Dialogo monastico India u na giada ancor più bella L’ a s h r a m c r i s t i a n o S h a n t i v a n a m , i e r i e o g g i S hantivanam è un monastero hindu-camaldolese, un ashram cristiano, fondato nel 1950 nel Sud dell’India. Come ricordato qualche settimana fa al Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica (PISAI) di Roma in un incontro sull’avvicinamento cristiano-islamico, Shantivanam e particolarmente Henry Le Saux, uno dei due fondatori, sono considerati gli ispiratori del «Dialogo interreligioso monastico» e quindi del dialogo interreligioso in generale. L’ashram è stato un esempio profetico d’incontro fra monaci di diverse culture e si è visto che il massimo di comprensione interreligiosa verificatasi fino ad ora ha avuto luogo proprio fra esperienze contemplative – essendo la contemplazione una carat- teristica monastica. E l’India, per la complessità e la profondità delle sue tradizioni, è il terreno per eccellenza del confronto religioso. Con tutte le sue problematicità. La storia di Shantivanam ebbe inizio nel 1947 quando Henry Le Saux (1910-1973), monaco benedettino originario della Bretagna, decise di raggiungere il missionario belga Jules Monchanin (1895-1957), che si trovava in India dal 1939. Entrambi anelavano a un cristianesimo dal respiro più ampio di quello che conoscevano. Le Saux trovò in Monchanin, il cui nome circolava in Francia grazie ai rapporti amicali e agli scambi epistolari con De Lubac, Daniélou, Massignon, Teilhard de Chardin, il suo riferimento. Monchanin aveva una buona pre- parazione teologica e filosofica – cosa non comune fra i missionari di allora –; si rendeva conto della profondità e ricchezza della spiritualità hindu e voleva sperimentare un qualche tipo di ponte fra le due parti. Negli anni trascorsi in India aveva riformulato il senso della sua missione: non solo portare il cristianesimo all’India ma anche l’India al cristianesimo. Un movimento a doppio senso che sarebbe servito a fecondarsi reciprocamente, a scoprire le potenzialità, le ricchezze sopite in entrambi le tradizioni. Monchanin aveva in mente il pensiero patristico greco e, forte anche della lontananza fisica dall’Europa, riusciva a vedere l’assetto attuale della Chiesa come un prodotto occidentale che, se proposto tal quale in un contesto così Shantivanam: le tombe dei suoi grandi monaci. Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 699 lontano quale l’India, non avrebbe potuto che essere imposizione e rimanere corpo estraneo. Secondo Paolo Trianni, docente di Teologia delle religioni all’ateneo Sant’Anselmo, e profondo conoscitore dell’esperienza di Shantivanam, «Monchanin credeva in una Chiesa universale, una Chiesa di tutti, e tale non poteva essere se soltanto latina e greca. Greca nell’impianto concettuale e latina nell’organizzazione strutturale. Monchanin diceva: oggi l’esigenza di adottare come rivestimento della Chiesa quello di altre civiltà implica qualche rinuncia, un ritorno alle origini, una dissociazione dell’essenziale dall’accidentale e soprattutto una interiorizzazione tramite un’intensa vita contemplativa, un primato della mistica sulla liturgia, sulla teologia, sulla filosofia religiosa e sulle istituzioni». Un cammino della cui complessità Monchanin era ben consapevole, ricordando come la sintesi fra cristianesimo e pensiero greco avesse richiesto quattro secoli di storia, protraendosi lungo tutto l’arco del Medioevo. Per capire la portata innovativa del suo messaggio bisogna ricordare che quelli erano tempi preconciliari e che la Chiesa dell’India era molto chiusa quando i due francesi apparvero sulla scena. «Monchanin e soprattutto Le Saux – sostiene Trianni – smossero tutto. La Chiesa indiana poi si è aperta; fin troppo, tanto da destare sospetti a Roma. Il card. Ratzinger riteneva che il relativismo interno alla Chiesa avesse in India una delle sue radici». Monchanin, Le Saux, Ramana Anni dopo, la riflessione di Monchanin riemergerà nella domanda che il sacerdote cattolico indo-spagnolo Raimon Panikkar (1918-2010), amico di Le Saux e frequentatore di Shantivanam, pose a Paolo VI: per essere cristiani bisogna essere spiritualmente semiti e intellettualmente greci? Shantivanam si rivelò dunque, nella sua modestia di poche capanne di fango ai limiti di un paesino qualsiasi, una fucina di pensiero. Per Trianni, quella è stata la matrice fondamentale della successiva storia della Chiesa nel paese. E avrebbe anche germinato nel concilio Vaticano II proprio attraverso la cono- 700 Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 scenza che De Lubac, padre conciliare, aveva del pensiero di Monchanin. Dunque Monchanin, insieme a Le Saux, fondò il Saccidananda ashram, il monastero della Trinità. In sanscrito sat vuol dire «essere», citta «consapevolezza», ananda «beatitudine». Ashram viene tradotto in «eremo» e tradizionalmente era il luogo in cui i giovani studiavano e si preparavano per il matrimonio e per l’impegno sociale tornandovi poi dopo averlo espletato. Gandhi auspicava per tutti i suoi seguaci una permanenza in ashram. Il Saccidananda viene anche chiamato Shantivanam, foresta della pace, per via del boschetto vicino. Se Monchanin forniva gli strumenti filosofici per concettualizzare l’esperimento, il contributo di Le Saux fu l’impostazione monastica, che permetteva di trovare nell’esperienza contemplativa un possibile aggancio con l’induismo. E suo contributo furono anche l’impeto e l’audacia. In un gioco delle parti, proprio in virtù del lavoro di Monchanin, a Le Saux fu possibile lanciarsi in una immersione «totale» nell’induismo, un’esperienza molto sofferta, come prevedibile, ma proprio a partire dal suo personale scontro/incontro fra le due appartenenze si può capire cosa significhi nella carne il dialogo interreligioso. E come un concreto avvicinamento non proceda per contrapposizioni assolute, bianco/nero. Il nome nuovo che Le Saux assunse come samnyasin, rinunciante, è Abhishiktananda, «colui la cui gioia è l’Unto del Signore». Siamo nel 1952, una fase ancora relativamente a-problematica per Le Saux. Egli annota nel diario: «Sogno un’India cristiana perché penso che soltanto in tal caso l’India troverà la pienezza spirituale. L’induismo si fonderà con il cristianesimo senza perdere alcuno dei suoi valori positivi; lì le sue contraddizioni si risolveranno, i suoi simboli coglieranno la verità e forse assumeranno un senso più profondo (...). Si tratta d’incorporare nel mio cristianesimo tutti i valori positivi dell’induismo (...) rifiutando soltanto ciò che è nettamente e sicuramente incompatibile e di reinterpretare sulla base dei valori cristiani ciò che non può entrare tale e quale». Pagine scritte nei giorni in cui per la prima volta saliva al sacro monte Arunacala, vicino Pondicherry. Voleva «vedere» il celebre maestro Ramana Maharishi, che marcherà in maniera indelebile il suo percorso. La prima impressione fu deludente. Ramana, incurante dei devoti prostrati, leggeva i giornali, sbrigava corrispondenza, discuteva di come cucinare certi cibi. A Le Saux parve di trovarsi di fronte a un qualsiasi nonnetto, per di più mal rasato e seminudo. Mesi più tardi scriverà che solo se il cristianesimo avesse proposto figure come Ramana, di assoluta santità, distacco e misericordia, avrebbe potuto essere credibile in India. Ramana incarnava il principio advaita della non-dualità. In tale ideale, che percorre buona parte del pensiero religioso indiano, Le Saux individuava il proprio punto di riferimento, che sarebbe rimasto dominante fino a poco prima della sua morte. Cominciava a sentirsi lacerato fra due amori. Si domandava: «Cosa significa questa angoscia per avere trovato la pace lontano dal luogo e dalla forma degli impegni primitivi, alle frontiere stesse della Chiesa? (...) Ormai ho troppo gustato l’advaita per potere ritrovare la pace “gregoriana” di un monaco cristiano e ho troppo gustato questa pace “gregoriana” per non essere angosciato nel mio advaita» (1953). Il paradigma inclusivista Fino a poco tempo prima della morte, Le Saux oscillerà fra la convinzione di una radicale incompatibilità fra cristianesimo e induismo e quella di una loro complementarietà, per poi finalmente riuscire a trovare una possibile integrazione. Non conosciamo i passaggi di quest’ultima fase perché annotati in quelle pagine finali del diario che il discepolo preferito, Marc Chaduc, affidò al Gange. Non a caso oggi Le Saux è letto e apprezzato anche in ambienti induisti. La guida di Shantivanam sarebbe poi passata a un altro benedettino, l’inglese Bede Griffiths, figura molto meno tormentata che traghetterà l’ashram nell’alveo camaldolese, la congregazione allora guidata da dom Benedetto Calati. Oggi l’ashram conta nove monaci, tutti indiani. A questo punto può essere interessante fare il punto sui principali orientamenti teologici nel rapporto del cri- stianesimo con le altre religioni, quello che un tempo era oggetto della sola «teologia della missione». Attingiamo alla chiara sintesi del pastore e teologo valdese Fulvio Ferrario, che in La teologia del Novecento scrive: «Nel dibattito recente si parla di esclusivismo a proposito della linea che nega alle altre religioni un decisivo significato di rivelazione e la possibilità di condurre alla salvezza. Viene invece detta inclusivista la linea che ravvisa nelle altre religioni semi di verità, linea altrettanto presente nella tradizione cristiana. Il suo primo teorico può essere considerato Giustino Martire (II sec) che sviluppa la teoria del “Verbo seminale”, il Logos. Le due linee, nella concretezza della missione, spesso finiscono per mescolarsi». «Nel Novecento – prosegue Ferrario –, nel clima di apertura che si esprime, tra l’altro, nel Vaticano II, il paradigma inclusivista trova la sua sistemazione teorica nella dottrina del “cristianesimo anonimo”: secondo il teologo gesuita Karl Rahner sono cristiani senza saperlo, anonimi quindi, anche “gli uomini di buona volontà” presenti in altre religioni. Se l’opzione esclusivista finisce per essere percepita dalle Chiese cristiane come impraticabile e pericolosa, sia teologicamente sia politicamente, l’inclusivismo, dopo un prima fase lineare, basata su certezze teoriche molto salde riguardo il contenuto veritativo della fede cristiana, evidenzia i suoi aspetti problematici. Se la critica “da destra” (da una prospettiva, diciamo, filoesclusivista), che paventa una dissoluzione dell’identità cristiana, risulta nel complesso assai debole, più forti sono le critiche “da sinistra”. L’altro verrebbe occupato, assimilato dal cristianesimo che, d’altro canto, rischia di trovare quello che già sa, perdendo così occasioni di apprendimento e conversione». Ferrario ricorda tre tentativi di allargare i confini dell’inclusivismo. Il primo è la teoria del «Cristo più grande», che presuppone un’eccedenza della rivelazione rispetto alla figura storica dell’uomo Gesù. È il pensiero di Raimon Panikkar che, discepolo di Le Saux, soggiornò a Shantivanam e, col suo pensiero, ha contribuito alla costruzione dell’identità teologica indiana. Un secondo tentativo passa per la valorizzazione della teologia dello Spirito Santo che opererebbe al di là delle Chiese e dello stesso Gesù. Un inclusivismo pneumatologico. Infine c’è il cosiddetto «teocentrismo», quando si giunge a pensare che il paradigma inclusivista sia troppo concentrato sul Cristo per potere veramente dialogare con le altre religioni, e quindi dalla centralità del cristianesimo si passa alla consapevolezza che al centro c’è Dio e tutte le religioni, compresa la nostra, sono al suo servizio. Siamo chiaramente su posizioni non più cristiane. Il dialogo possibile A questo proposito ricordiamo come nel 1998 sia stata avviata dalla Congregazione per la dottrina della fede un’indagine a carico del teologo gesuita belga Jacques Dupuis, il cui libro Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, edito dalla Queriniana nel 1997, dopo essere stato inizialmente lodato, aveva destato sospetti di relativismo. Dupuis, ancora novizio, era partito come missionario per l’India nel 1948 rimanendovi 34 anni; aveva insegnato teologia dogmatica al Vidyajyoti College of Theology di Delhi e aveva frequentato Shantivanam, affinando il suo pensiero nelle discussioni con Le Saux e Panikkar. Poi era stato chiamato a insegnare a Roma, alla Gregoriana. Nel libro inquisito, Dupuis legittimava le altre tradizioni religiose come mediatrici di salvezza, una salvezza però asimmetricamente complementare a quella compiuta in Cristo, che rimane decisiva. Dupuis uscì provato da tale esperienza ma non condannato. Inclusivismo, pluralismo, complementarità, asimmetria sono il lessico di una riflessione accademica che, secondo Trianni, è in una situazione di stallo: «Siamo a un punto fermo – mi dice in un’intervista – per quanto riguarda sia la teologia delle religioni, che studia in quale maniera il cristianesimo si può rapportare alle altre religioni, sia il dialogo interreligioso. Troppo diverse le visioni metafisiche: l’hindu è panteista, il cristiano trinitario, per il musulmano Cristo è solo un profeta di Dio. L’unico dialogo possibile è quello delle esperienze religiose. Non ci si incontra sul piano del dogma ma su quello della convivenza». Alla domanda su cosa intendiamo veramente con il termine dialogo, Trianni risponde: «Il dialogo ha molte sfumature. Dialogo è quando riconosco che nelle tue Scritture c’è una ricchezza e le utilizzo per la mia vita spirituale. Considerare i testi delle altre religioni come i semi di cui parlava Giustino per tentare di convivere in pace, arricchirsi mutualmente e, obbiettivo più alto, trovare la verità». E, ancora, porsi domande sul rapporto con le altre religioni è interrogativo prettamente cristiano? «In maniera così formalizzata, sì. Anzi cattolica direi; il mondo protestante mi sembra più chiuso. Siamo all’avanguardia in questo. Certo in India ci sono state figure di dialogo come Gandhi, che aveva adottato una prospettiva relativistica». Ne parlo con dom George Nelljanil, che è stato priore di Shantivanam per 17 anni e ora lo è del monastero camaldolese di San Gregorio al Celio, a Roma. Ne parlo in italiano perché padre George, che proviene da una famiglia cattolica di tradizione siro/malabarita del Kerala, ha studiato a Roma, a Sant’Anselmo. La grazia con cui si muove è la stessa con cui mi accolse a Shantivanam nel gennaio 2005. Sorride e sembra non preoccuparsi troppo delle sottigliezze teologiche che screziano il dibattito sull’inclusivismo. Preparare un’India cristiana «I nostri fondatori non erano come gli altri missionari che andavano a battezzare e a costruire missioni», annotava nel diario Le Saux nel 1952. «Ma devo rispondere innanzitutto alla domanda sulla conversione. Non sarei un cristiano autentico se non desiderassi di tutto cuore che il mio popolo (l’indiano, ndr) ricevesse la piena illuminazione del Vangelo. Ma io non ho alcun desiderio di conversioni individuali. Che altri (le) facciano (...). Quel che sogno è la cristianizzazione della mia gente. Non si tratta di utilizzare qualsiasi mezzo per catturare anime più deboli o senza difesa (...). Si tratta di preparare un’India cristiana (...), di aprire una via. Non per il desiderio di aprirla, ma di entrarci senza secondi fini, semplicemente perché mi sento nello stesso tempo profondamente cristiano e profondamente hindu». Padre George continua: «Nella Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 701 Chiesa dominava ancora il principio “extra ecclesiam nulla salus” e i fondatori di Shantivanam furono innovatori. Cercarono di vivere come dei samnyasin, come dei rinuncianti. Vestiti di arancione, studiavano le scritture indiane, praticavano la meditazione, facevano yoga, ascoltavano maestri spirituali; erano cioè integrati alla vita esterna». La Chiesa in India, concentrata al Sud, era allora chiusa, poco vitale. Soprattutto la componente più recente, quella che risale alla colonizzazione portoghese del XVI secolo (che praticava la conversione in massa di fuori casta che nel cristianesimo – così come anche nell’islam – vedevano una via di emancipazione sociale) – e agli anglicani del XIX. La componente più antica, di rito siriaco, che la tradizione fa risalire all’apostolato di Tommaso, in parte ora affiliata alla Chiesa cattolica romana, è invece molto più integrata al tessuto sociale» Dom Nelljanil racconta di un nuovo modo di vivere il cristianesimo in India. «Esistono oggi i “cristiani senza Chiesa”. Attraverso Cristo cercano Dio dentro di loro, l’identità con lui. Nell’induismo le possibilità sono infinite, non c’è dottrina, non vige il “non avrai altri dei all’infuori di me”. All’induismo non fa problema che uno abbia un legame personale ed esclusivo con un Dio particolare. I “cristiani senza Chiesa” questo legame ce l’hanno con Cristo e certo non possiamo essere noi a dir loro che non possono. Ma non sono battezzati: questo sì che creerebbe una rottura con la famiglia e la comunità…». Rimangono, insomma, hindu. La società indiana è quella delle caste, solo formalmente bandite dalla Costituzione del 1947: una società tradizionalmente immobile. Dalle parole di padre George emerge la consapevolezza di una differenza antropologica. «In India il senso del sacro è molto diverso: tutto è sacro. In Occidente non si guarda alla realtà come a un insieme ma vige una divisione per cui si vedono solo parti di essa e le si studiano in chiave di causa ed effetto. Vai in chiesa e sarai salvato. Nella realtà quotidiana occidentale Dio è sentito come una realtà fuori di sé e dentro c’è il vuoto. In India, invece, Dio è dentro. Nella religione cristiana saremo salvati con la 702 Il Regno - at t ua l i t à 20/2014 croce di Cristo; lì, piuttosto con la scoperta dell’identità con Dio». Un importante soggetto del dialogo interreligioso è oggi il già citato «Dialogo interreligioso monastico» (DIM). Il suo primo nucleo risale al 1957 e fu la risposta dei benedettini e dei cistercensi all’enciclica di Pio XII che invitava a fondare monasteri nelle Chiese giovani. Ci furono incontri in vari paesi. Nel 1968 i monaci cristiani si trovarono a Bangkok in mezzo al loro corrispettivo buddhista e nacque così l’idea del dialogo con i monaci di altre religioni». Interreligioso e monastico A raccontarcene l’evoluzione è il benedettino belga dom Benoit Standaert, al momento impegnato in un percorso di conoscenza con gli sciiti iraniani. «All’interno del DIM ci si disse: non possiamo più continuare a tenere un discorso culturale e religioso solo occidentale. Progressivamente si è quindi affermata una nuova prospettiva: non più missionaria o apologetica (difendere il cristianesimo contro gli altri, i “pagani”). Il vero dialogo non ricerca conversioni e non fa proselitismo. Il discorso apologetico sparisce (un lavoro duro su se stessi, che non finisce mai). L’altro è considerato in sé, nel pieno rispetto della sua alterità». «Dopo il Concilio – prosegue padre Benoit – la riflessione nell’ambiente cattolico è cresciuta poco a poco arrivando a distinguere nel dialogo quattro livelli: il teologico per specialisti, il sociale-politico-culturale, quello di vita (cioè la condivisione della vita quotidiana quale l’andare al mercato) e quello spirituale. Il DIM si è concentrato su quest’ultimo: in primo luogo cercando di dialogare da monaco (cristiano) a monaco (buddhista, per esempio). Poi, a seconda dei diversi contesti, con religioni dove non esistono monaci, quali l’islam (ricordo i fratelli di Tibhirine, con Christan de Chergé, il loro priore) e l’ebraismo». Dom Standaert spiega che «non ci sono “risultati”. L’amicizia che ne deriva non può essere chiamata un risultato. C’è certamente sempre più comprensione dell’altro. Si giudica meno da fuori, si ammira una cultura di preghiera quale quella dei musulmani o la potenza della meditazione dei monaci zen in Giappone che non corrisponde a nulla di quello che abbiamo noi. Il silenzio di un pasto nel monastero di Tenry-ji a Kyoto non ha un corrispondente nei nostri conventi. L’ospitalità è il momento fondamentale nella prassi del dialogo. In genere gli orientali non amano per niente il dialogo fatto di parole. Per loro avviene piuttosto attraverso l’espressione gestuale. Per me lo spazio cristico della nostra fede e lo spazio spirituale dell’altro – che sia buddhista, hindu o musulmano – non si escludono a vicenda. Concedendo tempo al renderci visita, riusciamo a comunicare sempre meglio. Nutriamo la segreta convinzione che questi umili passi conducano alla solidarietà tra popoli e alla pace planetaria». «Henri Le Saux – conclude il benedettino – fu un generoso “pioniere” nel suo incontrare la tradizione indiana advaita. Fu un esempio di come l’esperienza spirituale conduca più lontano della volontà di armonizzare tra loro sistemi intellettuali, destinati all’incompatibilità se si rimane solo su quel livello. Il maestro zen Hozumi Roshi, al termine di tre settimane passate in diversi monasteri europei, raccontò un detto cinese: quando uno vuole rendere una pietra di giada ancor più bella, ne prende un’altra, poi sfrega e leviga le due pietre l’una contro l’altra. Forse questo è lo scopo e il risultato del dialogo: maggiore bellezza». A distanza di dieci anni chiedo a una delle persone incontrate a Shantivanam cosa l’ashram abbia rappresentato per lei. Giancarla Goracci, che insegna in un liceo romano, mi risponde: «Shantivanam è stato come l’affacciarmi alla finestra di un mondo altro, dove potevo trovare i segni chiari di un cristianesimo capace di tessere nel tempo i fili di un dialogo interreligioso e intrareligioso. Tra gli ospiti vi erano persone che venivano dalla Corea, dall’Australia, dalla Germania e non tutti si riconoscevano in un credo religioso, eppure tutto scorreva con semplicità e gioia. Ho percepito, specie dopo la lettura di alcuni testi di Bede Griffiths, un dialogo autentico e appassionato tra culture e religioni. In fondo da questo viaggio-pellegrinaggio cercavo proprio una destabilizzazione delle sicurezze di una fede abitudinaria». Laura Clemente