il diritto dell‘ambiente (non conchiuso totalmente all‘interno del d.lgs.
152/2006, come è noto) copra tanto la regolazione dell‘ambiente inteso come sistema di relazioni
socio-ecologiche, quanto la disciplina ―difensiva‖ di dettaglio relativa alla salvaguardia delle aree
naturali protette e delle singole matrici ecologiche (acqua, aria, suolo).
105
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Le osservazioni sin qui svolte appaiono sintoniche con l‘intuizione
dell‘autorevole dottrina secondo cui «le droit de l‘environnement est un droit
fédérateur. S‘il est spécifique, il n‘est pas solitaire … l‘environnement aura
rendu patente la solidarité entre les diverses disciplines scientifiques et entre les
diverses branches du droit»34.
La metafora della federazione sembra attagliarsi efficacemente al diritto
dell‘ambiente: esso ha carattere federativo perché non esautora né espropria né
sostituisce branche giuridiche differenti, ma le integra e le coordina ad un
livello di regolazione più complesso (quello del «sistema di relazioni fra
fattori»).
3.1. La perpetuazione della co-esistenza e della co-evoluzione tra natura
e società come fine del diritto dell‘ambiente. Le reciproche implicazioni tra
tutela della vita e tutela della diversità
Alla luce di quanto sin qui affermato emerge un quid proprium del diritto
dell‘ambiente come disciplina scientifica e come ambito di normazione.
Nell‘Antropocene, il diritto dell‘ambiente è chiamato a stabilire dei principi e
delle regole cogenti affinché le interrelazioni tra natura e società si svolgano
assicurando che, sia nello spazio che nel tempo, i diversi fattori in relazione
(ecologici, culturali, economici) continuino a poter esistere insieme (coesistenza) e potersi evolvere insieme (co-evoluzione) come è accaduto nelle
epoche precedenti. Lo scopo del diritto dell‘ambiente è dunque quello di
presidiare, a tutte le scale territoriali, la durabilità delle condizioni
indispensabili per la sopravvivenza dei sistemi socio-ecologici.
Questo ruolo diviene cruciale ove si considerino le più recenti
acquisizioni delle scienze ecologiche, a partire da un ormai notissimo studio
pubblicato nel 2009, secondo cui le società umane avrebbero già superato alcuni
dei «limiti planetari» (planetary boundaries), così uscendo dallo «spazio
operativo di sicurezza per l‘umanità» ed entrando nella «zona di pericolo» in
cui sono altissimi i rischi di destabilizzazione dell‘ecosfera secondo processi
incontrollabili, di tipo non-lineare, con esiti che potrebbero risultare catastrofici
per la specie umana. Nello studio sono stati identificati sette limiti planetari
34
J. MORAND-DEVILLER, Le droit de l‘environnement, cit., p. 4.
106
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
legati a nove macro-processi (large-scale Earth-system processes) che
perturbano i sistemi ecologici fondamentali di sostegno della vita sulla Terra
([i] cambiamento climatico; [ii] perdita di biodiversità (terrestre e marina); [iii]
interferenza con il ciclo biogeochimico dell‘azoto e del fosforo; [iv] riduzione
della fascia di ozono nella stratosfera; [v] acidificazione degli oceani; [vi] uso
delle acque; [vii] uso del suolo; [viii] inquinamento chimico; [ix] diffusione di
aerosol nell‘atmosfera), ed è stato dimostrato che tre di essi sarebbero già stati
trasgrediti35, vale a dire quelli relativi al cambiamento climatico, al ciclo
dell‘azoto e alla perdita della biodiversità36.
35
Lo studio fondativo è quello, notissimo, di J. ROCKSTRÖM ET AL., A safe operating space for
humanity, in Nature, 2009, Vol. 461, pp. 472 ss., del quale sono co-autori 29 tra i più eminenti
scienziati al mondo nell‘ambito delle scienze ambientali (Rockström, Steffen, Noone, Persson,
Chapin III, Lambin, Lenton, Scheffer, Folke, Schellnhuber, Nykvist, de Wit, Hughes, van der
Leeuw, Rodhe, Sörlin, Snyder, Costanza, Svedin, Falkenmark, Karlberg, Corell, Fabry, Hansen,
Walker, Liverman, Richardson, Crutzen, Foley); v. anche J. ROCKSTRÖM ET AL., Planetary
boundaries: exploring the safe operating space for humanity, in Ecology and Society, 2009, Vol.
14, Issue 2, article 32; cfr., per il dibattito successivo, C. FOLKE ET AL., Reconnecting to The
Biosphere, cit.; A. WIJKMAN – J. ROCKSTRÖM, Bankrupting nature: denying our planetary
boundaries, Routledge, 2012; V. GALAZ ET AL., Global Environmental Governance and Planetary
Boundaries: An Introduction, in Ecological Economics, 2012, Vol. 81, pp. 1 ss.; F. BIERMANN,
Planetary boundaries and earth system governance: exploring the links, in Ecological
Economics, 2012, Vol. 81, pp. 4 ss.; A.D. BARNOSKY ET AL., Approaching a state shift in Earth‘s
biosphere, in Nature, 2012, Vol. 486, Issue 7402, pp. 52 ss.; T.P. HUGHES - S. CARPENTER - J.
ROCKSTRÖM - M. SCHEFFER - B. WALKER, Multiscale regime shifts and planetary boundaries, in
Trends in Ecology & Evolution, 2013, Vol. 28, Issue 7, pp. 389 ss.
36
J. ROCKSTRÖM ET AL., Planetary Boundaries, cit., pp. 14-15. Con riferimento particolare alla
biodiversità, i dati rilevati dagli studiosi sono allarmanti. Sebbene l‘estinzione delle specie sia un
fenomeno naturale, attualmente le specie si stanno estinguendo a una velocità mai registrata. I
tassi attuali e previsti della perdita di biodiversità costituiscono il sesto più grande evento di
estinzione nella storia della vita sulla Terra, il primo a essere determinato in particolare dagli
impatti delle attività umane sul pianeta. Poiché i precedenti eventi di estinzione hanno causato
massicci e permanenti cambiamenti nella composizione biotica e nel funzionamento degli
ecosistemi della Terra, il tasso di estinzione attuale suggerisce conseguenze non lineari e in gran
parte irreversibili di perdita di biodiversità su vasta scala. Ormai il tasso di estinzione globale
supera di gran lunga il tasso di speciazione; gli esseri umani, con l‘avvento dell‘era
dell‘Antropocene, hanno aumentato il tasso di estinzione delle specie di circa 100-1000 volte
rispetto ai tassi storicamente registrabili nell‘era precedente (Olocene). Attualmente circa il 25 %
delle specie appartenenti ai più noti gruppi tassonomici sono a rischio di estinzione. Gli Autori
dello studio sopra citato hanno proposto di misurare la perdita di biodiversità attraverso un
indicatore «ad interim» relativo proprio al tasso di estinzione, ossia il numero annuo di specie
estinte per milione (E/MSY). Dai reperti fossili si ricava che la biodiversità ha potuto storicamente
mantenersi nell‘Olocene grazie a un tasso di estinzione stimabile, in media, in 1 E/MSY. Nello
studio, assunta come limite planetario la soglia di 10 E/MSY (collocata nell‘estremo inferiore di
una «zona di incertezza» che gli Autori stimano compresa tra 10 e 100 E/MSY), si è dimostrato che
il tasso attuale di estinzione è ben superiore a 100 E/MSY, dunque esorbita di dieci volte il confine
107
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Le conclusioni di questo studio sono state condivise e recepite anche a
livello giuridico, in particolare dal Settimo Programma di Azione per
l‘Ambiente (PAA) dell‘Unione Europea, approvato con la Decisione n.
1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013.
Il Programma si intitola significativamente «Vivere bene entro i limiti del
nostro pianeta» e si fonda, in maniera espressa, proprio sulla recente teoria
ecologica dei «limiti planetari»: in esso si afferma, infatti, che «è comprovato
che i limiti del pianeta per la biodiversità, i cambiamenti climatici e il ciclo
dell‘azoto sono già stati superati […] sono state individuate le soglie associate a
nove ―limiti del pianeta‖ che, una volta superati, rischiano di generare
cambiamenti irreversibili con conseguenze potenzialmente disastrose per gli
esseri umani (Ecology and Society, volume 14, n. 2, 2009)» (punto 8, nota 3,
del Programma).
Il Programma37 rileva, tra l‘altro, che quasi due terzi degli ecosistemi
mondiali sono in declino e che il degrado e l‘erosione costanti del capitale
naturale «potrebbero mettere a repentaglio due secoli di miglioramenti del
nostro standard di vita»38.
planetario; non solo, ma le proiezioni dimostrano che, senza radicali interventi correttivi, il tasso
di estinzione supererà i 1000 E/MSY entro la fine del secolo (una trasgressione pari a cento volte
il confine planetario). Da ciò il monito degli Autori: «this relatively safe boundary of biodiversity
loss is clearly being exceeded by at least one to two orders of magnitude, indicating an urgent
need to radically reduce biodiversity loss rates» (p. 15); «the world cannot sustain the current rate
of loss of species without resulting in functional collapses» (p. 20).
37
Sia consentito il rinvio, per ulteriori approfondimenti sul punto, a M. MONTEDURO, Per una
«nuova alleanza» tra diritto ed ecologia, cit., in particolare pp. 8 ss. e 31 ss.
38
Secondo il Programma, inoltre, «solo il 17 % delle specie e degli habitat contemplati dalla
direttiva habitat sono in buono stato di conservazione e il degrado e la perdita di capitale naturale
stanno compromettendo gli sforzi intesi a raggiungere gli obiettivi dell‘Unione in materia di
biodiversità e di cambiamenti climatici […] il 30 % del territorio dell‘Unione è fortemente
frammentato e ciò incide sulla connettività e sulla salute degli ecosistemi e sulla loro capacità di
offrire servizi e costituire un valido habitat per diverse specie […] i livelli di qualità dell‘acqua e
di inquinamento atmosferico sono tuttora problematici in diverse parti d‘Europa e i cittadini
dell‘Unione continuano ad essere esposti a sostanze pericolose e potenzialmente nocive per la
loro salute e il loro benessere. L‘uso non sostenibile dei terreni porta a un consumo di suolo
fertile, e il degrado del suolo continua, con risvolti sul piano della sicurezza alimentare globale e
del raggiungimento degli obiettivi in favore della biodiversità […] è realistico ritenere che entro il
2030 si dovrà far fronte a una riduzione del 40 % delle risorse idriche, a meno che non siano
compiuti progressi considerevoli per un uso più efficiente delle risorse. Vi è inoltre il rischio che i
cambiamenti climatici aggravino ulteriormente questi problemi e che comportino costi ingenti.
Nel 2011 le catastrofi dovute in parte ai cambiamenti climatici hanno causato danni economici
globali per oltre 300 miliardi di EUR […] il degrado, la frammentazione e l‘uso non sostenibile
del suolo nell‘Unione stanno compromettendo la fornitura di diversi servizi ecosistemici
108
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Da qui la conferma del ruolo strategico e cruciale del diritto
dell‘ambiente rispetto alla difesa del valore fondamentale della vita, considerata
nei suoi diversi piani di rilevanza per il diritto.
Innanzitutto la vita alla scala individuale, riferita (in termini ecologici)
all‘organismo, ossia (in termini giuridici, secondo il lessico di cui all‘art. 2
Cost.) al singolo. Questa è la prima e basilare dimensione della vita come
oggetto di un diritto individuale inviolabile (a vivere) e di un dovere collettivo
inderogabile (di non vulnerare la vita e di proteggerla).
In una progressione ideale di piano, la vita alla scala sociale, riferita (in
termini ecologici) alle popolazioni e alle comunità, ossia (in termini giuridici,
sempre secondo il lessico di cui all‘art. 2 Cost.) alle formazioni sociali ove si
svolge la personalità del singolo, alle collettività umane informate dai doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. La vita sociale implica
il coinvolgimento della vita del singolo in reti di relazioni sociali di tipo
culturale (sistemi socio-culturali) ed economico (sistemi socio-economici). Le
prime forniscono ―alimento‖ alla collettività ed ai suoi membri principalmente
sul piano immateriale, le seconde sul piano materiale.
Su un piano ancora più complesso, la vita alla scala ecologica, cioè
riferita agli ecosistemi e alla biosfera (si tratta dell‘«ecosistema» cui rinvia,
aprendo un ponte con l‘ecologia, l‘art. 117, comma 2, lett. s, della
Costituzione); nei sistemi ecologici, le specie umane convivono con specie non
umane (vegetali, animali, microrganismi) e con biotopi (spazi non viventi –
roccia, acqua, aria - con determinate caratteristiche chimiche, fisiche,
climatiche, di luce, di temperatura).
L‘uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la
sua personalità – ossia, in termini tratti dall‘ecologia, come organismo e come
popolazione – può sopravvivere tuttavia solo a condizione che sopravvivano i
livelli di aggregazione della vita ad esso superiori nella scala gerarchica, a
partire dalle comunità (comprensive delle popolazioni non umane) e degli
ecosistemi: un eventuale collasso di tali livelli biologici, infatti, determinerebbe
importanti, minacciando la biodiversità e aumentando la vulnerabilità dell‘Europa rispetto ai
cambiamenti climatici e alle catastrofi naturali, oltre a favorire il degrado del suolo e la
desertificazione. Oltre il 25% del territorio dell‘Unione è colpito dall‘erosione del suolo dovuta
all‘acqua, un fenomeno che compromette le stesse funzionalità del suolo e si ripercuote sulla
qualità dell‘acqua dolce. Un ulteriore problema è dato dalla contaminazione e
dall‘impermeabilizzazione del suolo. Si stima che oltre mezzo milione di siti in tutta l‘Unione
siano contaminati» (punti 6, 8 e 23).
109
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
inesorabilmente l‘estinzione dei livelli inferiori in essi ricompresi, incluso
l‘uomo. Ne deriva che: (i) i sistemi ecologici sono ad esistenza indisponibile per
l‘uomo, sul piano delle leggi naturali, perché l‘uomo non può distruggerli o
danneggiarli senza contemporaneamente annichilire anche se stesso o degradare
la sua qualità di vita; (ii) i sistemi ecologici sono ad appartenenza necessaria per
l‘uomo, sempre sul piano delle leggi naturali, per il rapporto di ―parte‖ a ―tutto‖
che intercorre tra l‘organismo e i livelli ad esso superiori di organizzazione
della vita39.
Una caratteristica essenziale della vita, in tutte le sue dimensioni
(individuale, sociale, ecologica), la chiave che la rende possibile e la nutre
costantemente, permettendo il movimento, l‘evoluzione, i flussi di energia e di
materia, è la diversità.
La vita individuale dell‘organismo è resa possibile dalla differenziazione
delle cellule, dei tessuti, degli organi, degli apparati. La diversità delle specie
viventi, ossia la biodiversità, è precondizione per la maturità, la complessità, la
ricchezza e la resilienza degli ecosistemi. Per i sociosistemi, tale precondizione
è essenzialmente la diversità culturale (delle conoscenze, delle tradizioni, dei
valori, dei metodi, delle opinioni, dei gusti, dei sistemi di organizzazione, di
produzione, di relazione).
Il diritto dell‘ambiente, al fine di tutelare la vita all‘interno delle
complesse relazioni che strutturano i sistemi socio-ecologici, deve perciò
necessariamente salvaguardare il valore della diversità bioculturale40.
39
Cfr. sul punto M. MONTEDURO – S. TOMMASI, Paradigmi giuridici di realizzazione del
benessere umano in sistemi ecologici ad esistenza indisponibile e ad appartenenza necessaria, in
AA.VV., Benessere e regole dei rapporti civili. Lo sviluppo oltre la crisi (Atti del 9° Convegno
Nazionale SISDiC, Napoli, 8-9-10 maggio 2014, in ricordo di Giovanni Gabrielli), Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, pp. 161 ss.
40
Cfr. V. PEPE, La tutela dell‘ambiente e la biodiversità culturale, in Riv. giur. ambiente, 2007,
pp. 33 ss. Come è stato osservato, «la diversità della vita non è costituita solo dalla diversità di
specie animali e di vegetali, di habitat ed ecosistemi presenti sul pianeta, ma anche dalla diversità
di culture e lingue umane; queste diversità non si sviluppano in mondi distinti e paralleli, ma sono
invece manifestazioni differenti di un tutto unico e complesso; i rapporti tra le diversità si sono
sviluppati nel tempo attraverso gli effetti globali cumulativi di adattamenti reciproci –
probabilmente di natura coevolutiva – tra gli esseri umani e l‘ambiente locale»: la citazione è
tratta da L. MAFFI – E. WOODLEY, Biocultural diversity conservation: a global sourcebook,
Earthscan, 2010, pp. 5-6 (nel testo si è seguita la traduzione dall‘inglese riportata nel paper di
P.L. PETRILLO, Sostenibilità ambientale e patrimonio agro-alimentare, Torino, 24 novembre
2014,
alle
pp.
4-5,
reperibile
all‘indirizzo
URL
http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/GPP/seminario_torino_24102014_
petrillo.pdf). P.L. PETRILLO, Sostenibilità ambientale e patrimonio agro-alimentare, cit., p. 7,
110
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
4. Sistemi socio-ecologici, ambiente e alimentazione: la rilevanza della
diversità alimentare
Le considerazioni sin qui svolte rendono ragione del fatto che
l‘alimentazione non è tema che possa considerarsi estraneo al diritto
dell‘ambiente, sebbene essa formi attualmente l‘ambito privilegiato di studio di
altre discipline quali, in particolare, il diritto agrario.
Ciò, tuttavia, come si è cercato finora di sottolineare, non nel senso di una
competizione orizzontale tra diritto dell‘ambiente e altre discipline per
l‘accaparramento e la lottizzazione di ―micro-regioni‖ del diritto
dell‘alimentazione. Il diritto dell‘ambiente si interessa infatti dell‘alimentazione
non in quanto «fattore» singolarmente considerato, bensì nei limiti in cui essa
condiziona il «sistema di relazioni» rappresentato dall‘ambiente in senso
giuridico.
In questo senso, il cibo rileva nella sua dimensione di ―legante‖ che
correla la vita alla scala individuale (il singolo si ciba per esistere, crescere,
raggiungere o mantenere il proprio stato di salute), la vita alla scala sociale (le
tradizioni, i costumi, le tecniche e gli stili alimentari sono prodotti culturali e
intorno al cibo si costruiscono i complessi sistemi economici delle filiere
agroalimentari) e la vita alla scala ecologica (la pressione alimentare delle
collettività umane determina lo sfruttamento dei beni e dei servizi ecosistemici
ma, allo stesso tempo, il fenomeno dell‘alimentazione è storicamente uno dei
più grandi paradigmi di co-evoluzione tra società e natura)41.
aggiunge condivisibilmente che «la sfida di fronte a cui si trovano i legislatori di tutto il mondo è
introdurre meccanismi volti a tutelare, salvaguardare e valorizzare quell‘insieme di diversità
biologiche e culturali rappresentate in una comunità. Un approccio solo parziale al fenomeno
della diversità bioculturale può comportare grossi danni anche alla biodiversità […] stante la
stretta relazione tra le componenti biologiche e quelle culturali di una certa comunità, non è più
pensabile voler salvaguardare le diversità biologiche di un contesto a danno di tradizioni, culture,
riti, pratiche sociali che rappresentano la vitalità di quel contesto […] preservare la diversità
biologica senza valutare l‘impatto di tali azioni sulla diversità culturale del territorio in cui si
opera significa, in altri termini, distruggere ulteriormente la biodiversità».
41
Non appaia peregrina, in relazione a quanto osservato nel testo, una breve digressione
etimologica, relativa alla radice semantica – a suo modo illuminante – dei principali vocaboli
legati all‘alimentazione. Cibo (cibus), dal latino capio nel senso di ―prendere‖, ―staccare‖,
rimanda all‘attività del ―prelevamento‖ da parte delle collettività umane nei confronti della natura
e mostra icasticamente il nesso di dipendenza delle prime dalla seconda. Alimento (dal latino
111
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Emerge così, in primo luogo, il rapporto tra diritti/doveri relativi al cibo e
diritti/doveri relativi alla vita, come chiave per comprendere il ruolo
fondamentale svolto dall‘alimentazione all‘interno dei sistemi socio-ecologici.
Le implicazioni reciproche tra vita e diversità, e tra alimentazione e vita,
in secondo luogo, fanno emergere la «diversità alimentare» quale argomento di
interesse per il diritto dell‘ambiente, perché essa rappresenta un valore in grado
di assumere rilevanza giuridica proprio al livello del sistema-ambiente.
Ciò ancor più ove si considerino alcuni dati di contesto, tra i molti
disponibili, che attengono ai presupposti biologici e culturali della diversità
alimentare.
Già oltre dieci anni fa, in occasione della Giornata Mondiale
dell‘Alimentazione svoltasi il 16 ottobre 2004 ed a seguito dell‘entrata in vigore
(nello stesso anno) del Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per
l‘alimentazione e l‘agricoltura, la FAO sottolineava in un proprio documento
che «l‘agricoltura moderna ha incoraggiato molti agricoltori a utilizzare specie
uniformi di piante o animali ad alto rendimento, ma quando i produttori
alimentari abbandonano la diversità, possono scomparire varietà e specie, con le
rispettive caratteristiche genetiche. Questa rapida diminuzione della diversità
genetica preoccupa […] nell‘ultimo secolo sono scomparsi tre quarti delle
diversità genetiche delle colture agricole. Inoltre, su 6.300 varietà animali,
1.350 sono in pericolo di estinzione o sono già estinte». Il documento
concludeva osservando che «appena i paesi abbandonano la produzione di cibi
locali tradizionali, spesso si riduce la varietà degli alimenti»42.
alere) indica il nutrire nel senso di ―far crescere‖, ―far sviluppare‖, ―allevare‖ non solo
fisicamente ma anche spiritualmente, socialmente (da alere deriva infatti non solo il verbo
―alimentare‖, ma anche vocaboli quale ―alto‖ e, soprattutto, ―alunno‖); in questa accezione, il
termine suggerisce l‘idea che i sociosistemi crescono non solo quantitativamente e materialmente
(in popolazione, salute fisica, ricchezza) ma anche qualitativamente e immaterialmente (in
cultura, scienza, benessere psichico, reti relazionali) grazie ai benefici offerti dalla relazione con
gli ecosistemi. Nutrimento discende dalla stessa radice di ―nutrice‖ (da cui il verbo inglese ―to
nurse‖, nutrire al seno, allattare), indicando che la natura sostenta le collettività umane
(sostentare, come sostenere e sostenibilità, dal latino sub tenere, nel senso di fungere da base,
―reggere‖, ―portare sopra di sé‖). Il termine pietanza richiama specificamente il principio
solidaristico (fondamento di ciascun sociosistema in quanto comunità), derivando da pietas e
pius: esso fa riferimento al dovere sociale di donare ai poveri, agli ultimi, quanto necessario per la
loro sussistenza e sopravvivenza e per la stessa coesione della comunità. Infine, vivanda (dal
latino vivenda, ―cose necessarie per vivere‖) si collega immediatamente al diritto inviolabile alla
vita.
42
FAO, Biodiversità: la nostra alimentazione ne dipende, Roma, 2004, documento reperibile
all‘indirizzo URL ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/006/y5418i/y5418i00.pdf. Secondo il documento in
112
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
A distanza di dieci anni, la situazione si è ulteriormente aggravata. La
stessa FAO, da un lato, ha registrato la necessità di aumentare perlomeno del
sessanta per cento, nei prossimi decenni, la produzione globale attuale di cibo
per poter assicurare sostentamento ai tre miliardi di abitanti in più che il pianeta
conterà nel 2050; dall‘altro, ha rilevato che contemporaneamente sono a rischio
di estinzione nei prossimi 50 anni tra il 16 e il 22 per cento delle attuali specie
vegetali selvatiche; infine, e soprattutto, ha messo in relazione biunivoca gli
effetti devastanti del cambiamento climatico sulla sostenibilità dei sistemi
alimentari e, al contempo, la necessità di tutelare e promuovere la diversità delle
colture tradizionali e tipiche di ciascun territorio come fattore-chiave in termini
di resilienza per contrastare il cambiamento climatico43.
Ancora la FAO, in uno studio del 2009, ha ammesso che «gli sviluppi
tecnologici dell‘agricoltura nelle sei decadi di esistenza dalla FAO hanno
condotto ad una grande disconnessione tra i popoli e i loro cibi. Globalizzazione
ed omogeneizzazione hanno rimpiazzato le culture alimentari locali; le
coltivazioni ad alto rendimento e l‘agricoltura monocolturale hanno preso il
posto della biodiversità; i metodi agricoli di carattere industriale e ad alto input
hanno degradato gli ecosistemi e danneggiato le zone agroecologiche; e le
moderne industrie alimentari hanno condotto a patologie croniche legate alla
dieta e ad altre forme di malnutrizione». Lo stesso studio, analizzando 12 casi di
sistemi alimentari di popolazioni indigene, ha mostrato che le culture alimentari
tradizionali e locali «contengono tesori di conoscenza provenienti da culture e
da modelli di vita in ecosistemi locali che si sono evoluti per un lungo tempo»
esame, «il genere umano utilizza per il 90 per cento della propria alimentazione di origine
animale solo 14 specie di mammiferi e di uccelli, e solo 4 specie – grano, mais, riso e patate –
forniscono all‘organismo metà della sua energia di origine vegetale. Oltre al numero delle specie,
è essenziale conservare anche la diversità genetica all‘interno di ciascuna specie».
43
FAO, Coping with climate change. The roles of genetic resources for food and agriculture,
Rome, 2015, pp. 1 ss. (introduzione a cura di L. COLLETTE ET AL.) e 11 e ss. (capitolo a cura di A.
JARVIS ET AL.), documento reperibile all‘indirizzo URL http://www.fao.org/3/a-i3866e.pdf. La
traduzione italiana nel testo è di chi scrive. Nel documento si legge altresì (pp. 12-13): «Plant
genetic resources will be vital in adapting crop production to the effects of climate change.
Diverse species, varieties and cultivation practices allow crops to be grown across a wide range of
environments. Over 10 000 years, diverse genetic resources have enabled farmers to adapt to
gradual climatic changes and to other shifting demands and pressures. Traditional crop varieties
are well adapted to current conditions in their local production environments. The challenge for
the future is to maintain a good match between crops and production environments as the effects
of climate change increase. Crop wild relatives will be a key resource in meeting this challenge,
as their genes can promote resistance to many of the environmental stressors associated with
climate change».
113
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ed ha evidenziato «le dimensioni di natura e cultura che definiscono un sistema
alimentare», da proteggere contro il rischio della loro distruzione44.
La FAO è tornata sul tema nel 2013, mettendo in luce come i «sistemi
alimentari tradizionali» stiano rapidamente scomparendo e richiamando la
comunità internazionale alla necessità di proteggerli, in quanto «i sistemi
alimentari umani a livello globale sono stati creati e supportati da una
combinazione di moltitudini di forme di vita ed ecosistemi della Terra e dalla
creatività umana, sviluppati e condivisi nel corso di millenni. Oggi, tuttavia,
tanto la diversità culturale quanto la biodiversità globale che diedero origine ai
sistemi alimentari umani sono minacciate in molti luoghi»45.
Il progressivo depauperamento della diversità alimentare, causato dal
trend di estinzione dei prodotti agroalimentari tradizionali e di oblio delle
tradizioni culinarie e di secolari saperi gastronomici, non riguarda solo i sistemi
alimentari delle popolazioni indigene. Il problema si pone anche rispetto alle
tradizioni alimentari della civiltà europea46, inclusa l‘Italia.
44
H.V. KUHNLEIN – B. ERASMUS – D. SPIGELSKI (eds.), Indigenous Peoples‘ food systems: the
many dimensions of culture, diversity and environment for nutrition and health, Food and
Agriculture Organization of the United Nations, Centre for Indigenous Peoples‘ Nutrition and
Environment, Rome, 2009, in particolare p. 3 (introduzione a cura di H.V. KUHNLEIN, ove le
citazioni nel testo: la traduzione in italiano è di chi scrive).
45
H.V. KUHNLEIN ET AL. (eds.), Indigenous Peoples‘ food systems and well-being. Interventions
and policies for healthy communities, Food and Agriculture Organization of the United Nations,
Centre for Indigenous Peoples‘ Nutrition and Environment, Rome, 2013, in particolare p. 20
(capitolo a cura di G.M. EGELAND – G.G. HARRISON) e p. 25 (capitolo a cura di N.J. TURNER – M.
PLOTKIN – H.V. KUHNLEIN, ove la citazione nel testo: la traduzione in italiano è di chi scrive).
46
Si cfr. il Documento intitolato «A recipe for protecting Europe‘s culinary heritage» (ultimo
aggiornamento
risalente
al
21
ottobre
2013),
reperibile
all‘indirizzo
URL
http://cordis.europa.eu/news/rcn/36175_en.html e relativo al progetto finanziato dall‘Unione
Europea EuroFIR («European food information resource network»), con una dotazione di 12
milioni di Euro, terminato nel 2010. Ivi si legge (corsivi aggiunti): «The original Network of
Excellence, involving 110 researchers and 50 postgraduate students from 21 European countries,
set out to develop and put into practice reliable and accessible food information resources. This
was seen as crucial to providing necessary support and tools for advancing food and health
research in Europe. EuroFIR included traditional and ethnic foods, and in particular on the
preparation of dishes closely linked to a country or region. People have often passed on recipes
and methods from generation to generation by word of mouth, effectively turning these foods into
a facet of cultural identity. Throughout Europe, however, many traditional foods and ways of
cooking are at risk of disappearing, due partly to changing lifestyles and habits. It is, therefore,
important that traditional foods are documented, because they represent a direct link to our
cultural heritage. A working group was established within EuroFIR to gather information on
traditional dishes from 13 European countries (Austria, Belgium, Bulgaria, Denmark, Germany,
Greece, Iceland, Italy, Lithuania, Poland, Portugal, Spain and Turkey). All the countries are
114
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Quanto a quest‘ultima, basti ricordare che il Ministero delle politiche
agricole, alimentari e forestali ha adottato un apposito decreto (il D.M. del 9
aprile 2008, intitolato «Individuazione dei prodotti agroalimentari italiani come
espressione del patrimonio culturale italiano») con il quale:
- ha richiamato il precedente decreto ministeriale 18 luglio 2000, recante
l‘«Elenco nazionale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali» (PAT) ed i
decreti relativi alle revisioni annuali (con i quali, in attuazione dell‘art. 3,
comma 3 del decreto ministeriale 8 settembre 1999, n. 350, si è provveduto alla
pubblicazione del suddetto elenco nazionale dei prodotti agroalimentari
tradizionali);
- ha sottolineato che, essendo l‘Italia «depositaria di grandi tradizioni
agricole ed agroalimentari», si rende necessaria «un‘azione di difesa della dieta
mediterranea … come base per un‘alimentazione sana»;
- ha quindi stabilito che i prodotti agroalimentari italiani tradizionali
contenuti negli elenchi di cui al decreto ministeriale 18 luglio 2000 e successive
integrazioni, «costituiscono espressione, oltre che dell‘inventiva, dell‘ingegno, e
del processo di evoluzione socioeconomico delle collettività territoriali italiane,
anche delle tradizioni e della cultura delle regioni, delle province ed in genere
delle comunità diffuse sul territorio italiano e in quanto tali devono essere
oggetto di tutela e della salvaguardia da parte delle istituzioni italiane», in
quanto «espressione del patrimonio culturale italiano»47.
featured in the final project report, which also included information on the culinary history of the
nations featured».
47
Sul punto, anche per tutti gli opportuni riferimenti bibliografici, oltre agli autori citati nella
precedente nota 6 si veda l‘analisi di G. STRAMBI, I prodotti tradizionali e la politica di qualità
dell‘Unione europea, in Riv. dir. alim., n. 1/2010, pp. 1 ss. La «Quattordicesima revisione
dell‘elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali» (PAT) è stata approvata con
Decreto Direttoriale MIPAAF del 5 giugno 2014. L‘ultima revisione, aggiornata sulla base delle
indicazioni pervenute dalla Regioni e dalle Province Autonome, menziona: 147 PAT per la
Regione Abruzzo; 90 per la Basilicata; 269 per la Calabria; 429 per la Campania; 356 per
l‘Emilia-Romagna; 156 per il Friuli Venezia-Giulia; 386 per il Lazio; 295 per la Liguria; 246 per
la Lombardia; 152 per le Marche; 159 per il Molise; 341 per il Piemonte; 233 per la Puglia; 184
per la Sardegna; 235 per la Sicilia; 463 per la Toscana; 70 per l‘Umbria; 32 per la Valle d‘Aosta;
371 per il Veneto; 92 per la Provincia Autonoma di Bolzano; 107 per la Provincia Autonoma di
Trento. I PAT sono divisi in macro-categorie: «Bevande analcoliche, distillati e liquori», «Carni
(e frattaglie) fresche e loro preparazione», «Formaggi», «Grassi (burro, margarina, oli)»,
«Prodotti vegetali allo stato naturale o trasformati», «Paste fresche e prodotti della panetteria,
della biscotteria, della pasticceria e della confetteria», «Condimenti», «Prodotti della
gastronomia», «Preparazioni di pesci, molluschi e crostacei e tecniche particolari di allevamento
115
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La misura non si è rivelata in alcun modo sufficiente, tanto che nell‘aprile
del 2015, alla vigilia dell‘Expo di Milano, la Confederazione Italiana
Agricoltori (CIA) ha lanciato a mezzo stampa l‘allarme relativo al fatto che un
prodotto alimentare tipico e tradizionale su quattro (si tratta, in totale, di circa
mille cibi della tradizione culinaria italiana) è oggi a rischio di estinzione48.
5. La diversità alimentare come concetto di sintesi e le sue molteplici
matrici giuridiche
Sul piano dell‘analisi giuridica, la diversità alimentare è suscettibile di
essere ricostruita come un concetto di sintesi.
Essa, infatti, condensa, riunisce ed incorpora in sé valori giuridici che,
almeno sino ad ora, sono rimasti separati e distanti sul piano del trattamento
normativo e dell‘elaborazione dottrinale.
(A) Una prima matrice della diversità alimentare è la diversità delle fonti
biologiche del cibo, vale a dire delle colture agricole, delle sementi, delle
varietà vegetali e animali.
Sia che gli alimenti si identifichino direttamente con i frutti della natura o
con i prodotti freschi di origine animale o vegetale forniti dall‘agricoltura,
dall‘allevamento o dalla pesca, sia che essi derivino da processi di
trasformazione di questi ultimi, in ogni caso è evidente che la diversità dei cibi
(ex post) è co-determinata dalla diversità biologica (ex ante) delle ―materie
prime‖ di origine naturale da cui la prima discende.
Viene dunque in gioco, in questa prospettiva, la tutela della biodiversità
agraria e zootecnica49, quale species del più ampio genus della biodiversità,
degli stessi», «Prodotti di origine animale (miele, prodotti lattiero caseari di vario tipo escluso il
burro)».
48
La notizia relativa al comunicato della CIA è reperibile all‘indirizzo URL
http://www.adnkronos.com/sostenibilita/tendenze/2015/04/13/sapori-antichi-nicchia-prodottotipico-rischio-estinzione_qfyiDsDqEhLMA8O7BlhpiK.html.
49
Basti richiamare, nella vasta bibliografia, EFSA, Biodiversity as protection goal in
environmental risk assessment for EU agro-ecosystems (Summary report, Scientific Colloquium
27-28 november 2013, Parma, Italy), Luxembourg, Publications office of the European Union,
2014; S. VEZZANI, Le risorse fitogenetiche per l‘alimentazione e l‘agricoltura nel dibattito sui
―global commons‖, in Riv. crit. dir. priv., 2013, pp. 433 ss.; MINISTERO DELLE POLITICHE
AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI, Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della
biodiversità vegetale di interesse per l'agricoltura. Piano nazionale sulla biodiversità di interesse
116
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
valore giuridico tutelato al massimo grado dal diritto dell‘ambiente a livello
internazionale, europeo e nazionale50.
Si noti che questo è considerato, frequentemente, l‘unico piano di
rilevanza normativa della diversità alimentare, la quale finisce per essere
―appiattita‖ monodimensionalmente sulla biodiversità agraria e, dunque,
sull‘ambiente in senso ecologico: in questa visione, la diversità alimentare
appare poco più che una proiezione della diversità biologica, senza valore
autonomo ma mera variabile dipendente dell‘unico valore effettivo (che
sarebbe) rappresentato da quest‘ultima.
Proprio questa visione riduttiva sembra caratterizzare anche il recente
DDL di iniziativa parlamentare AS n. 1728 (prima firmataria l‘On.le Cenni)
attualmente all‘esame del Senato della Repubblica e già approvato dalla Camera
dei Deputati in data 18 dicembre 2014, intitolato «Disposizioni per la tutela e la
valorizzazione della biodiversità agraria e alimentare»51.
agricolo, Roma, INEA, 2013; ID., Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della
biodiversità animale di interesse per l‘agricoltura. Piano nazionale sulla biodiversità di interesse
agricolo, Roma, INEA, 2013; ID., Linee guida per la conservazione e la caratterizzazione della
biodiversità microbica di interesse per l‘agricoltura. Piano nazionale sulla biodiversità di
interesse agricolo, Roma, INEA, 2013; M. GENGHINI – S. INNOCENTI – M. FERRETTI,
Multifunzionalità agricola, biodiversità e fauna selvatica: indagine e proposte di miglioramento
della normativa partendo dalla Regione Toscana, Roma, ISPRA, 2013; J. SANTILLI,
Agrobiodiversity and the law. Regulating genetic resources, food security and cultural diversity,
Earthscan, 2012; L. RUSSO, Agricoltura e tutela della biodiversità, in A. GERMANÒ – D. VITI (a
cura di), Agricoltura e ―beni comuni‖ (Atti del Convegno IDAIC, Lucera-Foggia, 27-28 ottobre
2011), Milano, Giuffré, 2012, pp. 187 ss.; E. SIRSI, La tutela delle risorse genetiche in
agricoltura, in L. COSTATO - A. GERMANÒ - E. ROOK BASILE (diretto da), Trattato di diritto
agrario. Vol. 2: Il diritto agrombientale, Torino, Utet giuridica, 2011, pp. 493 ss.; L. PAOLONI,
Diritti degli agricoltori e tutela della biodiversità, Giappichelli, Torino, 2005. Di grande
interesse, in ambito extra-giuridico, il volume a cura di P. GEPTS ET AL., Biodiversity in
agriculture. Domestication, evolution and sustainability, Cambridge University Press, 2012.
50
Per un‘ampia sintesi, v. L. MARFOLI, Biodiversità: un percorso internazionale ventennale, in
questa Rivista, n. 3/2012, pp. 155 ss. Cfr. altresì A. GILLESPIE, Conservation, biodiversity and
international law, Edward Elgar, 2011; MINISTERO DELL‘AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL
TERRITORIO E DEL MARE, Breve guida alla Strategia nazionale per la biodiversità, Roma,
Ministero dell‘Ambiente, 2011; M. BENOZZO – F. BRUNO, La valutazione di incidenza: la tutela
della biodiversità tra diritto comunitario, nazionale e regionale, Milano, Giuffrè, 2009; M.
BENOZZO, La tutela degli ecosistemi e della biodiversità nel codice ambientale: gli strumenti
ripristinatori e risarcitori del pregiudizio ecologico, Roma, Aracne, 2008.
51
Il citato DDL prefigura (art. 1) i «princìpi per l‘istituzione di un sistema nazionale di tutela e di
valorizzazione della biodiversità agraria e alimentare, finalizzato alla tutela delle risorse genetiche
locali dal rischio di estinzione e di erosione genetica», fondato su quattro pilastri: l‘Anagrafe
nazionale della biodiversità agraria e alimentare (art. 3); la Rete nazionale della biodiversità
agraria e alimentare (art. 4); il Portale nazionale della biodiversità agraria e alimentare (art. 5); il
117
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Comitato permanente per la biodiversità agraria e alimentare (art. 8). Il DDL prevede inoltre: il
riconoscimento (art. 2 del DDL) delle figure degli «agricoltori custodi» e degli «allevatori
custodi» (chiamati ad impegnarsi nella conservazione delle risorse genetiche locali soggette a
rischio di estinzione o di erosione genetica); l‘adozione di un «Piano» e di «Linee guida
nazionali» per la conservazione «della biodiversità agraria e alimentare», in realtà però riferiti
soltanto alla biodiversità agraria (art. 7); l‘istituzione di un Fondo per la tutela della biodiversità
agraria e alimentare (art. 10); la promozione di «itinerari della biodiversità agraria e alimentare»
(art. 12); l‘istituzione della Giornata nazionale della biodiversità agraria e alimentare (art. 14); il
sostegno ad interventi per la ricerca sulla biodiversità agraria e alimentare (art. 16). Si noti che
l‘art. 2 del DDL definisce come «risorse genetiche» il «materiale genetico di origine vegetale,
animale e microbica, avente un valore effettivo o potenziale per l‘alimentazione e per
l‘agricoltura». Esso definisce poi come «risorse locali» le risorse genetiche «a) che sono
originarie di uno specifico territorio; b) che, pur essendo di origine alloctona, ma non invasive,
sono state introdotte da lungo tempo nell‘attuale territorio di riferimento, naturalizzate e integrate
tradizionalmente nella sua agricoltura e nel suo allevamento; c) che, pur essendo originarie di uno
specifico territorio, sono attualmente scomparse e conservate in orti botanici, allevamenti ovvero
centri di conservazione o di ricerca in altre regioni o Paesi». In particolare, quanto all‘Anagrafe
nazionale della biodiversità agraria e alimentare, essa sarebbe istituita presso il MIPAAF e in essa
dovrebbero essere catalogate tutte le «risorse genetiche locali di origine vegetale, animale o
microbica soggette a rischio di estinzione o di erosione genetica». L‘iscrizione di una risorsa
genetica locale nell‘Anagrafe verrebbe subordinata a un‘istruttoria finalizzata alla verifica
dell‘esistenza di una corretta caratterizzazione e individuazione della risorsa, della sua adeguata
conservazione in situ, nell‘ambito di aziende agricole o ex situ, dell‘indicazione corretta del luogo
di conservazione e dell‘eventuale possibilità di generare materiale di moltiplicazione. In
mancanza anche di uno solo di tali requisiti non si procede all‘iscrizione. Le risorse genetiche
iscritte nell‘Anagrafe «sono mantenute sotto la responsabilità e il controllo pubblico, non sono
assoggettabili a diritto di proprietà intellettuale ovvero ad altro diritto o tecnologia che ne limiti
l‘accesso o la riproduzione da parte degli agricoltori, compresi i brevetti di carattere industriale, e
non possono essere oggetto, in ogni caso, di protezione tramite privativa per ritrovati vegetali»;
non saranno brevettabili, secondo il DDL, neppure le risorse genetiche anche parzialmente
derivate da quelle iscritte nell‘Anagrafe, né le loro parti e componenti, ai sensi del Trattato
internazionale sulle risorse fitogenetiche per l‘alimentazione e l‘agricoltura, adottato a Roma il 3
novembre 2001, reso esecutivo in Italia dalla legge 6 aprile 2004, n. 101. Quanto alla Rete
nazionale della biodiversità agraria e alimentare, essa dovrebbe essere composta sia dalle strutture
locali, regionali e nazionali per la conservazione del germoplasma ex situ, sia dagli agricoltori e
dagli allevatori «custodi». La Rete dovrebbe svolgere ogni attività diretta a preservare le risorse
genetiche locali dal rischio di estinzione o di erosione genetica, attraverso la conservazione in
situ, nell‘ambito di aziende agricole ed ex situ, nonché a incentivarne la reintroduzione in
coltivazione o altre forme di valorizzazione. La Rete verrebbe coordinata dal MIPAAF d‘intesa
con le Regioni e con le Province Autonome di Trento e di Bolzano. Circa il Piano e le Linee
guida nazionali per la conservazione della biodiversità agraria e alimentare, il DDL si limita a
stabilire che il MIPAAF, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le Regioni e le Province Autonome e sentito il Comitato permanente per la biodiversità
agraria e alimentare, provveda con decreto «all‘aggiornamento del Piano nazionale sulla
biodiversità di interesse agricolo e delle Linee guida nazionali per la conservazione in situ, on
farm ed ex situ della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse agrario, di cui al
decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali 6 luglio 2012, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 171 del 24 luglio 2012». Il Fondo per la tutela della biodiversità agraria e
alimentare dovrebbe essere istituito dal MIPAAF «ai fini della tutela della biodiversità di
118
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
(B) Una seconda e fondamentale matrice giuridica della diversità
alimentare è rappresentata dalla diversità dei territori di origine e delle relative
comunità eredi e custodi del cibo.
Il punto è cruciale, perché mostra come i «patrimoni alimentari»52 siano
legati non soltanto a uno specifico terreno quale porzione di spazio materiale,
con le sue peculiari caratteristiche fisico-chimiche, climatiche e agronomiche,
ma anche e soprattutto a un territorio53 inteso come luogo di insediamento e di
vita di una determinata comunità in un arco di tempo lungo54.
Il rapporto tra la diversità territoriale delle regioni e la differenziazione
dei prodotti agroalimentari che ne è espressione si manifesta nel fatto che i
territori reclamano un diritto ad auto-rappresentare le loro «identità
alimentari»55 attraverso i loro differenti prodotti tipici, a difendere le radici dei
propri modelli di cultura alimentare ed a valorizzare la propria diversità
alimentare come strumento di sviluppo territoriale (si pensi a temi quali il
turismo enogastronomico).
Questa dimensione territoriale/identitaria basata sull‘autodeterminazione
collettiva dei modelli di alimentazione si incardina, sul piano giuridico, in
interesse agricolo» e sostenere le azioni degli agricoltori e degli allevatori in attuazione della
legge. L‘utilizzo del Fondo sarebbe consentito anche per la corresponsione di adeguati indennizzi
ai produttori agricoli che hanno subito eventuali danni provocati da forme di contaminazione da
organismi geneticamente modificati coltivati in violazione dei divieti stabiliti ai sensi delle
disposizioni vigenti e per il sostegno agli enti pubblici impegnati, esclusivamente a fini
moltiplicativi, nella produzione e nella conservazione di sementi di varietà da conservazione
soggette a rischio di erosione genetica o di estinzione. Tra tutte le previsioni del DDL, sono
pochissime quelle che lambiscono la diversità alimentare intesa oltre la mera prospettiva della
biodiversità agraria. Tra queste, la promozione di «comunità del cibo e della biodiversità agraria e
alimentare» (art. 13), le quali potrebbero avere ad oggetto anche «la realizzazione di forme di
filiera corta, di vendita diretta, di scambio e di acquisto di prodotti agricoli e alimentari
nell‘ambito di circuiti locali» e «lo studio, il recupero e la trasmissione dei saperi tradizionali
relativi … alla corretta alimentazione»; nonché le iniziative presso le scuole, attraverso progetti
promossi dalla Regioni per sensibilizzare i giovani alla conoscenza dei prodotti agroalimentari e
delle risorse locali (art. 15).
52
J. BESSIÈRE – L. TIBÈRE, Editorial: Patrimoines alimentaires, in Anthropology of food, n.
8/2011, reperibile all‘indirizzo URL http://aof.revues.org/6782.
53
Si vedano gli Autori citati supra, alla nota 6.
54
Come osserva G. STRAMBI, I prodotti tradizionali, cit., p. 13, «il concetto di tradizione è
intuitivamente legato a quello di provenienza da un determinato territorio, da un luogo geografico
ben definito, in cui vive, appunto, la comunità da cui si è generata nel tempo».
55
W. TORTORELLA – F. TRACLÒ, Governo del territorio e identità alimentari: un patrimonio della
tradizione, un valore del futuro, Roma, Cittalia Fondazione Anci ricerche, 2008.
119
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
principi costituzionali di rilievo primario, quali il principio autonomistico (artt.
5 e 114 Cost.) ed il principio di differenziazione (art. 118 Cost.).
Essa si lega – nel tessuto costituzionale relativo alle autonomie territoriali
– anche al «diritto all‘identità culturale regionale»56 e al «diritto allo sviluppo di
patrimoni alimentari locali»57.
Inoltre, poiché il «paesaggio» è «il territorio espressivo di identità, il cui
carattere deriva dall‘azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni»
(art. 131, d.lgs. 42/2004), diviene evidente lo stretto legame fra le tradizioni
enogastronomiche locali e il paesaggio agrario, essendo il secondo, al
contempo, il risultato visibile dell‘azione plasmante delle prime nel corso dei
secoli e il presupposto perché queste possano perpetuarsi nel futuro. Da qui il
radicamento nell‘art. 9 Cost. di tale dimensione ―identitaria‖ e collettiva della
diversità alimentare territoriale.
L‘importanza delle differenze territoriali tra le comunità rurali è
riconosciuta anche a livello comunitario dalla PAC, in particolare nel suo
secondo pilastro: basti citare il Regolamento (UE) n. 1303/2013, secondo cui la
PAC deve operare «tenendo conto delle principali sfide territoriali di diversi tipi
di territori» (Considerando n. 16 e artt. 10 e 18) e sviluppare approcci
«personalizzati in funzione delle esigenze territoriali specifiche» (Considerando
n. 18); o il Regolamento (UE) n. 1305/2013, che intende «realizzare uno
sviluppo territoriale equilibrato delle economie e comunità rurali» (art. 4). Di
grande rilievo è anche la Risoluzione del Parlamento europeo del 14 gennaio
2014 sul «marchio regionale: verso migliori prassi nelle economie rurali»
(2013/2098(INI)), che si riferisce al «riconoscimento dell‘identità di ogni
territorio, ancorata e legata al suo patrimonio», alla «qualità territoriale a partire
da insiemi di beni e servizi complementari e corrispondenti alle specificità di
ogni territorio», e in questa prospettiva intende promuovere «un processo di
valorizzazione del territorio che includa i prodotti e i servizi all‘interno di una
prospettiva di identità e responsabilità sociale e che integri, mediante la
formazione di un insieme unificato e la creazione di sinergie, i marchi di qualità
esistenti legati all‘origine dei prodotti agroalimentari».
56
Si veda I. RUGGIU, Identità culturale, in A. MORELLI – L. TRUCCO (a cura di), Diritti e
autonomie territoriali, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 486 ss., in particolare p. 490.
57
L. CONTE, Autonomie territoriali e cultura, in A. MORELLI – L. TRUCCO (a cura di), Diritti e
autonomie territoriali, cit., pp. 453 ss., in particolare p. 461.
120
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
(C) Una terza matrice della diversità alimentare è quella, accennata in
precedenza, che lega la varietà dei cibi alla diversità culturale58, valore
fondamentale protetto non soltanto dall‘art. 9 Cost., ma anche dal diritto
comunitario (art. 3 TUE; art. 167 TFUE; Preambolo e art. 2 della Carta di
Nizza) e internazionale (basti citare le Convenzioni UNESCO per la Protezione
del Patrimonio Culturale e Naturale del 1972, per la Salvaguardia del
Patrimonio Culturale Immateriale del 2003 e per la Protezione e la Promozione
della Diversità delle Espressioni Culturali del 2005).
Viene in gioco, in particolare, la diversità delle arti e delle tradizioni
alimentari, culinarie, gastronomiche, ossia il complesso di antichi saperi,
tecniche, pratiche, conoscenze (spesso tramandati solo oralmente di generazione
in generazione) che conducono dalla materia prima all‘alimento in tavola,
qualificabili come patrimonio culturale immateriale59.
Oltre ad essere coperte dall‘art. 9 Cost., queste tecniche sapienziali
possono rientrare, in parte, anche nell‘alveo di tutela delle disposizioni
costituzionali sull‘artigianato di cui all‘art. 45 Cost.
(D) Un‘ulteriore e non meno importante matrice giuridica della diversità
alimentare è rappresentata dalla diversità della dieta, la quale è ritenuta ormai
pacificamente un presupposto imprescindibile per la tutela della salute60, valore
fondamentale protetto dall‘art. 32 Cost.
58
R.L. BRULOTTE - M.A. DI GIOVINE (eds.), Edible identities: food as cultural heritage, Ashgate,
2014; M. MONTANARI, Il cibo come cultura, 7a ed., Roma, Laterza, 2014; H.V. KUHNLEIN – B.
ERASMUS – D. SPIGELSKI, Indigenous peoples‘ food systems: the many dimensions of culture,
diversity and environment for nutrition and health, cit.; M. SABBATTINI, Tradizione alimentare e
diversità culturale, in Dir. giur. agr. alim. amb., 2006, pp. 647 ss.; G. STRAMBI - M. ALABRESE (a
cura di), I prodotti agro-alimentari tipici e tradizionali come beni culturali, cit.; E. MONTELIONE,
La produzione agroalimentare di qualità come bene culturale, in Riv. dir. agr., 2000, pp. 463 ss.
59
Come è noto, nel 2010 la Dieta Mediterranea è stata iscritta dall‘UNESCO nella lista del
patrimonio culturale immateriale dell‘umanità: si v. sul punto L. COLELLA, La ―dieta
mediterranea‖ come patrimonio dell‘umanità: dalla tutela dell‘Unesco alla legge regionale della
Campania n. 6 del 2012, in Dir. giur. agr. alim. amb., 2013, pp. 583 ss. Più di recente, la
Commissione Italiana per l‘Unesco ha candidato per la stessa lista «L‘arte dei pizzaioli
napoletani»
(la
notizia
è
reperibile
all‘indirizzo
URL
https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/8511 ).
60
C. RODUIT ET AL., Increased food diversity in the first year of life is inversely associated with
allergic diseases, in Journal of Allergy and Clinical Immunology, 2014, Vol. 133, Issue 4, pp.
1056 ss., i quali concludono nel senso che «an increased diversity of food within the first year of
life might have a protective effect on asthma, food allergy, and food sensitization and is
associated with increased expression of a marker for regulatory T cells»; T. ALLEN – P. PROSPERI
– B. COGILL – G. FLICHMAN, Agricultural biodiversity, social-ecological systems and sustainable
diets, in Proceedings of the Nutrition Society, 2014, Vol. 73, Issue 4, pp. 498 ss.; J. FANZO ET AL.
121
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
(E) Infine, la diversità alimentare è precondizione per la diversità degli
stili di alimentazione.
Questi ultimi si ascrivono, da un lato, alla sfera delle libertà
fondamentali: gli atti di scelta alimentare rappresentano infatti l‘esercizio
incoercibile della libertà personale del singolo (art. 13 Cost.), che ha diritto a
coltivare i suoi gusti e le sue preferenze, e non di rado si correlano anche
all‘esercizio di altre libertà (si pensi a quella religiosa). Tuttavia, tale spatium
libertatis sarebbe vuoto o solo apparente se il singolo non avesse una vera
scelta, ossia una varietà di opzioni tra cui decidere: da ciò il rilievo giuridico
della diversità alimentare anche sotto tale profilo.
La diversità degli stili alimentari si lega anche alle prerogative
costituzionali della famiglia (art. 30 Cost.), rispetto al compito educativo dei
genitori. Con riferimento all‘educazione alimentare dei figli, infatti, tale
compito non potrebbe essere adempiuto se non vi fosse la possibilità per i
genitori di scegliere tra diversi cibi e, quindi, tra diversi stili di alimentazione.
In conclusione, può dirsi che la diversità alimentare è una sintesi di
molteplici diversità: si tratta di un valore-sistema, in cui convergono e si
(eds.), Diversifying food and diets: using agricultural biodiversity to improve nutrition and
health, Routledge, Earthscan, 2013; M.L. KAISER, Food security: an ecological–social analysis to
promote social development, in Journal of Community Practice, 2011, Vol. 19, pp. 62 ss.; P.E.
ERICKSEN, Conceptualizing food systems for global environmental change research, in Global
Environmental Change, 2008, Vol. 18, pp. 234 ss., p. 237, la quale osserva che «Berkes and Folke
(1998), Folke et al. (2003) and Holling (2001) describe coupled social–ecological systems as coevolved, with mutually dependent and interacting social and ecological components and highly
uncertain and unpredictable outcomes. This conceptualization of human–environment interactions
is useful for food systems, although the links between the social and environmental components
may be indirect in many cases»; L.S. DRESCHER, Healthy food diversity as a concept of dietary
quality: measurement, determinants of consumer demand, and willingness to pay, Cuvillier
Verlag, 2007; M.L. WAHLQVIST, Requirements for healthy nutrition: integrating food
sustainability, food variety, health, in Journal of Food Science, 2004, Vol. 69, pp. CRH16–
CRH18; M.L. WAHLQVIST – R.L. SPECHT, Food variety and biodiversity: Econutrition, in Asia
Pacific Journal of Clinical Nutrition, 1998, Vol. 7, Issue 3-4, pp. 314 ss., secondo i quali «the
maintenance of biodiversity is important to human health for several reasons: (i) a varied food
supply is essential to maintain the health of the omnivorous human species; (ii) a range of diverse
food sources is necessary to safe-guard against climatic and pestilent disasters which may affect
one or more of the food sources; (iii) a diversity of plants and animals may provide a rich source
of medicinal material, essential for the extraction of undiscovered therapeutic compounds; (iv)
intact ecosystems of indigenous plants and animals appear to act as a buffer to the spread of
invasive plants and animals, and of pathogens and toxins, thus contributing to the health of
populations nearby; and (v) the ‗spiritual‘ values of exploring the diversity of plants, animals and
ecosystems in an area appear to have a beneficial effect on mental health, strengthening the
feeling of ‗belonging to the landscape‘».
122
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
compongono unitariamente numerosi valori giuridici di primario rango
costituzionale (ambiente/biodiversità, autonomia e differenziazione territoriale,
paesaggio, patrimonio culturale, artigianato, salute, libertà personale, scelte
educative della famiglia).
La forza di questi valori di base si combina e si concentra nella diversità
alimentare, conferendo pertanto a quest‘ultima, almeno agli occhi
dell‘interprete, un ruolo di assoluto rilievo nell‘ordinamento.
Tuttavia, il diritto positivo non ha dettato, finora, disposizioni volte ad
una tutela piena della diversità alimentare: il legislatore non sembra averla
riconosciuta come valore unitario, autonomo e trascendente le sue singole
dimensioni settoriali.
6. L‘insufficienza dell‘approccio basato sul diritto della concorrenza,
della proprietà intellettuale e dei consumatori; il ruolo del principio dello
sviluppo sostenibile declinato dall‘art. 3-quater, d.lgs. n. 152/2006
La reticenza della legislazione nazionale nel declinare con pienezza il
valore della diversità alimentare non sorprende, ove si consideri un dato di
contesto.
Il diritto dell‘alimentazione (Food Law) si muove nelle strette maglie di
un diritto internazionale volto a massimizzare il commercio internazionale e il
libero scambio ed a proteggere la proprietà intellettuale, e di un diritto
dell‘Unione europea costruito sulla primazia dei valori della concorrenza, delle
libertà economiche di circolazione e del mercato.
È stato efficacemente osservato che la tutela dei prodotti agroalimentari
tipici e tradizionali, in questo quadro, anziché configurarsi come regola, finisce
per collocarsi «in una logica di eccezione rispetto alla regola della corretta
competizione sul mercato tra le imprese localizzate sul territorio comunitario»61.
Assecondando l‘evoluzione in tal senso degli assetti economici, il diritto
di fonte sovranazionale ha ritenuto di rendere più agevole l‘accesso al cibo per i
consumatori imponendo come paradigma dominante l‘ordine giuridico della
61
G. STRAMBI, I prodotti tradizionali, cit., p. 10, riprendendo l‘espressione di F. ALBISINNI,
Prodotti mediterranei: opportunità e vincoli nelle regole europee, in A. GERMANÒ (a cura di),
L‘agricoltura dell‘area mediterranea: qualità e tradizione tra mercato e nuove regole dei
prodotti alimentari. Profili giuridici ed economici (Atti del Convegno di Pisa, 14- 15 novembre
2003), Milano, Giuffré, 2004, p. 81.
123
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
concorrenza e non tollerando distorsioni del mercato: tuttavia, questo approccio
rischia in partenza di ―amputare‖ il cibo dei fattori che si palesano ―antieconomici‖ per la produzione e per lo scambio (il paziente lavoro delle mani, il
ruolo insostituibile della persona e del suo ―tocco‖; i lunghi tempi; le antiche
arti tramandate oralmente, etc.) svuotandolo così di storia, di cultura, di identità.
Un‘autentica concorrenza tra ―merci alimentari‖ è possibile idealmente solo a
parità di condizioni competitive, mentre i cibi che perpetuano e connotano la
memoria storica dei luoghi, per il loro strutturale ―peso‖ in termini di costi
personali, temporali ed economici necessari per produrli e per l‘assenza di
economie di scala, sarebbero destinati ad una progressiva marginalizzazione a
fronte dei colossi dell‘industria alimentare mondiale nell‘epoca della
globalizzazione.
Se il diritto al cibo fosse declinato esclusivamente nella chiave del diritto
soggettivo del consumatore, il cibo resterebbe imprigionato nella sola
dimensione economica di cosa che può formare oggetto di diritti e, quindi, di
contratti di scambio. Un cibo dequotato a res, che, per circolare senza barriere
ed ostacoli nel mercato globale, sarebbe costretto a rinunciare lentamente alle
caratteristiche di infungibilità e irripetibilità proprie dei territori e delle culture
da cui trae le radici e ad adeguarsi, invece, allo status di merce fungibile e
riproducibile identicamente più volte su scala industriale; ad oggetto seriale,
standardizzato, normalizzato, piegato alle esigenze della vendita ed apprezzabile
essenzialmente per il suo prezzo, la presentazione estetica, l‘etichettatura, la
pubblicità ricevuta attraverso i canali del marketing.
È vero che il diritto comunitario dell‘alimentazione, negli ultimi decenni,
ha compiuto significativi passi in avanti, abbandonando posizioni draconiane e
dimostrando una maggiore ―tolleranza‖ nei confronti dei cibi locali, tipici e
tradizionali. In tal senso gli studiosi sono soliti menzionare, ad esempio, il
passaggio dalla normativa comunitaria degli anni ‘90 per l‘armonizzazione della
legislazione degli Stati membri in materia di igiene degli alimenti (che avrebbe
portato all‘estinzione di una rilevante parte del patrimonio alimentare
tradizionale, non compatibile con le rigide e minute prescrizioni europee circa le
tecniche o i luoghi di produzione, conservazione, stagionatura) all‘attuale
disciplina, contenuta nei Regolamenti (CE) n. 852/2004 e n. 2074/2005, più
flessibile in quanto legittimante procedure di deroga individuale o generale; e,
soprattutto, quale testimonianza dell‘attenzione del diritto UE allo stretto
rapporto tra alcuni alimenti e il territorio di origine o le tecniche tradizionali
124
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
utilizzate per produrli, viene citata la disciplina delle denominazioni di origine
protetta (DOP), delle indicazioni geografiche protette (IGP) e delle specialità
tradizionali garantite (STG), attualmente contenuta nel Regolamento (UE) n.
1151/201262.
Tuttavia, questi progressi non intaccano nella sostanza il predetto schema
della «logica di eccezione», in cui il valore della diversità alimentare finisce per
essere subordinato, in caso di conflitto, al valore della concorrenza, cedendo di
fronte a quest‘ultima. Infatti, per quanto riguarda l‘igiene degli alimenti, il
meccanismo per i prodotti tipici e tradizionali resta quello della «deroga»63. Il
modello europeo, in ogni caso, mantiene una «sostanziale chiusura verso
strumenti di differenziazione e di identità, confinati in un‘area di mera
eccezione, che nella sostanza finisce per risolversi in DOP, IGP, STG e
biologico»64, il che rende le DOP e le IGP, di fatto, appannaggio di «prodotti di
nicchia»65 anziché strumenti generali e pervasivi di tutela della diversità
alimentare. A ciò si aggiunga il sostanziale fallimento dell‘esperienza delle
STG, in quanto costruite dal diritto comunitario sul presupposto (che, a ben
vedere, configura un ossimoro logico e storico) della dissociabilità tra tradizione
e territorio e della delocalizzabilità della prima rispetto al secondo66. Persino la
disciplina di nicchia delle DOP e delle IGP sconta ambiguamente, ancora oggi,
«la natura di ―diritto ibrido‖ delle indicazioni geografiche nell‘ordinamento UE,
poste a cavallo fra gli interessi privati degli operatori economici e le aspirazioni
pubblicistiche a farne uno strumento di sviluppo rurale, promozione del
territorio e tutela del consumatore»67; è sufficiente la lettura dell‘art. 4 del
Regolamento (UE) n. 1151/2012, che esplicita l‘«Obiettivo» delle DOP e delle
IGP, per avere conferma del fatto che il fine è quello, economico, di «aiutare i
62
Oltre agli Autori citati supra, nelle precedenti note 3, 5 e 6, cfr. V. RUBINO, La protezione delle
denominazioni geografiche dei prodotti alimentari nell‘Unione europea dopo il regolamento
1151/2012 UE, in Riv. dir. alim., 2013, pp. 4 ss.
63
C. LOSAVIO, Le regole comunitarie e nazionali relative all‘igiene dei prodotti, L. COSTATO - A.
GERMANÒ - E. ROOK BASILE (diretto da), Trattato di diritto agrario. Vol. 3: Il diritto
agroalimentare, cit., p. 195.
64
Così F. ALBISINNI, Un Libro Verde sulla comunicazione, verso il 2013, in Riv. dir. alim., 2009,
p. 8, il quale aggiunge che «i produttori agricoli europei, lungi dal competere sul piano delle
rispettive diverse identità, si troverebbero a competere soltanto sul piano dei prezzi, nell‘ambito di
una connotazione indifferenziata, che esclude qualunque individualità se non in via di eccezione e
che premia i grandi gruppi industriali e commerciali rispetto ai produttori agricoli».
65
Ancora G. STRAMBI, I prodotti tradizionali, cit., p. 10.
66
ID., op. ult. cit., pp. 13 ss.
67
V. RUBINO, La protezione delle denominazioni geografiche, cit., p. 13.
125
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
produttori di prodotti legati a una zona geografica nei modi seguenti:
garantendo una giusta remunerazione per le qualità dei loro prodotti; garantendo
una protezione uniforme dei nomi in quanto diritto di proprietà intellettuale sul
territorio dell‘Unione; fornendo ai consumatori informazioni chiare sulle
proprietà che conferiscono valore aggiunto ai prodotti». Non vi è, in questa
disposizione, alcun riferimento alla tutela della diversità alimentare come valore
extra-economico, e lo stesso concetto multidimensionale di territorio, in essa,
sembra prevalentemente appiattito sulla componente spaziale/geografica. Si
consideri infine che la registrazione come DOP o IGP, ai sensi dell‘art. 7 del
Regolamento (UE) n. 1151/2012, impone il rispetto di un «disciplinare» che
fissa minuziosamente, tra l‘altro, le caratteristiche del prodotto, comprese le
materie prime, nonché le sue principali caratteristiche fisiche, chimiche,
microbiologiche od organolettiche, e il metodo di ottenimento del prodotto
nonché, se del caso, i metodi locali, leali e costanti e le informazioni relative al
confezionamento. Secondo alcune opinioni, seppur riferite a un contesto
ordinamentale diverso da quello europeo, questo tipo di rigidità potrebbe
tuttavia condurre, nel lungo periodo, a una perdita di diversità alimentare
anziché a un suo incremento: ciò in quanto «sebbene lo scopo sia di promuovere
e preservare la storia locale e l‘eredità gastronomica, il risultato potrebbe essere
l‘opposto: il sistema delle indicazioni geografiche potrebbe portare a una
standardizzazione di metodi di produzione che taglierebbe del tutto fuori i
produttori locali»68.
Tirando le fila del discorso fin qui condotto, un diritto al cibo reificato e
standardizzato per la circolazione senza ostacoli sul mercato sarebbe
confliggente con il valore-sistema della diversità alimentare. Reciprocamente,
meccanismi giuridici (nazionali, regionali o locali) di natura pubblicistica volti
al riconoscimento, all‘incentivazione, alla tutela e alla promozione dei cibi
―tipici‖, ―locali‖, ―storici‖ e ―unici‖, se disposti in favore di chi perpetui le
tradizioni del territorio (perché da esso proviene e in esso ha le sue radici), si
collocherebbero al di fuori del ristretto perimetro delle DOP, delle IGP e delle
STG autorizzate in via di eccezione dall‘ordinamento comunitario; perciò simili
misure assurgerebbero ad ostacoli e restrizioni alla libera circolazione,
ponendosi in distonia rispetto al diritto della concorrenza.
68
Così D. VITROLLES, When geographical indication conflicts with food heritage protection, in
Anthropology of food, n. 8/2011, reperibile all‘indirizzo URL http://aof.revues.org/6809. La
traduzione dall‘inglese è di chi scrive.
126
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Il possibile antagonismo tra gli interessi economici legati alla
concorrenza e gli interessi ecologici/sociali/culturali di cui la diversità
alimentare è sintesi, a giudizio di chi scrive, non può essere risolto al livello del
diritto del mercato agroalimentare, ossia di uno dei fattori in relazione (per
riprendere la terminologia dell‘art. 5, comma 1, lett. c, del d.lgs. 152/2006, sul
piano dei «fattori economici»).
Emerge invece la necessità di affrontare il conflitto chiamando in causa il
diritto dell‘ambiente ed i suoi principi, e ciò perché la diversità alimentare
(come si è tentato di dimostrare in precedenza) è un valore in grado di rilevare
al livello dell‘ambiente, inteso come sistema di relazioni fra fattori.
In seno al diritto dell‘ambiente, il meta-criterio di risoluzione dei conflitti
è rappresentato dal «principio dello sviluppo sostenibile», per come
quest‘ultimo è declinato nella formulazione dell‘art. 3-quater del d.lgs.
152/200669.
La definizione del principio dello sviluppo sostenibile contenuta nell‘art.
3-quater si allontana, marcando una discontinuità rispetto ad omologhe
previsioni contenute nelle leggi ambientali di altri Stati, dal classico modello
fondato sulla pari-ordinazione dei tre pilastri (ambientale, sociale, economico) e
sull‘idea di intersezione/bilanciamento tra i tre corrispondenti ordini di interessi.
Emblematico in questo senso è l‘inciso di cui al comma 2 dell‘art. 3-quater,
secondo cui «nell‘ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati
connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell‘ambiente e del
patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione».
La disposizione si riferisce (nell‘alveo della discrezionalità
amministrativa) esattamente al problema della comparazione tra gli interessi
69
Sia consentito, anche per i riferimenti bibliografici, il rinvio alla ricostruzione operata, in ordine
all‘interpretazione del principio dello sviluppo sostenibile di cui all‘art. 3-quater del d.lgs.
152/2006, da M. MONTEDURO, Per una «nuova alleanza» tra diritto ed ecologia: attraverso e
oltre le «aree naturali protette», cit., in particolare pp. 35 ss. Si tratta di una ricostruzione che si
discosta dalle tesi accolte dalla dottrina maggioritaria tanto a livello internazionale (si rinvia, al
riguardo, alle opere citate da S. SALARDI, Sustainable development: Definitions and models of
legal regulation. Some legal-theoretical outlines on the role of law, in questa Rivista, n. 1/2011,
pp. 77 ss.) quanto a livello nazionale (cfr. in particolare F. FRACCHIA, Il principio dello sviluppo
sostenibile, in G. ROSSI [a cura di], Diritto dell‘ambiente, cit., pp. 175 ss.; ID., Principi di diritto
ambientale e sviluppo sostenibile, in P. DELL‘ANNO – E. PICOZZA [a cura di], Trattato di diritto
dell‘ambiente, Vol. I. Principi generali, cit., pp. 559 ss., in particolare pp. 602-603; ID., Sviluppo
sostenibile e diritti delle generazioni future, in questa Rivista, n. 0/2010, pp. 13 ss.: ID., Lo
sviluppo sostenibile. La voce flebile dell‘altro tra protezione dell‘ambiente e tutela della specie
umana, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010, p. 228).
127
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
economici, sociali e ambientali, ma, anziché propendere per un neutro
bilanciamento equiponderale, utilizza il sintagma «prioritaria considerazione»:
- per l‘interesse alla tutela dell‘ambiente (da intendersi, in coerenza con
lo stesso d.lgs. 152/2006) come sistema;
- tra le varie componenti del sistema, per l‘interesse alla tutela del
patrimonio culturale (ai sensi dell‘art. 5, comma 1, lett. d], d.lgs. 152/2006, il
«patrimonio culturale» comprende a sua volta tanto i «beni culturali» quanto i
«beni paesaggistici» in conformità all‘art. 2, comma 1, d.lgs. 42/2004).
La coppia ambiente/patrimonio culturale richiama, ancora una volta, il
modello dei sistemi socio-ecologici complessi, nei quali l‘integrità e la
resilienza dipendono dalla diversità bioculturale. Da questo punto di vista
sembra emergere una perfetta coerenza, all‘interno del Codice dell‘ambiente, tra
l‘art. 5, comma 1, lett. c), che fornisce la definizione di ambiente in senso
giuridico, e l‘art. 3-quater, che coniuga ad essa la formulazione del principio
dello sviluppo sostenibile; la stessa coppia ambiente/patrimonio culturale è
presente anche in altre disposizioni-chiave del Codice (quali, ad es., gli artt. 3ter e 6, commi 1 e 5).
Questo spiega perché, nella peculiare prospettiva del legislatore italiano,
l‘interesse alla preservazione dell‘eredità culturale appaia sovraordinato rispetto
agli altri interessi socio-economici: l‘ambiente come sistema può sopravvivere,
infatti, solo a condizione che non vengano meno i due pilastri rappresentati
dalla biodiversità e dalla diversità culturale, e quest‘ultima, a sua volta, esige la
massima protezione del paesaggio e dei beni culturali come eredità
irriproducibile e imprescindibile trasmessa dalle generazioni passate alle
generazioni presenti e future.
In caso di conflitto tra interessi che non sia in alcun modo risolvibile con
le ordinarie strategie di bilanciamento (ispirate ai principi di ragionevolezza e
proporzionalità), il principio dello sviluppo sostenibile ex art. 3-quater del
Codice impone, in estrema analisi, di far recedere le esigenze economiche a
fronte delle esigenze ambientali e culturali, le quali devono considerarsi
prioritarie.
Applicando questo schema alle fattispecie in cui sorga un conflitto tra
diversità alimentare e concorrenza, occorrerà prima perseguire la strategia del
bilanciamento tra i due diversi ordini di interessi, secondo ragionevolezza e
proporzionalità; nell‘ipotesi in cui però non si diano soluzioni in grado di
soddisfare parzialmente entrambi i valori, sicché uno debba necessariamente
128
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
cedere a fronte dell‘altro, il principio dello sviluppo sostenibile attribuirà
prevalenza alla diversità alimentare.
Collocata nell‘orizzonte (ad essa consono) del diritto dell‘ambiente, la
diversità alimentare può così reclamare il primato che le deriva dall‘essere una
sintesi di valori fondamentali dell‘ordinamento, i quali, essendo parte integrante
del nucleo duro del tessuto costituzionale, non tollererebbero di essere immolati
(in forza della nota teoria dei controlimiti) sull‘altare comunitario della
concorrenza.
129
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ABSTRACT
Massimo Monteduro - Diritto dell‘ambiente e diversità alimentare
Interpretando alla luce del paradigma dei «social-ecological systems» la
definizione giuridica di «ambiente» fornita dall‘art. 5, comma 1, lett. c), del
d.lgs. n. 152/2006, emerge un concetto di ambiente in senso giuridico come
sistema di relazioni tra fattori ecologici e sociali (compresi, tra questi ultimi,
quelli culturali ed economici). Lo scopo del diritto dell‘ambiente, in questa
prospettiva, appare quello di presidiare la durabilità delle condizioni
indispensabili per la sopravvivenza dei sistemi socio-ecologici: prima tra esse,
la diversità bioculturale, presupposto fondamentale per la tutela della vita a
tutte le scale (degli individui, delle società, degli ecosistemi). La disciplina
dell‘alimentazione si intreccia con la tutela della vita e la diversità degli
alimenti è un‘importante espressione della diversità bioculturale. Per queste
ragioni il problema della salvaguardia della diversità alimentare non può
considerarsi estraneo al diritto dell‘ambiente. Sul piano dell‘analisi giuridica, la
diversità alimentare è suscettibile di essere ricostruita come un valore di
sintesi: diversità delle fonti biologiche del cibo; diversità dei territori di origine
e delle relative comunità, eredi e custodi del cibo; diversità delle arti e delle
tradizioni alimentari, culinarie, gastronomiche; diversità della dieta ai fini della
tutela della salute; diversità degli stili e delle scelte alimentari. La diversità
alimentare è dunque un valore-sistema, in cui convergono e si compongono
numerosi
valori
giuridici
di
primario
rango
costituzionale
(ambiente/biodiversità; autonomia e differenziazione territoriale; paesaggio;
patrimonio culturale, artigianato; salute; libertà personale, scelte educative
della famiglia). Si osserva un frequente antagonismo tra gli interessi economici
legati alla concorrenza e gli interessi ecologici/sociali/culturali di cui la
diversità alimentare è sintesi; ciò chiama in causa il diritto dell‘ambiente. Il
meta-criterio di risoluzione dei conflitti, nel diritto dell‘ambiente, è
rappresentato dal «principio dello sviluppo sostenibile», declinato nella
formulazione dell‘art. 3-quater del d.lgs. 152/2006: in caso di conflitto tra
interessi non risolvibile attraverso le ordinarie strategie di bilanciamento, il
principio dello sviluppo sostenibile ex art. 3-quater impone di far recedere le
esigenze economiche a fronte delle esigenze ambientali e culturali, le quali
devono considerarsi prioritarie.
130
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
The legal definition of the «environment» given in Article 5 paragraph 1 of
Legislative Decree no. 152/2006, interpreted in the light of the paradigm of
«social-ecological systems», reveals a concept of the environment in the legal
sense as a system of relationships between ecological and social factors
(including among the latter the cultural and economic ones). In this
perspective, the purpose of Environmental Law seems to be to ensure the
lastingness of the essential conditions for the survival of social-ecological
systems, especially with regard to biocultural diversity as a prerequisite for
sustaining life at all scales (of individuals, societies, ecosystems). Food is
intertwined with life and food diversity is an important expression of
biocultural diversity. For these reasons, the problem of preserving food
diversity cannot be regarded as being outside the Environmental Law. From
the legal point of view, food diversity can be theoretically reconstructed as a
synthesis of multiple diversities: biodiversity of ecological sources of food
supply; socio-territorial diversity (regarding differences among the territories
as origin of different food specialties and the territorial communities as heirs
and guardians of food identities); cultural diversity of food traditions and
culinary and gastronomic arts and crafts; dietary diversity in order to protect
human health; diversity of alimentary styles and choices. Food diversity is
therefore a legal meta-value, in which converge and combine many primary
Constitutional values (the environment/biodiversity; territorial autonomy and
differentiation; landscape; cultural heritage; handicrafts; health; personal
freedom; family‘s educational choices). There is frequently an antagonism
between the competition-related economic interests, on the one hand, and the
ecological/social/cultural ones whose synthesis is food diversity, on the other:
this conflict involves Environmental Law. The meta-rule for resolving conflicts
in Environmental Law is the «principle of sustainable development» in the
sense specified by Article 3-quater of Legislative Decree no. 152/2006: in case
of conflicting interests where it is not possible to find a solution through usual
techniques of balancing, the principle of sustainable development as per
Article 3-quater of Legislative Decree no. 152/2006 requires that the
environmental and cultural needs must be considered priority interests and
therefore override the economic ones.
131
GIULIANO LEMME*
Lo strabismo di Bacco: l’etichettatura dei prodotti vitivinicoli tra
tutela del consumatore e reticenze legislative
SOMMARIO: 1. I consumatori e il sistema di mercato – 2. Il codice del
consumo: impostazione e profili di criticità – 3. Il profilo informativo e
l’effettività della tutela – 4. I prodotti vitivinicoli: l’origine dell’impostazione
attuale – 5. La normativa europea ed italiana: una vistosa contraddizione.
1.
I consumatori e il sistema del mercato
La rilevanza della figura del “consumatore” come categoria giuridica a
se stante e come perno del sistema del mercato è emersa in tempi relativamente
recenti con l’affermarsi del diritto comunitario, ma certamente è in nuce
presente da tempi ben più risalenti1.
La centralità assunta da tale figura nell’ultimo periodo, peraltro, può
persino sembrare eccessiva a chi sia abituato a ragionare sulla base di categorie
logiche molto astratte, e si trovi dunque a dover affrontare una serie di
provvedimenti legislativi del tutto particolari e case oriented, che si vanno
susseguendo con impressionante frequenza. Ecco dunque che il termine
consumatore si trova ad essere il punto centrale di una complessa fattispecie che
ha come corollari quello di “persona” e quello di “cittadino”2.
L’essere consumatore diviene dunque una sorta di espansione
dell’essere cittadino, e di fatto comporta il riconoscimento della cittadinanza
sociale preconizzata da Marshall3. A livello costituzionale, del resto, il richiamo
all’utilità sociale ed alla sicurezza, dignità e libertà umana, contenuto nell’art.
41 Cost., ben si adatta, in una visione moderna, a fornire il corretto
*
Straordinario di Diritto dell’Economia nell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Si pensi al riferimento agli “utenti” contenuto nell’art. 43 Cost.
2
V. P. PERLINGIERI, La tutela del consumatore tra liberismo e solidarismo, in AA.VV., Il diritto
dei contratti tra persona e mercato, ESI, Napoli, 2003, p. 307 ss.; M. RABITTI, Il diritto dei
consumatori, in AA.VV., Diritto ed economia del mercato, a cura di G. LEMME, CEDAM,
Padova, 2014, p. 339 ss.
3
T.H. MARSHALL, Citizenship and social class, Cambridge University Press, Cambridge, 1950; il
concetto è stato ripreso e sviluppato da F. COCOZZA, Diritto pubblico applicato all’economia, II
ed., Giappichelli, Torino, 2007, p. 239 ss.
1
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
inquadramento della tutela del consumatore nei confronti dei soggetti “esterni”,
individuata quale compito fondamentale dello Stato4.
I consumatori sono dunque i referenti dell’altro grande attore del
mercato, ossia il sistema imprenditoriale, e debbono essere protetti dalle
indebite interferenze di questo5. L’efficienza del mercato modernamente – ed
eticamente – concepito predica dunque che le pubbliche autorità (legislatore,
potere esecutivo, autorità indipendenti) pongano in essere un sistema di
monitoraggio e di attuazione pratica della tutela del consumatore. Di converso,
lo stesso principio della libertà imprenditoriale può essere visto non solo e non
tanto come uno strumento per tutelare gli imprenditori, nelle reciproche
interrelazioni concorrenziali, e per garantire la massima efficienza produttiva,
quanto per subordinare quest’ultima ad una più efficace tutela dei consumatori6.
4
Come è noto, in base ad una interpretazione “evoluta” del concetto di utilità sociale di cui al
secondo co. dell’art. 41 Cost. il limite all’iniziativa economica privata sarebbe costituito dalla
piena attuazione dell’efficienza del mercato e dei meccanismi concorrenziali proprio con riguardo
alla tutela dei consumatori; si vedano, sul punto, F. ZATTI, Riflessioni sull’art. 41 Cost.: la libertà
di iniziativa economica privata tra progetti di riforma costituzionale, utilità sociale, principio di
concorrenza e delegificazione, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, Jovene, Napoli,
2013; L. DELLI PRISCOLI, Mercato e diritti fondamentali, Giappichelli, Torino, 2011, p. 152 ss.;
G. LEMME, L’art. 41 Cost e il multiforme concetto di “utilità sociale”, in AA.VV., Diritto ed
economia del mercato, cit., p. 155 ss.
5
Si vedano le interessanti osservazioni di G. PALERMO, Equilibrio economico generale e
fallimenti del mercato, disponibile su http://www.eco.unibs.it/~palermo/PDF/eeg-e-fallimenti-delmercato.pdf, in cui critica la teoria economica neoclassica sugli equilibri di mercato ritenendo
necessario un intervento dello Stato. Del resto, già A. SEN, The Impossibility of a Paretian
Liberal, in Journal of Political Economy, 1970, vol. 78, p. 152 ss., aveva dimostrato che un
mercato puramente liberistico in senso paretiano può concentrare l’intero fascio di diritti sociali
ed economici in mano ad un solo individuo.
D’altro canto, N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 1998, p. 67, ha affermato che lo
stesso concetto di “mercato” postula l’esistenza di regole; concezione, questa, che ben si adatta
all’idea di una funzionalizzazione del mercato (anche) in senso di necessaria reductio ad
aequitatem dei rapporti di scambio. Sul punto, si veda anche A. LA SPINA – G. MAJONE, Lo Stato
regolatore, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 38 ss., ove si sottolinea il ruolo sociale della regolazione.
6
Questa conclusione, oggi generalmente accettata da molti studiosi, era viceversa anche
veementemente negata in passato: si veda, ad esempio, G. OPPO, L’iniziativa economica,
originariamente in Riv. dir. civ., 1988, I, p. 309 ss., poi ripubblicata in Scritti giuridici, vol. I, in
particolare p. 30, ove si afferma tra l’altro che la libertà di iniziativa economica “è…libertà anche
della persona, la cui mancanza minaccia la stessa libertà civile”.
Sul punto, v. anche le osservazioni di G. GUIZZI, Il mercato concorrenziale: problemi e conflitti,
Giuffrè, Milano, 2010, p. 281 ss.
Il principio, come già si diceva, è oggi pacifico: la strumentalizzazione degli stessi meccanismi
concorrenziali alla tutela dei consumatori, già affermato da Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n.
2207, è stata in seguito più volte ribadita in dottrina; cfr. F. SCAGLIONE, Il mercato e le regole
della correttezza, in F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico
133
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Non possiamo trascurare, da questo punto, di vista, che il modello
liberista classico, che affermava una sorta di “sovranità del consumatore” in
quanto in grado di orientare la produzione attraverso le proprie scelte
economiche, è da tempo in crisi7; una crisi dovuta al riconoscimento di forze
socio-economiche che spingono verso un orientamento al consumo da parte
delle aziende (o alcune di esse), piuttosto che viceversa.
Se questo è il punto dal quale dobbiamo partire, è coerente immaginare
che nell’ambito del mercato la regolazione rimanga un punto assolutamente
centrale. Il mercato funziona solo se ed in quanto i rapporti di forza siano frutto
non di spontanei comportamenti economici, ma di regole di indirizzo e di regole
di controllo, le une volte a stabilire il fine cui si deve tendere (l’equilibrio
effettivo dei rapporti), le altre a verificarne e garantirne l’applicazione.
Resta da stabilire, dunque, quali siano gli strumenti più efficaci per
assicurare che effettivamente il ruolo dei consumatori all’interno del mercato
non sia solamente quello di (inconsapevoli) destinatari del comportamento
economico delle imprese, ma di veri e propri attori8, in grado, dunque, non solo
di essere oggetto della regolazione, ma di divenirne attivi protagonisti.
2.
Il codice del consumo: impostazione e profili di criticità
La matrice europea del codice del consumo (rectius: dei vari testi
normativi che in questo sono stati raccolti) condiziona in maniera evidente la
stessa tecnica normativa, che parte dalla individuazione precisa delle figure del
contraente “forte” e del contraente “debole”9, ricollegando dunque uno status
preciso ai soggetti non in base a loro caratteristiche oggettive, bensì sulla scorta
della situazione nella quale, in una circostanza specifica, essi agiscono.
dell’economia, vol. LVII, Cedam, Padova, 2010, p. 130 ss.; v. anche A. M. AZZARO, Intese
restrittive della concorrenza e contratti in danno dei consumatori, in Riv. dir. comm., 2004, II, p.
339 ss.
7
Rinvio, in proposito, all’ampia disamina delle tesi espresse sul punto compiuta da M. LIBERTINI,
Il mercato: i modelli di organizzazione, in F. GALGANO, op. cit., vol. III, Padova, 1979, p. 387 ss.
8
M. RABITTI, op. cit., p. 342, parla con espressione icastica di “consum-attori”.
9
L. DELLI PRISCOLI, op. cit., p. 42 ss.
134
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Secondariamente, come è stato notato10, si è valorizzata la possibilità di
un public enforcement degli strumenti generali e particolari di tutela, a
testimonianza, dunque, della forte valenza regolatoria del sistema del mercato.
Accanto a questo approccio, spicca, come già si accennava, la volontà
di favorire l’elevazione del grado di consapevolezza del contraente debole, in
modo che gli strumenti di tutela esterna siano affiancati dall’accrescimento
della capacità di tutela interna nel rapporto contrattuale.
I punti cardine, a livello generale, possono dunque essere ritenuti due:
da un lato, l’individuazione il più possibile precisa dei soggetti che
interagiscono nel mercato e del rispettivo status; dall’altro, l’“educazione” del
consumatore.
Entrambi i profili, a mio avviso, presentano notevoli punti di criticità.
Quanto al primo, come già si accennava, è singolare che la posizione di
“forza” o “debolezza” di un soggetto debba venire parametrata alla sola
(occasionale) veste in cui agisce nella stipula di un determinato contratto. Se è
certamente vero che, dal punto di vista statistico, è probabile che il consumatore
sia
economicamente
più
debole
e
meno
informato
dell’imprenditore/professionista, sono comunque numerosissimi i casi in cui
questo può non essere vero; ma a prescindere da questo, lo stesso
professionista/imprenditore, quando agisca per scopi personali e dunque al di
fuori dalla propria attività professionale, viene tutelato alla stregua di un
qualunque consumatore.
Se è certamente vero che, normalmente, qualunque consumatore si
trova in una posizione di inferiorità per il fatto di non poter incidere sulle
singole clausole del contratto di consumo, che vengono stabilite a priori dal
professionista11 a mio avviso il problema, molto più semplicemente, è che non è
possibile dare una maggior oggettività alla tutela, identificando con precisione
l’effettivo stato di soggezione e debolezza di uno dei contraenti. Non si può,
infatti, trovare un modo efficace per stabilire, sulla base di dati oggettivi, se il
singolo contraente sia effettivamente in grado di influenzare, in quello specifico
contratto, il contenuto dello stesso, ovvero sia in tutto e per tutto rimesso alle
regole poste dal professionista12.
10
M. RABITTI, op. cit., p. 345 ss., ove ulteriori riferimenti.
M. GIUSTI, Fondamenti di diritto dell’economia, Cedam, Padova, 2007, p. 244 ss.
12
Va segnalato, tuttavia, che una più soddisfacente prospettiva potrebbe essere quella proposta
nel modello tedesco, nel quale il dato rilevante diviene non tanto e non solo la dualità
11
135
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Non minori problemi, a mio avviso, pone il secondo profilo, ossia
quello dell’educazione del consumatore.
Va fatta, sul punto, una premessa: una regolazione efficace, specie nel
settore che qui interessa, non può prescindere dalla tutela preventiva, prima
ancora che sanzionatoria. Se dunque è necessario porre delle regole di
comportamento per le imprese, alla violazione delle quali segua la reazione
repressiva dell’ordinamento, è imprescindibile fare sì che il consumatore, ossia
la parte debole – e tutelata – sia in grado di prevenire, attraverso una maggior
consapevolezza, l’abuso da parte del professionista, ponendo in essere
comportamenti economici conformi alle sue effettive necessità ed ai suoi
desideri.
Tuttavia, sin dall’origine si è evidenziato il pericolo che il rapporto tra
regolatore e consumatore sconfini nel paternalismo. Se è vero che oggi
l’approccio nei confronti del concetto di educazione del consumatore è
generalmente positivo13, continuo a ritenere che da un lato vi siano dei concreti
pericoli di strumentalizzazione del c.d. nudge, ossia della “spinta gentile”14 a
comportamenti asseritamente virtuosi, dall’altro si rischi un fenomeno di
deresponsabilizzazione degli stessi soggetti tutelati.
Si considerino, infatti, innanzitutto, comportamenti del tutto irrazionali
dei consumatori, dei quali le imprese si avvantaggino. È giusto, ad esempio – lo
dico, beninteso, non senza voler anche lanciare una provocazione – fornire
tutela a coloro che acquistino “manuali” che consentirebbero di ottenere vincite
a giochi di pura sorte15? A fronte di una così palese e clamorosa assenza di
qualsiasi ragionevolezza nel comportamento dei consumatori, questi possono
giovarsi illimitatamente di una protezione esterna da parte del regolatore?
Sotto altro, e più inquietante, profilo: in un’epoca che vede affermarsi il
ruolo del lobbying quale strumento di orientamento regolatorio, si può essere
consumatore-professionista, quanto l’esistenza di indici tipici di asimmetria contrattuale, come la
predisposizione unilaterale della clausole ad opera di uno dei contraenti: si vedano, sul punto, le
osservazioni di R. CALVO, I contratti del consumatore, in F. GALGANO, op. cit., vol. XXXIV,
Padova, 2005, p. 51 ss.
13
M. RABITTI, op. cit., p. 355 ss.
14
L’ovvio riferimento, sul tema, è R. H. THALER – C. R. SUNSTEIN, Nudge: improving decisions
about health, wealth and happiness, Yale University Press, New Haven, CT, 2008.
15
Si pensi anche all’analogo esempio di coloro che compongono numeri a pagamento per
ottenere, in diretta televisiva, “numeri fortunati” determinati in base alle loro caratteristiche
personali (ad esempio, al nome o alla data di nascita) che consentirebbero vincite al gioco del
lotto.
136
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ragionevolmente certi che comportamenti “virtuosi”, verso i quali i consumatori
vengono educati, siano effettivamente rispondenti all’interesse dei consumatori
medesimi16?
E infine: l’eccesso di tutela, quando si traduca nella vera e propria
imposizione di comportamenti agli stessi consumatori, non rischia di ledere le
libertà individuali di questi ultimi17? In fondo, in molti casi, l’estremizzazione
della spinta verso la better option può causare una drastica limitazione delle
scelte, ed imporre dunque un modello unico di comportamento, per di più
basato su teorie scientifiche che magari poi si riveleranno errate18.
Insomma: pur in presenza di una enorme complessità della materia, per
gli interessi ed i vari profili in gioco, nutro più di un dubbio sulla tranquillità
con la quale possa affermarsi che l’approccio seguito dal legislatore europeo sia
quello corretto. Tanto più, come di seguito vedremo, se poi alcuni degli
strumenti di attuazione pratica dell’educazione passino attraverso una
regolamentazione informativa quantomeno discutibile.
3.
Il profilo informativo e l’effettività della tutela
Al di là degli aspetti attinenti il binomio tutela-responsabilizzazione, il
legislatore europeo – e di conseguenza quello nazionale – ha voluto impostare
l’attuazione pratica dei diritti del consumatore incentrandoli, in buona parte, sul
profilo informativo.
16
Si pensi, sotto questo profilo, alle campagne per la “educazione alimentare”, che orientano i
consumi verso determinati prodotti salutari, e dietro le quali possono in realtà nascondersi
interessi industriali
17
L’esempio paradossale ma efficace riguarda tutto quell’insieme di norme che, in nome del
connubio tra interesse individuale ed interesse collettivo, ponga obblighi precisi (indossare le
cinture di sicurezza in auto). Se una regola come questa è oggi comunemente accettata, perché
non arrivare ad imporre a soggetti obesi di astenersi dal consumo di cibi “poco salutari”, o di
praticare attività fisica, visto che la ratio sarebbe esattamente la medesima, ossia di non produrre,
tra l’altro, un aggravio di costi a carico del sistema sanitario nazionale?
18
Una interessante analisi delle varie problematiche connesse al nudging è quella di K. LY – D.
SOMAN, Nudging around the world, Toronto, 2013.
R. CATERINA, Psicologia della decisione e tutela del consumatore, in Analisi Giuridica
dell’Economia, 2012, n. 1, p. 81, conclude che l’approccio a ciò che il consumatore può
correttamente comprendere delle varie opzioni a sua scelta deve essere “realistico”, non potendosi
pretendere di ottenere un superamento completo degli errori cognitivi che affliggono qualunque
soggetto, anche il più esperto ed avveduto .
137
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
In effetti, il codice del consumo dedica ampio spazio alla prescrizione
del contenuto informativo minimo dei contratti e delle informazioni prescritte
per determinati tipi di prodotti. Tale approccio, del resto, non era certo privo di
precedenti, ove si consideri che esso era stato seguito, anni prima, dalla legge
sulla trasparenza bancaria.
L’obiettivo, come chiarisce lo stesso art. 5 del codice del consumo, è
una informazione “chiara e comprensibile”, volta ad assicurare la
“consapevolezza” del consumatore.
Il problema è che, quando poi si vada dagli obiettivi (certamente
condivisibili) al profilo pratico, si constata come il legislatore si sia fatto
prendere da una specie di angoscia bulimica, prescrivendo, sia nelle norme del
codice stesso (artt. 6-17, art. 49, artt. 67 quater ss., ecc.) sia nella normazione,
primaria e secondaria, che le ha attuate, un vero e proprio diluvio informativo di
cui il consumatore diviene oggetto.
Questo punto, a mio avviso, costituisce una vera e propria criticità del
sistema; forse, la più grave.
Anzitutto, infatti, le teorie di economia comportamentale hanno da
tempo messo in guardia contro i pericoli dell’eccesso informativo19, che rischia
di svuotare di contenuto le nozioni comunicate al consumatore, vuoi per
“sovraccarico” dei dati che questi può gestire, vuoi per impossibilità di
distinguere i dati rilevanti da quelli irrilevanti. Non va dimenticato, infatti, che
gran parte delle informazioni sono fornite sotto forma di dato tecnico, che non
necessariamente il consumatore è in grado di comprendere nella sua portata. È
19
V. per tutti U. MORERA – E. MARCHISIO, Finanza, mercati, clienti e regole…ma soprattutto
persone, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2012, n. 1, p. 40 ss. Sul punto, la letteratura
scientifica, anche sulla base delle nozioni derivate dalle scienze neurologiche, ha parlato del
rischio di “information overload” (C. CAMERER ed altri, Regulation for conservatives: behavioral
economics and the case for “asymmetric paternalism”, in University of Pennsylvania Law
Review, 2003, p. 1211, 1216; A. OSOVSKY, The misconception of the consumer as a homo
oeconomicus, in Suffolk University Law Review, vol. XLVI, 2013, p. 915 ss.).
M. BADDELEY, Information security: lessons from behavioral economics, Cambridge, 2011, fa
notare che i soggetti sono più propensi a prendere decisioni affrettate ed a trascurare i dettagli di
un’offerta economica quando siano in umore buono, ed a essere maggiormente attenti al dettaglio
e più razionali quando siano di umore cattivo. E’ È questo uno dei motivi per cui i supermercati
ed i centri commerciali trasmettono musiche che, per le caratteristiche armoniche, tendono a
comunicare allegria. Tale comportamento, si noti, è assolutamente lecito, e sarebbe assi
discutibile come esempio di quel paternalismo di cui sopra ho parlato un intervento del regolatore
nel senso di imporre, nei locali ove operano i consumatori, la trasmissione di musiche tragiche e
l’uso di colori scuri quali elementi che inducano alla depressione e, dunque, all’adozione di
comportamenti economici maggiormente razionali!
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Prendiamo, ad esempio (ed anticipando quanto meglio dirò in seguito)
le etichettature dei prodotti alimentari, che sono ovviamente tra i beni a più
ampio consumo e che quindi coinvolgono tutti i consumatori: quanti di questi
sanno che l’ “acido ascorbico” altro non è se non la vitamina C, e quanti sono in
grado di capire cosa siano e quali effetti abbiano sull’organismo i “mono e
digliceridi degli acidi grassi alimentari”?
Ma anche a voler trascurare questo primo aspetto, occorre considerare
che l’industria, che ovviamente conosce le problematiche cognitive e le sfrutta
naturalmente a proprio vantaggio, utilizza tecniche di comunicazione che
enfatizzano determinate caratteristiche dei prodotti, portando i consumatori a
sopravvalutarne gli aspetti positivi20.
Altre volte, infine, è lo stesso regolatore, nell’ansia di dover dare
informazioni, a non rendersi conto che esse, nel passaggio dal linguaggio
tecnico-merceologico a quello quotidiano, possono essere distorte21.
Comunque sia, una lettura del codice del consumo rende evidente
l’ispirazione casistica e spesso frammentaria che lo ha ispirato; tanto per fare un
esempio, l’art. 16, co. 1, esenta dall’obbligo di indicazione del prezzo per unità
di misura nove categorie di prodotti (tra cui i “gelati monodose”), ma poi, al co.
2, attribuisce al Ministro dello Sviluppo Economico la facoltà di aggiornare tale
elenco (che, forse, avrebbe avuto ab origine ragione di essere interamente
rimesso alla normazione secondaria); mentre l’art. 49, in materia di contratti a
distanza, indica ben venti tipi di informazioni che debbono essere
obbligatoriamente fornite al consumatore. Passando ai servizi turistici
(scorporati dal codice del consumo ed ora ricompresi nel codice del turismo, d.
lgs. 23 maggio 2011, n. 79) vengono previsti quattordici elementi obbligatori
20
Un esempio utile per comprendere l’efficacia del marketing che utilizzi il veicolo informativo
può essere quello delle pubblicità degli alimenti “senza colesterolo” o “poveri di sodio”. In questo
caso, pur non mettendosi in dubbio la veridicità di tali claims, pochi consumatori sono in grado di
comprendere i reali effetti migliorativi sulla loro salute di tali prodotti, che spesso, proprio perché
percepiti come “salutari”, possono essere consumati in eccesso causando un bilancio
costi/benefici fortemente negativo
21
Il riferimento più immediato è quello alle complicate regole sulla dicitura “aroma di…”
riportata sull’etichetta di alcuni prodotti. In base al Reg. CE 1334/2008 ed al Reg. CE 1169/2011,
se è vero che il termine “naturale” può essere utilizzato solo per i composti chimici che sino
effettivamente tali, il consumatore può essere portato a ritenere che una dicitura come “aroma di
fragola” si riferisca alla presenza di molecole tratte dalla fragola, e non, come ben può essere, a
molecole create in laboratorio che diano l’impressione sensoriale della fragola.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
per la vendita di pacchetti e sette informazioni al turista (che divengono nove
nell’opuscolo informativo).
Ma non basta: l’eccesso informativo imposto dal legislatore si colloca
all’interno di un altro fenomeno di “bulimia di dati”, ossia la information
society nell’ambito della quale ogni informazione, non importa se verificabile o
meno, se del tutto inventata o tragicamente vera, diviene accessibile ad un
pubblico che riesce sempre meno a discriminare tra verità oggettiva ed
invenzione mediatica più o meno volontaria22. Questo fenomeno viene
certamente sfruttato dalle imprese per alimentare miti, più o meno dotati di un
fondo di realtà, che possano orientare i consumi, ma rischia di causare anche
fenomeni di “paranoia” che inducono i soggetti a diffidare di qualunque
informazione, persino di quelle palesemente vere, quando proveniente da una
fonte ufficiale.
Si comprende, dunque, perché il quadro sia tutt’altro che chiaro, e
perché la – legittima – aspirazione a colmare le asimmetrie informative e
contrattuali sia destinata, forse, a rimanere tale.
4.
I prodotti vitivinicoli: l’origine dell’impostazione attuale
Se, come sinora abbiamo visto, le criticità relative alla tutela dei
consumatori sono in gran parte legate ai profili di eccesso informativo, che si
manifesta con particolare evidenza per i prodotti alimentari, può sembrare
contraddittorio e, per certi aspetti, paradossale il diverso atteggiamento che il
legislatore tiene sui prodotti del settore vitivinicolo.
In questa materia, la normativa, dovuta in massima parte all’Unione
Europea, è estremamente complessa.
Occorre premettere che, come era del resto lecito aspettarsi, il perno
attorno al quale ruota il profilo informativo è costituito da due elementi:
provenienza e classificazione dei vini, in base ad una impostazione diffusasi in
Francia sin dalla metà del XIX secolo23.
22
Rimando, sul punto, al divertente saggio di E. MOROZOV, L’ingenuità della rete, Codice
Edizioni, Torino, 2011.
23
La data seminale per la classificazione dei vini francesi è il 1855: nell’occasione
dell’esposizione universale di Parigi, Napoleone III incaricò i courtiers della Borsa di Bordeaux
di censire i vigneti dell’area del Medoc suddividendoli in cinque categorie di merito, dal Premier
Grand Cru Classé (categoria più elevata) al Cinquième Grand Cru Classé. La capillare opera,
140
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La Francia, in particolare, manifestò l’esigenza di rendere chiaramente
percepibile, specie sui mercati internazionali, i profili qualitativi dei vini,
fornendo così agli acquirenti (in origine, soprattutto mercanti e distributori
inglesi) un immediato riscontro. Con l’espandersi dell’esportazione dei vini
francesi, e con la conseguente ricerca di vini di provenienze diverse da quelle
tradizionali (Bordeaux e Champagne) ci si rese conto che evidenziare il solo
profilo della qualità, attraverso la classificazione dei vigneti e/o dei produttori,
non era sufficiente, ed occorreva anche fornire una indicazione sulla
provenienza specifica dei prodotti.
A partire dal 1924, dunque, il barone Pierre Le Roy de Boiseaumarié,
produttore a Châteauneuf-du-Pape, iniziò una campagna per creare una
normativa che indicasse chiaramente la provenienza dei vini da un’area
specifica. L’azione del barone Le Roy ebbe infine successo quando, nel 1935,
con il decreto legge del 30 luglio (c.d. legge Capus, dal nome del senatore che
depositò il progetto) fu creato il “Comité National des Appellations d’origine
des vins et des eaux-de-vie”24.
La legge Capus, in base alla quale furono create via via le varie
denominazioni d’origine (AOC, Appellation d’Origine Contrôlée) ha costituito
il modello per tutte le successive leggi di classificazione europee (e gran parte
di quelle mondiali). L’idea di fondo era quella di dare, con una sola menzione,
una contemporanea informazione sulla provenienza e sulla qualità di un vino;
ciò in quanto il conferimento della AOC poteva essere accordato alle sole aree
di pregio, quelle, cioè, nelle quali particolari caratteristiche pedoclimatiche e/o
una consolidata tradizione assicurassero, indipendentemente dal produttore, una
qualità media elevata per ciascun vino.
Peraltro, all’interno dei vari consorzi di tutela si sono diffuse ulteriori
classificazioni, tese ad enfatizzare e a rendere ancora più espliciti gli elementi
qualitativi25. L’idea di fondo, applicata sinora con notevole rigore, è stata quella
tesa a rendere percepibile ai consumatori, con una semplice indicazione, la qualità del vino, fu
compiuta in maniera così efficace che la classificazione dei vini del Medoc non solo è tuttora in
vigore, ma ha subito, nel tempo, una sola modifica: nel 1973, dopo una strenua lotta, il Barone
Philippe de Rothschild riuscì a far promuovere il suo Château Mouton da Deuxieme a Premier
Grand Cru Classé.
24
C. QUITTANSON, L’Élite des vins de France, Paris, 1967, p. 59.
25
A parte la classificazione del Medoc, di cui si è detto, sono presenti le seguenti ulteriori
classificazioni interne: St. Emilion (divisione nelle fasce Premier Grand Cru Classé A, Premier
Grand Cru Classé B, Grand Cru Classé); Champagne (Grand Cru e Premier Cru, sulla base
141
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
di mantenere il legame della normativa con il profilo di enfatizzazione della
qualità, senza cedere alla tentazione di promuovere indiscriminatamente tutte le
aree e tutti i produttori, indipendentemente dal loro merito e capacità.
5.
La normativa europea ed italiana: una vistosa contraddizione
Se questo dunque è il punto di partenza posto dal più illustre referente
per la normativa attuale, non pochi sono i profili di dubbio e le criticità poste
dall’attuale quadro normativo.
Come si accennava, il legislatore nazionale e quello europeo hanno
sposato l’idea della contemporanea tutela di provenienza e qualità. Dopo un
lungo evolversi della normativa (sostanzialmente, a partire dal 1963) il quadro
attuale è quello derivante dalla OCM comunitaria (Reg. 1234/2007/CE e sue
successive modificazioni) e dalla sua attuazione (d.lgs. 8 aprile 2010, n. 61). In
base a queste disposizioni, sono ora introdotte a livello comunitario, per i vini di
qualità, le seguenti indicazioni:
DO/DOP (Denominazione d’Origine Protetta)
IG/IGP (Indicazione Geografica Protetta)
La OCM fa però salve, per ogni Paese, le menzioni tradizionali, che per
l’Italia erano la DOCG, la DOC e la IGT, in ordine decrescente di importanza.
A livello teorico e astratto, alla DOP corrisponde un livello qualitativo
più alto e/o una maggior tipicità del prodotto rispetto alla IGP. Tuttavia, di fatto,
l’applicazione pratica della normativa da parte di alcuni Paesi (tra cui, in misura
forse maggiore che in altri, l’Italia) ha fatto sì che la “piramide qualitativa”
stenti a rispecchiare reali valori comparabili di eccellenza dei prodotti. Ciò è
stato dovuto, anzitutto, ad una eccessiva generosità nella concessione della
DOCG, denominazione che in Francia non esiste e che in Spagna26 è attribuita a
due sole zone, contro le (al momento in cui scrivo) settantaquattro in Italia.
Secondariamente, perché le sperimentazioni sull’uso di vitigni e di pratiche
colturali ed enologiche che si praticano in molte zone d’Italia rendono
dell’ubicazione del vigneto in alcuni comuni). Caso a parte è la Borgogna, ove la fascia
qualitativa superiore, Grand Cru, dà luogo a tante AOC quanti sono i vigneti, mentre la
suddivisione interna della seconda fascia di merito, Premier Cru, è stabilita dal consorzio. In
Alsazia, alla AOC Alsace Grand Cru corrispondono una serie di vigneti “storici” (lieux-dits).
26
Denominación de Origen Calificada.
142
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
preferibile, per alcuni produttori, non aderire ai rigidi disciplinari delle DOP,
con la conseguenza che alcuni vini di eccellenza finiscono per venire
commercializzati con la semplice IGP.
Già questo primo aspetto fa comprendere come il profilo informativo,
per il consumatore di vino, sia irrimediabilmente viziato dalla scarsa aderenza
tra messaggio (piramide di qualità dovuta ai diversi livelli delle menzioni
geografiche) e realtà. Il rischio, puntualmente verificatosi, è dunque che il
messaggio qualitativo sia recepito piuttosto facendo riferimento all’elemento
del prezzo stabilito dal produttore e dal mercato, con tutte le distorsioni che
questo approccio comporta.
Tuttavia, gli aspetti legati alle indicazioni geografiche sono solo
parzialmente rilevanti per il tema di questo breve saggio. Quello che è più
evidente, infatti, è l’aspetto legato alle norme sulla etichettatura del prodotto.
Facciamo un passo indietro: per i prodotti alimentari, in generale, si
applica il recente Reg. UE 1169/2011, il quale, all’art. 10, elenca le indicazioni
obbligatorie sulle confezioni dei prodotti, che sono particolarmente ampie e
rigorose27.
L’obiettivo dichiarato del Regolamento è quello di garantire “un elevato
livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti,
tenendo conto delle differenze di percezione dei consumatori e delle loro
esigenze in materia di informazione, garantendo al tempo stesso il buon
funzionamento del mercato interno” (art. 1, primo co.). Ancora una volta, però,
come già si accennava, la prospettiva nella quale si muove il legislatore europeo
(e conseguentemente quello italiano) è di fornire una gran quantità di minuziose
27
È’ infatti necessario indicare” a) la denominazione dell’alimento; b) l’elenco degli ingredienti;
c) qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico elencato nell’allegato II o derivato da una
sostanza o un prodotto elencato in detto allegato che provochi allergie o intolleranze usato nella
fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se
in forma alterata; d) la quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti; e) la quantità
netta dell’alimento; f) il termine minimo di conservazione o la data di scadenza; g) le condizioni
particolari di conservazione e/o le condizioni d’impiego; h) il nome o la ragione sociale e
l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare di cui all’articolo 8, paragrafo 1; i) il paese
d’origine o il luogo di provenienza ove previsto all’articolo 26; j) le istruzioni per l’uso, per i
casi in cui la loro omissione renderebbe difficile un uso adeguato dell’alimento; k) per le bevande
che contengono più di 1,2 % di alcol in volume, il titolo alcolometrico volumico effettivo; l) una
dichiarazione nutrizionale”. Solo per gli ingredienti il Regolamento prevede inoltre cinque
articoli, dal 18 al 22.
143
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
informazioni, che non necessariamente vengono percepite, o meglio comprese,
dal consumatore medio.
Nel campo dell’etichettatura del vino, viceversa, l’approccio è del tutto
inverso, e per certi aspetti sconcertante.
Stabiliamo, anzitutto, il quadro normativo: la materia dell’etichettatura
dei vini è regolata dal Reg. CE 1234/07, dal Reg. CE 497/2008, dal Reg. CE
607/2009 e conseguentemente, in Italia, dal D.lgs. 8 aprile 2010, n. 61 e, a
livello regolamentare, dal decreto MIPAAF 13 agosto 2012, poi modificato con
decreti 16 settembre 2013 e 24 luglio 2014.
Ebbene, ove si cerchino in tale complesso sistema normativo le regole
sulla etichettatura (art. 59 del Reg. 497/2008, artt. 49 ss. del Reg. 607/2009)
emerge immediatamente il fatto che non è in alcun modo contemplato che
vengano specificati gli ingredienti del vino, né le informazioni nutrizionali, né,
soprattutto, la presenza di additivi28.
Ma vi è di più: l’art. 60 del Reg. 497/2008 stabilisce quali possano
essere le indicazioni facoltative (tra le quali, ancora una volta, non rientra
alcuna delle informazioni di cui sopra); l’esplicita previsione ed elencazione di
quelle che possono essere le indicazioni facoltative implica dunque, a contrario,
che non sia lecito fornire ulteriori informazioni sul prodotto, ad esempio per
quanto riguarda l’elencazione degli ingredienti.
Ora, è vero che è anche possibile indicare altre informazioni “veritiere e
documentabili” in merito al prodotto, come specificato anche dall’art. 14 del
citato D.M. 13 agosto 2012; ma i limiti a tali indicazioni sono tali, da rendere di
fatto problematica una completa elencazione degli ingredienti.
Sta di fatto, che tale indicazione non è stata sinora adottata neppure dai
produttori più attenti e sensibili a questo problema.
28
È stato invece introdotto, originariamente con il Reg. CE 1991/2004, l’obbligo di inserire
nell’etichetta la dizione “contiene solfiti” ove il contenuto di biossido di zolfo ecceda i 10 mg/kg
o i 10 mg/l. Tale obbligo, che ha lo scopo di fornire al consumatore una informazione sulla
presenza di un importante allergene, rischia peraltro di essere fuorviante, in quanto i solfiti in
enologia sono normalmente aggiunti al vino come stabilizzanti ed antiossidanti, ma vengono
anche spontaneamente prodotti in maniera naturale durante il processo fermentativo. Si può
dunque arrivare al paradosso di avere vini senza biossido di zolfo aggiunto che riportano
comunque la scritta “contiene solfiti”, in maniera identica a quelli nei quali il contenuto di solfiti è
dovuto all’intervento umano.
144
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
In altri termini: per il prodotto vino, non solo l’informazione (in altri
casi persino eccessiva) sulle caratteristiche dell’alimento non è obbligatoria, ma
è di fatto vietato fornirla!
È vero che l’art. 60, primo co. lett. f) del Reg. 497/2008 indica quale
informazione facoltativa quella relativa ai metodi di produzione; ma, a scanso di
equivoci, il Reg. 607/2009, all’art. 66, specifica quale possa essere il contenuto
di tale informazione, limitandola: al metodo di affinamento (in legno, acciaio,
ecc.); alla fermentazione in bottiglia; all’ottenimento da uve prodotte secondo
l’agricoltura biologica (ed oggi, a seguito dell’entrata in vigore del Reg. CE
203/2012, del fatto che si tratti di un vino biologico).
Appare veramente arduo spiegarsi il perché di tale impostazione
normativa. In verità, nel mondo del vino, le prese di posizione a favore e contro
l’indicazione degli ingredienti sono state numerose, specie negli Stati Uniti29.
Chi si oppone fa notare essenzialmente due argomenti: anzitutto, che
l’elencazione degli ingredienti comporterebbe analisi costose ed imporrebbe
etichette (e controetichette) più lunghe, il che potrebbe svantaggiare i piccoli
produttori. Secondariamente, che nel caso del vino gli ingredienti usati
nell’ottenimento del prodotto non coincidono con l’effettivo contenuto della
bevanda, che è influenzato dai processi fermentativi e postfermentativi.
Se queste obiezioni hanno certamente un fondo di verità, ritengo da
parte mia che esse non giustifichino l’atteggiamento del legislatore. Infatti, una
concreta regolamentazione delle indicazioni obbligatorie che comprenda anche
l’elenco e la quantità degli additivi usati nel processo di vinificazione (o
quantomeno, dei più rilevanti tra di essi, come il metabisolfito di sodio, il
carbonato di calcio e gli acidificanti) mi sembra pienamente rispondente
all’interesse del consumatore alla corretta e completa informazione.
Se è vero che – come alcuni sostengono – questo potrebbe scoraggiare
il consumo di vino, che potrebbe venir percepito come bevanda “poco naturale”,
è anche vero che usare questo argomento come pretesto per non consentire –
quando non vietare – indicazioni più complete in etichetta appare ipocrita.
29
V. ad es.: H. STEIMAN, Wine ingredient labeling poses problems, in
http://www.winespectator.com/blogs/show/id/48524; P. DRAPER, What’s in a wine, in
http://www.ridgewine.com/Images/Acrobat/PD_ingredient_letter.pdf; A. FEIRING, Ingredients on
the wine label. Absolutely, in http://www.alicefeiring.com/blog/2014/09/ingredients-on-the-winelabel-absolutely-.html. Una delle più note cantine californiane, Ridge, da tempo indica in etichetta
gli ingredienti.
145
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ANNO 2015 / NUMERO 1
Sarebbe dunque auspicabile un intervento (al momento, per la verità,
apparentemente assai poco probabile) per rivedere l’intera materia
dell’etichettatura dei prodotti agroalimentari ed enologici, che da un lato (nel
caso dei primi) renda più chiaramente intelligibile al consumatore il contenuto
del cibo, dall’altro (per i secondi) fornisca informazioni più complete sul
contenuto e sui processi di vinificazione.
Solo in questo modo si potrà far sì che il nudging sia effettivamente
corrispondente all’interesse dei cittadini, e non si traduca in un vistoso
condizionamento delle loro abitudini di consumo.
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ABSTRACT
Giuliano Lemme - Lo strabismo di Bacco: l’etichettatura dei prodotti
vitivinicoli tra tutela del consumatore e reticenze legislative
L’articolo offre un’analisi critica delle nuove tendenze in materia tutela del
consumatore, con una particolare attenzione nei riguardi del settore degli
alimenti e delle bevande e del concetto di “società dell’informazione”. Il ruolo
del singolo consumatore, le cui scelte incidono visibilmente sull’andamento
economico generale, è stato ridisegnato alla luce delle recenti politiche
comunitarie che hanno dato ampia rilevanza al tema dell’etichettatura,
strumento necessario per consentire al consumatore di compiere scelte
informate e consapevoli. Sebbene ciò che viene comunemente definito
“paternalismo libertario” miri ad informare, istruire ed aiutare il consumatore,
evidenti sono i possibili risvolti negativi in termini di libertà di scelta. A volte
le etichette riportano informazioni eccessivamente tecniche e dettagliate; altre,
come accade per i prodotti vitivinicoli, hanno bisogno di essere integrate con
gli indicatori di qualità essenziali. L’Autore fornisce degli spunti per un
auspicabile intervento legislativo orientato verso un ragionevole compromesso
tra eccesso e deficit informativo, nel dovuto rispetto dei diritti e degli interessi
dei consumatori.
This article gives a critical evaluation of the new trends in the area of
consumer protection, with a particular focus on the food and beverage sector
and the general concept of “information society”. The role of consumers in the
free market economy has been strongly impacted by the recent EU consumer
policy. Whereas a single consumer and his choices visibly affect the economy,
food labelling regulations and requirements are necessary to enable
consumers to make informed choices according to individual wishes and needs.
Although what is commonly known as “nudge” aims at informing, educating
and helping consumers, it may badly affect consumers’ freedom of choice. In
some cases food nutrition labels on products are excessively detailed and
technical; in other cases, they need to be filled out with essential quality
indicators, especially when related to wine-sector products. The Author
suggests directions for future legislative intervention to find a middle way
147
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL’AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
between information overload and information deficit, with due regard for
consumer rights and interests.
148
NOTE A SENTENZA
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Consiglio di Stato, Sez. III, 6 febbraio 2015, n. 605
Segue nota di Enrica Blasi
I nuovi margini del potere decisionale degli stati europei in materia di
organismi geneticamente modificati.
Testo della sentenza:
FATTO e DIRITTO
1. L’odierno appellante, intendendo seminare sui propri terreni (nelle Province di
Pordenone e di Udine) la varietà di mais OGM MON 810, ha impugnato dinanzi al
TAR del Lazio il d.m. adottato dal Ministero della salute, di concerto con quelli
delle politiche agricole e dell’ambiente, in data 12 luglio 2013, con cui la
coltivazione della predetta varietà è stata vietata fino all’adozione di misure
comunitarie d’urgenza di cui all’art. 54, comma 3, del regolamento (CE) n.
178/2002, e comunque per un periodo non superiore a diciotto mesi dalla data del
provvedimento.
2. Il TAR del Lazio, con la sentenza appellata (III-quater, n. 4410/2014), ha
respinto il ricorso.
2.1. A tal fine, ha innanzitutto individuato la disciplina di riferimento vigente.
E’utile riprodurre anche in questa sede, con minime modifiche, l’esito di detta
ricognizione.
(a) - a livello comunitario, la coltivazione di OGM a scopo sperimentale e
commerciale è disciplinata dalla direttiva n. 2001/18/CE e dai regolamenti (CE) n.
1829/2003 e n. 1830/2003.
In particolare, per quanto più direttamente interessa ai fini della presente
controversia, il regolamento n. 1829/2003: (a.1) - prevede (agli artt. 15-23) una
procedura comunitaria per l’autorizzazione all’immissione in commercio di
alimenti e mangimi prodotti da OGM, in base alla quale, in sintesi: le aziende
interessate devono presentare una domanda di autorizzazione alla Commissione
Europea, corredata da un dossier con le informazioni scientifiche disponibili utili a
valutare la sicurezza per la salute umana, animale e dell’ambiente, su cui esprima il
proprio parere l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare – EFSA;
l’autorizzazione è temporanea e rinnovabile, e può essere sospesa o revocata (art.
22) qualora non soddisfi più le condizioni di legge; (a.2) – prevede, all’art. 34, che
“Quando sia manifesto che prodotti autorizzati dal presente regolamento o
150
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
conformemente allo stesso possono comportare un grave rischio per la salute
umana, per la salute degli animali o per l’ambiente ovvero qualora, alla luce di un
parere dell’Autorità formulato ai sensi degli articoli 10 e 22, sorga la necessità di
sospendere o modificare urgentemente un’autorizzazione, sono adottate misure
conformemente alle procedure previste agli articoli 53 e 54 del regolamento (CE)
n. 178/2002”; a sua volta, detto art. 54 stabilisce che “Qualora uno Stato membro
informi ufficialmente la Commissione circa la necessità di adottare misure urgenti
e qualora la Commissione non abbia agito in conformità alle disposizioni
dell’articolo 53, lo Stato membro può adottare misure cautelari provvisorie. Esso
ne informa immediatamente gli altri Stati membri e la Commissione.” (par. 1).
“Entro dieci giorni lavorativi, la Commissione sottopone la questione al comitato
istituito dall’articolo 58, paragrafo 1, secondo la procedura di cui all’articolo 58,
paragrafo 2 ai fini della proroga, modificazione od abrogazione delle misure
cautelari provvisorie nazionali.” (par. 2). “Lo Stato membro può lasciare in vigore
le proprie misure cautelari provvisorie fino all’adozione delle misure
comunitarie.” (par. 3).
(b) - la Corte di Giustizia, con sentenza della IV Sezione in data 8 settembre 2011,
in cause da C-58/10 a C-68/10, riguardo ai presupposti indicati dal suddetto art. 34,
ha affermato che “…occorre considerare che le espressioni «manifesto» e «grave
rischio» devono essere intese come atte a riferirsi a un serio rischio che ponga a
repentaglio in modo manifesto la salute umana, la salute degli animali o
l’ambiente. Questo rischio deve essere constatato sulla base di nuovi elementi
fondati su dati scientifici attendibili. Infatti, misure di tutela adottate in forza
dell’art. 34 del regolamento n. 1829/2003 non possono essere validamente
motivate con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici
supposizioni non ancora accertate scientificamente. Al contrario, siffatte misure di
tutela, nonostante il loro carattere provvisorio e ancorché esse rivestano un
carattere preventivo, possono essere adottate solamente se fondate su una
valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze
specifiche del caso di specie, che dimostrino che tali misure sono necessarie …”.
(c) - a livello nazionale, con il d.lgs. 212/2001 era stata prevista una autorizzazione
nazionale alla coltivazione di sementi geneticamente modificate (che andava ad
aggiungersi all’autorizzazione comunitaria relativa all’immissione in commercio),
e con il d.l. 279/2004, convertito nella legge 5/2005, erano stati introdotti due
principi fondamentali: (c.1) - quello della coesistenza della colture tramite la
separazione delle filiere, prevedendosi a tal fine l’adozione, con decreto
ministeriale di intesa con le Regioni e le Province autonome, di piani di
151
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
coesistenza; (c.2) - quello della libertà di scelta del consumatore circa il tipo di
prodotto da usare (biologico, convenzionale o transgenico).
(d) – la Corte di Giustizia, con sentenza della IV Sezione in data 6 settembre 2012,
in C-36/11, riguardo al d.lgs. 212/2001, ha affermato che “…uno Stato membro
non è libero di subordinare a un'autorizzazione nazionale, fondata su
considerazioni di tutela della salute o dell'ambiente, la coltivazione di OGM
autorizzati in virtù del regolamento n. 1829/2003 ed iscritti nel catalogo comune in
applicazione della direttiva 2002/53.70 . Al contrario, un divieto o una limitazione
della coltivazione di tali prodotti possono essere decisi da uno Stato membro nei
casi espressamente previsti dal diritto dell’Unione. Fra tali eccezioni figurano, da
un lato, le misure adottate in applicazione dell’articolo 34 del regolamento n.
1829/2003 nonché quelle disposte ai sensi degli articoli 16, paragrafo 2, o 18 della
direttiva 2002/53 (…)e, dall’altro, le misure di coesistenza prese a titolo
dell’articolo 26 bis della direttiva 2001/18”.
(e) - la Corte Costituzionale, con sentenza n. 116/2006, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale degli artt. 3, 4 e 6, comma 1 e 7, del d.l. 279/2004, in quanto la
coesistenza delle colture rientra nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni e
delle Province Autonome, alle quali spetta disciplinare le modalità di applicazione
del principio di coesistenza nei rispettivi territori, notoriamente molto differenziati
dal punto di vista morfologico e produttivo.
(f) - in pendenza del giudizio di primo grado, è stata pubblicata la l.r. Friuli
Venezia-Giulia 28 marzo 2014, n. 5, il cui art. 1, in applicazione del paragrafo 2.4
della raccomandazione della Commissione Europea 2010/C-200/01 in data 12
luglio 2010 (recante orientamenti per l’elaborazione di misure nazionali in materia
di coesistenza per evitare la presenza di OGM nelle colture convenzionali e
biologiche), ha disposto che la coltivazione di mais geneticamente modificato è
vietata fino all’approvazione definitiva delle predette misure di coesistenza e
comunque per un periodo non superiore a dodici mesi dall’entrata in vigore della
legge.
2.2. Il TAR ha poi precisato le vicende procedimentali concernenti l’autorizzazione
della varietà di mais OGM in questione (Zea Mays L. Linea MON 810).
(a) – l’immissione in commercio è stata autorizzata con decisione della
Commissione in data 22 aprile 1998, 98/294/CE, ai sensi della direttiva 90/220, su
richiesta della Monsanto Europe.
(b) – in data 11 luglio 2004, la Monsanto, in applicazione dell’art. 20, del
regolamento n. 1829/2003, ha notificato alla Commissione il mais MON 810 quale
«prodotto esistente», ed ha così potuto continuare ad immetterlo in commercio alle
152
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
condizioni indicate nell’autorizzazione iniziale, in attesa di una decisione finale in
esito al rinnovo.
(c) – in data 4 maggio 2007, la Monsanto ha chiesto il rinnovo dell’autorizzazione
per il mais MON 810, sulla base dell’art. 20, par. 4, del regolamento n. 1829/2003.
(d) - a distanza di sette anni dalla presentazione dell’istanza di rinnovo, la
Commissione non ha adottato alcuna formale definitiva determinazione in merito;
va sottolineato che l’EFSA, dopo un parere favorevole rilasciato nel 2009, ha poi
espresso ulteriori pareri, prendendo in considerazione nuovi aspetti per la
valutazione del rischio ambientale sulla base di criteri non presi in considerazione
nel parere del 2009.
2.3. Con riferimento al descritto quadro normativo e fattuale, il TAR ha ritenuto
infondate le censure, sulla base delle argomentazioni appresso sintetizzate.
(a) – è errato ritenere che il decreto impugnato concluda negativamente una
procedura di autorizzazione nazionale alla coltivazione degli OGM, basata sulla
erronea applicazione della direttiva 18/2001/CE, dato che esso costituisce invece
una misura di emergenza di cui all’art. 34 del regolamento n. 1829/2003, la cui
adozione è stata ammessa dalla Corte di Giustizia (cfr. sent. del 6 settembre 2012,
cit. ).
(b) – per lo stesso motivo, è parimenti errato ritenere che il decreto possa essere
considerato un diniego di carattere nazionale o una misura di coesistenza, prevista
dall’art.26 della direttiva 18/2001/CE (e come tale illegittimo poiché dette misure
non consentono ad uno Stato membro di opporsi alla coltivazione di mais OGM).
(c) – contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, non può dirsi che mancassero i
presupposti (esistenza di un rischio grave e manifesto per la salute o per
l’ambiente, acclarato sulla base di elementi scientificamente attendibili) richiesti
dall’art. 34, cit., per l’adozione della misura d’emergenza; infatti: (c.1) –
l’autorizzazione rilasciata nel 1998 alla Monsanto si basava su una normativa
superata da quella attualmente in vigore, tant’è che a distanza di ben sette anni
dalla data di presentazione dell’istanza di rinnovo dell’autorizzazione nessuna
decisione è stata adottata in merito dalla Commissione Europea; (c.2) - tale
situazione di impasse è avvalorata dalla circostanza che l’EFSA, se nel 2009 aveva
dato parere positivo, tuttavia successivamente, si era pronunciata diversamente,
tenendo conto anche di altri aspetti del rischio ambientale non tenuti presente nel
parere originario; (c.3) - in un simile contesto, il diffondersi di coltivazioni di mais
transgenico sulla base di un’autorizzazione risalente nel tempo, la quale non poteva
tener conto di una normativa successiva più restrittiva nonché delle problematiche
connesse ai rischi ambientali successivamente emerse ed avvalorate dagli studi
153
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
richiamati nel decreto, le quali avevano in sostanza precluso alla Commissione
Europea di procedere al rinnovo dell’autorizzazione, poteva rappresentare un
situazione di concreto ed attuale pericolo tale da giustificare l’adozione del decreto
impugnato.
(d) - detta conclusione non può essere inficiata dal principio comunitario di
precauzione, di cui anzi il provvedimento impugnato costituisce corretta
applicazione.
3. La sentenza è stata appellata dal ricorrente.
Per le Amministrazioni statali appellate si è costituita in giudizio e controdeduce
l’Avvocatura Generale dello Stato.
Si è altresì costituita e controdeduce la Regione Friuli Venezia Giulia.
Si sono costituiti anche gli interventori ad opponendum nel giudizio di primo
grado, intimati dall’appellante -Coldiretti, CODACONS, Legambiente Onlus,
Greenpeace Onlus, Slow Food Italia, Associazione sementieri mediterranei,
Associazione nazionale Città del vino, Associazione italiana per l’agricoltura
biologica, Federazione italiana agricoltura biologica e biodinamica – ed hanno
controdedotto.
Sono intervenuti ad opponendum per la prima volta in appello Fare Verde Onlus e
l’Associazione NOOGM.
4. Nell’appello, vengono prospettati i tre ordini di censure appresso indicati.
4.1. (I motivo: travisamento di fatto e violazione degli artt. 34 e 23 del regolamento
(CE) n. 1829/2003 e conseguente violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.).
Il TAR ha erroneamente ritenuto che dopo l’autorizzazione al MON 810 sarebbero
emersi rischi ambientali sulla scorta degli studi richiamati nel decreto impugnato,
tali da rappresentare una situazione di concreto ed attuale pericolo che potesse
giustificare l’adozione del divieto.
Al contrario, la Commissione europea – alla quale è devoluta in via esclusiva
l’individuazione, la valutazione e la gestione del rischio conseguente alla
coltivazione del mais in questione - dopo aver ricevuto la richiesta da parte delle
autorità italiane di adottare misure d’urgenza ai sensi dell’art. 34, ed aver acquisito
i pareri dell’EFSA, ai sensi degli artt. 22, par. 1 e 2, e 34, del reg. n. 1829/2003,
non ha mai ritenuto di adottare misure di sospensione, modifica o revoca
dell’autorizzazione, in quanto detti pareri non hanno messo in evidenza rischi
manifesti per la salute degli uomini, degli animali e dell’ambiente.
4.2. (II motivo: ulteriore travisamento dei fatti e violazione degli artt. 20 e 23 del
regolamento (CE) n. 1829/2003).
154
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Ad avviso dell’appellante, il TAR ha erroneamente ritenuto che il rinnovo
dell’autorizzazione del 1998 sia stato precluso alla Commissione da successive
problematiche connesse ai rischi ambientali.
La sentenza non tiene in debito conto gli artt. 20, par. 4, e 23, par. 4, del
regolamento n. 1819/2003, in base ai quali l’autorizzazione per il MON 810
mantiene efficacia fino a contraria decisione assunta dalla Commissione; né della
sentenza della CGE in data 6 settembre 2012, cit., che ha ritenuto precluso agli
Stati membri di vietare le coltivazioni OGM nelle more dell’adozione delle misure
di coesistenza.
Posto che da tali dati precettivi discende che il procedimento di rinnovo
dell’autorizzazione non ha tempi certi e definiti, non si può prendere il trascorrere
del tempo come prova di una sostanziale preclusione a procedere al rinnovo.
Peraltro, il tempo trascorso è dipeso da una situazione di stallo nel meccanismo di
autorizzazione europeo (che prevede la codecisione) riguardo ai prodotti OGM,
non a fattori scientifico-giuridici. Ma lo stallo non può essere superato mediante
l’adozione di una misura d’urgenza, e l’Italia avrebbe dovuto contestare
l’ingiustificato atteggiamento silenzioso della Commissione, non trasferire sul
privato imprenditore le conseguenze dell’inerzia.
4.3. (III motivo: travisamento di fatto e violazione dell’art. 174, par. 2, del Trattato
CE, oggi art. 191, par. 2, TFUE).
Il TAR ha travisato il contenuto delle opinioni scientifiche espresse dall’EFSA, in
data 8 dicembre 2011, 11 dicembre 2012 e 13 dicembre 2013, posto che da esse si
evince che non esiste alcuna prova, né alcun indizio dell’esistenza di una situazione
in grado di comportare un rischio che ponga a repentaglio in modo manifesto la
salute umana, quella degli animali o l’ambiente.
Contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, non sussistevano i presupposti per
applicare il principio di precauzione dettato dall’art. 191, par. 2, del TFUE, non
essendovi indizi specifici ed oggettivi del rischio, tali da poter ragionevolmente
concludere sulla base di dati scientifici che l’attuazione delle misure si presentava
necessaria per evitare pregiudizi. In realtà, nell’adottare il divieto, i Ministeri si
sono limitati ad un approccio puramente ipotetico, basato sulla lettura errata dei
pareri EFSA.
5. Il Collegio deve anzitutto esaminare le eccezioni di improcedibilità dell’appello,
formulate dalle parti resistenti, alla luce della sopravvenienza: (a)- della citata l.r.
Friuli V-G 5/2014; (b) - dell’art. 4, comma 8, del d.l. 91/2014, convertito nella
legge 116/2014 (che, sanzionando con una multa la violazione dei divieti di
coltivazione, avrebbe legificato il provvedimento impugnato); (c) - della proposta,
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
da parte del Consiglio UE in data 11 luglio 2014, di una nuova direttiva del
Parlamento e del Consiglio volta a consentire agli Stati membri la facoltà di
limitare o vietare la coltivazione di OGM.
L’eccezione va disattesa, tenuto conto che: (a) - al momento del passaggio in
decisione dell’appello il divieto temporaneo di coltivazione spiegava ancora la sua
efficacia; (b) – l’interesse all’accertamento dell’illegittimità del divieto temporaneo
permane ai fini risarcitori in riferimento al periodo di vigenza; (c) – la l.r. Friuli
Venezia Giulia 5/2014 non elimina detto interesse, in quanto non è retroattiva;
senza contare che la compatibilità comunitaria della legge regionale (legge che
comunque non appare idonea a risolvere alla radice la questione, dato che
comporta un ulteriore divieto temporaneo, per un anno o, qualora intervenga prima
della scadenza del termine annuale, fino all’adozione delle misure nazionali di
coesistenza volte ad evitare la presenza di OGM nelle colture convenzionali e
biologiche - la cui adozione, peraltro, è meramente facoltizzata dal paragrafo 2.4
della raccomandazione 2010/C-200/01 della Commissione Europea del 12 luglio
2010), affinché essa si possa applicare ai fini di una pronuncia di improcedibilità,
contrariamente a quanto sembra ipotizzare la sentenza appellata, non esulerebbe
dal thema decidendum ma dovrebbe essere scrutinata nel presente giudizio; (d) – la
sanzionabilità penale della violazione del divieto di coltivazione non elimina, ma
semmai rafforza l’interesse alla decisione sulla legittimità del divieto; (e) - .una
mera proposta di direttiva non ha portata precettiva.
6. Passando al merito, il Collegio osserva che i motivi di appello, che sollevano
problematiche tra loro intrecciate, comportano l’esame di tre ordini di questioni, in
logica successione.
6.1. Il primo riguarda i rapporti tra il potere della Commissione europea di
intervenire sull’efficacia delle autorizzazioni comunitarie in essere, e quello
interinalmente esercitabile agli stessi effetti dagli Stati membri.
Dalla prospettazione dell’appellante, sembra desumibile in sostanza la tesi secondo
la quale, una volta che la Commissione (come nel caso in esame) abbia ritenuto di
non procedere, l’efficacia dell’autorizzazione è destinata a permanere fino
all’ordinaria decisione sul rinnovo.
6.2. Con memoria finale, l’appellante ha precisato la propria tesi, nel senso che,
come affermato dalla CGE con la citata sentenza in data 8 settembre 2011
(pronuncia pregiudiziale richiesta dal Conseil d’Etat su un caso analogo di divieto
di semina): (a) - la valutazione e gestione di un rischio grave e manifesto compete
in ultima istanza esclusivamente alla Commissione e al Consiglio sotto il controllo
del giudice dell’Unione (punto 78); (b) - fino a che non sia stata adottata alcuna
156
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
decisione riguardo alle misure di emergenza di cui all’art. 34 del reg. n. 1829/2003,
i giudici nazionali aditi al fine di verificare la legittimità delle misure nazionali alla
luce delle condizioni sostanziali ex art. 34, cit., e di quelle procedurali ex art. 54 del
reg. n. 178/2002, quando nutrono dubbi sull’interpretazione di una disposizione,
devono deferire una questione pregiudiziale alla Corte ai sensi dell’art. 267, TFUE
(p. 79); (c) - per contro, quando la Commissione ha adito il Comitato permanente
ed è stata adottata una decisione a livello dell’Unione, le relative valutazioni
vincolano gli Stati membri ex art. 288, TFUE, giudici compresi (p. 80). Nel caso in
esame, avendo la Commissione deciso di non attivare le misure di emergenza, si
rientrerebbe in tale ultima ipotesi.
6.3. Il Collegio osserva che nel procedimento in esame, alla richiesta di introdurre
per il MON 810 misure ai sensi dell’art. 34 del regolamento n. 1829/2003,
formulata dalle autorità italiane in data 11 aprile 2013, la Commissione ha risposto
in data 17 maggio 2013 di non ritenerlo necessario. Quindi, si ricade non
nell’ipotesi considerata al punto 80 della sentenza invocata, bensì in quella
considerata al punto 79. Tuttavia, in relazione a quanto ivi affermato, non sembra
sussistano i presupposti per una pronuncia pregiudiziale della Corte, non
sembrando dubbia (per quanto appresso esposto) l’interpretazione dell’art. 34 in
ordine alle competenze ed ai poteri esercitabili, e risultando invece effettivamente
opinabile (per quanto altresì appresso esposto) la sussistenza in concreto degli
elementi di fatto in grado di giustificare le misure di emergenza, invano richieste
dalle Amministrazioni italiane a livello comunitario e poi adottate a livello
nazionale.
Va poi ricordato come la citata sentenza in data 8 settembre 2011, abbia sì negato
la possibilità di utilizzare le misure di sospensione o divieto provvisorio
dell’utilizzo o dell’immissione in commercio in applicazione dell’art. 23 della
direttiva 2001/18/CE, ma abbia indicato come strumento praticabile l’art. 34 del
regolamento, previa dimostrazione dell’urgenza e del rischio grave e manifesto; del
resto, la Francia ha poi seguito l’indicazione della Corte, adottando in data 18
marzo 2012 misure cautelari provvisorie ex art. 54, comma 3, reg. n. 178/2002,
impedendo la coltivazione del mais transgenico; e non risulta dagli atti che al
riguardo siano intervenuti nuovi arresti giurisprudenziali.
6.4. Per tornare alla tesi di fondo, dall’art. 54 del regolamento n. 178/2002,
richiamato dall’art. 34 del regolamento n. 1829/2003, si evince invece che, qualora
la Commissione, nonostante la segnalazione dello Stato membro, non abbia
adottato, in applicazione dell’art. 53 dello stesso regolamento n. 178/2002, le
misure urgenti richiestele – deve ritenersi, sia nel caso in cui abbia motivatamente
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
comunicato di non ritenere di dover intervenire, sia nel caso in cui sia
semplicemente rimasta inerte - lo Stato membro può adottare egli stesso misure
cautelari a titolo provvisorio, informandone subito gli altri Stati membri e la
Commissione.
Queste misure sono, appunto, provvisorie, nel senso che la loro efficacia dura fino
all’adozione delle misure comunitarie.
In altri termini, il potere decisionale ultimo spetta alla Commissione, la quale è
tenuta a sottoporre la questione al Comitato permanente per la catena alimentare e
la salute degli animali (di cui all’art. 58 del regolamento n. 178/2002), ed adottare
le conseguenti determinazioni di proroga, modificazione o abrogazione delle
misure cautelari provvisorie nazionali; nelle more di detta decisione definitiva,
sulla sorte dell’autorizzazione oggetto di rivalutazione e verifica, lo Stato membro
può decidere se e per quanto tempo mantenere in vigore le misure d’emergenza
nazionali adottate.
Ciò che non sembra stabilito dalla disciplina comunitaria, è che, a seguito di una
segnalazione sull’opportunità di intervenire (per modificare la perdurante efficacia
di un’autorizzazione), la situazione debba restare confinata in un’impasse
potenzialmente senza termine, fino a che il Comitato - organo presieduto dal
rappresentante della Commissione ma comunque composto da rappresentanti degli
Stati membri - si decida ad esprimere il proprio (imprescindibile) avviso.
Al contrario, qualora, come nel caso in esame, l’adozione delle misure
d’emergenza avvenga in un contesto in cui si discute su una autorizzazione scaduta
e sottoposta a proroga, l’efficacia interinale delle misure d’emergenza, adottate
dallo Stato membro, assume anche la funzione di sollecitare l’adozione di una
motivata decisione definitiva sul futuro dell’autorizzazione stessa.
6.5. La seconda questione da esaminare, riguarda gli elementi sui quali può essere
basata l’adozione delle misure nazionali provvisorie, della cui astratta adottabilità
si è detto.
L’appellante incentra le sue censure sul significato dei pareri dell’EFSA.
Nel caso in esame, va fin d’ora riconosciuto che l’EFSA non ha suggerito di
intervenire sull’autorizzazione del mais MON 810, in relazione ai rischi connessi
alla coltivazione. Nessuna presa di posizione esplicitamente negativa sulla
perdurante efficacia dell’autorizzazione è rinvenibile in detti pareri, e le
conclusioni formali cui è pervenuta EFSA, nonostante l’evidenziazione di nuovi
parametri rilevanti e di nuovi criteri di valutazione del rischio, e dell’opportunità di
porre in essere forme di cautela, appaiono in linea di sostanziale continuità con il
parere favorevole del 2009.
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Tanto sembra emergere anche dalla “scientific opinion” pubblicata sul bollettino
dell’EFSA del 2013- n. 3371 (a quanto sembra, sopravvenuta all’adozione del
decreto impugnato).
Il Collegio osserva, tuttavia, che l’art. 34, cit., non stabilisce un percorso
conoscitivo e valutativo obbligato, in quanto, prima ancora di menzionare, come
strumento qualificato di evidenziazione dei presupposti per la sospensione o la
modifica di un’autorizzazione, i pareri dell’EFSA, indica i presupposti sostanziali
per intervenire sulle autorizzazioni, ed anche testualmente (“ … ovvero qualora,
alla luce di un parere dell’Autorità …”) non esclude che la sussistenza di detti
presupposti venga desunta in altro modo.
Anche su tale aspetto, si tornerà in prosieguo.
6.6. La terza questione investe la possibilità di riscontrare o meno, nel caso in
esame, detti presupposti sostanziali, rappresentati dall’esistenza di un rischio grave
e manifesto per la salute o per l’ambiente.
Al riguardo, il Collegio osserva che non è particolarmente rilevante individuare i
motivi per i quali l’iter di verifica e valutazione della autorizzazione si sia bloccato
(aspetto al quale è dedicato parte del secondo motivo di appello).
Anzitutto, per quanto desumibile dall’attribuzione dell’autonomo potere di
intervento in capo agli Stati membri, sono la stessa esistenza di un regime di
protrazione degli effetti dell’autorizzazione scaduta, e di una situazione di stallo
procedimentale sul suo rinnovo, a rafforzare le esigenze di un approfondimento dei
dubbi sull’esistenza di rischi per la salute e per l’ambiente.
In ogni caso, non sembrano estranee allo stallo, considerazioni concernenti detti
rischi. L’Avvocatura dello Stato ha sottolineato (e sul punto non si rinviene
specifica ed adeguata confutazione di controparte) che, dal Rapporto del 10 giugno
2013 relativo all’ultima (in relazione all’instaurazione della controversia – per il
prosieguo, il Collegio non può trarre dagli atti di causa ulteriori elementi) riunione
del Comitato, emerga che gli Stati Membri, per giustificare la mancata
approvazione della bozza della relativa decisione, abbiano fatto riferimento a
ragioni eterogenee, quali: preoccupazioni relative alle valutazioni sulla sicurezza
del polline del mais MON 810 condotte dall’EFSA, le quali sono state considerate
inconcludenti; possibili incertezze relative alla protezione della salute umana;
preoccupazioni relative ad un possibile effetto nocivo della proteina Crybt11;
esistenza di divieti a livello nazionale; incertezze legali relative all’indicazione
della presenza del polline nell’etichettatura del miele; mancanza di accordo a
livello nazionale; ragioni politiche; opinione pubblica negativa. Dunque, accanto a
159
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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ragioni lato sensu politiche, vi sono ragioni legate ai rischi derivanti dalle
incertezze scientifiche sulla sicurezza dell’OGM.
L’appellante ha lamentato anche che il TAR non avrebbe tenuto conto di quanto
affermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza in data 6 settembre 2012, citata.
Al riguardo, il Collegio ribadisce che, come sopra esposto, detta pronuncia riguarda
l’illegittimità di un diniego generalizzato di coltivazione di mais OGM, nelle more
dell’adozione di misure di coesistenza, che lascia aperta la porta all’adozione di
una misura di emergenza.
6.7. Giungendo all’ultimo nodo della controversia, occorre tener conto che
l’istruttoria sottesa al decreto 12 luglio 2013, come riassunta nelle premesse del
provvedimento, ha preso in considerazione molteplici valutazioni scientifiche.
Infatti, anche se ciò è rimasto in ombra nel giudizio di primo grado, nelle predette
premesse motivazionali risulta sottolineato, in particolare, quanto segue.
(a) – l’autorizzazione del 1998 è stata rilasciata ai sensi della direttiva 90/220/CE, e
quindi in base a requisiti in materia di valutazione dei rischi inferiori a quelli
stabiliti dalla direttiva 2001/18/CE;
(b) – il parere dell’EFSA in data 15 giugno 2009, favorevole al rinnovo
dell’autorizzazione per il MON 810, non ha potuto tener conto: (b.1) - delle
conclusioni raggiunte dal Consiglio UE nella sessione “Ambiente” in data 4
dicembre 2008 (sulla necessità di rafforzare le procedure di valutazione del rischio
ambientale degli OGM, specialmente per quanto riguarda gli impatti sugli insetti
non bersaglio, la definizione degli ambienti riceventi e gli impatti a lungo termine);
(b.2) – delle linee guida pubblicate dalla stessa EFSA nel 1010.
(c) – il parere dell’EFSA in data 8 dicembre 2011, concernente il mais Bt11, ha
rilevato impatti in relazione all’acquisizione di resistenze da parte di parassiti e
sulla mortalità delle popolazioni di lepidotteri sensibili, ed ha ritenuto che tali
risultati si applichino anche al MON 810 che produce la stessa tossina Cry1Ab,
raccomandando pertanto un rafforzamento delle relative misure di gestione e di
sorveglianza.
(d) – un dossier del Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura
(CRA), allegato alla nota del 2 aprile 2013 (“Rassegna delle evidenze scientifiche
posteriori al 2009 sugli impatti della coltivazione del mais MON 810, con
particolare esame degli effetti su organismi non bersaglio e sulla persistenza della
tossina Bt nell’ambiente”), ha concluso che il MON 810 avrà impatti sugli
imenotteri parassitoidi specialisti di O.Nubilalis, potrebbe modificare le
popolazioni di lepidotteri non bersaglio, e potrebbe favorire la sviluppo di parassiti
secondari potenzialmente dannosi per le altre coltura.
160
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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(e) – anche la nota dell’ISPRA prot. 17903 in data 30 aprile, “Approfondimento
tecnico-scientifico relativo al mais geneticamente modificato MON 810”, ha
concluso che gli studi sugli impatti ambientali evidenziano rischi per le popolazioni
di lepidotteri non target e non escludono la possibilità di impatto negativo sugli
organismi acquatici sensibili alle tossine Cry1Ab.
6.8. In particolare, dalla lettura della citata nota di “Approfondimento” dell’ISPRA,
versata in atti, si evince che l’ente pubblico preposto nel nostro ordinamento alla
protezione ed alla ricerca ambientale, sulla base della analitica considerazione del
citato dossier del CRA, dei pareri fino a quel momento espressi dall’EFSA, nonché
di studi scientifici aggiornati, ha ritenuto che: (a) - le misure di gestione per
limitare gli effetti sui lepidotteri non target debbano essere soggette a revisione
sulla base dei risultati di un piano di monitoraggio caso-specifico, ed è quindi
necessario attivare tale piano sia sui predetti lepidotteri non target, sia sugli
organismi acquatici (non basterebbe una semplice sorveglianza basata sui
questionari agli agricoltori e sull’utilizzo delle reti di monitoraggio esistenti, dato
che non esistono in Italia reti utilizzabili per il monitoraggio dei lepidotteri, mentre
per gli impatti sugli organismi acquatici andrebbe verificata la possibilità di
utilizzare la rete nazionale di controllo sulla qualità delle acque); (b) - gli studi
sugli impatti ambientali evidenziano rischi per le popolazioni di Lepidotteri non
target e non escludono la possibilità di impatti negativi sugli organismi acquatici
sensibili alla tossina Cry1Ab. Ed ha concluso nel senso che: (a) - i rischi
individuati potrebbero essere ridotti attraverso l’adozione di specifiche misure di
gestione del rischio, come suggerito da CRA ed EFSA, ed anche attraverso
l’adozione dei piani di monitoraggio caso-specifico, predetti; (b) - l’attuale status
autorizzativo del mais MON 810 non prevede l’adozione obbligatoria delle misure
di gestione del rischio suggerite; (c) - pertanto si ritiene necessario che i gestori del
rischio garantiscano l’adozione obbligatoria delle misure proposte attraverso gli
opportuni strumenti normativi.
Il Collegio ritiene di poter desumere che ISPRA abbia condiviso le esigenze di
adottare misure di gestione, già evidenziate dall’EFSA, approfondendone i
contenuti, e, soprattutto, traendone logiche conseguenze in ordine agli interventi
necessari.
Va sottolineato che l’appellante non ha confutato la rispondenza di dette
considerazioni a corretti metodi scientifici, né ne ha motivatamente messo in
dubbio la rilevanza nell’ambito complessivo dell’istruttoria che ha condotto
all’adozione del decreto impugnato.
161
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Deve perciò ritenersi che, sulla base di simili elementi di valutazione,
correttamente i Ministeri resistenti abbiano ritenuto che, non prevedendo
l’autorizzazione 98/294/CE alcuna misura di gestione, e non avendo la
Commissione ritenuto di intervenire per imporne l’attuazione, ai sensi dell’art. 53
del regolamento n. 178/2002, il mantenimento della coltura del mais MON 810
senza adeguate misure di gestione non tutelasse a sufficienza l’ambiente e la
biodiversità. Così da imporre l’adozione della misura di emergenza contestata
dall’appellante.
Del resto, l’applicazione del principio di precauzione postula l’esistenza di un
rischio potenziale per la salute e per l'ambiente, ma non richiede l'esistenza di
evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra la causa, oggetto di divieto
o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o ridurre (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, V, 10 settembre 2014, n. 4588 e 11 luglio 2014, n. 3573); e
comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad
un'attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in
una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze
scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali
(cfr., da ultimo, Cons. Stato, IV, 11 novembre 2014, n. 5525).
Presupposti, quelli descritti, la cui sussistenza sembra adeguatamente evidenziata
nel decreto impugnato.
6.9. Tutte le censure dedotte dall’appellante si dimostrano pertanto infondate.
La domanda risarcitoria (argomentata dall’appellante con riferimento ad un preteso
comportamento delle Amministrazioni non lineare, parziale e negligente nella
valutazione delle opinioni dell’EFSA, ma senza specificazione del tipo di danno
subito) segue la sorte di quella di annullamento del provvedimento (senza che vi
sia bisogno di valutare se, come sostengono le Amministrazioni appellate, si tratti
di domanda non proposta in primo grado, e quindi inammissibile).
7. L’appello deve pertanto essere respinto, con conseguente conferma della
sentenza appellata, sia pure con la motivazione (parzialmente) diversa esposta ai
punti precedenti.
Considerata la novità di alcuni aspetti delle questioni affrontate, sussistono
giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti anche delle
spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente
pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
162
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2014
Depositata in segreteria il 06/02/2015
163
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Enrica Blasi*
I nuovi margini del potere decisionale degli stati europei in materia di organismi
geneticamente modificati.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il confronto tra stati e istituzioni europee in materia
di organismi geneticamente modificati. – 3. La vicenda in esame. – 4. Gli indizi di
un cambiamento di prospettiva. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La pronuncia del Consiglio di Stato n. 605, del 6 febbraio 2015, giungendo
al termine di un ampio contenzioso1, ha confermato la legittimità del decreto 12
luglio 20132, con il quale il Ministero della Salute aveva temporaneamente vietato
la coltivazione, sul territorio nazionale, di una varietà di mais geneticamente
modificato (Mon810), che pure era stata autorizzata dalla Commissione europea3
ed inserita nel catalogo comune di cui alla direttiva 2002/53/CE4.
Così statuendo, il giudice amministrativo si è collocato a pieno titolo tra gli
attori di quel processo evolutivo che caratterizza, ormai da più di un decennio, la
disciplina degli organismi geneticamente modificati e che nel tempo ha condotto
alla sempre più marcata contrapposizione tra la le istituzioni europee (in particolar
modo la Commissione e la Corte di Giustizia) e i singoli stati membri: le prime
intenzionate ad accentrare a livello europeo ogni scelta autorizzativa, i secondi
*Dottore di ricerca in diritto amministrativo, Università degli Studi di Roma Tre.
1
La sentenza del Consiglio di Stato ha confermato la pronuncia del T.A.R. Lazio n. 4410, del 23
aprile 2014, con la quale il giudice di prime cure aveva rigettato il ricorso proposto dal Signor Giorgio
Fidenato per l’annullamento del decreto interministeriale del 12 luglio 2013. Il giudizio di legittimità
si inserisce nell’ambito di un ben più ampio contenzioso che ha coinvolto, anche sul piano penale, il
signor Fidenato, quale coltivatore, in territori situati in Friuli Venezia Giulia, di mais geneticamente
modificato della linea Mon810. Sul punto vedi infra.
2
Si tratta del D.m. 12 luglio 2013, adottato dal Ministro della Salute, di concerto con il Ministro delle
politiche agricole alimentari e forestali e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 187, del 10 agosto 2013. Tale
decreto dispone il divieto di coltivare mais Mon810 sul territorio nazionale per un periodo non
superiore a diciotto mesi, ed è stato prorogato per altrettanti mesi dal D.m. del 22 gennaio 2015,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 33, del 10 febbraio 2015.
3
L’autorizzazione era stata rilasciata dalla Commissione con decisione 98/294/CE del 22 aprile 1998,
al termine di un procedimento svolto ai sensi della direttiva 90/220/CEE.
4
Direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle varietà
delle specie di piante agricole, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee del 20
luglio 2002.
164
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
animati dall’intento di preservare i propri margini di autonomia decisionale,
quand’anche esercitati in contraddizione con le scelte adottate a livello europeo.
A ben vedere, le due antitetiche posizioni costituiscono il riflesso di una
duplice caratterizzazione degli organismi geneticamente modificati, quali beni
economicamente rilevanti, la cui libera circolazione sul mercato sia garantita
mediante il ravvicinamento delle normative nazionali5, ma anche quali prodotti
agricoli destinati ad uso alimentare6, di cui valutare e assicurare l’assenza di rischi
ambientali per le colture limitrofe, e di rischi sanitari per il consumatore7.
Proprio sotto questo secondo aspetto, la mancanza di certezze scientifiche
circa le possibili conseguenze, di medio e lungo termine, derivanti dalla
produzione, coltivazione e assunzione alimentare di organismi geneticamente
modificati, ha spostato il conflitto dal piano della contrapposizione di interessi8 a
quello del confronto tra i principi atti a soddisfarli, imponendo un bilanciamento tra
5
Cfr. art. 22 della direttiva 2001/18/CE, che pone come principio generale in materia di organismi
geneticamente modificati la libera circolazione degli OGM, come tali o contenuti in prodotti.
Per una ricostruzione del rapporto tra la tutela dell’ambiente e la libera circolazione delle merci in
dottrina si rinvia a M. MONTINI, Commercio e ambiente: bilanciamento tra tutela ambientale e libera
circolazione delle merci nella giurisprudenza della CGCE, in Dir. com. sc. int., 2002, 4; F. CAPELLI,
Tutela dell’ambiente e libera circolazione delle merci: due principi a confronto, in Dir. com. sc. int.,
2003, 3, pag. 621 ss.; F. DE LEONARDIS, La disciplina dell’ambiente tra Unione Europea e Wto, in
Dir. amm., 2004, 3, pag. 513. Si consideri, inoltre, che l’art. XX dell’Accordo Generale sulle Tariffe
doganali e sul Commercio – Gatt del WTO, ancora vigente, consente la limitazione della libera
circolazione dei beni a condizione che essa sia necessaria alla «protezione della salute e della vita
delle persone, degli animali o alla preservazone dei vegetali» o se tali restrizioni sono «relative alla
conservazione delle risorse naturali esauribili». Sul punto v. L. MIGLIORINO, Le eccezioni
“ambientali” ai principi del Gatt nella prassi dei panels, in Dir. comm. int., 1997, 3, pag. 674.
6
Invero, gli organismi geneticamente modificati non sono necessariamente vegetali, poiché può
trattarsi anche di specie animali. Tuttavia la quasi totalità degli OGM presenti sul territorio europeo
sono di tipo vegetale, ed anche la controversia in esame nel presente contributo si riferisce ad una
linea di mais geneticamente modificato (il Mon810).
7
Cfr. G. SPOTO, Tutela del consumatore e sicurezza alimentare: obblighi di informazione in etichetta,
in Contratto e impresa, 2014, pag. 1084.
8
La conflittualità tra interesse ambientale e interessi economici non costituisce certamente un
fenomeno recente, anzi, essa è stata considerata da parte di alcuna dottrina come l’inevitabile
conseguenza dell’emersione dell’interesse ambientale, che ha imposto un bilanciamento con gli
interessi già esistenti, ponendosi in posizione conflittuale rispetto ad essi. A tale proposito si veda G.
ROSSI, Diritto dell’ambiente, Giappichelli, Torino, II ed., 2011, pag. 20; M. CLARICH, La tutela
dell’ambiente attraverso il mercato, in Dir. pubbl., 2007, 1, pag. 219; M. CAFAGNO, Principi e
strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Giappichelli, Torino,
2007, pag. 327 ss.; D. CASALINI, Tutela dell’ambiente, tutela della concorrenza e principio di
proporzionalità nella durata dei monopoli naturali, in Foro amm.-CdS, 2010, 9, pag. 955; F.
FRACCHIA, Climate change e diritto: alla ricerca del corretto approccio metodologico del giurista di
fronte ai problemi dello sviluppo sostenibile, in Economia delle fonti di energia e dell’ambiente,
2010, 1, pag. 68.
165
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
le esigenze di armonizzazione normativa9 e quelle di differenziazione delle
discipline nazionali, secondo un criterio di sussidiarietà verticale10 e per finalità di
precauzione11.
9
Il principio di armonizzazione o di ravvicinamento delle disposizioni normative è disciplinato
all’articolo 114 del TFUE (ex art. 95 TCE). Per alcuni contributi in dottrina si rinvia a R. ADAM, Il
diritto del mercato interno: l’articolo 100 A e l’armonizzazione delle legislazioni, in Riv. dir. eur.,
1993, pag. 681 ss.; R. CAFARI PANICO, Il principio di sussidiarietà e il ravvicinamento delle
legislazioni nazionali, in Riv. dir. eur., 1994, pag. 53 ss.; M. MELI, Armonizzazione del diritto
europeo e quadro comune di riferimento, in Europa e dir. priv., 2008, 1, pag. 59 ss.; C. CASTRONOVO,
Armonizzazione senza codificazione: la penetrazione asfittica del diritto europeo, in Europa e dir.
priv., 2013, 4, pag. 905.
10
Si consideri sul punto l’ampia produzione normativa di livello regionale, per la cui ricostruzione si
rinvia a L. MARINI, OGM, precauzione e coesistenza: verso un approccio (bio)politicamente
corretto?, in Riv. giur. amb. 2007, 1, pag. 1 ss.; ID., La “sostanziale equivalenza” dei prodotti
alimentari geneticamente modificati alla luce della sentenza Monsanto e degli sviluppi della
normativa comunitaria”, in Dir. comm. internaz., 2003, 4, pag. 829 ss.; A. SPINA, La
regolamentazione degli OGM nelle leggi regionali, in Riv. giur amb., 2006, 3-4, 563 ss.; E.
STEFANINI, Regioni OGM free: ma è davvero possibile? Prime note sulla coesistenza tra colture
trasngeniche, traizionali e biologiche, in Dir. pubb. comp. eur., 2006, pag. 496. Per approfondimenti
sul principio di sussidiarietà si rinvia a S. CASSESE, L’aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e
diritti amministrativi nell’area europea, in Foro it., 1995, V, pag. 373 ss.; M. RENNA, I principi di
sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, in M. RENNA – F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi
del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012.
11
Per approfondimenti sul principio di precauzione si rinvia a: S. GRASSI, Prime osservazioni sul
principio di precauzione nel diritto positivo, in Dir. gest. amb., 2001, pag. 45 ss.; F. DE LEONARDIS, Il
principio di precauzione nell’amministrazione del rischio, Giuffrè, Milano, 2005; ID., Il principio di
precauzione, in M. RENNA – F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano,
2012; M. RENNA, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in questa Rivista, 2012, 1-2. Con
riferimento alla precauzione nel particolare settore degli organismi geneticamente modificati si rinvia
a: I. CANFORA, La procedura per l’immissione in commercio di ogm e il principio di precauzione, in
Dir. giur agr. e amb., 2001, pag. 375; F. ROSSI DAL POZZO, Profili comunitari e internazionali della
disciplina degli organismi geneticamente modificati, Giuffrè, Milano 2005; M. SOLLINI, Il principio di
precauzione nella disciplina comunitaria della sicurezza alimentare, Giuffrè, Milano 2006; G.
GALASSO, Il principio di precauzione nella disciplina degli OGM, Giappichelli, Torino, 2006; F.
BRUNO, Principio di precauzione e organismi geneticamente modificati, in Riv. dir. agr., 2000, II,
pag. 224 ss.; R. PAVONI, Misure unilaterali di precauzione, prove scientifiche e autorizzazioni
comunitarie al commercio di organismi geneticamente modificati: riflessioni a margine del caso
Greenpeace, in Dir. com. scam. internaz. 2000, pag. 733; A. BARONE, Organismi geneticamente
modificati e precauzione: il rischio alimentare tra diritto comunitario e diritto interno, in Foro it. IV,
2004, pag. 248; L. MARINI, Principio di precauzione, sicurezza alimentare e organismi geneticamente
modificati nel diritto comunitario, in Dir. un. Eur., 2004, 2, pag. 7 ss.; ID., OGM, precauzione e
coesistenza: verso un approccio (bio)politicamente corretto?, in Riv. giur. amb. 2007, pag. 1 ss.; D.
DI BENEDETTO, La disciplina degli organismi geneticamente modificati tra precauzione e
responsabilità, ESI, Napoli, 2011; L. TUMMINELLO, Sicurezza alimentare e diritto penale: vecchi e
nuovi paradigmi tra prevenzione e precauzione, in Dir. pen contemp., 2013, pag. 5 ss.; F.
GIAMPIETRO, Rischio, ambiente e principio di precauzione nella direttiva sugli OGM, in Ambiente,
2001, pag. 951 ss.; A. GRATANI, La strategia precauzionale e le biotecnologie, in Ambiente, 2001,
pag. 1045 ss.; R. FERRARA, Valutazione di impatto ambientale e organismi geneticamente modificati:
alle origini del problema, in Foro amm.-TAR, 2002, 10, pag. 3456 ss..
166
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
In questo contesto, l’uniformità disciplinare, fortemente voluta dalla
Commissione europea (ed avallata dalle pronunce della Corte di Giustizia), è stata
nei fatti vanificata dalle numerose iniziative statali volte a limitare, sospendere o
vietare la coltivazione o la commercializzazione degli OGM sui territori di
competenza o parte di essi12, facendo ricorso ad ogni possibile strumento giuridico
offerto dalla normativa vigente (clausole di salvaguardia13, misure di emergenza14,
misure di coesistenza15, deroghe al ravvicinamento delle legislazioni16).
Il decreto ministeriale 12 luglio 2013 costituisce, a tal proposito, solo il più
recente esempio dell’atteggiamento “disobbediente”17 assunto dal nostro paese nei
confronti della Commissione europea, e dunque la sentenza in commento, che ne
ha confermato la validità, offre lo spunto per una riflessione proprio sul rapporto
tra gli stati e le istituzioni europee nell’adozione di scelte inerenti gli organismi
geneticamente modificati.
L’interesse dell’indagine appare ulteriormente ravvivato dalla pubblicazione,
a solo un mese di distanza dalla pronuncia in commento, della Direttiva
2015/412/UE18, che ha definitivamente consacrato gli sforzi compiuti dagli stati al
fine di erodere la granitica posizione della Commissione e della Corte di Giustizia,
formalizzando quella potestà decisionale da essi a lungo rivendicata (sebbene solo
con riferimento alla coltivazione di OGM e non al loro commercio).
Il presente contributo, ripercorrendo le principali tappe giurisprudenziali che
hanno segnato il divario di posizioni tra stati e istituzioni europee, si propone di
12
Sul riparto di competenze tra Stato e regioni nella materia in esame si è pronunciata anche la Corte
Costituzionale, con la sentenza n. 116 del 17 marzo 2006, che ha confermato la competenza statale
nella definizione di misure unitarie di coesistenza (contenute nel D.l. n. 279/2004, convertito in L. n.
5/2005), trattandosi di competenze afferenti alla materia trasversale dell’ambiente e della tutela della
salute, rimesse all’esclusiva potestà legislativa statale. Per una completa disamina si rinvia a: A.
SPINA, La regolamentazione degli OGM nelle leggi regionali, in Riv. giur. amb., 2006, 3-4¸ pag. 563;
M. MOTRONI, La disciplina degli ogm a metà tra “tutela dell’ambiente” e “agricoltura”, ovvero
della problematica “coesistenza di competenze legislative statali e regionali; in Riv. dir. agr., 2006,
pag. 187 ss.; P. PASSAGLIA, La ripartizione delle competenze legislative tra stato e regioni in ordine
alla disciplina degli organismi geneticamente modificati. Un presente incerto, un futuro da definire,
in Federalismi.it, 2005, 15, pag. 6 ss.
13
Cfr. art. 23 della Direttiva 2001/18/CE.
14
Cfr. art. 34 del Regolamento 1829/2003/CE e art. 54 del Regolamento 178/2002/CE.
15
Cfr. art. 26-bis della Direttiva 2001/18/CE.
16
Art. 95, par. 5 del TCE, oggi art. 114 del TFUE, rubricato “Ravvicinamento delle legislazioni”.
17
Per usare una terminologia adottata in E. SIRSI, Le regole per gli ogm nello spazio globale:
un’agenda per i governanti del futuro, in Riv. dir. agr., 2010, pag. 467.
18
Direttiva 2015/412/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 marzo 2015, che modifica la
Direttiva 2001/18/CE per quanto concerne la possibilità per gli stati membri di limitare o vietare la
coltivazione di organismi geneticamente modificati (OGM) sul loro territorio, pubblicata nella
Gazzetta ufficiale dell’Unione europea in data 13 marzo 2015.
167
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
illustrare il contesto giuridico che ha fatto da sfondo alla pronuncia del Consiglio di
Stato in commento, al fine di coglierne i profili di novità e gli eventuali elementi
rivelatori di un possibile cambiamento futuro.
2. Il confronto tra stati e istituzioni europee in materia di organismi
geneticamente modificati.
Gli organismi geneticamente modificati sono il simbolo dell’evoluzione
raggiunta nel settore delle biotecnologie19, poiché sono generati “artificialmente”
dalla manipolazione del dna di organismi preesistenti20, risultando così del tutto
diversi da ogni altro esemplare originabile mediante le naturali pratiche di
accoppiamento o ricombinazione genetica21.
Le finalità cui risponde la creazione di tali organismi sono varie, e vanno
dalla maggiore tolleranza a fattori di aggressione, sia naturali che artificiali
19
Il primo riferimento normativo alle biotecnologie è contenuto nella Convenzione sulla diversità
biologica, sottoscritta dalla Comunità europea e da tutti gli stati membri alla Conferenza delle Nazioni
Unite sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro, il 5 giugno 1992 (ratificata dall’UE con la
decisione 93/626/CEE e dall’Italia con la legge del 14 febbraio 1994, n. 124). La definizione di
“biotecnologie” che si legge nella convenzione è la seguente: «tutte le applicazioni tecnologiche che
utilizzano sistemi biologici, organismi viventi, e loro derivati, per realizzare o modificare prodotti o
procedimenti ad uso specifico». Si consideri inoltre che nella Comunicazione della Commissione “La
biotecnologia e il libro bianco sulla crescita, la competitività e l’occupazione: preparare i prossimi
sviluppi” (pubblicata in GUCE n. C276, del 3 ottobre 1994), le biotecnologie sono definite come
“settore strategico” per la crescita economica europea.
Per alcuni contributi in dottrina si rinvia a A. GRATANI, Disciplina comunitaria e internazionale a
confronto sulle biotecnologie, in Ambiente, 2001, pag. 959; G. POLI, Biotecnologie. Principi ed
applicazioni dell’ingegneria genetica, Giuffrè, Milano, 1997; B. NASCIMBENE, Biotecnologie, principi
di diritto comunitario e giurisprudenza della Corte di giustizia, in Contratto e impresa, 2003, pag.
266 ss.; V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un nuovo diritto dei
brevetti, in Contratto e impresa, 2003; L. COSTATO, Le biotecnologie, il diritto e la paura, in Riv. dir.
agr., 2007; G. COCCO, Biotecnologie: vietato vietare. Almeno senza sapere, in Rass. dir. pubbl. eur.
2004.
20
Nel 1971 i due biologi americani Stanley Cohen e Herber Boyer individuarono il cd. enzima di
restrizione, che consente di “tagliare” il dna in punti specifici, al fine di estrarre o inserire
informazioni genetiche diverse da quelle originarie, e provenienti da organismi appartenenti a specie
diverse. Cfr. A. BORDIN, Trasformazioni del dna, ingegneria genetica, in Amb. e svil., 2014, 1; S.
BATTINI, L’amministrazione europea degli OGM dinanzi al WTO: il caso Ec-Biotech, in
Amministrazioni nazionali e controversie globali, 2007, Giuffrè, Milano; C. CORATELLA, Libertà
vigilata per gli Ogm in Europa, in Dir. e giust., 2005, 29, pag. 94.
21
Ai sensi della definizione contenuta all’articolo 2, par. 1, n. 2) della direttiva 2001/18/CE, è
organismo geneticamente modificato ogni «organismo diverso da un essere umano, il cui materiale
genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura con l’accoppiamento e/o la
ricombinazione genetica naturale». Il numero 1) del medesimo articolo 2, par. 1, offre inoltre la
nozione di organismo, come «qualsiasi entità biologica capace di riprodursi o di trasferire materiale
genetico».
168
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
(resistenza a diserbanti, fattori abiotici o biotici, parassiti), fino al miglioramento
del contenuto nutrizionale o della capacità di conservazione dei cibi22.
Questi possibili benefici sono però controbilanciati dai numerosi svantaggi
temuti, in termini sia di impatto sull’ambiente (ed in particolare sulla
biodiversità23), che di incidenza sulla salute umana, con l’ulteriore “aggravante”
dall’irreversibilità degli effetti eventualmente prodotti24 e dell’incertezza scientifica
circa il loro verificarsi (sia nell’an che nel quando)25.
Proprio per questo, diversamente da quanto avvenuto negli Stati Uniti26,
l’Europa ha accolto gli organismi geneticamente modificati con un certo
scetticismo27, valorizzando un approccio precauzionale, se non altro a causa del
timore nutrito da alcuni stati di perdere i vantaggi economici derivanti dalla
22
Si pensi alla qualità di riso arricchito con la vitamina A (cd. golden rice) sperimentato per la prima
volta nelle Filippine e finalizzato ad essere consumato nelle zone in cui la malnutrizione infantile
causa la cecità. Per approfondimento si rinvia agli studi BCFN, L’agricoltura OGM è sostenibile? Le
colture transgeniche di fronte ai problemi dell’accesso al cibo, dell’ambiente e della salute, 2010 e
BCFN, Oltre gli OGM. Le biotecnologie in ambito agroalimentare, 2011, su www.barillacfn.com.
23
Come si legge nella Raccomandazione della Commissione del 23 luglio 2003, la possibilità di
contaminazione accidentale di colture convenzionali con organismi geneticamente modificati è molto
alta e può dipendere da innumerevoli cause, come la «dispersione di polline tra particelle limitrofe a
distanze più o meno grandi, di mescolanza di colture durante il raccolto o nelle operazioni che
seguono il raccolto, di trasferimento di sementi o altro materiale vegetale vitale nel corso del raccolto,
del trasporto e del magazzinaggio e, in una certa misura, ad opera di animali, di piante spontanee, di
impurezze delle sementi».
24
Cfr. considerando n. 4 della Direttiva 2001/18/CE.
25
Gli OGM rappresentano oggi una quota crescente nelle produzioni agricole di alcuni stati, aspetto
che ha reso necessarie alcune riflessioni anche in ordine alle ripercussioni commerciali che può avere
l’adozione di un approccio più severo sul piano della tutela ambientale e sanitaria. Come si legge
nell’annuario 2013 redatto da INEA (Istituto nazionale di economia agraria), nel 2012 le colture
OGM nel mondo hanno impegnato circa 170,3 milioni di ettari, ovvero il 21% della superficie
complessivamente coltivata, coinvolgendo 17,3 milioni di agricoltori in 28 paesi diversi. In cima alla
classifica vi sono gli Stati Uniti, che coltivano a OGM 69,5 milioni di ettari, ovvero il 41% delle
coltivazioni totali, seguiti dal Brasile, con 36,6 milioni, l’Argentina (23,9 milioni), Canada (22,6
milioni) e India (10,8 milioni). A fronte di tali cifre appare irrisoria la coltivazione di OGM in
Europa, che raggiunge lo 0,06% del territorio europeo destinato a coltivazione agricola e lo 0,1%
della produzione globale di OGM. In Europa, il 99% degli OGM vegetali venduti è prodotto da
cinque multinazionali: Dupont, Monsanto, Novartis, Zeneca, Aventis.
26
Cfr. S. BATTINI, L’amministrazione europea degli OGM dinanzi al WTO: il caso Ec-Biotech, in
Amministrazioni nazionali e controversie globali, 2007, Giuffrè, Milano; M. P. BELLONI, Nel limbo
degli OGM: tra divergenze interpretative e disciplinari, alla ricerca di un accordo tra Stati Uniti e
Unione europea. È questione di etichetta, ma anche di etica, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2006, 1,
pag. 129.
27
Cfr. J.C. BUZBY, Effects of Food-Safety Perceptions on Food Demand and Global Trade, 2002, sul
sito www.firstgov.gov/fsearch; J. KINDERLERER, Genetically Modified. A European Scientist's View,
in New York University Environmental Law Journal; N. SALOMON, A European Perspective on the
Precautionary Principle, Food Safety and the Free Trade Imperative of the WTO, in European Law
Review, 2002.
169
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
titolarità di un patrimonio enogastronomico tutelato anche sul piano giuridico (si
pensi ad esempio ai numerosi prodotti marchiati made in Italy)28.
Sebbene inevitabilmente queste tematiche richiamino alla mente
considerazioni di tipo economico29, etico30, scientifico o sociologico, le lenti del
giurista impongono di orientare l’analisi con specifico riferimento alle modalità
attraverso le quali la ricordata incertezza scientifica sia stata ricondotta nell’ambito
di idonei strumenti decisionali, nonché con riguardo alla ripartizione di competenze
tra i soggetti a vario titolo coinvolti31.
Dal punto di vista normativo, la prima disciplina di rango europeo dedicata
agli organismi geneticamente modificati risale agli anni Novanta (Direttive
219/90/CEE32 e 220/90/CEE33), ed è stata nel tempo aggiornata ed arricchita da una
28
Il tentativo degli stati europei di prevenire tale rischio è stato costante, se solo si considera che nel
corso del Consiglio di ministri dell’ambiente del 24 e 25 giugno 1999, cinque stati (Francia, Italia,
Grecia, Danimarca e Lussemburgo) hanno disposto una vera e propria moratoria europea al rilascio di
nuove autorizzazioni all’impiego di OGM fino al 2003, dichiarando che avrebbero utilizzato tutti i
mezzi previsti dalla direttiva 90/220/CEE per impedire il rilascio di nuove autorizzazioni
all’immissione in commercio di prodotti derivanti da OGM. La moratoria si è conclusa nel 2003, con
l’adozione dei nuovi regolamenti sull’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti alimentari contenenti
OGM (Regolamento n. 1829/2003 e 1830/2003). Cfr. R. BIANCHI, Il compromesso europeo sugli ogm
e il caso italiano del Parmigiano Reggiano, in Amb. e svil., 2015, 1, pag. 35; V. RINALDI, Il confronto
tra stati membri ed unione europea in materia di ogm nella giurisprudenza nazionale e comunitaria,
in Dir. comm. inter., 2014, 4, pag. 1011 ss.. Si consideri inoltre che nel novembre 2003 è stata istituita
una rete europea delle regioni libere dagli OGM, la “European gmo free regions network”,
originariamente composta da dieci regioni europee che hanno siglato una dichiarazione congiunta poi
inviata all’Europarlamento con la richiesta di tutela le loro politiche agricole che possano essere
disturbate dall’introduzione di OGM: l’accordo ha solo un valoro politico e non è giuridicamente
vincolante ed è stato seguito da una serie di principi contenuti nelle cd. Carta di Firenze”, sottoscritta
nel 2005. Sino ad oggi, in Italia si sono dichiarate OGM free 16 Regioni su 20, 41 Province e 2446
Comuni.
29
Cfr. G. BRUNORI, Come analizzare l’impatto socio-economico degli Ogm, in Amb. e svil., 2014, 1.
30
Cfr. M. MENSI, Ogm: organismi geneticamente etici?, in Amb. e svil., 2014, 1; E. CAPOBIANCO,
Bioetica, diritto e valori fondamentali della persona, in Amm. pol., 1998, pag. 615 ss.; A.
SANTOSUOSSO, Bioetica e diritto, in A. BARNI – A.SANTOSUOSSO, Medicina e diritto, Giuffrè, Milano
1995, pag. 21. Inoltre, un richiamo agli aspetti etici è contenuto anche all’interno dei considerando nn.
9, 57 e 58 della Direttiva 2001/18/CE.
31
Cfr. F. FONDERICO, limiti e standard, in S. GRASSI – M.A. SANDULLI, I procedimenti amministrativi
per la tutela dell’ambiente, in R. FERRARA – M.A. SANDULLI, Trattato di diritto dell’ambiente 2014,
Giuffrè, Milano.
32
Direttiva 219/90/CEE del Consiglio, del 23 aprile 1990, sull’impiego confinato di microrganismi
geneticamente modificati, abrogata con l’entrata in vigore della Direttiva 2009/41/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 6 maggio 2009, sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente
modificati. CFR. S. BELTRAME, Emissione deliberata nell’ambiente di OGM: attuazione della direttiva
2001/18/CE, in Ambiente, 2003
170
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
serie di disposizioni specificamente dedicate alle singole fasi della filiera
produttiva e commerciale degli OGM (i.e. emissione deliberata a scopo
sperimentale34 e immissione in commercio35), nonché alle possibili utilizzazioni
degli stessi come mangimi, alimenti o ingredienti36.
Ne è derivata una stratificazione di principi (in primis quelli di precauzione37
e libera circolazione38), di fonti normative, di procedure autorizzative, di fattispecie
derogatorie, che ha reso all’interprete piuttosto difficile orientarsi nel complessivo
quadro giuridico di riferimento, peraltro ulteriormente complicato dal tecnicismo
della materia e dal carattere multilivello delle competenze in esso contemplate39.
33
Direttiva 220/90/CEE del Consiglio del 23 aprile 1990 sull’emissione deliberata nell’ambiente di
organismi geneticamente modificati, abrogata dalla Direttiva 2001/18/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio del 12 marzo 2001, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente
modificati. Tale ultima direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 224/2003. Per
un primo commento si rinvia a F. GIAMPIETRO, Il D.lgs. 3 marzo 1993, n. 91 sugli organismi
geneticamente modificati: la nuova frontiera della tutela ambientale, in Foro amm., 1993, pag. 2270;
P. SHENKELEARS, Immissione nell’ambiente di organismi geneticamente modificati, in Riv. giur. amb.,
1990, pag. 46; R. MONTANARO, La normativa italiana in materia di OGM e MOGM, in Ambiente,
2001, pag. 973; L. PRATI – F. MASSIMINO, Organismi geneticamente modificati, dallo alla salute e
danno ambientale, in Danno e resp., 2001. Per un quadro aggiornato della disciplina vigente si rinvia
a A. LUPO, Sostenibilità del settore agro-alimentare, biotecnologie e food safety nell’Unione europea:
il paradigma degli organismi geneticamente modificati, in questo numero della Rivista.
34
Ai sensi dell’articolo 2, par. 1, punto 3) della Direttiva 2001/18/CE, per emissione deliberata si
intende «qualsiasi introduzione intenzionale nell'ambiente di un OGM o una combinazione di OGM
per la quale non vengono usate misure specifiche di confinamento, al fine di limitare il contatto con la
popolazione e con l'ambiente e per garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi». Tale
emissione si fonda sul principio dell’introduzione nell’ambiente per gradi, come enunciato nel
considerando n. 24, ed avviene previa autorizzazione.
35
Ai sensi dell’articolo 2, par. 1, punto 4) della Direttiva 2001/18/CE, per immissione in commercio
si intende «la messa a disposizione di terzi, dietro compenso o gratuitamente. Non costituiscono
immissione in commercio le seguenti operazioni: a) la messa a disposizione di microrganismi
geneticamente modificati per attività disciplinate dalla Direttiva 219/90/CEE del Consiglio, del 23
aprile 1990 sull'impiego confinato di organismi geneticamente modificati, comprese le attività che
comportano collezioni di colture; b) la messa a disposizione di OGM diversi dai microrganismi di cui
al primo trattino, destinati ad essere impiegati unicamente in attività in cui si attuano misure rigorose
e specifiche di confinamento atte a limitare il contatto di questi organismi con la popolazione e con
l'ambiente e a garantire un livello elevato di sicurezza per questi ultimi; tali misure dovrebbero basarsi
sugli stessi principi di confinamento stabiliti dalla Direttiva 219/90/CEE; c) la messa a disposizione di
OGM da utilizzarsi esclusivamente per emissioni deliberate a norma della parte B della presente
direttiva». La procedura di autorizzazione all’immissione in commercio di OGM è contenuta nella
Parte C della Direttiva 2001/18/CE.
36
Cfr. il Regolamento 258/97 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 gennaio 1997 sui nuovi
prodotti e i nuovi ingredienti alimentari e il Regolamento 1829/2003 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 22 settembre 2003 relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati.
37
Cfr. considerando n. 8, e art. 4 della Direttiva 2001/18/CE.
38
Cfr. art. 22 della Direttiva 2001/18/CE.
39
A. ODDENINO, La disciplina degli organismi geneticamente modificati. Il quadro di diritto
comunitario, in R. FERRARA, I. M. MARINO (a cura di), Gli organismi geneticamente modificati,
171
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Sul piano applicativo, gli stati hanno fatto ricorso assai di frequente alle
molteplici clausole di salvaguardia previste dalle disposizioni normative40, così
vanificando l’intento di uniformità disciplinare e lasciando trasparire la volontà di
ampliare i margini della propria autonomia decisionale in materia di OGM.
Dinanzi ai ripetuti tentativi degli stati di “emanciparsi” dalla volontà della
Commissione, la Corte di Giustizia, timorosa circa il fatto che tali misure
precauzionali nascondessero in verità un intento protezionistico, ha sempre opposto
una strenua resistenza41.
Nel noto caso Greenpeace42 (sentenza del 21 marzo 2000, in C-6/99), il
giudice europeo, chiamato a pronunciarsi in via pregiudiziale dal Conseil d’Etat
francese, ha chiarito che nell’ambito del procedimento di autorizzazione alla prima
immissione in commercio di OGM la discrezionalità degli stati si esaurisce con la
trasmissione alla Commissione della relazione di valutazione, essendo obbligatorio
(e non facoltativo) il recepimento di quanto deciso a livello europeo43.
Cedam, Padova, 2003; S. BELTRAME, Emissione deliberata di OGM: attuazione della direttiva
2001/18, in Ambiente, 2003, 1121; L. GRADONI, La nuova direttiva comunitaria sugli organismi
geneticamente modificati, in Riv. dir. agr., 2001, 427; P. DABROWSKA, The division of powers
between the Eu and the Members States with regard to deliberate release of GMOs (the new directive
2001/18), in German Law Journal, 2002, 3; E. TSIOUMANI, Genetically Modified organisms in the Eu:
Public attitudes and regulatory developments, in Reciel, 2004, 3, 13.
40
Si tratta di ipotesi in cui la modifica dell’autorizzazione già rilasciata era consentita, dalla
normativa applicabile, in presenza di nuove informazioni, nuove valutazioni delle precedenti
informazioni (art. 12 del Regolamento 258/97, art. 23 della Direttiva 2001/18/CE), nuovi rischi per la
salute o l’ambiente, o altre circostanze emergenziali (art. 34 del Regolamento 1829/2003), nonché
misure volte ad evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti o altre colture (art. 26-bis
della Direttiva 2001/18/CE).
41
Del resto, questo rappresenta un timore presente, in maniera generalizzata, dinanzi all’adozione di
misure precauzionali da parte degli stati, come si legge nella Comunicazione della Commissione
COM(2000)1 sul principio di precauzione, pag. 8: «Un altro obiettivo è evitare un ingiustificato
ricorso al principio di precauzione, che in alcuni casi potrebbe fungere da giustificazione per un
protezionismo mascherato».
42
Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 21 marzo 2000, in C-6/99. Cfr. I. CANFORA, La procedura per
l’immissione in commercio di ogm e il principio di precauzione, in Dir. giur agr. e amb., 2001, pag.
375; L. COSTATO, Ogm ora tocca alla Corte, in Riv. dir. agr., 2000, 2, pag. 124; A. GRATANI, La
tutela della salute e il rispetto del principio precauzionale a livello comunitario. Quando le autorità
nazionali possono impedire la circolazione di ogm all’interno del proprio territorio, in Riv. giu. amb.,
2000, 3-4, pag. 457 ss.; A. MASTROMATTEO, A lost opportunity for european regulation of genetically
modified organism, in Eur. Law Rev, 2000, 4, pag. 425; R. PAVONI, Misure unilaterali di precauzione,
prove scientifiche e autorizzazioni comunitarie al commercio di organismi geneticamente modificati:
riflessioni a margine del caso Greenpeace, in Dir. com. sc. int., 2000, pag. 733.
43
La questione di interpretazione pregiudiziale sottoposta alla Corte di Giustizia dal Conseil d’Etat
francese era derivata dall’impugnazione, proposta dall’associazione Greenpeace, del decreto adottato
dal Ministero dell’agricoltura francese in data 4 febbraio 1997 di recepimento, ai sensi dell’articolo
13 della Direttiva 220/90/CEE, della decisione adottata dalla Commissione in ordine all’immissione
in commercio di una varietà di mais OGM (decisione 97/98 della Commissione del 27 gennaio 1997).
172
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Successivamente, la Corte ha interpretato restrittivamente anche la
possibilità per gli stati di adottare misure restrittive nei riguardi di OGM già
autorizzati, e dunque disciplinati come “prodotti esistenti” (ai sensi del
Regolamento 258/97).
Nella pronuncia Monsanto44 (sentenza del 9 settembre 2003, in C-236/01),
infatti, la Corte è stata chiamata dal T.A.R. Lazio a valutare la compatibilità col
diritto europeo del D.p.c.m. 4 agosto 2000, con cui era stata disposta la sospensione
temporanea di alcune varietà di granturco geneticamente modificato, inizialmente
autorizzate dalla Commissione ai sensi della Direttiva 90/220/CE (Decisione n.
98/294), e successivamente circolanti sul mercato europeo come novel foods ai
sensi del Regolamento 258/97.
In tale occasione, il giudice europeo ha interpretato restrittivamente
l’articolo 12 del Regolamento 258/9745, negando la possibilità per gli stati di
vietare o sospendere, su tale base giuridica, il commercio e l’utilizzazione di OGM
già autorizzati, in assenza di nuove prove circa i rischi derivanti dagli stessi
Sul punto, la Corte ha ritenuto che «qualora, a seguito della trasmissione alla Commissione di una
domanda di immissione in commercio di un OGM, nessuno stato membro abbia sollevato obiezioni,
in conformità all’art. 13, n. 2 della detta direttiva, o qualora la Commissione abbia adottato una
decisione favorevole ai sensi del n. 4 della stessa norma, l’autorità competente che ha trasmesso alla
Commissione la domanda con parere favorevole è tenuta a rilasciare il consenso scritto che permette
l’immissione in commercio del prodotto. Tuttavia, ove lo stato membro interessato nel frattempo sia
entrato in possesso di nuove informazioni che lo inducono a ritenere che il prodotto oggetto della
notifica possa essere pericoloso per la salute e l’ambiente, esso non sarà tenuto a dare il proprio
consenso, a condizione che ne informi immediatamente la Commissione e gli altri stati membri
affinché, sia adottata una decisione in materia secondo il procedimento previsto dall’articolo 21 della
detta direttiva».
44
Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 9 settembre 2003, in C-236/01. In dottrina si rinvia a: A.
BARONE, Organismi geneticamente modificati e precauzione: il rischio alimentare tra diritto
comunitario e diritto interno, in Foro it. IV, 2004, pag. 248; M. FONTE, Organismi geneticamente
modificati: monopolio e diritti, Giuffrè, Milano 2004; F. ROSSI DAL POZZO, Il caso Monsanto e il
diritto in capo agli stati membri di impedire l’immissione in commercio di nuovi prodotti alimentari,
in Riv. dir. agr., 2003, II, pag. 399 ss.
45
Come si legge nella pronuncia, le misure di salvaguardia «presuppongono in particolare che la
valutazione dei rischi di cui dispongono le autorità nazionali riveli indizi specifici i quali, senza
escludere l’incertezza scientifica, permettano ragionevolmente di concludere, sulla base dei dati
scientifici disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca
internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare che siano offerti sul
mercato nuovi prodotti alimentari potenzialmente pericolosi per la salute umana». La ricerca di una
certezza scientifica circa la necessità delle misure di limitazione costituisce, invero, un elemento di
difformità rispetto alle scelte precauzionali, improntate per definizione sull’individuazione di un
livello di cautela presuntivamente idoneo ad evitare rischi meramente possibili, in assenza di alcuna
certezza circa la necessarietà di quelle stesse misure.
173
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Invero, nonostante la nota incertezza scientifica sui possibili pregiudizi
derivanti dalla coltivazione o commercializzazione di OGM, la Corte ha ritenuto
che, in questo settore, il sacrificio dei principi concorrenziali di libera circolazione
sia giustificabile solo in ragione di dati scientifici chiari, sopravvenuti
all’autorizzazione, circa i rischi sanitari e ambientali causati dall’impiego degli
OGM autorizzati, che nel caso di specie risultavano assenti.
L’insufficienza di elementi scientifici nuovi è stata alla base anche della
successiva pronuncia del 13 settembre 2007 (C-439/05 e C-454/05)46, con la quale
la Corte ha ritenuto incompatibile col diritto europeo un progetto di legge austriaco
recante il divieto generalizzato di impiego di OGM (già respinto dalla
Commissione con la decisione 2003/653/CE47), adottato in forma di deroga al
ravvicinamento normativo (come previsto all’articolo 95, par. 5 del TCE48).
In tempi più recenti, la Corte ha infine contestato le misure nazionali adottate
ai sensi della clausola di salvaguardia di cui all’articolo 23 della Direttiva
2001/18/CE, nonché le misure di coesistenza tra colture differenti, adottate ai sensi
dell’articolo 26-bis della medesima direttiva, marginalizzando ancora una volta le
46
Il caso esaminato dalla Corte verteva in ordine ad un progetto di legge elaborato dal Land
dell’Austria superiore e recante il divieto di coltivazione di sementi e materiale di propagazione
contenenti o costituiti da OGM, nonché la riproduzione e l’emissione nell’ambiente di animali
transgenici ai fini della ciaccia e della pesca. Tale progetto era stato notificato alla Commissione ai
sensi dell’articolo 95, par. 5 del TCE, ovvero come deroga alle misure di armonizzazione dettata da
nuove prove scientifiche, nonché ai sensi della Direttiva 98/34/CE sulle regole tecniche. A supporto
della deroga alla misura di armonizzazione, l’Austria aveva inviato alla Commissione uno studio
pubblicato nel 2002: Zone agricole esenti da OGM: concezione e analisi degli scenari e delle fasi di
realizzazione. Come si legge nella decisione della Commissione «lo studio lascia intendere che è
praticamente impossibile far coesistere colture biologiche e convenzionali a fianco di vaste
coltivazioni geneticamente modificate e che sono da temere danni ambientali a lungo termine (…) in
caso di coltivazione su vasta scala di varietà di sementi o piante geneticamente modificate, il rischio è
che in futuro non sia più possibile una produzione agricola non transgenica». In dottrina, si vedano C.
PALME, Bans on the Use of genetically modified Organisms – The case od Upper Austria, in Journal
for European Environmental e planning law, 2006, 3, pag. 22; S. POLI, Legislazioni anti-ogm degli
Stati membri e mercato interno: il caso austriaco, in Dir. un. eur., 2004, 2, pag. 365.
47
La Commissione, dopo aver ritenuto ammissibile la notifica, aveva conferito mandato all’EFSA per
la valutazione i risultati dello studio prodotto dall’Austria. Nel 2003 l’EFSA trasmetteva i risultati
dell’analisi condotta, adottando un parere nel quale dichiarava che le informazioni contenute nello
studio austriaco si riferivano a dati non nuovi né scientificamente validi e non consentivano quindi di
ritenere esistenti rischi per la salute e l’ambiente tali da giustificare il divieto generalizzato
dell’impiego di OGM.
48
L’articolo 95, par. 5 del TCE corrisponde al vigente articolo 114, par. 4 del TFUE prevede che
«allorché, dopo l’adozione di una misura di armonizzazione (…) uno Stato membro ritenga
necessario introdurre disposizioni nazionali fondate su nuove prove scientifiche inerenti la protezione
dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, giustificate da un problema specifico a detto Stato membro
insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione, esso notifica le disposizioni previste dalla
Commissione precisando i motivi dell’introduzione delle stesse».
174
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ipotesi di autonomia decisionale degli stati (sebbene nel primo caso per ragioni
puramente formali).
Infatti, nella sentenza dell’8 settembre 2011, (caso Monsanto II, cause riunite
da C-58/10 a C-68/10)49, il giudice europeo ha ritenuto illegittime le misure di
sospensione o divieto provvisorio del mais Mon810 adottate ai sensi dell’articolo
23 della Direttiva 2001/18/CE, dal momento che quell’organismo, essendo già
circolante sul mercato, rientrava nell’ambito di applicazione del Regolamento n.
1829/2003, e dunque il suo impiego poteva essere limitato solo ai sensi
dell’articolo 34 del medesimo regolamento50.
In ultimo, nel caso Pioneer (sentenza del 6 settembre 2012, in C-36/11), la
Corte, interrogata in via pregiudiziale dal Consiglio di Stato, ha affermato
l’incompatibilità col diritto europeo di una disposizione nazionale (il d.lgs. n.
212/2001) che preveda un procedimento di autorizzazione autonomo e parallelo
rispetto a quello delineato dalla Direttiva 2001/18/CE, destinato a garantire la
coesistenza con le colture tradizionali, pure tutelata dall’articolo 26-bis della
direttiva51. I divieti o le limitazioni alla coltivazione di organismi geneticamente
modificati sono infatti ammissibili, a parere del giudice europeo, nei soli casi
esplicitamente previsti dalla normativa di settore, tra i quali non rientrano le misure
di coesistenza.
La soluzione del caso Pioneer ha inciso sensibilmente sulle sorti del
contenzioso nel frattempo avviato nei confronti del Signor Fidenato, ricorrente nel
giudizio concluso dal Consiglio di Stato con la pronuncia in commento. Nel 2011,
infatti, i beni aziendali di questo imprenditore erano stati sottoposti a sequestro
preventivo proprio per la mancanza della previa autorizzazione nazionale di cui al
d.lgs. n. 212/2001, la stessa giudicata dalla Corte incompatibile col diritto europeo.
Dal 2011 ad oggi, con riferimento a quella stessa vicenda, si sono succeduti
una serie di provvedimenti amministrativi e pronunce giurisprudenziali (l’ultima
delle quali qui in commento) che, a uno sguardo complessivo, lasciano chiaramente
49
F. BRUNO, Giudici e biotecnologie: la sentenza Monsanto II, in Agricoltura, istituzioni e mercati, 1,
2004.
50
Nel caso di specie la Corte contesta il ricorso alla misura di salvaguardia di cui all’articolo 23 della
Direttiva 2001/18/CE, dal momento che la varietà di OGM considerata risultava autorizzata, al
momento dell’adozione della misura statale, ai sensi del successivo Regolamento 1829/2003,
trattandosi di prodotto esistente.
51
La questione pregiudiziale era stata sollevata dal Consiglio di Stato nel corso di un giudizio
proposto per l’annullamento di una nota del Ministero delle politiche agricole con cui si era
comunicato alla Pioneer l’impossibilità di procedere all’istruttoria della sua richiesta di autorizzazione
alla coltivazione di OGM, fino all’adozione, da parte delle Regioni, delle misure di coesistenza.
175
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
intravedere una volontà “politica” di ostacolare l’impiego di OGM sul territorio
italiano.
Al fine di poter comprendere il percorso logico adottato dal Consiglio di
Stato e i profili di novità che esso sottende, pare opportuno ricostruire brevemente i
fatti di causa.
4. La vicenda in esame.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 605, del 6 febbraio 2015 rappresenta
l’epilogo di un contenzioso avviato nel 2013 dal Signor Fidenato, quale coltivatore
di mais transgenico Mon810, al fine di ottenere l’annullamento del D.m. 12 luglio
2013 con il quale proprio quella varietà di mais era stata vietata sul territorio
nazionale.
L’immissione in commercio di tale OGM era stata inizialmente consentita
mediante autorizzazione della Commissione (rilasciata ai sensi della Direttiva
220/90/CEE), scaduta la quale era proseguita come “prodotto esistente”, previa
notifica alla Commissione ai sensi del Regolamento 1829/2003. Il 4 maggio 2007
la Monsanto, società produttrice del Mon810, aveva presentato istanza di rinnovo
dell’autorizzazione all’immissione in commercio, non ottenendo però, ad oggi,
alcun provvedimento espresso.
In tale situazione di incertezza giuridica, il signor Fidenato nel 2011 era stato
coinvolto in un primo giudizio penale, per aver messo in coltura sementi non
previamente autorizzate ai sensi del d.lgs. n. 212/200152.
52
In data 1 aprile 2011 il Tribunale di Pordenone disponeva il sequestro preventivo dei beni
costituenti l’azienda dell’impresa individuale del Signor Fidenato, ritenendo che lo stesso avesse
messo a coltura sementi di mais OGM in carenza della prescritta autorizzazione ai sensi dell’articolo
1 del d.lgs. n. 212/2001. Respinta l’istanza di riesame (il 21 aprile 2011), il Signor Fidenato
proponeva ricorso in Cassazione, facendo valere l’esistenza di una previa autorizzazione all’impiego
del mais Mon810, rilasciata dalla Commissione europea in data 22 aprile 1998 (Decisione n.
98/294/CE), con conseguente iscrizione delle varietà di mais nel catalogo comune europeo, e dunque
contestando la necessità di un’ulteriore autorizzazione a livello statale. La Corte di Cassazione, Sez.
III penale, con sentenza n. 11148 del 15 novembre 2011 respingeva il ricorso, ritenendo che la messa
a coltura delle sementi di mais geneticamente modificato senza l’autorizzazione di cui al d.lgs. n.
212/2001 integri una fattispecie di reato (di cui all’articolo 1 del medesimo decreto legislativo). In
tale occasione i giudici di Cassazione avevano affermato l’autonomia dell’autorizzazione di cui alla
Direttiva 2001/18/CE e di quella prevista dal d.lgs. n. 212/2001, essendo la prima volta a tutelare i
profili concorrenziali della libera circolazione di OGM, la seconda a garantire la tutela dell’ambiente
e del patrimonio agricolo, mediante apposite misure di coesistenza. Cfr. D. GALASSO, Semina di mais
geneticamente modificato? Serve il permesso della Regione, in Dir. e giust., 2012.
176
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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Chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale nel corso del medesimo
contenzioso, la Corte di Giustizia, con l’ordinanza dell’8 maggio 2013, richiamava
proprio il caso Pioneer per affermare che la coltura di una varietà di OGM già
autorizzata non può essere subordinata ad un’ulteriore procedura abilitativa,
quand’anche la stessa sia finalizzata a garantire la coesistenza con le colture
tradizionali53.
Accertato il diritto del Signor Fidenato di procedere alla coltura delle
sementi Mon810, il 12 luglio 2013 interveniva un nuovo ostacolo54: il decreto
interministeriale recante il divieto temporaneo di coltivazione del Mon810 sul
territorio nazionale, quale misura d’urgenza.
Questo decreto, oltre a dare avvio ad un secondo giudizio penale nei
confronti del medesimo imprenditore55, è stato dallo stesso impugnato dinanzi al
giudice amministrativo, che ne ha confermato la validità prima con la sentenza del
53
Il Tribunale di Pordenone, presso il quale il giudizio penale era proseguito dopo la pronuncia della
Suprema Corte, e ravvisando un parziale contrasto tra la sentenza della Corte di Cassazione ed una
precedente pronuncia del giudice europeo (sentenza del 6 settembre 2012, nella causa C-36/11,
Pioneer Hi Bred Italia), sollevava dinanzi alla Corte di Giustizia questione di interpretazione
pregiudiziale del d.lgs. n. 212/2001. Il quesito sottoposto al giudice europeo, in particolare,
riguardava la compatibilità dell’autorizzazione statale prevista dall’articolo 1, del d.lgs. n. 212/2001
con la disciplina di cui alla Direttiva 2001/18/CE, ed in particolare, se tale autorizzazione potesse
riguardare anche OGM già iscritti nel catalogo comune europeo. Con l’ordinanza dell’8 maggio 2013,
in causa C-542/12, la Corte di Giustizia (IX Sezione) ha chiaramente affermato che «la messa a
coltura di varietà di mais Mon810 autorizzate ai sensi dell’articolo 20 del Regolamento 1829/2003 e
iscritte nel catalogo comune in applicazione della Direttiva 2002/53/CE non può essere assoggettata a
una procedura nazionale di autorizzazione. Inoltre, se è vero che in via eccezionale gli stati membri
hanno facoltà di disporre misure di coesistenza in forza dell’articolo 26-bis della Direttiva
2001/18/CE, una siffatta procedura nazionale di autorizzazione non può essere considerata come una
restrizione e nemmeno come un divieto geograficamente delimitato. (…) Una procedura di
autorizzazione alla messa in coltura di dette varietà di mais non può quindi di per sé costituire una
misura di coesistenza ai sensi dell’articolo 26-bis della Direttiva 2001/18/CE» (par. 29, 30 e 32 della
sentenza).
54
Si consideri peraltro che in data 2 aprile 2013 le autorità italiane avevano informato la
Commissione della necessità di adottare misure d’urgenza ai sensi dell’articolo 34 del Regolamento
1829/2003, ricevendo, il 17 maggio 2013, una risposta negativa da parte della Commissione, che
riteneva inesistenti le motivazioni d’urgenza legittimanti la misura richiesta.
55
Dopo l’adozione del divieto temporaneo di cui al D.m. 12 luglio 2013, il Gip presso il Tribunale di
Pordenone, con decreto del 6 agosto 2014, disponeva il sequestro preventivo dei terreni del Signor
Fidenato utilizzati per la coltivazione del mais Mon810. Rigettata l’istanza di riesame (ordinanza del
22 settembre 2014), la misura cautelare è stata sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione, che
con la sentenza della Sez. III, 16 aprile 2015, n. 15834 ha confermato la legittimità del provvedimento
emesso dal Gip.
177
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
T.A.R. Lazio, n. 4410 del 23 aprile 201456, poi con la pronuncia del Consiglio di
Stato in commento.
In quest’ultima, il giudice d’appello, dopo i dovuti distinguo rispetto ad
episodi già censurati dalla Corte di giustizia57, si è soffermato su due profili: a) il
potere degli stati di intervenire sull’efficacia delle autorizzazioni rilasciate a livello
europeo; b) i presupposti per l’adozione di misure d’urgenza ai sensi dell’articolo
34 del Regolamento 1829/2003, e la ricorrenza degli stessi nel caso concreto.
Con riferimento al primo profilo, il giudice amministrativo ha ritenuto che,
anche dopo il provvedimento di autorizzazione di un OGM, la cui efficacia si
esplica uniformemente su tutto il territorio europeo, gli stati conservino il potere di
adottare misure cautelari per limitare la coltivazione, su tutto o parte del loro
territorio, ai sensi dell’articolo 34 del Regolamento 1829/2003 e secondo le
modalità procedurali di cui all’articolo 54 del Regolamento 178/200258.
Tale potere emergenziale, peraltro, viene espressamente riconosciuto sia nel
caso in cui la Commissione, pur sollecitata dallo stato, abbia espressamente negato
l’esigenza di un intervento restrittivo di livello europeo, sia qualora essa sia
semplicemente rimasta inerte59.
Con riferimento al secondo aspetto, il Consiglio di Stato, soffermandosi sul
significato da attribuire ai requisiti richiesti dall’articolo 34 ai fini dell’adozione di
misure emergenziali (ovvero la presenza manifesta di un grave rischio per la salute
umana, degli animali o per l’ambiente, o condizioni che rendano necessaria la
sospensione o modifica urgente dell’autorizzazione) ricorda che «il principio di
precauzione postula l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per
l’ambiente, ma non richiede l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate (…) e
comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi ad
un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in
56
Cfr. V. CAVANNA, Ogm: legittimo il divieto in via cautelare di coltivazione del mais Mon810, in
Amb. e svil., 2014, 7.
57
Nella sentenza infatti, il giudice esclude espressamente che si tratti di una misura di coesistenza ai
sensi dell’articolo 26-bis della Direttiva 2001/18/CE o della conclusione di un ulteriore procedimento
di autorizzazione.
58
Ai sensi dell’articolo 54 del Regolamento 178/2002 «Qualora uno Stato membro informi
ufficialmente la Commissione circa la necessità di adottare misure urgenti e qualora la Commissione
non abbia agito in conformità delle disposizioni dell'articolo 53, lo Stato membro può adottare misure
cautelari provvisorie. Esso ne informa immediatamente gli altri stati membri e la Commissione. Entro
dieci giorni lavorativi, la Commissione sottopone la questione al comitato istituito dall'articolo 58,
paragrafo 1, secondo la procedura di cui all'articolo 58, paragrafo 2 ai fini della proroga,
modificazione od abrogazione delle misure cautelari provvisorie nazionali. Lo Stato membro può
lasciare in vigore le proprie misure cautelari provvisorie fino all'adozione delle misure comunitarie».
59
Cfr. Consiglio di Stato, n. 605/2015, par. 6.4.
178
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze
scientifiche». In tal senso sono state ritenute del tutto legittime le restrizioni
derivanti dal decreto impugnato, considerando che l’autorizzazione originaria del
Mon810 era stata rilasciata in vigenza di una disciplina assai meno severa, che i
pareri dell’EFSA60 avevano rilevato possibili impatti ambientali, e che gli studi di
Ispra ravvisavano l’esistenza di un rischio per alcune popolazioni di insetti e
organismi acquatici.
Tale pronuncia appare assai rilevante sotto due aspetti: l’uno formale,
inerente l’individuazione del fondamento giuridico atto a giustificare l’adozione di
misure statali restrittive dell’impiego di varietà di OGM già liberamente circolanti
sul mercato europeo, in virtù di autorizzazioni efficaci in tutti gli stati membri;
l’altro sostanziale, relativo all’indagine circa i presupposti delle condizioni di
“rischio” atte a giustificare l’adozione di tali misure.
5. Gli indizi di un cambiamento di prospettiva.
È possibile disporre a livello statale il divieto temporaneo d’impiegare OGM
già autorizzati a livello europeo? Tale divieto può riguardare la coltivazione o la
commercializzazione di OGM? O entrambe? E quale forma giuridica deve
assumere tale divieto per essere ritenuto conforme al diritto europeo?
Questi sono gli interrogativi che sorgono dalla lettura delle pronunce che la
Corte di Giustizia ha dedicato, nell’ultimo decennio, al tema degli organismi
geneticamente modificati, ed ai quali la sentenza in commento offre senza dubbio
alcune risposte.
In particolare il Consiglio di Stato, quasi a voler chiudere il lungo dibattito
giurisprudenziale sul tema, ha ravvisato nell’articolo 34 del Regolamento
1829/2003 (un po’ anche in via residuale) l’unico strumento giuridico offerto dal
diritto europeo per consentire l’adozione di misure di divieto di OGM già
autorizzati a livello europeo.
Come si è visto, nel tempo la Corte di Giustizia ha negato la possibilità di
disporre limitazioni permanenti degli OGM in forma di deroghe al ravvicinamento
delle legislazioni (ai sensi dell’articolo 95, par. 5 del TCE61), nonché di adottare
sospensioni o divieti temporanei attraverso misure d’urgenza (ai sensi dell’articolo
60
61
L’Autorità europea per la sicurezza alimentare, istituita con il Regolamento 178/2002.
Cfr. Caso Austria, in C-439/05 e C-454/05.
179
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
12 del Regolamento 258/9762) o come misure di coesistenza (ai sensi dell’articolo
26-bis della Direttiva 2001/18/CE63).
Diversa interpretazione è stata invece fornita dai giudici di Lussemburgo con
riferimento alle misure d’emergenza di cui all’articolo 34 del Regolamento
1829/2003, per le quali si è prevista esplicitamente l’applicabilità al fine di disporre
«la sospensione o il divieto provvisorio dell’utilizzo o dell’immissione in
commercio64» dell’OGM autorizzato.
Ed invero, come ricorda il Consiglio di Stato, nella sentenza dell’8 settembre
2011, la Corte ha «negato la possibilità di utilizzare le misure di sospensione o
divieto provvisorio dell’utilizzo o dell’immissione in commercio (di OGM) in
applicazione dell’articolo 23 della Direttiva 2001/18/CE», ma ha anche «indicato
come strumento praticabile l’articolo 34 del regolamento». A riprova di quanto
statuito dal giudice europeo, peraltro, si consideri che la Francia (nei cui confronti
la Corte si era allora pronunciata) in data 18 marzo 2012 ha vietato la coltivazione
di mais transgenico, con una misura approvata proprio ai sensi dell’articolo 34, e
ad oggi non contestata.
L’articolo 34 del Regolamento 1829/2003 sembrerebbe dunque la chiave di
volta per l’adozione di misure di emergenza volte a contrastare o prevenire
situazioni idonee a determinare, “in modo manifesto”, “un grave rischio per la
salute umana, per la salute degli animali o per l’ambiente”.
Nell’interpretare tali requisiti sostanziali, il Consiglio di Stato si è però
discostato in modo sensibile dalla giurisprudenza del giudice europeo, almeno con
riferimento a due profili: quello del significato da attribuire ai citati presupposti
sostanziali e quello del rilievo da riconoscere, ai fini dell’integrazione dei
medesimi presupposti, ai pareri scientifici dell’EFSA.
Sotto quest’ultimo aspetto, il giudice amministrativo afferma che «l’articolo
34 non stabilisce un percorso conoscitivo e valutativo obbligatorio, in quanto,
prima ancora di menzionare, come strumento qualificato di evidenziazione dei
presupposti per la sospensione o la modifica di un’autorizzazione, i pareri
dell’EFSA, indica i presupposti sostanziali per intervenire sulle autorizzazioni, ed
anche testualmente (“…ovvero qualora, alla luce di un parere dell’Autorità…”)
non esclude che la sussistenza di detti presupposti venga desunta in altro modo».
Dopo aver chiarito, in sintesi, che a livello istruttorio ogni elemento debba
rivestire il medesimo rilievo, il Consiglio di Stato si sofferma sull’analisi del
62
Cfr. Caso Monsanto, in C-236/01.
Cfr. Caso Pioneer, in C-36/11.
64
Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 8 settembre 2001, cause riunite C-58/10 e 68/11, par. 63.
63
180
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
contenuto di tali elementi sostanziali, adottando in tal senso una posizione piuttosto
diversa da quella del giudice europeo.
Nel noto caso Monsanto II65, la Corte di giustizia, pronunciandosi proprio
sui requisiti sostanziali dell’articolo 34, aveva ritenuto inammissibile «un
approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non
ancora accertate scientificamente», dal momento che le misure cautelari «possono
essere adottate solamente se fondate su una valutazione dei rischi quanto più
possibile completa».
Valorizzando il principio di precauzione, invece, il Consiglio di Stato ha
ritenuto che i presupposti per l’adozione della misura emergenziale siano già insiti
nella carenza, evidenziata da numerosi studi e pareri scientifici, di adeguate misure
di gestione e sorveglianza (giustificabile in parte in ragione del carattere risalente
dell’autorizzazione), nonché nella riscontrata possibilità di un impatto ambientale.
Del resto, afferma il giudice amministrativo, «il principio di precauzione postula
l’esistenza di un rischio potenziale per la salute e per l’ambiente, ma non richiede
l’esistenza di evidenze scientifiche consolidate sulla correlazione tra causa, oggetto
di divieto o limitazione, e gli effetti negativi che ci si prefigge di eliminare o
ridurre, e comporta che quando non sono conosciuti con certezza i rischi connessi
ad un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi
in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze
scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali».
Appare dunque chiara la differenza di approccio dei due giudici: agli occhi
della Corte di giustizia la precauzione rappresenta, infatti, uno dei parametri di
valutazione sottostanti la scelta autorizzatoria iniziale, e come tale il suo rilievo
resta confinato al momento procedimentale. Ogni eventuale modifica di
provvedimenti autorizzativi già adottati dovrebbe dunque essere sorretta da un
supporto istruttorio paragonabile almeno a quello necessario all’adozione di un
provvedimento di contenuto opposto. Sotto tale aspetto, la Corte pare non
discostarsi dalla sua consolidata interpretazione del principio di precauzione, quale
parametro procedurale di gestione del rischio (e non criterio sostanziale di
valutazione dello stesso)66.
65
Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 8 settembre 2011, in cause riunite da C-58/10 a 68/10.
Come già avvenuto in altri settori disciplinari, la Corte di Giustizia aderisce anche con riferimento
agli OGM alla versione “debole”, o per meglio dire “procedurale”, del principio di precauzione, che si
sostanzia nell’obbligo di considerare l’incertezza scientifica nel corso dei procedimenti di valutazione
del rischio, con una conseguente facoltà (e non obbligo) di adottare provvedimenti di gestione del
rischio riscontrato. In sintesi, agli occhi della Corte europea, la precauzione rappresenta il “mezzo”,
ma non il “fine”, e dunque non implica necessariamente l’adozione di misure di gestione del rischio,
66
181
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Nella visione del giudice nazionale, invece, il principio di precauzione non si
esaurisce nella fase procedimentale, ma assume una connotazione sostanziale,
poiché esso opera non solo quale strumento decisionale ai fini dell’adozione di
misure di gestione del rischio, ma offre altresì la flessibilità necessaria a consentire
l’adeguamento di provvedimenti già rilasciati alle eventuali nuove valutazioni del
rischio.
La differenza di approccio può forse spiegarsi nell’esigenza, avvertita solo a
livello europeo, di bilanciare gli interessi ambientali e sanitari con la libera
circolazione di OGM sul mercato comune67. Tale profilo concorrenziale, risulta
assai poco rilevante a livello dei singoli stati, anche in ragione dell’assenza in essi
di un comparto produttivo solidamente affermato nella sperimentazione e
produzione di tali organismi transgenici.
Resta certamente irrisolto il problema derivante dal carattere temporaneo di
tali provvedimenti, dal momento che, ai sensi dell’articolo 54 del Regolamento
178/2002, le misure cautelari provvisoriamente adottate dagli stati sono
immediatamente comunicate alla Commissione, che, avvalendosi del comitato
permanente per la sicurezza alimentare e la salute degli animali, può adottare le
conseguenti «determinazioni di proroga, modificazione o abrogazione delle misure
cautelari provvisorie nazionali». Tuttavia, come ammesso dallo stesso Consiglio di
Stato «ciò che non sembra stabilito dalla disciplina comunitaria, è che, a seguito di
una segnalazione sull’opportunità di intervenire (per modificare la perdurante
ma semplicemente un adeguato apprezzamento dello stesso in fase decisoria. Come si legge nella
Comunicazione della Commissione COM(2000)1 sul principio di precauzione, pag. 13 «Vi è una
controversia sulla presa in considerazione dell’incertezza scientifica nell’analisi del rischio, e in
particolare se tale presa in considerazione debba essere effettuata nella valutazione del rischio o nella
gestione del rischio. Tale controversia deriva da una confusione tra una strategia di prudenza e
l’applicazione del principio di precauzione. Questi due aspetti sono complementari ma non devono
essere confusi. La strategia di prudenza è iscritta nella politica di valutazione dei rischi che è
determinata prima di qualunque valutazione dei rischi stessi (..) fa quindi parte integralmente del
parere scientifico espresso da coloro che valutano il rischio. L’applicazione del principio di
precauzione appartiene, invece, alla gestione del rischio, quando l’incertezza scientifica non consente
una valutazione completa di tale rischio e i responsabili ritengono che il livello prescelto di protezione
dell’ambiente o della salute umana, animale o vegetale possa essere minacciato. La Commissione
ritiene che le misure che applicano il principio di precauzione si iscrivano nel contesto generale
dell’analisi del rischio, e più in particolare nella gestione del rischio». Appare tuttavia opportuno
riscontrare che l’unico settore disciplinare nel quale la Corte di Giustizia è parsa più vicina alla
nozione “sostanziale” di precauzione è la disciplina sulla tutela della biodiversità, direttamente incisa
anche dalla disciplina sugli organismi geneticamente modificati (Ex multis, Corte giust., 11 aprile
2013, C-258/11; Id., 13 dicembre 2007, C-418/04; Id., 20 ottobre 2005, C-6/04).
67
Cfr. Ex multis, Corte Giust., sentenze 9 maggio 1998, in C-180/96; 9 settembre 2003, in C-236/01;
7 settembre 2003, in C-127/02; e Tribunale di primo grado, sentenza 26 novembre 2002, in T-74/00.
182
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
efficacia di un’autorizzazione), la situazione debba restare confinata in un’impasse
potenzialmente senza termine, fino a che il Comitato si decida ad esprimere il
proprio (imprescindibile) avviso».
Finora, gli stati hanno rimediato a tale vulnus prorogando l’efficacia delle
misure d’urgenza adottate (come del resto avvenuto con lo stesso D.m. 12 luglio
2013, prorogato di ulteriori diciotto mesi dal D.m. 22 gennaio 2015), oppure
adottando diverse misure di divieto aventi lo stesso oggetto, e dunque esplicanti gli
stessi effetti di una proroga.
È innegabile il fatto che si tratti di soluzioni forzate, peraltro anche in parte
confliggenti con la ratio della disciplina derogatoria, che è quella di rimediare
temporaneamente a situazioni di carattere emergenziale in attesa dell’adozione di
previsioni definitive, volte a definire un nuovo punto di equilibrio tra gli interessi
coinvolti.
Tuttavia, l’esigenza di una diversificazione dell’efficacia dei provvedimenti
autorizzatori, al fine di dar conto delle esigenze localistiche, nel rispetto del
principio di sussidiarietà, ha trovato finalmente realizzazione con l’adozione della
Direttiva 2015/412/UE.
6. Considerazioni conclusive.
La direttiva 2015/412/UE68, introducendo un nuovo articolo 26-ter nella
Direttiva 2001/18/CE, ha formalizzato l’autonomia decisionale degli stati con
riferimento alla coltivazione di organismi geneticamente modificati sul proprio
territorio.
Ed infatti, proprio sul piano della coltivazione emerge la «forte dimensione
nazionale, regionale e locale, dato il suo legame con l’uso del suolo, le strutture
agricole locali e la protezione o il mantenimento degli habitat, degli ecosistemi e
dei paesaggi»69.
A tal proposito, la nuova direttiva concede maggiore flessibilità agli stati,
legittimandoli, nel rispetto del principio di sussidiarietà, a richiedere un
adeguamento dell’efficacia territoriale delle nuove autorizzazioni, oppure ad
68
Il Consiglio ambiente, in data 3 marzo 2014 e dopo una stasi di quasi quattro anni, ha riavviato
l’iter volto all’approvazione di una proposta di regolamento che modifica la direttiva del Parlamento
europeo e del consiglio 2001/18, con lo scopo di concedere agli stati la facoltà di limitare o vietare, in
tutto il territorio nazionale o in parte di esso, la coltivazione degli OGM autorizzati dall’Unione,
anche in funzione di considerazioni di ordine diverso da quelle del rischio ambientale e sanitario.
69
Cfr. considerando n. 6 della Direttiva 2015/412/UE.
183
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
adottare atti di divieto o limitazione della coltivazione di OGM sul loro territo
anche dopo che sia stata rilasciata l’autorizzazione all’immissione di tale
organismo in commercio.
Ai sensi dell’articolo 26-ter, infatti è possibile che nel corso di una
procedura di autorizzazione di un OGM o di rinnovo della stessa, uno stato chieda
di adeguarne l’efficacia spaziale, escludendo tutto o parte del proprio territorio.
Inoltre anche dopo il rilascio dell’autorizzazione, è possibile l’adozione di misure
volte a limitare o vietare in tutto il territorio statale o parte di esso la coltivazione di
un OGM autorizzato al commercio, anche in virtù di condizioni non direttamente
riferite alla tutela dell’ambiente o della salute umana, ma correlate a fattori
economici, di ordine pubblico, di pianificazione urbanistica e territoriale.
Tale modifica del quadro normativo, la cui portata appare certamente di
grande rilievo se si considera quanto sforzo hanno profuso gli stati per ritagliare
propri margini di autonomia decisionale, consente di osservare anche la pronuncia
del Consiglio di Stato quale punto di partenza per un nuovo approccio alla
disciplina degli OGM.
Anche grazie al frequente (e conflittuale) confronto tra istituzioni europee e
stati membri, si è resa possibile l’emersione della volontà dei secondi di valorizzare
le proprie specificità territoriali, sebbene a detrimento dell’uniformità disciplinare
ed introducendo in parte ostacoli alla libera circolazione delle merci sul mercato
europeo.
Tuttavia, i traguardi recentemente raggiunti non vanno interpretati, a parere
di chi scrive, come il sintomo di un arretramento dell’Europa dinanzi alle istanze
localistiche degli stati, ma, al contrario, come la dimostrazione di un’acquisita
consapevolezza circa il carattere ormai recessivo degli interessi economici, che
pure hanno rappresentato il fondamento della Comunità, a favore di un
rafforzamento di interessi di carattere sociale, quali la salute e l’ambiente.
La tutela di questi ultimi richiede strumenti diversi da quelli radicati nella
tradizione di valori della Comunità europea, e dunque può condurre,
paradossalmente, alla diversificazione delle discipline (piuttosto che alla loro
armonizzazione) in ragione di un criterio di sussidiarietà verticale.
184
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Abstract
Enrica Blasi – I nuovi margini del potere decisionale degli stati europei in
materia di organismi geneticamente modificati.
La sentenza in commento, giungendo al termine di un lungo contenzioso, offre
una possibile chiave di lettura del duraturo conflitto tra istituzioni europee (in
particolare Commissione e Corte di Giustizia) e autorità nazionali: le prime
intenzionate ad accentrare a livello europeo ogni scelta autorizzativa in materia di
organismi geneticamente modificati, i secondi animati dall’intento di preservare i
propri margini di autonomia decisionale, quand’anche esercitati in contraddizione
con le scelte adottate a livello europeo. Il Consiglio di Stato, aderendo ad una
“visione” sostanziale del principio di precauzione, ha infatti ritenuto legittime le
misure di divieto di OGM già autorizzati a livello europeo, qualora adottate ai
sensi della clausola di salvaguardia di cui all’articolo 34 del Regolamento
1829/2003. La portata innovativa della sentenza in commento, peraltro, appare
acuita dalla pubblicazione, a solo un mese di distanza dalla pronuncia del giudice
amministrativo, della Direttiva 2015/412/UE, che ha ampliato in maniera sensibile
il potere decisionale degli stati in materia di coltivazione di OGM.
The judgement under scrutiny here, issued after a long-standing litigation,
provides a possible key to understanding the enduring conflict between European
Institutions (Commission and Court of Justice) and National Authorities. On one
hand the EU’s legislation and policy on GMOs tend to centralize authorisation
procedures, which are carried out by European Institutions, on the other hand
each member state wants to preserve its own decision-making autonomy in order
to promote national interests and policies. The Consiglio di Stato has based the
legitimacy of national restrictive measures, even when clearly contrary to
European regulatory system for GMOs, both on the safeguard clause (article 34
of Regulation (EU) 1829/2003) and on the precautionary principle understood in
its essential meaning. The hereby judgement therefore contributes to enhance
decision-making autonomy at a national level and its importance is emphasized by
the Directive (EU) 2015/412, issued one month later in order to allow member
states to ban or restrict the cultivation of GMOs.
185
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Terza Sezione, 4 marzo 2015
(domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato - Italia) Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e altri contro
Fipa Group Srl e altri, Causa C-534/13
Segue nota di Francesco Grassi
La Corte di Giustizia conferma che sul proprietario “incolpevole” non grava
l’obbligo di effettuare le attività di bonifica
Testo della sentenza:
FATTO E DIRITTO
1
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull‘interpretazione dei principi
del diritto dell‘Unione in materia ambientale, segnatamente i principi del
«chi inquina paga», di precauzione, dell‘azione preventiva e della
correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all‘ambiente, quali
previsti all‘articolo 191, paragrafo 2, TFUE, ai considerando 13 e 24, e agli
articoli 1 e 8, paragrafo 3, della direttiva 2004/35/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale
in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (GU L 143,
pag. 56).
2
Tale domanda è stata presentata nell‘ambito di tre controversie, di cui le
prime due sono tra il Ministero dell‘Ambiente e della Tutela del Territorio e
del Mare, il Ministero della Salute e l‘Ispra – Istituto Superiore per la
Protezione e la Ricerca Ambientale (in prosieguo, congiuntamente: il
«Ministero») e, rispettivamente, la Fipa Group Srl (in prosieguo: la «Fipa
Group») e la Tws Automation Srl (in prosieguo: la «Tws Automation»),
mentre la terza vede opposte le prime due ricorrenti nel procedimento
principale e la Ivan Srl (in prosieguo: l‘«Ivan»), in merito a specifiche
misure di messa in sicurezza di emergenza relative a terreni contaminati da
diverse sostanze chimiche.
Contesto normativo
Il diritto dell’Unione
186
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
3
L‘articolo 191, paragrafo 2, primo comma, TFUE, enuncia quanto segue:
«La politica dell‘Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di
tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni
dell‘Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell‘azione
preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei
danni causati all‘ambiente, nonché sul principio ―chi inquina paga‖».
4
I considerando 1, 2, 13, 18, 20, 24 e 30 della direttiva 2004/35 sono
formulati nel seguente modo:
«(1)
Nella Comunità esistono attualmente molti siti contaminati, che
comportano rischi significativi per la salute, e negli ultimi decenni vi è
stata una forte accelerazione della perdita di biodiversità. Il non
intervento potrebbe provocare in futuro ulteriori contaminazioni dei
siti e una perdita di biodiversità ancora maggiore. La prevenzione e la
riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale
contribuisce a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica
ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato. Occorre tener conto delle
circostanze locali allorché si decide come riparare il danno.
(2)
La prevenzione e la riparazione del danno ambientale dovrebbero
essere attuate applicando il principio ―chi inquina paga‖, quale
stabilito nel trattato e coerentemente con il principio dello sviluppo
sostenibile. Il principio fondamentale della presente direttiva dovrebbe
essere quindi che l‘operatore la cui attività ha causato un danno
ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato
finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad
adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi
di danno ambientale.
(...)
(13)
A non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio
attraverso la responsabilità civile. Affinché quest‘ultima sia efficace è
necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno
dovrebbe essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare
nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La
187
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare
l‘inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia
impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni
di taluni singoli soggetti.
(...)
(18)
Secondo il principio ―chi inquina paga‖, l‘operatore che provoca un
danno ambientale o è all‘origine di una minaccia imminente di tale
danno dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure
di prevenzione o di riparazione. Quando l‘autorità competente
interviene direttamente o tramite terzi al posto di un operatore, detta
autorità dovrebbe far si che il costo da essa sostenuto sia a carico
dell‘operatore. È inoltre opportuno che gli operatori sostengano in
definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed
eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale
danno.
(...)
(20)
Non si dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di
misure di prevenzione o riparazione adottate conformemente alla
presente direttiva in situazioni in cui il danno in questione o la
minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti dalla
volontà dell‘operatore. Gli Stati membri possono consentire che gli
operatori, di cui non è accertato il dolo o la colpa, non debbano
sostenere il costo di misure di riparazione in situazioni in cui il danno
in questione deriva da emissioni o eventi espressamente autorizzati o
la cui natura dannosa non era nota al momento del loro verificarsi.
(...)
(24)
È necessario assicurare la disponibilità di mezzi di applicazione ed
esecuzione efficaci, garantendo un‘adeguata tutela dei legittimi
interessi degli operatori e delle altre parti interessate. Si dovrebbero
conferire alle autorità competenti compiti specifici che implicano
appropriata discrezionalità amministrativa, ossia il dovere di valutare
188
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
l‘entità del danno e di determinare le misure di riparazione da
prendere.
(...)
(30)
La presente direttiva non si dovrebbe applicare al danno cagionato
prima dello scadere del termine per la sua attuazione».
5
La direttiva 2004/35, ai sensi del suo articolo 1, istituisce un quadro per la
responsabilità ambientale basato sul principio «chi inquina paga».
6
L‘articolo 2, punto 6, di detta direttiva definisce la nozione di «operatore»
come «qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che
esercita o controlla un‘attività professionale oppure, quando la legislazione
nazionale lo prevede, a cui è stato delegato un potere economico decisivo sul
funzionamento tecnico di tale attività, compresi il titolare del permesso o
dell‘autorizzazione a svolgere detta attività o la persona che registra o
notifica l‘attività medesima».
7
Ai sensi dell‘articolo 2, punto 7, della medesima direttiva la nozione di
«attività professionale» è definita come qualsiasi «attività svolta nel corso di
un‘attività economica, commerciale o imprenditoriale, indipendentemente
dal fatto che abbia carattere pubblico o privato o che persegua o meno fini di
lucro».
8
L‘articolo 2, punti 10 e 11, della direttiva 2004/35 così definisce le seguenti
nozioni:
«10.
―misure di prevenzione‖: le misure prese per reagire a un evento, un
atto o un‘omissione che ha creato una minaccia imminente di danno
ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale danno;
11.
―misure di riparazione‖: qualsiasi azione o combinazione di azioni, tra
cui misure di attenuazione o provvisorie dirette a riparare, risanare o
sostituire risorse naturali e/o servizi naturali danneggiati, oppure a
fornire un‘alternativa equivalente a tali risorse o servizi, come previsto
nell‘allegato II».
189
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
9
L‘articolo 3 della direttiva suddetta, intitolato «Campo d‘applicazione», al
suo paragrafo 1, precisa quanto segue:
«La presente direttiva si applica:
a)
al danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate
nell‘allegato III e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno a
seguito di una di dette attività;
b)
al danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle
attività professional[i] non elencata nell‘allegato III e a qualsiasi
minaccia imminente di tale danno a seguito di una di dette attività, in
caso di comportamento doloso o colposo dell‘operatore».
10
Ai sensi dell‘articolo 4, paragrafo 5, della medesima direttiva, quest‘ultima
«si applica al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno
causati da inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile
accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori».
11
L‘articolo 5 della direttiva 2004/35, intitolato «Azione di prevenzione», è
redatto nei seguenti termini:
«1.
Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una
minaccia imminente che si verifichi, l‘operatore adotta, senza indugio, le
misure di prevenzione necessarie.
(...)
3.
L‘autorità competente, in qualsiasi momento, ha facoltà di:
(...)
b)
chiedere all‘operatore di prendere le misure di prevenzione necessarie;
(...)
d)
adottare essa stessa le misure di prevenzione necessarie.
190
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
4.
L‘autorità competente richiede che l‘operatore adotti le misure di
prevenzione. Se l‘operatore non si conforma agli obblighi previsti al
paragrafo 1 o al paragrafo 3, lettere b) o c), se non può essere individuato, o
se non è tenuto a sostenere i costi a norma della presente direttiva, l‘autorità
competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure».
12
L‘articolo 6 di detta direttiva, intitolato «Azione di riparazione», recita:
«1.
Quando si è verificato un danno ambientale, l‘operatore comunica
senza indugio all‘autorità competente tutti gli aspetti pertinenti della
situazione e adotta:
a)
tutte le iniziative praticabili per controllare, circoscrivere, eliminare o
gestire in altro modo, con effetto immediato, gli inquinanti in
questione e/o qualsiasi altro fattore di danno, allo scopo di limitare o
prevenire ulteriori danni ambientali e effetti nocivi per la salute umana
o ulteriori deterioramenti ai servizi e
b)
le necessarie misure di riparazione (...)
2.
L‘autorità competente, in qualsiasi momento, ha facoltà di:
(...)
c)
chiedere all‘operatore di prendere le misure di riparazione necessarie;
(...)
e)
adottare essa stessa le misure di riparazione necessarie.
3.
L‘autorità competente richiede che l‘operatore adotti le misure di
riparazione. Se l‘operatore non si conforma agli obblighi previsti al
paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere b), c) o d), se non può essere individuato
o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della presente direttiva,
l‘autorità competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure, qualora
non le rimangano altri mezzi».
13
L‘articolo 8, paragrafi 1 e 3, della medesima direttiva così dispone:
191
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
«1.
L‘operatore sostiene i costi delle azioni di prevenzione e di
riparazione adottate in conformità della presente direttiva.
(...)
3.
Non sono a carico dell‘operatore i costi delle azioni di prevenzione o di
riparazione adottate conformemente alla presente direttiva se egli può
provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno:
a)
è stato causato da un terzo, e si è verificato nonostante l‘esistenza di
opportune misure di sicurezza, o
b)
è conseguenza dell‘osservanza di un ordine o istruzione obbligatori
impartiti da una autorità pubblica, diversa da un ordine o istruzione
impartiti in seguito a un‘emissione o a un incidente causati dalle
attività dell‘operatore.
In tali casi gli Stati membri adottano le misure appropriate per consentire
all‘operatore di recuperare i costi sostenuti».
14
L‘articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2004/35 ha il seguente tenore:
«Spetta all‘autorità competente individuare l‘operatore che ha causato il
danno o la minaccia imminente di danno, valutare la gravità del danno e
determinare le misure di riparazione da prendere a norma dell‘allegato II
(...)».
15
L‘articolo 16 della direttiva 2004/35, intitolato «Relazione con il diritto
nazionale», enuncia, al suo paragrafo 1, che la direttiva «non preclude agli
Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe in materia di
prevenzione e riparazione del danno ambientale, comprese l‘individuazione
di altre attività da assoggettare agli obblighi di prevenzione e di riparazione
previsti da [detta] direttiva e l‘individuazione di altri soggetti responsabili».
16
In forza dell‘articolo 17 della direttiva 2004/35, in combinato disposto con
l‘articolo 19 della stessa, tale direttiva si applica unicamente al danno
causato da un‘emissione, un evento o un incidente verificatosi dopo il 30
aprile 2007, se derivante vuoi da attività poste in essere successivamente a
192
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
tale data, vuoi da attività svolte anteriormente a tale data ma non terminate
prima di essa.
17
L‘allegato III di tale direttiva elenca dodici attività ritenute pericolose dal
legislatore ai sensi dell‘articolo 3, paragrafo 1, di detta direttiva.
Il diritto italiano
18
L‘articolo 240, comma 1, lettere m) e p), del decreto legislativo del 3 aprile
2006, n. 152, Norme in materia ambientale (supplemento ordinario alla
GURI n. 88, del 14 aprile 2006), nella versione in vigore alla data dei fatti
del procedimento principale (in prosieguo: il «codice dell‘ambiente»), è
contenuto nel titolo V della parte IV. Tale disposizione definisce le misure di
messa in sicurezza di emergenza e di bonifica dei siti.
19
L‘articolo 242 del codice dell‘ambiente intitolato «procedure operative ed
amministrative» disciplina con un certo livello di dettaglio gli oneri ricadenti
sul soggetto responsabile dell‘inquinamento, che si tratti di contaminazione
recente o storica, per quanto riguarda in particolare l‘adozione delle misure
necessarie di prevenzione, di ripristino e di messa in sicurezza d‘urgenza, la
comunicazione nei confronti di soggetti pubblici competenti e l‘esecuzione
di attività di bonifica.
20
L‘articolo 244 di detto codice, rubricato «ordinanze» disciplina il caso in cui
sia stato accertato che la contaminazione verificatasi nel caso concreto abbia
superato i valori di concentrazione della soglia di contaminazione. In questo
caso, la Provincia diffida con ordinanza motivata il responsabile della
potenziale contaminazione all‘adozione delle misure di cui agli articoli 240 e
seguenti del medesimo codice. L‘articolo 244, terzo comma, del codice
dell‘ambiente prevede che l‘ordinanza è comunque notificata anche al
proprietario del sito. Inoltre, l‘articolo 244, quarto comma, di tale codice,
dispone che se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non
provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi
che risultassero necessari sono adottati dall‘amministrazione competente.
193
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
21
L‘articolo 245 di detto codice, intitolato «obblighi di intervento e di notifica
da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione», al
comma 1 così prevede:
«Le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale disciplinate dal presente titolo possono essere
comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili».
22
L‘articolo 245, comma 2, del medesimo codice dispone quanto segue:
«Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di
cui all‘articolo 242, il proprietario o il gestore dell‘area che rilevi il
superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della
concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione
alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e
attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all‘articolo 242.
La provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva,
sentito il comune, per l‘identificazione del soggetto responsabile al fine di
dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario
o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque
momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica
necessari nell‘ambito del sito in proprietà o disponibilità».
23
L‘articolo 250 del codice dell‘ambiente rubricato «bonifica da parte
dell‘amministrazione» cosi dispone:
«Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano
direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano
individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti
interessati, le procedure e gli interventi di cui all‘articolo 242 sono realizzati
d‘ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non
provveda, dalla regione, secondo l‘ordine di priorità fissati dal piano
regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri
soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad
evidenza pubblica (...)».
194
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
24
L‘articolo 253 di detto codice intitolato «oneri reali e privilegi speciali» ai
commi da 1 a 4 enuncia quanto segue:
«1.
Gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti
contaminati qualora effettuati d‘ufficio dall‘autorità competente ai sensi
dell‘articolo 250. (...)
2.
Le spese sostenute per gli interventi di cui al comma 1 sono assistite da
privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime, ai sensi e per gli effetti
dell‘articolo 2748, secondo comma, del codice civile. Detto privilegio si può
esercitare anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi sull‘immobile.
3.
Il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei
confronti del proprietario del sito incolpevole dell‘inquinamento o del
pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato
dell‘autorità competente che giustifichi, tra l‘altro, l‘impossibilità di
accertare l‘identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi
l‘impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo
soggetto ovvero la loro infruttuosità.
4.
In ogni caso, il proprietario non responsabile dell‘inquinamento può
essere tenuto a rimborsare (...) le spese degli interventi adottati dall‘autorità
competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a
seguito dell‘esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il
proprietario non responsabile dell‘inquinamento abbia spontaneamente
provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei
confronti del responsabile dell‘inquinamento per le spese sostenute e per
l‘eventuale maggior danno subito».
Procedimento principale e questione pregiudiziale
25
Dagli elementi del fascicolo a disposizione della Corte emerge che, nel
periodo compreso tra gli anni ‗60 e gli anni ‗80, la Farmoplant SpA e la
Cersam Srl, due società appartenenti al gruppo industriale Montedison SpA,
divenuto Edison SpA, hanno gestito un sito industriale di produzione di
insetticidi e diserbanti ubicato in un comune della provincia di Massa
Carrara, in Toscana (Italia). Poiché i terreni appartenenti a tale sito hanno
195
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
subito una grave contaminazione causata da diverse sostanze chimiche, tra
cui il dicloroetano e l‘ammoniaca, una parte di essi è stata bonificata nel
1995. Risultata insufficiente tale «bonifica», detti terreni sono stati
qualificati, nel 1998 come «sito di interesse nazionale di Massa Carrara» al
fine del loro risanamento.
26
Durante gli anni 2006 e 2008, la Tws Automation e la Ivan, due società di
diritto privato, hanno acquisito la proprietà di vari terreni facenti parte di
detto sito. L‘oggetto sociale della Tws Automation è la vendita di apparecchi
elettronici. La Ivan è un‘agenzia immobiliare.
27
Durante il 2011, la Nasco Srl, società di diritto privato, denominata in
seguito Fipa Group si è fusa con la LCA Lavorazione Compositi Apuana Srl
e, in conseguenza di tale fatto, è divenuta proprietaria di un altro terreno
appartenente al medesimo sito. La Fipa Group svolge la propria attività
nell‘ambito della costruzione e della riparazione di imbarcazioni.
28
Con provvedimenti amministrativi del 18 maggio 2007, del 16 settembre e 7
novembre 2011, le direzioni competenti del Ministero hanno ingiunto
rispettivamente alla Tws Automation, alla Ivan e alla Fipa Group
l‘esecuzione di misure specifiche di «messa in sicurezza d‘urgenza», ai sensi
del codice dell‘ambiente, ossia la realizzazione di una barriera idraulica di
emungimento per la protezione della nappa freatica e la presentazione di una
variante al progetto di bonifica del terreno esistente dal 1995. Tali decisioni
sono state indirizzate alle tre imprese in qualità di «custod[i] dell‘area».
29
Deducendo la circostanza che esse non erano autrici della contaminazione
constatata, tali società hanno adito il Tribunale amministrativo regionale
della Toscana, che, con tre sentenze distinte, ha annullato tali provvedimenti
in ragione del fatto che, ai sensi del principio «chi inquina paga», proprio del
diritto dell‘Unione e della normativa nazionale in materia ambientale,
l‘amministrazione non poteva imporre, sulla base delle disposizioni del titolo
V della parte IV del codice dell‘ambiente, l‘esecuzione delle misure in
parola ad imprese che non hanno alcuna responsabilità diretta sull‘origine
del fenomeno di contaminazione accertato nel sito.
30
Il Ministero ha appellato dette sentenze dinanzi al Consiglio di Stato.
196
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
31
Secondo il Ministero, un‘interpretazione delle disposizioni del titolo V della
parte IV del codice dell‘ambiente alla luce del principio «chi inquina paga» e
del principio di precauzione consentirebbe di considerare che il proprietario
di un sito contaminato sia tenuto all‘esecuzione di misure di messa in
sicurezza di emergenza.
32
La sezione del Consiglio di Stato adita ha rimesso all‘Adunanza Plenaria del
medesimo giudice la questione se, in base al principio «chi inquina paga»,
l‘amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un‘aera
inquinata, che non sia anche l‘autore dell‘inquinamento, l‘obbligo di porre in
essere le misure di messa in sicurezza di emergenza di cui all‘articolo 240,
comma 1, lettera m), di detto codice, ovvero se, in un‘ipotesi del genere, tale
proprietario sia tenuto solo agli oneri reali espressamente previsti all‘articolo
253 del medesimo codice.
33
Con atto del 21 novembre 2013, la Versalis SpA, che è proprietaria
anch‘essa di terreni appartenenti al sito di cui trattasi, acquistati dalla Edison
SpA, è intervenuta nel procedimento per chiedere il rigetto dell‘appello del
Ministero.
34
Nella sua decisione di rinvio, l‘Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
rileva che la giurisprudenza amministrativa italiana non è concorde
sull‘interpretazione delle disposizioni della parte IV del codice dell‘ambiente
e, più in generale, su quelle relative agli obblighi del proprietario di un sito
contaminato.
35
Infatti, mentre una parte della giurisprudenza, basandosi tra l‘altro, sui
principi di precauzione, dell‘azione preventiva e del «chi inquina paga»,
propri del diritto dell‘Unione, ritiene che il proprietario sia tenuto ad adottare
le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica anche qualora non
sia l‘autore della contaminazione, un‘altra parte dei giudici italiani esclude,
al contrario, qualsiasi responsabilità del proprietario non responsabile della
contaminazione e nega, di conseguenza, che l‘amministrazione possa esigere
da tale proprietario misure del genere. L‘Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato condivide quest‘ultima opinione, dominante nella giurisprudenza
amministrativa italiana.
197
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
36
A tale proposito il giudice del rinvio, riferendosi alle sentenze della Corte
ERG e a., (C-378/08, EU:C:2010:126), e ERG e a., (C-379/08 e C-380/08,
EU:C:2010:127), si basa su un‘interpretazione letterale del codice
dell‘ambiente e sui principi della responsabilità civile i quali richiedono un
nesso causale tra la condotta e il danno. L‘esistenza di tale nesso sarebbe
necessaria al fine di determinare vuoi una responsabilità soggettiva, vuoi una
responsabilità oggettiva per il danno considerato. Il nesso suddetto
mancherebbe nel caso in cui il proprietario non sia l‘autore della
contaminazione. Di conseguenza, la sua responsabilità sarebbe fondata
unicamente sulla sua qualità di proprietario, non potendo essergli attribuita la
contaminazione né in via soggettiva, né in via oggettiva.
37
In tale contesto, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale seguente:
«Se i principi dell‘Unione Europea in materia ambientale sanciti dall‘articolo
191, paragrafo 2, [TFUE] e dalla direttiva [2004/35] (articoli l e 8, n. 3;
tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio
―chi inquina paga‖, il principio di precauzione, il principio dell‘azione
preventiva, il principio della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei
danni causati all‘ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella
delineata dagli articoli 244, 245, 253 del [codice dell‘ambiente], che, in caso
di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il
soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da
quest‘ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all‘autorità
amministrativa di imporre l‘esecuzione delle misure di sicurezza
d‘emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile
dell‘inquinamento, prevedendo, a carico di quest‘ultimo, soltanto una
responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l‘esecuzione degli
interventi di bonifica».
Sulla questione pregiudiziale
38
Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se i principi
del diritto dell‘Unione in materia ambientale, quali quelli sanciti dall‘articolo
191, paragrafo 2, TFUE e dalla direttiva 2004/35, segnatamente, il principio
198
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
«chi inquina paga», debbano essere interpretati nel senso che ostano a una
normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale,
che, nel caso in cui sia impossibile individuare il responsabile della
contaminazione di un sito o di ottenere da quest‘ultimo le misure di
riparazione, non consente all‘autorità competente di imporre l‘esecuzione
delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale terreno,
non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso
delle spese relative agli interventi effettuati dall‘autorità competente nel
limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l‘esecuzione di tali
interventi.
Sull’applicabilità dell’articolo 191, paragrafo 2, TFUE
39
Occorre ricordare che l‘articolo 191, paragrafo 2, TFUE afferma che la
politica dell‘Unione in materia ambientale mira a un livello elevato di
protezione e si basa, segnatamente, sul principio «chi in inquina paga». Tale
disposizione si limita pertanto a definire gli obiettivi generali dell‘Unione in
materia ambientale, mentre l‘articolo 192 TFUE affida al Parlamento
europeo e al Consiglio dell‘Unione europea, che deliberano secondo la
procedura legislativa ordinaria, il compito di decidere le azioni da avviare al
fine del raggiungimento di detti obiettivi (v. sentenze ERG e a.,
EU:C:2010:126, punto 45; ERG e a., EU:C:2010:127, punto 38, e ordinanza
Buzzi Unicem e a., C-478/08 e C-479/08, EU:C:2010:129, punto 35).
40
Di conseguenza, dal momento che l‘articolo 191, paragrafo 2, TFUE, che
contiene il principio «chi inquina paga», è rivolto all‘azione dell‘Unione,
detta disposizione non può essere invocata in quanto tale dai privati al fine di
escludere l‘applicazione di una normativa nazionale, quale quella oggetto
della causa principale, emanata in una materia rientrante nella politica
ambientale, quando non sia applicabile nessuna normativa dell‘Unione
adottata in base all‘articolo 192 TFUE, che disciplini specificamente
l‘ipotesi di cui trattasi (v. sentenze ERG e a., EU:C:2010:126, punto 46;
ERG e a., EU:C:2010:127, punto 39, e ordinanza Buzzi Unicem e a.,
EU:C:2010:129, punto 36).
199
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
41
Parimenti, l‘articolo 191, paragrafo 2, TFUE non può essere invocato dalle
autorità competenti in materia ambientale per imporre misure di prevenzione
e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale.
42
Occorre tuttavia rilevare che il principio «chi inquina paga» può trovare
applicazione nelle controversie di cui al procedimento principale nei limiti in
cui esso è attuato dalla direttiva 2004/35. Tale direttiva, adottata sulla base
dell‘articolo 175 CE, divenuto l‘odierno articolo 192 TFUE, ai sensi della
terza frase del considerando 1, intende garantire la realizzazione «degli
obiettivi e dei principi della politica ambientale [dell‘Unione], quali stabiliti
nel Trattato» e applica il principio «chi inquina paga» come enuncia il suo
considerando 2.
Sull’applicabilità ratione temporis della direttiva 2004/35
43
Tenuto conto della circostanza che, secondo gli elementi di fatto contenuti
nel fascicolo di cui dispone la Corte, le contaminazioni ambientali storiche
di cui trattasi nel procedimento principale derivano da attività economiche
svolte da precedenti proprietari dei terreni che sono attualmente detenuti,
rispettivamente, dalla Fipa Group, dalla Tws Automation e dalla Ivan, è
dubbio che la direttiva 2004/35 sia applicabile ratione temporis alle cause di
cui al procedimento principale.
44
Infatti, dall‘articolo 17, primo e secondo trattino, di detta direttiva, letto in
combinato disposto con il suo considerando 30, risulta che tale direttiva si
applica unicamente al danno causato da un‘emissione, un evento o un
incidente verificatosi il 30 aprile 2007 o dopo tale data quando tale danno
derivi vuoi da attività svolte in tale data o successivamente ad essa, vuoi da
attività svolte precedentemente a tale data ma non terminate prima di essa
(v., in tal senso, sentenze ERG e a., EU:C:2010:126, punti 40 e 41; ERG e a.,
EU:C:2010:127, punto 34, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129,
punto 32).
45
È necessario che il giudice del rinvio verifichi, in base ai fatti che esso solo è
in grado di valutare, se nella causa principale i danni che sono oggetto delle
misure di prevenzione e di riparazione imposte dalle autorità nazionali
rientrino o meno nell‘ambito di applicazione della direttiva 2004/35 come
200
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
definito dall‘articolo 17 della medesima (v., in tal senso, sentenza ERG e a.,
EU:C:2010:126, punto 43).
46
Qualora tale giudice dovesse giungere alla conclusione che detta direttiva
non è applicabile nelle cause di cui è investito, un‘ipotesi del genere
dovrebbe allora essere disciplinata dall‘ordinamento nazionale, nel rispetto
delle norme del Trattato e fatti salvi altri eventuali atti di diritto derivato (v.
sentenze ERG e a., EU:C:2010:126, punto 44; ERG e a., EU:C:2010:127,
punto 37, nonché ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punto 34).
47
Nel caso in cui il giudice del rinvio dovesse giungere alla conclusione che la
stessa direttiva è applicabile ratione temporis alle controversie di cui al
procedimento principale occorre esaminare la questione pregiudiziale come
segue.
Sulla nozione di «operatore»
48
Da una lettura combinata dell‘articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2004/35
e dei considerando 2 e 18 nonché degli articoli 2, punti 6 e 7, 5, 6, 8 e 11,
paragrafo 2, della stessa direttiva, risulta che uno dei presupposti essenziali
per l‘applicazione del regime di responsabilità istituito da tali disposizioni è
l‘individuazione di un operatore che possa essere qualificato come
responsabile.
49
La seconda frase del considerando 2 della direttiva 2004/35 afferma, infatti,
che il principio fondamentale di tale direttiva dovrebbe essere che
l‘operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia
imminente di tale danno sia considerato economicamente responsabile.
50
Come la Corte ha già constatato, nel sistema degli articoli 6 e 7 della
direttiva 2004/35, spetta in linea di principio all‘operatore che sia all‘origine
del danno ambientale prendere l‘iniziativa di proporre misure di riparazione
che egli reputi adeguate alla situazione (v. sentenza ERG e a.,
EU:C:2010:127, punto 46). Del pari, è a tale operatore che l‘autorità
competente può imporre di adottare le misure necessarie.
201
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
51
Parimenti, l‘articolo 8 di tale direttiva, intitolato «Costi di prevenzione e di
riparazione» dispone al suo paragrafo 1 che è tale operatore che sostiene i
costi delle azioni di prevenzione e riparazione adottate in conformità della
direttiva in questione. Le autorità competenti, in forza dell‘articolo 11,
paragrafo 2, della medesima direttiva, hanno l‘obbligo di individuare
l‘operatore che ha causato il danno.
52
Per contro, le persone diverse da quelle definite all‘articolo 2, punto 6, della
direttiva 2004/35, vale a dire quelle che non esercitano un‘attività
professionale, ai sensi dell‘articolo 2, punto 7, di tale direttiva, non rientrano
nell‘ambito di applicazione della stessa direttiva, circoscritto dall‘articolo 3,
paragrafo 1, lettere a) e b), della stessa.
53
Orbene, nella fattispecie, come emerge dagli elementi di fatto esposti dal
giudice del rinvio e confermati da tutte le parti del procedimento principale
durante l‘udienza, nessuna delle parti appellate nel procedimento principale
svolge attualmente una delle attività elencate nell‘allegato III della direttiva
2004/35. In tali circostanze, occorre esaminare in che limiti dette parti
appellate nel procedimento principale possano rientrare nell‘ambito di
applicazione di tale direttiva in forza dell‘articolo 3, paragrafo 1, lettera b),
della stessa, il quale si riferisce ai danni provocati da attività diverse da
quelle elencate in detto allegato in caso di comportamento doloso o colposo
dell‘operatore.
Sui requisiti della responsabilità ambientale
54
Come emerge dagli articoli 4, paragrafo 5, e 11, paragrafo 2, della direttiva
2004/35, in combinato disposto con il considerando 13 della stessa, affinché
il regime di responsabilità ambientale sia efficace, è necessario che sia
accertato dall‘autorità competente un nesso causale tra l‘azione di uno o più
operatori individuabili e il danno ambientale concreto e quantificabile al fine
dell‘imposizione a tale operatore o a tali operatori di misure di riparazione, a
prescindere dal tipo di inquinamento di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza
ERG e a., EU:C:2010:126, punti 52 e 53, e ordinanza Buzzi Unicem e a.,
EU:C:2010:129, punto 39).
202
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
55
Nell‘interpretare l‘articolo 3, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva, la Corte
ha considerato che l‘obbligo dell‘autorità competente di accertare un nesso
causale si applica nell‘ambito del regime di responsabilità ambientale
oggettiva degli operatori (v. sentenza ERG e a., EU:C:2010:126, punti da 63
a 65, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punto 45).
56
Come emerge dall‘articolo 4, paragrafo 5, della direttiva 2004/35, detto
obbligo sussiste anche nell‘ambito del regime della responsabilità
ambientale soggettiva derivante dal comportamento doloso o colposo
dell‘operatore di cui all‘articolo 3, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva nel
caso di attività professionali diverse da quelle di cui all‘allegato III di detta
direttiva.
57
La particolare importanza del requisito di causalità tra l‘attività
dell‘operatore e il danno ambientale ai fini dell‘applicazione del principio
«chi inquina paga» e, di conseguenza, del regime di responsabilità istituito
dalla direttiva 2004/35, emerge altresì dalle disposizioni di quest‘ultima
riguardanti le conseguenze da trarre dalla circostanza che l‘operatore non
abbia contribuito all‘inquinamento o al rischio di inquinamento.
58
A tale proposito, occorre ricordare che, conformemente all‘articolo 8,
paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/35, in combinato disposto con il
considerando 20 della stessa, l‘operatore non è tenuto a sostenere i costi
delle azioni di riparazione adottate in applicazione di tale direttiva quando è
in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un terzo e si
sono verificati nonostante l‘esistenza di idonee misure di sicurezza, o sono
conseguenza di un ordine o di un‘istruzione impartiti da un‘autorità pubblica
(v., in tal senso, sentenza ERG e a., EU:C:2010:126, punto 67 e
giurisprudenza ivi citata, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129,
punto 46).
59
Allorché non può essere dimostrato alcun nesso causale tra il danno
ambientale e l‘attività dell‘operatore, tale situazione rientra nell‘ambito
dell‘ordinamento giuridico nazionale, alle condizioni ricordate al punto 46
della presente sentenza (v,. in tal senso, sentenza ERG e a., EU:C:2010:126,
punto 59, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punti 43 e 48).
203
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
60
Orbene, nella
stessa della
procedimento
ambientali di
confermare.
specie, dagli elementi forniti alla Corte e dalla formulazione
questione pregiudiziale emerge che le appellate nel
principale non hanno contribuito alla formazione dei danni
cui trattasi, circostanza che spetta al giudice del rinvio
61
È ben vero che l‘articolo 16 della direttiva 2004/35 prevede, conformemente
all‘articolo 193 TFUE, la facoltà per gli Stati membri di mantenere e
adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del
danno ambientale, compresa, in particolare, l‘individuazione di altri soggetti
responsabili, a condizione che tali misure siano compatibili con i Trattati.
62
Tuttavia, nella specie, è pacifico che, secondo il giudice del rinvio, la
normativa di cui trattasi nel procedimento principale non consente di
imporre misure di riparazione al proprietario non responsabile della
contaminazione, limitandosi al riguardo a prevedere che siffatto proprietario
può essere tenuto al rimborso dei costi relativi agli interventi intrapresi
dall‘autorità competente nei limiti del valore del terreno, determinato dopo
l‘esecuzione di tali interventi.
63
Alla luce dell‘insieme delle considerazioni che precedono, occorre
rispondere alla questione pregiudiziale che la direttiva 2004/35 deve essere
interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di
cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell‘ipotesi in cui sia
impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o
ottenere da quest‘ultimo le misure di riparazione, non consente all‘autorità
competente di imporre l‘esecuzione delle misure di prevenzione e di
riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della
contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative
agli interventi effettuati dall‘autorità competente nel limite del valore di
mercato del sito, determinato dopo l‘esecuzione di tali interventi.
Sulle spese
64
Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa
costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta
204
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare
osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21
aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che
non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel
procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da
quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità
competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di
riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della
contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese
relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del
valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali
interventi.
205
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
FRANCESCO GRASSI*
La Corte di Giustizia conferma che sul proprietario “incolpevole” non
grava l’obbligo di effettuare le attività di bonifica.
SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il dibattito sull’individuazione del soggetto obbligato
al risanamento ambientale: la posizione del proprietario “incolpevole” – 3.
L’orientamento dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e il rinvio
pregiudiziale – 4. La sentenza 4 marzo 2015 nella causa 534/13 – 5. Prospettive
1.
Premessa
Con la sentenza 4 marzo 2015 nella causa C-534/13, la Corte di Giustizia ha
espresso la propria posizione sul quesito pregiudiziale, sollevato dall‘Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, relativo alla compatibilità con i principi
dell‘Unione europea in materia ambientale (principio del ―chi inquina paga‖,
principi di prevenzione e di precauzione, e di correzione in via prioritaria alla fonte
del danno, sanciti dall‘art. 191, par. 2, del TFUE) e la direttiva 2005/35/CE del 21
aprile 2004 della disciplina normativa nazionale di cui al Titolo V della Parte IV
d.lgs. n. 152/2006 (in particolare gli artt. 244, 245 e 253), sulla posizione del
proprietario ―incolpevole‖ rispetto alle attività di bonifica1.
La normativa interna, in caso di accertata contaminazione di un sito e di
impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione (o di
impossibilità di ottenere da quest‘ultimo gli interventi di riparazione), non consente
all‘Amministrazione di imporre l‘esecuzione delle misure di messa in sicurezza
d‘emergenza e di bonifica al proprietario ―incolpevole‖ per il quale si prevede
soltanto una responsabilità patrimoniale nei limiti del valore attribuibile al fondo
dopo l‘esecuzione degli interventi di bonifica.
La Corte di Giustizia è dunque nuovamente intervenuta, per una seconda
volta, sul tema della ripartizione degli obblighi di risanamento ambientale, tra il
responsabile della contaminazione e il proprietario ―incolpevole‖ del sito
contaminato, che ha dato luogo, sia prima che dopo l‘entrata in vigore del d.lgs. n.
152 del 2006, ad un ampio e frequente contenzioso davanti ai giudici
amministrativi, con significative ripercussioni sulla messa in opera delle attività di
risanamento ambientale dei maggiori poli industriali italiani, nonché sulle scelte
imprenditoriali dei soggetti privati coinvolti2.
* Dottorando di ricerca in diritto amministrativo presso l‘Università di Roma Tre.
1
V. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 25 settembre 2013, n. 21, punto 27.
La rilevanza concreta della problematica relativa alla individuazione del soggetto tenuto agli
interventi di bonifica di un sito contaminato si coglie considerando che, da un lato, sul territorio
2
206
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
1.1 – Nel 2008, il giudice europeo era stato investito dal TAR Catania della
richiesta di valutare se il principio ―chi inquina paga‖, e in particolare le norme
della Direttiva sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale3, consentivano all‘Amministrazione di imporre,
ad un soggetto titolare di diritti reali e/o esercente un‘attività imprenditoriale nel
sito contaminato, l‘esecuzione di misure di riparazione sulla base del solo rapporto
dominicale in cui si trovasse rispetto al bene: in altri termini, se il principio fosse in
grado di giustificare un modello di responsabilità oggettiva imprenditoriale4.
La controversia che aveva dato luogo al primo rinvio pregiudiziale alla Corte
di Giustizia riguardava il procedimento di messa in sicurezza e bonifica del sito
industriale di Priolo prospiciente la Rada di Augusta.
Il sito industriale – per la sua rilevanza qualificato come di interesse
nazionale per la bonifica – era caratterizzato da fenomeni di inquinamento diffuso
risalenti almeno agli anni ‘60 (quando cioè era stato realizzato il Polo
petrolchimico Augusta-Priolo-Melilli).
Lo Stato imponeva, in relazione ad una contaminazione storica di grave
rilevanza, l‘attivazione di interventi di risanamento nei confronti delle Società che
avevano acquisito la titolarità delle attività industriali esercitate in situ5,
nazionale sono presenti circa 15.000 siti potenzialmente contaminati, di circa 50 siti di interesse
nazionale e di 1500 siti minerari dismessi – i dati sono quelli riportati dalla relazione approvata a
dicembre 2012 dalla Commissione parlamentare d‘inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei
rifiuti, e, dall‘altro, che nella quasi maggioranza dei casi il soggetto che ha causato con la propria
attività industriale la situazione di inquinamento non corrisponde all‘attuale proprietario del sito (sia
per effetto di contratti di trasferimento del singolo bene – in alcune ipotesi avvenuto ope legis – sia
per successione economica tra imprese).
3
Per un inquadramento generale sulla Direttiva, cfr. F. GIAMPIETRO (a cura di), La responsabilità per
danno all’ambiente – L’attuazione della direttiva 35/2004/CE, Giuffrè, Milano, 2006. Cfr. anche
M.P. GIRACCA, Danno ambientale, R. FERRARA, M.A. SANDULLI (a cura di), I, Le politiche
ambientali, lo sviluppo sostenibile e il danno, Giuffrè, Milano, 2014, 592 ss. Come noto, la direttiva
ha istituito un duplice regime di responsabilità a carattere sia oggettivo, sia soggettivo. Il legislatore
europeo utilizza un criterio di imputazione oggettivo in relazione al risarcimento del danno
ambientale se causato da operatori che esercitano attività professionali ritenute idonee a determinare
un «rischio per la salute umana o per l‘ambiente» (attività che sono elencate all‘interno dell‘Allegato
III); mentre si ha un‘imputazione per dolo o colpa se il danno (o anche la sola minaccia del danno)
alla specie e agli habitat è conseguenza dell‘esercizio di una attività ritenuta non pericolosa (per tale
intendendosi quelle non riportate nell‘Allegato III). Nell‘ipotesi di attività pericolose (Allegato III)
viene dunque in rilievo un sistema di responsabilità oggettiva che richiede l‘accertamento del danno e
del nesso causale tra la condotta dell‘agente e la compromissione delle matrici ambientali ma che
ammette specifiche esimenti.
4
Tale tipo di responsabilità prescinde della verifica – mediante apposita istruttoria – della sussistenza
di un nesso causale tra la condotta del soggetto e l‘evento di contaminazione, e del requisito
soggettivo del dolo e della colpa.
5
Nel Sito di interesse nazionale di Priolo. Nello specifico veniva richiesta la rimozione di diversi
milioni di metri cubi di sedimenti contaminati nell‘area prospiciente il polo industriale ed il loro
successivo confinamento in casse di colmata, da utilizzare per la realizzazione di un hub portuale di
207
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
indipendentemente dall‘accertamento della sussistenza di un nesso causale tra
l‘esercizio della loro attività d‘impresa e la contaminazione riscontrata (la cui
origine poteva invece essere ricondotta alle attività svolte dalle imprese che le
avevano precedute).
In riferimento a tale fattispecie, il Giudice europeo era stato chiamato dal
TAR Catania6 a dirimere il contrasto tra il proprio orientamento favorevole alla
riconduzione della responsabilità per i danni all‘ambiente nell‘alveo della
―tradizionale‖ responsabilità extracontrattuale soggettiva7, e quello, in senso
contrario, manifestato dal Consiglio di Giustizia amministrativa, favorevole invece
alla «oggettiva responsabilità imprenditoriale» quale criterio per la ripartizione
degli obblighi di bonifica8.
La sentenza della Corte di Giustizia del 9 marzo 2010 nella causa C-378/08,
nel rispondere al quesito, ha riconosciuto la ―centralità‖ del nesso di causalità e del
relativo accertamento: la responsabilità ambientale disciplinata dal legislatore
europeo nella direttiva 2004/35/CE presuppone che sia acquisita la prova che una
determinata impresa abbia causato o contribuito a causare un determinato danno
(vedi i punti 52, 53, 54 della sentenza).
Anche nel caso di ―presunzione‖ di causalità, posta a carico di alcune
categorie di operatori (in particolare, quelli che esercitano professionalmente le
attività elencate nell‘Allegato III della Direttiva), vi sono due importanti condizioni
a garanzia delle imprese: a) gli indizi su cui la presunzione si basa devono essere
coerenti e concludenti, specie per quanto riguarda il nesso fra l‘inquinamento
riscontrato e le attività svolte dal presunto responsabile (v. punto 57); b) in ogni
caso, la presunzione è una presunzione c.d. semplice, che potrà sempre essere
confutata dall‘impresa interessata mediante evidenze che confermino che essa non
ha contribuito a determinare l‘inquinamento (v. punto 58).
interscambio tra navi di ultima generazione. Inoltre, si prescriveva il marginamento fisico delle acque
della falda lungo l‘intero perimetro del sito industriale per impedirne il deflusso a mare.
6 Cfr. TAR Catania, II Sez., ordinanza 8 agosto 2008, n. 291.
7
Cfr. TAR Catania, II Sez., sentenza n. 1254 del 2007 che ha interpretato la normativa comunitaria (e
quella nazionale di suo recepimento) come implicante una responsabilità non solo personale, fondata
sul necessario presupposto del nesso di causalità, ma altresì come soggettiva, richiedente cioè anche
l‘accertamento della colpa o del dolo. In questa prospettiva, l‘onere reale previsto dall‘art. 253 d.lgs.
n. 152/2006 rappresenta il rimedio per riequilibrare le posizioni giuridiche del soggetto che esegue la
bonifica e del proprietario incolpevole che altrimenti beneficerebbe di un indebito arricchimento
derivante dal risanamento ambientale del sito.
8
v. CGARS ord. n. 321 del 2 maggio 2006 secondo cui «gli operatori economici che producono e
ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività pericolose, in quanto ex se inquinanti, o in quanto
utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sono per ciò
stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la tutela dell’ambiente e della
salute della popolazione, in correlazione causale con tutti indistintamente i fenomeni di
compromissione collegatisi alla destinazione industriale del sito, gravato come tale da un vero e
proprio onere reale a rilevanza pubblica, in quanto finalizzato alla tutela di prevalenti ed
indeclinabili interessi dell’intera collettività». Nello stesso senso anche la successiva ordinanza
cautelare del CGARS – n. 226/2008 – che sospendeva la sentenza n. 1254 del 2007.
208
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La Corte di Giustizia aveva dunque risolto la questione stabilendo i principi
dell‘imprescindibilità dell‘accertamento del nesso causale e della sola inversione
dell‘onere della prova, per gli operatori nei confronti dei quali il legislatore
europeo ha introdotto una forma di presunzione di responsabilità9.
1.2 – L‘Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha effettuato il nuovo
rinvio pregiudiziale, da un lato, perché si trovava di fronte ad una fattispecie
concreta diversa da quella del caso di Priolo, e, dall‘altro, perché, nonostante la
pronuncia della Corte di Giustizia, alcuni giudici amministrativi riproponevano la
tesi della responsabilità imprenditoriale svincolata dall‘accertamento della
responsabilità, come era stata affermata dal Consiglio di Giustizia amministrativa
per la Sicilia10.
Sotto il primo profilo, la controversia sulla quale si è pronunciata
l‘Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato riguarda il procedimento per la bonifica
del sito di interesse nazionale di ―Massa Carrara‖, nell‘ambito del quale il
Ministero dell‘ambiente ha imposto, nel corso del 2011, alle società I.Van S.r.l.,
Fipa Group S.r.l. e TWS Automation S.r.l. la prescrizione di effettuare, «in solido
con il soggetto responsabile dell‘inquinamento dell‘area (Montedison s.r.l.)»
interventi di messa in sicurezza di emergenza delle acque di falda, nonché di
presentare una variante al progetto di bonifica predisposto da Montedison che
l‘Amministrazione aveva approvato nel 1995. Le prescrizioni delle Conferenze di
servizi sono state indirizzate alle imprese «in qualità di custod[i] dell’area
medesima» dal momento che l‘acquisto della proprietà delle aree dai precedenti
gestori (tra cui Montedison) è avvenuto quando le attività inquinanti erano cessate
ormai da anni e nessuna delle Società svolge o ha svolto attività che possano essere
in qualche modo collegate, anche in via soltanto indiretta e potenziale, alla
situazione di inquinamento.
La particolarità della fattispecie consisteva, in primo luogo, nel fatto che non
risultava controversa l‘assenza di un contributo causale delle Società rispetto alla
contaminazione riscontrata nella matrici ambientali (nella maggior parte dei casi,
come dimostra anche il caso di Priolo, accade spesso il contrario: le contestazioni
riguardano proprio il profilo del mancato o non corretto accertamento del
responsabile), e, in secondo luogo, nella circostanza che le attività svolte dalle
attuali proprietarie delle aree contaminate non ricadono nell‘ambito di applicazione
9
Per un commento della pronuncia della Corte di Giustizia dell‘Unione europea, cfr. G.TADDEI,
Responsabilità, nesso causale e giusto procedimento (Nota a Corte di Giustizia 9 marzo 2010 in C
378/08 e CC 379 – 380/08), in Amb. e Sv., 2010, 5, 437 ss.
10
Perplessità sulla necessità di questo nuovo rinvio pregiudiziale sono state peraltro segnalate
dall‘Avvocato Generale della Corte di Giustizia nel conclusioni del 20 novembre 2014 secondo il
quale la stessa proposizione della questione sarebbe ―sorprendente‖ perché non sembra aver tenuto in
considerazione che il presupposto alla base di tutto il regime di responsabilità consiste proprio nella
sussistenza stessa del nesso di causalità come la Corte aveva già chiarito nella precedente pronuncia
del 2010 (C-378/08).
209
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
della Direttiva sulla responsabilità per danno ambientale (tra quelle dell‘Allegato
III).
Sotto il secondo profilo, invece, viene in rilievo il fatto che la magistratura
amministrativa ha mantenuto vivo, dopo la prima pronuncia della Corte di
Giustizia (e persino dopo il rinvio pregiudiziale dell‘Adunanza Plenaria),
l‘orientamento – pur minoritario – favorevole alla possibilità di addossare i costi
del risanamento ambientale anche a soggetti che si trovino con il sito inquinato in
un mero rapporto dominicale anche se estranei alla causazione della
contaminazione11.
1.2 – Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia ha chiarito
l‘indirizzo espresso in precedenza nella causa C-378/08 precisando soprattutto i
confini che delimitano la discrezionalità del legislatore nazionale nella definizione
di regimi di responsabilità più restrittivi rispetto a quelli previsti dalla direttiva
35/2004/CE.
Considerata la posizione di vertice dell‘organo che ha sollevato la questione
pregiudiziale, la decisione del giudice europeo può rappresentare (finalmente) ―il‖
punto fermo nell‘interpretazione del sistema di responsabilità ambientale per le
attività di bonifica previsto dal nostro ordinamento interno, in grado di consentire il
definitivo superamento dei contrasti emersi in giurisprudenza e le conseguenti
incertezze applicative.
2.
Il dibattito sull’individuazione del soggetto obbligato
risanamento ambientale: la posizione del proprietario “incolpevole”
al
All‘interno del Titolo V della Parte IV del d.lgs. n. 152 del 2006 relativo alla
―bonifica di siti contaminati‖ gli obblighi di intervento sono posti innanzitutto a
carico del responsabile della contaminazione, che l‘Amministrazione deve
ricercare, mentre i soggetti non responsabili (categoria nella quale rientra anche il
proprietario ―incolpevole‖) rivestono un ruolo di secondo piano, in quanto hanno la
―facoltà‖ di eseguire le attività di risanamento all‘esclusivo fine di evitare di
sostenere le conseguenze patrimoniali della bonifica (limitate al valore del fondo
all‘esito dell‘intervento) quando venga eseguita dalla stessa Amministrazione
perché il responsabile non si è attivato o non è stato individuato12.
11
Cfr. in particolare, TAR Lazio, Roma, sez. I, 14 marzo 2011, 2263. Addirittura lo stesso TAR
Catania in sede di decisione dei ricorsi oggetto del primo rinvio pregiudiziale – seppur in diversa
composizione rispetto ai precedenti della stessa Sezione – ha ribaltato la propria giurisprudenza
sostenendo che la ratio del principio ―chi inquina paga‖ preclude la possibilità che i costi derivanti dal
ripristino di siti colpiti da inquinamento vengano sopportati dalla collettività con la conseguente
ammissibilità di una responsabilità oggettiva imprenditoriale (così, TAR Sicilia, Catania, I, 11
settembre 2012, n. 2117).
12
Il procedimento amministrativo per la bonifica di siti contaminati ha una struttura articolata che
richiede interventi complessi con tempi a volte molto lunghi per il loro completamento in ragione sia
210
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
In relazione a contesti caratterizzati dalla oggettiva difficoltà di svolgere una
istruttoria completa ed esaustiva sull‘origine della contaminazione tale da
consentire l‘individuazione dei singoli responsabili13, tuttavia, l‘Amministrazione
ha adottato un‘interpretazione estensiva degli obblighi del proprietario
―incolpevole‖ coinvolgendolo direttamente nella procedura di risanamento
ambientale con la prescrizione di ordini di messa in sicurezza e bonifica, e ciò
delle problematiche sul piano tecnico che incontra l‘esecuzione degli interventi sia della questione
inerente l‘individuazione del soggetto effettivamente tenuto alle attività di risanamento. Il criterio
scelto dal legislatore per la ripartizione degli obblighi di intervento non si basa sulla mera esistenza di
un rapporto dominicale tra un determinato soggetto e il terreno inquinato, ma richiede comunque
l‘accertamento di una responsabilità per la situazione di compromissione delle matrici ambientali.
L‘Amministrazione ha l‘obbligo di effettuare le indagini volte all‘identificazione del soggetto
responsabile dell‘evento di contaminazione che diffida a provvedere agli interventi di risanamento (v.
art. 244). In coerenza con tale impostazione, al soggetto estraneo alla contaminazione viene soltanto
richiesto l‘assolvimento di uno specifico obbligo di comunicazione quando riscontri la presenza
(attuale o potenziale) di contaminazione (v. art. 245, comma 2), mentre l‘obbligo di ―facere‖ rispetto
agli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale è limitato all‘adozione delle
misure di prevenzione che sono funzionali al contrasto nell‘immediato del potenziale verificarsi di un
danno sotto il profilo ambientale e sanitario (v. art. 245, comma 1). Quando né il responsabile né altro
soggetto interessato intervengono, le opere sono eseguite d‘ufficio dall‘amministrazione competente
in loro danno (v. art. 250). Al proprietario ―incolpevole‖ (ma ciò è ammesso anche per un altro
soggetto interessato non responsabile della contaminazione) viene comunque riconosciuta la facoltà
di eseguire volontariamente gli interventi di bonifica (v. art. 245, comma 1) al fine di limitare le
conseguenze patrimoniali che derivano dall‘imposizione di oneri reali sul bene immobile contaminato
(v. art. 253, comma 1) e del privilegio speciale immobiliare per le spese sostenute (v. art. 253, comma
2), che altrimenti graverebbero sul fondo quando gli interventi sono eseguiti in danno (v. art. 250). Il
proprietario ―incolpevole‖ risponde, in ogni caso, nei limiti del valore di mercato dell‘area bonificata,
quale determinato a seguito dell‘esecuzione degli interventi12 (v. art. 253, comma 4), in forza di
specifico provvedimento in cui l‘amministrazione giustifichi l‘impossibilità di accertare l‘identità del
soggetto responsabile ovvero l‘impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti di tale
soggetto o comunque la loro infruttuosità (v. art. 253, comma 3). cfr. G. ACQUARONE, L’accertamento
del danno ambientale, in Trattato di diritto dell’ambiente, R. FERRARA, M.A. SANDULLI (a cura di), II,
I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2014, 373 ss. Sul regime
di responsabilità per gli interventi di bonifica nella vigenza del d.lgs. n. 22 del 1997, cfr. A.L. DE
CESARIS, Gli obblighi di bonifica del proprietario incolpevole, in Riv. Giur. Amb., 2000, 340; e T.
MAROCCO, Bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati: la giurisprudenza delimita i criteri di
imputazione della responsabilità, in Riv. Giur. Amb., 2001, 490 ss. secondo la quale l‘art. 17 d.lgs. n.
22/1997 distingue due criteri di imputazione: uno di carattere generale (che richiede comunque
l‘accertamento della ricorrenza nel caso concreto dell‘elemento soggettivo del dolo o della colpa), e,
l‘altro, di carattere speciale (l‘eccezionale ipotesi di responsabilità oggettiva quando il soggetto
responsabile esercita un‘attività pericolosa).
13
La parte più rilevante delle attività di bonifica si riferisce a contaminazioni diffuse di carattere
storico ovvero a quelle situazioni in cui un terreno è stato interessato da attività industriali inquinanti,
svolte per decenni anche prima dell‘entrata in vigore della normativa di protezione ambientale (in
alcuni casi, l‘inizio della produzione risale addirittura a cavallo tra 1800 e 1900), da parte di imprese
che spesso hanno trasferito la proprietà delle aree o hanno perso la propria autonoma identità
soggettiva dal punto di vista giuridico (ad esempio, per effetto di estinzione oppure di fusione con
incorporazione in altri soggetti).
211
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
anche in ragione del fatto che altrimenti all‘ingente costo degli interventi avrebbe
dovuto far fronte il pubblico erario14.
Tale interpretazione ―estensiva‖ della posizione del proprietario
―incolpevole‖ è stata contestata dai privati interessati molte volte nel corso degli
anni davanti ai giudici amministrativi di tutta Italia (che ha già dato luogo al sopra
citato primo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte del TAR Catania).
Come noto15, il dibattito ha avuto oscillazioni tra un polo giurisprudenziale
che riconosce la necessità dell‘accertamento dell‘esistenza di un rapporto di
causalità tra la condotta del proprietario del terreno e la situazione di
contaminazione delle matrici ambientali in una prospettiva di responsabilità
soggettiva (in cui rileva quindi l‘elemento del dolo e della colpa)16, e, l‘altro, che
14
Sul punto, cfr. P. DELL‘ANNO, Bonifiche e recupero funzionale dei siti contaminati, in Recupero
urbanistico e ambientale delle aree industriali dismesse, P. STELLA RICHTER, R. FERRARA, C.E.
GALLO, C. VIDETTA (a cura di), Editoria Scientifica, Napoli, 2008, 98.
15
Numerosi contributi si sono occupati della posizione del proprietario ―incolpevole‖, in particolare si
rinvia a: A. SAVINI, Bonifica di sito contaminato e responsabilità del proprietario incolpevole Aspettando Godot (Nota a TAR Toscana, sez. II, 8 ottobre 2013, n. 1342, Soc. Italcementi c. Min.
ambiente), in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2014, 118; P. BERTOLINI, Il principio di proporzionalità e
l’accertamento del nesso di causalità nei procedimenti relativi alla bonifica di siti inquinati (Nota a
C. Stato, sez. VI, 9 gennaio 2013, n. 56, Min. ambiente c. C. Z. I. A.), in Riv. giur. ambiente, 2013,
557; A.FARÌ, Bonifica e ruolo del proprietario incolpevole: rinvio alla corte di giustizia, in Dir. e
pratica amm., 2013, fasc. 10, 30; E. MASCHIETTO, La posizione del proprietario incolpevole nei
procedimenti di bonifica e risanamento ambientale, in Riv. giur. ambiente, 2013, 252; E. POMINI,
L’individuazione degli obblighi di intervento a carico del proprietario «incolpevole» (... e
«volontario»), in Riv. giur. ambiente, 2013, 95; A. SAVINI, Sito contaminato e proprietario successore
incolpevole - Ovvero della responsabilità immaginaria (Nota a T.a.r. Toscana, sez. II, 1 aprile 2011,
n. 573, Soc. Fintecna c. Prov. Livorno), in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2011, 428; F. VANETTI,
Bonifica da parte del proprietario incolpevole: è un obbligo o una facoltà?, in Riv. giur. ambiente,
2011, 660; V. CORRIERO, La «responsabilità» del proprietario del sito inquinato., in Resp. civ., 2011,
2440; A. CARAPELLUCCI, «Chi inquina paga»: il punto su responsabilità dell’inquinatore e
proprietario incolpevole nella bonifica dei siti inquinati (Nota a Tar Piemonte, sez. I, 24 marzo 2010,
n. 1575), in Resp. civ., 2010, 1885; F. GIAMPIETRO, Bonifica di siti contaminati: obblighi e diritti del
proprietario incolpevole nel testo unico ambientale (Nota a C. Stato, sez. VI, 5 settembre 2005, n.
4525, Com. Mornago c. Soc. Galstaff multiresine), in Ambiente, 2007, 281.
16
Ad avviso del primo orientamento, le disposizioni del Titolo V della Parte quarta (in particolare gli
art. 242, 244, 245, 250 e 253) delineano una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile
dell‘inquinamento [almeno sotto il profilo oggettivo] e quella del proprietario del sito che non abbia
causato o concorso a causare la contaminazione. L‘art. 242 non individua alcun obbligo di intervento
in capo al proprietario ―incolpevole‖ – al quale, invece, compete soltanto l‘adozione di misure di
prevenzione (art. 245) – in quanto la sua partecipazione agli interventi di risanamento ambientale si
configura in termini di facoltà e non di obbligo: in caso di mancata attivazione, gli interventi, infatti,
vengono eseguiti dall‘Amministrazione (art. 250) che potrà rivalersi sul proprietario nei limiti del
valore di mercato del bene una volta bonificato (art. 253). In questa prospettiva, l‘onere reale sul
terreno assolve a una funzione di garanzia reale rispetto al rimborso delle spese sostenute per la
bonifica che non consente di ritenere il proprietario gravato anche di un‘obbligazione di ―facere‖.
Tale impostazione sarebbe coerente con una interpretazione del principio ―chi inquina paga‖ che
valorizza la ratio della ―internalizzazione‖ dei costi ambientali per effetto della quale gli obblighi di
riparazione devono essere sostenuti da responsabili in misura corrispondente al loro contributo al
212
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
invece afferma una responsabilità oggettiva imprenditoriale per la quale non
occorrerebbe neanche la dimostrazione dell‘esistenza del nesso causale17.
Le argomentazioni dell‘una o dell‘altra tesi in ordine alla posizione del
soggetto che risulti mero proprietario del bene inquinato si concentrano (e
chiaramente su di essi si dividono) sui profili attinenti all‘interpretazione delle
norme che prevedono il coinvolgimento del proprietario ―incolpevole‖ nel
procedimento di bonifica (v. art. 242 e 245); agli obiettivi di tutela a cui sarebbe
preposto il ―principio chi inquina paga‖; alla possibilità di configurare un rapporto
civilistico di protezione e custodia del proprietario rispetto al sito; e, inoltre, alla
verificarsi dell‘inquinamento. Né a diverse conclusioni si potrebbe giungere con riferimento sia alle
norme del codice civile sulla responsabilità per l‘esercizio di attività pericolose – art. 2050 cod. civ. –
o da cose in custodia – art. 2051 cod. civ. (per il principio di specialità prevale la disciplina sulle
bonifiche contenuta nel d.lgs. n. 152/2006) sia con riferimento alla preferenza dell‘ordinamento per
una tipologia di responsabilità oggettiva (nella misura in cui sia intesa come scissa dall‘accertamento
del nesso causale che invece rimane principio cardine della responsabilità civile). Aderiscono al
primo orientamento: Cons. Stato, VI, 9 gennaio 2013, n. 56 e, id., 18 aprile 2011, n. 2376; ex multis,
TAR Sicilia, Catania, II, 20 luglio 2007, n. 1254, e, più recentemente, TAR Toscana, II, 19 settembre
2012, n. 1551; TAR Friuli Venezia Giulia, I, 5 maggio 2014, n. 188.
17
Diversamente, il secondo orientamento ritiene che, siccome il quadro normativo prevede la
possibilità del coinvolgimento del proprietario "incolpevole" (valorizzando a tal fine quanto disposto
dagli artt. 242, 244 e 245) sarebbe legittimo imporre a tale soggetto l‘adozione di misure di messa in
sicurezza di emergenza e bonifica. In forza di una interpretazione estensiva del principio ―chi inquina
paga‖, da intendere come funzionale all‘esigenza di evitare che il costo degli interventi di
risanamento finisca col gravare interamente sulla collettività (piuttosto che a quella di indurre il
soggetto responsabile a prevenire le conseguenze delle attività dannose per non doverne sostenere il
costo), le misure di risanamento potrebbe essere poi richieste al proprietario ―incolpevole‖ anche a
prescindere dalla preventiva dimostrazione della addebitabilità dell‘inquinamento a una sua condotta
dolosa o colposa (sia attiva sia omissiva – il pronome ―chi‖ riportato nella formula del principio
dovrebbe quindi riferirsi anche al soggetto che aggravi il preesistente inquinamento astenendosi
dall‘adottare le necessarie misure di contenimento). In linea con la tendenza dell‘ordinamento ad
abbandonare una concezione colpevolistica della responsabilità civile, al proprietario ―incolpevole‖
viene dunque imputata una forma di ―responsabilità oggettiva imprenditoriale‖ (indifferente rispetto
alla sussistenza sia dell‘elemento oggettivo del nesso di causalità, sia di quello soggettivo del dolo o
della colpa), che trova giustificazione nella circostanza per cui, da un lato, tale soggetto è – o è stato –
in condizione di realizzare ogni misura utile ad impedire il verificarsi del danno ambientale (se
esercita la normale diligenza richiesta nella fase di acquisto di un bene, infatti, l‘acquirente del terreno
è in grado di avere un‘adeguata conoscenza del grado di compromissione delle matrici ambientali
potendo comportarsi di conseguenza: diversamente sarebbe una formalistica elusione delle norme a
tutela dell‘ambiente l‘assunto dell‘incolpevolezza del proprietario che è divenuto acquirente del
terreno dopo l‘inquinamento), e, dall‘altro, si avvantaggerebbe altrimenti indebitamente della
situazione potendo esercitare attività imprenditoriale senza sostenere i costi per il risanamento. Il
vantaggio economico di cui beneficia il proprietario quando l‘intervento di bonifica sia eseguito
dall‘Amministrazione viene bilanciato dalla previsione di un onere reale che fa sì che il titolare del
bene gravato sia da considerare anche il soggetto tenuto ad adempiere a quanto alle dovute attività di
bonifica (aderiscono a questo orientamento cfr. CGARS, ord. n. 321 del 2 maggio 2006; TAR Lazio,
Roma, sez. I, 14 marzo 2011, 2263; TAR Sicilia, Catania,11 settembre 2012, n. 2117; Cons. Stato, II,
parere n. 2038/2012).
213
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
qualificazione giuridica delle conseguenze derivanti dall‘imposizione di un onere
reale sul terreno18.
La perdurante conflittualità nel quadro della giurisprudenza amministrativa,
insieme alla reiterazione della prassi da parte dell‘Amministrazione di richiedere
l‘adempimento ad onerosi obblighi di ―facere‖ a soggetti estranei alla
contaminazione, ha richiesto l‘intervento dell‘Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato.
La rilevanza della corretta definizione degli obblighi di risanamento di un
sito contaminato trova conferma anche nella circostanza che la stessa questione è
stata porta all‘attenzione della Corte di Giustizia da una successiva ordinanza della
stessa Adunanza Plenaria (nel ricorso n. 32 del 2013).
3.
L’orientamento dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e il
rinvio pregiudiziale
Nell‘ordinanza del 21 settembre 2013 n. 25 di rimessione alla Corte di
giustizia del quesito pregiudiziale, l‘Adunanza Plenaria ha ricostruito
compiutamente il quadro degli argomenti a sostegno delle due impostazioni sulla
posizione del proprietario ―incolpevole‖, schierandosi a favore di quella
maggioritaria che riconosce che il proprietario non responsabile risulta gravato
dall‘obbligo di sostenere il costo degli interventi quando siano eseguiti
dall‘Amministrazione (in forza dell‘onere reale che insiste sul bene e del privilegio
immobiliare che assiste le spese di bonifica), ma non ha altra specifica
obbligazione di ―facere” se non quella di adottare le misure di prevenzione di cui
all‘art. 242, comma 1.
Nel definire il punto di vista scelto, il Consiglio di Stato ha argomentato in
modo puntuale sulla coerenza della soluzione accolta rispetto al dato positivo della
disciplina dettata dal legislatore nazionale19.
Nel fare proprio l‘iter logico-giuridico seguito dalla maggior parte dei
giudici amministrativi20, l‘ordinanza di rinvio, in particolare, pone in evidenza la
distinzione tra onere reale (in base al quale l‘obbligazione grava sulla cosa) e
18
Un completa ricostruzione delle posizioni assunte dalla giurisprudenza si trova nell‘ordinanza n.
21/2013 dell‘Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai parr. 11 e 12.
19
Per un commento all‘ordinanza di rinvio dell‘Adunanza Plenaria, cfr. P.M.VIPIANA PERPETUA, La
figura del proprietario di un sito inquinato non responsabile dell’inquinamento: la parola definitiva
dell’Adunanza Plenaria sull’interpretazione della normativa italiana, in Giuris. It., 4, 2014, 948 ss;
M. NUNZIATA, I principi di precauzione, prevenzione e “chi inquina paga”, in Giornale dir. amm., 6,
2014, 656 ss; C. CARRERA, Chi non inquina non deve pagare?, in Urb. App., 4, 2014, 438 ss.
20
Cfr. supra nota 14.
214
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
l‘obbligazione propter rem (in base al quale l‘obbligato è il soggetto proprietario
della cosa)21.
Il riferimento da parte del legislatore alla figura dell‘onere reale nell‘art. 253
dimostra che il proprietario ―incolpevole‖ non è tenuto ad una prestazione di
―facere‖ – che ha comunque facoltà di eseguire su base volontaria – ma soltanto a
garantire, nei limiti del valore del fondo dopo gli interventi, il pagamento delle
spese sostenute dall‘Amministrazione per il risanamento22. La previsione di un
onere reale si rivela coerente con l‘impostazione scelta dal legislatore che vede, nel
proprietario ―incolpevole‖ non un soggetto onerato di una prestazione di ―facere‖
ma ad una prestazione di ―solvere‖.
3.1 – Nel dare conto delle tesi dell‘orientamento minoritario, il Consiglio di
Stato, tuttavia, si è interrogato sulla compatibilità della soluzione accolta rispetto ai
principi alla base dell‘azione dell‘Unione europea in campo ambientale (v. art. 191,
21
L‘istituto dell‘onere reale, come espressamente riconosciuto anche dalla stessa Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato, si caratterizza, da un lato, per un‘intrinseca indeterminatezza del suo contenuto
(in quanto non si rinviene nell‘ordinamento una disciplina generale di fonte legislativa con la
conseguenza che l‘elaborazione del concetto è stata affidata alla dottrina e la giurisprudenza che ha
fatto riferimento ad alcune sporadiche previsioni normative), e, dall‘altro, per la difficoltà di
differenziarlo rispetto all‘analogo istituto dell‘obbligazione propter rem. L‘elemento comune tra
l‘istituto dell‘onere reale e quello dell‘obbligazione propter rem viene individuato nell‘inerenza di
entrambi ad un bene e dalla determinazione del debitore rispetto al rapporto con il bene stesso.
Tuttavia, la dottrina riconosce all‘onere reale natura di obbligazione legale connessa alla res avente
funzione di garanzia reale atipica che può consistere nel dare o in un facere che grava sul proprietario
o sul titolare di un diritto reale di godimento dell‘immobile onerata (v. E. POMINI, L’onere reale nelle
bonifica di siti contaminati, in Riv. Giur. Ambiente, 6, 2010, 1015). La funzione di garanzia reale si
comprende ancora meglio se si considera che la responsabilità del soggetto onerato non può superare
il limite del valore del bene stesso tanto che alcuni autori hanno ritenuto che ―obbligata sia la cosa
relativamente alla quale esiste l’onere‖ (in ciò l‘onere reale si distingue dalle obbligazioni propter
rem per le quali è prevista la responsabilità disciplinata dall‘articolo 2740 c.c. che estende la garanzia
dell‘adempimento a tutto il patrimonio presente e futuro dell‘obbligato) e che per la tutela è prevista
un‘azione reale diversamente dall‘obbligazione propter rem in relazione alla quale si consente di
esperire azione personale nei confronti dell‘obbligato (v. A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, ,
Cedam, Padova, 1999, 532). In generale, sull‘istituto dell‘onere reale si rinvia a F. ROLFI Sulla tipicità
delle obbligazioni propter rem, in Corr. Giur., 1997, 556; V. MARICONDA, Vincoli alla proprietà e
termini di durata, in Corr. Giur., 1987, 955 ss; V. BIGLIAZZI GERI, Oneri reali ed obbligazioni
propter rem, in Trattato di diritto civile, diretto da A. CICU, F. MESSINEO, Giuffrè, Milano, 1984, G.
GANDOLFI, Onere reale (voce), in Enc. Dir., XXX, 1980, 127 ss.; B. BIONDI, Oneri reali e
obbligazioni propter rem, in Foro Pad., 1953, I, 163 ss.). Dell‘istituto dell‘onere reale con riferimento
alla tutela dell‘ambiente e, in particolare, alle attività di bonifica si sono occupati E. POMINI, L’onere
reale nelle bonifica di siti contaminati, in Riv. Giur. Ambiente, 6, 2010, 1015 ss.; R. MONTANARO,
Commento all’art. 253 Oneri reali e privilegi speciali, in Codice dell’Ambiente, R. GRECO, Nel
diritto, Milano, 2009, 862 ss.; D. CHINELLO, Bonifica ambientale ex art. 17 del decreto Ronchi:
responsabilità del proprietario e onere reale sul bene contaminato, in FA, TAR, 2005, 1927 e ss.; F.
GIAMPIETRO, La bonifica dei siti contaminati, Giuffrè, Milano, 2001, 164 ss; L. PRATI, La tutela
dell’acquirente nella compravendita dei siti gravati da oneri di bonifica, in Ambiente, 2000, 408.
22
Cfr. Adunanza Plenaria, 25 settembre 2013, n. 21, punti 16-17.
215
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
par. 2, TFUE) e alla Direttiva sulla responsabilità per danno ambientale (v. Dir.
2004/35/CE).
In primo luogo, nell‘ordinanza di rinvio l‘Adunanza Plenaria richiede alla
Corte di Giustizia la precisa delimitazione della portata precettiva del principio
comunitario ―chi inquina paga‖ 23: in particolare, se le conseguenze patrimoniali del
danno ambientale possano essere riferite soltanto a ―chi‖ abbia effettivamente
inquinato (di cui sia stata, pertanto, accertata la responsabilità) o se, al contrario24,
il principio postuli, comunque, di evitare che il costo degli interventi gravi sulla
collettività, ponendo tali costi a carico del proprietario.
In altri termini, la perplessità del giudice a quo consiste nella possibilità di
interpretare il principio ―chi inquina paga‖ in una prospettiva di responsabilità
23
Come noto, il principio ―chi inquina paga‖ rappresenta il criterio fondamentale per il
perseguimento degli obiettivi di internalizzazione dei costi ambientali: da un lato, costituisce regola
economica di politica ambientale, e, dall‘altro, assolve alla funzione di orientare l‘imputazione dei
costi ambientali (v. M. CECCHETTI, Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Giuffrè,
Milano, 2000, 125 ss.). A partire dalle prime enunciazioni (v. le raccomandazioni OCSE n. C 128del
1972 – Guiding principles concerning international economic aspects of environmental policies - e
n. C 223 del 1974 – Implementation of the polluter-pays principle), il principio ―chi inquina paga‖ è
stato qualificato come strumento di efficienza economica. Come è stato autorevolmente messo in
evidenza, il significato e la funzione del principio ―chi inquina paga‖ non sono rimasti cristallizzati
nel tempo: all‘inizio il principio ha avuto la funzione di prevenire distorsioni alla concorrenza
(l‘obiettivo era quello di escludere la concessione di aiuti di Stato per sostenere i costi del
risanamento ambientale); successivamente è stato utilizzato come strumento per la ridistribuzione dei
costi connessi all‘inquinamento (nel senso di garantire l‘internalizzazione di tali costi in modo da
evitare la loro ricaduta sulla collettività), come strumento di prevenzione (con l‘obiettivo di
incoraggiare l‘inquinatore ad adottare tutte le misure per ridurre l‘inquinamento in modo efficiente);
come strumento ripristinatorio del danno ambientale. L‘applicazione corretta del principio ―chi
inquina paga‖ comporta che l‘inquinatore si assuma la responsabilità per le esternalità (positive o
negative) che derivano dalla sua attività inquinante. Il funzionamento del meccanismo delineato dal
principio sconta però le complicazioni che – a dispetto dell‘apparente chiarezza dei concetti che
utilizza (―inquinatore‖ e ―pagatore‖) – si incontrano nel definire, in concreto, il soggetto da
considerare ―inquinatore‖ e la misura in cui tale soggetto deve essere chiamato a rispondere (v. N. DE
SADELEER, Environmental principles – From political slogans to legal rules, OUP, New York, 2002,
21 ss.). All‘interno dell‘ordinamento europeo il ―principio chi inquina paga‖ è stato introdotto
nell‘Atto unico del 1986. A livello dei Trattati, il principio ―chi inquina paga‖ viene richiamato
nell‘art. 191 TFUE come fondamento per la politica europea in materia di ambiente, mentre, a livello
di diritto derivato, ha ricevuto attuazione nella direttiva 35/2004/CE in materia di responsabilità per
danno ambientale. In dottrina si sono occupati del tema, M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela
dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2007, 247 ss.; S. AMADEO, Art. 174 CE, in A. TIZZANO (a cura
di), Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Giuffrè, Milano, 2004, 174 ss.; A. DE
LUCA, L’evoluzione del principio “chi inquina paga” nel diritto dell’Unione Europea: questioni in
attesa di soluzione uniforme in vista del Libro bianco della Commissione, in Contr. Impr. Europa,
2000, 287 ss.; M. MELI, Il principio comunitario “chi inquina paga”, Giuffrè, Milano, 1996; P.
MANZINI, I costi ambientali nel diritto internazionale, Giuffrè, Milano, 1996, 4 ss.
24
E cioè quando o non è possibile individuare il soggetto responsabile (almeno sotto il profilo
oggettivo del nesso causale), o chi ha contaminato le matrici ambientali non intende far fronte alle
obbligazioni ripristinatorie che l‘ordinamento gli impone di adempiere.
216
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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oggettiva imprenditoriale secondo cui l‘operatore25 deve essere chiamato a
rispondere per il solo fatto di esercitare e trarre profitto da una determinata attività
pericolosa per l‘ambiente o perché semplicemente utilizza complessi industriali sui
quali insistono strutture produttive contaminate e fonte di nuova contaminazione.
Diversamente da quanto avvenuto con il primo rinvio pregiudiziale,
l‘Adunanza Plenaria si domanda anche se il coinvolgimento del proprietario
―incolpevole‖, a prescindere dall‘accertamento del nesso causale, possa trovare una
giustificazione negli altri principi che guidano l‘azione dell‘Unione in materia
ambientale.
Con riferimento al principio di precauzione26 infatti l‘Adunanza osserva che
se l‘esigenza di tutela anticipatoria sottesa a tale principio legittima un intervento
anche in condizioni di incertezza scientifica nello stesso modo può consentire
anche l‘intervento del proprietario quando l‘incertezza ―scientifica‖ riguarda,
invece, il nesso causale. Ad analoga conclusione sulla posizione del proprietario
―incolpevole‖, si può pervenire anche sulla base del principio di prevenzione (che
consente il coinvolgimento del proprietario in ragione dell‘esigenza di evitare che
il ritardo nell‘intervento di riparazione – dovuto ai tempi per l‘indagine
sull‘effettivo responsabile – possa aggravare il danno), e del principio di correzione
del danno, in via prioritaria alla fonte (in quanto il proprietario del bene è anche il
soggetto che si trova nelle condizioni migliori per eseguire gli interventi).
3.2 – Nell‘esprimere il proprio punto di vista sul quesito pregiudiziale,
l‘Adunanza Plenaria ha ritenuto di non poter condividere l‘impostazione che
riconosce l‘obiettivo sotteso al principio ―chi inquina paga‖ nell‘evitare la
collettivizzazione dei costi per il risanamento ambientale sulla base del quale parte
della giurisprudenza ha ammesso un coinvolgimento del proprietario ―incolpevole‖
nelle attività di risanamento.
L‘ordinamento interno italiano dunque per la parte in cui prevede una
responsabilità del proprietario ―incolpevole‖ limitata alla sussistenza di un onere
reale sul bene a garanzia delle spese sostenute per gli interventi eseguiti
dall‘Amministrazione deve dunque ritenersi compatibile con i principi europei che
non richiedono – o meglio non impongono – una responsabilità svincolata dal
rapporto di causalità (sulla scorta della stessa giurisprudenza della Corte di
Giustizia nella causa Erg C-378/08).
25
Per ―operatore‖ la direttiva europea 35/2004/CE intende «qualsiasi persona fisica o giuridica, sia
essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale oppure, quando la
legislazione nazionale lo prevede, a cui è stato delegato un potere economico decisivo sul
funzionamento tecnico di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell'autorizzazione a
svolgere detta attività o la persona che registra o notifica l'attività medesima ».
26
Sul principio di precauzione, cfr. F. DE LEONARDIS, Il principio di precauzione
nell’amministrazione di rischio, Giuffrè, Milano, 2006.
217
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
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4. La sentenza della CGUE 4 marzo 2015 nella causa C-534/13
La Corte di Giustizia conferma che l‘ordinamento interno italiano per la
parte in cui prevede una responsabilità del proprietario ―incolpevole‖ limitata alla
sussistenza di un onere reale sul bene a garanzia delle spese sostenute per gli
interventi eseguiti dall‘Amministrazione deve ritenersi compatibile con i principi
europei in materia di riparazione del danno ambientale che non richiedono – o
meglio non impongono – una responsabilità svincolata dal rapporto di causalità.
La decisione della giudice è molto chiara nello stabilire la correttezza del
―punto di vista‖, espresso dall‘Adunanza Plenaria nell‘ordinanza di rinvio,
favorevole all‘orientamento maggioritario dei giudici amministrativi sul tema degli
obblighi del proprietario ―incolpevole‖ precisando che:
a) il principio ―chi inquina paga‖ – così come gli altri principi in materia
ambientale – ha un‘efficacia diretta nell‘ordinamento degli Stati membri soltanto
attraverso gli atti di diritto derivato (nella fattispecie la direttiva 35/2004/CE), in
cui viene attuato dalle Istituzioni europee, con ciò precludendo la possibilità
all‘Amministrazione di invocare genericamente i principi sanciti dall‘art. 191, par.
1, TFUE per giustificare misure di prevenzione e riparazione;
b) rientra nella competenza del giudice di rinvio la verifica che nel caso di
specie sussistano le condizioni di applicabilità ratione temporis e ratione personae
della Direttiva sul danno ambientale;
c) il contenuto precettivo del principio ―chi inquina paga‖ e la sua funzione
all‘interno della direttiva 35/2004/CE – ove ritenuta applicabile – escludono che si
possa considerare più ragionevole ed efficiente dal punto di vista economico la
soluzione di attribuire al proprietario incolpevole l‘onere di eseguire anche le
attività di bonifica perché connesse – in quanto propedeutiche – alle misure di
prevenzione a cui è invece espressamente tenuto (art. 245, comma 2). Il
proprietario ―incolpevole‖ non ha un ruolo specifico all‘interno del sistema di
responsabilità definito dalla direttiva 35/2004/CE che presuppone comunque
l‘accertamento del nesso causale;
d) se non può essere dimostrato alcun nesso causale ci si colloca al di fuori
della direttiva 35/2004/CE e la fattispecie ricade nell‘ambito di applicazione del
diritto interno;
e) i confini entro i quali uno Stato membro può esercitare il potere
discrezionale che la Direttiva riconosce rispetto alla previsione di forme più
restrittive di responsabilità per il risanamento ambientale.
3.1 – Nella prima parte della motivazione in diritto (punti 38-42), la Corte
ribadisce il concetto secondo cui l‘art. 191, paragrafo 2, TFUE, che contiene il
principio ―chi inquina paga‖ è rivolto esclusivamente all‘azione delle istituzioni
dell‘Unione nell‘esercizio della funzione legislativa.
Quando ciò non sia espressamente previsto da una fonte legislativa di diritto
interno, dunque, il principio ―chi inquina paga‖ non può dunque essere invocato
218
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
«in quanto tale dai privati al fine di escludere l’applicazione di una normativa
nazionale» né tantomeno può essere utilizzato dalle autorità amministrative
competenti in materia ambientale come strumento per imporre obblighi di
risanamento ambientale27.
La Corte poi precisa che il ―principio chi inquina paga‖ può trovare
applicazione soltanto per il tramite di atti di diritto derivato che lo attuino, e, in
particolare, della Direttiva sulla responsabilità ambientale 35/2004/CE28.
3.2 – Nella seconda parte (punti 43-47), la Corte si interroga, manifestando
alcune perplessità, sulla possibilità di ritenere applicabile ratione temporis il
regime di responsabilità della direttiva 35/2004/CE anche alle c.d. contaminazioni
storiche dal momento che, in forza del principio di non retroattività, l‘art. 17
prevede come dies a quo la data del 30 aprile 200729.
Nel rispetto delle attribuzioni istituzionali sancite dall‘art. 267 TFUE, la
Corte non si pronuncia in ordine all‘applicabilità della Direttiva, rimettendo la
verifica in fatto all‘Adunanza Plenaria (v. punto 45); ma al tempo stesso precisa
che, in caso di accertamento negativo (tale per cui non possa trovare applicazione
la Direttiva), la decisione dovrà essere assunta esclusivamente sulla base del diritto
nazionale.
Sul punto, la Corte di Giustizia sottolinea anche che, dagli elementi di fatto
del procedimento principale, risulta che «nessuna delle parti appellate … svolge
attualmente una delle attività elencate nell’allegato III della direttiva 2004/35»
(non si tratta, pertanto, di operatori ai quali possono essere attribuite forme di
responsabilità oggettiva, come previsto dall‘art. 8 della Direttiva).
3.3 – Per la diversa ipotesi in cui il giudice a quo, invece, ritenga applicabile
la Direttiva, la sentenza conferma i principi già enunciati nei suoi precedenti
relativi al Sito di Priolo in merito alla definizione dei requisiti della responsabilità
ambientale, ribadendo che «è necessario che sia accertato dall’autorità competente
un nesso causale tra l’azione di uno o più operatori individuabili e il danno
ambientale concreto e quantificabile al fine dell’imposizione a tale operatore o a
27
Sull‘efficacia ―indiretta‖ dei principi di diritto europeo, cfr. G. STROZZI, Il Sistema normativo, in
Trattato di diritto amministrativo europeo, Tomo I, M.P.CHITI E G. GRECO (direttori), Giuffrè, Milano
2007, 172 ss.; G. TESAURO, Diritto comunitario, Cedam, Padova, 2008, 106 ss.; J. ZILLER, Diritto
delle politiche e delle istituzioni dell’Unione europea, Il Mulino, Bologna, 551 ss.
28
Cfr. in questo senso, P.A. PILITTU, Commento all’art. 191 TFUE, in Commentario breve ai Trattati
dell’Unione europea, F.POCAR, M.C. BARUFFI (a cura di), Cedam, Padova, 2014, 1109, secondo il
quale i principi della politica ambientale dell‘Unione europea ―non possono invece vincolare
direttamente gli Stati e gli individui, se non per imposizione mediata attraverso atti di diritto
derivato‖. La copertura di una norma di diritto interno quando i pubblici poteri fanno utilizzo dei
principi in materia ambientale risponde all‘esigenza di garantire il rispetto del principio di legalità
dell‘azione amministrativa, v. F. GOISIS, Caratteri e rilevanza del principio comunitario «chi inquina
paga» nell’ordinamento nazionale, in FA – Cons. Stato, 2009, 2716.
29
La Società Edison aveva dichiarato che l‘attività di contaminazione sarebbe cessata già nel 1988 –
v. conclusioni dell‘Avvocato generale del 20 novembre 2014, punto 28.
219
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
tali operatori di misure di riparazione, a prescindere dal tipo di inquinamento di
cui trattasi» (parr. da 54 a 59).
La Corte, infatti, precisa in modo netto (v. paragrafi da 48 a 53) che uno dei
presupposti essenziali per l‘applicazione del regime di responsabilità, dettato dalla
direttiva 35/2004/CE, è proprio «l’individuazione di un operatore che possa essere
qualificato come responsabile» e, più precisamente, può essere considerato
economicamente responsabile «l’operatore la cui attività ha causato un danno
ambientale o la minaccia imminente di tale danno». Solo a tale operatore
«l’autorità competente può imporre di adottare le misure necessarie», avendo
anche «l’obbligo di individuare l’operatore che ha causato il danno».
La Corte insiste sull‘importanza del requisito di causalità tra l‘attività
dell‘operatore e il danno ambientale, precisando che l‘accertamento del nesso
causale trova applicazione per entrambi i regimi di responsabilità previsti dalla
direttiva n. 35/2004/CE: e cioè sia nell‘ambito del regime di responsabilità
oggettiva degli operatori che esercitano attività ricomprese nell‘Allegato III (v. art.
3, par. 1, lett. a), sia nell‘ambito del regime della responsabilità soggettiva
derivante dal comportamento doloso o colposo dell‘operatore che invece esercita
attività diverse da quelle elencate all‘Allegato III (v. art. 3, par. 1, lett. b).
Su tale base, è dunque possibile non essere chiamati a rispondere se si è in
grado di dimostrare che i danni sono opera di un terzo e si sono verificati
nonostante l‘esistenza di idonee misure di messa in sicurezza oppure sono
conseguenza di un ordine o di un‘istruzione impartiti da un‘autorità pubblica.
Il principio ―chi inquina paga‖ interpretato nel senso che non sia possibile
imporre al proprietario non responsabile, direttamente ed automaticamente,
obblighi di messa in sicurezza e bonifica dunque tradisce la sua funzione
economica, tanto da non poter essere giustificata neppure con il riferimento al noto
principio «cuius commoda eius et incommoda».
L‘obiettivo perseguito dalla normativa europea consiste, infatti, nel dare
corretti segnali al mercato e, quindi, corretti incentivi/disincentivi agli operatori.
Il meccanismo del risarcimento del danno ambientale è stato costruito come
presupposto della correttezza del mercato interno dell‘Unione europea: le imprese
virtuose non possono sostenere i costi che hanno prodotto le imprese non virtuose.
L‘eventuale applicazione ―aggravata‖ per le imprese virtuose delle norme di
responsabilità ambientali comporterebbe un obiettivo ed ingiustificato
disallineamento con le norme europee ed una evidente penalizzazione delle
imprese — nel caso di specie italiane — rispetto a quelle estere.
Come ha ricordato l‘Avvocato generale Kokott, nelle conclusioni nella causa
Erg C-378/08 (punti 85 e 86), infatti, la Direttiva svolge una precisa funzione di
stimolo, incitando «i potenziali autori di danni all’ambiente a prevenire gli
inquinamenti e contribuendo, in ultima istanza, anche alla realizzazione del
principio dell’azione preventiva».
220
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Il principio ―chi inquina paga‖ non si propone, dunque, di scongiurare che le
esternalità ambientali si riflettano sulla collettività, quanto piuttosto consentire la
razionale internalizzazione dei costi in capo al soggetto effettivamente inquinatore
in una prospettiva di prevenzione e di precauzione. La consapevolezza
dell‘operatore di dover rispondere per le conseguenze ambientali negative connesse
alla sua attività dovrebbe indurlo a prevenire gli effetti lesivi del bene ambiente,
garantendo così una tutela anticipatoria dell‘ambiente, perché l‘operatore avrebbe
l‘interesse – per evitare conseguenze in punto di responsabilità – ad adottare tutte
le cautele necessarie a prevenire possibili conseguenze dannose30.
Una diversa interpretazione del principio ―chi inquina paga‖ si pone in
contrasto con l‘ordinamento europeo, perché conduce ad imporre oneri
ingentissimi per interventi di messa in sicurezza a carico di soggetti che non hanno
causato il danno o la minaccia di danno; mentre porta – paradossalmente – a
sollevare da tali oneri gli operatori che hanno causato il danno e che, viceversa,
dovrebbero sopportarli integralmente31.
Di qui, la risposta al quesito pregiudiziale nel senso che la normativa italiana
non contrasta con il principio ―chi inquina paga‖ come attuato dalla direttiva
2004/35/CE (v. punto 63).
3.3 – Il quesito pregiudiziale sollevato dall‘Adunanza Plenaria riguardava
anche l‘interpretazione dei principi comunitari in materia ambientale
indipendentemente dal diritto derivato dell‘Unione europea ovvero al di fuori della
loro concreta positivizzazione nell‘ambito della direttiva 35/2004/CE.
Anche se l‘ordinanza di rinvio non ne fa espressa menzione32, la base
giuridica per tale quesito risiede nell‘art. 3 ter ―Principio dell’azione ambientale‖
del d.lgs. n. 152/2006, per la parte in cui prevede che la tutela dell‘ambiente e degli
ecosistemi debba essere informata ai principi della precauzione, dell‘azione
30
Sull‘interpretazione in tale senso del principio ―chi inquina paga‖, v. F. GOISIS, Caratteri e
rilevanza del principio comunitario «chi inquina paga» nell’ordinamento nazionale, in FA – Cons.
Stato, 2009, 2711 ss.
31
Non è peraltro mancato chi ha sottolineato l‘effetto negativo che produce una simile interpretazione
del principio dal momento che ciò si traduce nella esclusione di un obbligo di riparazione
dell‘ambiente quando non sia possibile: la conseguenza che ne deriva è la permanenza del
pregiudizio alle risorse ambientali. Un giudizio critico sull‘attuazione del principio ―chi inquina paga‖
nell‘ambito della direttiva 2004/35/CE è stato espresso da L.KRAMER, Eu environmental Law,
Sweet&Maxwell, London, 2012, pag. 27, secondo il quale «The Commission proposal had suggested
that in the case, where the polluter of environmental damage could not be identified or was unable to
pay, the Member States should be obliged to restore the impaired environment. The final version of
the Directive, invoking the polluter-pays principle, provides that in such cases no obligation exists to
restore the environment. Thus, is to be expected that in such cases the environment is normally not
restored […]».
32
Sul punto, l‘Avvocato generale nota che «è evidentemente l’articolo 3 ter del decreto legislativo n.
152 ad essere implicitamente alla base della domanda pregiudiziale‖, anche se il Consiglio di Stato
non lo ha precisato (v. parr. 69-70 delle conclusioni).
221
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni all‘ambiente, e
del principio ―chi inquina paga‖33.
In altri termini, il Consiglio di Stato sembra aver chiesto alla Corte se sia
possibile riconoscere a tali principi un‘―efficacia esorbitante‖ rispetto alla Direttiva
sul danno ambientale, in ragione della norma di diritto interno che li richiama e se
ciò possa portare a legittimare una diversa ricostruzione degli obblighi del
proprietario ―incolpevole‖ rispetto a quella prospettata.
In relazione a questo profilo, la Corte non ha ritenuto di prendere una
specifica posizione probabilmente ritenendo la questione assorbita
dall‘affermazione relativa all‘efficacia ―indiretta‖ del principio ―chi inquina paga‖
subordinata all‘attuazione in un atto di diritto derivato34.
Soltanto in chiave interpretativa, può essere comunque utile illustrare la
posizione dell‘Avvocato Generale35 che in merito all‘ipotesi – sulla quale avanza
perplessità – in cui si possa considerare che i principi ambientali dell‘Unione
caratterizzano il diritto interno a prescindere dal diritto derivato, in forza del
richiamo contenuto nell‘art. 3 ter cit.: «non risulta che ciò condurrebbe ad un
risultato diverso rispetto all’interpretazione dell’art. 16 della direttiva sulla
responsabilità ambientale».
3.4 – La sentenza conferma la discrezionalità del legislatore nazionale
rispetto alla possibile individuazione di altri soggetti chiamati a intervenire nel
procedimento di risanamento ambientale, lasciando, altresì, trasparire come la
logica a sostegno del ragionamento della Corte di giustizia sia quella di delimitare
33
Con il decreto correttivo n. 4 del 2008, il legislatore ha inserito nella prima parte del d.lgs. n. 152
del 2006 gli articoli da 3-bis a 3-sexies, che enunciano i principi di derivazione europea alla base delle
strategie dell‘Unione per la tutela dell‘ambiente (artt. 3 ter e 3 quater), insieme ai principi
―organizzativi‖ di sussidiarietà e leale collaborazione (art. 3 quinquies) e di accesso alle informazioni
ambientali (art. 3 sexies). L‘intervento integrativo aveva l‘obiettivo di colmare una lacuna del decreto
legislativo molto criticata e cioè la mancanza dell‘enunciazione dei principi generali in materia
ambientale che aveva ridotto – secondo alcuni – il decreto ad un mero contenitore di normative
settoriali (sul punto, cfr. U. SALANITRO, I principi generali nel Codice dell’Ambiente, in Giorn. d.
amm., 2009, 103). La dottrina ha escluso una portata effettivamente innovativa della novella
normativa ritenendo che i principi alla base della strategia europea in materia di ambiente avessero
già forza vincolante per il legislatore italiano prima del correttivo, sia in forza del principio di
primazia del diritto dell‘Unione europea (come ribadisce la stessa «Dichiarazione relativa al
primato» allegata al Trattato di Lisbona), sia in ragione della copertura costituzionale garantita a tali
principi dall‘art. 117 comma 1 della Costituzione e dal richiamo al diritto europeo contenuto nell‘art.
1, comma 1 e comma 1 ter della l. n. 241/1990 (in proposito, cfr. S. RIZZIOLI, Commento all’art. 3-ter,
in L.COSTATO, F.PELLIZZER (a cura di), Commentario breve al codice dell’ambiente: d.legisl. 3 aprile
2006 n. 152, Cedam, Padova, 2012, 14 ss.).
34
In dottrina (ma anche in giurisprudenza), si è esclusa la possibilità per i singoli di invocare, dinanzi
al giudice nazionale, i principi in materia ambientale richiamati dall‘art. 3 ter del d.lgs. n. 152/2006
(S. RIZZIOLI, Commento all’art. 3-ter, op. cit., 17). Il principio europeo infatti si traduce in comando
giuridico che ha forza vincolante nella misura in cui sia attuato in uno strumento normativo di diritto
derivato (come nel caso della direttiva sul danno ambientale).
35
v. parr. 67-71 delle conclusioni depositate in data 20 novembre 2014.
222
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
la portata ―pratica‖ della pronuncia in modo da lasciare impregiudicata la facoltà
degli Stati membri di prevedere regimi più stringenti.
La scelta della Corte trova giustificazione nella necessità di tenere conto
delle diversità nei regimi di ripartizione degli obblighi connessi alla responsabilità
ambientale presenti negli ordinamenti degli Stati membri36 e pertanto ribadisce che
la previsione di fattispecie di responsabilità che prescindano dal nesso causale è
rimessa dall‘Unione alla discrezionalità del singolo legislatore nazionale.
L‘art.16 della direttiva 2004/35/CE prevede, infatti, conformemente all‘art.
193 TFUE, la facoltà per gli Stati membri di mantenere e adottare disposizioni più
severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, compresa, in
particolare, l‘individuazione di altri soggetti responsabili, a condizione che tali
misure siano compatibili con i Trattati (punto 61).
Con riferimento alla fattispecie concreta oggetto del rinvio pregiudiziale, la
Corte conferma che la normativa italiana non prescrive forme di responsabilità più
restrittive rispetto a quella di tipo soggettivo (comunque ancorata al nesso causale),
delineata nel d.lgs. n. 152/2006 come interpretato dall‘Adunanza Plenaria.
La possibilità di imporre misure diverse da quelle di prevenzione nei
confronti del proprietario ―incolpevole‖ (o di altri soggetti interessati ma comunque
estranei all‘inquinamento), pur non essendo in via generale preclusa, rimane però
subordinata ad un futuro intervento del legislatore, non surrogabile da una prassi
interpretativa dell‘Amministrazione.
Ci si può chiedere se i principi del ―chi inquina paga‖, di prevenzione, di
precauzione, e di proporzionalità, limitando di fatto e di diritto la discrezionalità
del legislatore possono, portare ad escludere la legittimità di un regime di
responsabilità oggettiva imprenditoriale per il proprietario ―incolpevole‖ (così
come delineato nella minoritaria giurisprudenza del TAR Catania, del CGA, e del
TAR Lazio37).
In relazione a questo profilo, come visto, la sentenza si limita ad utilizzare
una clausola di stile che si riferisce al generico obbligo per lo Stato di adeguarsi a
quanto disposto dai Trattati.
Tale profilo viene approfondito nelle conclusioni dell‘Avvocato Generale,
secondo il quale è pur possibile prevedere un intervento in via sussidiaria del
proprietario incolpevole, ma a condizione che non abbia l‘effetto di sostituire il
proprietario all‘effettivo responsabile, lasciando quest‘ultimo indenne da ogni
coinvolgimento.
In applicazione del principio ―chi inquina paga‖, infatti, la direttiva
35/2004/CE esclude la possibilità di prevedere obblighi più restrittivi nella misura
in cui implichino che sia chiamato ad intervenire chi non ha causato il danno.
36
Sul punto, v. B. POZZO, Il recepimento della direttiva 2004/35/Ce sulla responsabilità ambientale
in Germania, Spagna, Francia e Regno Unito, in Riv. giur. ambiente, 2010, 207.
37
Cfr. CGARS, ord. n. 321 del 2 maggio 2006; TAR Sicilia, Catania, 11 settembre 2012, n. 2117;
TAR Lazio, Roma, sez. I, 14 marzo 2011, 2263.
223
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Né a diverse conclusioni l‘Avvocato generale ritiene si possa pervenire con
riferimento agli altri principi.
Da un lato, il principio dell‘azione preventiva e quello della correzione,
anzitutto alla fonte, dei danni all‘ambiente non esigono che il proprietario del
fondo sia chiamato a partecipare direttamente alle attività di bonifica perché gli
autori dell‘inquinamento sono da considerare, normalmente, anche gli stessi
soggetti che possono adottare le misure più efficaci, e che, per effetto della
previsione di una loro responsabilità, hanno anche un concreto interesse a
realizzare le adeguate misure di prevenzione.
Dall‘altro lato, per quanto riferito ad una situazione di incertezza scientifica,
il principio di precauzione non trova applicazione quando l‘Amministrazione ha
accertato la sussistenza di un nesso causale (anche mediante indici presuntivi),
perché in tal caso gli oneri di risanamento dovranno ricadere soltanto sull‘effettivo
responsabile.
5.
Prospettive
La pronuncia della Corte di Giustizia fornisce chiarimenti per la definizione
degli obblighi del proprietario ―incolpevole‖38, che troveranno applicazione non
soltanto nel frequente contenzioso attivato davanti al giudice amministrativo
nazionale, ma avranno anche riflessi sulle prospettive delle amministrazioni, delle
imprese e dello stesso legislatore nella corretta gestione dei procedimenti per il
risanamento ambientale di siti contaminati.
5.1 – Per quel che riguarda la controversia che ha dato origine al rinvio,
l‘Adunanza Plenaria non dovrebbe discostarsi – in sede di definizione del merito –
dalla risposta della Corte di giustizia al quesito pregiudiziale. Il Consiglio di Stato,
infatti, non potrà che confermare l‘esito del giudizio di primo grado e cioè
l‘illegittimità delle misure di messa in sicurezza e bonifica imposte nei confronti
delle Società appellate in ragione della riscontrata (e non contestata) mancanza di
responsabilità nella causazione della contaminazione.
La conferma dell‘orientamento assunto dall‘Adunanza Plenaria
nell‘ordinanza di rinvio – con la relativa affermazione del principio di diritto
nell‘interesse della legge – rafforzerà l‘opzione interpretativa maggioritaria, seguita
dalla quasi totalità dei tribunali amministrativi regionali e anche dal giudice civile
che, per primo, ha fatto applicazione della pronuncia della Corte di Giustizia,
escludendo la responsabilità da posizione di un‘impresa che aveva acquisito un sito
caratterizzato da contaminazione storica 39.
38
Chiarimento che riguarda anche gli altri soggetti che abbiano con il bene un rapporto diverso da
quello proprietario ma siano comunque estranei alla contaminazione.
39
Cfr. Tribunale ordinario di Livorno, ordinanza n. 5261 del 13 aprile 2015.
224
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
I principi così affermati non potranno non influire sugli sviluppi della stessa
giurisprudenza minoritaria (in particolare, del TAR Catania e del TAR Lazio), che
dovrà superare l‘impostazione diretta a configurare in capo al proprietario
―incolpevole‖ una responsabilità oggettiva imprenditoriale (indipendente anche
dalla sussistenza del nesso causale), collegata con il solo fatto di avvantaggiarsi
delle utilità economiche del fondo40.
Se appare difficile che prosegua la discussione sulla possibilità di richiedere
al proprietario ―incolpevole‖ misure di riparazione (messa in sicurezza e bonifica),
risulta facile invece prevedere lo spostamento del contenzioso sull‘interpretazione
dell‘effettivo contenuto prescrittivo delle attività di prevenzione (art. 245, comma
2).
Non è infatti escluso che l‘amministrazione intenda ricomprendere nel genus
delle misure di prevenzione anche gli interventi di messa in sicurezza d‘emergenza
dell‘area contaminata41.
Nella disciplina italiana risulta tuttavia netta la distinzione tra le misure di
prevenzione (v. art. 240, comma 1, lett. i) che sono destinate a contrastare il
pericolo o la minaccia di un danno che è probabile che si possa verificare – rispetto
alle misure di messa in sicurezza di emergenza e agli interventi di bonifica – che
sono diretti a riparare le conseguenze di un danno che si è già verificato (v. art.
240, comma 1, lett. m). Si tratta di previsioni coerenti con la direttiva n.
35/2004/CE, che distingue appunto tra gli interventi destinati a prevenire un danno
non ancora verificatosi (art. 2, n. 10) e gli interventi volti a rimediare alle
conseguenze del danno già prodotto (art. 2, n. 11). Le misure per impedire la
propagazione degli effetti dannosi, dirette a riparare il danno già prodotto, non
coincidono con le misure di prevenzione o di correzione alla fonte dei danni che è
possibile causare all‘ambiente. Tali tipologie di attività e interventi, infatti, hanno
natura e importanza qualitativa e quantitativa, anche sul piano economico,
completamente diverse. In questo senso ha preso posizione lo stesso Avvocato
generale Kokott nelle conclusioni delle cause Erg del 2010 (punto 75), secondo cui
«la prevenzione dei danni ambientali nell’esercizio di un’attività presenta una
40
In proposito, occorre sottolineare che l‘Avvocato generale – nelle proprie osservazioni del 20
novembre 2014 (v. punti 42-46) – ha ritenuta erronea l‘interpretazione della precedente pronuncia di
Corte di giustizia nella causa Erg C-379/08 fatta dai giudizi aderenti all‘orientamento minoritario,
perché in chiaro contrasto con il principio per cui gli operatori non possono essere tenuti a sostenere
oneri economici per le attività di risanamento se non hanno contribuito all‘inquinamento (principio
che la Corte di giustizia ha espresso sia nella stessa causa C-379/08 sia nell‘altra C-378/08).
41
v. TAR Lazio, Roma, I, 12 febbraio 2015, n. 2509 che ha deciso ritenuto legittima la richiesta da
parte dell‘Amministrazione al proprietario ―incolpevole‖ dell‘esecuzione di attività di messa in
sicurezza del sito. In quanto riconducibili al genus delle ―precauzioni‖. Tali misure, devono gravare
anche sul proprietario del terreno o sul gestore in funzione anticipatoria della tutela rispetto al
verificarsi di un danno ambientale dal momento che è diretta contrasto dei danni. La possibilità di
prescindere dall‘individuazione del soggetto responsabile del fenomeno di contaminazione troverebbe
giustificazione nella mancanza di una funzione risarcitoria e/o risarcitoria della messa in sicurezza
d‘emergenza.
225
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
natura totalmente differente rispetto all’impedimento della propagazione dei danni
pregressi».
Considerare le misure di messa in sicurezza di emergenza come una
categoria particolare di misure di ―prevenzione‖ sembra dunque in contrasto con la
sentenza della Corte di giustizia del 4 marzo 2015 dal momento che produce
l‘effetto di imporre un obbligo di riparazione nei confronti di un soggetto non
responsabile per la contaminazione.
5.2 – L‘Amministrazione dovrà tener conto di quanto la Corte sottolinea
sulla centralità del ruolo dell‘attività istruttoria diretta alla individuazione dei
singoli contributi alla causazione del danno ambientale.
In tal modo, l‘Amministrazione dovrebbe superare la prassi di addossare, in
prima battuta, la responsabilità degli interventi al soggetto proprietario
―incolpevole‖, perché quello più facilmente individuabile in ragione del rapporto
concreto che intrattiene con la res contaminata.
Tale escamotage, utilizzato soprattutto nelle ipotesi di contaminazioni
storiche risalenti, dovrà essere sostituito da attività di indagine più approfondite che
potranno comunque avvalersi sia delle presenza di indizi plausibili per dar corpo
alle presunzioni riconosciute dalla giurisprudenza della Corte di giustizia – la
vicinanza dell‘impianto dell‘operatore all‘inquinamento e la corrispondenza tra le
sostanza inquinanti e i componenti impiegati dallo stesso operatore nell‘esercizio
della propria attività – sia della collaborazione dei privati per la ricostruzione delle
attività pregresse che spesso risalgono a decenni addietro. Le ―scorciatoie‖
utilizzate nella prassi meno recente da parte dell‘amministrazione hanno, infatti,
dato luogo a numerose pronunce giurisprudenziali che hanno censurato le
prescrizioni imposte ai proprietari non colpevoli, proprio accogliendo la denuncia
di gravi carenze delle attività istruttorie effettuate.
Inoltre, la conferma dell‘esclusione dell‘efficacia diretta del principio ―chi
inquina paga‖ nel nostro ordinamento (che non può prescindere dalla sua
attuazione nella Direttiva sulla responsabilità per danni ambientali) potrà avere
significativi effetti pratici, nella misura in cui sia interpretata come riferibile anche
agli altri principi richiamati dall‘ordinanza di rinvio42.
5.3 – Dal punto di vista delle imprese (e più in generale dei soggetti privati),
la necessità di porre in essere attività di prevenzione e comunque di subire il
recupero dei costi degli interventi di bonifica da parte del proprietario
―incolpevole‖ può, in ogni caso, comportare esborsi economici consistenti con un
importante impatto sui bilanci societari e non soltanto di quelli delle piccole e
medie realtà imprenditoriali.
Considerata la previsione dell‘onere reale sul terreno contaminato in
funzione di garanzia della rivalsa dell‘Amministrazione e il privilegio immobiliare
42
Sul punto, cfr. A. MARTELLI, Proprietario incolpevole: limiti di responsabilità conformi al diritto
UE, in Amb. e sicurezza, 8, 2015, 18 ss.
226
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
rispetto ai costi sostenuti per gli interventi, ci si potrebbe effettivamente domandare
– come è stato già fatto – se la posizione del proprietario sia poi davvero migliore
del soggetto responsabile43?.
Nella prospettiva del proprietario ―incolpevole‖ potrebbe anche rivelarsi
preferibile intervenire volontariamente nell‘ambito della procedura di risanamento
con lo scopo di esercitare un maggiore controllo sulle scelte relative
all‘individuazione delle tipologie di interventi, all‘affidamento e alla esecuzione
dei lavori (l‘esigenza partecipativa si rivela più forte laddove il progetto di
intervento venga elaborato dall‘Amministrazione, che ne affida la redazione a
soggetti terzi – nella prassi ad una società in house del Ministero dell‘Ambiente e
della tutela del territorio e del mare – con la probabilità che con l‘esecuzione in
danno si impieghino somme molto maggiori di quelle che i soggetti interessati
avrebbe potuto sostenere agendo direttamente)44.
Alla luce della sentenza in commento emerge anche la rilevanza che assume
lo svolgimento di un‘attività conoscitiva diretta a verificare lo stato qualitativo
delle matrici ambientali del sito (sia di carattere preventivo – relativo alla fase
dell‘acquisto del bene – sia di carattere successivo).
Se il presupposto per escludere l‘obbligo di intervenire consiste nella
dimostrazione dell‘assenza di un contributo alla causazione del danno (nesso
causale che l‘Amministrazione, invece, può anche presumere sulla base degli
specifici indici delineati dalla Corte di Giustizia, utilizzando la regola probatoria
del ―più probabile che non‖), diventa essenziale lo svolgimento di un‘adeguata due
diligence ambientale delle condizioni sito specifiche relative al terreno che si
acquista.
La ―fotografia‖ della situazione ambientale del bene contaminato45 scattata
al momento del trasferimento della proprietà dovrà continuare ad essere monitorata
in modo da accertare tempestivamente l‘eventuale verificarsi di aggravamenti
dell‘inquinamento già presente. L‘attività di indagine sulle condizioni ambientali si
rivela utile soprattutto quando l‘area di proprietà ricada all‘interno di un sito
interessato da fenomeni di contaminazione storica riconducibile all‘attività
pregressa (o anche attuale) di più soggetti perché potrebbe agevolare la
determinazione dell‘apporto causale di ciascuno (e la conseguente corretta
ripartizione dei relativi interventi)46.
43
Cfr. P.M.VIPIANA PERPETUA, op. cit., 954.
Cfr. G. MANFREDI, La bonifica dei siti inquinati tra sanzioni, misure ripristinatorie e risarcimento
del danno all’ambiente, in Riv. Giur. Ambiente, 2002, 5, 667.
45
Si tratta della c.d. ―baseline‖, riferita sia allo stato qualitativo delle matrici ambientali, sia alla
ricostruzione del quadro conoscitivo sulle attività precedentemente esercitate sul sito, con particolare
riguardo alle sostanze impiegate nei precedenti cicli produttivi e al regime autorizzatorio.
46
In proposito, si deve segnalare che la nuova formulazione dell‘art. 311, comma 3, d.lgs. n.
152/2006 per effetto della legge n. 97/2013 adesso prevede che del danno ambientale «ciascuno
risponde nei limiti della propria responsabilità personale», in coerenza con il principio ―chi inquina
44
227
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
La sentenza della Corte di Giustizia lascia comunque aperto il problema
della responsabilità dell‘ex proprietario che abbia terminato la propria attività
produttiva anteriormente all‘entrata in vigore della disciplina sul ripristino
ambientale delle aree contaminate.
In relazione a tale situazione, infatti, si potrebbe affermare che i principi di
irretroattività, certezza del diritto e affidamento non consentono di attribuire una
responsabilità all‘operatore che abbia provocato un evento che solo
successivamente sia stato qualificato dall‘ordinamento come fenomeno di
inquinamento. Il giudice europeo non si è espresso sul punto, né tantomeno
avrebbe potuto, dal momento che il tema non rientrava all‘interno dell‘oggetto del
quesito pregiudiziale sollevato dall‘Adunanza Plenaria47.
La questione – che si è posta nel contenzioso nazionale – può ritenersi
tuttavia superabile in ragione della fondamentale esigenza di accertare sempre e
comunque il nesso causale tra fatto e danno ambientale, esigenza che costituisce la
sostanza del principio ―chi inquina paga‖. E il principio ―chi inquina paga‖ non può
certo tollerare eccezioni nel caso in cui l‘originario inquinatore abbia ceduto ad un
terzo soggetto (incolpevole) il sito inquinato.
La giurisprudenza interna, peraltro, ha già avuto modo di evidenziare che
con la richiesta all‘ex proprietario non si tratta di attribuire una portata retroattiva
della disposizione precettiva, ma piuttosto dell‘applicazione ratione temporis della
legge al fine di fare cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere
permanente (l‘inquinamento), che possono essere eliminati soltanto con la
bonifica48.
5.4 – La decisione della Corte di Giustizia dovrebbe favorire il consolidarsi
di un‘interpretazione ragionevole e coerente del dato normativo dettato dal
legislatore nazionale, con il definitivo superamento di forzature interpretative che,
come accertato dal giudice di Lussemburgo, non trovano giustificazione nelle
norme europee.
Una maggiore certezza e una puntuale definizione degli obblighi da
attribuire al responsabile della contaminazione, da un lato, e al proprietario
incolpevole, dall‘altro, si presenta oggi comunque particolarmente urgente, se si
considera anche il recente intervento legislativo che ha introdotto nel codice
penale, tra i reati ambientali, ―l‘omessa bonifica‖49. È evidente che l‘accertamento
paga‖. In dottrina, v. F. BONELLI, Il risarcimento del danno all’ambiente dopo le modifiche del 2009 e
del 2013 al T.U. 152/2006, in Dir. commercio internazionale, 1, 2014, 14 ss.
47
Il quesito infatti atteneva solo ed esclusivamente alla valutazione della posizione dell‘attuale
proprietario incolpevole e non già dell‘ex proprietario del sito contaminato
48
In questi termini, cfr. Cons. Stato, VI, 23 giugno 2014, n. 3165.
49
Cfr. art. 452 terdecies c.p.: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, essendovi
obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla
bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi è punito con la pena della reclusione da
uno a quattro anni e con la multa da euro 20.000 a euro 80.000». L‘articolo è stato introdotto dalla
legge 22 maggio 2015, n. 68.
228
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
di quali siano gli obblighi di bonifica stabiliti per legge o per ordine dei giudici e
delle amministrazioni diventa un requisito indispensabile per un corretto
funzionamento di questo rilevante sistema normativo.
229
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ABSTRACT
Francesco Grassi – La Corte di Giustizia conferma che sul proprietario
“incolpevole” non grava l’obbligo di effettuare le attività di bonifica
Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia dell‘Unione conferma la
correttezza del punto di vista espresso dall‘Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato nell‘ordinanza di rimessione, secondo cui il d.lgs. n. 152/2006 limita gli
obblighi di risanamento ambientale a carico del proprietario ―incolpevole‖ alla
sola adozione di misure di prevenzione. I principi dell‘Unione europea in materia
ambientale e la direttiva 2005/35/CE sulla responsabilità per danni all‘ambiente
sono stati, infatti, ritenuti compatibili con una normativa interna che non imponga
al proprietario ―incolpevole‖ di un sito contaminato l‘esecuzione di attività di
bonifica. Il giudice europeo non esclude la discrezionalità degli Stati nel fissare
norme più rigorose, ma ribadisce che l‘affermazione della responsabilità deve
avvenire sulla base di un rigoroso accertamento del nesso causale (come già
affermato nella causa C-378/08). La pronuncia della Corte di Giustizia offre una
chiave interpretativa utile sia per superare il contrasto giurisprudenziale sulla
ripartizione degli obblighi tra il responsabile della contaminazione e il proprietario
incolpevole, sia per precisare l‘ambito di operatività della fattispecie di ―omessa
bonifica‖, recentemente introdotta nel codice penale.
With the decision under review, the Court of Justice of the Union confirms the
views expressed by the Consiglio di Stato in the referral: the legislative decree. N.
152/2006 limits the requirements of environmental remediation at the owner's
expense "not guilty" to the sole adoption of preventive measures. The EU
principles on the environment and Directive 2005/35 / EC on environmental
liability are compatible with legislation that does not require the owner "not
guilty" to perform a remediation of a contaminated site. The European court does
not exclude the discretion of States to set higher standards, but confirms that the
responsibility must rest on a rigorous assessment of causality (as already stated in
Case C-378/08). ). The decision of the Court of Justice provides a useful
interpretative key either to overcome the case law conflict on the division of
responsibility between the manager and the owner of the contamination
blameless, either to clarify the scope of the new types of "omitted clean", recently
introduced in the Criminal Code.
230
OSSERVATORIO
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ANNAMARIA GIGLI*
Osservatorio giurisprudenziale sui vincoli paesaggistici ex lege (art. 142
del d. lgs. n. 42/2004)
La raccolta giurisprudenziale che segue mira a radunare ed ordinare alcune
delle più recenti pronunce della giurisprudenza in materia di vincoli paesaggisti ex
lege.
Come noto la categoria dei vincoli paesaggistici è disciplinata dal Codice dei
beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 2004), che individua tre possibili
tipologie di bene paesaggistico. La prima è quella dei beni oggetto di “vincolo
provvedimentale”, riconducibile alla “dichiarazione di notevole interesse
pubblico” 1 . Con la legge “Galasso” del 1985 venivano poi introdotti i vincoli
paesaggistici ope legis, trovanti la loro fonte di legittimazione direttamente nella
legge, che oggi ritroviamo analiticamente elencati nell’art. 142 del Codice2. Alle
tipologie di vincolo sin qui considerate si sono infine aggiunti, dall’entrata in
vigore del Codice del 2004, i c.d. “vincoli del terzo tipo”, ossia si è introdotta la
possibilità anche per i piani paesaggistici di individuare eventuali ulteriori
immobili od aree di notevole interesse pubblico3.
*Dottoranda in Diritto Amministrativo presso la Scuola Dottorale Internazionale di Diritto ed
Economia “Tullio Ascarelli”, Università degli Studi Roma Tre.
1
La prima, storica, modalità di apposizione di un vincolo paesaggistico è quella riconducibile alla
“dichiarazione di notevole interesse pubblico”, introdotta fin dalla legge “Croce” del 1922 (Legge n.
778 del 1922). Oggi l’apposizione di questo tipo di vincolo è rimessa ad un procedimento che può
essere intrapreso dalla Regione ovvero dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali conformemente
alle disposizioni di cui agli artt. 136 e seguenti del codice. I beni che possono essere oggetto di tale
procedimento sono stati “tipizzati” dalla legge “Bottai” del 1939 (l. n. 1497 del 1939). Attualmente è
l’art. 136 del Codice che individua quelle “bellezze individue” e quelle “bellezze d’insieme” che
possono essere oggetto di dichiarazione.
2
I vincoli vennero introdotti con la legge Galasso (legge 8 agosto 1985, n. 431), la cui origine è
peculiare. Si era tentato già tramite lo strumento della dichiarazione di interesse pubblico di
sottoporre porzioni molto ampie di territorio a vincolo ma l’utilizzo “deviato” dello strumento, nato
per tutelare singole bellezze naturali (siano esse individue o d’insieme), aveva prodotto numerosi
ricorsi amministrativi nei confronti delle Sopraintendenze. Il governo provvide allora a salvarne la
sorte, dando a questi nuovi vincoli un fondamento di legge, con l’adozione del decreto legge n. 312
del 27 giugno 1985, convertito per l’appunto con la legge “Galasso”.
3
Ai sensi dell’art. 135, comma 1, del Codice, “pianificazione paesaggistica”, così dispone: «Lo Stato
e le regioni assicurano che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato
e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono. A tale fine
le regioni sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero
piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito
denominati: "piani paesaggistici". L'elaborazione dei piani paesaggistici avviene congiuntamente tra
Ministero e regioni, limitatamente ai beni paesaggistici di cui all'articolo 143, comma 1, lettere b), c)
e d), nelle forme previste dal medesimo articolo 143». L’adozione di quella parte del piano che
concerne i beni paesaggistici deve, dunque, avvenire congiuntamente tra Ministero e Regioni, con la
conseguenza che anche l’apposizione di nuovi vincoli, che ha l’effetto di un provvedimento di
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
I beni paesaggistici tutelati ex lege hanno da sempre suscitato non pochi
problemi quanto alla corretta individuazione e delimitazione del vincolo. La norma
di riferimento in materia, l’art. 142 del Codice, non è infatti del tutto limpida.
Si tratta di beni che si fondano su due criteri: quello geomorfologico, quando
la loro qualifica come bene paesaggistico è legata alla forma naturale del territorio,
e quello ubicazionale, qualora l’appartenenza alla categoria del bene paesaggistico
si giustifica dalla loro relazione spaziale con alcuni elementi localizzati di
particolare valore paesistico. Sono, per esempio, fondati su un criterio di tipo
“geomorfologico” categorie come le montagne, i ghiacciai o i parchi; mentre sono
strutturati su un criterio di tipo “ubicazionale” beni come le zone di interesse
archeologico4.
In alcuni è la stessa norma di legge che ne definisce l’ambito spaziale di
riferimento, introducendo criteri di misurazione “esatti” (si pensi al caso esemplare
dei territori costieri: “compresi in una fascia di profondità di 300 metri dalla linea
di battigia, anche per i terreni elevati sul mare)”. In altri, l’individuazione è rimessa
ad atti amministrativi o normativi “di rinvio”(tra le varie ipotesi il caso delle zone
umide, che sono quelle “incluse nell'elenco previsto dal decreto del Presidente
della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448”). Viceversa, in altre ipotesi ancora, il
legislatore non ha esplicitato alcun criterio di esatta definizione e per la cui
individuazione può essere dunque necessaria un’attività ermeneutica più complessa
(si pensi alle c.d. “zone di interesse archeologico”).
Un ruolo di “ricognizione” decisivo è stato attribuito dal legislatore ai piani
paesaggistici. Ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. c), tra le funzioni essenziali dei
piani, vi è quella di procedere alla: «ricognizione delle aree di cui al comma 1
dell'articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla
identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d'uso intese ad assicurare la
conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la
valorizzazione».
dichiarazione di interesse pubblico delle aree vincolate ex novo nel piano, potrà trovare la sua fonte di
legittimazione solo in una volontà congiunta di entrambi i soggetti di cui sopra.
4
Fu la stessa Corte Costituzionale ad utilizzare queste espressioni, ricordando al contempo l’impatto
straordinariamente innovativo derivato dall’introduzione delle zone vincolate ex lege
nell’ordinamento giuridico italiano: la disciplina Galasso «per l'estensione e la correlativa intensità
dell'intervento protettivo - imposizione del vincolo paesistico (e quindi preclusione di sostanziali
alterazioni della forma del territorio) in ordine a vaste porzioni e a numerosi elementi del territorio
stesso individuati secondo tipologie paesistiche ubicazionali o morfologiche rispondenti a criteri
largamente diffusi e consolidati nel lungo tempo - introduce una tutela del paesaggio improntata a
integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio
nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale. Una tutela così concepita é aderente al
precetto dell'art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell'ordinamento,
assume il detto valore come primario (cfr. sentenze di questa Corte n. 94 del 1985 e n. 359 del 1985),
cioé come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro» (Corte Cost., n. 151, 27 giugno 1986).
233
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Nel mentre, la giurisprudenza sembra comunque mantenere un ruolo chiave
quanto alla corretta individuazione dei beni paesaggistici ex lege.
Questa sintetica raccolta giurisprudenziale mira dunque a ricordare alcune di
queste sentenze, sotto forma di massima giurisprudenziale 5 . La classificazione
proposta è strutturata secondo il criterio del tipo di bene paesaggistico che è stato
oggetto della sentenza, seguendo le categorie di beni cui fa riferimento l’art. 142
del Codice.
5
La scelta, legata alla volontà di rendere più agevole la lettura della raccolta giurisprudenziale, non
esclude la consapevolezza e l’invito ad una lettura integrale della sentenza di interesse, al fine di una
verifica e miglior comprensione della massima.
234
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
NORMATIVA DI RIFERIMENTO :
Articolo 142 del d. lgs. n. 42/2004, “Aree tutelate per legge”:
«1. Sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di
questo Titolo:
a) i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla
linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare;
b) i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300
metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati sui laghi;
c) i fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua iscritti negli elenchi previsti dal testo unico
delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio
decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, e le relative sponde o piedi degli argini per
una fascia di 150 metri ciascuna;
d) le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la
catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le
isole;
e) i ghiacciai e i circhi glaciali;
f) i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna
dei parchi;
g) i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal
fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall'articolo 2,
commi 2 e 6, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227;
h) le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici;
i) le zone umide incluse nell'elenco previsto dal decreto del Presidente della
Repubblica 13 marzo 1976, n. 448;
l) i vulcani;
m) le zone di interesse archeologico.
2. La disposizione di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si
applica alle aree che alla data del 6 settembre 1985:
a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 2
aprile 1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B;
b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 2
aprile 1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B,
limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a
condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;
c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati
perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.
3. La disposizione del comma 1 non si applica, altresì, ai beni ivi indicati alla
lettera c) che la regione abbia ritenuto in tutto o in parte irrilevanti ai fini
paesaggistici includendoli in apposito elenco reso pubblico e comunicato al
235
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Ministero. Il Ministero, con provvedimento motivato, può confermare la rilevanza
paesaggistica dei suddetti beni. Il provvedimento di conferma è sottoposto alle
forme di pubblicità previste dall'articolo 140, comma 4.
4. Resta in ogni caso ferma la disciplina derivante dagli atti e dai provvedimenti
indicati all'articolo 157».
236
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
OSSERVATORIO GIURISPRUDENZIALE
Indice:
I territori costieri (art. 142, lett. a) e contermini ai laghi (art. 142, lett. b) ......... 239
T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 06/03/2013, n. 206 ................................... 239
Corte cost., 29/05/2009, n. 164 ......................................................................... 239
I fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua e relative sponde (art. 142, lett c) .................. 240
Corte cost., 07/11/2007, n. 367 ......................................................................... 240
Cons. Stato, sez. IV, 19/03/2014, n. 1337 .......................................................... 241
Le montagne (art. 142, lett. d) .............................................................................. 242
T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 21/03/2013, n. 225 ........................ 242
I parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione
esterna dei parchi (art. 142 , lett. f) ...................................................................... 242
T.A.R. Toscana, Firenze, sez. III, 08/03/2012, n. 435 ...................................... 242
T.A.R. Veneto, Venezia, sez. II, 11/10/2011, n. 1535 ....................................... 243
I territori coperti da foreste e da boschi (art. 142, lett.g) ..................................... 243
Cons. Stato, sez. VI, 29/03/2013, n. 1851 .......................................................... 243
T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 09/04/2013, n. 882 .................................... 244
Cass. pen., sez. III, 23/04/2013, n. 32807 ......................................................... 244
Cass. pen., sez. III, 10 marzo 2011, n. 9690...................................................... 244
Zone umide (art. 142, lett. i) ................................................................................. 245
T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 06/03/2013, n. 206 .................................... 245
Zone di interesse archeologico (art. 142, lett. m) ................................................. 245
237
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Cass. pen., sez. III, 16/07/2014, n. 45469 ......................................................... 245
Cass. pen., sez. III, 21/03/2014, n. 20443 ......................................................... 246
Cons. Stato, 27/01/2015, n. 367 ........................................................................ 246
T.A.R. Roma (Lazio) sez. II, 04/05/2012, n. 4005 ........................................... 247
Centri storici (art. 136) ......................................................................................... 248
Cons. stato, sez. VI, 24/02/2014, n. 855 ............................................................ 248
Aree urbane riconosciute come patrimonio Unesco ............................................. 248
T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV. ordinanza, 30/01/2014, n. 729 ................... 248
238
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
I territori costieri (art. 142, lett. a) e contermini ai laghi (art. 142, lett. b)
T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 06/03/2013, n. 206
Uno specchio acqueo è inquadrabile fra i beni tutelati a norma dell'art. 142
comma 1 lett. a ), d.lg. n. 42 del 22 gennaio 2004, trattandosi di acque demaniali
marittime, qualora siano riscontrabili indici quali: 1) l'essere tali acque sorte dal
mare nel corso degli anni (mare dal quale le stesse acque siano divise da un'esigua
striscia costiera); 2) l'essere collegate con il mare, anche se allo stato il
collegamento sia regolato da un sistema di chiuse (nella fattispecie, per adeguarle
alle esigenze delle saline e della pesca), a nulla rilevando che la comunicazione
con il mare sia assicurata dall'opera dell'uomo; 3) l'essere utilizzate per la pesca
marittima, che costituisce un uso tipico del bene demaniale marittimo.
Fonti: Foro amm. TAR 2013, 3, 1054
Ai sensi dell'art. 1 comma 1 lett. a ) e b ), l. n. 431 dell'8 agosto 1985, ora art. 142
comma 1 lett. a ), d.lg. n. 42 del 22 gennaio 2004, sono considerati per legge
d'interesse paesaggistico e sono sottoposti alla disciplina prevista per tale tipo di
beni, tra gli altri, i territori costieri compresi in una fascia di trecento metri dalla
linea della battigia, nonché i territori contermini ai laghi compresi in una fascia di
trecento metri dalla linea della battigia; in entrambi i casi, la linea della battigia è
costituita dal litorale bagnato dall'acqua, sia marina che dolce.
Fonti: Foro amm. TAR 2013, 3, 1054
Corte cost., 29/05/2009, n. 164
È costituzionalmente illegittimo l'art. 3, commi 1, 2, 3, 5 e 7, l. reg. Valle d'Aosta
16 ottobre 2006 n. 22. Premesso che la regione Valle d'Aosta è titolare, in forza
dello statuto speciale, della potestà legislativa primaria in materia urbanistica e di
tutela del paesaggio [art. 2, comma 1, lettere g) e q), dello statuto speciale per la
Valle d'Aosta] - potestà che deve essere esercitata in armonia con la Costituzione e
con i principi dell'ordinamento, nonché delle norme fondamentali e di riforma
economico-sociale -, e premesso altresì che la qualificazione di norme "di grande
riforma economico-sociale", già riconosciuta alle disposizioni della cosiddetta
"legge Galasso", va ascritta all'art. 142 d.lg. n. 42 del 2004, il quale prevede il
vincolo paesaggistico anche sui "territori contermini ai laghi compresi in una
fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i territori
239
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
elevati sui laghi", senza distinguere, ai fini della tutela paesaggistica, tra laghi
naturali e laghi artificiali, con ciò dovendo intendersi che anche questi ultimi sono
in essa ricompresi, ben potendo costituire realtà significative sotto il profilo
naturale, estetico e culturale, le norme censurate, le quali hanno modificato l'art.
34 l. reg. 6 aprile 1998 n. 11 sottraendo le zone contermini ai laghi artificiali al
regime di tutela "ex lege" imposto dall'art. 142 del codice del paesaggio e dei beni
culturali, nonché dall'originario art. 34 della precedente l. reg. n. 11 del 1998,
violano l'indicata norma statale di grande riforma economico-sociale, che impone
il vincolo paesaggistico ed elenca le aree tutelate per legge senza distinguere tra
laghi naturali e laghi artificiali, l'equiparazione dei quali è del resto desumibile
anche dall'art. 1 d.P.R. 13 marzo 1976 n. 488, e dagli art. 54 e 74 d.lg. 3 aprile
2006 n. 152 (sent. n. 151 del 1986).
FONTI: Giur. cost. 2009, 3, 1837
I fiumi, i torrenti, i corsi d'acqua e relative sponde (art. 142, lett. c)
Corte cost., 07/11/2007, n. 367
Non è fondata la q.l.c. dell'art. 12 d.lg. 24 marzo 2006 n. 157, il quale sostituisce
l'art. 142 d.lg. 22 gennaio 2004 n. 42, censurato, in riferimento agli art. 117
comma 3 e 118 cost. nonché per violazione del principio di leale collaborazione,
"nella parte in cui reintroduce l'illimitata vigenza del vincolo paesaggistico per le
categorie di beni tutelate ai sensi della l. n. 431 del 1985, nonché, con particolare
riferimento al comma 3 dello stesso art. 142, nella parte in cui preclude alle
regioni di individuare con il piano paesaggistico i corsi d'acqua irrilevanti dal
punto di vista del paesaggio". Premesso che l’oggetto della tutela del paesaggio
non è il concetto astratto delle "bellezze naturali", ma l'insieme delle cose, beni
materiali, o le loro composizioni, che presentano valore paesaggistico; che sul
territorio gravano più interessi pubblici, concernenti sia la conservazione
ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, che il
governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione
del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle
regioni; che la tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso
ed unitario, considerato un valore primario ed assoluto, e rientrando nella
competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla
tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle
regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e
240
RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
ambientali, dovendosi ritenere la tutela del paesaggio, dettata dalle leggi dello
Stato, trova poi la sua espressione nei piani territoriali, a valenza ambientale, o
nei piani paesaggistici, redatti dalle regioni, la norma censurata non lede le
competenze regionali, giacché queste non concernono le specifiche modalità della
tutela dei beni paesaggistici (rimessa alla competenza esclusiva dello Stato), ma la
concreta individuazione e la collocazione di questi ultimi nei piani territoriali o
paesaggistici, mentre la reintroduzione "ex lege", con vigenza illimitata, nel codice
dei beni culturali e del paesaggio, del vincolo paesaggistico per le categorie di
beni tutelate dalla l. 8 agosto 1985 n. 431 costituisce attuazione del disposto
dell'art. 9 cost., poiché la prima disciplina che esige il principio fondamentale
della tutela del paesaggio è quella che concerne la conservazione della morfologia
del territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali.
FONTI: Foro amm. CDS 2007, 11, I, 3005.
Cons. Stato, sez. IV, 19/03/2014, n. 1337
«La sottoposizione dell'area ove è ubicato il capannone oggetto di domanda di
condono alla tutela ex lege di cui all'art. 142, comma 1, lett. c) del d. lgs.
22.1.2004, n. 42 (che riproduce il dettato della legge 8 agosto 1985, n.831),
relativamente alla fascia di rispetto di 150 mt. dal corso d'acqua, implica
l'assoggettamento dell'intervento alla verifica di compatibilità dell'opera in
relazione alla tutela del paesaggio al momento in cui deve essere valutata la
domanda di sanatoria, per l'esigenza di vagliare la compatibilità del manufatto
realizzato abusivamente con il vincolo ed a prescindere dall'epoca dell'
introduzione di quest'ultimo (Cons. St. Ad. Pl. 22 luglio 1999, n. 20). Tale
valutazione deve essere condotta in maniera puntuale, mediante descrizione delle
opere e del contesto ambientale in specifico riferimento all'area di ubicazione del
manufatto ed indicare le specifiche ragioni per le quali esso sia incompatibile con i
valori paesaggistici tutelati dal vincolo (Cons. St. Sez. VI, 20.12.2012, n. 6585)».
FONTI: estratto della sentenza
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Le montagne (art. 142, lett. d)
T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, sez. II, 21/03/2013, n. 225
Con riguardo alle aree tutelate per legge, le montagne appenniniche rilevano
anche nella parte al di sopra dei 1200 metri s.l.m., poiché la tutela concerne il
paesaggio e vi rientrano le costruzioni fondanti a quota inferiore, ma svettanti
oltre tale altezza, come gli aerogeneratori di parco eolico. La lettura compatibile
con i criteri della interpretazione letterale, sistematica e teleologica della
normativa è imprescindibile dalla definizione del paesaggio quale bene di insieme,
sicché non rileva la base del manufatto, ma la quota oltre i 1200 metri, la cui
visuale va preservata dalle interferenze non compatibili con il paesaggio e la sua
conservazione. Gli interventi con ricadute sulle visuali stesse sono assoggettati
alla previa valutazione paesaggistica (v.i.a.), onde verificarne la compatibilità di
impatto e considerando che le montagne sono da proteggere, nel territorio come
nelle interferenze visive, che ne pregiudicassero la bellezza panoramica. La legge
prevede bellezze suscettibili di provvedimento di dichiarazione di notevole
interesse pubblico, che comprendono i punti di vista o di belvedere accessibili al
pubblico, dai quali si gode il loro spettacolo. Concezione analoga non può negarsi
alle montagne, bellezze panoramiche di notevole interesse pubblico "ex lege",
quindi, senza specifico decreto di vincolo. Esse sono, inoltre, assoggettabili alla
tutela ulteriore afferente alle "condotte ed impianti industriali e civili" con facoltà
di prescrivere distanze, misure, varianti atte ad evitare pregiudizio.
Fonti: Giurisprudenza di Merito 2013, 9, 1967
I parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione
esterna dei parchi (art. 142, lett. f)
T.A.R. Toscana, Firenze, sez. III, 08/03/2012, n. 435
L'art. 142, d.lgs. n. 42 del 2004, nel sottoporre alla disciplina di cui alla parte III,
titolo I, dello stesso d.lgs. i parchi ed i relativi territori di protezione esterna,
prevede una forma di salvaguardia aggiuntiva, e non sostitutiva, rispetto a quella
prevista dalla l. n. 394 del 1991, di cui le norme del piano del parco costituiscono
applicazione.
Fonti: Foro amm. TAR 2012, 3, 772
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
T.A.R. Veneto, Venezia, sez. II, 11/10/2011, n. 1535
Ai fini dell'applicazione dell'art. 142, comma 1, lett. f), d. lg. n. 42 del 2004, ai
sensi del quale " sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo Titolo per il
loro interesse paesaggistico (....) i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché
i territori di protezione esterna dei parchi " non può ritenersi sufficiente la
circostanza che l'area sia stata inserita, quale zona a previsto parco naturale, nel
Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) nonché nel Piano
Territoriale Provinciale (PTP): infatti, sebbene il PTRC assuma la valenza (in
forza delle previsioni della l. reg. Veneto n. 11 del 2004, che hanno
sostanzialmente confermato quanto già in precedenza disposto dalla l. reg. Veneto
n. 9 del 1986 e dalla l. reg. Veneto n. 18 del 2006) di "piano urbanistico territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici", ciò non
determina l'applicazione della normativa dettata dal d. lg. n. 42 del 2004: in
mancanza di un provvedimento istitutivo del parco ed in mancanza
dell'approvazione dei Piani Paesaggistici previsti dagli art. 143 e 156 d.lg. n. 42
del 2004, del tutto illegittimamente l'amministrazione comunale applica la
disciplina prevista dall'art. 167 del suddetto testo normativo.
Fonti: Foro amm. TAR 2011, 10, 3080
I territori coperti da foreste e da boschi (art. 142, lett.g)
Cons. Stato, sez. VI, 29/03/2013, n. 1851
La qualificazione di "bosco", ai fini paesaggistici, richiede un sistema vivente
complesso, di apparenza non artefatta, tendenzialmente permanente in cui le nuove
risorse sono in grado di sostituire spontaneamente quelle in via di esaurimento. La
mancanza di tali caratteri esclude che un terreno possa essere considerato tra
quelli sottoposti a tutela paesaggistica "ex lege" ai sensi dell'art. 142 del D.Lgs. n.
42/2004 (Codice dei beni culturali) e del paesaggio e che sia necessaria
l'autorizzazione paesistica e quella forestale per eventuali interventi e
trasformazioni.
Fonti: Giornale Dir. Amm., 2013, 6, 643
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 09/04/2013, n. 882
La sanzione per lesione del paesaggio ai sensi del d.lg. n. 42 del 2004 (il bosco
costituisce - infatti - parte integrante del paesaggio, come previsto dall'art. 142
comma 1 lett. g) citato d.lg.) e quella prevista dalla legislazione speciale per la
tutela dei boschi (nella regione Lombardia, la l. reg. n. 27 del 2004 applicabile
alla presente fattispecie "ratione temporis"), non sono alternative fra loro, ma
cumulabili, in quanto rivolte alla tutela di differenti beni giuridici.
Fonti: Foro Amministrativo - T.A.R. (Il) 2013, 4, 1102
Cass. pen., sez. III, 23/04/2013, n. 32807
In tema di tutela del paesaggio, dopo l'entrata in vigore del d.lg. 18 maggio 2001
n. 227, deve qualificarsi come bosco - meritevole di protezione ai sensi dell'art.
181 d.lg. 22 gennaio 2004 n. 42, ogni terreno coperto da vegetazione forestale
arborea - associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da
macchia mediterranea, purché aventi un'estensione non inferiore a mq. duemila,
con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20 per
cento. (In applicazione di tale principio è stata annullata l'ordinanza del tribunale
del riesame che aveva escluso la qualificazione di bosco ad una zona occupata da
macchia mediterranea).
Fonti: CED Cassazione penale 2013
Cass. pen., sez. III, 10 marzo 2011, n. 9690
La qualificazione di una zona come area boscata è rilevante ai fini della disciplina
paesaggistica in quanto rientrante tra i beni soggetti a tutela in base alla legge,
perché rientranti tra quelli individuati dal d.lg. 22 gennaio 2004 n. 42, art. 142,
comma 1, segnatamente, dalla lett. g) che contempla "i territori coperti da foreste
e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a
vincolo di rimboschimento, come definiti dal d.lg. 18 maggio 2001 n. 227, art. 2,
commi 2 e 6". Il d.lg. 18 maggio del 2001 n. 227 art. 2, comma 6 fornisce, a sua
volta, una definizione di bosco ed assimila al bosco altre aree. Ciò posto si osserva
che il bosco, così come definito, è caratterizzato dalla presenza di vegetazione e da
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
un'estensione minima, mentre per le radure e le altre superfici che interrompono il
bosco, rientranti tra le "aree assimilate", è previsto un limite massimo di
estensione superato il quale viene meno l'assimilazione. Dette aree vengono,
appunto, assimilate al bosco perché non posseggono le caratteristiche indicate
nella definizione. Le radure, in particolare, presentano, evidentemente, l'assenza di
vegetazione del tipo di quella che caratterizza il bosco altrimenti, come le altre
aree indicate, non potrebbero interromperlo. Tale distinzione, peraltro, ha un
senso evidente con riferimento alla tutela che la legge intende assicurare ad aree
di particolare pregio paesistico che non sarebbe giustificata per superfici estranee,
per caratteristiche, ai boschi ed alle foreste.
FONTI: Dir. e giur. agr. 2011, 6, 418
Zone umide (art. 142, lett. i)
T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. II, 06/03/2013, n. 206
Le zone umide non ricomprese nell'elenco previsto dal d.P.R. n. 448 del 13 marzo
1976, con cui si è data esecuzione alla Convenzione Ramsar del 2 febbraio 1971
(vincolate ex lege dall'art. 142 comma 1 lett. i ), d.lg. n. 42 del 22 gennaio 2004),
qualora assimilabili a laghi o ad acque demaniali marittime (beni paesaggistici
per legge), sono sottoposte alla relativa disciplina, a nulla rilevando che non siano
inserite nell'elenco Ramsar, che ha unicamente lo scopo di individuare e di
tutelare specchi d'acqua che costituiscano l'habitat di uccelli acquatici.
Fonti: Foro amm. TAR 2013, 3, 1054
Zone di interesse archeologico (art. 142, lett. m)
Cass. pen., sez. III, 16/07/2014, n. 45469
La qualificazione di un'area in termini di interesse archeologico comporta
automaticamente la qualificazione della stessa come "zona di interesse
archeologico" ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. m), D.Lgs. n. 42 del 2004 e,
conseguentemente, l'apposizione del vincolo archeologico rende direttamente
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
operativo il vincolo paesaggistico ai sensi di tale ultima disposizione, dovendosi
ritenere che l'area sottoposta a tutela paesaggistica coincida per estensione con
quella sottoposta a vincolo archeologico.
FONTI
Urbanistica e appalti, 2015, 1, 115
Cass. pen., sez. III, 21/03/2014, n. 20443
I tratturi, a prescindere dalla loro attuale utilizzabilità come strade, quali
espressioni di vestigia e tracce di remote civiltà passate ed in considerazione del
rilievo costituzionale dei beni culturali come ribadito nella legge costituzionale 18
ottobre 2001 n. 3, art. 2, costituiscono una zona d'interesse archeologico per il
loro valore intrinseco, ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. m), D.Lgs. n. 42/2004.
FONTI
Urbanistica e appalti, 2014, 8-9, 994
Cons. Stato, 27/01/2015, n. 367
«Le "zone di interesse archeologico" non coincidono, ovviamente, con la
sommatoria dei singoli beni immobili rinvenuti e dichiarati di interesse
archeologico, di cui all'art. 10 del codice dei beni culturali e del paesaggio (come
sembra intendere l'appellante), ma con la più ampia area individuata in funzione
della conservazione del contesto di giacenza. Essa, in ragione della peculiare
caratterizzazione, assume altresì, ex lege, valore paesaggistico (art. 142 comma 1
lett. m). È noto il dibattito giurisprudenziale che ha contraddistinto i criteri di
individuazione e perimetrazione di tali zone, anche a seguito dei mutamenti
legislativi che hanno interessato l'art. 142 comma 1 lett. m) e l'art. 136 lett. c). In
estrema sintesi può dirsi che in una prima fase si è ritenuto necessario un
provvedimento amministrativo di carattere ricognitivo che desse certezza erga
omnes della sussistenza della zona e del conseguente vincolo paesaggistico. Nella
prassi tale provvedimento era emanato con decreto ministeriale. Successivamente,
anche sulla spinta delle modifiche legislative (art. 2 comma 1 lett. o) del d.lgs
63/2008) l'orientamento è mutato. Si è ritenuto, da un parte, che ove il vincolo
archeologico sia stato previamente dichiarato e disposto - e quindi si sia dinanzi
ad un bene culturale ex art. 10 d.lgs 142/2004 - l'area di giacenza diviene ex lege
zona di interesse paesaggistico, senza bisogno di ulteriori provvedimenti ad effetto
ricognitivo sul versante paesaggistico. Dall'altra si è riconosciuto che la "zona"
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
possa essere perimetrata, e se del caso anche ampliata, in seno alla pianificazione
paesaggistica o a quella urbanistica comunale, tutte le volte in cui, a seguito
dell'acquisizione del pareri delle Sovrintendenze emergano aree di interesse
archeologico più ampie di quelle coincidenti con quella di giacenza del bene
culturale. Ciò perché la legge disciplina, e quindi fa venire a giuridica esistenza,
sia beni archeologici la cui tutela è imposta per finalità storico artistiche, sia beni
paesaggistici di rilievo archeologico la cui tutela concerne la "bellezza" del
territorio, ed in particolare ambiti di quest'ultimo che non si sovrappongono ai
beni archeologici, per diversità dell'oggetto materiale oltre che delle dimensioni
spaziali. È dunque ben possibile che il vincolo paesaggistico sia imposto per la
prima volta in ambito regionale, e che lo stesso, oltre che confermare e localizzare
graficamente, nella pianificazione paesaggistica, il vincolo archeologico già
scaturente dalla legge, finisca per ampliare l'area di tutela paesaggistica rispetto a
quella "meramente" archeologica coincidente con la giacenza dei singoli
rinvenimenti, esaminate ovviamente le risultanze istruttorie ed i pareri forniti dalla
Sovrintendenza per i beni archeologici (sul punto cfr. da ultimo Consiglio di Stato,
sez. VI, 24 maggio 2013, n. 2851 secondo la quale è legittimo il provvedimento che
dichiara una zona di interesse archeologico in base alla valutazione di questo
duplice interesse, anche se non sia stata preceduta da un provvedimento di
imposizione di uno specifico vincolo archeologico ai sensi della legge 1° giugno
1939 n. 1089")».
FONTI: estratto della sentenza.
T.A.R. Roma (Lazio) sez. II, 04/05/2012, n. 4005
L'art. 142, lett. m), Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con il d.lg.
22 gennaio 2004 n. 42, include le zone di interesse archeologico tra i territori di
interesse paesaggistico, mentre gli art. 146 e 159 rendono obbligatoria
l'autorizzazione regionale. La mancanza dei nulla osta paesistici rende perciò
illegittimi i titoli edificatori.
Fonti: Foro amm. TAR 2012, 5, 1612
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RIVISTA QUADRIMESTRALE DI DIRITTO DELL'AMBIENTE
ANNO 2015 / NUMERO 1
Centri storici (art. 136)
Cons. stato, sez. VI, 24/02/2014, n. 855
«Giova premettere che i centri storici (e, per quel che qui rileva, il centro storico
di Lucera) non rientrano tra le aree tutelate per legge ai sensi dell’art. 142 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio ( introdotto dal d.lgs. 22 gennaio 2004 n.
42). Lo si ricava dal secondo comma dello stesso art. 142, ove si legge che le
disposizioni sulle aree tutelate ex lege, di cui al comma 1 della disposizione, non si
applicano alle aree che alla data del 6 settembre 1985 erano delimitate negli
strumenti urbanistici come zone territoriali omogenee A e B. Le zone territoriali di
tipo A sono, in base al d.m. n. 1444 del 1968, le parti di territorio interessate da
agglomerati urbani che rivestono carattere storico artistico o di particolare pregio
ambientale (id est, i centri storici).
I centri storici rientrano invece tra gli immobili e le aree di notevole interesse
pubblico, come descritti all’art. 136 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tuttavia, affinché tali beni vengano attratti al particolare regime di tutela previsto
dalla legge, è sempre necessaria la dichiarazione di notevole interesse pubblico. In
assenza di vincolo specifico che abbia ad oggetto il centro storico cittadino, quale
bene culturale d’insieme ai sensi del richiamato art. 136 del d.lgs 22 gennaio 2004
n.42, non è pertanto ipotizzabile l’applicazione delle disposizioni del Codice dei
beni culturali sul particolare procedimento autorizzatorio degli interventi edilizi
che abbiano oggetto immobili ivi collocati, salvo che il vincolo abbia fondamento
in una previsione di piano paesaggistico ovvero in altro provvedimento puntuale
che abbia dichiarato l’immobile di interesse culturale in ragione del suo pregio
storico-artistico».
FONTI: estratto della sentenza.
Aree urbane riconosciute come patrimonio Unesco
T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV. ordinanza, 30/01/2014, n. 729
Il T.A.R. Napoli rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 142, comma 2, D.Lgs. n. 42 del 2004, in riferimento all'art.
9 della Costituzione che tutela i valori paesaggistici, laddove, nel prevedere la
deroga al regime di autorizzazione paesaggistica per tutte le zone A e B del
territorio comunale, così classificate negli strumenti urbanistici vigenti alla data
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ANNO 2015 / NUMERO 1
del 6.9.1985, non esclude da tale ambito operativo di deroga le aree urbane
riconosciute e tutelate come patrimonio UNESCO.
FONTE: Quotidiano Giuridico, 2014
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