rivista quadrimestrale - anno xxii nuova serie - n. 65

Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 1
RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXII
NUOVA SERIE - N. 65 - MAGGIO-AGOSTO 2008
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 2
Pubblicazione quadrimestrale promossa dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano
di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma.
Questa rivista si pubblica anche con i contributi del M.I.U.R., attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento e dello stesso Dipartimento.
Parte di questa pubblicazione rientra nel Progetto di Rilevante Interesse Nazionale su “Fenomenologia, narrazione, riflessione etico-politica: testi e temi
del pensiero francese del Novecento”, a cui partecipano le Università di Bari,
Lecce, Roma Tre, Sassari e Verona.
2
Direttore responsabile: Giovanni Invitto
Comitato scientifico: Angela Ales Bello (Roma), Angelo Bruno (Lecce), Antonio
Delogu (Sassari), Giovanni Invitto (Lecce), Aniello Montano (Salerno), Antonio
Ponsetto (München), Mario Signore (Lecce).
Redazione: Doris Campa, Raffaele Capone, Maria Lucia Colì, Daniela De Leo, Lucia
De Pascalis, Alessandra Lezzi, Giorgio Rizzo.
Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofia e
Scienze sociali, Università degli Studi - Via M. Stampacchia - 73100 Lecce - tel.
(0832) 294627/8; fax (0832) 294626. E-mail: [email protected]
Questa rivista è anche sul sito: siba2.unile.it/ese
Amministrazione, abbonamenti e pubblicità: Piero Manni s.r.l., Via Umberto I, 51
73016 San Cesario di Lecce - Tel. 0832/205577 - 0832/200373. Iscritto al n.
389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. Abbonamento annuo:
Italia t 25,00, Estero t 35,00, c/c postale 16805731 intestato a Piero Manni
s.r.l., Lecce. L’abbonamento, in qualunque mese effettuato, decorre da gennaio e dà diritto a ricevere i numeri arretrati dell’annata.
Un fascicolo t 10,00, degli anni precedenti il doppio.
Stampato presso Tiemme - Manduria
nel maggio 2008 - per conto di Piero Manni s.r.l.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 3
SOMMARIO
5
Roger Dadoun
BECKETT: RICERCA A DUE BECCHI,
9
Pierre Taminiaux
MALLARMÉ, MAL VU, MAL DIT
20
Sergio Vuskovic Rojo
LA DISMISURA DELL’ESTETICO
25
Jae-Suk Lee
IL SACRO E LA SESSUALITÀ NEL CONFUCIANESIMO
48
Francesca Puccini
ATOMI VIVENTI, MOLECOLE ORGANICHE, MONADOLOGIA.
EREDITÀ BRUNIANE NEL DIBATTITO SULLA «MATERIA ANIMATA» NEL XIX SECOLO
57
Stefano Cazzanelli
HUSSERL SECONDO JEAN-LUC MARION
74
Andrea Camparsi
FANTASIA, WITZ E UMORISMO. LA RIVELAZIONE DELL’ARTE IN SOLGER
85
Enrico David Santori
LA CLINICA DELLE IMMAGINI. CINEMA, EROS, VAMPIRI E PSICOANALISI
95
Giovanna Bruco
LA TEORIA DELLA NASCITA UMANA COME FONDAMENTO
DELLE SCIENZE UMANE
107
Marisa Forcina
L’IDEA DELL’ITALIA. TRA PENSIERO POLITICO E STORIA CIVILE
112
Damiano Russo
RILEGGERE CARLO MICHELSTAEDTER
3
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 4
117
Italo Testa
LA FELICITÀ IMPROROGABILE
122
Recensioni
143
Pubblicazioni ricevute
4
NOTE PER GLI AUTORI
I contributi vanno inviati alla Direzione di “Segni e comprensione” c/o Dipartimento di Filosofia e scienze sociali – Via V. M. Stampacchia 73100 Lecce. I testi debbono essere inviati in duplice copia, su carta formato A4, dattiloscritta su una sola facciata, a doppia interlinea, senza correzioni a mano.
Ogni cartella non dovrà superare le duemila battute. Il testo può essere inviato anche su floppy disk, usando un qualsiasi programma che, però, dovrà essere indicato (Word, Windows, McIntosh). Si può utilizzare preferibilmente l’email: [email protected]. Il materiale ricevuto non verrà restituito.
Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle comprese le note bibliografiche, per la sezione “Note” non dovranno superare le
sette cartelle, per la sezione “Recensioni” e “Notizie” le tre cartelle.
Si raccomanda che i titoli siano brevi e specifici. La redazione si riserva il
diritto di apportare eventuali modifiche, previa comunicazione e approvazione
dell’Autore.
Agli Autori saranno inviate tre copie del fascicolo in cui appare il loro lavoro.
“Segni e comprensione” è disponibile in edizione telematica sul sito http://siba2.unile.it/ese,
alla pagina Publications. Ogni numero sarà scaricabile due mesi dopo la pubblicazione cartacea della rivista.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 5
BECKETT: RICERCA A DUE BECCHI
W
di Roger Dadoun
Beckett alla lettera
Sotto lo sguardo penetrante azzurro di Beckett, sarebbe pietrificato, immobile nella pietra, annesso al Municipio del Quattordicesimo arrondissement di
Parigi, dove visse a lungo, sguardo affilato d’aquila, sparviero o falco, in questa domenica anniversario 11 novembre 2007, eccoci, due volte, pervenuti in
Fin de partie: epilogo, locale, dell’operazione di scrittura popolare «La Fureur
des mots» – e c’è, nelle parole di Beckett, un terribile, umile e freddo furore,
che fa perdere la testa e rende strampalato – contemporaneamente che epilogo, mondiale, di due densi e largamente ufficiali anni commemoranti il centesimo anniversario della nascita dello scrittore a Dublino nel 1906, nel corso dei
quali praticamente tutta l’opera fu passata al vaglio e in rivista da critici e attori molto in vista. E anche se, En attendant Godot, poiché tale è contemporaneamente il nostro misero go home e la nostra dote di speranza, ognuno vede mezzogiorno alla sua porta, preferibilmente la notte, tenteremo qui, in extremis, di sviluppare un piccolissimo frammento personale di Dernière bande.
– Un piccolissimo frammento?
Immagino, immaginazione viva, sentire la voce di Beckett, l’ascetico e
aspro autore di testi ristretti all’estremo, fino all’estenuazione, e così spesso ricondotti a dei borborigmi, all’immagine dei nomi dei suoi personaggi: Hamm,
Clov, Nell, Nagg, Didi, Gogo – balbettando (a meno che qui non mi ritorni bruscamente in mente quel lontano incontro con Roger Blin, nei dintorni di SaintSulpice: aveva appena finito di recitare Fin de partie , e continuava a contorcere le spalle e la nuca, e riusciva con difficoltà ad articolare una frase completa), dunque, sostituendo in balbettamento (I beg your pardon), questo proposito di Beckett-Blin appena udibile:
– Un piccolissimo frammento è piacevole, ma è ancora troppo.
– O. K., Sam, due parole allora?
– Ancora troppo, vile Beckett, che raramente abbandona la sua preda, e
che, senza averne l’aria, con i suoi personaggi d’inferno, minacciosi assolutamente di niente, ci mina e ci rovina e ci trafigge.
– Allora, due lettere, due soltanto?
SAGGI
M
5
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 6
A Samy si addice la stessa sfida. Di colpo esagero, io, cioè diminuisco la
posta, faccio abbassare le offerte, in breve, sottraggo, sotto-tratto, beckettizzo:
mi limito a due lettere, certo, ma due che, di fatto, ne fanno una, se si mettono
l’una o l’altra al contrario, la parte inferiore su quella superiore. Così, decorando con una medaglia questo busto di Beckett perfino prima di scoprirlo e contemplarlo, questa testa d’aquila, falco, o sparviero, secondo le affinità ornitologiche di ognuno, prendo due semplici lettere, con le loro due corte punte centrali che, incorniciate da ali, formano becchi – becchi che mirano e sprofondano, l’uno verso l’alto nell’irreale, l’altrove, il cielo, il vuoto, l’altro verso il basso
nella realtà, la terra, il là, il sudiciume, becchi che dilaniano, lacerano, solcano
la carne messa a nudo dell’umanità, tutto, urtate l’una con l’altra, gracchiando
un’avatara di speranza.
Queste due punte, puntandosi al cuore delle due lettere che ne formano
una, sono il più piccolo denominatore comune di cui si immagina che esse possano rendere conto dell’opera, del pensiero, e dello stile di Beckett – tutto ciò
condensato, incapsulato in questo solo nome proprio: Beckett.
Beckett: ricerca a due becchi!
6
Vedere bene (tutto come bisogna sapere e il leggere bene e l’ascoltare bene, il Beckett) queste due lettere con due becchi e con due paia d’ali: becco
puntato verso il basso, ali ripiegate, è la M; becco puntato verso l’alto, ali spiegate, è la W, che è una M capovolta (o viceversa).
Perché M, perché W? Semplicemente perché queste lettere, messe spesso
in maiuscolo, dominano nella scrittura e la grafia di Beckett. M è l’iniziale di molti nomi: Mercier, Molloy, Malone meurt, Murphy, Mahood, Moran. Essa riecheggia con forza, doppio bunker, ne l’innoMMable (nome doppiamente murato), in
coMMent c’est (domanda doppiamente murata). W, consonante più rara, si alza con le sue tre teste per rivaleggiare con la sua comparsa radicata in terra,
andando ad attingere nelle radici inglesi: si sa Beckett bilingue. Si vede così andare Winnie, Willie, Worms. Il nome Watt, da cui ci si aspettava qualche luce,
con le sue due filamentose «t», si sente «What», ossia in francese «Quoi», che
abbaia in «Quand», che ha lo stesso inizio di «quattro» ed è l’inizio di «quadrilatero» – è il principio della corta pièce Quad scritta per la televisione. Sentire
anche «quadratura», che richiama irresistibilmente «quadratura del cerchio», lo
schema più denso e più eloquente della condizione umana stessa, l’uomo che
diventa cerchio nel suo miserabile possesso, la sua gabbia esistenziale dagli
angoli duri che lo bilanciano come un ludione ai quattro angoli del reale. La W
di «What», in testa a «Quoi», trascina, come gracidanti (quoi/ssantes, en-quoissantes) spioni, una sequela di dubbiosi e inquisitori «deubleyou», come in offerta in allitterante sintesi questa breve aria di Kiling [immagino Beckett che assapora, immagini e nomi, le favolose Histoires comme ça, e, tagliando le ali alla vana metafora dell’uccello, lo vedo, io, lui, in Serpente-pitone-bicolore delle
rocce attaccate alla roccia della realtà umana]:
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 7
Tutte queste W – What, Why, When, Where, Who, – tutti questi abbaianti
gracidanti «ouah ouah ouah», che sono altrettanto dei reticolati disposti a corone verso il cielo e conficcati in rizomi nell’intera terra della condizione umana, scandiscono la ricerca di Beckett, il suo ossessivo interrogarsi su ciò che
siamo, attraverso lettere, imbrogli, interferenze e gesticolazioni (bisogna dire,
molto cara, «gestuale»?) dei suoi personaggi – domande in cui s’insinua, se lo
si guarda al contrario, indietro, la primissima pronuncia del suono M, prima lettera universale del bambino che fatica a balbettare nominare una figura di madre (mm’a).
Non disponendo di un quadro per esporre le direzioni e vocazioni rispettive
di M e di W, utilizzo tre dita della mano (le tre del centro, preferibilmente). Ecco: tesi verso il basso, formano, con le loro tre punte, la M, la quale affonda, si
radica nella terra: è lo stesso schema di Oh les beaux jours, in cui l’uomo e la
donna, scavando insensibilmente con i loro corpi, finiscono con lo sparire sotto terra. Si vede bene qui ciò che nella vita quotidiana, vuol dire «affondare».
Ma si può sempre udire, sperare che questa stessa M promuova e annunci un
«amo» – del verbo «amare», fast(e) salsa buona a fare passare tutto, dagli uni
agli altri e dai prossimi ai lontani, e incessanti citabili e innumerevoli discorsi.
Corsi sempre, direbbe sul colpo Beckett. [Marcel Duchamp, così vicino a Beckett sotto molti aspetti e per molte acutezze, intitola il suo più grande e ultimo
quadro: «Tu m’», New York 1918 – una «m’» appropriata ad avviare le più insolite o più comuni risonanze, di amare di merda].
Capovolte tese questa volta verso l’alto, le tre dita formano una W. Doppia
V, slancio verso almeno due o tre direzioni. Con le iniziali interrogative delle parole «What», «Where», «When», ecc., la lettera forza, assillante e aspra, ad interrogarsi. E per la sua forma, si spiega e si orienta verso un là-alto, là-basso,
al cielo, alla nube [È a Beckett, come a nessun altro, che potrebbe rivolgersi e
convenire questo primo verso – chi è sufficiente a se stesso nel suo essere sospeso nel vuoto – di Mallarmé: «Alla nube opprimente tu…»]. En attendant Godot: chiamata, attesa, di un «God», inglese per dire dio, commentano alcuni,
dio dal comportamento dionisiaco (Godere, in italiano, «jouir», dal latino gaudere, da cui uscirà «gaudriole») o messianico (Ode logorata messa su rotaia –
è canzonatura – per la venuta di un salvatore). Un po’ di audacia o di pilpoul?
Farebbe vedere in God un «Dio d’acqua», come nei Dogons cari a Griaule, per
estinguere l’inestinguibile metafisica concreta sete di essere. Ma da Godot a
Dogon, it’s a long way – con questo tipo di canzonatura. Ora, data nell’autore
una sicura ossessione della scarpa, potrebbe trattarsi esclusivamente della
fantasticheria slacciata, alla Van Gogh, di una «Scarpa» – per tentare di
SAGGI
I keep six honest servine-me
(They taught me all I knew)
Their names are What and Why and When
And How and Where and Who.
7
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 8
partire col piede giusto (sapendo che in Beckett, è il «questo non va» che funziona meglio).
Resta che, ognuno in attesa di un Godot che persiste e segna muto dall’altra parte della porta o dello specchio [Lewis Carrol, quanto Joyce insufflatore
di Beckett? Vi propendono numerose ragioni: e il balbettamento letterale, e il
capovolgimento e la valigia di parole, e Humpty-Dumpty e uno strano sorriso
che dura], Beckett, lui, è sempre qui, è riuscito nell’impresa di farci camminare tra siepi di M e toilettes di W – è ameno dal vivo e a nudo, con ridere giallo
e humour nero, quand’anche lo si trovi sempre che riposa la sua vita nelle
spazzature del reale.
So What, bene, direbbe Beckett,
Non rimane che fare rimare «réel»
Con…Well!
11 novembre 2007
per lo scoprimento, aletheia, del busto di Beckett
nel Municipio annesso al XIV° arrondissement di Parigi
alla presenza di un pubblico di bambini che aspettava… Kipling
8
[P. S. Se si dispongono queste due lettere l’una sull’altra, M su W, si ottiene, a condizione di scegliere un corpo di carattere appropriato (io ho utilizzato «Agency FB», una
figura composta da due losanghe, dualità nella quale è chiusa, incarcerata la condizione umana; ma si può anche immaginare che queste due losanghe figurino, stilizzate,
delle ali pronte, che aspettano uno slancio chiamato Godot, ad aprirsi, a lanciarsi, – ali
d’angelo, come dice un amico di Beckett, André Bernold, alla fine del suo piccolo libro,
L’amitié de Beckett: «I giorni forse non sono più: ma avrei visto gli occhi, le mani, le rughe di un messaggero, sì, oserei dire: di un angelo.», edizioni Hartmann, p. 110). Angelo di Lucifero, bisogna precisare: portatore di luce, di un’aspra luce cruda che illumina la miseria e la messa «in grazia» dell’uomo.]
(traduzione dal francese di Paola Invitto)
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 9
MALLARMÉ, MAL VU MAL DIT 1
Il poeta parla sempre in un’altra lingua, la lingua dell’altro che è anche l’altro del linguaggio: si può evocare in quest’ottica l’hetero-logos della poesia.
Per Beckett, ciò significa il ricorso alla lingua francese nella scrittura, in opposizione alla sua lingua materna, l’inglese. Al di là di una tale realtà concreta, ciò
implica inoltre l’impiego di una lingua radicale che non può essere ridotta ad alcuna forma letteraria tradizionale. In altri termini, la poesia di Beckett esiste al
di fuori dell’ambito presunto della poesia, sia essa classica o moderna, francese o anglosassone, all’interno di uno spazio originale che ridefinisce costantemente i propri limiti. Ho deciso qui di concentrarmi sul testo di Mal vu mal dit,
poiché rappresenta uno degli esempi più compiuti della sua ricerca di
un’espressione poetica la cui sobrietà fondamentale ricorda, sotto molti aspetti, il progetto di una «lingua essenziale» concepito da Mallarmé2.
La parola ‘male’, che è ripetuta nel titolo del libro, può fare riferimento in
francese a più cose nello stesso tempo. Innanzitutto ‘male’, come avverbio,
esprime un’azione che non è totalmente terminata, o la cui esecuzione non è
riuscita. Questa parola può poi indicare la presenza di una malattia, di un male o di una sofferenza fisica particolare. Infine, può anche sottolineare la realtà del Male, nel contesto di un discorso morale. Questi tre livelli di interpretazione sono in qualche modo intrecciati: essi costituiscono tutti degli importanti
elementi dell’opera di Beckett, della sua filosofia e della sua estetica. In questa prospettiva, è chiaro che ogni azione, per Beckett, e questo a prescindere
dalla sua natura, implica necessariamente il sentimento di un fallimento. Agire
è fallire, comunque, nella misura in cui non si può mai veramente raggiungere
i fini (concepiti al tempo stesso come una destinazione ed uno scopo specifici) della propria azione, nella misura, dunque, in cui ogni azione rimane prigioniera del proprio inizio. Inoltre, la metafora della malattia e del corpo che declina ritorna regolarmente nella sua opera, da Oh! les Beaux Jours a Rockaby.
Infine, la maggior parte dei personaggi beckettiani, da Malone meurt a En Attendant Godot passando per L’Innommable , sono determinati dal loro perturbante confronto con le forze terribili e tenebrose che li circondano e che li dominano.
È il poeta, allora, che pronuncia parole che non vanno da nessuna parte,
parole che non hanno un luogo proprio. La poesia deriva in ultima istanza dalla coscienza della finitezza del linguaggio, dalle sue carenze e debolezze insormontabili. È solamente con l’ammissione di queste debolezze che l’uomo
può mettersi a scrivere poesia, o almeno tentare di farlo. In questo senso, il titolo Mal vu mal dit, esprime il destino stesso della poesia, del testo che costi-
SAGGI
di Pierre Taminiaux
9
Segni e comprensione 65
10
20-05-2008
17:24
Pagina 10
tuisce un poema. Una tale percezione fu precisamente al centro della modernità poetica, e in particolare dell’opera di Mallarmé. Il suo approccio personale alla letteratura evidenziò, in effetti, la presenza di bianchi, di interruzioni e di
sospensioni all’interno del linguaggio, cosa di cui ora siamo bene a conoscenza grazie alla lettura congiunta di Un Coup de Dés e all’analisi teorica di Derrida in «La Double Session», inclusa nella sua opera La Dissémination3. Il poeta parla letteralmente ‘tra’, cioè parla da una posizione instabile che non è né
un qui né un là.
In Mal vu mal dit, la voce narrante riflette costantemente questo stato di
non-luogo o di non-appartenenza: esso si situa in un vuoto che il linguaggio
non è mai veramente capace di colmare, qualunque sia la sua intensità o la
sua potenza. Certo, non vi sono pagine bianche in Beckett, al contrario di ciò
che avviene in Mallarmé. Ma il fiume apparente delle parole beckettiane non
può dissimulare la realtà di uno spazio vuoto all’interno e a partire dal quale la
voce tenta comunque di dire qualcosa. A questo proposito, si trovano in questo testo numerosi riferimenti al tempo stesso alla bianchezza e al senso di un
vuoto profondo («Comme de plus en plus blanche à mesure qu’elle s’élève elle blanchit les cailloux de plus en plus»4), («Partout la pierre gagne. La blancheur. Chaque année un peu plus. Autant dire chaque instant. Partout à chaque instant la blancheur gagne»5). E più avanti: («Plus que ciel noir. Que terre
blanche. Ou inversement. Plus de ciel ni de terre. Finis haut et bas. Rien que
noir et blanc. N’importe où partout. Que noir. Vide. Rien d’autre»6). Solo nero
e bianco, il nero e il bianco di alcune parole scritte con l’inchiostro su di un foglio di carta, quelle di Un Coup de Dés, per esempio. («Rien. Sinon au tout dernier moment sous la poussière un bout de feuille déchiquetée d’un côté comme arrachée à un memento. D’une encre à peine lisible sur l’une des faces jaunies un mot suivi d’un chiffre. Mer 17. ou mar. Mer ou mar 17. Sinon vierge. Sinon vide»7). Le parole stesse sono destinate ad essere cancellate, a dispetto
della loro iscrizione su di una qualche pagina. Esse sono private del loro proprio fine e ridotte quindi a semplici pezzi o frammenti. Lo spazio vergine della
scrittura rinvia qui al capolavoro poetico di Mallarmé («Blanchi, étale, furieux»8
o anche «cette blancheur rigide, dérisoire, en opposition au ciel»9, si può per
esempio leggere in Un Coup de Dés).
La bianchezza e il vuoto contengono la possibilità di una scomparsa, di una
figura che svanisce e diviene una semplice ombra. («Frappées de biais par encore les derniers rayons elles jettent vers l’est-nord-est leurs longues ombres
parallèles. C’est donc le soir. Un soir d’hiver. Ce sera toujours le soir. Toujours
l’hiver. Sauf la nuit. La nuit d’hiver. Plus d’agneaux. Plus de fleurs. Les mains
vides elle ira voir la tombe. Jusqu’à ne plus y aller. Ou ne plus en revenir. C’est
décidé. Les deux ombres se ressemblent à s’y méprendre»10). Questo motivo
dell’ombra come segno di una presenza fantomatica, si ritrova anche a più riprese in Un Coup de Dés: («L’ombre enfouie dans la profondeur par cette voile alternative»11, «Son ombre puérile, caressée et polie et rendue et lavée»12,
«ainsi que le fantôme d’un geste»13). Ciò che è visto non corrisponde dunque
se non ad una perdita di visione, ciò che è detto riflette così una perdita di parola («Elle se perd. Avec le reste. Le déjà mal vu s’estompe ou mal revu s’an-
20-05-2008
17:24
Pagina 11
nule»14). O ancora: («L’œil aura beau se fermer. Il ne verra plus que brume.
Même pas. Ne sera plus lui-même que brume. Comment la dire. Vite comment
la dire avant qu’elle ne noie tout. Lumière. En un traître mot. Brume lumière.
La grande enfin, Où plus rien à voir. A dire. Du calme»15). Il linguaggio, in questo senso, svela ciò che sfuma, ivi compresa la fede nel linguaggio stesso. La
«parola traditrice», conseguentemente, riflette il dubbio emesso nei confronti di
ciò che è detto, qualunque sia l’identità della voce che parla, il suo luogo e il
suo tempo. Secondo questa logica, il linguaggio costituisce un’ombra fondamentale, la traccia più significativa di un’opacità pura.
Si afferma spesso che Mallarmé è il padre della poesia modernista. Egli ha
incontestabilmente esercitato un’influenza determinante sull’avanguardia dell’inizio del ventesimo secolo, in particolare sui surrealisti: l’esempio più chiaro
di questa influenza si trova a mio avviso nell’opera pittorica, ma anche negli
scritti di René Magritte. Quando si cerca di sottolineare le radici moderniste
dell’opera di Beckett, tuttavia, i nomi di James Joyce o di Gertrude Stein appaiono molto più spesso di quello di Mallarmé. Il suo caso è meno evidente, in effetti, sia da un punto di vista culturale (poiché egli era di origine francese e scriveva in francese nonostante il suo lavoro di professore di inglese, contrariamente al compatriota di Beckett, l’irlandese Joyce), sia da un punto di vista
estetico (poiché egli scriveva soprattutto poesia, contrariamente a Beckett). Ma
è precisamente per questa ragione che sono interessato a sottolineare il legame tra questi due autori nel contesto di una discussione centrata sulla lingua
poetica di Beckett.
Per poter comprendere una tale relazione apparentemente singolare o in
ogni caso raramente studiata, si deve considerare l’opera di Beckett come un
progetto poetico. Non dico necessariamente tutta la sua opera, ma sicuramente l’ultima grande parte del suo itinerario artistico personale, quella che include parecchi racconti brevi come Compagnie, Mal vu mal dit e Cap au Pire.
Questi testi, in effetti, implicano un processo radicale di decostruzione formale
che mette in causa, in maniera profonda, l’identità ed il senso della scrittura
narrativa e delle sue strutture tradizionali.
Il procedimento poetico può definirsi in questo caso come il tentativo di ridurre il linguaggio alla sua forma più concisa. Impiegherò il termine di «minima parola» per descrivere questa condizione. D’altronde in Mal vu mal dit, le parole
«meno» e «minima» appaiono in più occasioni. («A scruter en même temps que
l’inscrutable visage. Sans plus la moindre curiosité»16). O ancora: («Pour en mal
dire le moins. Moindre. Elle finira par ne plus être. Par n’avoir jamais été»17). E
infine: («Du moins du pas encore vu. Soudain le regard. Sans que rien ait bougé. Regard? C’est trop peu dire. Trop mal. Son absence? Non moins. Indicible
globe. Insoutenable»18). Si tratta sicuramente, come lo si legge qui, di dire troppo poco, benché nell’espressione «troppo poco» vi sia ancora la presenza della parola «troppo» e, dunque, di un eccesso, seppur negativo. Si sarebbe, così, tentati di legare questa minima parola all’espressione di un’estetica «minimalista», un termine la cui origine non è propriamente letteraria, d’altronde, ma
piuttosto pittorica. La recente esposizione del Centre Beaubourg, nella primavera 2007, dedicata ai rapporti di Beckett con l’arte moderna e contemporanea,
SAGGI
Segni e comprensione 65
11
Segni e comprensione 65
12
20-05-2008
17:24
Pagina 12
sottolinea a questo proposito l’affinità tra il lavoro di artisti come Sol LeWitt, Richard Serra o Robert Ryman e l’opera dello scrittore.
Penso che un tale parallelismo sia un po’ ingannatore, nella misura in cui
mescola e confonde, in modo talvolta sbrigativo, questioni legate strettamente
al linguaggio (più in particolare, al linguaggio poetico) e questioni strettamente
plastiche associate all’evoluzione formale dell’arte astratta dopo la seconda
guerra mondiale. D’altronde la concisione, in Beckett, non sfocia mai nell’astrazione di natura geometrica né nell’oggettivazione pura19. Attraverso la voce, in
effetti, un soffio ed un soggetto si fanno sempre intendere o sentire, una presenza essenzialmente fisica si impone al lettore e allo spettatore. In questo
senso, la nudità della sua estetica non abbandona mai il potere della materia
nel linguaggio stesso: essa, al contrario, lo impone tanto più attraverso questo
movimento di rinsaldamento.
La nudità, quindi, afferma una tensione supplementare, un’intensità maggiore che è appunto quella dell’esistenza bruta, nel suo pathos inevitabile, lontano da ogni manierismo o da ogni gratuità formalista20. Invece di parlare di
«minimalismo», dunque, avanzerò piuttosto l’idea di un processo fondamentale di sottrazione all’interno del linguaggio. In altri termini, parlare, in Beckett, è
per natura prelevare certe parole a partire dall’insieme delle parole disponibili:
il linguaggio poetico costituisce dunque un lavoro di sottrazione che include anche un lavoro di contrazione. Sottrarre, è sfrondare il linguaggio, in qualche
modo, è tagliarlo come si taglierebbe una siepe troppo folta: una tale operazione implica necessariamente un’esigenza di rarità ed un rifiuto di ogni vaniloquio, al di là della ripetizione o della ripetizione esasperata. Quanto alla contrazione, essa definisce una lingua poetica ritmata da spasmi ricorrenti, una lingua che resiste ad ogni forma di noncuranza o di quiete superficiale.
Per Beckett, questo «meno» del linguaggio è sempre un più. In altri termini, la sua ricchezza e la sua complessità sono a maggior ragione suggerite e persino affermate dalla sua brevità. «Meno si è folli, più si ride». Una tale prospettiva non è mai stata tanto pertinente e persino sovversiva quanto
nel mondo di oggi, questo mondo dominato in maniera schiacciante da una
cultura mediatica globale che impone precisamente un ordine linguistico basato sulla costante proliferazione e la sovrabbondanza della parola. In questo senso, la poesia di Beckett, con la sua ostinazione a definire un’economia del linguaggio senza concessione, è anche eminentemente politica. Esigere la «minima parola», in effetti, è resistere ad un mito universale di abbondanza e di pienezza che possiede delle implicazioni esistenziali radicali
per l’umanità tutta intera e non solamente per la letteratura. Meno, così, è
certamente abbastanza, e la quiete senza fine di questo «abbastanza» delimita un nuovo spazio del linguaggio, fuori dalla sua identità puramente sociale che costringe l’uomo ad un modello linguistico sovrano determinato dalla legge della semplice quantità.
Questa politica originale del linguaggio era già situata al cuore del progetto
mallarmeano alla fine del diciannovesimo secolo. Nella sua critica ai Parnassiani, in effetti, Mallarmé si sforzò di rigettare una certa concezione accademica della poesia sorta da un formalismo rigido e da una tendenza certa all’en-
20-05-2008
17:24
Pagina 13
fasi verbale. È falso credere, tuttavia, che questa politica della «minima parola» implichi la ricerca profonda di silenzio nel linguaggio. Al contrario, parlare
meno, per Beckett, è negare il silenzio nella maniera più veemente che esiste.
Per Mallarmé, parallelamente, il procedimento poetico si accompagna necessariamente ad una coscienza della natura propriamente musicale e sonora
delle parole. Ne «La Musique et les Lettres», testo nato dalle conferenze tenute a Oxford e Cambridge, Mallarmé afferma così: «Je pose, à mes risques
esthétiquement, cette conclusion (si par quelque grâce, absente, toujours, d’un
exposé, je vous amènerai à le ratifier, ce serait pour moi l’honneur cherché ce
soir): que la Musique et les Lettres sont la face alternative ici élargie vers l’obscur; scintillante là, avec certitude, d’un phénomène, le seul, je l’appelai
l’Idée»21 In questo senso, l’illegibilità presunta della poesia mallarmeana non
sfocia mai nel sentimento del suo carattere inaudibile. Le parole dovevano per
lui diffondersi nel loro eco vero, nella loro demoltiplicazione propriamente sonora. È precisamente questa dimensione sonora della poesia che costituì l’essenza modernista del lavoro di Mallarmé, una dimensione che fu d’altronde più
tardi ripresa e sviluppata da numerosi artisti d’avanguardia del movimento Dada, in particolare da Kurt Schwitters.
Una tale prospettiva allontana chiaramente Beckett e Mallarmé da un’estetica o pensiero del silenzio che fu sia quella di John Cage in musica sia di Heidegger in filosofia nella sua ricerca di un’essenza del linguaggio poetico. Il vuoto, così, non è il risultato dell’assenza di parola: significa piuttosto che la voce
autorizza le sue proprie cesure o rotture. In questo senso si può parlare in Mal
vu mal dit di una parola sincopata la cui dimensione ritmica è particolarmente
sorprendente. La lingua investe, letteralmente, essa è fatta di numerosi colpi
che tagliano il silenzio come un coltello ben affilato. Se le cose restano «mal
dette», da allora, è precisamente perché ci sono sempre troppe parole attorno
a noi, troppe parole e frasi che devono essere contenute e assegnate ai loro
limiti. La «minima parola» è in effetti riempita da numerosi eco e rumori o rumori di fondo diversi: essa non costituisce in alcun caso lo specchio di una voce ridotta al mutismo.
Il simbolo più eloquente della modernità di Mallarmé non fu solamente Un
Coup de Dés, ma anche Igitur. Il paragone tra questo testo e Mal vu mal dit fa
tanto più senso in quanto la sua forma letteraria non è strettamente quella di
un poema, ma piuttosto quella di un corto racconto in stile ellittico. Nelle due
opere, in effetti, il lettore è confrontato ad una lingua che riflette immagini di
sparizione e di oscurità. La presenza di ombre è a questo proposito continua
nei due casi. Nell’introduzione di Igitur, per esempio, leggiamo le seguenti parole: («Lui-même, à la fin, quand les bruits auront disparu, tirera une preuve de
quelque chose de grand (pas d’astre? le hasard annulé?) de ce simple fait qu’il
peut causer l’ombre en soufflant sur la lumière»22).
In uno spirito più ironico, è necessario sottolineare l’insistenza nel testo di
Mallarmé sulla mezzanotte che è anche il nome dell’editore di Beckett. Mal vu
mal dit è anche un’opera notturna, il cui tempo essenziale si situa dopo il tramonto. («Elle réémerge sur le dos. Immobile. Soir et nuit. Immobile sur le dos
soir et nuit»23). E più avanti: («C’est donc le soir. Un soir d’hiver. Ce sera tou-
SAGGI
Segni e comprensione 65
13
Segni e comprensione 65
14
20-05-2008
17:24
Pagina 14
jours le soir. Toujours l’hiver. Sauf la nuit. La nuit d’hiver»24). Il personaggio
principale del racconto, questa vecchia donna che attende di morire guardando dalla finestra dopo aver scostato lentamente la tenda, appare soprattutto la
notte e scompare il giorno. («Elle réapparait le soir à la fenêtre. Quand ce n’est
pas la nuit c’est le soir. Si elle veut revoir Vénus il va falloir l’ouvrir. Tête baissée elle attend de le pouvoir. Elle songe peut-être aux soirs où elle l’a pu trop
tard. La nuit noire venue»25).
La minima parola esprime nei suoi propri termini una minima luce, quella di
un mondo che esiste sia prima sia dopo il giorno. A questo proposito, se le cose sono mal viste, è precisamente perché esse si disegnano nella foschia o
nell’oscurità, come in una notte d’inverno particolarmente buia. Tutte le forme
e le figure, in questo senso, sono consacrate ad uno stato di «mésapparition»,
a meno di sparire completamente. Mal vu mal dit, Mal Apparaître. È ciò che capita palesemente al personaggio femminile di Beckett, ma anche ad Igitur.
(«L’ombre disparue en l’obscurité, la Nuit resta avec une douteuse perception
de pendule qui va s’atteindre et expirer en lui; mais à ce qui luit et va, expirant
en soi, s’éteindre, elle se sait qui le porte encore; donc c’est d’elle! que, nul
doute, était le battement oui, dont le bruit total et dénué à jamais tomba en son
passé»26). Questi due testi esprimono un’attenzione costante al problema dell’immaginazione e della sua possibile rappresentazione nella scrittura (questa
immaginazione che la filosofia di Malebranche chiamava «la folle du logis»).
Immaginare, infatti, è precisamente vedere attraverso la notte, attraverso la
tenda nera della realtà per poter raggiungere una luce interiore e segreta che
il poeta tiene senza tremare. La presenza continua della notte è sin da allora
ciò che agita il discorso poetico e genera il suo movimento originale così come
il suo senso proprio. Come le parole stesse di Beckett ci hanno insegnato, si
può ancora e sempre immaginare al di là della proclamazione della morte dell’immaginazione. In questa prospettiva, immaginare è necessariamente partire
dal nulla, sorgere dal vuoto per andare verso una forma od un’altra di sostanza e di densità. In Mal vu mal dit, è il viso allora che costituisce il focolare di
questo sforzo infaticabile in direzione dell’immaginazione («Entrepris d’en dessous le visage se laisse faire enfin. A la faible lumière que renvoie la dalle. Calme bloc doucement concave poli par des siècles d’allées et venues. Blancheur
plombée. Pas une ride. Comme il parait serein ce masque ancien. A l’égal de
ceux de certains nouveaux-morts. Vrai que l’éclairage laisse à désirer. Fermés
les yeux ne livrent pas leurs prunelles. L’avenir les dira cernés d’un bleu délavé27»). Questo viso rivela allora un’alterità immaginata, ricostruita attraverso
uno sguardo a distanza. Non può essere colto che al centro della notte nera.
Lo si deve dunque inventare, andare al di là della semplice descrizione dei suoi
tratti principali, come se dovesse essere creato o modellato dall’occhio altrui.
Una tale poesia deriva senza alcun dubbio da un sentimento profondo del
caso nel linguaggio, una parola evidentemente molto mallarmeana. Parlare,
per Beckett, è anche e forse persino soprattutto confrontarsi con il carattere
aleatorio delle parole, con l’incertezza della parola e della sua ricezione. Lo
scrittore deve far fronte alla precarietà e alla fragilità del suo proprio materiale:
la scrittura, in questa prospettiva, non riposa su niente. Lo spazio e il tempo del
20-05-2008
17:24
Pagina 15
linguaggio sono sempre da precisare: la loro indeterminatezza impone l’urgenza dell’espressione, cioè la necessità assoluta della forma poetica. Il problema
essenziale, in questo caso, non è «si», ma «o», «quando» e «come» («Come
dire», questione ultima posta da Beckett alla scrittura, qualche mese soltanto
prima della sua morte). Il linguaggio, come la morte, giustamente, deve fatalmente accadere, essere l’avvenimento che deve accadere.
Ma lo scrittore non conosce le condizioni esatte della sua espressione. Il testo di Igitur riflette perfettamente questa situazione: («Minuit sonne-le Minuit où
doivent être jetés les dés. Igitur descend les escaliers, de l’esprit humain, va au
fond des choses: en «absolu» qu’il est»28). La «follia» mallarmeana fu quella di
una ricerca dell’assenza pura, del vuoto totale, del baratro impossibile da cingere. All’inizio di questo movimento insensato, tuttavia, doveva nascere l’Idea,
ma anche la presenza di un soffio, di una convulsione dell’essere attraverso e
nel linguaggio, secondo una sensibilità vicina a quella di Beckett. Riprendiamo
ancora una volta le parole di Igitur: («Folie utile. Un des actes de l’univers vient
d’être commis là. Plus rien, restait le souffle, fin de parole et gestes unis-souffle
la bougie de l’être, par quoi tout a été. Preuve»29). Queste due scritture sono
consacrate all’espressione della fine, alla visione di un foro nero in cui «più niente» non esiste o non resta. L’essere è condannato allora nei due casi, in Igitur
come in Mal vu mal dit, ad un’oscurità di natura esistenziale.
È proprio questa forza dell’assoluto, la forza di un Io costantemente ed interamente consegnato all’immagine della vita e della morte nel linguaggio, ma
anche dell’angoscia e del terrore, che allontana in particolare Beckett dal lavoro dei plastici contemporanei come Bruce Nauman, per esempio, in riferimento ancora una volta alla recente esposizione del Beaubourg. Essa lo separa
profondamente, in effetti, da tutto un relativismo «post-moderno» sorto da una
coscienza della fine della storia (in particolare, della fine della storia delle avanguardie) e della cosiddetta «morte dell’uomo» nell’arte, una prospettiva che, filosoficamente, rinvia innanzi tutto a Lyotard, ma anche a Foucault e ai «decostruzionisti». L’assoluto di Mallarmé e di Beckett fu prima di tutto quello della
lingua, nella misura in cui la lingua, attraverso il suo potere poetico, doveva ad
ogni momento significare l’esistenza ed il soggetto che la viveva fino in fondo.
Ma si trattava anche di andare oltre «l’assenza di me», per riprendere l’espressione di Mallarmé in Igitur, e di affermare così, in questo stesso superamento,
una soggettività radicale e ribelle.
Per Beckett, molto chiaramente, questa soggettività di natura tragica era
nutrita dai demoni della storia del ventesimo secolo, in particolare dalla storia
della seconda guerra mondiale, conflitto in cui Beckett s’impegnò personalmente nel suo lavoro per la resistenza. La negazione radicale del soggetto implicata dal nazismo fu dunque ben vissuta da lui in maniera dolorosa e intima
(essa vanta in effetti le figure apocalittiche di En Attendant Godot): in opposizione, il «post-modernismo» artistico celebrò «la morte del soggetto» secondo
una postura filosofica vicina all’amnesia. Parallelamente, Mallarmé si sforzò di
definire il suo progetto poetico a partire da una coscienza acuta della storia della poesia francese moderna, storia che andava dai Parnassiani a Baudelaire e
Hugo passando per Verlaine.
SAGGI
Segni e comprensione 65
15
Segni e comprensione 65
16
20-05-2008
17:24
Pagina 16
In Mal vu mal dit come in Igitur, l’assurdo, cioè l’impossibilità del senso, non
solamente nell’esistenza ma anche nel linguaggio, è veramente onnipresente,
laddove non ha che poco posto nel lavoro dei plastici contemporanei come
Bruce Nauman. Per Igitur, inoltre, si tratta dell’assurdità del tempo, questo tempo cui l’uomo è fatalmente legato e che lo divora tutto ossessionandolo. («J’ai
toujours vécu mon âme fixée sur l’horloge30», dit ainsi Igitur). In queste pagine
è questione di «malattia d’idealità», «di ore vuote puramente negative» e soprattutto di un sentimento congiunto di noia e impotenza che dominò sotto molti aspetti la vita di Mallarmé stesso. Al termine di questo tragitto singolare, Igitur incontra l’orrore, quello della sua propria immagine che è costretto ad osservare nello specchio. («Et quand je rouvrais les yeux au fond du miroir, je voyais le personnage d’horreur, le fantôme de l’horreur absorber peu à peu ce qui
restait de sentiment et de douleur dans la glace, nourrir son horreur des suprêmes frissons des chimères et de l’instabilité des tentures, et se former en raréfiant la glace jusqu’à une pureté inouïe»31). Questo orrore, è quello dell’eternità e della sua sensazione: essa provoca in Igitur una reazione di spavento
mista a dei soffocamenti e degli strozzamenti. Altrove, il testo di Igitur evoca
anche «la noia» e «il rifiuto», due nozioni eminentemente beckettiane.
Sartre, nel suo studio su Mallarmé, ha definito l’autore di Un Coup de Dés
come il «poeta del nulla»32. Questo nulla presunto conduce in realtà alla ricerca di un Assoluto del linguaggio poetico. Nella stessa maniera, la «minima parola» di Beckett non confonde la presenza del vuoto con una pura inesistenza.
La voce narrante, nel suo semplice «essere-là», afferma al contrario la visione
di un tutto o di una unità che s’impone con la sua potenza linguistica. Questa
«minima parola» corrisponde a ciò che io chiamo «una lingua punteggiata»,
nella quale le costruzioni sintattiche tradizionali non si applicano più. Le affermazioni ellittiche e le parole uniche le sostituiscono allora in modo da creare il
senso di un linguaggio interrotto permanentemente: si potrebbe insomma comparare questo tipo d’espressione con il respiro corto di un uomo malato o sfinito. Questo linguaggio punteggiato contraddice la natura lineare della parola:
esso si sceglie nel momento, qui e adesso, senza alcuna possibilità di ritardo.
Inoltre, il punto, in quanto simbolo linguistico, rende conto di una parola che
è destinata ad essere tagliata o persino terminata («Ou plus rien à voir. A dire.
Du calme»33), così ci dice il testo di Mal vu mal dit. In questo senso, il linguaggio poetico non può che reiterare le figure quasi infinite di questa determinazione: è proprio attraverso questo processo, in effetti, che l’Assoluto è svelato.
Non si può che pensare in questo contesto a Un Coup de Dés, dove la pagina
quasi immacolata non è «sporcata» se non da alcune macchie nere, le macchie provocate dalle parole stesse. L’artista concettuale Marcel Broodthaers,
cancellando le parole del poema di Mallarmé e sostituendole con dei semplici
rettangoli neri, sottolineò a questo riguardo con una finezza particolare la geometria originale di un tale progetto poetico, quello di un linguaggio costantemente assillato dall’immagine della sua propria fine.
Parlare, per Beckett, è sempre discendere, andare di male in peggio, ruzzolare fino in fondo e fino alla fine, fino agli abissi del linguaggio. La metafora
del foro è dunque essenziale per comprendere la sua filosofia del linguaggio:
20-05-2008
17:24
Pagina 17
è il foro della bocca aperta, come in Pas Moi, il foro in cui il corpo di Winnie
sprofonda in Oh! Les Beaux Jours. Parlare, è piangere nel foro del linguaggio,
in un luogo dove la voce può in ultima istanza perdersi. «Discesa compiuta»,
come ben lo dicono le ultime pagine di Mal vu mal dit. La voce raggiunge senza sosta livelli ancor più bassi, e questi bassi costituiscono paradossalmente
un luogo dove il senso e l’estasi possono trovarsi. La conclusione del testo di
Mal vu mal dit è esplicita a questo riguardo: («Non. Encore une seconde. Rien
qu’une. Le temps d’aspirer ce vide. Connaître ce bonheur»34). Questo secondo è almeno un semplice punto nella catena del tempo, un punto in cui il linguaggio della poesia appare e svanisce. La voce può ora inghiottire il vuoto e
raggiungere il piacere supremo dell’istante eterno («Première dernière seconde. Pourvu qu’il en reste encore assez pour tout dévorer. Goulûment seconde
par seconde. Ciel terre et tout le bataclan»35). Completamente sotto, essa scopre il cielo, al di sotto del suolo del linguaggio, al di sotto dei limiti della poesia.
Per finire, mi accontenterò di ritornare ad un solo frammento d’Igitur, poiché
ad ogni modo l’opera di Mallarmé, come quella di Beckett, si concepisce in e
attraverso questa forma letteraria lacunosa che è per eccellenza quella dell’incompiutezza. Questo passaggio del testo di Mallarmé costituisce, in effetti, lo
specchio perturbante del procedimento beckettiano: («Il se couche au tombeau. Sur les cendres des astres, celles indivises de la famille, était le pauvre
personnage, couché, après avoir bu la goutte de néant qui manque à la mer.
(La fiole vide, folie, tout ce qui reste du château?) Le Néant parti, reste le château de la pureté»36). In nota, Mallarmé evoca anche «tutto un mare incoerente dove la parola si agita per sempre impotente». Non si può che pensare al
personaggio femminile di Mal vu mal dit, che scende lentamente verso la propria morte, questo «povero personaggio coricato». L’immagine fondamentale
qui è del resto quella di qualcuno che beve una goccia di vuoto, che inghiotte
e aspira dunque l’infinitamente piccolo come il secondo nella conclusione di
Mal vu mal dit.
A suo modo, il testo di Beckett riflette anche l’immagine del castello della
purezza, al di là delle debolezze e delle costrizioni del linguaggio e dello sguardo. Questa immagine deriva certamente dalla sovranità congiunta dell’Idea
della scrittura e della sostanza più concreta delle parole: la sua prossimità distante, in qualche maniera, costituirà sempre una dimensione essenziale delle forme più radicali di modernità letteraria. Essa traduce ciò che chiamerei allora una «ascesi attonita», l’esigenza troppo umana e sovrumana di una voce
costantemente espulsa al di fuori (come si parla di uno sguardo fuori dalle orbite), parlando attraverso la finestra per meglio raggiungere l’altro che ascolta
e lo attende.
(traduzione dal francese di Siegrid Agostini)
SAGGI
Segni e comprensione 65
17
Segni e comprensione 65
18
20-05-2008
17:24
Pagina 18
1 Questo testo nasce da un intervento tenuto alla convenzione della Modern Language Association a Filadelfia, nel quadro di una sessione speciale «Beckett, Poetry, Lyrics», organizzata dalla Samuel Beckett Society, il 29 dicembre 2006.
2 Lo stesso Mallarmé, in una lettera autobiografica a Verlaine pubblicata nella raccolta Igitur,
Divagations, Un Coup de dés, Poésie/Gallimard, Paris, p. 392, diceva: «Ho sempre sognato e tentato altra cosa». Questa affermazione rinvia, secondo ogni evidenza, ad un hetero-doxa della poesia che è inscindibile dall’hetero-logos evocato in precedenza.
3 Le Seuil, Paris 1972.
4 S. BECKETT, Mal vu mal dit, Minuit, Paris 1981, p. 10. Vedi la traduzione italiana a cura di Renzo Guidieri in S. BECKETT, Mal visto mal detto, Einaudi, Torino 1986 (d’ora in avanti: BECKETT
[1986]), p. 7. «Siccome sempre più bianca a mano a mano che si alza essa imbianca sempre più
i ciottoli».
5 Ivi, p. 32. Vedi BECKETT [1986], p. 31: «Ovunque la pietra avanza. Il biancore. Ogni anno un
po’ di più. Tanto varrebbe dire ogni istante. Ovunque ad ogni istante il biancore avanza».
6 Ivi, p. 38. Vedi BECKETT [1986], p. 39: «Niente altro che cielo nero. Che terra bianca. O viceversa. Niente più cielo né terra. Finiti alto e basso. Nero e bianco e basta. Non importa dove dappertutto. Solo nero. Vuoto. Niente altro».
7 Ivi, p. 47. Vedi BECKETT [1986], p. 49: «Nulla. A parte all’ultimissimo momento sotto la polvere un pezzo di foglietto lacerato da un lato come strappato da un’agendina. Con inchiostro appena leggibile su una delle facciate ingiallite una parola seguita da un numero. Mer 17. O mar. Mer
o mar 17. A parte questo vergine. A parte questo vuoto».
8 S. MALLARMÉ, op. cit, p. 424. Vedi la traduzione italiana in S. MALLARMÉ, Opere scelte (a cura
di L. De Nardis), Guanda, Parma 1961 (d’ora in avanti: MALLARMÉ [1961]), p. 161: «Imbiancato fermo infuriato».
9 Ivi, p. 433. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 162: «Quel biancore rigido, irridente, in opposizione al
cielo».
10 S. BECKETT, op. cit., p. 56. Vedi BECKETT [1986], p. 59: «Investite di sbieco ancora dagli ultimi raggi esse gettano verso est-nord-est le loro lunghe ombre parallele. Quindi è sera. Una sera
d’inverno. Sarà sempre sera. Sempre inverno. Tranne la notte. La notte d’inverno. Niente più
agnelli. Niente più fiori. A mani vuote lei andrà a visitare la tomba. Fino a quando non ci andrà più.
O non ne tornerà più. Così sta scritto. Le due ombre si assomigliano come due gocce d’acqua».
11 S. MALLARMÉ, op. cit., p. 425. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 161: «L’ombra fuggita nel profondo
con quella vela alternativa».
12 Ivi, p. 428. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 161: «Ombra puerile di questo, accarezzata e polita e
detersa».
13 Ivi, p. 428. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 162: «Come il fantasma di un gesto».
14 S. BECKETT, op. cit., p. 60-61. Vedi BECKETT [1986]. p. 65: «Lei si perde. Con il resto. Il già
mal visto si vela o mal rivisto s’annulla».
15 Ivi, pp. 60-61. Vedi BECKETT [1986], p. 65: «L’occhio potrà anche chiudersi. Non vedrà altro
che bruma. Anzi neanche. Lui stesso non sarà altro che bruma. Come dirla. Presto come mal dirla prima che essa sommerga tutto. Luce. Con un’unica parola traditrice. Bruma luce. Quella grande finalmente. In cui più niente da vedere. Da dire. Calma».
16 Ivi, pp. 70-71. Vedi BECKETT [1986], p. 75: «Da scrutare insieme con l’inscrutabile volto. Senza più la benché minima curiosità».
17 Ivi, pp. 66-67. Vedi BECKETT [1986], p. 71: «Per dirne male il meno. Minima. Finirà col non
più essere. Col non essere mai stata».
18 Ivi, pp. 72-73. Vedi BECKETT [1986], p. 79: «Perlomeno del non ancora visto. Improvvisamente lo sguardo. Senza che niente si sia mosso. Sguardo? È troppo dire. Troppo male. La sua assenza? No meno. Indicibile globo. Intollerabile».
19 Questa tendenza discutibile a voler fare ad ogni costo di Beckett un artista «astratto» e «sperimentale», si trovava già nel saggio di Pascale Casanova, Beckett l’Abstracteur, Le Seuil, Paris 1997.
20 Nel suo articolo “Image”, incluso nel catalogo dell’esposizione del Centre Pompidou, Objet
20-05-2008
17:24
Pagina 19
Beckett, Imec Éditeur, Paris 2007, il filosofo e critico d’arte Georges Didi Huberman evoca pur tuttavia il pathos dei lavori minimalisti di Sol LeWitt o di Richard Serra (p. 124). Mi permetto di mettere in questione una tale prospettiva, nella misura in cui essa accorda il primato all’immagine di
Beckett, quando la sua opera è né più né meno fondata, prima di tutto, sulle parole e sulla ricerca
di una lingua unica che si legge e si dice prima di «vedersi».
21 S. MALLARMÉ, op. cit, p. 378. Stabilisco, a mio rischio da un punto di vista estetico, questa
conclusione (se per qualche grazia, essendo assente sempre un’esposizione, vi indurrò a confermarla, questo sarà per me l’onore cercato questa sera): la Musica e le Lettere sono la faccia alternativa qui allargata verso l’oscuro; là scintillante, con certezza, di un fenomeno, il solo, che io chiamavo l’idea.
22 Ivi, p. 25. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 143: «Egli stesso alfine, quando I rumori saranno cessati, trarrà una prova di qualcosa di grande (senz’astri? il caso annullato?) da questo semplice fatto
ch’egli può causar l’ombra soffiando sulla luce».
23 S. BECKETT, op. cit., p. 48. Vedi BECKETT [1986], p. 49: «Riappare sulla schiena. Immobile.
Sera e notte. Immobile sulla schiena sera e notte».
24 Ivi, p. 56. Vedi BECKETT [1986], p. 59: «Quindi è sera. Una sera d’inverno. Sarà sempre sera. Sempre inverno. Tranne la notte. La notte d’inverno».
25 Ivi, p. 59. Vedi BECKETT [1986], p. 63: «Lei riappare la sera alla finestra. Quando non è notte è sera. Se vuole rivedere Venere bisogna che la apra. Questa poi. Prima scostare la tenda e poi
aprirla. A testa bassa aspetta di poterlo fare. Forse pensa alle sere in cui lo ha potuto troppo tardi. A notte fonda».
26 S. MALLARMÉ, op. cit, p. 39. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 146: «Scomparsa l’ombra nell’oscurità, la Notte rimane con una dubbia percezione di pendolo che sta per spegnersi e spirare in lui;
ma da quel che riluce e sta, spirando in sé, per spegnersi, essa si vede portarlo ancora; dunque,
niun dubbio, era suo il battito udito, il cui rumore totale e spoglio per sempre cadde nel suo passato».
27 S. BECKETT, op. cit, p. 30. Vedi BECKETT [1986], p. 29: «Aggredito dal di sotto il volto alla fine
non oppone resistenza. Alla fioca luce che riflette il lastrone. Calma blocco lievemente concavo levigato da secoli di andirivieni. Bianchezza plumbea. Non una sola grinza. Come appare serena questa maschera antica. Al pari di quella di certi neomorti. Vero che l’illuminazione lascia a desiderare.
Chiusi gli occhi non concedono le loro pupille. Il domani li dirà cerchiati d’un blu slavato».
28 S. MALLARMÉ, op. cit., p. 26. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 144: «Suona Mezzanotte – la Mezzanotte in cui i dadi debbono esser tratti. Igitur scende le scale, dello spirito umano, va al fondo delle cose: da “assoluto” quale egli è».
29 Ivi, p. 27. Tr. it., p. 144: «Follia utile. Uno degli atti dell’universo è stato or ora compiuto là.
Nulla più, restava il soffio, fin di parola e gesto uniti – spegne la candela dell’essere, da cui tutto è
stato. Prova.»
30 Ivi, p. 58. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 149: «Io ho sempre vissuto con l’anima fissa sull’orologio».
31 Ivi, p. 60. Vedi MALLARMÉ [1961], p. 151: «E quando riaprivo gli occhi verso il fondo della spera, vedevo il personaggio d’orrore, il fantasma dell’orrore assorbire a poco a poco quanto restava
di sentimento e di dolore nella spera, nutrire il suo orrore coi supremi brividi delle chimere e con la
instabilità dei tendaggi, e formarsi rarefacendo la spera fino a una purezza inaudita».
32 J.-P. SARTRE, Mallarmé, la lucidité et sa face d’ombre, Gallimard, Paris 1986.
33 S. BECKETT, op. cit., p. 61. Vedi BECKETT [1986], p. 65: «In cui più niente da vedere. Da dire.
Calma».
34 Ivi, p. 76. Vedi BECKETT [1986], p. 83: «No. Ancora un secondo. Uno soltanto. Il tempo di
aspirare questo vuoto. Assaporare la felicità».
35 Ivi, p. 76. Vedi BECKETT [1986], pp. 81-83: «Primo ultimo secondo. Purché ne resti ancora
abbastanza da divorare tutto. Avidamente un secondo dopo l’altro. Cielo terra e tutta la bicocca».
36 S. MALLARMÉ, op. cit., p. 32. Vedi MALLARMÉ [1961]], P. 153: «Sulle ceneri degli astri, quelle
indivise della famiglia, era il povero personaggio, coricato, dopo aver bevuto la gocciola di nulla
che manca al mare. (La fiala vuota, follia, tutto quel che resta del castello?) Scomparso il Nulla resta il castello della purezza».
SAGGI
Segni e comprensione 65
19
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 20
LA DISMISURA DELL’ESTETICO
di Sergio Vuskovic Rojo
20
Quando, Alexander Gotlieb Baumgarten, professore dell’Università di Francoforte, pubblicò la sua Aesthetica nel 1750, connotandola come Scienza particolare della bellezza, scoprì un continente nuovo (che esisteva già) dentro la
filosofia occidentale. E allo stesso tempo pose più interrogativi di quelli a cui
volle dare risposta.
Ciò nonostante, mi sembra necessario chiarire, sin dall’inizio, che non credo che l’Estetica sia una Scienza, e tanto meno si speri da queste parole introduttive una storia esaustiva. Ma insisterò su alcuni momenti che mi sembrano
importanti. In Occidente, è Platone l’uomo degli inizi: quando, in Ippia maggiore, Socrate gli risponde che il Bello non è una qualità particolare di mille oggetti diversi, ma questi sono belli perché esiste la Bellezza stessa, pose la pietra
miliare di tutta l’Estetica futura che egli continuò a sviluppare attraverso il Fedone, il Fedro e il Simposio, come iniziazione alla Bellezza attraverso l’Amore.
E non sorprende che chi apre questo cammino sia proprio una donna, di
Nantinea, esperta in Eros, Diotima, che insegna al giovane Socrate che: “con
l’amore accade lo stesso che con la parola poiesis (poesia), che possiede numerose accezioni perché rappresenta molte cose. In generale, si definisce
poesia (creazione, costruzione) la causa che permette alle cose il passaggio
dal non-essere all’esistenza. Di conseguenza, le creazioni in tutte le arti sono
poesia e gli artisti che le realizzano poeti”.
Quando Socrate le domanda di specificare qual è l’atto particolare in cui il cercare con ardore il bene prende il nome di Amore, ella risponde: “è l’illuminazione
(la produzione) nella Bellezza, tanto con il corpo quanto con lo spirito […] quando l’essere desideroso di procreare si avvicina al bello, gioisce e nella sua felicità sente uno svenimento delizioso che lo fa vacillare, e allora illumina e procrea.
L’unione dell’uomo e della donna è una vera e propria illuminazione, procreazione, in cui c’è qualcosa di divino, posto che grazie alla fecondazione e alla generazione l’essere mortale partecipa dell’immortalità”1. Quindi, la Bellezza inizia a
rapportarsi con l’eternità in ciò che è smisurato, ma non in ciò che è informe.
Si può comprendere la complessità della bellezza, perché questa si presenta soltanto in una unità inscindibile di essenza e apparenza: anche se il bello
non appartiene alla categoria dell’apparenza, si può presentare solo, senza
l’accompagnamento del velo dell’apparenza; al contrario, si riesce ad apprendere la bellezza solamente attraversando il velo, ma senza alzarlo del tutto o
distruggerlo, a volte semplicemente socchiudendolo; comunque, attraversandolo con una fulminea visione degli occhi della mente, che con un’operazione
di silenzio produttivo o ripiegamento attivo permette che la contemplazione
20-05-2008
17:24
Pagina 21
sensibile del bello subisca una metamorfosi, capace di produrre una visione o
ascolto della bellezza o una ricreazione di essa. Effetto che avviene necessariamente grazie a un grande sforzo intellettuale e soggettivo, attraverso il superamento della forma di contemplazione dell’ingenuo, che ritiene l’intuizione
della bellezza come qualcosa di segreto. Costui si conforma a permanere nel
mistero e non trapassa il velo, perché per lui è simbolo della Bellezza e lo vede come un qualcosa di facile e semplice, che non costa nessuno sforzo o lavoro. Invece, costa grande lavoro attraversare il velo dell’apparenza senza
romperlo – visto che la Bellezza svanisce quando viene abbandonata dall’apparenza – e poter contemplare il suo permanente equilibrio instabile.
SAGGI
Segni e comprensione 65
Alcune tappe
Dopo, Aristotele ne La Politica tenta di sistematizzare le idee estetiche di
Platone e afferma che: “Non si va alla ricerca dell’utile e del necessario se non
in vista del bello”2, che per lui è immanente.
Il successivo punto fondamentale nell’elaborazione filosofica dell’Estetica,
corrisponde a Kant, attraverso la sua Critica del Giudizio, nella quale il sentimento estetico risiede nell’armonia dell’intendimento e dell’immaginazione,
punto di contatto in cui si concretizza il Geist creatore. Tenendo conto dei grandi apporti di Schiller, Schelling e di Denis Diderot sui saloni parigini, con la sua
critica dell’accademicismo e come creatore della critica dell’arte, nella filosofía
classica tedesca, compare Hegel con la sua Estetica, comprendendo Del bello e le sue forme, Sistema delle arti e Poetica, come il più grande creatore di
tutti i tempi nel campo dell’Estetica. Per lui, la Bellezza si estranea nell’apparizione sensibile dell’Idea, che passa a costituire l’opera d’arte come un’unità di
contenuto e forma. In questo punto si intercettano le idee estetiche di Marx,
che sono efficaci, ma che sotto lo stalinismo furono codificate sotto il nome di
estetica marxista. Di certo non credo che esistano ricette marxiste per creare
esteticamente, perché non esiste una corrispondenza tra un procedimento artistico e un’ideologia e perché bisogna partire dal presupposto che non si comprenderebbe la música di Hans Eisler senza la rivoluzione seriale di Schönberg, o Shostakovich senza la musica di Gustav Mahler, o Kurt Weil, Dessau,
Brecht senza il jazz o Hindemith o l’alta poesia di Alexander Blok senza il simbolismo. Tutto ciò non significa mettere da parte le valide idee di Marx, così come la sua definizione di arte in quanto “la più alta allegria che l’uomo si procuri”3, o la sua inquietudine per il valore permanente delle opere d’arte greche, fino alla sua concezione secondo cui il creatore concepisce il contenuto e la forma simultaneamente, dentro un contesto sociale.
Già nel secolo XX l’Estetica diventa infinita, per ciò che concerne filosofi e
creatori, e tra loro menzioneremo solo Etienne Souriau4, che giunge alla conclusione che “il sapere specifico, posto in gioco dall’arte, è la conoscenza delle forme delle cose” e forse è il caso di menzionare John Keats: “A thing of beauty is a
joy for ever”5 (una cosa bella è una gioia per sempre) con cui tocchiamo uno dei
punti nevralgici della dismisura dell’estetico, perché ci mette di fronte all’eternità.
21
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 22
Due contributi contemporanei
22
Arriviamo al punto di questa esposizione in cui si fanno presenti due opere
di cui credo si debba tener conto: a) Gloria di Hans Urs von Baltasar che ci presenta l’arte di orientamento cristiano così come si sviluppa attraverso le diverse epoche storiche, con in cima San Juan de la Cruz, dentro la concezione che
vede: a) lo sviluppo dell’umanità e del cosmo in direzione del cosmico corpo di
Cristo6 (p. 265 del terzo volume), e nel quale la alterità si dà nel volo dell’uomo verso l’umanità, gratuitamente e b) la leggenda dell’arte moderna di Dore
Ashton (Feltrinelli, Milano, 1982) che analizza la nascita della pittura astratta
già nel 1834, nell’opera di Balzac Le chef d’ouvre inconnu (Flammarion, 1981),
in cui Frenhofer mostra a François Porbus e a Nicolás Poussin un quadro a cui
stava lavorando da dieci anni. Erano “colori ammucchiati, uno sull’altro, confusamente e contenuti in una molteplicità di linee bizzarre che formano una parete di pittura… avvicinandosi, i due uomini si accorsero che in un angolo della tela, da tale caos di colori, usciva la punta di un piede”7. Commenta Dore
Ashton: “Efficace descrizione di un quadro astratto”8. Si riferisce anche a Rilke
e all’opera di Cézanne-Rodin, alla relazione Picasso-Frenhofer e ai contributi
musicali di Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern.
Così come indicò Charles Baudelaire, il poeta moderno si trova al di fuori di
tutta la metafisica precostruita. Con questo atteggiamento ha perso tutta la garanzia dogmatica di sicurezza, è rimasto come una barca in balia delle onde;
ma, con la bussola dentro di lui, che è la sua esperienza vissuta e la fede nella verità primaria dell’intuizione sensibile, la paziente attesa dell’arrivo dell’ispirazione, nella certezza che sorge nello spirito umano e dallo spirito umano e
dopo che la sua coscienza storica è passata attraverso la notte buia e dopo
aver superato lo stato depressivo della regressione infantilista o dell’estraneamento; in lui si va configurando l’atto creativo che integra le forze dell’animo, e
nel suo vivo operare fonda l’amore che tramuta il dolore in un respiro più ampio e lo pone nelle condizione di farsi carico – ora con leggerezza, con la difficile semplicità – della pesantezza della materia, della complessità e della contrarietà delle relazioni sociali, e dell’intensità labirintica dell’esperienza.
L’arcano della poiesis come creazione
La definizione di Diotima del concetto di poiesis come creazione, come produzione, ci introduce all’intensità labirintica del creatore, che affronta sempre
con paura la pagina o il quadro in bianco, il silenzio mentale, o il prosciugarsi
della fonte di ispirazione, quando il ritmo cardiaco si altera, quando le mani pizzicano e il creatore si mette a fiutare come un cane che cerca di trovare il nascosto segreto di se stesso e della natura, e gli va dietro con tutta la storia della sua arte, e inizia presagire che le cose hanno un senso, un significato ben
preciso, e allora, e solo allora, le mani afferrano un’altra volta i pennelli, le matite o il computer; la scrittura o la pittura, o la musica, iniziano a farsi da sé, e i
colori e le linee e i suoni cominciano a parlarsi, quando il vuoto precedente in-
20-05-2008
17:24
Pagina 23
contra il suo contenuto preciso e si inizia a creare con tutto il proprio essere e
con tutto il corpo dell’arte, solo allora sorge un nuovo tracciato tettonico, non
confuso, ma ben definito che conduce verso l’altro, luogo in cui la geometria
genera la sua stessa luce, e la luce abbaglia le forme; in questo modo si trova
il punto di contatto con la realtà che cambia, ma che cambia anche per ciò che
si sta facendo, così come cambia lo stesso poeta. Tuttavia, nello stesso momento, appare un meccanismo di possesso, la pienezza si raccoglie in se stessa, diventa un gomitolo e inizia a rotolare, perché in questo momento del creare, la coscienza dell’io è l’infelicità. Arriva il terribile momento della paura: il terrore panico lo senti nel cuore dell’io. È un’esperienza dell’io né desiderata né
richiesta, semplicemente si presenta come pressione del pensiero, come modo mortificante. È un’esperienza che non si può controllare volontariamente.
Spavento che può portare alla paralisi, a una sensazione di blocco, quasi come un’esperienza di morte. E anche se può muoversi, il creatore ha una confusa consapevolezza che deve permanere in essa, perché si nega di evadere
grazie al ricordo. E a quel punto lo spavento diventa silenzio.
Da questo nuovo tormento, da questa sconsolata afflizione del creare inizia
a uscire senza rendersene conto; è quando si inizia a respirare profondamente, a sentire il battito ritmico del cuore e il levriero che porti dentro si libera, fino a che non rincontra l’orma, che adesso a un altro livello, superiore, si concretizza in percezione qualitativa. Una nuova percezione qualitativa che rende
spiegabile la tremenda dismisura del verso di Hölderlin: “Was bleibet aber, stiften die Dichter”9 (ma ciò che resta lo stabiliscono i poeti).
Degni di menzione
Vorrei ricordare in questa sede alguni grandi poeti, poco noti, soprattutto nel
loro paese d’origine. Mi riferisco innanzitutto a Wallace Stevens, nato nel 1897
a Reading (Pennsylvania) e morto nel 1955 a Hartford (Connecticut). La sua
particolarità è che fu un attento studioso della filosofia tedesca contemporanea, le sue immagini diventarono addirittura metafore ontologiche, che riempiono le pagine delle sue opere Il mondo come meditazione e Note verso la finzione suprema, volte alla scoperta di una nuova condizione del reale per mezzo della forma poetica incarnata nel linguaggio. Ascoltiamolo: “no sign of life,
but life”, “yet the absense of the imagination had itself to be imagined” (“non
segno di vita, ma vita”, “anche l’assenza di immaginazione deve essere essa
stessa immaginata”)10.
In secondo luogo, mi piacerebbe leggere una bella e breve poesia di Arseni Tarkovski, padre del più noto cineasta Andrei (1932-1986) che proprio a suo
padre dedicò una delle suo opere maestre, il film Lo Specchio.
La morte non esiste
immortali son tutti.
Non c’e da temere la morte
né i settant’anni.
SAGGI
Segni e comprensione 65
23
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 24
C’è solo realtà e luce
non c’e nebbia né morte.
In questo mondo invocherò qualsiasi secolo.
Entrerò nel secolo e la casa vivrà.
Per questo sono con me
i vostri figli.
Mi basta l’immortalità
perché di secolo
in secolo
il mio sangue scorra.11
24
Tuttavia non si pensi che questa cattiva abitudine letteraria sia caratteristica esclusiva dei paesi esteri, perché è molto frequente anche nel nostro paese. Qui si sviluppa da tempo un’operazione ideologica che consiste nel ridurre
i grandi poeti a meri cantori folklorici, riducendo in quantità e qualità l’alta poesia cilena. Mi riferisco a Violeta Parra, Víctor Jara, il Gitano Rodríguez e a Patricio Manns, tra gli altri. Senza dubbio fanno folklore, ma sono fondamentalmente poeti, puri e semplici poeti, come dire, creatori, costruttori, e come tali
si dovrebbero studiare nelle cattedre di Letteratura delle nostre università o durante le lezioni di Linguaggio e Comunicazione dell’insegnamento scolastico,
perché furono vittime di un fatto paradossale, che non fa che dimostrare la
qualità complessa e contraddittoria del concetto di progresso: la diffusione
massiva della lettura, della radio e, oggi, della televisione ha messo fine alla
poesia cantata; tuttavia, la loro poesia, in quanto poiesis, è ancora viva perché
tutti loro compresero che con la loro opera poetica stavano aiutando a cambiare il mondo e loro stessi per migliorare, e furono e sono un’incarnazione dell’ultima dismisura dell’estetica che sto per nominare, quella di Dostoevskij: la
bellezza salverà il mondo12.
(traduzione dallo spagnolo di Simona De Lorenzi)
1 PLATONE, Obras Completas, Tomo IV, Ediciones Ibéricas, Madrid, 1962, pp. 130-131. Nella
edizione italiana del mio Breviario di Platone, Edizioni del Leone, Venezia 2007, p. 150.
2 La Politica, VII, 12, 8.
3 Karl Marx citato da H. LEFEBVRE, in Contribución a la estetica, Precyon, Buenos Aires 1956,
pp. 7 e 50.
4 E. SOURIAU, Avenir de l’esthétique, P.U.F., Paris 1929, p. 167.
5 J. KEATS, A thing of beauty is a joy for ever, libro I del poema Endymion.
6 H.U. von BALTHASAR, Gloria, Jaca Book, Milano 1986, v. III, p. 265.
7 D. ASHTON, La leggenda dell’arte moderna, Feltrinelli, Milano 1982, p. 69.
8 Ivi, p. 23.
9 Poesia completa, ed. bilingue. Ed. 20, Barcelona, poema Andenken, Recuerdo, p. 226.
10 W. STEVENS, Il mondo come meditazione, Acquario-Guanda, Palermo 1986, pp. 36-42.
11 A. TARKOVSKI, La muerte non existe, “El Mercurio de Valparaiso”, 15 novembre 1997, p. 11.
12 Cfr. F. DOSTOEVSKIJ, La belleza salvará el mundo.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 25
IL SACRO E LA SESSUALITÀ
NEL CONFUCIANESIMO
Il Buddhismo, il Confucianesimo e il Taoismo, la cosiddetta “unità delle Tre
Religioni (Insegnamenti)”, da più di 2500 anni ha esercitato un notevole influsso sul popolo asiatico, costituendo la colonna fondamentale nell’edificio della
spiritualità, della struttura mentale, del pensiero filosofico nonché dello stile di
vita e del costume culturale e sociale. Tale unità ancora oggi influisce su ogni
aspetto della vita e continuava a determinare in modo particolare il ruolo della
donna nella società.
Il Confucianesimo incide sul valore e sulla coscienza etico-morale della società in modo da portare l’armonia e stabilire l’ordine della Realtà ultima su
questa terra, mentre il Taoismo e il Buddhismo si riferiscono piuttosto alla “Natura ontologica” e alla “Trascendenza assoluta”. Questi ultimi, dato il carattere
di fede in un Essere Assoluto che consente di ritrovare il valore dell’uomo e il
senso della vita, hanno dato un rilievo molto evidente alla coscienza trascendentale dell’individuo mediante l’elaborazione metafisica. In tali sistemi la dignità della donna viene apprezzata, cosicché si notano meno le differenze e le
discriminazioni tra i sessi. La concezione concreta della donna dipende storicamente dal rispettivo equilibrio tra i tre sistemi, a seconda delle diverse epoche e condizioni: quando prevalevano Buddhismo (soprattutto il Buddhismo
Mahayana) e Taoismo la situazione era migliore, quando invece era più valorizzato il Confucianesimo, si verificava l’opposto.
Nel contesto di questo scritto viene comunque trattato soltanto il rapporto
tra sessualità e sacro secondo il Confucianesimo, diffuso in tutta l’Asia, soprattutto in Cina, Corea, Giappone, dove si usa parlare della “catena della cultura
confuciana” nonché in Vietnam dove ha esercitato un profondo influsso storico
sulla cultura determinando l’intero modo di vita, e oggi anche in altri continenti dove sono giunti immigrati che provengono dai suddetti paesi.
Oggi le donne asiatiche godono molto più che nel passato di libertà ed esercitano normalmente attività pubbliche in una società aperta. Ciò non significa
che la donna con le sue qualità sia ancora sufficientemente considerata, valutata ed incoraggiata e che siano ad essa riconosciute a tutti gli effetti le pari opportunità e l’uguaglianza dei diritti. Le società influenzate dal Confucianesimo
sono tuttora dominate dai maschi e risulta difficile trovare in esse uno spazio
per l’auto-promozione personale e per la vocazione della donna a realizzare il
“Mandato celeste (ossia il Decreto del Cielo: Tianming)” al servizio del bene sul
quale si costruisce il carattere peculiare del sacro confuciano. Una forte disuguaglianza e subordinazione si trova ancora oggi soprattutto nella Legge della stirpe maschile secondo la quale una donna non può mai avere la propria
SAGGI
di Jae-Suk Lee
25
Segni e comprensione 65
26
20-05-2008
17:24
Pagina 26
autonomia per l’anagrafe familiare, essendo sempre dipendente nell’età giovanile dal padre, dopo il matrimonio dal marito. Una donna non ancora sposata
viene registrata all’anagrafe con il cognome del fratello maggiore (capo stirpe)
oppure nel caso che egli sia morto, del nipote o pro-nipote.
Un altro problema è legato alla preferenza accordata in questo contesto al
figlio maschio che ha portato in certi casi al consolidarsi di un costume brutale: il feto, il cui genere può oggi essere conosciuto anticipatamente attraverso
lo sviluppo delle tecniche mediche, soprattutto mediante l’ecografia, viene eliminato prima di nascere o abbandonato sulla strada subito dopo la nascita per
la sola ragione di essere di sesso femminile. Basti pensare che in base alle ricerche di “Women in Politics” risulta che ogni anno in Cina circa 1.7 milioni di
bambini vengono abbandonati subito dopo il parto, nonostante che il crimine –
quando scoperto – può essere punito anche con 5 anni di carcere: la maggior
parte di questi neonati è di sesso femminile1. Nel caso della Corea del Sud, circa il 50% degli aborti viene deciso dalle donne sposate per il motivo di “non desiderare un bambino”, ma in realtà si nasconde la ragione che il feto ha un sesso femminile. La stessa osservazione vale per il Vietnam dove esistono cimiteri degli aborti, aperti dal 1992, che accolgono oggi i resti di circa trentamila
feti. Anche in Giappone ci si avvicina alla cifra di circa un milione di aborti l’anno: il bambino non nato viene chiamato “figlio dell’acqua” e considerato vittima
della mentalità o del complesso ambiente socio-culturale giapponese2.
L’area asiatica risente così di un crescente squilibrio tra i due sessi, al punto che il numero di bambine diminuisce, mentre aumenta quello dei maschi. Ad
esempio, oggi ad Hong Kong il tasso di nascita è tale per cui i maschi superano di molto (30%): accade così che talvolta, specialmente fuori dalle grandi città, diventa difficile per un uomo trovare moglie cosicché si offende l’ordine sacro del cosmo.
La costruzione del “sé” sia femminile che maschile è imprescindibile dalla
cultura e dal costume tramandati. La condizione femminile è da sempre appesantita dai condizionamenti, dall’ingiustizia e da altri aspetti negativi che hanno alimentato la cultura e la tradizione confuciane. Esse si sono però formate
attraverso regole e norme manipolate ideologicamente dall’uomo, non corrispondenti all’ordine, cioè al mandato del “Cielo (Sacro)”. Quindi tale situazione non deve essere accettata necessariamente come una prospettiva sacra,
anche se tali abitudini sono radicate. Bisogna allora prendere coscienza della
necessità di ritornare alla conoscenza vera del Cielo (Realtà ultima), cercando
la via giusta ed equilibrata: Yijing (Classico dei Mutamenti), uno dei canoni
confuciani3, il Libro oracolare e di saggezza, tratta di una rivoluzione costruttiva quando afferma che con la forza illuminante umana si può costruire di nuovo un ambiente positivo, correggendo i suoi aspetti negativi, sul quale ognuno
prende il proprio posto e si occupa di realizzare la propria vita. (Lo stesso Confucio sottolineava in diverse occasioni che se uno ha sbagliato non deve temere di correggersi)4. Per comprendere l’identità della donna e recuperarne dignità, valore e ruolo sia nel cosmo che nella società odierna, è necessario conoscere il passato come chiave ermeneutica del presente, momento che congiunge dinamicamente e che apre un nuovo orizzonte per il futuro.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 27
Confucio viveva in una società patriarcale e in un tempo caotico di decadenza ed ignoranza. Per risolvere tale situazione egli attribuiva grande rilievo
all’ordine della società e al controllo di sé, all’autocoltivazione dell’uomo, soprattutto dei governatori. Le sue dottrine erano fondate sui principi etici e religiosi del tempo. Per Confucio il periodo della remota antichità, governato da
saggi sovrani, era l’età d’oro dove regnava l’ordine del cosmo, manifestato nell’armonia dell’uomo con se stesso, con gli altri e con diversi popoli. Per ritornare ad una società ben ordinata era secondo lui necessario il governo di un santo sovrano virtuoso, simile a quelli antichi. A causa del declino del ruolo del sovrano ideale (di sesso maschile) sia Confucio che Mencio parlavano poco della donna. Il Lunyu (Dialoghi), il canone principale del Confucianesimo che raccoglie i discorsi tra Confucio e i discepoli, tra Confucio e la gente e dei discepoli tra loro, viene redatto dagli stessi dopo la morte del Maestro. La questione della donna viene affrontata da Confucio solo una volta: “Le donne (cioè le
concubine) e l’uomo meschino sono difficile da trattare: se li avvicini, non stanno più sottomessi; se li tieni a distanza, se ne risentono” (cap. 17, 25). Da questo brano si ha l’impressione che l’atteggiamento di Confucio verso la donna
sia molto negativo: essa viene considerata alla stessa stregua dell’uomo “volgare e ignobile”, senza virtù. In effetti per molti secoli, nella società dominata
dalla mentalità patriarcale, priva di un’analisi acuta e approfondita, queste parole furono utilizzate per giustificare la superiorità dell’uomo sulla donna. All’epoca di Confucio la società non offriva certo pari opportunità di educazione
e le donne non avevano alcuna possibilità di studiare i canoni e riflettere su di
essi nel cammino spirituale per divenire persone sante.
Del resto, anche al di là delle condizioni storiche, Confucio non vuol affatto
affermare che la “donna in genere” è ignobile e meschina: in quel testo si riferisce infatti alla concubina, persona lussuriosa da riportare alla dipendenza totale dal marito che la poteva rinchiudere in casa per consentirle di controllare
il sentimento e di superare la propria fragilità. Il consiglio di essere prudenti nei
confronti della donna lussuriosa era peraltro presente già in precedenza, ad
esempio nel Shujing 5 (Classico dei Documenti). Secondo Confucio questa è
una norma importante da osservare, in modo particolare per chi ha intrapreso
il cammino etico-morale e spirituale per raggiungere lo stato di saggio ossia
santo nel conformarsi alla Via del Cielo: “Confucio disse: – Il saggio ha tre cose da cui guardarsi: in gioventù, quando il sangue e lo spirito vitale sono in fermento, deve guardarsi dalla lussuria; giunto alla maturità, quando il sangue e
lo spirito vitale sono in rigoglio, deve guardarsi dalla combattività; giunto alla
vecchiaia, quando il sangue e lo spirito vitale sono in declino, deve guardarsi
dalla cupidigia” (Lunyu [Dialoghi], cap. 16, 7).
In ogni caso, come nel Shujing 6, anche nel Lunyu si può individuare la descrizione di due tipi di donna: quella virtuosa che aiuta l’uomo a prosperare;
l’altra che invece lo distrugge mediante la bellezza esteriore e la lussuria. La
valutazione positiva e profonda di Confucio circa la donna riguardava la virtù
interiore, non la bellezza corporea ed esteriore.
SAGGI
I. Confucio, le sue dottrine e la donna
27
Segni e comprensione 65
28
20-05-2008
17:24
Pagina 28
Per quanto riguarda il canone Mencio (che porta lo stesso nome dell’autore) la distinzione dei sessi è fondamentale per costruire l’armonia cosmica e viverla nella reciproca interdipendenza e complementarità: ognuno deve occupare il proprio posto nel praticare il proprio dovere7 sia nel lavoro8 che per agire in modo corretto. Il dovere è inteso come virtù praticata per costruire relazioni umane corrispondenti al proprio ruolo, sia per ciò che concerne l’impegno
che le proprie legittime aspirazioni9. In tal senso la distinzione sessuale non è
subordinazione, ma corrispondenza alla grande Legge della Natura. Il ruolo
della madre ha ad esempio una grande importanza nel pensiero e nella vita di
Mencio, il più grande saggio dopo Confucio. Proprio grazie alla formazione ricevuta ed alla saggezza della madre egli viene considerato come santo nell’ambito confuciano. Per educarlo e offrirgli un buon esempio da seguire, la
madre cambiò tre volte abitazione durante la sua infanzia. Gli insegnò continuamente i precetti del Li (norma celeste) che stanno alla base della dottrina
che assicura l’ordine e l’armonia nella società e nel mondo; continuò ad educarlo anche dopo il suo matrimonio. Nei “Quattro libri per la donna” Mencio racconta che una volta era entrato nella camera dove aveva trovato la moglie spogliata della parte superiore del corpo a causa del caldo torrido. Egli l’aveva rimproverata per la mancanza di dovuto rispetto verso il marito; pur essendo considerato grande saggio, impregnato tuttavia di quella cultura, tale evento l’aveva tanto turbato da portarlo a decidere di ripudiare la moglie, come era costume in quell’epoca. La madre, riconoscendo l’ingiustizia del figlio, lo aveva sgridato, rimproverandogli di non avere osservato per primo lui stesso la legge
normativa (Li). Aveva infatti mancato di osservare Li perché avrebbe dovuto
annunciare il suo ingresso nella camera con un segnale o un suono della voce, consentendo così alla moglie di prepararsi a riceverlo, riordinando il corpo
e lo spirito. C’è in questo caso anche un prezioso ammonimento: il figlio entrato in camera avrebbe dovuto rispettare lo spazio della moglie, abbassando il
proprio viso come segno di rispetto.
Tra le più importanti dottrine, elaborate e vissute da Confucio (e successivamente da Mencio), possono essere considerate quelle relative all’amore
(Ren), alla pietà filiale, al comportamento normativo e celeste (Li ), alla giustizia (rettitudine), alla fedeltà e fiducia, all’umiltà ecc.: sono le vie (Tao) che conducono all’unione con la Realtà ultima (Cielo). Considerando che sia l’amore
(Ren) come coscienza del proprio essere che la rettitudine (Yi) come moralità
spontanea hanno entrambe un carattere ancora interiore e immanente, “Li”,
grazie alla sua esteriorizzazione del “mandato del Cielo” (Ren, natura umana,
ecc.), diventa la categoria fondamentale nella vita concreta dell’uomo.
Li viene comunemente tradotto con il termine “Riti”, riferendosi sia a quelli
religiosi che a tutte le cerimonie, particolarmente le celebrazioni della vita, come il matrimonio o quelle dello Stato come i riti militari e le festività del governo. Tramite Confucio il termine antico Li, originariamente riferito al cerimoniale
religioso, si incarna nell’ordine di eseguire varie attività di carattere personale
e sociale. Stando la sua origine nel Principio dell’universo (Cielo), Li indica la
“norma celeste” per la vita; è il principio primario o modello etico universale da
seguire e imitare sul quale si fonda tutta la condotta personale; è il comporta-
20-05-2008
17:24
Pagina 29
mento da praticare nel rapporto interpersonale; ognuno deve compiere il proprio dovere. Di quale dovere parliamo? Prima di compiere il proprio dovere bisogna avere chiara coscienza della propria identità nella società. Qui è in gioco il concetto della Rettificazione dei nomi . Il nome (Ming) è inteso da Confucio come modello ideale di un ruolo sociale e per questo motivo egli attribuiva
una responsabilità reciproca. Invece Mencio lo sviluppò in modo più concreto
in prospettiva di una relazionalità, qualità peculiare umana che lo distingue dall’animale10, individuando nella società i Cinque rapporti fondamentali (Wu-lun):
la benevolenza da parte del sovrano e la fedeltà da parte dei sudditi (giustizia);
la bontà, l’affetto da parte dei genitori e la pietà filiale da parte degli figli (intimità); amore da parte del marito e il rispetto (sottomissione) da parte della moglie (distinzione); la gentilezza da parte del fratello maggiore e l’obbedienza da
parte del fratello minore; la bontà premurosa da parte degli anziani e la reverenza da parte dei giovani (fiducia).
Wu-lun viene definito il metodo del reciproco obbligo, cosicché ciascuno deve comportarsi come la società si aspetta. La struttura verticale dei livelli sociali, come ad esempio il rapporto tra sovrano e sudditi, mediante l’applicazione del Li nel compimento del proprio dovere con dignità diventa relazione orizzontale: lo schema non viene applicato solo al rapporto tra sovrano e sudditi,
ma a tutti i cinque rapporti fondamentali. Ognuno deve comportarsi, in corrispondenza alle qualità accordate dai nomi poiché ogni nome contiene alcune
note caratteristiche che costituiscono l’essenza delle cose, cioè il principio del
Cielo. Ad esempio, il governante deve governare secondo il principio del governante, cioè corrispondendo a quello che dovrebbe essere idealmente, il ministro come ministro ideale, il padre come autentico padre, il figlio come figlio
e la donna come donna11. In altre parole, comportarsi secondo i nomi significa
seguire la propria “(Tao) Via” conferita dal Cielo ad ognuno affinché possa regnare pace in questo mondo12. Tuttavia questo spirito originale del Confucianesimo non viene tanto rispettato nella storia. Applicando lo schema sociale
del rapporto tra sovrano e sudditi alla relazione tra donna (moglie) e uomo (marito) il confucianesimo comincia a stabilire il ruolo della donna e l’identità culturale del femminile. Infatti, questa tendenza viene mostrata chiaramente nel canone Liji (Memorie sui Riti) che sottolinea la relazione tra marito e moglie in
rapporto a quello che si deve realizzare tra sovrano e sudditi, il che ebbe la
conseguenza di sviluppare una relazione soltanto verticale e subordinata destinata a perdurare per molti secoli.
II. Il problema del “genere” (gender) nel Confucianesimo
Durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) il confucianesimo inizia ad affrontare il problema del genere (gender – ruolo sociale e culturale) di “uomo” e
“donna”. Si concepisce negativamente la posizione della donna, imponendo
una rigida norma etica (Li) in base all’ interpretazione del canone LiJi, la codificazione dei costumi e riti dell’antica Cina. Ora si parla per la prima volta di
“Tre obblighi della donna da seguire”13, e dell’ impedimento, in modo assoluto,
SAGGI
Segni e comprensione 65
29
Segni e comprensione 65
30
20-05-2008
17:24
Pagina 30
di ogni attività della donna al di fuori della casa. Il capitolo XII (Insegnamento
interno) del LiJi divenne l’archetipo di tutti libri educativi per la donna, composti posteriormente. Le norme applicate ad entrambi i sessi si basano su una rigida separazione dello spazio: l’uomo vive nel mondo esterno (wei) e la donna nel mondo interno (nei)14: “Nella casa ci sono spazi interni ed esterni nettamente divisi; l’uomo vive nelle stanze esterne, le donne nelle stanze interne.
Quest’ultime si trovano nella parte posteriore della casa, le porte vengono tenute chiuse e custodite dagli eunuchi” (Liji, cap 12, 38). La loro abitazione è distinta, marito e moglie devono vivere in quartieri diversi e i loro vestiti devono
essere separati, non devono usare lo stesso bagno e la stessa sedia per sedersi15.
Una corretta distinzione viene raccomandata anche fuori casa: quando
esce la donna deve coprirsi la testa e il volto; quando cammina di notte, deve
portare una lampada accesa; deve stare sul lato sinistro della strada, l’uomo
invece sulla destra16. È anche necessario ispezionare i giochi dei bambini per
non lasciare nessun dubbio sul ruolo sociale e culturale sin dalla prima infanzia: il bambino gioca con la borsetta fatta di pelle, la bambina con quella di seta. Dall’età di sette anni non si possono sedere uno accanto all’altra né devono mangiare insieme a causa della differenza del loro corpo17. La bambina deve imparare a sorridere in modo sottile, senza mai ridere a gran voce: deve
modellare sé stessa secondo la dolcezza e la lentezza, mentre il bambino secondo la forza e la velocità; ciò deve essere evidente anche dal modo di rispondere alla chiamata dei genitori e degli altri18.
Anche le attività e gli impegni sono diversi: l’uomo si deve interessare all’attività sociale e alle problematiche esterne, la donna piuttosto all’ambito domestico, alle faccende di casa e alla crescita dei figli. Sulla base di questa mentalità è impensabile che un donna si occupi delle cose di stato (politica). Anche
dal punto di vista psicologico ci sono delle forti diversità. I compiti della donna
sono legati all’obbedienza verso il marito: una moglie deve essere gentile e
agire in modo corretto, con auto-riflessione e paura, anche se il marito non si
comporta nello stesso modo19.
Anche nella concezione cosmologica si può riscontrare un particolare che dimostra la superiorità dell’uomo sulla donna: il canone Yijing (Classico dei Mutamenti), riconosce che Yang (principio maschile: luce, secco, positivo, sole, caldo…) e Yin (principio femminile: oscuro, umido, negativo, luna, freddo…) sono
i due elementi essenziali per l’ordine cosmico; tuttavia, nonostante la reciprocità della loro relazione a causa della pienezza dell’energia creativa del Cielo, il
confucianesimo riferisce l’uomo al Cielo (alto, creativo) la donna alla Terra (basso, recettivo), cosicché essa viene di fatto subordinata e sottomessa all’uomo,
deve venerare il suo marito come fosse il Cielo e seguirlo come la guida della
vita: “l’uomo guida la donna, la donna segue l’uomo”20; “l’uomo è esterno, duro
e grande (nobile), la donna, invece, è interna, dolce e piccola (ignobile)” 21.
L’idea di inferiorità e sottomissione della donna è stata ulteriormente sviluppata con il neo-confucianesimo durante la dinastia Sung (960-1279) con un’intensa attività speculativa sulla realtà ultima del cosmo, in rapporto all’uomo e
alla sua natura. Il concetto di Li viene elaborato in prospettiva cosmologica,
20-05-2008
17:24
Pagina 31
cioè come norma etica (Li) che presiede agli affari umani e sociali in corrispondenza alla norma celeste, principio universale (Li), indistruttibile ed eterno, che
governa tutte le cose e le mette in relazione. La norma etica, in quanto immutabile per sua natura, tende a giustificare il ruolo della donna in rapporto all’uomo e viene ulteriormente rafforzata dai due libri scritti dal neo-confuciano ZhuXi (1130-1200)22: Zhuxi Jia Li (Insegnamento dei riti familiari di Zhu Xi) e Xiao
Xue (Insegnamento minore) evidenziano maggiormente il concetto già espresso nel Liji (Memorie sui Riti), accentuando ancora la differenza fra i sessi che
giunge fino alla determinazione del “genere” (gender) che risulta determinante
per l’identità stessa della donna. Solo a partire dalle dinastie Ming (1368-1644)
e Quing (1644-1911) il ruolo della donna nel confucianesimo tende ad essere
fissato con rigidità.
La situazione della donna, come illustrata nei libri sulla sua educazione dall’epoca neo confuciana fino all’inizio del diciannovesimo secolo è la seguente:
1) Subordinazione totale: la donna non deve avere una sua propria volontà nell’esprimersi, anche se viene maltrattata e aggredita dall’uomo23. Come
accennato, durante la sua vita deve seguire il Tao (via) di tre tipi di uomini, nella gioventù quello del padre, dopo il matrimonio quello del marito e nella vecchiaia quello del primogenito24, quindi, la donna non può mai avere durante la
sua vita un’identità autonoma e una propria forma di autorità. Sotto la protezione dei genitori una ragazza deve imparare tutto quello che serve per il matrimonio e la famiglia futura, considerati come il centro della vita sociale. Questa
mentalità esiste ancora oggi, soprattutto nelle campagne del continente asiatico. Il matrimonio viene preordinato alla nascita tra le famiglie. Se il marito prescelto venisse a mancare quando la donna è ancora nell’infanzia essa dovrebbe mantenersi vedova per tutta la vita. È ovviamente difficile che ci sia un matrimonio basato sull’amore e sulla libera scelta personale. Nonostante ciò il
matrimonio, dai tempi remoti è sempre stato basato su una rigorosa concezione monogamica.
Un’altra evidente discriminazione sta nel fatto che alla donna confuciana
non viene mai riconosciuta la funzione di essere adulto in pubblico. Il rito dell’iniziazione di una ragazza viene infatti celebrato dalla madre, in presenza dei
parenti stretti di genere femminile25 nel cortile interno o nella sala interna26; ben
diverso è il rito che riguarda il ragazzo, che viene celebrato nel cortile esterno
dal padre o dal nonno e al quale sono invitati vari personaggi, tra i quali il maestro ed i compagni di scuola27. È una pubblica conferma dell’inserimento dell’uomo in una società dalla quale la donna è sempre esclusa: l’identità e soggettività femminile quindi sono formate solo nell’ambito familiare e parentale28.
2) La donna è esclusa dalla vita pubblica e sociale. Deve infatti stare sempre in casa e concentrarsi unicamente sui doveri familiari. Essendo, secondo
Zhu-Xi, incapace di controllare l’emozione e il sentimento che potrebbero distrarla dalle responsabilità, la donna non deve occuparsi delle cose esterne e
non può avere un ruolo nella vita pubblica e nelle attività sociali, vive nella propria società distaccata dal mondo esterno secondo le regole di una società maschilista, organizzata dagli uomini per gli uomini.
Solo le cantanti o le attrici di teatro sono libere di uscire da casa e di me-
SAGGI
Segni e comprensione 65
31
Segni e comprensione 65
32
20-05-2008
17:24
Pagina 32
scolarsi con gli uomini per servirli nei banchetti, ma per questo non sono mai
considerate con occhio benevolo dalla gente. Questo rigido controllo sociale
non sembra essere causato dal sentimentalismo femminile, ma dalla necessità di garantire il puro sangue nella procreazione dei figli, dato che la donna viene considerata soltanto come un oggetto sessuale. Quello che più colpisce in
questo contesto non è tanto la questione della procreazione a cui del resto sono certamente riferiti il valore della donna e l’identità femminile, quanto l’esigenza normativa della castità da mantenere davanti al marito ed alla società.
Qui si gioca con la teoria del “Yin” e “Yang”. La donna essendo “Yin” e quindi
vulnerabile e debole, potrebbe facilmente cadere nella tentazione e diventare
sorgente del peccato nella società. Per tale motivo deve essere controllata da
parte del sesso maschile considerato, a sua volta, “Yang”.
L’importanza della castità e fedeltà come virtù della donna era già tenuta in
considerazione prima della dinastia Song (960-1279), per esempio nello Shijing (Classico delle poesie)29, ma divenne rilevante in modo tangibile e concreto dalla metà del sedicesimo secolo, raggiungendo il culmine durante la dinastia Ming (1368-1644) quando la sottomissione della donna all’uomo era ormai
dato normale. Nel libro Insegnamento minore è detto che “È cosa piccola morire per la fame, ma perdere la castità è una cosa grave e non recuperabile”30.
Educate secondo tale prospettiva culturale, le donne asiatiche portavano sempre con sé un coltellino per suicidarsi nel caso avessero perso la propria castità; non occorre dire che nulla di simile è previsto per l’uomo, anzi, una moglie
non dovrebbe mai mostrare ira, gelosia e odio, dovrebbe ancora rispettare il
marito anche se prendesse cento concubine e le amasse con cuore ardente.
3) Oltre la devozione totale verso il marito, è dovuta anche l’obbedienza alla suocera. È infatti da notare che nella tipica famiglia confuciana la nuora deve praticare la pietà filiale verso i suoceri31. In particolare la donna viene considerata come proprietà non solo del marito, ma anche della suocera, che ha
il diritto di sgridarla e malmenarla: per questo motivo viene scelta dai genitori
del marito da una casta loro inferiore.32 Solo dopo aver partorito un figlio maschio, è in grado di assicurare il culto degli antenati; l’autorità esercitata dai
suoceri è la garanzia del matrimonio. Se la donna è gradita ai suoceri può vivere fino alla fine anche se il marito non ha tanta considerazione di lei33. Se invece viene vista di cattivo occhio dai suoceri, può soltanto implorare la loro
compassione senza mostrare resistenza o odio. È stato costruito l’archetipo
della vedova che ha consacrato la vita ai suoceri e al marito, chiamata “Donna esemplare (Lie nu)” ossia “Modello di donna fedele”. Una ricca dote assicurava alla sposa un migliore trattamento nella famiglia del marito, soprattutto da
parte della suocera e dalle cognate; era tra l’altro ben gradita dalla sposa stessa che la percepiva come una sorta di eredità anticipata, dal momento che come donna non avrebbe avuto il diritto di riceverla in modo normale.
Un’ulteriore discriminazione consiste nel fatto che solo l’uomo può divorziare34, con il consenso dei genitori, quando ha una giusta ragione; si può inoltre
risposare, mentre ciò è precluso alla donna (questa legge normativa è peraltro
applicata in modo differente nelle diverse epoche). Tra i nobili, se le famiglie
del marito e della moglie dovessero litigare per motivi di politica, soltanto in
20-05-2008
17:24
Pagina 33
quel caso il padre della sposa potrebbe chiedere il divorzio per la figlia. Avere
una discendenza è un vero e proprio obbligo, al punto che se la donna non realizza questa missione deve lasciare il marito o accettare il divorzio di modo che
lui possa stare accanto ad un’altra donna come concubina o “donna ricevente
il seme maschile” in grado di dargli un figlio. Ma se la sterilità non dipende dalla donna, ella non ha il diritto di divorziare dal marito: tale ineguaglianza è giustificata dalla convinzione che nessuno può sfuggire al Cielo (uomo)35.
La preferenza accordata al sesso maschile è dovuta al legame stretto con
la pratica della pietà filiale, virtù primaria confuciana paragonabile alla Via del
Cielo36. La pietà filiale consiste nel servire i propri genitori finché sono in vita,
soprattutto nella vecchiaia, con obbedienza, rispetto ed amore37. Bisogna onorare il loro nome, almeno non disonorarlo, trasmettendo il loro sangue (vita) e
volontà mediante la procreazione ed il culto degli antenati38. Questi ultimi sono
imprescindibili dalla visione di “vita eterna” confuciana. Tutto ciò s’inserisce
perfettamente nella logica della visione dell’uomo: l’uomo, come l’individuo, ha
ereditato il suo corpo dai genitori, e quindi deve trattarlo con la premura di conservarlo integralmente fino al momento della morte; il “mio corpo” non appartiene solo al me, ma anche ai genitori e agli antenati. Il culto degli antenati è
sacro nella cultura confuciana, cardine della famiglia patriarcale. Questa poteva perpetuarsi e prosperare solo mediante la procreazione di figli maschi, considerati energia positiva (Yang) che sostituisce l’energia negativa e ombrosa39:
“Io” devo portare avanti il compito affidatomi dagli antenati, di “non rompere la
catena della vita”. Se così non avviene, il culto si interrompe e accade una specie di peccato capitale che porta effetti nefasti sull’intera famiglia e sul clan.
Sotto questa luce, generare figli maschi diventa garanzia per la donna che si
assicura così una propria posizione nella struttura gerarchica della famiglia.
Anche l’uomo vale solo se procrea dei figli maschi: così salva la propria faccia
davanti agli antenati e incontra la propria vita nell’eternità. La norma etica confuciana non è applicata soltanto al rapporto tra marito e moglie o tra nuora e
suocera, ma anche tra le nuore e tra i figli legittimi e non-legittimi, secondo considerazioni di vario ordine e ruolo.
4) La donna, in quanto essere femminile, deve dimostrarsi passiva, morbida, docile, introversa ed obbediente. Viene considerata come una specie di
bambola, un accessorio dell’uomo, più che come persona. Deve curare
l’aspetto esteriore per soddisfare il desiderio e il piacere dell’uomo40, deve agire secondo determinate regole e parlare poco, non far sentire la propria voce
fuori dalle mura di casa dal momento che la voce femminile troppo forte porta
rovina nella sua casa41. Deve inoltre praticare le “Quattro virtù” cioè la castità,
la mansuetudine, l’affabilità e l’operosità, lavorando tutto il giorno e fermandosi solamente per il pasto. Il suo ruolo è quello di realizzare l’ordine nella casa
e nella famiglia: la stessa parola “moglie” significa nell’ideogramma cinese
“donna con la scopa”: una donna intelligente e geniale avrà poca fortuna e vita dura!
La discriminazione del sesso inizia già dal momento della nascita. Dopo tre
giorni infatti la bambina viene sottoposta a una dura prova: prima di affidarla
agli antenati nel tempietto domestico, viene distesa sulla terra e il suo petto vie-
SAGGI
Segni e comprensione 65
33
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 34
ne coperto con una tegola. Questo rito significa che la bambina, in quanto femmina, deve imparare ad essere umile e docile per affrontare e sopportare ogni
sofferenza e dolore, superando così tutti gli ostacoli e pesi che graveranno sulle sue spalle di donna42.
C’è però da aggiungere che, accanto a questi aspetti negativi, il neo-confucianesimo offre anche un’immagine molto positiva della donna, soprattutto in
ordine al ruolo educativo43. Quando non c’era la scuola pubblica, la famiglia assicurava l’istruzione delle ragazze, talvolta anche invitando un insegnante privato Alla donna spettava l’insegnamento elementare dei figli e per questo non
doveva essere ignorante: ciò viene evidenziato nella biografia della «donna
esemplare» che offre consigli al proprio marito e ai figli. Inoltre, essendo responsabile dell’ordine della casa, gli affari economici sono di sua pertinenza.
Per quanto riguarda l’aspetto cosmologico secondo il quale l’uomo è considerato come Cielo (Yang) e la donna come Terra (Yin) in reciproca polarità, se
l’una non avesse uguale dignità dell’altro non ci potrebbe essere l’armonia, elemento essenziale per l’ordine cosmico.
III. La discriminazione del sesso corrisponde veramente allo spirito originale
del Confucianesimo?
34
Ci si può ora chiedere se il comportamento etico-normativo (Li), descritto
nei “libri dell’insegnamento per la donna” e poi praticato nel corso della storia
confuciana con la al quale determinazione della posizione e del ruolo femminile, corrisponde veramente allo spirito originale di Li Confucio voleva dare notevole importanza. In altre parole, è davvero tutto ciò espressione di una struttura comportamentale nella quale si realizzano il ren e la rettitudine, ossia
quell’“esteriorizzazione del Ren” che è la concreta via per realizzare il Tao del
Cielo, cioè il Sacro?
Da quanto finora osservato nei libri per la donna, Li non ci sembra altro che
un formalismo consistente in una serie di obbligazioni, per di più accentuato da
una forma di esteriorità non flessibile. Come si può vedere, l’auto-controllo di
Li nell’interiorità era tenuto in scarsa considerazione, ma sembra rilevare una
forte pressione di controllo da parte del sesso maschile e della struttura gerarchica verticale piuttosto che quella relazione orizzontale in grado di realizzare
l’armonia.
Per chiarire il vero significato di Li è necessario interessarsi alla Realtà ultima, chiamata dal confucianesimo “Cielo” a cui è legato il concetto del Sacro. Il
Cielo è il principio universale di ogni evento cosmico, totalità e matrice dell’intera realtà. Viene anche considerato come creatore e governatore dell’uomo e del
mondo; ha la potenzialità, nella sua essenza, di muoversi in tutte le creature.
Tale carattere dinamico viene chiamato “Tao”, ossia “Decreto” del Cielo (Tienming ), per cui il “Cielo” è chiamato da Confucio anche con il termine “Decreto
del Cielo”, appunto “Tao (Via) del Cielo”. Dall’altro lato esso viene inteso anche
sia come l’ordine scaturito dal Cielo che come quello fondamentale del mondo
e del cosmo. Il Cielo è sincero, puro e generoso in quanto produce le diecimila
20-05-2008
17:24
Pagina 35
cose e si prende infinitamente cura di esse, dispensando con liberalità i suoi doni senza attendere alcuna ricompensa. Siccome la natura dell’uomo deriva originariamente dal Cielo, il Decreto del Cielo è presente nella natura umana sotto forma di quattro virtù: nel cuore compassionevole (legato a Ren – amore); nel
cuore che si vergogna per i propri difetti e che prova repulsione per quelli altrui
(legato alla giustizia); nel cuore che manifesta rispetto e reverenza (legato al Li);
perfino nel cuore che può distinguere il bene dal male (legato alla conoscenza
ossia alla saggezza). Secondo Mencio è evidente che la natura umana, dal momento che porta con sé semi trascendentali, ha la capacità inerente di “conoscere” e di “amare” anche senza averlo appreso e meditato, così come un bambino sa amare i propri genitori senza averlo imparato44.
Queste quattro qualità trascendentali non sono infuse dall’esterno, ma possedute dall’uomo anche se non sempre ne è consapevole. Zhongyong (Giusto
Mezzo), uno dei canoni confuciani, accentua questo legame stretto tra Sacro
(natura divina) e natura umana come segue: “Il Mandato del Cielo vuol dire Natura (umana), seguire la Natura vuol dire Tao, praticare la via (Tao) nel cammino spirituale vuol dire Religione” (Zhongyong, cap. 1). L’uomo, che ha sempre
la sua origine nel Cielo, per conoscere sé stesso e per avere un criterio verso
cui orientare tutta la sua vita deve necessariamente approfondire la conoscenza del Cielo e della sua Volontà (Decreto): «se intende conoscere gli uomini,
non può non conoscere il Cielo» (Zhongyong, cap. 20). In questo modo il Cielo, cioè il Sacro nel suo manifestarsi nel mondo, viene concepito mediante la
natura dell’uomo.
La natura umana è infatti sacra; egli deve solamente svilupparla con la finalità di raggiungere una realizzazione perfetta45 che si attua attraverso la pratica della «Via dell’uomo», intesa dai confuciani come la norma morale e spirituale, cioè l’esteriorizzazione (oggettivazione) della natura umana nel codice
sociale-etico.
Il Li, in quanto componente essenziale della natura umana che sta nel “Cielo” ossia nel “Decreto del Cielo”, ha la sua dimora originale nel cuore umano. Il
«Sacro» confuciano si manifesta, in modo concreto, nello spazio e nel tempo
attraverso la pratica del Li 46. Per tale ragione Confucio insiste: “contro Li non
guardare, contro Li non ascoltare, contro Li non parlare, contro Li non muoverti” (Lunyu [Dialoghi ], cap. 12,1). Nel Li si possono riscontrare due aspetti, uno
immutabile in quanto fondato sulla verità del Cielo che viene inserito nella società mediante gli uomini santi, l’altro mutevole e temporale legato alla realtà
concreta dell’uomo che dipende da vari elementi che lo circondano impedendogli di riflettere in modo assoluto la verità. Dal momento che ogni stile di vita e
norma collettiva (cioè Li) corrisponde all’esigenza della situazione particolare
che si viene a creare in una determinata epoca, il mutamento di Li è considerato necessario: con il passare del tempo Li non può essere praticato nello stesso modo, talvolta meglio, talvolta peggio e addirittura talvolta addirittura sparisce 47. Chi segue la corrente ritenendola l’assoluto decade nella corruzione e ha
come unico fine quello di essere adulato dalla sua generazione; chi non ha lo
spirito critico, non potrà mai essere saggio, sincero e virtuoso; Confucio, detestando profondamente chi si comporta così, lo definisce ipocrita48.
SAGGI
Segni e comprensione 65
35
Segni e comprensione 65
36
20-05-2008
17:24
Pagina 36
Il valore e il funzionamento primario del Li il cui spirito è legato al principio
del Cielo sta nel realizzare la verità e nel sostenere l’ordine della società. Per
questo punto di partenza per la sua comprensione è il rapporto tra l’“Io” e il
“Tu”, dove ciascuno diventa oggetto dell’altro nella parità. In altre parole, l’essenza del Li si rivela quando uno incontra e riconosce l’altro in quanto “persona”. L’essere persona significa tendere alla realizzazione di se il cui elemento
essenziale è “sincero dono di sé”. Per viverlo, sia l’uomo che la donna devono
essere umili e modesti49, trattare gli altri con rispetto50. Agire con benevola intenzione, essendo disponibile agli altri e controllando il proprio ego, si identifica senza dubbio con il concetto di “dominare se stessi” espresso da Confucio,
interrogato sul significato dell’amore (Ren)51.
Il Li deve trovarsi, quindi, sempre nel Ren, perciò Confucio dava più importanza all’amore (Ren) che al Li: “se un uomo non è caritatevole, che ne farà dei
riti (Li)?” (Lunyu [Dialoghi], cap.3, 3). In quanto incondizionato e universale,
l’amore (Ren) confuciano viene inteso come la virtù per eccellenza che oltrepassa la natura dell’uomo e sulla quale dovrebbero essere modellate tutte le
altre virtù.
Ren designa anche l’esistenza dell’uomo nella reciprocità di tre elementi: il
rispetto, la libertà e la riconoscenza del cuore. Per ciò che concerne il primo,
Ren non consiste solo nell’amare il prossimo ma nel rispettarlo con tutto il cuore controllando il proprio temperamento e istinto, nonché valorizzandone la dignità in ogni incontro quotidiano: “fuori di casa comportati come quando ricevi
un ospite importante; nel comandare al popolo comportati come se dovessi offrire il grande sacrificio” (Lunyu, cap. 12, 2). In secondo luogo, Ren fa sentire
ciascuno pienamente a proprio agio promovendo la libertà reciproca, cosicché
la persona si preoccupa del benessere degli altri e s’impegna a loro vantaggio.
Il terzo elemento significa la riconoscenza del cuore degli altri dal punto di vista del proprio secondo la misura della “regola d’oro”, quella che insegna a non
fare agli altri ciò che non si desidera sia fatto a sé (Chungsu ). Questa pratica
consente di ridurre gradualmente l’egoismo e il proprio interesse. Quando ciò
accade l’individuo sente che non c’ è più una distinzione tra se stesso e gli altri, tra uomo e donna: se un uomo desidera essere onorato e rispettato deve
per primo onorare e rispettare la donna. Infatti la pratica di Chungsu non è altro che lo scopo del Ren; è importante notare che quando una persona è fedele alla propria natura in cui dimorano i semi trascendentali, l’amore reciproco
(Chungsu) si manifesta da solo e spontaneamente.
Confucio sostiene che con tale reciprocità di comportamento non può nascere alcuna inimicizia tra gli uomini: “non suscita ostilità nello stato, non suscita rancori nella famiglia” (Lunyu, cap. 12, 2). Se si vive autenticamente questo reciproco riconoscimento partendo dal proprio cuore, è evidente che nessuno può e vuole essere dominato. Di conseguenza un sesso più debole, dal
punto di vista biologico o sociale, non può essere subordinato ad uno più forte; per questo la discriminazione della donna nei confronti dell’uomo è una violazione contro il sacro, contro la volontà del Cielo (Decreto del Cielo).
Ne è conferma l’ideogramma di “Ren” che rappresenta due persone, come
forma primaria nel rapporto interpersonale52. Ma chi sono? Seguendo la linea
20-05-2008
17:24
Pagina 37
del Yijing che mostra l’origine dell’umanità derivata dal Cielo mediante l’accoppiamento tra uomo e donna, le “due persone” indicano senz’altro i due sessi
ciascuno dei quali rappresentante di una “metà del cielo” e una “metà della terra (umanità)”53, alla cui unione è affidata la realizzazione del Decreto del Cielo
(potenza essenziale del Cielo). Il rapporto tra uomo e donna è così inteso come il fondamento di tutte relazioni interpersonali: se vogliono realizzare la propria vocazione personale, devono vivere il fondamento del loro “essere per”
(Ren) mediante la reciprocità.
In base a questa spiritualità, il Li, prima di significare l’ordine familiare e sociale, dovrebbe costituire una qualità basilare della natura umana in quanto
sorgente di bontà connaturale al principio (Tao) del Cielo a cui alla fine tutti gli
uomini devono ritornare. L’importanza attribuita al Li quale “Tao dell’uomo” più
che come etica normativa esteriore, si trova in Mencio: “Ch’un-Yu kun disse: È
prescritto dal rito (Li) che un uomo e una donna non si consegnino alcuna cosa direttamente fra loro? – È il Rito (Li) – rispose Mencio. – Se mia cognata sta
per affogare-chiese l’altro-posso salvarla tendendole la mano? – Non salvare
la cognata che sta per affogare è roba da lupi. Che un uomo e una donna non
diano e non prendano un oggetto direttamente tra di loro è il rito (Li), salvare
la cognata che affoga tendendole la mano è Tao (dell’uomo) da vivere” (Mencio, Libro 4 A, 17).
Secondo Mencio, l’osservanza di Li è meno importante delle due condizioni necessarie54 per divenire un santo, che sono “praticare l’amore” e “seguire
la rettitudine (giustizia)”. Vivere l’osservanza di Li in modo rigido, disprezzando gli altri, porta prima di tutto a danneggiare se stessi55, ma anche ad essere
considerati dagli altri «uomini ignoranti», incapaci di vivere nella reciprocità.
Ciò è testimoniato anche dai canoni confuciani che rappresentano il vero e
proprio significato di Li: uguaglianza nella reciprocità; vivere per “l’altro”, e pensarlo con nobiltà; aiutarlo ad esistere nel senso vitale ed esistenziale; creare
l’unione perfetta tra il proprio ordine, il cui valore è apprezzato, e l’armonia reciproca che si desidera e si cerca di vivere.
IV. Sacro, sacralità della donna e prospettive future
Alla luce di quanto finora proposto, occorre esaminare il concetto orientale
di “Sacro”. Il Sacro in Oriente è traducibile con la parola Sheng, che indica letteralmente santità, sacralità, saggezza. Ad essa si riferisce il concetto di Cielo
e il suo mandato e volontà (Tian ming) che hanno un carattere di natura divina. Confucio percepisce Tian ming come il principio primario al quale si deve
conformare l’essere umano56 e la meta verso la quale devono camminare sia
la donna che l’uomo: dono gratuito del Cielo presente ontologicamente in tutti
sotto la forma della natura umana, questa qualità universale viene chiamata
“amore (Ren).”
Dal momento che la natura divina è immanente alla natura dell’uomo, il Sacro è legato strettamente alla dimensione antropologica, in modo particolare
nel caso del santo. Questi, cioè l’«uomo sacro» confuciano, viene considerato
SAGGI
Segni e comprensione 65
37
Segni e comprensione 65
38
20-05-2008
17:24
Pagina 38
come il mediatore tra il Cielo e il mondo, come colui che ascolta la voce del
Cielo (Tien ming). Ciò è dimostrato chiaramente dall’ideogramma del “Sacro”.
L’uomo santo conosce in modo perfetto il mandato (volontà) del Cielo e quel
principio di tutte le cose che rende capaci di sviluppare pienamente la propria
natura. Questa figura del santo si concretizza nell’“uomo del Ren (amore)” che
pratica nella propria vita l’ordine divino, cioè l’armonia con se, con gli altri e con
il mondo, prassi verso la quale è orientato tutto il cammino spirituale confuciano. La virtù del Ren è la profonda conoscenza della propria interiorità che spinge ad amare gli altri – non solo i propri simili, ma anche le altre creature, perché si è tutti fratelli e sorelle. Ciò vuol dire che il santo confuciano non è soltanto una figura importante a livello etico e morale, ma viene considerato come “cocreatore” della Realtà ultima, essendo capace di sviluppare pienamente la sua
natura e quella degli altri. Egli può assecondare le forze trasformatrici e sostenitrici del Cielo e della Terra, entrando in una terna con essi57. Il santo, vivendo
con il cuore del Cielo (padre) e della Terra (madre) che si dona sempre, dona
prosperità a tutte le creature. A questa responsabilità di co-creatore il Confucianesimo chiama maschi e femmine, perché tutti hanno la stessa natura e lo stesso potenziale per diventare “Uomo santo”. Un ulteriore elemento importante da
considerare per la santità è vivere nella sincerità con sé e con gli altri: in quanto Via del Cielo58, essa è considerata come il principio e la fine degli esseri59; vivendo nella sincerità una persona diventa “grande”60 e giunge alla sfera celeste;
la sua influenza invisibile si estende molto lontano, su tutto il mondo.
Il santo compie la missione del sacro nella misura in cui aiuta gli altri e li
porta a raggiungere lo stesso stato di armonia. In questa missione la giusta
disposizione del cuore nell’“ascoltare” e “riflettere” è ancora più importante del
“parlare” e del “portare” il messaggio del Cielo alla gente. L’importanza della
dimensione interiore dell’uomo è chiaramente evidenziata nell’ascolto e nella
riflessione della voce del Cielo (Dio), carattere particolare femminile, oltre che
nel vivere la stessa essenza del Cielo (Decreto del Cielo) per ritrovare l’ordine cosmico e ristabilire l’armonia perduta. L’adempimento del sacro non deriva da ciò che è esterno, ma dalla realizzazione della propria vera natura innata ed aperta a tutti, come si può trovare traccia nell’“Insegnamento interno”61 (nell’anno 1465) scritto nella dinastia Zusun (Corea), dove la donna viene invitata alla santità nel percorrere la “Via (Tao) del Cielo”, praticando il perdono e l’amore infinito con un ardente desiderio accompagnato sempre dall’autoriflessione.
Alla luce della vera spiritualità confuciana, l’identità femminile e la sua sessualità vengono considerate dunque in una dimensione più profonda e mistica.
La sacralità della donna finora è stata ignorata e trascurata a causa della struttura sociale maschilista e patriarcale. Quali elementi si potrebbero sviluppare
nella cultura confuciana di oggi e del prossimo futuro per ritrovare l’autentico valore della donna, la sua dignità e vocazione secondo la ricchezza della sua femminilità che ha ricevuto dal Cielo sin dalla nascita? In questa sede il tempo limitato consente di segnalare soltanto due punti: 1) la vitalità e interiorità nell’amore (Ren); 2) l’armonia tra i due sessi mediante il giusto mezzo (Zhongyong ).
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 39
Come già accennato, il Sacro (Decreto del Cielo) si rivela sotto un carattere immanente (natura umana), espresso dall’Amore (Ren), concetto che si trova nel nucleo stesso del Confucianesimo. Questo Ren immanente deve essere realizzato nella pratica, chiamata Tao, alla quale l’uomo deve conformarsi
per creare l’armonia cosmica. Esaminando l’ideogramma della “natura umana:
Xing” si nota un peculiare carattere femminile.
Nell’ideogramma cinese, la “natura umana” ha la stessa pronuncia di “sesso”
o “ sessualità”, essendo composta dal cuore (Sim) e dalla vita (Sheng). Per quanto riguarda il secondo aspetto, la vita ossia la vitalità del Cielo (Ch’i) viene rappresentata come una forza che si espande nel mondo in un movimento circolare, per
mezzo del quale si divide e si effonde di volta in volta in ciascuna delle categorie
dello spazio e del tempo. Data l’importanza alla vitalità cosmica, il canone Yijing
delinea che l’uomo in quanto immagine del Cielo non domina le creature, ma le
vivifica nel conformarsi al principio di vita dell’ordine del Cielo (Natura). L’energia
vitale del Cielo, diffusa ovunque ed in continuo movimento creativo, viene portata a compimento anche grazie all’aiuto umano, in modo concreto mediante la maternità della donna. In tale situazione essa infatti sperimenta in modo più immediato la vitalità del Cielo, dal momento che diventa “canale della vita” dando spazio al bambino che può così andare incontro all’esistenza: in questo senso è cooperatrice del Cielo, ben più di quanto lo possa essere l’uomo. Grazie al suo carattere di origine della vita, la parola sesso (vita) viene usata ancor oggi per indicare il cognome della famiglia orientale. Tuttavia il primo cognome non è riferito al
maschio, bensì al sesso femminile, come testimonia chiaramente l’antico documento cinese Shuowen Jietzu (Spiegazione delle parole e analisi dei caratteri) di
Xushen: “la parola “cognome” significa uomo (vita) nato dalla donna”. Nella forma
antica del matrimonio la donna sceglieva l’uomo in un’altra tribù e i figli prendevano il cognome della madre, cosicché la linea genealogica della famiglia seguiva
soltanto il ramo della donna (madre). Il figlio dopo il matrimonio prendeva il cognome della moglie ed andava ad abitare nella sua tribù.
Zhan Shichuang, una studiosa cinese, basandosi sullo Shuowen Jietzu afferma che il cognome originario deriva dall’unione della Madre con il Cielo, dalla quale è stato creato l’uomo sacro antico (eroe o sovrano), motivo per cui al
sovrano veniva attribuito il titolo di “Figlio del Cielo” (uomo sacro), che portava
appunto il cognome della madre62. Ci si riferisce qui all’antica Cina, società matriarcale dove regnava la pace descritta da Chung Tzu63, uno dei più grandi filosofi e mistici nell’ambito del taoismo filosofico cinese; in quel tempo la donna
(madre) era molto libera nei rapporti sessuali, cosicché talvolta non si sapeva
chi fosse il marito; quando ciò accadeva, le veniva attribuito il termine “vergine”.
Successivamente il cognome è stato utilizzato anche per individuare l’origine di una ragazza trasferita dal luogo di nascita ad un altro; da quel momento
si sono poi modificati i diversi cognomi: è quindi evidente che fin dall’inizio si
tratta di una nozione legata al sesso femminile, che possiede la sacralità in
quanto sorgente di vita.
SAGGI
V. La vitalità e interiorità nell’amore (Ren)
39
Segni e comprensione 65
40
20-05-2008
17:24
Pagina 40
Secondo la dottrina confuciana, il “cuore” è la sede dell’intelligenza, l’organo che consente di pensare e di approvare o disapprovare la virtù morale, sociale e spirituale. È considerato quindi non come realtà esteriore ma interiore,
dal momento che Amore e sensibilità umana (Ren) si trovano nell’interiorità
piuttosto che nell’esteriorità; la donna è più vicina all’amore interiore, qualità
privilegiata del femminile, perché con intima sensibilità essa si prende cura degli altri dimostrando compassione verso i più piccoli, i deboli, i bisognosi e coloro che soffrono. Quando è aperta ed orientata verso il bene dei figli e degli
altri, il suo amore materno diventa un riflesso dell’amore del Cielo. Per sua natura il suo è un amore incondizionato che infonde nel bambino l’amore della vita, perché lo fa sentire amato non per proprio merito, ma gratuitamente. È proprio dall’amore materno, nel contempo tenerezza e compassione, che il bambino impara a conformarsi alla volontà del Cielo e ad essere premuroso prendendosi a sua volta cura di coloro che incontra, avvicinandoli con affetto e rispetto profondo64, con i quali sarà possibile costruire un mondo senza discriminazione di sesso dove regnino ovunque pace ed armonia65.
Sia le qualità celesti del “cuore” che quelle della “vita (vitalità)” sono affidate
in modo speciale alla donna proprio a motivo della sua femminilità. Nella parola stessa di Madre (Mu), in cinese, si intravede l’insieme dei due caratteri del
“dare la vita” e del “prendersi cura della creature”. L’ideogramma deriva originalmente dalla figura del pastore che dedica la propria vita a curare le sue pecore. Poi ha assunto il significato di “canale della vita” indicando la donna incinta,
trasmettitrice della vita, ovvero nel momento in cui allatta il bimbo abbracciandolo sul proprio seno. Si può in questo contesto scoprire come la potenza trascendentale, il Sacro, si riveli in modo privilegiato nel cuore della madre, cioè
nel sesso femminile; di conseguenza, diventa necessario ricuperare e rivalutare la dimensione della maternità (non solo fisica ma anche spirituale) collegata
inscindibilmente con la vita. In quanto rappresentante della forza vitale e universale del Sacro, la donna consente di far udire la vera voce e l’amore del Cielo
ed introduce una nuova scala di valori in una società in rapida evoluzione e mutamento in cui la vita, la dignità umana ed i valori spirituali sono scarsamente
considerati. Nell’amore dinamico, sensibile ed intuitivo anche il rapporto tra madre e figlio, nell’ambito confuciano, non si deve fermare al solo livello della procreazione, come era indicato in passato nei Quattro libri per le donne 66 ma si
deve estendere a tutta la dimensione profonda esistenziale e vitale, rinnovando
ed animando con forza creativa non solo l’uomo, ma tutto il cosmo.
VI. L’armonia tra i due sessi mediante il giusto mezzo (Zhongyong)
Quando l’uomo vive l’amore del Cielo, abbraccia tutte le creature che compongono il principio unico. Secondo tale visione integrativa nessuna azione risulta impossibile per arrivare ad uno stato di equilibrio, chiamato Zhongyong,
ossia armonia. Tenersi nel giusto ed equilibrato mezzo significa seguire la via
giusta per l’intero mondo. Per il confucianesimo Zhongyong indica, dal punto
di vista sociale, uno stato armonioso in cui tutti gli uomini possono convivere
20-05-2008
17:24
Pagina 41
sotto il controllo del rapporto interpersonale. Nonostante tale enfasi sull’armonia, il Confucianesimo nella sua storia non ha mai prestato molta attenzione all’equilibrio sociale e alla parità dei sessi.
Per raggiungere lo stato di equilibrio, sia la donna (Yin) che l’uomo (Yang)
devono porsi continuamente in costante relazione di virtù e rispetto, senza dominarsi reciprocamente. È stato giustamente delineato nel Yijing che “la donna da sola non può crescere, l’uomo isolato dalla donna non può prosperare”.
La distinzione (contrapposizione) dei sessi in funzione dell’equilibrio, come nella differenza fra Cielo e Terra o fra Spirito e Natura, viene concepita in termini
piuttosto positivi e buoni; mediante la distinzione l’ordine è introdotto nel mondo67: se l’uomo vive nel contrasto e nell’estraneità non è possibile compiere
una grande opera comune. Lo stesso canone menziona il momento in cui l’uomo e la donna si ri-equilibrano e si uniscono nella creazione e trasmissione
della vita, apprezzando la diversità e la reciprocità sessuale68. La specificità
maschile e femminile è basata sul principio della Realtà ultima, la cosiddetta
teoria dello Yin e Yang, i due elementi che costruiscono l’armonia. Ciò vuol dire che quando la donna (Yin) e l’uomo (Yang) sono equilibrati si produce uno
stato di armonia e l’ordine del cosmo porta la cultura della vita alla società
umana. Invece quando uno prevale sull’altro si crea disarmonia con conseguenze spesso molto gravi.
Il quid essenziale dei due sessi, che costituisce la proprietà di uomo e donna
deve essere equilibrato senza che ci sia superiorità, ma solo diversità, dell’uno
rispetto all’altro. Anche nel Zhonyong (Giusto Mezzo), Confucio afferma che la
grandezza del Cielo (Yang) il quale tutto copre ed avvolge e della Terra (Yin) la
quale tutto contiene e sostenta, consiste nella reciprocità dell’armonia la quale
rende possibile nutrire gli esseri senza che essi si danneggino a vicenda69.
Da questo punto di vista si può interpretare anche il riferimento dello Yin
(carattere femminile ossia donna) alla Terra e dello Yang (carattere maschile
ossia uomo) al Cielo. Come viene sottolineato dallo stesso canone, il Cielo è
paragonabile alla luce che illumina e copre tutte le cose, e ad esso corrisponde nell’essere umano la “saggezza”; la Terra invece corrisponde alla semplicità pura che vivifica tutte le cose, cioè la “virtù”. Con ciò si esprime il riferimento del carattere maschile (Yang) alla saggezza illuminante, di quello femminile
(Yin) alla virtù profonda del cuore. In realtà non sono separati in modo dualistico ma sono in relazione, come esplicitamente affermato nel canone Zhongyong: “È vasto e profondo, cosi sostiene gli esseri; è sublime e luminosa, cosi ricopre gli esseri; è lungimirante e perseverante, cosi completa gli esseri. La
vastità e la profondità la rendono uguale alla terra, la sublimità e la luminosità
la rendono uguale al Cielo” (Zhongyong, cap. 26).
Vivendo questa qualità nell’unità del Cielo e della Terra, sia la donna che l’uomo si trovano valorizzati nelle proprie caratteristiche in cui le qualità di Yin e Yang
si armonizzano (per esempio, la donna quale carattere della terra deve essere
forte, stabile, tranquilla e allo stesso tempo morbida, perché in essa trovano vita
tutte le creature). Solo nella reciprocità si può realizzare la “Via del Cielo” e di
conseguenza la propria natura sacra, facilitando il percorso attraverso il quale
tutte le cose ritornano al proprio giusto posto. Essendo capaci di sviluppare pie-
SAGGI
Segni e comprensione 65
41
Segni e comprensione 65
42
20-05-2008
17:24
Pagina 42
namente la propria natura, uomo e donna hanno la possibilità di realizzare anche la natura degli altri esseri, assecondando le forze trasformatrici e sostenitrici del Cielo e della Terra. In tale cooperazione reciproca si entra in una terna con
il Cielo e con la Terra.70. Quest’armonia consente all’uomo la gioia di vivere, come dimostrato dall’origine dell’ideogramma cinese di “armonia” che deriva dalla
musica (Yue) ed ha la stessa grafica di “gioia” (Le), anche se c’è divergenza per
ciò che concerne la pronuncia: “la musica (l’armonia) è gioia”.
Il Principio dell’armonia nel vivere il “giusto mezzo” (Zhongyong), nel trovare il proprio vero “io” trascendendo se stesso, si può applicare anche alla metodologia del femminismo. In oriente ci sono due metodi di conoscere il Sacro,
cioè la Via della Realtà ultima (Cielo) tramandata da lungo tempo: uno è il metodo attivo, detto ek-stasi, l’altro, piuttosto passivo, detto en-stasi. La caratteristica del primo consiste nel conquistare le cose del mondo mediante lo spirito
di combattimento, quella del secondo nel realizzare la profonda accoglienza interiore di sé e del Cielo, in un autocontrollo reso possibile da un atteggiamento passivo e tranquillo. Tale tendenza verso l’armonia tra passivo ed attivo si
trova nella teoria confuciana dello Yin e Yang e Cinque Elementi: essa orienta
a far nascere, vivere e prosperare gli altri elementi attraverso un reciproco movimento che è nello stesso momento combattimento ed eliminazione al fine di
creare l’ordine e l’armonia del cosmo.
Per ristabilire il sacro in questo mondo in un profondo rispetto per gli altri, per
la vita e la natura, per la ricerca della verità, è necessario anzitutto sviluppare
un’auto-coscienza e una valorizzazione dell’“essere donna”, dilatando la propria
coscienza, in modo più profondo, a tutta la realtà che ci circonda. La donna è
come l’uomo l’immagine del Cielo. Nel suo cuore è inciso il Decreto (Mandato)
del Cielo e per conoscerlo, prima di tutto, deve conoscere se stessa.
In questo contesto lo studio, inteso come via per la santità, gioca un ruolo
importante. Sviluppando la conoscenza fino alle cose più vaste e grandi ed approfondendo l’attenzione fino alle cose più sottili ed impercettibili, la donna non
solo acquisisce l’autocoscienza e un criterio adeguato per valutare la situazione concreta in cui vive, ma va inoltre fino alla conoscenza della verità elevandosi alla sublimità ed all’illuminazione71. Ciò fa rifulgere la virtù luminosa che
consente di rinnovare le persone ed il mondo, permanendo nel più alto grado
del bene.72 La donna in quanto persona integrale e spirituale, ha la missione di
cooperare con il Cielo per realizzare la volontà del Cielo su questa terra, cioè
vivere bell’equilibrio (Zhong-Yong) e infine unire “tutto” con il Cielo. Questo non
è soltanto una necessità umana, ma anche una missione congeniale del Cielo. Per le donne, si tratta allora di poter partecipare pienamente, come autentiche “collaboratrici”, al progetto cioè al mandato del Cielo.
In questa prospettiva appare davvero preveggente l’affermazione di Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio:
Sia in Oriente che in Occidente è possibile ravvisare un cammino che, nel
corso dei secoli, ha portato l’umanità a incontrarsi progressivamente con
la verità e a confrontarsi con essa – né poteva essere altrimenti – entro
l’orizzonte dell’autocoscienza personale: più l’uomo conosce la realtà e il
20-05-2008
17:24
Pagina 43
mondo, più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua esistenza. (“chi sono?”, “da dove vengo e dove vado?”, “perché la presenza del
male?”, “Cosa ci sarà dopo questa vita?”). Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei veda non meno che negli’Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tzu come
pure nella predicazione di Buddha73.
1 Cfr. “Women in Politics”, Women’s Rights Situation in China, 2001, in www.onlinewomeninpolitics.org / womensit/ china.pdf (Cfr. L. DI RICO, F. QUARTIERI, Essere Donna in Asia, EMI, Città di
Castello 2004, p. 41).
2 Cfr. W. A. LA FLEUR, Liquid Life: Abortion and Buddhism in Japan, Princeton University Press,
Princeton 1992; S. BARDWELL, Buddhism and Abortion in Contemporary Japan: Mizuko Kuyo and
the Confrontation with Death in “Japan Journal of Religious Studies”, 15. 1988.
3 Il canone del Confucianesimo composto da “Cinque Classici” e “Quattro Libri”. L’elenco dei
Wujing (Cinque Classici) comprende: Yijing (Classico dei Mutamenti); Shihjing (Classico delle
Poesie); Shujing (Classico dei Documenti); Chunqiu (Primavere e Autunni); Liji (Memorie sui Riti).
I Sishu (Quattro Libri) sono: Lunyu (Dialoghi); Zhongyong (Giusto Mezzo); Daxue (Grande Studio);
Mengzi (Mencio). Lo Zhongyong e il Daxue sono rispettivamente i Libri XXXI e XLII dei Liji.
4 Cfr. Lunyu (Dialoghi), cap. 1, 8. Anche Tzu-kung, discepolo di Confucio, afferma che quando
l’uomo saggio corregge se stesso diventa più grande. Cfr. Lunyu (Dialoghi), cap. 19, 21: “Tzu Kung
disse: – L’errare del saggio è come un’eclissi di sole o di luna: quando sbaglia tutti lo vedono,
quando si corregge tutti guardano a lui (con rispetto)”.
5 Cfr. Shujing (Classico dei Documenti), Parte III (Documenti degli Shang: Shang shu), cap. 2,
3 e cap. 4, 3; Parte IV (Documenti degli Zhou: Zhou shu) cap. 1, 1 e cap. 3, 1.
6 Shujing racconta la storia di Huang e Nying, figlie del primo augusto sovrano cinese Yao, che
le aveva date in moglie a Shun, il secondo sovrano, uomo lungimirante e umile, per mettere alla
prova la sua virtù. Queste due regine vengono considerate donne esemplari per la loro virtù sia
nella storia delle regine che in quella delle donne nobili. Cfr. Shujing, Parte I (Documenti degli Yu:
Yu shu), cap. 1, 5; Quattro Libri per la donna, vol. 4, Wang Ji Fan Jie Lu, Huodepian (Trattato della Virtù della Regina).
7 Secondo la visione confuciana l’uomo microcosmo riflette il macrocosmo: l’uomo e la natura sono parti di un universo unitario, animato dal principio femminile (Yin) e da quello maschile (Yang) che
garantiscono l’ordine e l’armonia. Per partecipare a tali leggi ognuno deve occupare il giusto posto e
fare il proprio dovere sia nella propria casa che nella società. Il marito deve rappresentare tutta la famiglia e garantirle dignità e sicurezza, in caso contrario provoca solo vergogna: Cf. Mencio, Libro IV,
B, 31: “(Mencio disse): – Un tale di Ch’i aveva la moglie e una concubina e viveva con loro nella sua
casa. Quando il marito usciva, mai tornava che non fosse sazio di vino e carne. La moglie gli chiedeva con chi avesse bevuto e mangiato ed egli non la finiva di nominare persone ricche ed altolocate. La moglie lo riferì alla concubina. ‘Quando nostro marito esce – disse – immancabilmente torna
satollo di vino e carne e, allorché gli domando con chi ha bevuto e mangiato, non fa che nominare
uomini ricchi e nobili. Eppure nessuna di queste persone distinte è mai venuta in casa. Voglio spiare dove va nostro marito’. Si alzò di buon’ora e fece in modo di seguire il marito dovunque andasse:
in tutta la città non vi fu nessuno che si fermasse a discorrere con lui. Alla fine mendicò gli avanzi da
uno che stava offrendo il sacrificio fra le tombe del sobborgo orientale: poi, non soddisfatto, si guardò intorno ed andò dagli altri: quello era il modo con cui si satollava. Rientrata in casa, la moglie raccontò tutto alla concubina e disse: ‘Nostro marito, colui che ammiravamo e rappresentava tutta la nostra vita, ora si è ridotto a questo!’ Insieme alla concubina, imprecò contro il marito e pianse nel cortile interno. Il marito, ignaro di ciò, tornò da fuori tutto trionfante, dandosi importanza davanti alla moglie e alla concubina.– Dal punto di vista del saggio – (commentò Mencio) – sono pochi i mezzi con
i quali gli uomini cercano nobiltà, ricchezza, vantaggi e avanzamenti, dei quali la loro moglie e concubina non abbiano a vergognarsi e piangere insieme”.
8 Cfr. Mencio, Libro VII, B. La distinzione del lavoro dell’uomo e della donna considerato come
SAGGI
Segni e comprensione 65
43
Segni e comprensione 65
44
20-05-2008
17:24
Pagina 44
Decreto del Cielo dovuto al funzionamento del corpo è evidenziata dall’ideogramma “uomo” (Nan)
e “donna” (Nu). “Nan” è composto di due ideogrammi, il campo e la forza. Ciò significa che l’uomo
lavora nel campo e la sua zona di competenza è fuori dalla casa, come indica l’ideogramma del
tramonto del il sole, essendo responsabile della sicurezza del sostentamento della famiglia. Invece Nu (donna) indica una figura seduta sul tappeto con le mani abbandonate sulle ginocchia, sempre pronta a servire in ogni momento della giornata. La sua zona è dentro la casa come significato dall’ideogramma cinese dell’essere rinchiuso in casa; il suo compito e dovere consiste nel lavorare in casa, nel prendersi cura ed educare i figli.
9 Cfr. Lunyu (Dialoghi), cap. 3, 19: “Il Duca Ting (di Lu) domandò in che modo dovesse il principe guidare i ministri e i ministri servire il principe. – Il principe guidi i ministri con il Li (norma celeste) – rispose Confucio – e i ministri servano il principe con la lealtà”; Hsun-Tzu, cap 9.
10 Cfr. Mencio, Libro III, A, 4: “L’uomo ha una natura morale ma, quando è sazio di cibo e caldo
nei vestiti si adagia nell’ozio e non si istruisce: allora diviene quasi simile alle bestie. Il santo (shun)
si preoccupò di ciò e nominò Hsieh ministero dell’istruzione, affinché fossero insegnate le relazione
umane: tra padre e figlio c’è l’affetto, tra principe e suddito la giustizia, tra moglie e marito la distinzione (dei compiti), tra anziani e giovani l’ordine (secondo l’età), tra amico e amico la fedeltà”.
11 Cfr. Lunyu (Dialoghi), cap. 12, 11; cap. 13, 3.
12 Cfr. Yijing (Classico dei Mutamenti), Libro I, Sezione seconda (cap. 37): “Quando il padre è
davvero padre e il figlio è figlio, quando il fratello maggiore funge veramente da fratello maggiore
e il minore da fratello minore, quando il marito è davvero marito e la moglie moglie, allora nella casa regna l’ordine. Se nella casata regna l’ordine, allora tutti i rapporti sociali dell’umanità rientrano
nell’ordine”.
13 Cfr. Liji (memorie sui Riti), cap. 11, 11.
14 Le parole “Wei” (esterno) e “Ne” (interno) nell’ideogramma cinese indicano l’attività di ciascun sesso. “Ne”, come detto sopra, indica una persona (Ren) che sta fra due mura e un tetto e,
quindi, nello spazio chiuso (casa). Invece Wei viene formato dal carattere “Xi” che indica il sole al
tramonto, e “Ren” (uomo), quindi una persona che sta nello spazio aperto ed esterno. La determinazione dei ruoli della donna e dell’uomo nello spazio si trova anche nel Yijing (Classico dei Mutamenti): “Il fondamento della casata sono i rapporti tra marito e moglie, il Legame che tiene unita
la casata risiede nella fedeltà e nella perseveranza della donna. Il suo posto è all’interno, il posto
del marito è all’esterno” (Cfr. Yijing, Libro I, Sezione seconda, La Casata, cap. 37).
15 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), cap. 12, 39.
16 Cfr. Ibidem, cap. 12, 11.
17 Ci sono anche numeri distinti per quanto riguarda la fecondità: il numero “sette (7)” viene applicato alla donna, invece l’“otto (8)” all’uomo. Ad esempio, a sette anni la femmina comincia a sviluppare il corpo come una donna con il completamento dei denti, ma arriva alla maturità sessuale
verso i quattordici (il doppio di sette); giunge al rigoglio verso ventuno anni (tre volte sette), mentre l’esaurimento delle forze inizia a quarantanove (sette per sette). Invece il maschio completa la
dentatura a otto anni, raggiunge la maturità sessuale verso i sedici (doppio di otto), il pieno vigore verso i ventiquattro (tre volte otto); intorno ai sessantaquattro (otto per otto) perde la capacita di
procreare. Per questo motivo nell’ambito confuciano ancor oggi è usanza che la donna si sposi
con un uomo che ha tre anni di più per l’ideale procreazione.
18 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), cap. 12, 48.
19 Cfr. Hsun-Tzu, cap. 12, 3.
20 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), cap. 11, 16.
21 Cfr. Yijing (Classico dei Mutamenti), Libro III, Sezione prima, Il Ristagno (cap.12).
22 Bettina Birge sostiene che Zhu-Xi, nonostante la distinzione rigida di ruoli tra maschio e femmina seconda le specifiche attività, ha contribuito in modo notevole al valore della cultura della famiglia, nella quale viene evidenziata in modo concreto l’importanza del ruolo educativo della donna. Cfr. B. BIRGE, Chu-Hsu and Women’s Education (Neo-Confucian Education), The Formative
Stage, University of California Press, p. 357.
23 La violenza subita dalla donna sia a livello fisico che mentale è ancora oggi molto frequente. Ad esempio in Cina, uno studio del luglio 2001 (All-China Women’s Federation, in: www.onlinewomeninpolitics.org/ womensit/ china.pdf.) denuncia l’enorme diffusione delle violenze fisiche contro le donne. La legge cinese punisce il reato, ma non esiste alcuna legge specifica per la violenza domestica, che ricorre nel 30% delle famiglie, inflitta nell’80% dei casi alle mogli da parte dei
20-05-2008
17:24
Pagina 45
mariti: una donna su quattro è vittima di tale abuso! La situazione in Vietnam risulta molto simile.
In base alla ricerca della Central Women Union (2001) nella città di Thai Binh, Lang Son e Tien
Giang su un campione di donne di età compresa tra i 24 e i 50 anni, risulta che il 52% delle vittime della violenza domestica accetta di essere percossa dal marito se non obbedisce ai suoi ordini (Cfr. L. DI RICO - F. QUARTIERI, Essere Donna in Asia, cit., pp. 41-42, 156-157).
24 Cfr. ZhuXi, Insegnamento minore (Xiao Xue), cap. 4, 67.
25 A causa dell’importanza del ruolo del padre le relazioni di parentela valgono solo in linea paterna diretta, non vengono quindi considerate quelle in linea materna. I parenti da parte della madre vengono chiamati “parenti esterni” per il fatto che sono lontani dalla trasmissione del sangue
(vita) e dall’albero genealogico della famiglia; quelli da parte del padre vengono definiti “parenti interni” o “parenti intimi”.
26 Cfr. ZHUXI, Insegnamento dei riti familiari di Zhu Xi, Libro II, cap. 2.
27 Cfr. Ibidem, Libro II, cap. 1.
28 Cfr. Ibidem, Libro II, cap. 2.
29 Il Shijing dice che le uniche cose che la donna deve conservare sono la castità e la fedeltà.
Una volta perse, non c’è rimedio. Questo non significa che all’uomo viene giustificato l’abuso sessuale nei confronti di altre donne ma a lui, grazie al merito ottenuto con le buone azioni, le azioni
cattive (per esempio l’adulterio o la perdita della castità) possono essere cancellate. (Cf. Shijing,
Sezione 1, cap. 9).
30 ZHU XI, Insegnamento minore (Xiao Xue), cap. 44.
31 Cfr. R. SOHAE, Insegnamento Interno (1465), trad. Yoon Wanjong, cap. 2 (Pietà filiale), Iyolhwadang, Seul 1984, p. 51.
32 Cfr. ZHU XI, Insegnamento minore (Xiao Xue), cap. 43.
33 Cfr. R. SOHAE, op.cit., p. 57.
34 L’unione tra marito e moglie viene considerata come un evento sacro voluto dal Cielo (Realtà ultima) per cui non può essere sciolta da una decisione umana. Nonostante ciò, non esistendo l’idea di un Dio personale che stabilisca comandamenti e precetti da osservare, c’è una certa
tendenza al ripudio della moglie, consentito in alcuni casi. Le sette condizioni per il ripudio da parte del marito sono le seguenti: 1) la moglie non dà al marito un figlio maschio; 2) la moglie non rispetta i suoceri e non pratica il suo dovere di moglie; 3) nel caso dell’adulterio; 4) nel caso in cui
la donna parla troppo e crea litigi; 5) nel caso provi gelosia per le concubine provocando disarmonia; 6) nel caso di malattia grave che impedisca di praticare il culto degli antenati; 7) nel caso che
disonori la famiglia rubando le cose del marito e degli altri. Invece il ripudio è cancellato da tre condizioni: 1) nel caso sia già stato compiuto il culto del lutto triennale per i suoceri deceduti; 2) nel
caso che si passi insieme con la moglie un momento difficile nella vita economica e che si siano
condivisi sofferenza e dolore per portare avanti la famiglia, e successivamente la situazione sia migliorata in tutti in sensi, specialmente in quello economico; 3) nel caso in cui la moglie ripudiata
non avesse una casa dove ritornare (per esempio le fossero già morti i genitori).
35 Cfr. ZHU XI, Insegnamento minore (Xiao Xue), cap. 4 (Marito e moglie), pp. 83-84.
36 Cfr. Xiajing (Classico della Pietà filiale), cap. 9: “Tra le nature create dal Cielo e della Terra,
quella umana è la più nobile; tra le azione umane la più grande è l’obbedienza. Nell’obbedienza
nulla è più grande della reverenza per il padre, paragonabile alla Via (Tao) del Cielo”.
37 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), cap.12, 31: “Zeng Zi disse: ‘Un figlio obbediente deve mantenere gli anziani genitori in questo modo: rallegrare il loro cuore, non fare nulla contro la loro volontà,
accontentare il loro occhio e il loro orecchio, sistemare bene la loro camera da letto e servirli con
obbedienza dando loro da mangiare solo pietanze che piacciono loro. Il figlio deve essere obbediente verso i genitori per tutta la vita. Ciò vuol dire che bisogna amare e rispettare anche tutti coloro che i genitori amano e rispettano’”.
38 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), cap. 24.
39 Va considerato il fatto che l’origine del culto degli antenati risale alla credenza nella forza
ombrosa (Yin): essa veniva ritenuta estesa al regno della morte dove gli spiriti dei defunti risiedono con le stesse esigenze che avevano nel mondo, mondo della luce (Yang). Questi bisogni potevano essere soddisfatti mediante un apposito rituale celebrato dai discendenti maschi, in possesso di energie positive e vitali, secondo l’antica cosmologia cinese. Se tale rito veniva interrotto, le
anime dei defunti erano insoddisfatte e trascurate e si trasformavano in spiriti maligni che portavano male a tutti i membri della famiglia.
SAGGI
Segni e comprensione 65
45
Segni e comprensione 65
46
20-05-2008
17:24
Pagina 46
40 Questa visione si concretizzò nella pratica della fasciatura dei piedi (iniziata in Cina intorno
al 900 d.C.) che impedisce la loro crescita. Tale azione rende difficile l’alzarsi in piedi, con conseguente fragilità di tutto il corpo. Perciò la donna era costretto a rimanere in casa, isolata totalmente dal mondo esterno. Dall’altra parte, i piccoli piedi erano considerati fonte di una forte attrazione
erotica. L’idea della donna, come bambola ed oggetto sessuale, si trova ancora oggi nella società
giapponese e coreana dove la bellezza prevale su ogni cosa, sempre sotto l’influsso dello shinto
e confucianesimo. Una donna intelligente non viene valutata per la sua personalità e attività intellettuale, ma soltanto se accompagnata da un bell’aspetto, un bel vestito, un bel trucco, dall’eleganza e dal sorriso dolce.
41 La donna viene paragonata alla gallina. Lo Shujing (Classico dei Documenti) cita una leggenda degli antichi secondo la quale di solito la gallina non dovrebbe cantare al mattino presto,
perché se avviene il contrario quella casa ben presto andrà in rovina (Cfr. Shujing, Parte 4, cap.
4,2). È una mentalità che si riscontra ancora oggi in modo speciale nel campo del commercio: se
il primo cliente nel mattino è una donna, ciò viene considerato dal negoziante come indizio di sfortuna che influenzerà tutta la giornata.
42 Cfr. CHAO DAJIA, Nújiè (Precetti per le donne), cap. 1.
43 Nel caso della Corea del sud, sotto l’influsso della mentalità confuciana, sia per la donna che
per l’uomo l’educazione era considerata molto importante e ciò si risente ancora oggi: il tasso di
alfabetizzazione femminile è pari al 96%: soprattutto tra le nuove generazioni le donne sono altamente istruite, molte di loro sono forza lavorativa, anche se si può riscontrare soltanto il 4% tra il
personale amministrativo e dirigenziale (Cf. ONU, Le Donne nel mondo 2000, Tendenze e statistiche, 2003).
44 Cfr. Mencio, Libro VII, A, 15: “Mencio disse: – Ciò di cui l’uomo è capace senza averlo appreso è istinto, ciò che l’uomo sa senza averlo meditato è intuito. Non v’è bambino che si porta in
braccio che non sappia amare i suoi genitori; cresciuto in età, non v’è nessuno che non sappia rispettare i fratelli maggiori. Amare i genitori è carità, rispettare i più anziani giustizia. Anche se una
sola persona (li attua, questi due sentimenti) si diffondono nel mondo”.
45 Cfr. Zhongyong (Giusto Mezzo), cap. 1, 10, 16.
46 Cfr. ZHU XI, Interpretazione della Raccolta del Lunyu, 54.
47 Lunyu (Dialoghi), cap 12, 1: “Dominare se stessi e ripristinare i riti (Li) è carità”; Mencio, Libro VII, A, 4: “Mencio dice: – Tutte cio sottolinea nel canone Zhongyon che dove lui viveva non esistevano santi che davano credito alla necessità di formare la norma celeste (Li) da seguire per il
popolo, cosicché era necessario adoperare Li della passata dinastia Chou” (Cfr. Zhongyong, cap
27; cap. 28).
48 Cfr. Lunyu (Dialoghi), cap 17, 13: “Confucio dice che: – Gli ipocriti da villaggio sono ladri di
virtù”.
49 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), Libro I, cap. 1,8: “Rispettare i riti (Li) significa essere modesti e rispettare gli altri. Anche un venditore ambulante ha delle qualità e deve essere rispettato, per non
parlare degli uomini ricchi e nobili. Chi sa rispettare i riti, pur essendo ricco e nobile, non cade nell’arroganza né nella lussuria. Chi sa rispettare i riti, sebbene povero e umile, non ha nulla da temere”.
50 Cfr. Liji (Memorie sui Riti) Libro I, cap. 1,1: “Nel complesso sistema dei riti (Li) si dice: ‘Non
si deve mancare di rispetto. Bisogna comportarsi in maniera solenne come se si stesse riflettendo. Nel parlare occorre usare parole ponderate. Solo così si riesce a dominare il popolo’”.
51 Cfr. Lunyu le cose sono complete in noi. Esaminarsi e trovarsi veritieri (sul bene e sul male): non v’è gioia più grande. Agire sforzandosi d’essere benevoli: non si sarà mai più vicini alla ricerca della Carità (Ren)».
52 La parola Ren è composta da “due uomini”, che indicano “uomo nella società”. Cfr. Shuowen Jietzu (Spiegazione delle parole e analisi dei caratteri) di Xushen, vol 8, voce “Ren (uomo)”.
53 Cfr. Yijing, Libro Terzo (Commenti, sezione seconda, cap. 31, La Domanda di matrimonio:
“Dopo Cielo e Terra vi sono le singole cose. Dopo la comparsa delle singole cose vi sono i due
sessi. Dopo di che vi sono il maschile e il femminile vi è il rapporto tra marito e moglie. Dopo di
che vi è il rapporto tra padre e figlio. Dopo il rapporto tra padre e figlio vi è il rapporto tra principe
e servitore […]. Dopo il rapporto tra alto e basso possono intervenire le regole dell’ordine e del diritto”.
54 Cfr. Mencio, Libro VII, A, 33: “Tien, figlio del re, interrogò dicendo: – Un letterato quale com-
20-05-2008
17:24
Pagina 47
pito assolve? – Rende più elevati gli intenti-rispose Mencio – Che significa: rende più elevati gli intenti? – (rivolgerli) alla carità, alla giustizia e nulla altro. Mettere a morte un solo innocente non è
carità, prendere ciò che non spetta non è giustizia. Dove permanere? Nella carità. Quale la strada? La giustizia. Quando (la gente) permane nella carità e percorre la via della giustizia, ha assolto il compito d’un grande uomo”.
55 Cfr. Ivi, Libro IV, A, 10: “Non si possono dare consigli a colui che si fa danno, non si possono offrire azioni a colui che abbandona […] la carità è la tranquilla dimora dell’uomo, la giustizia è
la retta via dell’uomo. Lasciare deserta la tranquilla dimora e non abitarvi, abbandonare la retta via
e non percorrerla, che pietà!”
56 Confucio ha avuto chiaramente coscienza del fatto che la qualità divina (Tian ming) si fa presente nel suo essere sotto forma di natura virtuosa. Per Confucio l’amore è virtù per eccellenza.
Cfr. Lunyu (Dialoghi), cap.7, 22: “Il Cielo generò in me la virtù. Che mi può fare Huang Tui?”
57 Cfr. Zhongyong (Giusto Mezzo), cap. 22.
58 Cfr. Ivi, cap. 20: “La sincerità è la Via del Cielo, tendere alla sincerità la Via dell’uomo”.
59 Cfr. Ivi, Zhongyong, cap. 25: “Sincerità è il principio e la fine degli esseri; senza la sincerità
non ci sarebbero gli esseri”.
60 Yijing al posto di “uomo santo” usa il termine “uomo grande”; cfr. Yijing, Libro I, Sezione prima, Il Creativo (cap. 1).
61 Cfr. R. SOHAE, op.cit, pp. 16, 17 e 43.
62 Cfr. ZHAN SHICHUANG, Taoismo e donna, Shanghai Guji Chubanshe (Casa editrice Testi Antichi di Shanghai).
63 Vivere in armonia e pace con gli animali, la natura, e tra gli uomini nella società matriarcale
viene riportato da Chuang-Tzu (cfr. Chuang-Tzu, cap. 29): “Al tempo di Sheng Nung, quando giacevano si riposavano e quando si alzavano s’affaccendavano, conoscevano la madre, ma non il
padre, vivevano insieme ai cervi e ai daini, lavoravano la terra per mangiare, tessevano per vestirsi non covavano malanimo gli uni verso gli altri. Questa era la vetta della virtù suprema”.
64 L’amore tra i genitori e figli, essendo il fondamento della volontà di vita, non si limita alla famiglia, ma si allarga fino alla dimensione del cosmo. Quando uno tratta con rispetto i propri genitori, perverrà di fatto a trattare con rispetto tutti i genitori del mondo: nel mio amore entrano tutti.
Facendo così, il mio corpo non è diverso dal corpo del mio genitore e dei genitori altrui: il corpo
dei sudditi e del re, come quello dell’uomo e della donna, viene identificato in “uno”, così perfino
quello degli animali, uccelli, piante, erbe, fiumi ecc. Questa visione della vita che permette di comprendere la natura unitaria del mondo per cui non esiste più distinzione tra io-mio e tu-tuo realizza la perfetta armonia. Cfr. Opere Complete di Wang Shou Ren, vol. 26.
65 Cfr. Liji (Memorie sui Riti), cap. 9, 2: “Quando si segue la Grande Via, tutto ciò che è sotto il
Cielo è di pubblico dominio, si scelgono i virtuosi, si promuovano i più capaci, si apprezza la buona fede, e regna l’armonia ovunque. La gente non rispetta solo i propri genitori, non ama solo i propri figli, ma tutti gli anziani passano una vecchiaia felice, tutti gli adulti possono trovare un impegno adatto, e tutti i bambini possono svilupparsi a pieno… Per tale motivo, non nascono nel popolo inconfessabili intenzioni, non accadono rapine, furti, disordini, ribellioni. Perciò si può anche tenere aperto il cancello. Questo è ciò che si dice Grande Pace”.
66 Quattro libri per le donne composti nella dinastia Ming (1607), come segue: 1) Insegnamento interiore; 2) Norme per le donne; 3) Precetti per le donne; 4) Dialoghi (Lun-Yu) per le donne.
67 L’ordine del mondo esiste grazie alla contrapposizione delle cose visibili che rendono possibile una suddivisione in specie e categorie. Cfr. Yijing (Classico dei Mutamenti), Libro I, Sezione
Seconda, La Contrapposizione (cap. 38).
68 Cfr. Yijing (Classico dei Mutamenti), Libro III (I Commenti), Sezione Seconda, La Contrapposizione (cap. 38): “Cielo e terra sono contrapposti, ma la loro azione è comune. Uomo e donna
sono contrapposti, ma tendono all’unione. Tutti gli esseri sono contrapposti l’uno all’altro, e così le
loro azioni si dispongono in ordine. Grande invero è l’effetto del tempo della contrapposizione”.
69 Cfr. Zhongyong (Giusto Mezzo), cap. 30.
70 Cfr. Ivi, cap. 22.
71 Cfr. Ivi, cap. 27.
72 Cfr. Daxue (Grande Studio), Introduzione.
73 GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Fides et Ratio (14 settembre 1998), Introduzione: “Conosci te
stesso”.
SAGGI
Segni e comprensione 65
47
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 48
ATOMI VIVENTI, MOLECOLE ORGANICHE,
MONADOLOGIA. EREDITÀ BRUNIANE NEL DIBATTITO
SULLA «MATERIA ANIMATA» NEL XIX SECOLO
di Francesca Puccini
48
Non è facile stabilire con sicurezza quando la riflessione filosofica sulla materia vivente, da semplice affermazione della sua diversità e superiorità rispetto alla materia bruta o inanimata, abbia iniziato a seguire percorsi ‘specialistici’ e ad
orientare le ricerche dei filosofi della natura. È certamente noto – ed esistono importanti studi in proposito1 – come in questo processo abbia giocato un ruolo fondamentale l’interpretazione che dei processi naturali ha offerto, a partire dalla metà del Settecento, il vitalismo, in aperto dissenso con le spiegazioni improntate al
modello meccanicista, che aveva dominato nelle scienze naturali per più di un secolo. L’antica dicotomia tra anima e corpo, tra una sostanza spirituale ed una sostanza corporea irriducibili l’una all’altra, appare sempre più inadeguata a spiegare una serie di eventi cruciali nel mondo degli esseri viventi, quali la generazione,
la nutrizione e l’accrescimento. Senza entrare nei dettagli del complesso dibattito
settecentesco intorno al problema della generazione, un problema di cui in questa sede non sarebbe possibile fornire neppure un’adeguata presentazione, ci limiteremo ad indicare alcuni snodi teorici fondamentali, sui quali si fondano i primi
studi concernenti la costituzione della materia organica, allo scopo di mostrare come in questo dibattito finisca per entrare in gioco la storia delle idee.
1. «La natura non fa salti». Germi e molecole organiche
Un’analisi dei rapporti tra la concezione atomistica della materia e le scienze
della vita in età moderna non può prescindere da una considerazione del ruolo
svolto dalla contemporanea riflessione filosofica sul continuum, estesa all’ambito
biologico. Il principio filosofico della continuità tra tutti gli esseri, così come viene
formulato da Leibniz – «la natura non fa salti»2 – e accolto da quasi tutti i naturalisti della seconda metà del XVIII secolo, è interpretato come la caratteristica peculiare di ogni formazione organica. Nelle Considérations sur les corps organisés
(1762)3 il ginevrino Charles Bonnet (1720-1793) mostra come il problema della
generazione degli esseri organizzati possa essere ricondotto a leggi universali e
come una visione corpuscolare della materia sia in grado di spiegarne il funzionamento. La filosofia si è ormai resa conto dell’impossibilità di spiegare la formazione e l’accrescimento degli organismi partendo da presupposti meccanicisti. Non
solo: «fortunatamente»4, essa ha immaginato che gli esseri organizzati siano a loro volta formati da altri esseri della stessa natura, ma molto più piccoli. I germi o
corpuscoli organici, princìpi della materia vivente, sono anche i depositari della vita di ogni organismo; dotati di una propria individualità, essi racchiudono la forma
20-05-2008
17:24
Pagina 49
di ogni futuro individuo adulto, il cui sviluppo avverrà gradualmente. La generazione consiste dunque, secondo la teoria dell’inscatolamento (emboîtement), nella
quale Bonnet sembra riconoscersi, in un processo di progressiva maturazione dei
germi, i quali, racchiusi gli uni dentro gli altri, possono raggiungere dimensioni infinitesimali, invisibili anche agli strumenti ottici più sofisticati5. «La ragione considera con piacere il seme di una pianta o l’uovo di un animale come un piccolo
mondo popolato da una moltitudine di Esseri organizzati, destinati a succedersi
per tutti i secoli a venire»6. Nella materia organica si riproduce, su scala infinitamente ridotta, la straordinaria varietà di forme del cosmo, popolato da infiniti mondi, ognuno dei quali dotato di una specifica varietà di esseri viventi. Tale ipotesi,
pur mettendo alla prova la nostra immaginazione, non spaventa la ragione.
L’ipotesi dei germi sembra rispondere in maniera soddisfacente all’esigenza di trovare una ragion sufficiente, ovvero una causa prossima ed immediata, per ciascuno degli stati attraversati da un corpo durante il suo sviluppo. Ma
essa offre non pochi spunti di riflessione al dibattito naturalistico contemporaneo, alle prese con il difficile problema di stabilire quale compito attribuire ai
germi nella riproduzione e nello sviluppo. I corpuscoli animati sono tutti uguali o differiscono tra loro? Ed in che misura le loro eventuali differenze concorrono a generare l’immensa varietà di forme che si osserva in natura? Bonnet
ritiene che sia ragionevole supporre che i germi appartenenti ad una stessa
specie differiscano tra loro nella stessa misura in cui differiscono gli individui
di quella specie, così come li vediamo con i nostri occhi. La varietà apparentemente inesauribile dei caratteri degli individui dipende, probabilmente, dalle
combinazioni tra i germi. Pertanto, è probabile che a fondamento di questa
stessa varietà si trovi una infinita gradazione, con una valenza qualitativa ma
anche quantitativa. In tal senso deve essere intesa quella «legge della continuità» che costituisce il filo conduttore delle ricerche di molti naturalisti del
Settecento; nel caso di Bonnet, ciò è verificabile tanto nella generazione,
quanto nel processo di accrescimento dei viventi7.
Nell’opera del 1762 Bonnet si richiama più volte a quello che definisce il
«nuovo sistema» introdotto dal grande naturalista francese George-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788), il sistema delle molecole organiche. Secondo
Buffon una stessa materia vivente, composta da particelle organiche, indistruttibili e sempre attive, concorrerebbe a formare i corpi dei vegetali e degli animali8. Le molecole organiche rappresentano dunque i materiali destinati alla
costruzione dei diversi corpi animati. Ma, come nota Bonnet, questo sistema
necessita, per poter funzionare, dell’azione di una mano invisibile, di una «forza segreta» diversa dalla forza meccanica, che penetra nelle masse organiche
dando il via ai processi di nutrizione ed accrescimento. La principale obiezione che si può muovere a questa teoria della generazione (la più probabile, agli
occhi dello studioso) è che essa sembra poggiare su presupposti difficilmente
verificabili. È assurdo supporre che la suddivisione del continuum possa procedere all’infinito: «La divisibilità della materia all’infinito, in virtù della quale si
vorrebbe sostenere questa teoria dell’inscatolamento, è una verità geometrica,
e un errore fisico»9. In realtà, ribadisce Bonnet, noi ignoriamo del tutto quali
siano i termini estremi della divisione della materia. Embriologia e metafisica
SAGGI
Segni e comprensione 65
49
Segni e comprensione 65
50
20-05-2008
17:24
Pagina 50
sembrano qui strettamente alleate nella messa a punto di una spiegazione dei
misteri del vivente che possa apparire accettabile alla ragione illuministica.
Tale soluzione al problema della costituzione ultima della materia organica
sembra poi offrire a Bonnet ulteriori garanzie, questa volta sul piano escatologico. Grazie ai germi, unica parte indistruttibile degli esseri organizzati (compreso l’uomo), è fatta salva la continuità della vita individuale degli organismi nella
nuova condizione in cui si troveranno, in un lontano futuro, la Terra e tutto l’universo: «Se si vuole finalmente ammettere quest’unica supposizione, si otterrà il
fondamento fisico di uno Stato futuro riservato agli Animali. Il piccolo Corpo organico e indistruttibile [il germe], vera sede dell’Anima e collocato, fin dall’inizio,
nel Corpo grossolano e destinato al dissolvimento, conserverà l’Animale e la
Personalità dell’Animale. Questo piccolo Corpo organico può contenere una
moltitudine di organi che non sono affatto destinati a svilupparsi nello stato presente del nostro Globo, e che potranno svilupparsi allorché esso avrà subìto
questa nuova rivoluzione, alla quale sembra essere chiamato», si legge nella
Palingénésie philosophique (1770)10. I legami che tengono uniti i germi ai corpi
degli esseri organizzati sono destinati a dissolversi con la morte dell’animale;
tuttavia, per Bonnet ciò non implica alcuna diminuzione delle immani risorse di
cui dispone la Natura. «Nulla va perduto negli immensi Magazzini della Natura:
tutto qui trova il suo impiego, il suo scopo ed il miglior scopo possibile»11. La materia organica, dunque, in nessun caso si distrugge, pur mutando continuamente la disposizione e la combinazione reciproca dei propri «atomi viventi»12.
La ricerca delle prove dell’esistenza di una continuità tra le forme degli esseri organizzati, uniformemente distribuite lungo una scala, si estende in due
opposte direzioni: nella sfera delle grandezze smisurate, su scala planetaria,
essa porta a riconoscere che l’universo non può che essere infinito e popolato da un numero infinito di mondi abitati; nella sfera delle unità microscopiche,
ha come conseguenza che tutta la materia sia composta da particelle dotate di
una vita e di una personalità indipendenti, la cui struttura interna rimane però
ancora in gran parte misteriosa. Le prime osservazioni condotte con l’ausilio
del microscopio inducono i naturalisti a porsi un quesito, le cui implicazioni vanno molto al di là dell’indagine sui meccanismi che regolano la generazione dei
viventi. Esiste un limite, in natura, all’infinitamente piccolo?
Le risposte a questa domanda, pur nella fantasiosa spregiudicatezza che talvolta le accompagna e che genera aspri conflitti tra le interpretazioni, hanno come punto di partenza comune la constatazione che la materia è «tutta animata».
Come Bonnet, anche Jean-Baptiste Robinet (1735-1820) ritiene che non si possa porre alcun limite alla potenza della natura, nella produzione di specie e forme animali e vegetali; imporre dei limiti alla potenza della natura equivarrebbe a
sminuire l’opera del Creatore. E come Leibniz13 e Bonnet, anche il philosophe
francese parla di «germi», curiosamente presentati come il corrispettivo biologico degli elementi che formano il continuum matematico. Nell’analisi dei tre stadi
attraversati dal corpuscolo organico – come germe preesistente, come germe fecondato o feto, come germe sviluppato o corpo organizzato – Robinet pone le
basi della propria «Fisica dello Spirito», nell’ambito della quale devono essere ricondotte tutte le osservazioni, le ricerche e le meditazioni che si possono fare
20-05-2008
17:24
Pagina 51
sull’unione tra lo spirito ed il corpo14. Nel quarto tomo della sua opera principale,
De la Nature (1761-1768), Robinet afferma perentoriamente l’eternità ed indistruttibilità dei germi: «Tutta la materia è organica, vivente, animale. Tutta la materia è germe, ma tutti i germi hanno delle differenze individuali; ciò significa che
la loro vita, il loro organismo, la loro animalità possiedono delle sfumature che distinguono ciascuno di essi da tutti gli altri. Non esistono altri elementi che i germi; pertanto tutti gli elementi sono eterogenei. Questi elementi non sono Esseri
semplici; la semplicità non è un attributo compatibile con la materia. Gli elementi sono composti da altri elementi; o i germi sono composti da altri germi. Non c’è
alcuna combinazione naturale, né artificiale, che possa portare un elemento, un
germe, all’ultimo grado di divisione possibile. I germi, in quanto germi, sono indistruttibili […]; allo stato di germe non danno luogo ad alcuna divisione. Nella risoluzione di un germe sviluppato in una molteplicità di altri germi, non v’è materia che muoia. Essa resta tutta viva; muta solo quanto alla forma ed alle combinazioni. I germi, considerati come masse o forme, passano. Considerati come
materia organica e vivente, non passano. Ciò significa che non c’è distruzione in
Natura; la Natura è la somma successiva dei fenomeni che risultano dallo sviluppo dei germi […]. La serie [dei germi] è inesauribile, sia risalendo nel passato,
che progredendo nel futuro»15. L’origine del dinamismo di cui danno prova gli esseri viventi – della loro capacità di nutrirsi, accrescersi e muoversi – va dunque
collocata, secondo Robinet, all’interno di questo minuscolo serbatoio di forza,
«un Essere ripiegato su se stesso, contratto, ridotto al limite minimo della propria
esistenza»16. Ogni manifestazione della potenza della natura proviene dai germi,
tra i quali esiste una varietà analoga a quella che si riscontra tra gli esseri perfettamente sviluppati; del resto, dalla supposizione che gli esseri viventi si dispongano lungo una scala continua, infinitamente graduata, segue necessariamente
che non possono esservi due sole creature identiche tra loro17.
Ma la fedeltà mostrata da Robinet al principio di continuità, applicato ai viventi, non si ferma certo qui. Questo principio metafisico, spinto fino alle estreme conseguenze, si trasforma nelle sue mani in un argomento decisivo a favore della continuità tra organico e inorganico, da una parte, e di un panlogismo di ascendenza leibniziana, dall’altra: «Per quanto mi riguarda, preferirei
attribuire perfino l’intelligenza al più piccolo atomo materiale, purché in grado
e qualità convenienti, piuttosto che rifiutare l’organizzazione ai fossili, o farne
degli Esseri isolati privi d’ogni legame con gli altri»18. La materia è viva e animata, in essa nulla si distrugge, ma tutto muta senza sosta, poiché non esiste
una sola particella di materia che non sia capace di una qualche forma di sensibilità e – conseguentemente – di intelligenza. Con l’opera di Robinet (i cui interessi, peraltro, non si limitano alle sole scienze della vita) si fa strada per la
prima volta in tutta la sua evidenza, ancora in pieno XVIII secolo, l’idea di una
sorta di ‘decentramento’ della sede dell’anima dall’organo del pensiero alle
particelle che formano la materia del corpo organico; un’idea, questa, che conoscerà una certa fortuna nel corso del secolo successivo19.
SAGGI
Segni e comprensione 65
51
Segni e comprensione 65
20-05-2008
2. Particelle d’anima
52
17:24
Pagina 52
È soltanto in epoca romantica che la teoria dell’animazione della materia – la
materia di cui sono fatti i corpi organici, ma, sotto certi aspetti, perfino quella che
forma i corpi inorganici – da semplice bizzarria di uno spirito indipendente ma
scientificamente isolato 20, si fa seria ipotesi di lavoro, grazie agli studi, sviluppatisi soprattutto in Germania, dei Naturphilosophen 21. Nella seconda metà dell’Ottocento, la reazione contro l’idealismo da parte della cultura positivista è accompagnata dal rifiuto dei presupposti teorici su cui si fondava l’indagine sul vivente
della scienza romantica. Ciò nonostante, la scienza del XIX secolo torna a confrontarsi con la questione del rapporto anima-corpo – o, se vogliamo, spirito-materia – da un punto di vista corpuscolare, vale a dire nei termini del cosiddetto
«atomismo psichico». Abbandonata ormai l’ipotesi che faceva dei corpuscoli organici una fonte inesauribile di forme, il problema teorico di fondo diviene adesso quello di comprendere il rapporto tra il corpo organico e l’attività psichica degli esseri organizzati. Si tratta, in altri termini, di individuare il sostrato fisico delle facoltà dell’anima. In contemporanea con la nascita della biologia cellulare, e
mentre comincia a farsi aspra la discussione intorno alla nuova teoria evoluzionistica, non sono pochi gli studiosi che pongono negli atomi il sostrato materiale
delle sensazioni, della memoria e dell’intelligenza 22.
Le scoperte della biologia ottocentesca, che a molti contemporanei appaiono
rivoluzionarie, rappresentano uno stimolo alla formulazione di nuove ipotesi, anche per coloro che non fanno parte della ristretta cerchia degli scienziati di professione. Il campo di indagine prediletto da biologi e filosofi della natura è ora notevolmente più limitato, rispetto a quello dei precursori settecenteschi. Ormai non
si tratta più di assecondare l’impulso ad una classificazione universale degli esseri organizzati, proprio del secolo precedente; la diatriba tra preformisti ed epigenisti è definitivamente superata, così come la loro terminologia; tanto meno si
ricercano gli effetti di una forza segreta, di natura spirituale, che possa rendere
ragione del funzionamento degli organismi. Il vivente è scomposto ed analizzato
come un qualsiasi altro oggetto di studio della chimica o della fisica, e le questioni sollevate da questo tipo di indagine sono indicative del mutamento di pensiero che è intervenuto. In che modo, ci si chiede, ciò che non cade sotto la percezione dei nostri sensi (il minimo materiale) può dar luogo alle principali funzioni
psichiche degli esseri organizzati, una volta ammesso che tali funzioni non potrebbero in alcun modo esplicarsi in assenza di un organo specifico?
La risposta, secondo uno storico della filosofia, Carl Sigmund Barach (18341885), attivo nella seconda metà del secolo all’università di Innsbruck, si trova negli «atomi organici», considerati alla stregua di esseri viventi. Pur non essendo
uno scienziato e nemmeno uno storico della scienza, Barach affianca ai notevoli
risultati della propria ricerca storiografica – tra il 1876 ed il 1878 dà alle stampe
due importanti edizioni critiche di due opere naturalistiche del Medioevo23 – una
buona conoscenza delle problematiche scientifiche contemporanee. In questi due
lavori – in particolare in quello del 1878 – l’interesse per la letteratura scientifica
dei secoli passati è determinato dalla «Frage nach dem Seelensitz», divenuta ormai centrale nella biologia del tardo XIX secolo. «Non solo ai nostri giorni», scri-
20-05-2008
17:24
Pagina 53
ve lo studioso nella prefazione al De motu cordis di Alfredo Anglico, «in cui predomina l’indirizzo di pensiero della scienza della natura, anche negli oscuri secoli
della tanto ingiuriata Scolastica, si è sollevata la questione. La tendenza ad attribuire un sostrato materiale ai fenomeni psichici e vitali, a localizzare le funzioni e
le facoltà dell’anima, vale a dire, a rappresentarle in relazione ad organi materiali
attraverso cui pervengono all’atto, forse non è un tratto peculiare alla sola scienza moderna»24. Ma, mentre la filosofia del Medioevo si è sostanzialmente limitata
a rielaborare le ipotesi antiche riguardo all’organo sede dell’anima, un pensatore
del Rinascimento è andato oltre tutta la tradizione precedente, offrendo un’interpretazione in chiave monadologica della realtà naturale. Questo pensatore è Giordano Bruno, dalle cui opere – in particolare, dalla trilogia francofortese – Barach
cerca di ricavare un modello ancora attuale per la scienza dell’Ottocento25.
Sebbene la lettura di Barach pervenga ad una conclusione che, almeno per
ciò che concerne l’interpretazione dell’atomismo di Bruno, possiamo in buona
sostanza definire materialistica, i presupposti da cui muove lo studioso ottocentesco sono ancora fortemente condizionati da preoccupazioni di ordine morale e
teologico, non dissimili da quelle che facevano supporre a Bonnet la sopravvivenza della coscienza individuale anche dopo la morte ed il dissolversi dei legami tra i germi da cui è composto l’organismo. Il primo dei due articoli pubblicati
nel 1877 mostra in che senso il filosofare «etico» di Bruno porti a considerare
l’universo come unità infinita, oltre che infinita pienezza di forme e di fenomeni.
L’unità indifferenziata di materia e spirito, di possibilità e di realtà, è il punto di arrivo di questo filosofare26, nel quale si accordano la fede in Dio e la fiducia nella
validità della conoscenza scientifica. Nel secondo articolo (Die Methodenlehre
und Monadologie Bruno’s) l’attenzione dell’autore si sposta sulla teoria della conoscenza di Bruno, di cui vengono discussi i rapporti con la metafisica monadologica, fondamento di ogni possibile concezione della natura. Dalla consapevolezza che Bruno avrebbe raggiunto, negli scritti della maturità, dell’intima unione
tra l’intelletto divino e quello umano – unione che si realizza tuttavia soltanto nelle poche nature prescelte dagli dèi – Barach trae delle importanti conseguenze
sul piano dell’affermazione della dignità della realtà sensibile, a patto che, beninteso, essa venga depurata dalla componente più grossolanamente materiale.
«Non il mondo fisico in quanto tale, in quanto oggetto della percezione sensibile, non la natura come pura apparenza rivelano il vero Essere all’uomo; al contrario, solo la natura com’è concepita nella sua separazione dall’apparenza sensibile, la natura isolata dalla sua evidente materialità, può essere colta dallo spirito […]. I dati dell’esperienza sensibile sono, a dire il vero, la prima cosa con cui
abbiamo indubitabilmente a che fare; tuttavia, il loro contenuto essenziale non si
manifesta all’occhio del corpo. La conoscenza della natura inizia, secondo Bruno, con un annullamento della conoscenza sensibile»27.
Lo strumento conoscitivo attraverso cui ci si libera dagli inganni dei sensi e si
perviene al fondamento immutabile dei fenomeni risiede, secondo Barach, in ciò
che egli definisce astrazione. L’astrazione in Bruno è «un tipo di intuizione ideale,
attraverso cui le forme e le idee delle cose vengono comprese in modo più chiaro e più puro, per così dire isolate dalla materialità inerente alla loro immagine
sensibile»28, esattamente come avviene nella considerazione delle immagini del-
SAGGI
Segni e comprensione 65
53
Segni e comprensione 65
54
20-05-2008
17:24
Pagina 54
la geometria. Le rappresentazioni geometriche sono allo stesso tempo universali
ed evidenti: una qualsiasi figura geometricamente perfetta non si dà mai all’esperienza sensibile, ma diviene percepibile all’occhio della mente, non appena, attraverso il processo di astrazione, si prescinde dall’esperienza29. Il tratto più originale del pensiero di Bruno, dal punto di vista gnoseologico e della filosofia della natura, si troverebbe dunque nel suo concepire la materia come un aggregato di unità invisibili e discrete, gli atomi, considerati come le minime unità sia in senso spirituale (matematico) che fisico. Dal punto di vista metafisico l’atomo si presenta ai
suoi occhi come monade, e la costruzione monadologica consente a Bruno di riprodurre su una scala infinitamente piccola la propria visione pluralistica dell’infinità del cosmo. La monadologia fornisce dunque il sostegno metafisico necessario alla concezione atomistica della materia: «La monadologia di Bruno rappresenta un tentativo di spiegazione dei fenomeni naturali, che sono mutevoli e composti, a partire dalle loro cause prossime (immutabili e semplici). La monadologia
di Bruno non vuole risalire al fondamento metafisico ultimo di ogni essere; essa
concepisce al contrario l’Assoluto nella sua contrazione o separazione, come un
principio autoesplicantesi della natura […]. Si tratta dunque, in primo luogo, di ricavare attraverso un procedimento inventivo il principio naturale che deve produrre la spiegazione sintetica, vale a dire, un concetto universale e reale, a partire
dall’analisi dei fenomeni. Questo concetto universale e reale è il concetto di monade, il concetto della sostanza individuale o del minimo indivisibile. Esso si presenta in contrapposizione all’idea dell’assoluta divisibilità del continuo, un’idea
che Bruno rigetta come una falsa astrazione compiuta dai matematici e dai fisici,
come una fonte di molteplici errori»30. Nella monade confluiscono tutte le componenti della realtà, di quella fisica come di quella intellettuale o spirituale: essa rappresenta «il minimo del numero, il minimo del corpo, il minimo del movimento, la
minima unità spirituale [die kleinste Seele], dunque il minimo in generale»31.
Con ciò siamo pervenuti al cuore dell’argomentazione di Barach, che mira ad
individuare nella doppia natura, allo stesso tempo materiale e spirituale, del minimo bruniano un modello di spiegazione scientifica del funzionamento delle unità minime (gli atomi viventi) da cui sono composti gli organismi32. Grazie a questa interpretazione, il processo attraverso cui la riflessione filosofica sulla moderna scienza della natura ha progressivamente teorizzato una parcellizzazione della coscienza, spostando la sede delle funzioni psichiche fin nei componenti ultimi della materia, ha raggiunto il proprio culmine. In quest’ottica si spiega il rapido richiamarsi – tutt’altro che gratuito – di Barach agli esiti della biologia ottocentesca: «Stando all’opinione della scienza moderna, questa concezione equivale
a trasferire le attività della sensazione e della coscienza, della memoria, del piacere e del dolore fin nell’atomo […]. Sebbene Bruno tenga a distinguere le sue
monadi dai minimi sensibili e dagli atomi degli antichi, tuttavia egli non le concepisce come sostanze immateriali, nel senso eminente del termine. Le monadi di
Bruno sono unità spirituali minime e, allo stesso tempo, minimi dotati di un’estensione fisica, anche se non di un’estensione percepibile con i sensi»33.
Come i minimi di Bruno, anche gli atomi della scienza contemporanea rappresentano i centri propulsori degli esseri viventi, la fonte delle sensazioni, come dei sentimenti piacevoli o spiacevoli. Per questa sua intuizione, il filosofo
20-05-2008
17:24
Pagina 55
rinascimentale si è guadagnato, agli occhi di Barach, un posto d’onore nella
storia della scienza moderna; non ci si deve quindi sorprendere se il critico ottocentesco ravvisa nella sua idea di minimo addirittura uno spiraglio sui «concetti fondamentali dell’analisi quantitativa della nuova chimica»34. A circa un secolo di distanza dai primi tentativi di estendere il principio metafisico della continuità tra tutti gli esseri fin dentro la struttura degli organismi, si deve ancora
ad una pagina di storia della filosofia, e non ad un arido resoconto scientifico,
se si è giunti alla scoperta dell’unità ed uniformità di tutti i fenomeni naturali.
1 Si vedano, in particolare, Il problema del vivente tra Settecento e Ottocento. Aspetti filosofici, biologici e medici, Lezioni Galileiane II, a c. di V. Verra, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1992 e R. REY, L’anima, il corpo e il vivente, in Storia del pensiero medico occidentale, vol. II,
a c. di M. D. Grmek, Laterza, Bari 1996, pp. 195-257.
2 Si veda la lettera di Leibniz a Foucher del 1692, poi pubblicata nel «Journal des savants» il
2 giugno dello stesso anno: «Il mio assioma, che la natura non opera mai per salti, è molto usato
in fisica» (G. W. LEIBNIZ, Lettres et opuscules inédits, précédés d’une introduction par L. A. Foucher de Careil, Olms, Hildesheim-New York 1975, p. 89).
3 C. BONNET, Considérations sur les corps organisés, Fayard, [s.l.] 1985 [1762].
4 Ivi, p. 21.
5 All’ipotesi dell’inscatolamento, secondo la quale i germi preesistono all’interno degli esseri organizzati, fin dalla Creazione, in una forma analoga a quella delle scatole cinesi, oppure disseminati nell’aria, nell’acqua, nella terra e in tutti i corpi solidi (cfr. ivi, pp. 21-22), si contrappongono nel
Sei e nel Settecento altre due ipotesi embriologiche: la preformazione, che prevede lo sviluppo
progressivo di parti già completamente formate nei corpi dei genitori, e l’epigenesi, che spiega la
formazione di un nuovo essere attraverso l’aggiunta di parti giustapposte le une alle altre. Si veda
a riguardo A. CLERICUZIO, La macchina del mondo. Teorie e pratiche scientifiche dal Rinascimento
a Newton, Carocci, Roma 2005, pp. 340-344.
6 C. BONNET, op. cit., p. 21.
7 Cfr. ivi, pp. 23-24.
8 Cfr. ivi, pp. 78-79.
9 Ivi, p. 87.
10 C. BONNET, La palingénésie philosophique, ou idées sur l’état passé et sur l’état futur des
êtres vivans, Fayard, [s.l.] 2002 [1770], p. 130.
11 Ivi, p. 157.
12 Cfr. ivi, pp. 324-327.
13 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Principi razionali della Natura e della Grazia, a c. di S. Cariati, Bompiani,
Milano 2001, pp. 43-45. Si noti che Leibniz, all’opposto di quanto farà Bonnet, respinge con decisione l’idea che in natura esistano grandezze non divisibili all’infinito: la natura può ridurre i corpi
allo stesso grado di piccolezza a cui può pervenire una considerazione puramente geometrica del
continuo (cfr. G. W. LEIBNIZ, Lettres et opuscules inédits, cit., p. 90).
14 Cfr. J.-B. ROBINET, De la Nature, tome I, E. Van Harrevelt, Amsterdam 17632, p. XI.
15 Ivi, tome IV, E. Van Harrevelt, Amsterdam 1766, pp. 142-143. Nelle pagine precedenti, Robinet definisce il germe «un Essere organico dotato di una vita particolare che non consiste, probabilmente, che in un rapido movimento» (ivi, p. 130).
16 Ivi, p. 115.
17 Cfr. ivi, p. 139.
18 Ivi, p. 11.
19 Per una ricostruzione accurata della speculazione filosofica settecentesca intorno alla natura del vivente, si veda il classico studio di A. LOVEJOY, La Grande Catena dell’Essere, trad. it., a c.
di L. Formigari, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 245-310.
SAGGI
Segni e comprensione 65
55
Segni e comprensione 65
56
20-05-2008
17:24
Pagina 56
20 La fama di Robinet come scienziato, almeno presso i suoi contemporanei, non fu delle migliori, soprattutto a causa della sua fede (che condivideva, peraltro, con altri seri studiosi) nell’esistenza di un anello di congiunzione tra la specie umana ed i pesci: cfr. ivi, pp. 293-294.
21 Sulla filosofia della natura tedesca in epoca romantica si veda S. POGGI, Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Il Mulino, Bologna 2000. Per ciò che
riguarda gli aspetti più strettamente tecnici della Naturphilosophie, cfr. S. FABBRI BERTOLETTI, Impulso, formazione e organismo. Per una storia del concetto di Bildungstrieb nella cultura tedesca, Olschki, Firenze 1990.
22 Ernst Haeckel è il più noto tra questi. Instancabile sperimentatore ed abile propagandista di
un evoluzionismo rivisitato in chiave monistica, Haeckel offre nei propri scritti una visione del mondo che interpreta le particolarità del vivente su basi rigorosamente materialistiche. Nei suoi scritti
il desiderio di ‘decentrare’ la fonte delle attività psichiche fin nelle cellule si combina, in maniera assolutamente originale, con l’esigenza – caratteristica della sua epoca – di pervenire ad una comprensione unitaria di tutti i fenomeni del vivente.
23 Rispettivamente: Bernardi Silvestris de Mundi universitate libri duo, sive Megacosmus et Microcosmus, nach handschriftlicher Überlieferung zum ersten Male herausgegeben von C. S. Barach und
J. Wrobel, Minerva, Frankfurt a. M 1964 [1876]; Excerpta e libro Alfredi Anglici De motu cordis, item
Costa Ben-Lucae De differentia animae et spriritus liber translatus a Johanne Hispalensi, nach handschriftlicher Überlieferung herausgegeben und mit einer einleitenden Abhandlung und Anmerkungen
versehen von C. S. Barach, Minerva, Frankfurt a. M 1968 [1878]. Nel saggio introduttivo al De motu
cordis di Alfredo Anglico, Barach ricostruisce per sommi capi la storia della fortuna delle dottrine platonica ed aristotelica intorno alla sede dell’anima, nelle scuole filosofiche del XII e XIII secolo. Tutti i
tentativi di recuperare l’antica idea di legare la vita dell’anima ad un determinato organo (al cervello,
secondo la lezione platonica; al cuore, secondo quella aristotelica) sono motivati, secondo Barach,
dalla volontà di superare la concezione cristiana di un’anima puramente spirituale, che escluda qualsiasi forma di materialità (cfr. Excerpta e libro Alfredi Anglici De motu cordis, cit., pp. 18-24).
24 Ivi, p. VIII.
25 Sul pensiero scientifico del filosofo italiano Barach ha scritto due lunghi articoli, apparsi in
contemporanea con i frutti della sua attività di editore. Cfr. C. S. BARACH, Über die Philosophie des
Giordano Bruno, mit besonderer Rücksicht auf dessen Erkenntnisslehre und Monadologie, «Philosophische Monatshefte», XIII. Band (1877), pp. 40-57 e pp. 179-196.
26 Cfr. ivi, p. 48.
27 Ivi, pp. 181-182.
28 Ivi, p. 183.
29 Per quest’aspetto Bruno è, allo stesso tempo, allievo di Platone e precursore di Kant. È allievo del primo, in quanto ritiene che la matematica sia l’unica via d’accesso ad una conoscenza
immutabile ed assolutamente certa della realtà naturale. È precursore del secondo per quella che
Barach considera un’importante anticipazione della natura meta-empirica delle rappresentazioni
matematiche (cfr. ivi, pp. 183-184).
30 Ivi, pp. 188-189.
31 Ivi, p. 189.
32 Un modello che, secondo altri interpreti positivisti della filosofia di Bruno, avrebbe addirittura ispirato gran parte degli sviluppi successivi della scienza della natura: si vedano in proposito le
affermazioni di uno «psicologo positivista» come Enrico Morselli che, in un discorso ufficiale (pronunciato il 26 febbraio 1888) in occasione delle «solenni onoranze» al monumento funebre eretto
a Bruno in Campo de’ Fiori a Roma, pone tra i meriti del filosofo anche quello di aver anticipato
«Bonnet, Geoffroy Saint-Hilaire, Dugés, e tutti quegli insigni naturalisti che, assumendo dal Leibniz la legge di continuità, ci rivelarono l’unità di composizione del regno organico». Bruno avrebbe
presagito anche la scoperta più rivoluzionaria della biologia del XIX secolo: «E conseguentemente anticipò anche Lessing ed Herder, in quanto tocca al principio generale dell’evoluzione, e Goethe, Lamarck, Darwin ed Haeckel per l’evoluzione applicata al mondo organico e per la tendenza
al progresso delle sue forme» (E. MORSELLI, Giordano Bruno. Commemorazione pronunciata nell’aula magna del Collegio Romano, L. Roux e C. Editori, Torino-Napoli 1888, p. 41).
33 C. S. BARACH, Über die Philosophie des Giordano Bruno, cit., p. 190.
34 Ibidem.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 57
HUSSERL SECONDO JEAN-LUC MARION
1. Intuizione, intenzione, donazione
La definizione delle Logische Untersuchungen del 1900-1901 come opera
d’inizio è dello stesso Husserl: nella prefazione alla seconda edizione, scritta
nel 1913, afferma infatti: «le Ricerche Logiche furono per me un’opera di rottura, e quindi non un punto di arrivo, ma un inizio»1. Se si tiene conto del fatto
che in questo scritto la fenomenologia husserliana non presenta ancora alcun
tipo di riduzione, la quale verrà sviluppata solamente nel 1907 con L’idea della fenomenologia, né un’impostazione genetica, la quale vedrà la luce solo a
partire dal 1918 con le Analysen zur passiven Synthesis, s’è tentati d’interpretare questo “inizio” come una semplice scintilla, ampiamente superata dagli
sviluppi posteriori della riflessione di Husserl. Eppure tutto il pensiero husserliano, sino alle ultime evoluzioni contenute nella Crisi delle scienze europee e
la fenomenologia trascendentale, è assillato da questa origine a cui continuamente fa riferimento e ritorna. Sorge quindi spontanea una domanda: in cosa
propriamente consiste tale “rottura”? Verso cosa apre? Questa è l’interrogazione che segna l’incipit di Réduction et donation, il primo libro della trilogia dedicata da Marion alla fenomenologia della donazione2, da cui si cercherà di farsi accompagnare per l’interpretazione dell’opera husserliana.
In linea generale si potrebbe rispondere che nelle pagine delle sei Ricerche Logiche è contenuta quella correlazione tra soggetto ed oggetto che nelle opere successive sarà arricchita ma mai mutata nella sostanza. Si tratta dell’anticipazione di
quello che diverrà in Ideen I il principio di tutti i principi: «ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’“intuizione” (per così dire in carne e ossa) è da assumere come esso si
dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà»3. L’intuizione dovrebbe quindi emergere già nelle Ricerche Logiche come ciò che conduce la coscienza alla piena evidenza del dato. Husserl afferma esattamente questo quando, tra gli atti signitivi e
quelli intuitivi, riserva la pienezza solo a questi ultimi: «ad ogni intenzione intuitiva
appartiene – nel senso di una possibilità ideale – un’intenzione signitiva esattamente adeguata ad essa in rapporto alla materia. Quest’unità di identificazione possiede necessariamente il carattere di un’unità di riempimento, in cui il membro intuitivo, e non quello signitivo, ha il carattere del membro che riempie, e quindi anche
di quello che conferisce pienezza nel senso più proprio»4. Il darsi pieno dell’oggetto alla coscienza sembra quindi derivare solo ed esclusivamente dall’intuizione che
si presenta come motore della fenomenologia, ossia ciò che consente il mostrarsi
dei fenomeni, il loro accesso alla presenza, la loro conoscenza5.
SAGGI
di Stefano Cazzanelli
57
Segni e comprensione 65
58
20-05-2008
17:24
Pagina 58
La distinzione di cui sopra tra intenzione ed intuizione è fondata alla luce
dell’intenzionalità, concetto che Husserl riprende dal maestro Brentano e che
nella sostanza accetta6. Essa è un caposaldo della fenomenologia e per questo vale la pena riportare un passo della Quinta Ricerca abbastanza ampio
ma chiarificatore: «è presente [alla coscienza] soltanto il vissuto intenzionale, il cui carattere descrittivo essenziale è appunto l’intenzione corrispondente. Essa consiste esclusivamente ed esaustivamente, secondo la sua particolarizzazione specifica, nel rappresentare questo oggetto, nel giudicarlo,
ecc. Se questo vissuto è presente, allora – in forza, si noti, dell’essenza sua
propria – è anche eo ipso effettuato “il riferimento intenzionale ad un oggetto”, un oggetto è eo ipso “intenzionalmente presente”: dal momento che queste due espressioni significano la stessa cosa. E naturalmente vi può essere nella coscienza un vissuto di questo genere, senza che l’oggetto esista o
addirittura possa esistere»7.
Alla luce di queste definizioni emerge come spontanea la tesi in base alla
quale vi sarebbe una precedenza dell’intenzione rispetto al riempimento intuitivo. Si potrebbe immaginare l’intenzione significante come un moto che dal
soggetto si dirige verso l’oggetto e il riempimento intuitivo come un movimento di ritorno verso l’io, il quale tuttavia potrebbe anche non avvenire8. Sembrerebbe quindi possibile il darsi di qualcosa che sfugge all’intuizione, un significato che significa da sé9. Lo stesso Husserl è esplicito quando afferma che
«noi vediamo come si dia in presenza intuitiva, nell’intuizione, la stessa oggettualità che era “meramente pensata” nell’atto simbolico: e ciò che in un primo
tempo era meramente pensato (meramente significato), diventa ora intuitivo
nella sua determinatezza»10.
Tuttavia, e qui si presenta una prima seria difficoltà, non si capisce come
questo sia conciliabile con l’ampliamento del concetto d’intuizione che avviene nella Sezione Seconda della Sesta Ricerca. Nell’introduzione a questa
parte Husserl pone «la necessità imprescindibile di estendere i concetti originariamente sensibili di intuizione e percezione, un’estensione che consente di parlare di intuizione categoriale e specialmente di intuizione generale»11. Tale progetto è compiuto nel § 45, propriamente intitolato «Estensione
del concetto di intuizione, e in particolare dei concetti di percezione e di immaginazione. Intuizione sensibile e intuizione categoriale»12. Si sa come tali
sezioni abbiano interessato molto Heidegger: ciò verso cui Husserl sembrerebbe qui orientarsi è l’essere ed una sua possibile intuizione. Ma se l’intuizione s’estende a tal punto, cosa resta al suo esterno? È veramente possibile che “qualcosa” le sfugga e possa darsi alla coscienza schivando la sua
universalità? L’intuizione non sembra presentare alcun resto, tutto è ridotto
alla presenza. L’interrogazione di Marion, riguardo la possibile significazione
eccedente l’intuizione, si fa allora impellente: «Où s’étendrait ce [dell’intenzione] domaine, si, par avance, l’intuition recouvre et découvre tout, y compris le catégorial, dans l’unique évidence?»13.
La situazione emerge ancora più intricata nel momento in cui, all’ampliamento dell’intuizione, sembra accompagnarsi un ampliamento ancora maggiore della significazione: «il campo del significato è molto più ampio di quello del-
20-05-2008
17:24
Pagina 59
l’intuizione, cioè del campo complessivo dei riempimenti possibili. Infatti, nella
sfera dei significati si aggiunge quella molteplicità illimitata di significati complessi […] a [cui] non può tuttavia corrispondere alcun correlato possibile ed
unitario di riempimento»14. Non è necessario tuttavia procedere sino all’esplicitezza della Sesta Ricerca per cogliere questi ampliamenti: essi operano silenziosamente già a partire dall’inizio dell’opera dove restano latenti e nell’ombra
anche se è possibile in qualche punto attestarne la presenza. Nella Prima Ricerca, ad esempio, per ciò che concerne l’ampiezza dell’intenzione rispetto all’intuizione, si riporta il caso dell’indicazione, del segnale (Anzeichen): «i segni
nel senso di segnali (segni di riconoscimento, segni distintivi, ecc.) non esprimono nulla, a meno che, oltre alla funzione dell’indicare, non assolvano anche
una funzione significante»15. Il segnale resta estraneo all’evidenza proprio perché sfugge al riempimento intuitivo. D’altra parte per ciò che concerne l’ampliamento dell’intuizione, i riferimenti sono ancora più espliciti quando, nella Seconda Ricerca, Husserl si richiama apertamente alla Sesta e alle sue datità sui
generis: «è chiaro che questo intenzionamento [il riferimento è all’«idea» di
rosso], in rapporto alla sua base apprensiva, è un intenzionamento fondato
(cfr. Sesta ricerca, §26) […] la specie assume esistenza in quanto oggetto generale mediante il carattere di questa modalità dell’apprensione»16. Più avanti
è posta come necessaria «l’unità già data della specie»17 onde evitare un regresso all’infinito nel processo di fondazione delle intuizioni sensibili.
Ritornando a questo punto alla questione posta all’inizio di questo paragrafo, si è dinnanzi ad un’impasse poiché nelle Ricerche Logiche non è più in opera una sola apertura, ma due: da un lato in relazione all’intuizione, dall’altro per
ciò che concerne l’intenzione significante. Marion, nella descrizione di queste
due interpretazioni dell’opera husserliana, s’è servito da un lato di Heidegger,
partigiano della prima apertura, dall’altro di Derrida, sostenitore della seconda.
Abilmente ha fatto scendere in lizza l’uno contro l’altro, così da lasciare il campo libero alla sua propria interpretazione la quale vorrebbe essere una sintesi
pacificatrice di questa contesa. Per ragioni di ordine e comprensibilità occorre
anticipare sin d’ora la tesi di Marion il quale individua la vera apertura delle Ricerche Logiche nella donazione: «la percée phénoménologique ne consiste ni
dans l’élargissement de l’intuition, ni dans l’autonomie de la signification, mais
dans la primauté seule inconditionnée de la donation du phénomène. […] Intuition et intention ne donneraient rien (et donc n’auraient elles-mêmes pas à
être données), si tout ne devait, d’emblée, en vertu du principe de corrélation,
être donné pour apparaître»18.
Il percorso che conduce il filosofo parigino a questa conclusione ha inizio
con la reinterpretazione che lo stesso Husserl fornisce del proprio scritto nella
Crisi delle scienze europee: «ciò che vi era di decisamente nuovo nelle mie Ricerche Logiche […] [era che] per la prima volta, l’“evidenza” (questo rigido feticcio teoretico) diventa un problema, viene sottratta alla predilezione per l’evidenza scientifica e viene ampliata ad autofferenza generale e originale»19. Come si può facilmente immaginare il termine che più colpisce Marion è selbstgebung (autofferenza), ove il verbo geben è traducibile con donare/dare 20. Se
quindi l’evidenza può essere data da un lato dal riempimento intuitivo, che tut-
SAGGI
Segni e comprensione 65
59
Segni e comprensione 65
60
20-05-2008
17:24
Pagina 60
to ricopre e tutto conduce alla presenza (evidenza), dall’altro dagli atti signitivi
liberi da intuizione, il passaggio ad interpretare intuizione ed intenzione come
semplici modi di datità è breve: «intuition et intention, aussi libérées soient-elles, ne le sont que par la donation qu’elles illustrent – ou plutôt qui ne cesse
de les illuminer –, et dont elles ne livrent que des modes – les “modes de donation” de l’apparaissant»21.
Si tratta della correlazione tra l’apparire e ciò che appare che lo stesso Husserl individua come la scoperta delle Ricerche Logiche e definisce come il
compito base di tutta la sua fenomenologia: «la prima scoperta di questo apriori universale della correlazione tra l’oggetto dell’esperienza e i modi di datità (durante l’elaborazione delle mie Ricerche Logiche, pressappoco nel 1898)
mi scosse tanto profondamente, che d’allora in poi, il lavoro di tutta la mia vita
fu dominato dal compito di elaborarlo sistematicamente»22. Qualcosa appare,
un fenomeno, in base a determinati modi (intuizione, intenzione) e questo dato svela come proprio fondo la sua propria donazione, il suo proprio apparire
che lo dà. Si capisce come questa interpretazione delle Ricerche Logiche metta in crisi molti aspetti fondamentali dell’edificio fenomenologico husserliano:
basti pensare, a titolo esemplificativo, allo stesso principio di tutti i principi il
quale sembra ora perdere la sua priorità a favore della donazione23.
Essendo la donazione il fondamento della fenomenologia di Marion è possibile comprendere le ragioni della veloce liquidazione a cui è sottoposto in Réduction et donation il pensiero di Derrida e, d’altra parte, il perché del largo
spazio lasciato ad Heidegger. Mentre infatti il celebre pensatore della différance nega la possibilità della donazione, l’autore di Sein und Zeit percorre l’apertura del maestro Husserl (da lui stesso non intravista) sino a parlare di donazione dell’essere: «Sein liegt im Dass – und Sosein, in Realität, Vorhandenheit,
Bestand, Geltung, Dasein, im “es gibt”»24. Può sembrare a prima vista azzardata l’affermazione che attribuisce all’autore di opere quali Donare il tempo,
Donare la morte, Perdonare, l’impossibilità della donazione. Eppure è proprio
Derrida che dalle pagine di questi testi giunge a negare esplicitamente la possibilità del dono. O meglio: «[le] condizioni di possibilità del dono […] designano infatti simultaneamente le condizioni dell’impossibilità del dono»25. Se in
Étant donné, Marion dedicherà un’intera sezione alla “singolar tenzone” con
Derrida26, in Réduction et donation preferisce liberarsi dell’avversario in poche
pagine per potersi concentrare maggiormente nel confronto con Heidegger.
Nel 1973, ormai alla fine della sua vita, nel celebre seminario di Zähringen,
Heidegger definisce l’intuizione categoriale husserliana come la conquista di
un terreno stabile e fertile su cui poter lavorare: «per poter sviluppare in generale la domanda del senso dell’essere, l’essere dovrebbe essere dato, così da
poterne interrogare il senso. Il risultato conseguito da Husserl si trova proprio
in questa presentificazione dell’essere, che è presente come fenomeno nella
categoria. Grazie a questo risultato, prosegue Heidegger, io ho avuto finalmente un terreno su cui poggiare: “essere” non è più un semplice concetto, non è
un’astrazione pura ottenuta tramite la deduzione»27.
Il pensiero dell’essere è quello che maggiormente ha segnato il distacco tra
discepolo e maestro: per l’autore di Sein und Zeit, infatti, si tratta di procedere
20-05-2008
17:24
Pagina 61
verso l’elaborazione di un’ontologia fondamentale che possa liberarsi definitivamente dell’oblio, proprio della metafisica, della differenza radicale tra essere ed ente. Husserl è colui che ha aperto tale strada, che ha indicato «qualche
cosa di completamente nuovo»28 ma si è rifiutato di sondarlo. Nelle parole di
Marion: «Heidegger […] voyant d’emblée avec une extraordinaire lucidité que
la percée de 1900-1901 consiste entièrement en l’élargissement de la donation au-delà de l’intuition sensible, assume exactement l’héritage husserlien en
faisant porter toute l’interrogation sur ce que signifie une telle donation. […]
être revient à être donné»29. La fenomenologia deve essere percorsa fino a
scoprirne la radice: l’ontologia. A prima vista Husserl nega questa tesi «perché
in sé […] l’ontologia non è fenomenologia»30.
SAGGI
Segni e comprensione 65
2. Ontologia, fenomenologia, donazione
Anche per comprendere la definizione husserliana d’ontologia occorre risalire alle Ricerche Logiche: l’ambito di questa disciplina si sviluppa infatti in
stretta connessione con il campo della logica e più precisamente con la “logica pura” di cui il pensatore già aveva trattato nei Prolegomeni a una logica pura. Questo legame non è d’immediata comprensione: a detta dello stesso Husserl, nella precedente storia del pensiero occidentale non era mai comparsa
un’impostazione simile alla sua. La caratterizzazione “pura” attribuita alla logica serve per sottolineare come ogni determinazione della stessa in campo psicologico sia da rifiutare: «noi crediamo […] l’insostenibilità di qualsiasi forma di
logica empiristica o psicologistica. La logica intesa come metodologia scientifica ha i suoi fondamenti principali ad di fuori della psicologia. Si deve dunque
ammettere la validità dell’idea di una “logica pura”»31. Se quindi il campo dell’empiria e della psiche devono essere sospesi o quantomeno non devono sovrapporsi o dirigere il lavoro della logica pura, a cosa si rivolgerà questa disciplina? La novità husserliana sta nel fatto di non confondere i nessi reali psicologici tra i diversi vissuti di coscienza con le relazioni eidetiche tra gli oggetti
che si manifestano in questi stessi vissuti. Solamente una logica che si rivolga
a queste ultime relazioni potrà assurgere al ruolo di condizione di possibilità di
ogni teoria in generale. In altre parole questa disciplina fondamentale permetterà di disegnare il campo entro cui potranno costruirsi e svilupparsi le diverse
speculazioni scientifiche. Per questa ragione essa non può essere fondata dalla psicologia, in quanto verrebbe ad invertirsi il rapporto di fondazione: se la
psicologia pretende di elevarsi al rango di scienza deve essere determinata,
anch’essa come le altre scienze, dalla logica che di conseguenza la precede.
Si potrebbe sostenere che a questo risultato Husserl giunga tramite una sorta
di epoché in nuce. Le pagine dell’introduzione delle Ricerche Logiche sembrano infatti riferirsi a qualcosa di simile quando parlano di quell’«habitus innaturale della riflessione»32 che «invece di abbandonarsi all’effettuazione di atti
stratificati secondo molteplici modalità, di porre come esistenti, per così dire,
ingenuamente, gli oggetti intenzionati nel loro senso, di determinarli o assumerli come ipotesi, di trarre di qui conseguenze, ecc., […] “riflette […]”, cioè
61
Segni e comprensione 65
62
20-05-2008
17:24
Pagina 62
rende […] oggetti questi stessi atti ed il loro contenuto di senso immanente»33.
Per comprendere la possibilità di parlare d’ontologia a riguardo di tale logica pura può essere utile un esempio. Riferendosi al campo delle note si hanno in esso diversi elementi che coincidono con le sette note musicali canoniche34. Ora, la logica pura non s’interesserà delle proprietà relative agli elementi accidentali (o non-indipendenti come li definisce Husserl) di questo insieme,
bensì delle regole di connessione che descrivono tutte le varie possibili relazioni tra questi stessi elementi. Ad esempio l’aumento di tonalità, un salto d’ottava, un abbassamento di volume. «Husserl è convinto che gli oggetti della nostra esperienza siano riconducibili a categorie generalissime che ne determinano la natura e che debbono essere distinte dalle caratteristiche accidentali
che di fatto spettano a ogni singola cosa»35. Ontologia è il termine che Husserl
utilizza per riferirsi all’insieme delle leggi logiche che descrivono tutte le possibili relazioni all’interno di un determinato campo d’indagine.
Nella Terza Ricerca si assiste tuttavia ad un’ulteriore complicazione, ossia
alla distinzione tra ontologie materiali e ontologia formale36. Si potrebbe esplicitare la loro differenza dicendo che, mentre le prime fondano le scienze particolari, la seconda sarebbe una sorta di linguaggio universale (Mathesis universalis) della scienza in generale. È comprensibile che tra le due sussista una relazione molto stretta e che le diverse ontologie materiali emergano come una
sorta di sottoinsiemi dell’ontologia formale. Mentre quelle si rivolgono a generi
materiali supremi, questa si occupa dell’oggetto in generale privo di qualsiasi
materialità. Husserl esemplifica tutto ciò parlando di concetti come qualcosa,
oggetto, relazione da un lato e casa, albero, colore dall’altro: «mentre i primi si
raggruppano intorno all’idea vuota del qualcosa e dell’oggetto in generale e sono collegati ad esso mediante assiomi ontologico-formali, i secondi si ordinano intorno a diversi generi materiali supremi (categorie materiali) nei quali si radicano le ontologie materiali»37.
Si noti come l’ontologia husserliana sia strettamente legata alla scienza,
tanto da richiamarsi alla Mathesis universalis di cui parlava Descartes nelle
sue Regulae ad directionem ingenii: «ac proinde generalem quamdam esse
debere scientiam, quae id omne explicet, quod circa ordinem et mensuram nulli speciali materiae addictam quaeri potest, eamdemque, non ascititio vocabulo, sed iam inveterato atque usu recepto, Mathesim universalem nominari»38.
Del resto è lo stesso Husserl che nell’ultimo paragrafo dei Prolegomeni alla logica pura cita Descartes: «tuttavia, come già Descartes e Leibniz hanno notato, in ogni procedimento empirico della scienza obiettiva dei fatti, non predomina una accidentalità psicologica, ma una norma ideale»39. E poco prima aveva descritto la logica pura proprio riferendosi a quella che successivamente sarà chiamata ontologia formale, legandola alla scienza in generale: «la logica
pura abbraccia in modo generalissimo le condizioni ideali della possibilità della scienza in generale»40. Questo legame tra ontologia e scienza sarà fortemente criticato da Heidegger.
La concezione ontologica husserliana non può tuttavia essere limitata al solo testo delle Ricerche Logiche. Occorre fare riferimento anche ad un’altra
grande opera che ha ampiamente trattato tale disciplina: le Idee per una feno-
20-05-2008
17:24
Pagina 63
menologia pura e per una filosofia fenomenologica. Inizialmente i termini sembrano gli stessi del testo del 1900-1901: «alla pura essenza regionale corrisponde poi una scienza eidetica regionale o, come possiamo anche dire, una
ontologia regionale»41. Anche l’ontologia formale non viene tralasciata ed anzi
viene esplicitata in maniera molto più precisa e completa rispetto alle Ricerche
Logiche: «la cosiddetta “regione formale” […] non è una regione in termini propri, ma una vuota forma di regione in generale: tutte le regioni, con tutte le loro particolarizzazioni essenziali di ordine materiale, non si trovano accanto a
essa, ma, sia pure formaliter, sotto di essa. Questa subordinazione del materiale al formale si rivela nel fatto che l’ontologia formale racchiude nello stesso
tempo in sé le forme di tutte le possibili ontologie […], e che essa prescrive alle ontologie materiali una comune legalità formale»42.
Lo scenario tuttavia cambia radicalmente poco più avanti e precisamente a
partire dal §59, per l’appunto intitolato «La trascendenza dell’eidetico. Messa
fuori circuito della logica pura come “mathesis universalis”»43. Se si tiene conto che nella copia A a tale titolo era aggiunta la dicitura «la norma della fenomenologia», si capisce come si sia dinnanzi ad un deciso mutamento di prospettiva. Il capitolo in cui s’inserisce il §59 è il quarto, dedicato alle riduzioni fenomenologiche. Si ricordi a tal pro che fino al 1907, con il testo L’idea della fenomenologia, Husserl non aveva ancora trattato esplicitamente dell’epoché la
quale, ora, conduce ad un sovvertimento sostanziale: «noi compiamo ora
espressamente una estensione della riduzione originaria a tutti i territori eidetico-trascendentali e alle connesse ontologie»44. Celebre è il motto che «cadono sotto la riduzione […] tutte le ontologie»45. Se in precedenza ontologia e fenomenologia sembravano potersi accordare e procedere fianco a fianco, con
queste formulazioni si assiste ad una chiara sospensione dell’ontologia ad
opera della fenomenologia: «questi nessi tra le fenomenologie costitutive e le
corrispondenti ontologie formali e materiali non implicano alcuna fondazione
delle prime per mezzo delle seconde. Il fenomenologo non giudica ontologicamente quando riconosce un concetto o una proposizione ontologica come indice per nessi costitutivi eidetici»46.
Per comprendere tale stacco occorre innanzitutto chiarire il secondo grande
pilastro della fenomenologia husserliana (oltre a quello già individuato dell’intenzionalità): la riduzione. È utile cominciare dandone una definizione generale che
in quanto tale non ha la pretesa di definire i compiti specifici che questa operazione strutturale (o meglio destrutturale) assolve nei singoli casi: «“Epoché” segna la volontà, teorica, storica e ideologica, di “mettere tra parentesi” le cognizioni empirico-fattuali il cui unico esito è lo scetticismo; ma indica anche l’esigenza di porre fuori causa, sia pure provvisoriamente, tutti quegli atteggiamenti gnoseologici “viziati” da pregiudizi»47. La messa tra parentesi del giudizio e la
sospensione dell’atteggiamento naturale possono essere letti come il salto dalle Ricerche Logiche ad Ideen. Come s’è detto, ciò che propriamente mancava
al testo del 1900-1901, era una prospettiva trascendentale: certamente era presente il grande problema relativo alle evidenze, ma esse, a detta dello stesso
Husserl, erano lette ancora in una prospettiva viziata da un certo obiettivismo
psicologista, e ciò proprio per l’assenza di una riduzione al trascendentale. Co-
SAGGI
Segni e comprensione 65
63
Segni e comprensione 65
64
20-05-2008
17:24
Pagina 64
sa implica l’approdo a questo nuovo mondo? Chi lo abita? In una parola si potrebbe rispondere l’io. Le Ricerche Logiche non a caso hanno quasi del tutto tralasciato il problema dell’immanenza dell’io opposto alla trascendenza della realtà. Per questa ragione Husserl supera le sue antiche ricerche: in esse non è
possibile porre in maniera rigorosamente fenomenologica il grande problema
del darsi della trascendenza nell’immanenza. «Il tema dell’immanenza del fenomeno alla coscienza si presenta qui all’interno di un’impostazione egologica,
assente, o vagamente allusa, nelle Ricerche Logiche, ed evidentemente resa
possibile, per Husserl, soltanto nel quadro metodologico dischiuso dall’epoché»48. Solamente grazie alla riduzione è possibile cogliere ciò che nel §42 di
Ideen I è definito come la «diversità di principio dei modi di essere, la diversità
più cardinale che si possa dare, quella tra coscienza e realtà»49. Si noti come
tutta l’opera Ideen II veda in questa distinzione la sua ragion d’essere: solo grazie ad essa è infatti possibile distinguere tra costituzione della natura materiale
(Sezione prima), costituzione della natura animale (Sezione seconda) ed infine
costituzione del mondo spirituale (Sezione terza).
Il quadro comincia a schiarirsi ma resta ancora un punto profondamente
oscuro: per quale ragione la riduzione dovrebbe escludere e porre tra parentesi anche le varie ontologie materiali e soprattutto la mathesis universalis? Heidegger nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo sembra poter indicare la via per una possibile risposta: «la questione primaria di Husserl non è
quella circa il carattere d’essere della coscienza, ma lo guida la seguente riflessione: come può in generale la coscienza diventare oggetto possibile di
una scienza assoluta? L’istanza primaria che lo guida è l’idea d’una scienza
assoluta. Questa idea: ossia che la coscienza deve essere regione di una
scienza assoluta, non è semplicemente inventata, ma assilla la filosofia moderna a partire da Cartesio. L’elaborazione della coscienza pura come campo tematico della fenomenologia non è ottenuta fenomenologicamente nel ritorno
alle cose stesse, ma nel ritorno ad una idea tradizionale di filosofia»50.
Tale accusa di cartesianesimo rivolta ad Husserl renderebbe del resto ragione del riferimento implicito notato in precedenza alla mathesis universalis delle
Regulae cartesiane. La coscienza, ossia l’io puro, diventa quindi il solo fondamento per una scienza pura (come del resto lo era l’ego del Discorso sul Metodo) scalzando quella priorità che sembrava essersi individuata nell’ontologia
formale. Tutto questo discorso sembrerebbe condurre alla celebre accusa di
idealismo. Elio Franzini, nel suo libro d’introduzione alla fenomenologia, ritiene
che la “riduzione all’io” presenti solamente uno dei molteplici aspetti dell’epoché
e che di conseguenza sia una corruzione dell’originalità del pensiero husserliano l’etichettarlo come idealismo. Ciò su cui fa leva maggiormente per sostenere questa tesi è l’esistenza, a fianco della riduzione egologica, della riduzione
eidetica la quale sarebbe del resto già presente nelle Ricerche Logiche: «va ricordato che la “riduzione all’io” non è il risultato “finale” ed essenziale di un percorso che, dopo la riduzione eidetica, quella all’immanenza del fenomeno puro,
finalmente accede alla fonte assoluta, a quell’io trascendentale che aprirebbe a
un’epoché universale in cui la psicologia trascendentale è il nuovo nome di un
antico idealismo assoluto. La riduzione all’io è invece una tappa, pur di grande
20-05-2008
17:24
Pagina 65
importanza operativa e tematica, di un percorso che, se assolutizzato, condurrebbe a ciò che Husserl chiama “solipsismo trascendentale”»51.
In cosa consisterebbe questa riduzione eidetica già attiva nell’opera del
1900-1901? Essa altro non è che la riconduzione alle ontologie materiali ed in
ultima analisi all’ontologia formale di cui si sta parlando, in quanto questa sarebbe propriamente l’ambito a cui appartengono gli eidos, le essenze, di tutti i
fenomeni in generale. Si ricordi infatti che essa è descritta da Husserl come
una regione vuota, una sorta di contenitore ultimo di tutte le oggettualità che
possono darsi all’io. Concordando pienamente con la presenza di una tale riduzione già nelle Ricerche Logiche, rimane tuttavia ancora oscuro il perché
queste ontologie dovrebbero essere sospese. Ciò implica l’esistenza d’una riduzione ulteriore che sospende ciò che una epoché precedente ha preservato. Dovendo risolvere tale impasse non sembra esservi altra via d’uscita che
quella descritta da Heidegger: la riduzione alla coscienza come fondamento ultimo della scientificità della fenomenologia husserliana. La tesi di Franzini non
sembra quindi percorribile fino in fondo poiché non pare rendere ragione della
tesi husserliana per cui «la fenomenologia pura sembra includere in sé tutte le
ontologie»52. L’accettazione della critica heideggeriana della riduzione del fenomeno all’immanenza della coscienza, non necessariamente conduce alla
critica d’idealismo rivolta ad Ideen e Marion, con la sua fenomenologia della
donazione, sembra comprovarlo.
Ciò che tuttavia Husserl scrive in Ideen III nella sezione dedicata esplicitamente al rapporto tra fenomenologia ed ontologia, è difficile non interpretarlo
come una riduzione all’io trascendentale inteso come fondamento ultimo, come una riduzione antropologica53. «Il suo campo [il riferimento è alla fenomenologia] non è costituito dalle figure spaziali, dalle cose, dalla psiche, ecc. come tali e nella loro generalità eidetica, bensì dalla coscienza trascendentale e
da tutti i suoi eventi trascendentali, che vanno indagati attraverso l’intuizione
immediata e nella loro generalità eidetica»54. L’interesse, come è detto qualche
pagina dopo quella appena citata, non è alle essenze, delle quali si occupa
l’ontologia, ma ai noemi, ossia ai correlati intenzionali della coscienza che
emerge qui come la radice della fenomenologia: «il fenomeno per iscriversi
nella fenomenalità rimane soggetto a due condizioni preliminari: l’iscrizione in
un orizzonte di manifestazione e la sua riduzione trascendentale ad un Io costituente»55. Io produttore, io rappresentante direbbe Heidegger: io-coscienza
che riduce il fenomeno all’immanenza, lo riduce ad oggetto il cui senso d’essere è la semplice presenza, in ultima analisi io metafisico non del tutto differente dall’ego cartesiano o dalla monade leibniziana.
Marion fa eco ad Heidegger quando scrive che «le privilège, laissé ininterrogé, de l’objectité n’interdit pas, mais bien plutôt exige de subordonner cette
objectité même à l’instance du Je transcendental»56. Tuttavia il filosofo parigino è abile nel mostrare come la situazione sia ancora più complicata perché
Husserl, alla fine delle sue Meditazioni cartesiane, sembra legare assieme ontologia e fenomenologia: «la fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata sarebbe per ciò stesso una vera e propria ontologia universale»57. Come
nel capitolo precedente nei confronti dell’intenzione e dell’intuizione, anche qui
SAGGI
Segni e comprensione 65
65
Segni e comprensione 65
66
20-05-2008
17:24
Pagina 66
sembra difficile determinare chi preceda: tra fenomenologia ed ontologia a volte l’una fonda l’altra, altre volte coincidono, come nel caso appena citato. In
precedenza la riduzione alla donazione era emersa come risolutrice del conflitto tra significazione ed intuizione, ponendosi come base su cui si ergono entrambe. Potrà la donazione fungere anche ora da mediatrice? Questa è la tesi di Marion che occorre qui esplicitare.
Innanzitutto si deve sottolineare come l’atteggiamento del filosofo parigino
sia ambivalente nei confronti di Heidegger: da un lato infatti accetta la sua critica rivolta al maestro, d’altra parte ritiene che la sua interpretazione non debba
essere seguita fino in fondo e che ad un certo punto debba essere abbandonata: «il ne semble donc en aucune manière licite de suivre la critique que Heidegger adresse à la phénoménologie husserlienne»58. Dove Marion abbandona
Heidegger? L’autore di Sein und Zeit non s’avvedrebbe che Husserl affronta la
problematica ontologica definendo un’ontologia pur senza cogliere la questione
dell’essere: «contre Heidegger, il faudra sans doute montrer que Husserl ne
manque pas la question de l’être parce qu’il aurait échoué par défaut à définir
une ontologie, mais inversement parce qu’il n’a que trop parfaitement réussi à
la construire»59. Questa eccessiva perfezione di cui Marion parla è riferita all’ontologia formale, la quale presenta una coincidenza non solo con la logica pura,
ma persino con l’apofantica, come è detto in Logica formale e trascendentale60.
Si diceva in precedenza di come questa ontologia formale fosse definita da
Husserl come una regione vuota. Ora Marion definisce come oggettità il nome
di questa regione: «l’ontologie ne devient possible qu’à la condition de son absolue abstraction. Mathématique et logique ne se dépassent en une ontologie
que sous le signe de la formalité, donc en imposant à cette ontologie de se vider sans reste de toute autre détermination que l’objectité indéterminée»61. Già
nelle Ricerche Logiche Husserl aveva notato come con il termine Gegenständlichkeit si riferisse ad un’espressione indeterminata: «non si tratta mai di oggetti in senso stretto, ma anche di stati di cose, attributi, forme reali non-indipendenti o forme categoriali, ecc.»62. Questa impostazione ontologica secondo Marion si fonda su tre caratteristiche principali: a) lo statuto logico dell’ente; b) il primato dell’oggetto e c) la possibilità come originaria rispetto all’effettività.
A) La prima caratterizzazione emerge come una conclusione necessaria
nel momento in cui l’ontologia si lega strettamente alla logica e non riesce a
passare oltre: malgrado l’intenzionalità Husserl resta inscritto in uno spazio logico cosicché non ammette «l’objet que comme le substrat d’un jugement»63.
B) Anche la seconda caratterizzazione deriva dalla formalità dell’ontologia
o meglio, essa ne è la condizione a priori, la sola che renda possibile un punto di riferimento: «il ne s’agit donc pas (encore) de l’idéal scientifique d’objectivité, mais de l’exigence originaire d’un point de référence, interlocuteur seul
valable de la prédication et de l’intention»64.
C) Infine l’originarietà della possibilità rispetto all’effettività è scontata nelle
parole di Husserl quando parla della nuova ontologia come di una grammatica
del possibile. Secondo Marion, tuttavia, questo aspetto anziché sancire una
novità all’interno dell’ontologia, non fa che richiamarsi alle concezioni moderne di questa disciplina (Leibniz e Wolff).
20-05-2008
17:24
Pagina 67
Alla luce di questa descrizione dell’ontologia husserliana come di una grammatica logica universale, risulta più comprensibile la subordinazione alla fenomenologia di cui s’è detto in precedenza. Infatti «soltanto la soggettività trascendentale ha il senso d’essere di un essere assoluto, soltanto essa è “irrelativa” […], mentre il mondo reale esiste, sì, ma è essenzialmente relativo alla
soggettività trascendentale, perché può avere il senso di un mondo esistente
soltanto in quanto formazione intenzionale di senso della soggettività trascendentale»65. L’Io, la coscienza trascendentale, emerge come l’unico vero a priori, quindi il solo capace di montare al di qua di ogni ontologia.
Da un lato quindi il soggetto, dall’altro l’oggetto: due regioni distinte l’una
dall’altra, due campi ove lo stesso concetto di essere s’esplicita in maniera differente. A questo punto emerge la domanda rivoluzionaria di Marion: «mais
que signifie encore “être”, s’il doit se dire à la fois de deux régions par ailleurs
abyssalement différentes?»66. Con l’epoché viene sospesa ogni ontologia e si
mette in luce la differenza tra soggetto trascendentale ed oggetto. Eppure
l’operazione di sospensione husserliana non sembra arrestarsi a questo traguardo: «nell’esperienza trascendentale qualsiasi “essere trascendente”, normalmente inteso come il vero essere, è escluso, “messo tra parentesi”»67. L’essere viene messo tra parentesi, sospeso, cosicché la fenomenologia ed in particolar modo l’Io, che di essa è il fondamento, sembrano avventurarsi in un
campo estraneo a questa categoria. Campo che tuttavia Husserl non sembra
aver esplorato: «Husserl n’a jamais déterminé, même en esquisse, un règne
nouveau où, au-delà et autrement que l’être, s’exercerait la réduction; il a souvent, au contraire, rabattu sa propre avancée vers l’objectité, donc l’objectivité
la moins critique»68. L’ultimo paragrafo del quinto capitolo di Réduction et Donation reca il titolo emblematico di «“je” hors d’être» ad indicare come anche
questo preteso fondamento debba essere sospeso per raggiungere quell’apertura veramente ultima (veramente prima nel senso di precedente ogni altra determinazione) definita da Marion come la donazione.
Una seconda volta quindi Husserl sembra muovere verso la donazione: lo
aveva già fatto a proposito della dinamica tra intenzione ed intuizione, ed ora
lo ripete riguardo al soggetto. Indizio che tuttavia egli non asseconda richiudendo immediatamente questa apertura e restando fedele alla determinazione
dell’io come coscienza trascendentale e del fenomeno come Gegenständlichkeit. In altre parole rimanendo fedele a quella pretesa di scientificità propria
della metafisica.
Marion riassume schematicamente la posizione husserliana in queste poche righe: «la première réduction, qui est transcendentale (“cartésienne”, “kantienne”, “phénoménologique”, peu importe ici), équivaut à une constitution
d’objets. (a) Elle se déploie pour le Je intentionnel et constituant. (b) Elle lui
donne des objets constitués, (c) pris dans des ontologies régionales toutes
conformes, à travers l’ontologie formelle, à l’horizon de l’objectité. (d) Elle exclut ainsi de la donation tout ce qui ne se laisse pas reconduire à l’objectité, à
savoir les différences principielles de manières d’être (de la conscience, de
l’utensilité, du monde)»69.
SAGGI
Segni e comprensione 65
67
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
3. L’impossibile donazione
68
Pagina 68
Nella sua analisi della fenomenologia husserliana, si è visto come Marion,
sia per quanto riguarda il rapporto tra intenzione ed intuizione, che per quello
tra ontologia e fenomenologia, individui nella pura donazione un terzo che funge da principio ultimo della fenomenalità dei fenomeni. Il voler rintracciare all’interno della datità husserliana le caratteristiche proprie della donation di Marion, sarebbe una evidente forzatura che esula dalle stesse intenzioni del filosofo francese. È più corretto descrivere la sua operazione come una sorta di
sovradeterminazione70 del testo di Husserl al fine di dare una nuova configurazione all’intero apparato fenomenologico. Configurazione che Marion vuole tuttavia ancorata ai fenomeni e quindi definibile nei termini di quella scienza rigorosa cui Husserl dedicò i propri sforzi. Questa è la ragione per cui in molteplici passi dei suoi testi, Marion rifiuta ogni assimilazione o concessione ad una
sua possibile compromissione con campi estranei a quello della fenomenologia, primo tra tutti quello teologico71.
Il problema che tuttavia ci sembra resti irrisolto, è quello dell’effettivo riferimento della pura donazione alla dimensione fenomenica: accelerando sull’epoché e riducendo i fenomeni alla ricerca della fonte della loro datità, il rischio è quello di spezzare ogni ponte con il fenomenico, ritrovandosi in una dimensione tanto pura quanto vuota. Volendo sfrondare l’albero dei fenomeni
per scoprirne le radici, si finisce per segare lo stesso albero. La pura donazione è infatti attestabile solo sulla base del suo proprio accadere, il quale tuttavia esula, scardinandole, dalle condizioni di possibilità del darsi dei fenomeni
nella realtà. Si tratta di un evento eccezionale che, esterno al mondo, ha la pretesa di ergersi come suo principio, riorganizzandone l’apparire secondo un
nuovo canone. L’orizzonte di senso in cui il soggetto inscrive le proprie esperienze si trova investito da questa nuova rivelazione che chiede una rinuncia
pressoché totale dell’attività dell’io e della sua limitata capacità intuitiva/signitiva. Giunta nel mondo dei fenomeni, la pura donazione chiede di essere accolta con totale abbandono dell’io e dei suoi canoni, al fine di potersi dare in modo assoluto ed incontrastato. Possibilità delle possibilità (il farsi possibile dell’impossibile), la pura donazione finisce per invalidare le condizioni necessarie
per la sua attestabilità: saturando l’intenzione così come l’intuizione, eccedendo il campo del fenomenico così come quello dell’essere, nessun soggetto può
riconoscerla. La donazione impossibile di Marion può quindi darsi, ma solo a
condizione di costruire una fenomenologia (e di conseguenza un io) ad hoc capace di accoglierla.
Critici sulla conclusione, ci sembra tuttavia che l’analisi della fenomenologia husserliana condotta da Marion sia utile per mettere in luce alcuni effettivi
nodi problematici. L’alternanza del primato tra intuizione ed intenzione, così come tra fenomenologia ed ontologia, è infatti un dato non facilmente ignorabile.
Da un lato il rischio è quello del trascendentalismo, ossia di un’accentuazione
dell’analitica dell’io puro che di fatto rischia, come evidenziato da Heidegger, di
riproporre un modello tradizionale di filosofia, tale per cui il soggetto si pone come fondamento ultimo72. D’altra parte la deriva opposta è quella di un ontolo-
20-05-2008
17:24
Pagina 69
gismo ove l’io si trova determinato in toto da un principio che lo subordina, dove l’interesse non è più ai fenomeni ma all’essenza della fenomenalità, all’eccedenza, all’oltre che tutto fonda e tutto spiega ma mantenendo uno strutturale iato con il mondo dell’esperienza. In questo secondo caso il rischio è che
l’ansia dell’originario conduca ad una netta separazione tra sapere speculativo
e sapere pratico, abbandonando la dinamica costitutiva del reale e la sua insuperabile drammaticità.
Sul piano della correlazione intenzionale si potrebbe dire che per quanto riguarda l’intenzione, il rischio sia la sua netta separazione dall’intuizione, in un
continuo differimento del darsi dell’evidenza: una posizione simile a quella di
Derrida dove è eliminato ogni ancoraggio ad una stabilità di significato, e dove
il primum è lo scarto d’origine, il voler-dire il quale impedisce il riferimento a
qualsiasi datità73 (in primis quella della propria soggettività). D’altra parte l’appiattimento del significare sulla pienezza del riempimento intuitivo ripropone
un’enfasi della presenza tipica della filosofia moderna per cui il significato è in
tutto e per tutto determinato dall’auto-ostensione effettiva dell’oggetto cui si riferisce. Se è vero che un oggetto può essere colto e pensato solo a partire dalla relazione tra intenzione e intuizione, tuttavia non si può subordinare il darsi
di quella al verificarsi della pienezza di questa. Il riempimento perfetto è un limite ideale consistente nella conoscenza assoluta dell’oggetto da noi intenzionato. Brevemente si potrebbe dire che per Husserl il momento del “dirigersi
verso” intenzionale ha una qualche autonomia di chiarezza tale da non comportare necessariamente il momento della pienezza intuitiva per raggiungere il
soggetto conoscente74.
Alla luce di questa altalenanza tra intenzione ed intuizione, tra fenomenologia ed ontologia, la proposta di Marion s’è visto essere quella del passaggio alla donazione come ciò che supera queste alternanze. Superandole essa si colloca su un piano che le trascende ma di fatto abbandonando quella dinamica
ricchezza originata proprio dalla non riducibilità di un polo all’altro o, in positivo, dalla loro correlazione. Tra l’analisi del fondamento, della trascendenza,
propria dell’ontologia, e lo studio dei fenomeni e del loro apparire così come è
operato dalla fenomenologia, non si tratta di un’alternativa escludente, quanto
invece di una relazione includente. Allo stesso modo tra il significare proprio
dell’intenzione ed il riempimento intuitivo, si struttura un rapporto che richiama,
fondandola, la correlazione intenzionale soggetto-oggetto che nella fenomenologia husserliana comporta il superamento dell’alternativa tra realismo ingenuo
ed idealismo assoluto.
Così come l’analisi ontologica dell’essere non può comportare l’abbandono
della sfera degli enti e del loro divenire, allo stesso modo lo studio fenomenologico del flusso dell’apparire non può ridursi ad una metodica né ad una semplice descrizione del divenire. Non si tratta di giungere ad un terzo, bensì di
mettere in luce la verità della correlazione tra questi due momenti: quello fenomenologico e quello ontologico. Certamente non è un compito d’immediata soluzione: tutta l’opera husserliana si potrebbe descrivere come un tentativo continuamente rinnovato di mettere in luce la correlazione tra queste polarità. Il
passaggio dalla fenomenologia statica alla fenomenologia genetica, così come
SAGGI
Segni e comprensione 65
69
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 70
gli studi sull’attività sintetica passiva del soggetto o, ancora, la descrizione dell’Ur-ich come quel magma precosciente precedente lo stesso io puro sono, a
nostro giudizio, tutti tentativi che indicano lo sforzo husserliano di approfondimento in questa direzione. Colpisce che di tutte queste analisi (fatta eccezione per una considerazione molto breve contenuta nel quarto libro di Étant donné che si riferisce al testo di Husserl Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins75) non vi sia traccia nell’interpretazione della fenomenologia husserliana operata da Marion il quale, più heideggeriano di Heidegger, traduce lo
zwischen76 tra le polarità analizzate in un evento di pura rivelazione-donazione
il cui riscontro fenomenico risulta impossibile 77.
70
Per le citazioni delle Logische Untersuchungen si è fatto riferimento alla traduzione italiana Ricerche Logiche (RL) in due volumi pubblicata da Il Saggiatore, Milano 2005. A fianco del titolo viene riportato in numero romano il volume (I o II), seguito dal numero della Ricerca (dalla I alla VI)
e quindi del paragrafo, esplicitato con un numero arabo preceduto dal segno §. Per le indicazioni
di pagina: in numero arabo per l’edizione italiana, tra parentesi quadre per l’originale tedesco contenuto nell’Husserliana. Per le Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen
Philosophie la traduzione adottata è Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (Ideen), pubblicata in due volumi da Einaudi, Torino 2002. A fianco del titolo viene riportato in numero romano il volume (I o II), seguito dal numero del Libro e quindi del paragrafo, esplicitato con un numero arabo preceduto dal segno §. Per le indicazioni di pagina: in numero arabo
per l’edizione italiana, tra parentesi quadre per l’originale tedesco contenuto nell’Husserliana. Le
citazioni dei testi di Marion sono in lingua originale. Nel caso di Étant donné tra parentesi quadre
v’è la numerazione della traduzione italiana.
E. HUSSERL, Prefazione alla seconda edizione (1913) in RL I, p. 6.
La trilogia consta dei seguenti testi: 1) J. L. MARION, Réduction et donation. Recherches sur
Husserl, Heidegger et la phénomenologie, PUF, Paris 1989; 2) Étant donné, PUF, Paris 1997. Di
tale opera esiste anche la traduzione italiana: Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001; 3) De surcroît, PUF, Paris 2001.
3 Ideen I I §24, pp. 52-53 [43].
4 RL II VI §21, pp. 375-376 [76].
5 «Il fatto che l’intenzione significante si unifichi con l’intuizione nella modalità del riempimento, conferisce all’oggetto che si manifesta nell’intuizione, quando siamo diretti primariamente ad
esso, il carattere del conosciuto» RL II VI §8, p. 334 [35].
6 «Pur tenendo ferma la definizione di Brentano nella sua sostanza, le divergenze dalle sue
convinzioni a cui abbiamo accennato ci impongono di rifiutare la sua terminologia». RL II V §11, p.
161 [370].
7 RL II V §11, p. 163 [372-373].
8 Naturalmente questa frase è un’esemplificazione e non deve essere presa alla lettera in
quanto foriera di molteplici travisamenti: l’intenzionalità non può essere concepita come un movimento volontario: «da una parte vi sarebbe allora la soggettività, dall’altra l’oggetto, e la frattura tra
questi due momenti chiederebbe di essere superata da un’attività soggettiva, da un movimento di
apertura del soggetto verso l’oggetto. Da queste immagini e dall’eco di senso che esse ridestano
è opportuno prendere le distanze poiché, in generale, non è affatto vero che ogni esperienza sia
animata da una tensione verso un’oggettività particolare». V. COSTA, E. FRANZINI, P. SPINICCI, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, p. 94. Non si tratta quindi di una riproposizione, forse un po’
più macchinosa ed intellettualistica, di un dualismo obiettivistico che pone l’esistenza dell’oggetto
all’esterno del soggetto. Non si tratta nemmeno di una posizione idealistica (anche se per ragioni
di spazio non è qui possibile affrontare la problematica riguardo all’accusa d’idealismo rivolta alla
fenomenologia di Husserl). Detto ciò, occorre tuttavia precisare che l’intenzionalità così come Hus1
2
20-05-2008
17:24
Pagina 71
serl l’ha descritta è stata sottoposta a numerosissime interpretazioni differenti e molteplici critiche.
Si deve quindi dubitare di definizioni conclusive e categoriche che rischiano di fossilizzare un concetto che trova nella propria fluidità la sua forza propositiva. A titolo d’esempio della reversibilità
d’ogni supposto “dogma” sull’intenzionalità basti qui riportare la tesi di Jacques Derrida il quale
contraddice la caratterizzazione a-volontaria dell’atto intenzionale: «il concetto di intenzionalità resta nella tradizione di una metafisica volontarista, cioè forse semplicemente nella metafisica»; J.
DERRIDA, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1997, p. 66.
9 È esattamente questa l’apertura che Jacques Derrida attribuisce alle Ricerche Logiche nel
suo La voce e il fenomeno.
10 RL II VI §8, p. 331 [32].
11 RL II VI Intr., p. 303 [5].
12 RL II VI §45, p. 444 [142].
13 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 50.
14 RL II VI §63, p. 493 [192].
15 RL I I §1, p. 291 [23].
16 RL I II §1, p. 380 [109].
17 RL I II §4, p. 386 [115].
18 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 53.
19 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 255.
20 Riguardo alla relazione tra il tedesco geben e il francese donner si veda l’articolo G. FERRETTI, Jean-Luc Marion, disponibile su World Wide Web: <http://www.filosofico.net/marion.htm>.
21 J.-L. MARION, Réduction et donation…, cit., p. 53.
22 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 292,
nota 13.
23 Nelle prime pagine di Étant Donné Marion destituisce esplicitamente il primato del principio
husserliano a favore di un nuovo canone fenomenologico dettato ed ordinato in base alla sola pura donazione: «la limite du “principe des principes” éclate ici: autant il faut reconnaître que l’intuition en tant que donatrice a fonction de “source de droit” de la phénoménalité dans tous les cas
où les phénomènes relèvent de l’extase et de la transcendance, autant, pour des phénomènes qui
n’en relèveraient pas (s’il s’en trouve), l’intuition comme telle n’apporterait rien et la donation pourrait ou devrait même s’exercer sans l’intuition, sans son remplissement d’intention et donc sans
son extase transcendante; la donation passerait alors hors de l’intuition, parce qu’en de tels cas
celle-ci ne pourrait plus assurer la fonction donatrice, pourtant indispensable. La donation ne se
mesure donc qu’à son aune propre, pas à celle de l’intuition»; J.-L. MARION, Étant donné, cit., p.
28 [17].
24 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Gesamtausgabe II, V. Klostermann, Frankfurt 1977, p. 9. Si è
preferito riportare nel testo l’originale tedesco in quanto sia la traduzione italiana di Chiodi che
quella francese di F. Vezin traducono l’“es gibt” rispettivamente con “c’è” e “il y a”, eliminando
l’aspetto di donazione/datità presente nel verbo geben. Cfr. ID., Essere e tempo, Longanesi, Milano 2003, p. 22 e tre et temps, Gallimard, Paris 1986, p. 30.
25 J. DERRIDA, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996, p. 14.
26 MARION, Étant donné, cit., pp. 103-168 [86-145].
27 M. HEIDEGGER, Seminari, Adelphi, Milano 2003, p. 152.
28 ID., Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova 1991, p. 90.
29 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 62.
30 E. HUSSERL, Ideen II III Appendice I-6, p. 496 [129].
31 E. HUSSERL, Prolegomeni a una logica pura, in RL I, p. 220 [211].
32 RL I Intr., p. 276 [11].
33 RL I Intr., pp. 274-275 [9].
34 Naturalmente gli elementi di un tale insieme sarebbero ben più delle sette note canoniche:
bisognerebbe infatti tener conto di tutte le possibili alterazioni che qui, per semplificare, si sono
omesse.
35 COSTA, FRANZINI, SPINICCI, op. cit., pp. 74-75.
36 In realtà il termine ontologia viene attribuito nelle Ricerche Logiche solamente al campo materiale e non a quello formale per il quale si preferisce parlare di “assiomi ontologico-formali”. In
SAGGI
Segni e comprensione 65
71
Segni e comprensione 65
72
20-05-2008
17:24
Pagina 72
Ideen I nella nota 2 del §10 della prima sezione viene esplicitata la ragione di questa omissione:
«allora io non avevo osato assumere il termine “ontologia”, urtante per motivi storici, e indicavo
questa ricerca come arte di una “teoria apriorica degli oggetti come tali” […]. Oggi invece, mutati i
tempi, credo giusto rivalutare il vecchio termine di ontologia». Ideen I I, §10 n. 2, p. 30 [23].
37 RL II III §11, 42 [252].
38 R. DESCARTES, Regulae ad directionem ingenii in C. ADAM, P. TANNERY, Œuvres de Descartes X, Vrin, Paris 1996, 378.
39 E. HUSSERL, Prolegomeni a una logica pura, in RL I, 260 [256].
40 Ivi, 259 [255]. Del resto il legame tra questo paragrafo e l’ontologia formale è esplicitato da
Husserl nella Terza Ricerca quando afferma: «le categorie ontologico-formali […] di cui abbiamo
parlato nel capitolo conclusivo dei Prolegomeni»; RL II III, §11, p. 44 [252].
41 Ideen I I, §9, p. 26 [19].
42 Ideen I I, §10, pp. 28-29 [21-22].
43 Ideen I I, §59, p. 145 [111].
44 Ideen I I, §60, p. 149 [114].
45 Ideen II III, §13, p. 448 [76].
46 Ideen I I, §153, p. 382 [323].
47 COSTA, FRANZINI, SPINICCI, op. cit., p. 118.
48 Ibidem, 122.
49 Ideen I I, §42, p. 101 [77].
50 M. HEIDEGGER, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 134.
51 COSTA, FRANZINI, SPINICCI, op. cit., p. 134.
52 Ideen II III, §14, p. 449 [77].
53 Tale formulazione è utilizzata da Nicola Reali nel suo testo N. REALI, Fino all’abbandono.
L’eucaristia nella fenomenologia di Jean-Luc Marion, Città Nuova, Roma 2001 nel capitolo 1.1 intitolato proprio La riduzione antropologica.
54 Ideen II III §15, p. 455 [84].
55 REALI, op. cit., p. 56.
56 J.-L., MARION, Réduction et donation, cit., pp. 233-234.
57 E. HUSSERL, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1997, p. 170.
58 J.-L. MARION, Réduction et donation…, cit., p. 216.
59 Ivi, 229.
60 «Vogliamo cercare ora di chiarire questo duplice orientamento, e di giustificare originariamente in rapporto ad esso la distinzione tra logica apofantica e ontologia formale, una distinzione
che per altro è nello stesso tempo equivalenza, fintanto che ci si attenga al fatto che le due discipline, fin nei particolari, “sono in universale correlazione, e debbono perciò valere come un’unica
scienza”». E. HUSSERL, Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari 1966, p. 136; il virgolettato
è nostro.
61 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 225.
62 RL I I, §9, 327 nota 7 [38].
63 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 230.
64 Ibidem, p. 231.
65 Ideen II III §9, p. 428 [54].
66 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 234.
67 Ideen II III, §13, 448 [76].
68 J.-L. MARION, Réduction et donation, cit., p. 245.
69 Ibidem, 304.
70 La sovradeterminazione (Überdeutung) come interpretazione iperbolica, la quale attribuisce
all’autore in esame formulazioni da lui non sostenute ma utili per dare una nuova chiave di lettura
al suo pensiero, è un’operazione che vede in Heidegger, soprattutto nelle sue analisi di Aristotele,
un noto precedente di Marion.
71 La critica più puntuale all’opera di Marion è contenuta nel testo di D. JANICAUD, Le tournant
théologique de la phénoménologie française, Editions de l’éclat, Combas 1991.
72 «L’elaborazione della coscienza pura come campo tematico della fenomenologia non è ottenuta fenomenologicamente nel ritorno alle cose stesse, ma nel ritorno ad una idea tradizionale di filosofia»; M. HEIDEGGER, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova 1991, p. 134.
20-05-2008
17:24
Pagina 73
73 «Il per-sé della presenza a sé, tradizionalmente determinato nella sua dimensione dativa,
come autodonazione fenomenologica, riflessiva o pre-riflessiva, sorge nel movimento della supplementarietà come sostituzione originaria, nella forma del «al posto di», cioè, l’abbiamo visto, nell’operazione stessa della significazione in generale»; J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, cit., 128.
In altre parole ciò che non si contempla è il costituirsi dell’oggetto come “dato”, cosa che al contrario già nella prima delle Ricerche Logiche Husserl sostiene: «quando l’intenzione significante si
riempie sulla base dell’intuizione corrispondente, quando cioè l’espressione si riferisce all’oggetto
dato in una denominazione attuale, l’oggetto si costituisce come “dato” in certi atti, e ci è dato precisamente in essi […] nello stesso modo in cui è inteso dal significato»; RL I I §14, p. 317 [51].
74 «“Dare chiarezza” ad un pensiero, come si usa dire, significa anzitutto procurare pienezza
conoscitiva al contenuto del pensiero. Ma in certo modo ciò può essere fatto anche da una rappresentazione signitiva»; RL II VI §17, 368 [68].
75 Il riferimento è contenuto in J.-L. MARION, Étant donné, cit., pp. 307-309 [271-273].
76 In Identità e differenza Heidegger descrive nei seguenti termini la relazione tra l’essere e
l’ente, i due poli della differenza ontologica: «è solo in quest’ultima [si tratta della differenza] che
fornisce e mantiene in equilibrio il “tra” [das Zwischen] in cui passaggio-che-tramanda e arrivo sono trattenuti l’uno di fronte all’altro, portati a differire l’uno dall’altro e a volgersi l’uno verso l’altro.
La differenza di essere ed essente, in quanto differenza [Unter-Schied] di passaggio-che-tramanda e arrivo, è lo svelante-velante deferimento [der entbergend – bergende Austrag] di entrambi»;
M. HEIDEGGER, Identità e differenza, in Aut-Aut, pp. 187-188 (1982) 2-37, qui 31. Descritta in questi termini la relazione non è superata e resta al contrario il campo da gioco imprescindibile, ciò
che rende di fatto possibile il differire e la distinzione tra l’uno e l’altro degli opposti.
77 A differenza dell’Ereignis heideggeriano, la donation di Marion abbandona qualsiasi riferimento
alla dimensione dell’essere. Per il filosofo francese, infatti, inserire l’evento all’interno di una prospettiva ontologica comporterebbe una predeterminazione di esso tale da ridurne le possibilità ultime, le
quali si devono al contrario poter spingere in quell’oltre assoluto completamente indeterminato.
SAGGI
Segni e comprensione 65
73
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 74
FANTASIA, WITZ E UMORISMO.
LA RIVELAZIONE DELL’ARTE IN SOLGER
di Andrea Camparsi
Sterben werd’ich, um zu leben 1
1. Introduzione
74
Il filosofo tedesco Karl Wilhelm Ferdinand Solger (Schwedt 1780 – Berlino
1819) fu professore straordinario di filologia all’Università di Francoforte sull’Oder dal 1808 fino alla sua chiamata presso la neonata Università di Berlino
nel 1811 dove tenne, fino al 1819, anno della sua morte, corsi di logica, metafisica, mitologia ed estetica. Dal 1814, coprì anche la carica di rettore come
successore di Fichte e nel 1818 caldeggiò la chiamata di Hegel presso l’ateneo berlinese.
Prima di entrare in argomento, pare opportuno delineare la primaria esigenza teoretica che caratterizza l’intero percorso filosofico solgeriano. Sebbene
continui ad essere solo minimamente menzionato nelle storie della filosofia,
esso ricopre un ruolo rilevante nel panorama romantico tedesco soprattutto per
la sua originale impostazione che lo differenzia notevolmente dai suoi grandi
contemporanei. Non solo per la sua predilezione verso la forma dialogica, la
“filosofia vivente”. Infatti, il suo vocabolario di chiara scuola romantica non realizza risultati ascrivibili semplicemente al pensiero idealista ma contribuisce,
anche attraverso esposizioni frammentarie e a volte oscure, a presentare una
filosofia tanto profonda quanto di difficile esposizione, centrata sul problema
della rivelazione (Offenbarung) del divino.
È l’accezione ironica a caratterizzare il mondo visto da Solger; un mondo
non visibile né sotto una lente puramente ‘formalista’ né tanto meno sotto una
radicalmente ‘materialista’. Come egli afferma nel suo scritto programmatico
Über die wahre Bedeutung und Bestimmung der Philosophie, besonders in unserer Zeit, pubblicato postumo nei Nachgelassene Schriften del 1826, gli enti
finiti non sono né copie sbiadite dei concetti né essi stessi il termine ultimo della verità ma costituiscono la dimensione spazio-temporale, che permette al divino di rivelarsi in un doppio movimento di negazione. Tanto il divino (ciò che
Solger chiama anche idea e verità) deve negarsi come infinità per rendersi visibile, tanto il finito viene elevato ad essenza e negato nella sua corruttibilità
per dare spazio all’idea. Tale doppio movimento non conduce per Solger ad
una definitiva e statica Aufhebung ma innesca un perfetto, reciproco e infinitamente ripetuto trapassare del divino e del terreno, che permette alla limitata
conoscenza umana di rispondere “alla sua intima spinta (Drang)”2: il pensiero.
Ironico è quindi l’intero mondo scorto dagli occhi del pensiero poiché esso,
sebbene non permetta di conoscere la verità divina nella sua essenza, consente all’uomo di cogliere l’intima contraddizione che scaturisce nel “fatto eterno e
20-05-2008
17:24
Pagina 75
insieme presente per noi”3, ossia l’istantanea connessione tra infinito e finito,
l’eterno e il mortale. Due nature antitetiche e perciò ironicamente congiunte in
una sintesi che allo stesso tempo è sia momentanea, quindi già proiettata alla
dissoluzione, sia visione dell’idea vivente. Al termine delle Considerazioni preliminari sul termine e concetto di Estetica, introduzione alle Vorlesungen über
Ästhetik, raccolte e pubblicate da Karl Ludwig Heyse nel 1829, Solger rivela il
compito della filosofia che è “quello di cercar di scandagliare i dati di fatto della conoscenza in cui si manifesta l’essenziale”, e ancora “quello di ricercare in
che modo nel presente è contenuta l’essenza, nel fenomeno particolare l’idea
universale”4.
Importante risulta enucleare la singolare dialettica che sottende tutta la filosofia solgeriana della rivelazione. Tramite la breve opera dialogica, Philosophische Gespräche über Sein, Nichtsein und Erkennen, pubblicata postuma all’interno dei Nachgelassene Schriften, Solger immette nella riflessione dialettica
della conversazione la problematicità dell’essere come oggetto di indagine filosofica nel divenire. Nel momento che i tre protagonisti decidono di parlare
dell’essere, si scontrano con la nullità del non-essere e la possibilità della conoscenza. Seppur non si conosca la data della composizione dei dialoghi, è
possibile intrecciare i risultati di questa ricerca ontologica con i lavori di carattere estetico, che puntano l’attenzione sull’eccezionalità del fenomeno artistico
come luogo privilegiato per scorgere la rivelazione dell’essere nel non-essere,
dell’infinito nel finito.
Il punto di partenza di un possibile dialogo sull’essere prende avvio dalla
stessa possibilità di parlare dell’essere. Se dell’essere non si potesse parlare
significherebbe l’inesistenza di esistenza. Ma l’essere per dirsi esistente deve
esistere divenendo, spinto dall’intenzione infinita di tornare identità. Così facendo, l’essere comincia un cammino autoriflettente che lo riporti a sé tramite
l’esistenza e il perpetrato fattore limitante del non-essere, che come dice il dialogante C., “per se stesso […] non può essere proprio niente; giacché è meramente qualcosa per l’essere”5, esprime la decisiva sentenza che dà il continuo
e ripetuto inizio dell’essere che conosce se stesso. Il non-essere è il punto da
cui ricomincia il cammino conoscitivo dell’essere che nega il negativo per passare all’istante successivo. Subentra, in questa dialettica del negativo, il fattore-tempo che permette a Solger di aggiungere al titolo dell’opera il terzo elemento, quello cioè della conoscenza. La conoscenza, emergente dal dialogare stesso dei tre amici filosofi, è in realtà l’elemento necessario per cominciare un cammino retrogrado che passando per la conoscenza del non-essere
porti alla fonte del cominciamento, ossia all’essere solo e identico a se stesso.
Ma ciò che rende originale il cammino indicato da Solger, è la modalità del
percorso che permette di scorgere l’essere. Non elevandosi attraverso uno
slancio estatico, al di là del mondo della creazione per giungere nel luogo, nonluogo dell’essere, ma stando nel contingente e scorgendo in esso i continui
scarti che sono prodotti dal movimento delle infinite differenze di cui si compone il creato non-essere, al servizio del completamento infinito dell’essere, in vista dell’identità ironicamente mai raggiungibile e per questo producente conoscenza. Ma ciò non darà forma ad un cattivo infinito matematico esteriore ben-
SAGGI
Segni e comprensione 65
75
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 76
sì ad un infinito interiore all’oggetto stesso, che esprimerà in modo finito l’infinito tramite la traccia di un’ironica ‘contingenza assoluta’. L’essenza dell’essere che vuole raggiungere la conoscenza di sé tramite l’esistenza “crea perciò
all’infinito il non-essere e lo divora appunto sempre di nuovo tramite l’essere
perdurante, per divorare così alla fine tutto il non-essere e farsi di nuovo uguale a se stesso”6.
2. Il particolare universale: l’umorismo dell’arte
76
I quattro dialoghi, che danno forma all’opera dialogica Erwin del 1815 e le
pagine dedicate all’organismo e allo spirito artistico all’interno delle Vorlesungen
über Ästhetik, presentano un ampio e attento studio trasposto in campo estetico circa la fenomenologia della caduta dell’Idea nel mondo contingente. Non si
deve dimenticare la stretta correlazione che nell’opera di Solger intercorre tra il
campo puramente teoretico e quello estetico della filosofia, proiettato ad evidenziare l’aspetto prettamente visivo dell’Idea, a nostro avviso, intesa dall’Autore
nella concezione etimologica originale (ideîn, vedere; eidos, visione).
Il luogo dove le tracce dell’idea si lasciano visibili è la bellezza. Ma non la
bellezza della natura osservata nella sua finita oggettità, ma scorta attraverso
l’occhio dell’artista, che sa cogliere il bello e fermarlo nell’opera d’arte, tramite
la facoltà formatrice della fantasia. Come ben dice Ophälders, “l’opera d’arte è
l’attimo della tregua, il momento istantaneo in cui gli elementi desunti dalla natura assumono una costellazione tale da rappresentare l’idea infinita in modo
finito”7. Quindi, si può affermare che nel bello d’arte appare la traccia eminentemente visibile del momento rivelatore infinito e caduco allo stesso tempo poiché proprio la bellezza è il luogo della contraddizione per eccellenza, capace
di mantenere visibile la trascendenza nella contingenza delle opere create, che
partecipano come singolarità limitate alla rivelazione divina. Nel secondo dialogo dell’Erwin, è il personaggio Adelbert / Solger a svelare che “questa unità
di essenza e apparenza nell’apparenza, quando giunge alla percezione, è la
bellezza. Essa è dunque una rivelazione di Dio nell’apparenza essenziale delle cose”8.
Per intendere il complesso processo creativo dell’artista e giungere così ad
esplicitare il perché dell’accezione umoristica dell’arte, bisogna dapprima seguire il percorso che Solger sviluppa nell’Erwin, soffermandosi su quelle che si
possono definire le due facoltà dell’attività artistica, che contribuiscono alla nascita dell’opera d’arte: il movimento cenotico9 dell’idea che si rivela attraverso
la fantasia e l’attività della contemplazione artistica accesa dal Witz.
La fantasia
La fantasia è la prima facoltà implicata nella creazione artistica, direttamente collegata alla dialettica rivelativa dell’idea. Abbiamo poco fa sottolineato come per Solger la bellezza sorga nell’occhio artistico e non sia un elemento consustanziale alla natura. La natura non è bella, ma lo è solo nell’istante creativo artistico dominato dalla funzione universalizzante della fantasia, che “pren-
20-05-2008
17:24
Pagina 77
de le mosse dall’unità originaria di questi opposti nell’idea e fa sì che gli elementi contrapposti che si separano dall’idea si unifichino compiutamente anche nella realtà secondo indirizzi differenti”10. È questo il passaggio, che usando le stesse parole di Solger, si compie tra la ‘poesia’ e l’ ‘opera d’arte’, ossia
tra lo spirito interno dell’idea e il suo compimento fenomenico. Per poesia, il
Nostro intende la “superiore attività al di fuori dell’artista, il pensiero generale
del mondo, l’idea in quanto tale” che deve “colmare la coscienza dell’artista”11
per divenire opera d’arte, ossia rendersi visibile. S’intende così perché Solger
neghi una bellezza di natura. Solo l’uomo che accoglie in sé la forza rivelativa
della fantasia, che “è espressione dell’idea nella coscienza”12, può scorgere la
bellezza e infonderla nell’opera. Essa non è quindi una facoltà del soggetto ma
è la primaria facoltà dell’infinito stesso che si mostra con tutta la forza rivelativa (ciò che Solger chiama ‘entusiasmo’) alla ricettività contemplativa dell’artista. È, come la definisce lo stesso filosofo, un miracolo che permette di rendere presente la divinità nell’opera d’arte.
Di fronte a tale concezione, sembra sorgere una contraddizione, che lo
stesso Solger fa esprimere al giovane Erwin nel secondo dialogo: “Non capisco bene dove debba apparire la bellezza divina, se le cose terrene la escludono del tutto dall’apparenza reale?” La risposta risolutiva la presenta Adelbert
/ Solger: “Nella fantasia, […], l’apparenza del divino in noi non è meno vera e
reale degli oggetti fuori di noi [perché] nella più alta conoscenza in generale,
che chiamiamo fantasia, l’essenza divina si riveste in una forma del tutto reale e vivente che a noi, quando la paragoniamo con le apparenze del mondo
esterno, si presenta come un loro modello”13. Ma attenzione a non leggere qui
un richiamo neoplatonico o schellinghiano da parte di Solger. Il fatto che l’idea
si presenti ‘a noi’ come modello non significa che la creazione artistica sarà solo una copia ma sarà l’idea stessa che, incarnando una forma particolare, la
rende universale nell’istante rivelatore della bellezza. Questo è il “miracolo dell’esistenza divina”, ed è grazie ad essa che, per Solger, l’uomo ha la capacità
di cogliere l’istante della rivelazione nell’apparenza mondana, conscio allo
stesso tempo della natura corruttibile del mondo reale. La fantasia è quindi una
sorta d’infusione dello spirito della ‘poesia’ nella natura umana, con le parole
del Nostro, “un montare dell’idea nella realtà, così che ogni momento di essa
è un punto in cui l’idea si genera, e perciò contiene l’universale”14.
Nel terzo dialogo dell’Erwin, i toni di Adelbert / Solger si ammantano di una
spiccata aurea mistica proprio quando la discussione si ferma ancora sulla
centralità divina della fantasia, “tempio sacro”, “giardino della fantasia” dove risiede il divino nell’uomo. L’anima dell’artista si rivolge con tutta se stessa verso questo centro spirituale e si lascia cadere “nell’abisso e nel vorticare della
fiamma” – qui avviene il salto decisivo che permette il completamento della Offenbarung divina – “da trascinare con sé non solo la sua propria esistenza reale ma anche tutto il restante mondo della particolarità e della realtà concreta,
che dall’esterno, la circonda”15. Solo così si consuma quello che Solger chiama il “sacrificio” del negativo finito, che permette all’artista di contemplare il
mondo attraverso quelle che potrebbero essere immaginate come le “lenti” della fantasia. Si noti inoltre, sempre in questo stesso punto del dialogo, un chia-
SAGGI
Segni e comprensione 65
77
Segni e comprensione 65
78
20-05-2008
17:24
Pagina 78
ro rimando platonico che si risolve altrimenti rispetto alla canonica argomentazione platonica: l’anima “entrata in rapporto con ciò ch’è indegno e nullo” riscatta la sua “vergogna” non elevandosi al di là del finito ma riscattando la nullità del finito elevandola ad unico e possibile tramite della rivelazione dell’idea
all’occhio della fantasia, “il nervo ottico dell’anima, o la sua radice”16.
Ciò che accade qui in termini mistici è trasposto in chiave filosofica all’interno delle Vorlesungen, nelle quali Solger espone il processo che viene a svolgersi all’interno del “tempio sacro” della fantasia. L’idea, che si rivela alla contemplazione dell’artista all’interno del “giardino sacro”, viene scomposta dalla
stessa fantasia nelle sue due opposizioni: dell’universale, ovvero il concetto17,
e del particolare. Dopodiché, la contemplazione dell’artista potrà rivolgersi alla
creazione dell’opera d’arte seguendo due opposte direzioni: quella simbolica o
formativa, oppure quella allegorica o riflessiva. Da qui nasce la definizione solgeriana di fantasia formatrice e riflessiva. L’idea, una, nel momento della rivelazione subisce ciò che accade alla luce nel prisma ottico e da unità indivisa e
uniforme si rifrange in attività, “allora bisogna che proceda dall’universale al
particolare e dal particolare all’universale”18. Lo scarto decisivo, che avviene
quando l’idea cade nel finito, è uno spostamento gnoseologico determinante
che permette all’artista di scorgere nell’istante (Augenblick) rivelatore i due opposti, frutto della rifrazione ideale e di sintetizzarli nell’opera d’arte, rimando ultimo all’unità dell’idea. È bene ricordare che l’idea mantiene sempre la sua trascendentalità ontologica pur incarnandosi nel finito, seguendo il suo destino.
Proprio qui è riscontrabile il sintomo che mostra in tutta la sua problematicità il
punto di vista ironico solgeriano.
Prima di passare ad osservare l’attività prettamente soggettiva dell’artista,
è bene ricordare la differenza che intercorre tra le due accezioni della fantasia
e come in realtà il simbolico e l’allegorico non siano in Solger antitetici. Si legge nelle Vorlesungen che la fantasia formatrice sia implicata nella creazione di
opere simboliche, che sono tali poiché frutto del procedimento che, prendendo
avvio dall’universale del concetto, si spinge nel particolare. Al contrario la fantasia riflessiva segue il percorso che conduce allegoricamente dal particolare
all’universale. In realtà, nell’opera d’arte è implicato tanto l’elemento simbolico
quanto quello allegorico e ciò che, per Solger, rende l’opera afferente all’uno o
all’altro attributo, sebbene non chiaro, sembra essere il differente punto di vista, che accompagna l’artista. Ciò è rintracciabile nel paragrafo delle Vorlesungen, dedicato alla condizione generale del bello come materia dell’arte. In esso si legge che “in quanto il bello è materia dell’arte, e dunque apparenza fenomenica in cui si trova l’idea, lo chiamiamo in generale simbolo” e ancora che
“il simbolo non è imitazione, ma la vita reale dell’idea stessa”19. Diversamente,
“nell’allegoria il contenuto è lo stesso che nel simbolo; ma in essa intuiamo prevalentemente l’opera dell’idea, che nel simbolo è giunta a compimento”20. Dopo aver affermato tale differenza, Solger complica ancor maggiormente la questione sostenendo che “l’allegoria può ugualmente procedere dall’universale
come dal particolare” poiché essa sottende le relazioni tra particolare e universale, che conducono alla completa infusione simbolica dell’idea nel particolare. Ma, come sottolinea Lotito21, in Solger il simbolico non si completa mai in
20-05-2008
17:24
Pagina 79
una statica rivelazione dell’idea poiché una volta balenata nell’istante della bellezza, l’idea stessa capitola nel movimento temporale diacronico del finito e si
rivolge di nuovo ad un punto di vista allegorico. Infatti, “neppure il simbolo può
mai prescindere completamente dall’allegorico. […] Il simbolo dovrebbe relegare l’idea in tutta la sua pienezza in una forma particolare [perciò] realtà e
idea si sopprimerebbero reciprocamente”22. Non pervenendo ad una lettura
certa di questa complessa tematica solgeriana, ci pare che il problema sia da
riferirsi alla doppia negazione, su menzionata. Il lato simbolico della rivelazione prevale nel momento in cui l’infinito dell’idea nega il finito del contingente e
l’allegorico traspare nel secondo movimento negativo, che riguarda la negazione dell’infinito dell’idea da parte del finito contingente. Da ciò nasce un rimando ironicamente solo allegorico, che gioca sulla prevalenza ora dell’allegorico
stesso, ora del simbolico23.
Il Witz
La facoltà divina della fantasia non è sufficiente a dirigere da sola l’attività
creativa artistica poiché essa entra in conflitto con la sensibilità, sua antitesi, e
non giunge alla compenetrazione, necessaria alla rivelazione. È indispensabile, al riguardo, l’apporto soggettivo della contemplazione intellettiva. Nel quarto dialogo dell’Erwin, leggiamo che è l’intelletto la facoltà che supera la scissione mantenendo presente il punto centrale dell’arte, ossia l’istantanea connessione di finito e infinito. Ma non il comune intelletto, bensì l’ ‘intelletto artistico’,
che permette all’uomo di superare la conoscenza comune e di “concepire la
vera conciliazione e unità di universale e particolare” e di indirizzare lo sguardo “all’essenza delle cose che ci circondano”, grazie all’influsso divinizzante
della fantasia. L’occhio dell’intelletto guidato dalla fantasia scorge così “un intero universo avvolto nello splendore dell’idea”24. È questa la contemplazione
soggettiva dell’artista che, diversamente dal comune intelletto che scorge solo
la “massa inestricabile” della molteplicità, grazie alla visione miracolosa offerta dalla fantasia (la continua oscillazione allegorica tra formatività simbolica e
riflessività allegorica) scorge l’idea calata nelle forme particolari. È questo il
Witz artistico, l’arguzia secondo la traduzione di Giovanna Pinna, il far dello
spirito secondo Marco Ravera, termine difficilmente traducibile dal tedesco e
ricco della perspicace abilità che caratterizza il genio nel rispondere, con la
propria attenzione, al richiamo divino, che tramite la fantasia esprime l’urgenza della rivelazione.
In definitiva, Solger descrive dapprima una fantasia, che si presenta come
un’attività divina connettiva che permette la trasfigurazione del particolare, capace di farsi portatore allegorico della rivelazione dell’idea. Ma ciò che necessariamente deve prendere atto della rivelazione, per risultare tale, è il soggetto contemplatore, che non seguirà le divisioni e i collegamenti relativi dell’intelletto comune, ma saprà cogliere, attraverso il motto di spirito, il Witz, la totalità dell’idea nel particolare, trasfigurato dall’influsso universalizzante dell’idea.
È nelle Vorlesungen über Ästhetik, che Solger evidenzia come nell’atto della
contemplazione artistica, l’artista sappia vedere nell’istante del Witz il momento di unità tra universale e particolare. L’arte non è attività prettamente pratica
SAGGI
Segni e comprensione 65
79
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 80
bensì è una risposta ad un’esperienza che l’artista vive come rivelazione divina quindi ecco perché Solger afferma che l’arte è in primo luogo teoretica, analogamente all’esperienza religiosa. In seconda battuta si rende necessaria una
via pratica, in risposta all’attraversamento dell’idea nella coscienza personale.
Tornando al punto di vista dell’idea, rilucendo nella bellezza artistica essa
diviene il frutto della momentanea fusione di concetto e particolare, parti risultanti dalla scissione dell’idea stessa. Quindi si comprende perché l’opera d’arte presenti per Solger la totalità dell’idea in un frammento di materia (la contingenza dell’opera d’arte come oggetto creato), che viene elevato ad universale: “Se il rapporto tra il concetto ed il molteplice dev’essere concepito mediante l’idea questi opposti debbono essere ridotti ad un momento (Moment) di unità in cui scompaiono completamente come opposti relativi e, annientandosi come opposti, proprio con ciò rappresentano l’idea”25. Proprio utilizzando l’accezione Moment, Solger conferma la volontà di dimostrare la portata rivelativa
dell’opera d’arte, che nel momento diacronico è la totalità dell’idea nel susseguirsi dei momenti, nel divenire del molteplice. Solo ora è possibile puntare l’attenzione sulla sensibilità dell’opera d’arte e sull’umorismo che essa esprime.
80
L’umorismo
L’umorismo (Humor) è l’accezione della sensibilità, che accompagna l’opera d’arte giunta al suo massimo grado di espressività ontologica. La sintesi tra
la facoltà divina della fantasia e l’attenzione al particolare, offerta dal contemplativo ‘motto di spirito’ (Witz) dell’artista permette la nascita di un’opera d’arte
che umoristicamente, allarga la realtà fattuale mostrando come la forza universalizzante dell’idea sappia agire sulla totalità del finito.
Come afferma Solger, è nel carattere ‘umoristico’ dell’arte, che l’artista può
esprimere, rifuggendo da tutto ciò che è ‘interessante’, dov’è possibile cogliere l’istante ironico rivelatore. L’‘interessante’, ossia il fissare capziosamente
l’‘attenzione creatrice’ sui particolarismi, bloccherebbe la libera caduta dell’idea
e porrebbe in primo piano solo l’utilità del finito che persisterebbe nella sua
vuota caducità, lasciando parallelamente l’idea confinata nella sua astratta universalità. Si nota qui l’esplicito richiamo a Kant, “quando diceva che il bello deve piacere senza un interesse particolare”26 anche se, allo stesso tempo, Solger nega una sussistenza di un bello naturale così come afferma un’esigenza
oggettiva nella ricerca del bello da parte dell’artista. Il bello “soggettivo universale” di sapore kantiano sembra, ad un primo approccio, lontano da questa
estetica teologica. Tuttavia la differenza non appare profondamente marcata,
soprattutto per quanto riguarda l’accezione soggettiva del giudizio estetico. Ma
forse è proprio lo statuto kantiano di ‘giudizio’ riguardante il bello ad allontanare maggiormente i due filosofi. Solger non è concentrato su ciò che è giudicato bello ma su ciò che è bello in quanto creatura artistica bella. L’artista è il tramite soggettivo attraverso il quale la bellezza prende forma ma l’opera d’arte
compiuta è dimostrazione oggettiva della rivelazione divina nel finito. Quindi
Solger non è concentrato sul ‘senso comune’ del giudizio estetico ma sulla sostanzialità ontologica dell’opera d’arte, formata dal processo demiurgico dell’artista. Ecco perché ciò che è bello, creato dall’occhio attento dell’artista de-
20-05-2008
17:24
Pagina 81
ve rifuggire da tutto ciò che è interessante, in quanto utile, dovendo preparare
di conseguenza il luogo nel quale accada l’evento decisivo nell’istante della
doppia negazione, testimonianza finita dell’infinito. Quello che intende Solger
è che il particolare deve essere certamente implicato nell’oggettità stessa della creazione artistica ma non deve assolutamente essere ridotto a mezzo
quando, in realtà, è il fine stesso della rivelazione eidetica. Un fine che ironicamente lascerà balenare il divino in una luce destinata a spegnersi, vinta dalla
forza annichilente della temporalità diacronica. Da qui sorge la tragicità che in
Solger non si contrappone all’umorismo ironico ma esprime il valore, in un certo senso, anfibio dell’opera d’arte autentica, in tensione tra la forza dirompente dell’essenza colta nell’istante del farsi esist-ente e la durezza contingente
della materia, attraverso la quale la bellezza si rifletterà, o meglio, si rifrangerà. Leggiamo, nel quarto dialogo dell’Erwin, che la luce dell’idea “deve necessariamente rifrangersi (brechen sich) solo in ciò che è individuale in modo così peculiare”27. L’opera d’arte quindi è ironicamente presente proprio nella sua
duplice natura inconciliabile, che si lascia scorgere dai due diversi e opposti
punti di vista del finito e dell’infinito. Infatti, la filosofia di Solger non manca di
sottolineare come, all’interno della sua dialettica, una concezione che assuma
una salda armonia dalle stabili forme classiche manchi di fondamento poiché
l’occhio umano stesso è un organo ironico che scorge nella finitudine dell’opera d’arte la sua primaria evidenza: la fisicità della creazione artistica è il tramite che lascia balenare la trascendenza dell’idea nel mondo in un istante (Augenblick) di eternità paradossalmente presente nel momento (Moment) irripetibile nella sua singolare esistenza. L’ironia è quindi ravvisabile in un’infinita
oscillazione tra i due estremi, anzi è il movimento stesso tra finito e infinito che
lascia tralucere l’idea, in una sorta di abbagliante lampo.
È da sottolineare come l’umorismo (Humor) che intende Solger non è da
confondersi con la comicità né con “una stravaganza esteriore o particolare” o
con una “stramba follia” bensì si tratta della rivelazione della divinità stessa nelle infinite maglie delle “cose diverse e molteplici” che vengono trattate, sì nella loro singola particolarità ma, allo stesso tempo, rapportate all’universalità
dell’idea. L’umorismo è eletto a ideale cornice della rivelazione poiché è in esso che “ciò che è più comune e più sensibile riceve spesso tutta la forma e tutto il significato del divino”28.
Umorismo e ironia sono i due concetti solgeriani, che delineano l’evento rivelatore essenzialmente contraddittorio del finito che nega se stesso per lasciare spazio all’infinito dell’idea e dell’infinito che nega se stesso per infondersi nel finito. L’ironia è la rivelazione osservata dal punto di vista dell’idea, l’umorismo dal punto di vista del sensibile temporale. Essi mostrano il movimento
che permette al momento temporale, nel quale avviene la rivelazione, di fondarsi in un istante essenzialmente eterno. Sia ben inteso, anche l’istante rivelatore sarà soggetto al flusso della contingenza negatrice e di conseguenza
mostrerà, nel modo più evidente, il suo tramonto perché l’idea che cade nel finito lascia traccia balenante (“il balenare, ‘hervorleuchten’, dell’idea nell’esistenza”29) di sé proprio nell’istante della bellezza, nel quale assume su di sé la
tragica direzionalità della mortalità. Importante è notare che la doppia negazio-
SAGGI
Segni e comprensione 65
81
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 82
ne presente nella dialettica duale solgeriana, prospetta una positività che in
quanto tale non riconduce ad una riconciliante Aufhebung, che risolve definitivamente il movimento rivelatore in un ritorno all’assoluto, ma rimanda alla fondamentale contraddizione che regola il tempo diacronico del mondo del nulla,
il luogo del “non” che permette il gioco rifrattivo della rivelazione, che solo in
quel “non” può farsi esist-ente. Perciò si può intravedere anche nell’impianto
solgeriano la presenza di una Aufhebung, che non è unica e irripetibile ma si
fonda sul continuo brillante istantaneo accordo, che sottende all’intera creazione. È una Aufhebung che, una volta toccata la conciliazione di fenomeno ed
essenza, al fine di testimoniare la totalità nello splendore dell’eternità dell’idea,
inizia a vivere, o meglio inizia a morire, nella consequenzialità dei momenti,
che succedendosi l’un l’altro accompagnano il tramonto della bellezza, eterna
nell’istante e mortale come tutte le altre apparenze.
3. Conclusioni: ironia e umorismo come tragedia
82
Ci avviamo alla conclusione con le parole paradigmatiche di Adelbert / Solger nel secondo dialogo di Erwin: “Questa lancinante contraddizione, amici,
vince ognuno, inconsciamente, con un dolore non solo intimo ma universale,
un dolore che altri beni non possono lenire e ch’è eterno e indistruttibile, [è] la
nullità stessa dell’idea che, nel suo prender corpo, viene insieme sottomessa
al destino comune di ogni cosa mortale, ma con cui ogni volta muore un intero mondo animato da Dio. Questa è la vera sorte del bello sulla terra!”30. Si nota come l’attenzione umoristica dell’artista e l’opposizione ironica, che si sviluppano nell’atto creativo siano per Solger gli elementi principali della visione tragica dell’arte, contrassegnata dal dolore “lancinante” della rivelativa contraddizione tra finito e infinito, tra un momento caduco della mortalità e l’istante eterno nel quale si appresta a morire “un intero mondo animato da Dio”.
L’elemento tragico nasce poiché l’estetica di Solger non presuppone né un
pensiero panteista né neoplatonico, ma una compenetrazione di divino e terreno attraverso l’esperienza del bello, necessaria per la rivelazione. Infatti, tale fusione universalizzante, in vista dell’espressione dell’idea nel “qui ed ora” è
la su citata ‘doppia negazione’, che non si risolve in una statica e pacificatrice
sintesi in cui scintilli stabilmente l’eterno, bensì “testimonia il prodigio per cui le
rovine dell’idea fanno brillare in un istante l’unione perfetta di mortale ed eterno”31. Le rovine dell’idea appunto, e non l’idea in tutta la sua universale portata poiché l’istante eterno dell’unione perfetta è contemporaneamente un momento, che iscrive immediatamente l’idea stessa nel flusso perpetuo del tempo diacronico. La seconda negazione è il destino che subisce lo stesso frammento di finito, che viene innalzato ad idea e perciò negato nella sua contingenza. Solo nella visione tragica dell’arte, si può intendere la solgeriana ‘apparenza assoluta’ del bello. Fenomeno che si universalizza in un’idea che muore
nel mondo del finito, per esprimersi agli occhi dell’uomo.
Concludiamo con un esempio decentrato rispetto alla contemporaneità sol-
20-05-2008
17:24
Pagina 83
geriana per evidenziare la portata universale delle osservazioni del nostro filosofo. Basti pensare ad un esempio umoristico per eccellenza, ovvero La sedia
di Vincent van Gogh, descritta con le parole di Romano Guardini, che rilevano
il contrasto umoristico tra la parzialità del particolare e la totalità dell’universale: “Un’autentica opera d’arte non è come qualsiasi fenomeno immediatamente percepito, una semplice porzione di ciò che esiste, ma è una totalità. Questa sedia dinanzi a me si trova in un contesto che si espande da ogni lato. Appena io la ritraggo con la macchina fotografica, il suo carattere di porzione si
manifesta in modo netto. Se però la vede Vincent van Gogh, inizia fin dal suo
primo sguardo un processo particolare: la sedia diviene il centro attorno a cui
si riunisce nello spazio tutto il resto. […] In tal modo ciò che si mostra nel quadro appare come una totalità.”32 La sedia diviene così la sedia, ossia un mondo che racchiude nello spazio del quadro il tutto dell’idea. Van Gogh ha sicuramente conosciuto la sedia quale fenomeno tra gli altri ma il momento caduco dell’osservazione è stato illuminato dalla fantasia, così che la sua contemplazione artistica ha potuto cogliere, tramite il balzo del Witz, la bellezza dell’istante eterno dell’idea, che ha riversato tutta la propria essenza nell’umoristico particolare del dipinto. Richiamandoci all’estetica solgeriana, possiamo
quindi costatare che ne La sedia di Van Gogh risplende la tragedia del bello,
che sottende l’intera creazione dell’opera. L’idea si cala cioè nelle relazioni del
finito, balena nell’oggetto rappresentato dal pittore e muore nella particolarità
del momento donando l’istante eterno della bellezza, che riluce nella tela del
pittore, che ha saputo contemplare l’evento con gli occhi della fantasia rivelatrice. È l’artista stesso che viene attraversato dall’idea, anzi ora possiamo affermare, dall’idea che rovina nel finito. Così l’artista invera la sua creazione,
che per questa ragione ‘è’ arte.
1 G. MAHLER, Seconda Sinfonia, quinto movimento per orchestra, coro, soprano e contralto,
tratto da Aufersteh’n di Klopstock.
2 K. W. F. SOLGER, Nachgelassene Schriften und Briefwechsel, a cura di L. Tieck e F. v. Raumer, F. A. Brockhaus, Leipzig 1826, edizione anastatica Lambert Schneider, Heidelberg 1973,
Band II, p. 64. Si cita qui la traduzione italiana a cura di Valeria Pinto, K. W. F. SOLGER, Scritti filosofici, Guida, Napoli 1995, p. 85.
3 Ivi, p. 187. Tr. it., cit., p. 157.
4 K. W. SOLGER, Vorlesungen über Ästhetik, a cura di K. L. Heyse, F. A. Brockhaus, Leipzig
1829, edizione anastatica Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1980, pp. 8 e 10. Si cita qui la traduzione italiana a cura di G. Pinna, K. W. F. SOLGER, Lezioni di Estetica, Aesthetica, Palermo 1995, pp. 33 e 34.
5 K. W. F. SOLGER, Nachgelassene Schriften und Briefwechsel, cit., p. 233. Tr. it., cit., p. 187.
6 Ivi, p. 234. Tr.it., cit., p. 188.
7 M. OPHÄLDERS, Dialettica dell’ironia romantica. Saggio su K. W. F. Solger, Clueb, Bologna
2000, p. 47.
8 K. W. F. SOLGER, Erwin, Vier Gespräche über das Schöne und die Kunst, a cura di W. Henckmann, W. Fink Verlag, München 1970, p. 116. Si cita qui la traduzione italiana a cura di M. Ravera, K. W. SOLGER, Erwin, quattro dialoghi sul bello e sull’arte, Morcelliana, Brescia 2004, p. 123.
9 Cfr. M. RAVERA, Premessa alla tr. italiana di Erwin, p. 11.
SAGGI
Segni e comprensione 65
83
Segni e comprensione 65
17:24
Pagina 84
K. W. F. SOLGER, Vorlesungen über Ästhetik, cit., p. 186. Tr. it., cit., p. 139.
Ivi, p. 185. Tr. it., cit., p. 139.
12 Ibidem.
13 K. W. F. SOLGER, Erwin, cit., p. 168. Tr. it., cit., p. 159.
14 K. W. F. SOLGER, Vorlesungen über Ästhetik, cit., pp. 198-199. Tr. it., cit., p. 147. Già in questa affermazione, Solger definisce l’umorismo, il particolare che contiene l’universale. Fantasia,
Witz e umorismo sono tre facoltà strettamente legate nella creazione artistica quindi, trattandone
una, non si può evitare di chiamare in causa anche le restanti.
15 K. W. F. SOLGER, Erwin, cit., p. 201. Tr. it., cit., p. 189.
16 Ivi, p. 202. Tr. it., cit., p. 190.
17 La differenza dell’universale del concetto da quello dell’idea non è argomentata chiaramente da Solger. L’idea è totalità di concetti e molteplicità. È certo che la rivelazione nell’opera d’arte
debba riguardare l’idea nella sua totalità, calata nel particolare.
18 K. W. F. SOLGER, Vorlesungen über Ästhetik, cit., p. 189. Tr. it., cit., p. 141.
19 Ivi, p. 127. Tr. it., cit., pp. 104 e 106.
20 Ivi, p. 131. Tr. it., cit., p. 107.
21 Cfr. L. LOTITO, Presenza del simbolo. Alcune osservazioni a partire dalla riflessione di K. W.
F. Solger sul simbolo e sull’allegoria, “Estetica” 1/2003, pp. 17-40.
22 K. W. F. SOLGER, Vorlesungen über Ästhetik, cit., p. 142. Tr. it., cit., p. 113.
23 Ivi, p. 143. Tr. it., p. 114.
24 K. W. F. SOLGER, Erwin, cit., pp. 361 e 365. Tr. it., pp. 318 e 321.
25 K. W. F. SOLGER, Vorlesungen über Ästhetik, cit., pp. 224-225. Tr. it., cit., p. 160.
26 Ivi, p. 164. Tr. it., cit., p. 126.
27 K. W. F. SOLGER, Erwin, cit., p. 353. Tr. it., cit., p. 311.
28 Ivi, p. 352. Tr. it., cit., p. 311.
29 K. W. F. SOLGER, Nachgelassene Schriften und Briefwechsel, Über die wahre Bedeutung und
Bestimmung der Philosophie, besonders in unserer Zeit, cit., Band II, p. 92. Tr. it., cit., p. 101.
30 K. W. F. SOLGER, Erwin, cit., p. 185. Tr. it., cit., pp. 177-178.
31 J. COLETTE, Enthousiasme et ironie. La dialectique artistique selon Solger, “Les études philosophiques”, III 41, 1992, pp. 487-498, p. 492.
32 R. GUARDINI, Über das Wesen des Kunstwerks, Reiner Wunderlich Verlag Hermann Leins,
Tübingen 1965.
10
11
84
20-05-2008
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 85
LA CLINICA DELLE IMMAGINI.
CINEMA, EROS, VAMPIRI E PSICOANALISI
Nell’estate del ’68 avevo tredici anni e, lasciato per la prima volta solo, per le vie di Milano, avevo scoperto L’ora del
lupo in un cineclub. Era in svedese con i sottotitoli in italiano, in bianco e nero. Il film era soltanto dell’anno prima, ma
– me ne sono reso conto più tardi – a me sembrava molto
più vecchio. In effetti, avrebbe potuto avere cent’anni come
due giorni, e si situava esattamente al centro di ciò che più
mi affascinava, della magia che più mi attirava verso il cinema. E anche se non sapevo nulla, sapevo che il centro
era quello, perché vi vedevo, nudo, in piena luce, ciò che
altrove potevo solo indovinare, ciò che altre volte spuntava
soltanto attraverso l’opacità. Lì c’era tutta la forza dei film
muti, quelle immagini allucinate d’altri tempi, quelle visioni
che trovano nel mistero l’irresistibile forza che permette loro di iscriversi quanto più profondamente in noi con l’autorevolezza delle creazioni del nostro proprio inconscio1.
Il cinema, figlio prematuro della fotografia ed erede diretto della pittura, è la
più erotica fra le arti. Il cuore voyeuristico che lo anima e lo alimenta, lo porta
per sua natura a penetrare il velo dell’intimità arrivando sempre fin dentro i personaggi che lo abitano. Questo perché il cinema è fatto di immagini, immagini
in movimento, è materia viva ma incorporea. Il cinema è fatto della stessa sostanza della psiche. La nostra psiche è fatta di immagini dove le esperienze si
imprimono e si distorcono in quelle originali storie che sono i ricordi. Ognuno
di noi è poi regista della propria mente e traccia trame più o meno volontarie
dell’originale film che è la sua vita. Per questo ci è così facile aderire all’immagine, perché l’immagine è il nostro più antico e autentico linguaggio: è il linguaggio dell’inconscio.
La psiche consiste essenzialmente in immagini, e noi dobbiamo sognare il mito insieme ad essa2 poiché, per Jung, la verità individuale, ovvero cosa si è per
la propria visione interiore, può essere ricercato soltanto nel mito ed espresso solamente attraverso una storia3. È per questo che siamo alla continua ricerca di
storie, e nella nostra quotidiana fuga dalla vita ci ritroviamo a sostare in luoghi
come un libro, un film o sulla poltrona dello psicoanalista, sorprendendoci ad
emozionarci nell’affannosa ricerca di una trama che sia la nostra.
Tra i luoghi delle storie è il cinema quello che preferisco, e lo preferisco per
la specifica natura del suo linguaggio. Poiché il cinema non ha una grammati-
SAGGI
di Enrico David Santori
85
Segni e comprensione 65
86
20-05-2008
17:24
Pagina 86
ca o una sintassi codificate, ogni volta che nel mondo una telecamera viene
accesa si crea accesso ad uno spazio altro, e d’incanto nasce una storia. «Tra
l’incapacità delle immagini e dei suoni di articolare un discorso anche rudimentale e la loro formidabile capacità di raccontare, non c’è niente. Non c’è proprio
nulla in mezzo. Poiché non ha lingua, il cinema può solo parlare raccontando»4; e raccontare per immagini. Ma dentro ogni racconto fatto d’immagini c’è
sempre un segreto che può essere ricercato esplorando i territori del mito. All’interno del cinema si può rinvenire un mito che lo investe di forza e potere,
dentro il suo mistero alberga una divinità: Eros.
Eros si trova iscritto in una particolare circolarità mitologica. All’interno dell’orfismo gioca un ruolo primordiale e universale, tanto sul piano della teogonia
quanto su quelli della cosmogonia e dell’antropogonia. Al contrario, nella rimanente tradizione greca, Eros appare inscindibile da Afrodite alla quale fa da
scorta sotto forma di angioletto arciere. Questa esclusiva e subordinata vicinanza ha permesso, in tutta la poesia alessandrina, di far discendere il primo
dalla seconda, così vari poeti fanno di Eros il figlio di Afrodite e di varie ascendenze paterne. Ma la precedente tradizione orfica vuole la dea discendere, indirettamente, dall’azione di Eros stesso.
Nella Teogonia infatti Eros è la terza divinità primordiale dopo Caos e Gea, e
la sua attività universale si estende tanto agli uomini quanto agli dei. Tuttavia le
prime generazioni avvengono senza il suo intervento che si manifesta soltanto a
partire dell’unione di Gea con Urano. Il suo impulso è così forte che fa nascere
un legame talmente stretto e intenso fra le due divinità da arrestare il processo
di creazione in corso e favorire un movimento a ritroso verso il Caos. Si rende allora necessario il gesto di Crono, il più giovane e il più temibile dei loro figli, che,
per arrestare le continue copule dei genitori, trancia il fallo del padre permettendo ai fratelli, nascosti da Urano sotto il seno di Gea, di venire alla luce sbloccando di nuovo il corso delle generazioni. Ma questo gesto non sarà privo di qualche effetto accidentale. Esiodo ci racconta che Crono, tranciato il fallo di Urano,
lo getta subito a caso dietro di lui. Il membro divino finisce in mare e viene trasportato a largo dalle correnti mentre una bianca schiuma si sparge per le acque
e le feconda. Da questa schiuma marina, dall’aphros, nasce, già adulta, una fanciulla di venerabile bellezza. Subito Eros, causa originaria di questa nascita, abbagliato dalla vista di quell’immagine impressa dal Botticelli nell’immaginario collettivo dove una fanciulla, nuda, emerge dal mare e su una conchiglia è spinta a
riva dalle divinità dei venti fra una pioggia di rose, le fa corteo subordinandosi a
lei e inaugurando, di fatto, la successiva tradizione greca.
Se il gesto di Crono può essere paragonato al gesto di Eva di nutrirsi dell’albero della conoscenza del bene e del male5, Afrodite può essere considerata il
perno attorno al quale ruota il mito di Eros che da suo Fattore, si fa sua fattura.
Questa ciclicità, questo cerchio divino, ci ricorda un altro percorso mitico: il viaggio di trasformazione della divinità cristiana dal Dio distante e temibile dell’Antico Testamento incapace per Sua natura di comunicare con gli uomini, nell’incarnazione di Questi nel corpo del proprio Figlio per opera dello Spirito, al fine di donare agli uomini la salvezza e diffondere la Sua Parola. Il Padre Eterno, il Creatore, si fa creatura in Cristo nel grembo della Vergine. Maria, la più incantevole
20-05-2008
17:24
Pagina 87
delle creature, è il mezzo attraverso il quale filtra agli uomini l’Espressione dell’Amore Divino. Ma la Madonna è pure la via per il percorso inverso, un transito
attraverso il quale gli uomini accedono a Dio: così Dante per intercessione di Maria può guardare l’Eterna Luce e le chiese di tutto il mondo risuonano del continuo snocciolare dei rosari ad invocazione della Ianua Caeli. La Madonna, contatto indiretto con il divino Amore, è di fatto una via d’accesso per l’aldilà, quell’aldilà irradiato dalla Grazia di Dio. Ma esiste un altro aldilà, un aldilà al di fuori
di questa grazia, il medesimo luogo che nelle culture più diverse di epoche tra loro lontanissime6 è popolato da identiche figure, spettri, ombre e fantasmi, i dèmoni pagani diventati demòni nell’era cristiana.
Nel particolare contesto della coscienza greca Eros si pone principalmente
proprio come figura dell’aldilà7, un aldilà che per i greci è metaxy, una regione
intermedia tra il divino e l’umano, una terra di mezzo, un territorio di confine
abitato dallo stesso popolo che abita la psiche8. È il regno delle immagini, il territorio stesso dell’anima, quel territorio che, nel nostro discorso, diventa lo specifico spazio del cinema. Questa intercapedine è il luogo dove il cinema è, dove la res cinematografica, conservata ma intrappolata sulla pellicola, prende
forma aspirando ad esistere. Ciò che succede al cinema è che le immagini
hanno una vita propria e ci guardano, e il telo dello schermo è quel filtro di confine tra la realtà della sala e la realtà della proiezione, tra il pensiero e le immagini, tra la relatività della coscienza e la relatività dell’inconscio. Noi siamo
allo stesso tempo al di qua dello schermo ma dentro la narrazione, riflettiamo
quelle figure sostando con le immagini. Ed è proprio in quel momento lì, nel
momento in cui entriamo nella narrazione e ci abbandoniamo alle immagini,
nel momento stesso in cui permettiamo a quei fantasmi di esistere donando noi
vita, che si crea spazio interno e il tempo si dilata. È in quel momento lì che il
mondo psichico viene posto in atto e noi possiamo affermare di essere in un
certo senso interi, completi. È durante questo pellegrinaggio verso il dominio
della psiche che possiamo avvertire la curiosa sensazione di essere come tornati a casa e di venire trasportati in quel magico periodo della nostra vita, la
primissima infanzia, di cui non conserviamo alcuna memoria9.
«Un regista ha detto una volta che quando si era sentito veramente uno
spettatore (nel senso di un corpo che assorbe i film, se ne nutre e li riceve con
tutto se stesso), si era sentito come qualcuno che, invece di riflettere “sui” film,
li rifletteva. Come se fosse un altro schermo sul quale i film si proiettavano»10.
Non è certamente solo una coincidenza linguistica che sia nel linguaggio cinematografico che in quello psicoanalitico viene utilizzato lo stesso termine di
proiezione. Scrive Neumann11:
come nel cinema, dove sul piano di proiezione costituito dallo schermo
appare un’immagine posta alle spalle dello spettatore, così i contenuti
dell’inconscio vengono proiettati del tutto indirettamente, come contenuti
del mondo esterno, e non vengono sperimentati direttamente come contenuti dell’inconscio. Così un demone non rappresenta una parte dell’uomo, ma un essere presente e attivo nel mondo esterno. Accanto a quello “esterno” esiste anche un “piano di proiezione interno”, sul quale si rispecchiano i contenuti dell’inconscio. In quanto fenomeni “interiori”, essi
SAGGI
Segni e comprensione 65
87
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 88
non vengono attribuiti al mondo esterno, ma mantengono, come nel sogno, il loro carattere proiettivo. Per questo motivo anche il mondo dei sogni appare all’Io del sognatore come un esterno, e i contenuti del “piano
proiettivo interno” sono de facto “contenuti psichici”, che vengono esperiti dall’Io del sognatore come contenuti estranei, attraverso la proiezione.
88
Le parole di Neumann fotografano con straordinaria efficacia quello che avviene in una sala cinematografica durante la visione di un film: sono presenti,
contemporaneamente, diversi piani di proiezione: uno “esterno” che si serve
della materia – pellicola, proiettore e schermo – e degli oggetti – interni ed
esterni –, e uno “interno” che, come nel sogno, si serve dell’inconscio nelle
stanze della psiche. La tela bianca della sala cinematografica può essere allora considerata come una Madonna-Afrodite sulla quale si giocano vari piani di
proiezione e che ci mette in contatto diretto con il Divino, quell’Eros che è dentro di noi e al di là dello schermo.
Eros ha diverse connessioni che si rifanno esclusivamente a un principio
maschile e viene associato come elemento al fuoco, simbolo di calore e fonte
di luce. Afrodite invece è legata come elemento all’acqua ed è simbolo del principio femminile12. La dea rappresenta anche un aspetto parziale e contrario all’elemento apollineo dell’eros orfico, il suo opposto che, se non integrato, frena, blocca, ostacola il fluire dell’amore verso gli esseri umani, poiché è da costei che questo è governato. Afrodite quindi è allo stesso tempo filtro ma anche schermo – per noi schermo cinematografico – ostacolo. Ed è proprio questo il ruolo specifico che la dea riveste in un’altra importantissima trama che riguarda Amore: la storia di Eros e Psiche.
Nella favola di Apuleio, Afrodite si pone manifestamente come impedimento fra
l’unione dei due amanti e solo dopo dure prove Psiche, trasformata, potrà accedere ad Eros, poiché insiste sulla precedenza da dare all’amore e per Amore mette a repentaglio la propria vita. Così facendo attiva quella conversione che le permette di superare le prove, attraversare l’ostacolo e raggiungere Eros.
Si può pensare allora al fascio di luce che dal proiettore penetra lo schermo come l’aspetto di un Eros psicopompo, principio di una creatività maschile
che feconda il femminile, lo schermo-Afrodite che, gravido di immagini, le raccoglie, le cattura e dà loro forma; ma le trattiene. Il crogiuolo di immagini che
nasce è una culla per l’immaginale che crea spazio per quella regione intermedia, quello metaxy, che è lo spazio proprio del cinema e il regno stesso della
realtà psichica: un giardino per le passeggiate dell’anima.
«Al cinema, fantasticare significa interpolare le immagini della propria mente con quelle del film, sciogliere il film dentro i propri sentimenti in un atto che
ha qualcosa di indubbiamente misterioso e un suo indiscutibile senso di potere»13. È il mistero e il potere del mito. Ogni volta che ci troviamo seduti in una
sala cinematografica e la proiezione ha inizio ci troviamo immersi in un mito. È
per questo che avviene qualcosa di numinoso, è Eros stesso che attraverso di
noi ritorna a se stesso, è un viaggio individuale verso il regno della nostra prima patria, quella delle immagini, quella dell’inconscio. È l’amore di Eros che è
rivolto verso Psiche, ma spetterà alla psiche di ogni individuo mettersi in cammino per incontrare Amore14.
20-05-2008
17:24
Pagina 89
Il movimento erotico che permea la proiezione cinematografica non è forse
molto vicino a ciò che succede nell’ambito della terapia analitica? Non è forse
l’analisi “nient’altro” che una sosta all’interno della propria psiche – che abbiamo detto essere sostanziata principalmente da immagini – in un particolare
“contenitore erotico”?
Non voglio certo affermare che l’andare al cinema possa essere una sorta
di psicoterapia a basso costo15, voglio soltanto suggerire che la “magia” del cinema e i “tarocchi” della psicoanalisi poggiano, pressappoco, sugli stessi pilastri, e che lo psicologo e il cineasta sono artisti con le mani imbrattate della
stessa pasta: una creta invisibile modellatrice di immagini.
Per Hillman la psicoterapia consiste essenzialmente in una educazione all’attività immaginativa, questo perché la mente non sarebbe fondata sulle microstrutture del cervello o del linguaggio, ma sulla sua stessa attività narrativa,
sul suo “fare fantasia”. Questo “fare”, per l’autore americano, è poiesis, ovvero un’attività necessaria ma del tutto fine a se stessa, la medesima che sostanzia e muove ciascuna arte. Ma se il fare Anima è un fare Anima con l’immagine, un luogo privilegiato potrebbe essere proprio il cinema per la specifica natura del mezzo stesso. Pensiamo per un attimo alla meraviglia visionaria dei
film muti, quelle immagini allucinate d’altri tempi che Olivier Assayas ricorda
nell’introduzione.
Ai tempi in cui ha abdicato al sonoro il cinema muto aveva raggiunto una
sua maturità, era una forma espressiva completa che non soffriva affatto la
mancanza dei suoni, tanto che le didascalie stavano scomparendo. Se proviamo oggi a vedere un film muto, superato lo sgomento iniziale di un linguaggio
antico, desueto e lontano, lo stesso sgomento che avremmo nel leggere un libro in un italiano obsoleto e d’altri tempi, una volta entrati nella narrazione la
meraviglia è assoluta, l’andamento regolare, e non ci sentiamo orfani di nulla.
Fellini soleva dire che uno dei film che amava di più è Luci della città di Chaplin (1931), ed è un film muto16. Per Truffaut il più bel film della storia del cinema è Aurora di Murnau (1927), ed è un film muto. Bergman sostiene che uno
dei film più importanti della sua vita è Ingeborg Holm (1913), e il primo film ad
averlo influenzato è Il carretto fantasma (1921), entrambi di Victor Sjöström,
entrambi film muti. A proposito del muto Bergman dice17:
sono cresciuto con il cinema muto e, sembra banale a dirsi, ma il muto
stava per diventare un’arte, perché l’arte cinematografica faceva vedere
la più straordinaria scena di teatro: il volto umano. Il volto umano nel cinema muto… un volto, un ombra sullo schermo, che all’improvviso si volta e ti guarda… È la cosa più importante dell’arte del cinema. Puoi vedere gli occhi, le migliaia di piccoli muscoli, la pelle, il naso. E non sei disturbato dal suono, puoi essere tu stesso creatore…
È proprio in questa possibilità individuale di creare lasciata allo spettatore
che sta la forza smisurata dell’arte del cinema, nella sua stessa attività narrativa. L’immenso potere del mezzo cinematografico si alimenta in quel pozzo incredibile e meraviglioso di immaginazione dove ognuno può coltivare la propria
abilità immaginativa sostando, e imparando a vivere, fra le immagini. Questo
SAGGI
Segni e comprensione 65
89
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 90
percorso nell’immaginale è un viaggio in un territorio che ci appartiene ma dal
quale siamo esuli, è l’inutile tentativo di appropriarci di quelle storie all’interno
delle quali gli Dei, direbbe Hillman, si mostrano ancora18. È lo sforzo verso la
deletteralizzazione della dimensione prosaica dell’anima che ci rende tutti malati di coscienza e pazienti delle immagini nella clinica dell’immaginazione.
Scrive Artaud19:
questo mostra a qual punto il cinema restituisce il puro lavoro del pensiero. Così, lo spirito riconsegnato a se stesso e alle immagini, infinitamente sensibilizzato, applicato a non perdere nessuna delle ispirazioni del
pensiero sottile, è pronto a ritrovare le sue funzioni primarie, le sue antenne rivolte verso l’invisibile, a tentare una resurrezione dalla morte.
90
Una resurrezione dalla morte dell’anima che riposa imprigionata nel sarcofago della coscienza.
È universalmente noto come cinema e psicoanalisi esordiscano negli stessi anni: i fratelli Lumière aprirono la loro sala cinematografica londinese nel
1896 e la Traumdeutung fu pubblicata il 4 novembre del 1899 anche se l’editore Franz Deuticke la datò 1900.
Tra le due date, il 1897, si inserisce la pubblicazione di uno dei romanzi più
famosi di tutti i tempi: Dracula di Bram Stoker. Questo testo si pone al centro,
e in stretta relazione, tanto col cinema quanto con la psicoanalisi. Da un lato il
cinema è diventato la legittima dimora del vampiro, tanto che Skal afferma che
«Dracula non è nato ad Hollywood, ma l’ha raggiunta con inesorabile rapidità»20, e gli psicoanalisti, introdotti da Ernest Jones con il suo saggio Sull’Incubo (1929), hanno versato fiumi d’inchiostro sul romanzo di Stoker restituendo,
come sempre accade in questi casi, non un solo Dracula, ma molti Dracula.
Attualmente, l’attribuzione della funzione “vampiresca” alla psicoanalisi in
senso figurato di parassita, terrificante e usuraia, è un sentimento comune largamente diffuso e ampiamente documentato in varie pubblicazioni, alcune delle quali diventate veri e propri casi letterari come il Livre noir de la psycanalyse o Marilyn Monroe e altri disastri della psicoanalisi. Personalmente ritengo
che, non in senso figurato di parassita, terrificante e usuraia, ma in un’accezione puramente simbolica, la psicoanalisi possa essere considerata come un’attività “vampiresca” esercitata da individui che risorgono21 continuamente a una
vita altra, oscura, notturna. È infatti soprattutto di notte, nei sogni, che l’inconscio lavora e si manifesta, è al buio che le fantasie prendono forma e l’immaginazione fermenta, ed è nella notte più buia e più profonda che Psiche trovò
l’estasi con Amore22.
Se si guardano le numerosissime pellicole che hanno i vampiri per protagonisti23 si può notare come tutte siano pervase da una fortissima carica erotica.
Lotte Eisner, storica cinematografica di film sperimentali, evidenziò l’intensa
tensione sessuale sulla quale è costruito Nosferatu (1922), la madre di tutte le
pellicole del genere, giustificandola come una sorta di tentativo di Murnau di
dar espressione al tormento della propria alienazione omosessuale. Ma se ci
si sposta solo un poco dalla teoria della libido si può facilmente riconoscere come la seduzione del vampiro è un’attrazione universale, una sorta di passione
20-05-2008
17:24
Pagina 91
per una figura demoniaca alla quale poter donare il proprio sangue, e affidare
la propria anima, affinché ci conduca e ci guidi nell’oscuro regno della notte. La
gran parte dei saggi psicoanalitici sull’argomento mette giustamente in campo
il concetto di perturbante, ma io credo che il segreto di questa attrazione potrebbe essere racchiuso nella simbologia del morso del vampiro, un morso
che, volendo, non uccide, un morso che sottrae a una vita diurna iniziando a
una vita notturna, un morso che riproduce altri vampiri, altre creature delle tenebre. Dracula è il non-morto, nel suo corpo non c’è vita eppure egli non può
morire, vive nell’eternità dell’ombra di una morte simulata quasi in un continuo
allenamento ad una morte definitiva che sembra non poter arrivare mai.
Cosa c’è allora di così erotico e seduttivo in quel morso che può donare ombre e oscurità?
Le vittime del morso di trasformazione sono in genere vittime volontarie che
si consacrano agli aguzzi incisivi del vampiro offrendo gratuitamente il proprio
collo. Chi intraprende un percorso analitico è un individuo che porta dentro di
sé un forte vissuto di esclusione, un forte sentimento di morte, è un individuo
che si pone domande che lo esulano dalla luce di una coscienza diurna, luce
dalla quale si trova costretto a nascondersi. Scrive Carotenuto24:
quando sceglie di intraprendere un trattamento analitico, un uomo sente
con disagio di essere arrivato a un punto in cui quell’elemento di diversità dagli altri, quel suo inizio di differenziazione, quella sua tendenza al distacco sono diventati così forti da fargli percepire vivamente la sensazione di essere escluso dal mondo.
Mina, nel momento in cui il conte Vlad ha una esitazione nello sferrare il
morso che la sottrarrà definitivamente alla vita diurna, lo implora dicendo «portami via da tutta questa… morte». Nel De brevitate vitae25 Seneca sostiene che
piccola è la parte di vita che l’uomo riesce a vivere, tutto lo spazio rimanente
non è vita, è tempo. Seneca chiama tempo ciò che non è vita, Mina lo chiama
morte. Ma ciò che è interessante è la possibilità di poter creare spazio tra vita
e morte, è la possibilità, per dirla con Seneca, di entrare in uno spazio che sospenda il tempo, e questo spazio, se c’è, è lo spazio analitico, è il territorio di
chi non è vivo ma non è neanche morto, è il regno dei vampiri, è il dominio della psicoanalisi, nelle stesse parole di Hillman «quasi un eros fra morenti».
Vampiri e psicoanalisti diventano così figure che ci costringono a confrontarci
con misteri primordiali quali la morte, il sangue26, l’amore e i loro reciproci legami, e diventano ancor più uniti nella sottile simbologia che li vede invisibili allo specchio.
Una delle funzioni comunemente attribuite al terapeuta è quella del rispecchiamento, dove il professionista è chiamato a riflettere l’“immagine” della persona che ha davanti non interferendo affatto su quella figura, mentre, come è
noto, una delle caratteristiche del pallido conte è proprio quella di non avere la
possibilità di vedere la propria immagine riflessa. Ma quale è l’essenza di una
così precisa simbologia? Thomas Wolf sostiene che il risultato a cui Stoker perviene è di farci comprendere, attraverso la nostra esperienza, perché si dice
che il vampiro sia invisibile allo specchio: egli c’è, ma noi non lo riconosciamo,
SAGGI
Segni e comprensione 65
91
Segni e comprensione 65
92
20-05-2008
17:24
Pagina 92
dal momento che il nostro stesso viso lo cela. Il medesimo risultato che si dovrebbe attribuire ad ogni terapia ben riuscita: comprendere, attraverso l’esperienza, che lo psicoanalista c’è, ma noi non lo riconosciamo dal momento che
ce lo abbiamo dentro, guai se, sbirciando oltre lo specchio, lo trovassimo rannicchiato lì dietro. Ma durante il processo di incorporazione analitico importante sarà ingoiare il vampiro, non l’analista, poiché è proprio l’“analista interno”,
quello che ha una poltrona nella nostra mente27, che attraverso il morso dell’analisi dovremmo spodestare, quell’analista interno che abbacinandoci con la
luce dell’Io ci ha reso ciechi alle più profonde richieste dell’inconscio. Per questo è necessario il morso di trasformazione poiché «la funzione del vampiro è
proprio quella di oltrepassare in entrambe le direzioni confini che dovrebbero
essere sicuri: quelli tra gli esseri umani e gli animali, gli esseri umani e Dio, e
quelli tra uomo e donna»28. È solo oltrepassando questi confini, è solo confrontandosi a viso aperto con l’Ombra, che si entra nei territori della psiche. È solo intraprendendo un viaggio alchemico contronatura che si può accedere al
regno di Ade e avviare la trasformazione che per Jung «porta sempre dall’infimo al supremo, dall’infantile animale-arcaico all’homo maximus mistico»29, in
un viaggio che attraverso il passaggio per Eros30 è sempre un percorso di morte e rinascita, morti e rinascite, e quotidiane resurrezioni.
Per questo con una certa serenità ci sentiamo di affermare, con Hillman,
che la psicoterapia, nel senso comune della cura, è assolutamente inutile. Il
merito della psicoanalisi sta nell’opportunità che questa offre di aprire una finestra sul buio dell’inconscio, indicando la possibilità di muoverci e orientarci nella notte, evitando con cura le luci troppo intense di una coscienza polarizzata.
La via per una resurrezione dalla morte della coscienza a vantaggio di una vita eterna nei chiaroscuri dell’anima. Ma vivere nell’anima altro non è che portare l’anima nella vita, con tutte le sue ombre e le sue deformità, e «allora anche la vita, non soltanto l’analisi, diviene un luogo adatto per fare anima»31.
Esiste un luogo, come l’analisi, che è più favorevole di altri luoghi, un luogo
dove anima si fa incessantemente, un luogo dove tutti, pur non avendone una,
hanno la possibilità di sentirsi a casa, un luogo dove anche ai vampiri è concesso di levare lo sguardo e tornare a mirare l’alba. Questo luogo è un luogo
fatto di più luoghi, ma questi luoghi hanno un unico nome: cinema.
Al cinema, come racconta Neal Jordan (1994)32, anche ai vampiri è concesso di guardare, seppur solo riflessa su uno schermo, la luce del sole. Questa
immagine suggerisce una possibile motivazione all’attrazione che da sempre
muove gli psicoanalisti verso il cinema, il luogo dove «si può vedere, nitido, in
piena luce, ciò che altrove si può indovinare soltanto attraverso l’opacità». Nel
“Dracula” di Bram Stoker di Coppola (1992), il primo incontro di seduzione tra
Mina e il conte Vlad avviene, non a caso, proprio all’interno di un cinematografo, e precisamente dietro lo schermo durante la proiezione. In questa scena è
svelata la disillusione di ogni realtà così come la conosciamo. Filmando i protagonisti all’interno del fuoco incrociato delle varie proiezioni – cinematografica, erotica, analitica – vengono messe in discussione la comune polarità di
reale e illusorio, credenza o scetticismo, conscio e inconscio, vita o morte. È
esattamente, questo, il medesimo luogo dell’analisi. È il luogo dove Eros,
20-05-2008
17:24
Pagina 93
l’Eros cosmogonico e l’eros individuale, si incontrano dalle parti di Afrodite33. È
il luogo dove si giocano le prove di Psiche nel suo viaggio verso Amore. È il
luogo dove si costruiscono identità attraverso proiezioni, identificazioni e identificazioni proiettive. È il campo di battaglia delle emozioni.
È un campo emozionale quello che si crea all’interno del setting34, fuori da
quel campo c’è solo riflessione, pura logica dell’introspezione, l’abusato equivoco che lo scopo della psicoterapia sia il diventare consci. Ma scopo della terapia non è diventare consci, è diventare, “nietzscheanamente”, ciò che si è.
Per questo l’azione polarizzante di una apollinea squadra della luce alla continua ricerca di un cuore da impalare nulla può per un vero processo di trasformazione analitico per il quale è necessario il morso di un vampiro omeopatico
poiché «se manca l’interazione illogica35 con la distruzione erotica, la psiche rimane vergine»36. È da qui che prende le mosse la necessità di “fare fantasia”,
è qui che dimora la poiesis, l’arte della terapia37.
Jean-Luc Godard una volta ha detto che «il cinema non è né arte né vita,
ma qualcosa fra le due». Probabilmente aveva ragione. Ma se il cinema – e a
sproposito se aveva ragione Godard – è comunemente considerato la decima
arte, la psicoanalisi è l’undicesima. E fra le due non c’è soluzione di continuità. Ma qual è il punto esatto nel quale queste si incontrano?
Per Giorgio Antonelli38 affinché sia possibile l’analisi è necessario che ci sia
terzo stato, ovvero il nome che Jouvet ha dato alla dimensione del sogno riferibile al concetto di “comune trance quotidiana” di Milton Erickson. Per Glen e
Krin Gabbard39 durante la proiezione di un film si verifica la “terza” condizione
fisiologica della coscienza definibile come “veglia sognante”.
Si può allora affermare che cinema e psicoanalisi si incontrano nel sogno.
Sicuramente ciò che succede al cinema durante la proiezione di un film e
ciò che succede nel setting durante l’analisi hanno molti punti in comune. La
stretta parentela tra le due “arti del narrare” va ricercata nelle matrici stesse
che la caratterizzano: entrambe vivono di Eros, entrambe modellano immagini, entrambe raccontano storie.
1 O. ASSAYAS, Itinerario bergmaniano (1990), in O. ASSAYAS – S. BJORKMAN, Conversazione con
Ingmar Bergman, Lindau, Torino 1994, p. 71.
2 J. HILLMAN, Le storie che curano, Cortina, Milano 1984, p. VI.
3 C.G. JUNG, Ricordi, sogni, riflessioni (1961), Rizzoli, Milano 1998, p. 27.
4 M. SESTI, In quel film c’è una segreto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 47.
5 Entrambi i gesti simboleggiano l’origine della coscienza, in entrambe le situazioni i protagonisti vengono ipso facto gettati nel tempo e la loro condizione muta radicalmente e senza appello:
Crono succede in tutto e per tutto al padre, sia nel regno che nell’esclusione della prole, Eva partorirà, sulla Terra, i suoi figli con dolore.
6 «Quello che per i persiani è barzakh, per i tibetani bardo, per i greci metaxù, per Ugo da San
Vittore medium, per Sinesio koinós horós» (G. ANTONELLI, Resurrezioni minori, in “Giornale storico
di psicologia dinamica”, n. 49, aprile 2001, p. 251).
7 J. HILLMAN, Il mito dell’analisi (1972), Adelphi, Milano 2003, p. 82.
8 «Questo metaxy, questa regione intermedia, oggi può essere appropriatamente descritta come il regno della realtà psichica» (ibidem).
SAGGI
Segni e comprensione 65
93
Segni e comprensione 65
94
20-05-2008
17:24
Pagina 94
9 «Rapito dall’esperienza globale del cinema, lo spettatore ritorna dunque nel grembo acquatico iniziale, lo stesso che con tutta probabilità l’infante esperisce anche dopo il parto, quando è ormai contento nella situazione primaria di holding dei primi mesi di vita extrauterina» (S. CARTA, Sull’esperienza dello spettatore, in L. DE FRANCO – M. CORTESE, Ciak, si vive, Edizioni Magi, Roma
2004, p. 101).
10 M. SESTI, In quel film c’è una segreto, cit., p. 18.
11 E. NEUMANN, La Grande Madre (1974), Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1981, pp. 30-31.
12 J. HILLMAN, Il mito dell’analisi, cit.
13 M. SESTI, In quel film c’è una segreto, cit., p. 19.
14 «Il film, con le sue immagini in movimento e le sue trame, presta le proprie forme percettive
affinché lo spettatore possa formulare pensieri ancora non pensati, latenti nella sua mente; esso
dunque può aiutarlo a elaborali compiutamente» (S. CARTA, Sull’esperienza dello spettatore, cit.,
p. 97).
15 Anche se negli ultimi anni numerose sono le pubblicazioni su Cinema-terapia, una pratica
che inizia ad avere, con esiti diversi e con molti meriti, una certa diffusione.
16 In realtà Luci della città tecnicamente è un film sonoro che esclude le parole.
17 O. ASSAYAS, Itinerario bergmaniano, cit., p. 25.
18 Per Dei si intende le storie supreme che costituiscono i modelli fondamentali del nostro agire, credere, conoscere, sentire e soffrire. Archetipi li chiamerebbe Jung.
19 A. ARTAUD, La conchiglia e il pastore, “Chaiers de Belgique”, n. 8, 1928, in ID., Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, pref. e cura di G. Fofi, trad. it. di M. Bertolini ed E. Fumagalli, minimun fax, Roma 2001, p. 69.
20 D.J. SKAL, Hollywood Gotic: The Tangled Web of ‘Dracula’ from Novel to Stage to Screen,
W.W. Norton & Co, New York 1990, p. 4.
21 G. ANTONELLI, Resurrezioni minori, cit.
22 Ed è al buio della sala cinematografica che i film vengono proiettati.
23 Finora sono stati prodotti circa 3000 film sui vampiri o su soggetti affini.
24 A. CAROTENUTO, La nostalgia della memoria (1988), Bompiani, Milano 1999, p. 79.
25 L.A. SENECA, La brevità della vita, Rizzoli, Milano 1995, p. 43.
26 Le emozioni.
27 J. HILLMAN, Il mito dell’analisi, cit.
28 K. GELDER, Incontri col vampiro (1994), Red Edizioni, Como 1998, p. 111.
29 C.G. JUNG, Psicologia e alchimia (1944), Boringhieri, Torino 1981, p. 141.
30 «Eros è il vero e unico agente di trasformazione, l’unico che può riscattare la nerezza in cui
si trova l’anima, che può redimere la sua inferiorità elevandola ad una perfezione divina. L’eros demoniaco porta in sé la scintilla divina, la luce brilla attraverso l’opacità della carne. È di quest’eros,
principio cosmogonico, che Jung celebra il mistero» (A. CAROTENUTO, Le rose nella mangiatoia,
Cortina, Milano 1990, p. XII).
31 J. HILLMAN, Il mito dell’analisi, cit., p. 17.
32 Intervista col vampiro, Usa 1994, col., 122’.
33 Le parti dell’Anima.
34 «Il terapeuta è in analisi quanto il suo paziente, dal loro incontro nasce un rapporto, una dimensione circolare e duale che implica un coinvolgimento e una partecipazione emotiva per entrambi i membri della coppia analitica». (A. CAROTENUTO, La nostalgia della memoria, cit., p. 176).
35 Corsivo mio. Ovviamente illogica nel senso della coscienza: «la nostra tesi secondo cui è
l’eros piuttosto che il logos a creare la psiche» (J. HILLMAN, Il mito dell’analisi, cit., p. 85). «Lo strumento principale del percorso individuativo è la funzione simbolica, che ha il compito di congiungere ciò che la coscienza divide, integrando cioè quegli statici dualismi creati dal Logos» (A. CAROTENUTO, La nostalgia della memoria, cit., p. 79).
36 J. HILLMAN, Il mito dell’analisi, cit., p. 95.
37 «E questo lavoro poetico sulla materia immaginale ha un valore profondamente terapeutico,
sia quando entra nel setting analitico a due, e sia quando partecipa di quello di gruppo» (S. CARTA, Sull’esperienza dello spettatore, cit., p. 100).
38 G. ANTONELLI, COSA G. ANTONELLI, Cosa è uno psicoterapeuta, in “Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura”, n. 2, Aprile 2006, p. 18.
39 G. GABBARD & K. GABBARD, Cinema e psichiatria, Milano, Cortina 2000, p. XI.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 95
LA TEORIA DELLA NASCITA UMANA COME FONDAMENTO DELLE SCIENZE UMANE.
di Giovanna Bruco
Sulla malattia filosofica1
A chiusura dell’intervista in nota al titolo di questo paragrafo il filosofo Sergio Moravia, dopo aver confessato che la filosofia “è una malattia” aggiunse
che, però, è anche un atto etico. Ma se l’etica è legata al metodo e quest’ultimo alla teoria, dal momento che la “malattia” filosofica non è organica ma un
disturbo del pensiero, è forse destinata alla impossibilità di formulare una teoria sulla realtà mentale umana che ne giustifichi l’etica.
Viceversa la nuova psichiatria2 nella misura in cui la teoria della nascita
umana3, nel rispetto del metodo medico che non si stacca mai dalla realtà dell’organismo, ha messo a fuoco le relazioni indissolubili tra nascita pensiero vita malattia morte, ha anche posto le basi per una riflessione di carattere epistemologico.
Il fatto che laddove i filosofi non hanno mai considerato la nascita e la morte dell’individuo, per lo psichiatra l’Essere si estingue con la morte di esso, fa
riflettere su qualcosa cui non si è mai pensato prima, ovvero che nell’autopsia
di un corpo morto non è possibile riscontrare la malattia mentale, che pure è
legata al biologico – e non al Male di origine divina –, mentre resta verificabile
la malattia di un qualsiasi organo interno.
Fatta questa premessa vorremmo arrivare ad introdurre gli elementi concettuali della teoria della nascita umana agganciandoci ad alcuni scritti apparsi sul
N° 62 di questa rivista per i temi trattati che confluiscono nella nostra disciplina4, e che vanno dall’analisi della semiotica generale5 alla proposta di un nuovo concetto di semioetica6; dal vecchio problema della metafisica in Kant ed
Heidegger7 che sta a conferma di come per i filosofi l’Essere non si lega al biologico e il loro pensiero si perde nella credenza di Dio o del Nulla dell’immaginazione trascendentale, al tema della relazione filosofica con i “rifiuti”, intesi
non solo come macerie di oggetti ma come soggetti apolidi e profughi8, che ci
ha riportato a riflettere su come il Nulla non esiste ma sia solo perdita della
mente come estrema negazione dell’Essere9 (nello specifio dell’Essere Umano diverso da sé che può essere anche lo straniero).
Una riflessione a parte merita invece la Nota di Francesco Tarantino sul libro La ripetizione e la nascita di Antonello Armando.
NOTE
LINEE PER UNA EPISTEMOLOGIA DI FORMAZIONE
PROFESSIONALE
95
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
La responsabilità del linguaggio
96
Pagina 96
Già cinque anni fa proponemmo a questa rivista un discorso sulla “responsabilità”10 ispirati da un testo affascinante11 nel quale ci veniva raccontato come un grande pensatore russo era approdato alla concretezza delle immagini
poetiche dopo aver navigato un riflusso di assenza di senso nella materia filosofica.
L’accorato lavoro di A. Ponzio ci fornì elementi suggestivi di una ricerca filologica che noi cercammo di portare alle nostre spiagge. Tentammo, fin da allora, un’analisi del senso da dover ricercare oltre la fenomenologia 12 nell’immagine universale indefinita della prima pulsione umana13 che oggi sappiamo
essere volontà senza coscienza.
Vorremmo cercare qui di svolgere meglio questa vicenda pulsionale esemplificando come la non conoscenza delle origini del pensiero umano abbia
sempre investito negativamente il vivere sociale14.
Dunque a noi interessano non tanto i neologismi di deriva linguistica ma i
significati concreti che assumono assemblaggi nuovi di parole di uso comune
che offrono elementi innovativi di indagine sull’uomo. Ci preme indagare sui
contenuti invisibili del nostro Essere che vanno dalla dimensione biologica spaziale prenatale a quella temporale e psichica che inizia alla nascita, e che fa sì
che le stesse categorie di spazio e tempo assumano connotati diversi da quelli del restante regno animale.
Il discorso della “responsabilità”15, in un momento in cui la nostra classe intellettuale sembra lontana dal promuovere orizzonti trasformativi, ci appare
(Bachtin filologo e non filosofo ci insegna) un discorso enorme: dal momento
che molte parole vane, seducenti di erudizione, vanno a trasmettere la rassegnazione del pensiero debole cui si finisce per contrapporre la credenza religiosa che frena ogni seria ricerca sull’umano16.
Ma confidando nelle belle eccezioni di filosofi che non disdegnano di sapere sul funzionamento della mente17, noi continuiamo ad approfondire il discorso sul linguaggio iniziato altrove con una impostazione più prettamente pedagogica18 perché riteniamo che l’uso appropriato delle parole, come queste vengono messe una accanto all’altra per significare una teoria, è fondamentale sia
per comunicare una conoscenza che per trasmettere una identità umana che
deve essere tale prima ancora di essere etichettata nel sociale. Questo ci induce a non stancarci mai di chiederci quanto e come una possibilità di comprensione maggiore e condivisa su quello di cui ci occupiamo non sia legata a
un linguaggio che “significhi” veramente qualcosa; che al di là delle definizioni
e classificazioni di stampo positivista di cui abbondano le scienze umane, non
ultima la pedagogia, riesca a portare alcune parole esistenti alla realtà del rapporto interumano.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 97
Dunque ripartiamo dagli scritti sopra accennati. Se Cosimo Caputo pone
con chiarezza due quesiti fondamentali di cui il primo sugli ambiti che la semiotica generale si propone di studiare e il secondo sui rapporti tra semiotica generale e linguistica, Augusto Ponzio offre la definizione di Filosofia del Linguaggio come Arte dell’Ascolto.
Se la dizione sembrerebbe tagliar subito la testa al toro nell’affermazione
implicita che la semioetica è prerogativa del linguaggio umano, a noi vien subito da chiederci:
Ma gli esseri umani ascoltano con gli orecchi o con l’immagine?19
Restando fedeli alla radicale distinzione uomo-natura già proposta altrove20,
noi pensiamo che gli esseri umani ascoltino con l’immagine, perché i suoni acustici li sentono anche gli animali che non hanno mai fatto arte né filosofia.
Se è vero che tra l’ascolto del mio cane che la notte risponde all’abbaiare
del cane vicino e quello mio umano c’è quella diversità che Ponzio chiama “artistica”, vien da sé che debba esserci anche una distinzione radicale tra antroposemiotica e semiotica globale21 escludendo la seconda dalla possibilità di
formulare una semioetica, che può appartenere solo all’elaborazione del pensiero umano.
Torniamo quindi alla formazione del pensiero-immagine che ci sta a cuore.
Dicevamo che se nessun filosofo ci ha mai detto da dove il pensiero nasce,
la nuova psichiatria è riuscita a pensare il pensiero e ha scoperto che il pensiero scaturisce come reazione alla prima pulsione neonatale.
Davvero qualche semiologo può essere interessato oltre che alla semiotica
della moda, della guerra, della musica (per la musica, specifica Ponzio, nel
senso che è una semiotica costruita tenendo conto della semiosi che proviene
dalla musica) anche alla semiotica di questa vicenda pulsionale che sta alla
base di tutti gli altri segni22? Comprendiamo che il salto è grosso perché bisogna occuparsi di segni che non si vedono attraverso parole che conosciamo
ma che hanno trovato oggetti nuovi. Qualche speranza ci lascia ancora A. Ponzio nel paragrafo Filosofia del linguaggio e semioetica quando afferma che “la
filosofia del linguaggio tiene conto anche della semiotica come capacità specie-specifica, come metasemiosi e come tale connessa con la responsabilità
[…] anche nel senso pragmatico di fare stare bene la vita, di prendersene cura. Sotto questo aspetto la semiotica recupera il rapporto con la semeiotica
medica […]. Riteniamo che oggi si decide il futuro della semiotica, non solo come scienza, ma anche come capacità specie-specifica di usare i segni per riflettere sui segni e decidere di conseguenza”23.
Abituati come siamo a dare un oggetto preciso alle parole domandiamo:
Si può parlare di semioetica senza conoscere la formazione del pensiero
umano? Si possono lasciare i segni staccati dalla verità del loro contenuto?
Ponzio gira intorno al pensiero come imagine quando ripesca l’“immagine acustica” di De Saussure, quando parla accoratamente di musica e intonazione,
quando dice che se la semiotica non riesce ad essere semiotica della musica
è fallita. Però, per arrivare alla conoscenza della formazione della prima imma-
NOTE
Gli esseri umani ascoltano con gli orecchi o con “l’immagine”?
97
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 98
gine mentale, che è pensiero senza parola, e che fino al sesto mese di vita cresce per l’ appunto nei suoni, ombre luci e colori, bisognava scoprire la dinamica della nascita umana.
Le pagine di A. Ponzio che abbiamo letto con attenzione su Il Futuro anteriore della semiologia24 di A. Ponzio, senza un confronto con la teoria della nascita rischiano di restare a un trapassato remoto di definizioni del fenomeno
segno sganciato dal contenuto che lo muove il cui senso rimane un fatto soggettivo. Il richiamo a una “responsabilità” sganciata dalla conoscenza del suo
soggetto responsabile, l’esssere umano, resta linguaggio astratto ancorato al
pensiero razionale che ignora la vera identità umana: che sta nell’irrazionale
del primo anno di vita senza parola il cui segno va saputo riconoscere anche
nell’adulto, quando l’alterità come interesse per la realtà interna dell’altro rivela la verità della scienza sull’uomo. Il recupero della semiotica medica dovrà
dunque appropriarsi di nuovi cardini concettuali che sanno del pensiero umano: il solo in grado di fare diagnosi, prognosi e cura per la guarigione oltre il generico “prendersi cura” che può essere deresponsabilizzante25.
Sul rapporto mente-corpo
98
La famosa querelle sul mind-body problem26 (dove i filosofi mentalisti e fisicalisti, funzionalisti e identitisti non sono riusciti a spiegarsi la relazione mentecorpo, rimasta impantanata con loro alla storia dell’uovo e della gallina) è stata dunque oggi superata da una nuova teoria sulla formazione della mente che
ha parlato di nascita umana come fusione mente corpo nella formazione istantanea del pensiero quando la luce mette in funzione l’apparato cerebrale del
neonato27. Come avverrebbe tutto questo?
Sappiamo che la retina è materia cerebrale, è una retroflessione neuronale della stessa sostanza del cervello. Poi c’è il sistema nervoso periferico, ma
all’inizio queste parti sono staccate: si attaccano tra loro dalla 24.ma settimana in poi. Ciò spiega perché prima dei sei mesi di gravidanza la nascita umana è impossibile28.
Questo andamento dello sviluppo embrionale è fondamentale per lo sviluppo del pensiero; perché, diversamente dagli animali che sono caratterizzati dal
mesoderma (il foglietto embrionale dal quale si forma l’apparato muscolare
mentre dal terzo foglietto, l’endoderma, si formano gli organi interni, intestino
ecc), nell’essere umano è preponderante l’ectoderma che dà origine alla retina, pelle e cervello e produce la melanina che è anche nella retina.
Nell’uomo è dunque il cervello quello che va a muovere i muscoli perché
non sono questi la caratteristica dell’essere umano ma lo è il pensiero.
Oltre alla stazione eretta, l’angolazione che il foro occipitale fa col terreno
diversamente dagli altri bipedi, e l’opponenza del pollice l’essere umano si distingue dal restante regno animale perché si direziona verso un altro essere
umano non solo per far sopravvivere il corpo, ovvero la specie, ma per far sopravvivere la sua caratteristica specie-specifica che è il pensiero.
Per quanto oggetto sfuggente e invisibile, tutti riusciamo ad immaginare il
20-05-2008
17:24
Pagina 99
pensiero che ci caratterizza come cosa ben concreta, allo stesso modo che
con il metodo dei fisici possiamo immaginare ben concrete innumerevoli fenomeni che intuiamo senza vedere.
Tenendo conto che la suddivisione della materia vivente in animale, vegetale, umana è una scala che può essere pensata come variante di reattività,
possiamo chiederci quando è che l’ambiente esterno è più irritabile alla nostra
realtà biologica di trasgressori umani che non sottostanno a quella predeterminazione genetica caratterizzata dalla ripetizione che è dell’istinto animale?
La caratteristica umana non è l’istinto. È la pulsione neonatale. Che è una e
non ha niente a che vedere con i generici impulsi di cui comunemente si parla.
E quale è quello stimolo che, similmente a un elettrone che dà energia ad
una foglia dopo aver trasformato il seme non più riconoscibile, determina una
reazione della natura umana di qualità, intensità e direzione tali da provocare
una trasformazione radicale creando qualcosa che prima non c’era29?
Ricerche degli ultimi 36 anni convalidate dai biologi intorno al 2000 su
quanto scoperto a proposito della formazione della retina dall’ectoderma alla
24esima settimana di gestazione hanno trovato conferma dai neonatologi30
che è al momento della nascita.
Alla nascita quindi non può esserci percezione ma una sensazione che è risposta immediata ad uno stimolo che segna il passaggio dal biologico allo psichico: trasformazione radicale che avviene nel momento in cui tutto il corpo
umano si mette in moto dando origine al primo affetto legato al sentire del corpo che si esprime col vagito e col respiro. La possibilità della sensazione, legata alla carica libidica originaria che avvolge il feto nel contatto della pelle con
il liquido amniotico, è la vera fonte del pensiero legato al primo affetto della separazione.
Quando il neonato, così come si usa non a caso dire, “viene alla luce”, questa per lui diviene uno stimolo assai più potente dell’aria (diversamente dal codice Napoleòn che stabiliva se c’era stato omicidio controllando se il polmone
del neonato aveva respirato dopo averlo immerso nell’acqua dove avrebbe
galleggiato); ed è proprio questo stimolo luminoso che quando arriva alla retina va ad accendere il cervello che a sua volta mette in moto il resto dell’ organismo31.
Sensazione e percezione
L’accensione del cervello non è ancora percezione perché per avere la percezione ci vuole il pensiero: questa è solo la prima sensazione-reazione legata a uno stimolo esterno che fa sì che nello stesso momento in cui il neonato
fa sparire, chiudendo gli occhi, la realtà non umana sentita come aggressiva,
crea dentro di sé la prima immagine mentale attraverso il recupero di quanto
sentito attraverso la pelle nell’omeostasi del liquido amniotico. Questo primo
movimento mentale, questa ricreazione che spinge il neonato a cercare l’umano, è caratterizzato da quella che è stata chiamata una fantasia di esistenza
che non possiamo dire che è ricordo, perché il feto non può avere memoria vi-
NOTE
Segni e comprensione 65
99
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 100
siva, ma è la prima fantasia come immagine interna indefinita che ogni essere
umano ritroverà in ogni fase del suo successivo sviluppo. Perché questo si verifichi è necessario che egli non perda la vitalità legata alla carica libidica che
si origina intorno al sesto mese di gravidanza (quando la materia cerebrale si
collega col sistema nervoso periferico) e che alla nascita, simultaneamente alla pulsione d’annullamento contro l’inanimato diventa, col recupero di quanto
sentito attraverso la pelle nell’omeostasi intrauterina, pensiero. La percezione
è un modo di rapportarsi alla realtà ma anche di interpretarla, di farsi un’idea,
e per questo, a monte, deve già esserci quell’Io che si forma nel rapporto interumano.
La ricreazione irrazionale dell’affetto come primo pensiero umano
100
La conoscenza di questa dinamica mentale come fonte del pensiero, restando sulle orme dell’esperienza dei fisici, capovolge l’idea comune che prima percepisco e poi penso. Ovvero l’idea razionale comune che se riesco a
pensare quello che vedo non riesco a pensare quello che non vedo va sostituita con una ricerca sul pensiero non cosciente: che è attività specificamente
umana diversa dall’attività mentale animale legata all’utile e a quanto percepito, e che non solo è la stessa che trasforma le immagini coscienti della veglia
nel linguaggio non cosciente dei sogni, ma è quella che muove le immagini inconsce non oniriche verso le più grosse intuizioni umane, dall’arte alla scienza. Vogliamo ricordare il Nihil in intellectu quod non prius fuerit in sensu di Aristotele, Tommaso d’Aquino, Gassendi contro Cartesio e Locke?
Se allora il linguaggio è espressione qualitativa dell’umano come realtà di
pensiero che si forma come separazione dalla realtà biologica al momento della nascita, accettiamo le recenti acquisizioni cui sono pervenuti psichiatri e linguisti quando affermano che la prima separazione dal ventre materno, come linea, è pensiero.
Rispetto a quanto ci è sempre stato insegnato da tutta una tradizione di linguaggio e scrittura, ovvero che la scrittura è mera riproduzione convenzionale
dei suoni di una lingua appresa T. De Mauro, in un convegno romano del ’95,
argomentò come la comprensione linguistica affonda le sue radici “ prima e
fuori delle conoscenze e determinazioni del linguaggio verbale” perché “si fonda su una base percettiva e di intelligenza prelinguistica, genericamente conoscitiva e semiotica”32.
M. Fagioli allo stesso convegno convalidò la tesi di De Mauro affermando
che la concezione che il pensiero umano nasca solo alla comparsa del linguaggio articolato (com’era in uso nell’antica Grecia) è superata dall’osservazione
del pensiero prelinguistico, che è fondamentale per una elaborazione sull’origine del linguaggio e suo sviluppo, nel quale è opportuno tenere distinto il significato concreto di un segno linguistico dal pensiero che vuole esprimere perché “la parola va intesa con la vicenda pulsionale di chi la usa”33.
Vicenda pulsionale, proseguiamo a dire noi, che se non conserva la dimensione creativa della prima fantasia di sparizione della nascita diretta contro
20-05-2008
17:24
Pagina 101
l’inanimato diventa, dopo rapporti deludenti, pulsione d’annullamento contro
l’umano che crea il vuoto interno del soggetto.
Perché la trasformazione radicale dal biologico allo psichico, che al momento della nascita crea qualcosa che prima non c’era, e che risponde allo stimolo luminoso esprimendosi col vagito e col respiro, perde il primo affetto legato al sentire del corpo reso possibile dalla carica libidica originaria che è il
sostentamento del pensiero.
L’affetto neonatale non visibile che cerca l’umano “facendo sparire” il non
umano nella creazione di un pensiero che è immagine interna indefinita, e che
alla nascita sentiva immediatamente senza parlare si perde nel linguaggio
anaffettivo e astratto. Perché più tardi parliamo non si sa. Ma perché il linguaggio è in un certo modo o in un altro, perché si crea e si trasforma oppure si ripete o si arresta, ed è patologia, questo si può sapere.
Se l’apprendimento di cui il pedagogista si occupa non può quindi essere
mai copiato, perché se il pensiero copia non può cambiare e svilupparsi, anche il pensiero del filosofo, per non perdere la spinta irrazionale che caratterizza il movimento verso la conoscenza, deve essere legato all’affetto della prima
immagine mentale.
Le gravi patologie si formano tutte o al momento della nascita o dalla nascita al sesto mese, quando la prima immagine mentale indefinita dovrebbe fondersi con la visione del volto della madre.
Sulla semiologia psichiatrica
Se dunque le radici della comprensione del linguaggio affondano nei primi
mesi di vita quando c’è l’udito ma non la vista, la ricerca del senso deve direzionarsi a cogliere il concetto e il movimento di immagine che nasce dal rapporto oggettuale con la cosa, ma che per esprimersi deve sparire, deve trasformarsi in parola convenzionale, similmente a quanto avviene al momento della
nascita (con la differenza che mentre nella formazione del linguggio quello che
si trasforma è il suono o l’aspetto e non il contenuto alla nascita si ha una trasformazione radicale nel passaggio dal biologico allo psichico che diviene il
contenuto dell’uomo).
Allora ecco che la comprensione linguistica necessita fisiologicamente di un
ritorno, di una regressione a quel “prima” della comparsa della coscienza. Il fatto del comprendere, che finora è sfuggito a qualunque sistematizzazione razionale, deve richiamare una disposizione più globale degli esseri umani oltre il
meccanismo logico-razionale, deve far sì che l’intera realtà umana del ricevente sia costretto a regredire ai primi mesi di vita quando i suoni erano uditi e trasformati in immagini34.
Perché sono le immagini senza figura definita quelle che stanno alla base
della formazione e poi dello sviluppo del linguaggio umano che si esprime fin
dai balbettii dei primi mesi di vita.
Linguaggio quindi legato alla prima linea di separazione dal ventre della
madre, che dopo ripetute separazioni da ogni poppata diventa più linee, che
NOTE
Segni e comprensione 65
101
Segni e comprensione 65
102
20-05-2008
17:24
Pagina 102
non potendo essere viste con gli occhi ancora immaturi risultano dalla trasformazione, in immagini estremamente sintetiche, quasi geometriche, dei rapporti interumani vissuti dai quali ci si è separati e che assieme a quanto recepito
dagli altri organi di senso vanno a costituire quella che già De Saussure chiamava la materia fonica: contenuto invisibile del primo rapporto interumano che
poi andrà a fondersi con la linea definita del volto della madre intorno al sesto
mese35. Poi è la perdita dell’immagine dell’oggetto e la creazione del simbolo
verbale per trasformazione a produrre il linguaggio e, viceversa, la trasformazione di parole in immagini a far sì che il linguaggio venga compreso.
Allora, se parole di uso comune assemblate in modo nuovo veicolano la
scoperta dell’immagine mentale senza figura è lecito parlare di una semiotica
psichiatrica o meglio ancora di una semioetica del linguaggio psichiatrico rispetto a quello filosofico?
Fantasia di sparizione, Pulsione di annullamento, Capacità di immaginare,
Visione dell’essere umano diverso, Investimento sessuale sono accostamenti
di parole note che hanno significati nuovi per i quali rimandiamo ai sette libri di
Massimo Fagioli36.
Altre parole come Vitalità (diversa nell’essere umano dallo scatto della gazzella perché legata non ai muscoli ma al contatto col liquido amniotico) Trasformazione (che non è cambiamento perché crea qualcosa di nuovo che prima
non c’era) Desiderio (che non è desiderio di morte come per Freud) Indifferenza (che non sempre è anaffettività ma fantasia di sparizione verso situazioni
parziali interne che devono evolversi) Anaffettività (che invece è sempre pulsione attiva di annullamento dell’altro) ed altre, hanno un nuovo oggetto che
oggi appartiene solo alla sfera umana non cosciente e non visibile.
Come ristudiare quei pensatori che non conoscevano tutto questo?
La lista sarebbe lunga. Come riflessione al paragrafo de Il Kant di Heidegger intitolato La metafisica come possibilità fondativa dell’etica37 ci limitiamo a
riportare alcuni stralci di un articolo di Livia Profeti sul dibattito francese su Heidegger38.
Ed ecco che arriviamo alla Nota di Francesco Tarantino sul libro di Antonello Armando La ripetizione e la nascita39 che ha il merito di averci ispirato a condensare in questo saggio la teoria di M. Fagioli – e non di altri – sulla realtà
umana.
Quello che abbiamo cercato fin qui di dire è che la comprensione della teoria della nascita richiede un superamento della lettura fenomenologica in quanto investe lo studio del pensiero senza coscienza che la fenomenologia non ha
mai preso in considerazione. E questa potrebbe anche essere la risposta a una
domanda del prof. Invitto, sulla distinzione-definizione di ragione-non ragione
come atto pratico ma non teoretico e conoscitivo, apparsa in una sua attenta
e generosa prefazione a un nostro lavoro40.
Rispetto a quel lavoro, quì ribadiamo che alla base della nuova lettura del
pensiero non cosciente, mai fatta prima nella storia, sta la radicale distinzione
uomo-natura (eterna ed immobile la seconda nella sua infinitudine di spazio e
tempo rispetto al tempo umano della nascita che si esaurisce con la morte del
pensiero prima ancora di quella dell’organismo). Riteniamo che una volta che
20-05-2008
17:24
Pagina 103
questa distinzione venga accettata nella diversità specie-specifica del pensiero che la natura non ha, la conoscenza dell’origine di questo pensiero, come
possibilità di resistenza alla violenza dell’annullamento del pensiero dell’Altro
che si sia ammalato, è la prima responsabilità dell’uomo che non può che manifestarsi fusionalmente come atto teoretico nella sua formulazione concettuale, pratico nel suo nuovo porsi nel rapporto interumano, e conoscitivo nella verifica della prassi concreta di cura, formazione e ricerca che nel rapporto col diverso da sé porta alla guarigione e alla trasformazione. Questa forte possibilità di conoscenza, che passivizza il pensiero filosofico col quale peraltro non
cessa di confrontarsi, è documentata come assoluta novità culturale da una libera ricerca che da oltre trent’anni viene raccolta in migliaia di pagine di letteratura scientifica, dibattiti e convegni, e in una rivista che si confronta con la
cultura ufficiale ed esce puntualmente da 16 anni. Per questo, nella Nota di F.
Tarantino ci ha stupito non tanto l’oscillazione concettuale che percorre l’intervento, quanto la palese non verità su fatti storici sempre più evidenti in una
prassi collettiva ormai pubblica. Ci duole, per passione di ricerca, aver riscontrato spostamenti arbitrari non documentati quali: lo storico della realtà umana
riferito ad Amando (se “la teoria della nascita umana è ancora tutta da verificare” di quale altra “realtà umana”, secondo Tarantino, Armando sarebbe lo storico?) o la distanza che Armando pone tra sé e lo sviluppo recente dell’analisi
collettiva41 (quando invece sono stati gli sviluppi spontanei dell’analisi collettiva a prendere le distanze dalle ripetizioni del filosofo Armando nel percorso di
una nuova formazione critica sull’astrazione del pensiero filosofico non solo
suo). Ed è su quest’onda critica al pensiero esistenzialista (dove anche il suicidio è considerato una libertà) che l’ultima citazione di Tarantino, tratta da
Nietzsche – “Contiamo di nuovo quei tocchi, già lontani […] ahimè! E ci confondiamo nel contare…”42 – ci evoca tristemente il dubbio ossessivo di chi, pur
avendo avuto la scintilla di trasferire le caratteristiche del pensiero umano nel
concetto di superuomo, non conoscendone l’origine legata all’affetto della pulsione neonatale, ha poi smarrito le proprie intuizioni nel vuoto mentale come
perdita del primo pensiero-immagine. Questa perdita è quanto oggi la nuova
psichiatria, al contrario del pensiero filosofico che non si è mai curato della sua
“malattia”43 si propone di combattere studiando la storia del pensiero umano.
Per niente confusa è invece la nota di Rosa Calcaterra su I rifiuti come
emergenza filosofica, dove la ricerca di una strada altra che conduca a una riflessione ontologica “riconoscendo che la letteratura ha contribuito in questo
senso molto più della filosofia” va in una direzione nuova che si lascia alle spalle l’ontologia del Nulla.
Nella Calcaterra il segno scritto rivela l’intuizione che la letteratura non nasce dal pensiero razionale che è dei filosofi, il cui connotato storico-culturale è
la concezione dell’uomo originariamente scisso tra pensiero inconscio e razionalità cosciente, ma nasce dal pensiero senza coscienza che la nuova psichiatria ha formulato, e che quando è sano fonde meravigliosamente insieme etica metodo linguaggio e teoria.
NOTE
Segni e comprensione 65
103
Segni e comprensione 65
104
20-05-2008
17:24
Pagina 104
1 In una intervista del 1993 tornata in onda su Rai Educational il 3 gennaio 2002 S. Moravia
sostiene che il filosofo è, sostanzialmente, un individuo che “cerca di giustificarsi” e alla domanda
che cosa è la filosofia ha risposto che “pur nel miglior senso dato al farsi incessanti domande, è
una malattia”.
2 La psichiatria cui facciamo riferimento è quella che si ispira all’opera teorica di Massimo Fagioli che ha svelato che non esiste psichiatria se non si studia il pensiero senza coscienza sempre negato da Freud. Il lavoro dell’analisi collettiva fatto negli ulimi decenni a proposito di memoria cosciente e memoria non cosciente comprende la denuncia e il crollo teorico del freudismo iniziato quaranta anni fa con la teoria della nascita come scoperta della realtà umana inconscia non
più dovuta a idee innate.
3 Cfr. M. FAGIOLI, Teoria della nascita e castrazione umana, (1975); 7°ed., Nuove Edizioni Romane, Roma 2006.
4 Il nostro profilo professionale di riferimento è quello di Pedagogista Relazionale. “Il P.R. è un
operatore che possiede vasta cultura in campo umanistico e pedagogico e conoscenza dell’uso
degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di
educazione/rieducazione […]. Effettua interventi calibrati sull’individuo e sul sistema, concentrando il campo di interesse sul’etica piuttosto che sulla patologia. Svolge la sua attività in scuole pubbliche e private, enti locali, cooperative sociali, associazioni, privato sociale e nella libera professione.” Dal testo regionale sulla qualifica del P.R. ai sensi della legge nazionale 845/1978 e di quella regionale n. 70 del 31.8.1994.
5 Cfr. E. FADDA, Riflessioni nell’ambito della semiosi a partire da Semiotica e Linguistica di Cosimo Caputo, “Segni e Comprensione”, n. 62, 2007.
6 Cfr. A. PONZIO, Filosofia del linguaggio come arte dell’ascolto, “Segni e Comprensione”, n. 62,
2007.
7 Cfr. L. DE BLASI, Il Kant di Heidegger e il problema della metafisica, “Segni e Comprensione”,
n. 62, 2007.
8 Cfr. R. CALCATERRA, I rifiuti come emergenza filosofica, “Segni e Comprensione”, n. 62, 2007.
9 Dagli atti del simposio tenutosi all’Hotel Hilton di Roma nei giorni 21-25 febbraio 2001 sul tema: Psichiatria, il suo presente, il suo futuro.
10 Cfr. G. BRUCO, La metalinguistica nella filosofia morale di Michail Bachtin, “Segni e Comprensione”, n. 46, 2002.
11 Cfr. A. PONZIO, La rivoluzione bachtiana (il pensiero di Bachtin e l’ideologia contemporanea),
Levante, Bari 1997.
12 Cfr. G. BRUCO, op. cit., pp. 20-21.
13 Cfr. M. FAGIOLI, op. cit.
14 Cf. M. FAGIOLI, Se la cultura si liquefà la sinistra muore. “Oltre il materialismo storico dell’Ideologia tedesca”, “Left Avvenimenti”, n. 39, 2007.
15 Cfr. M. BACHTIN, Per una filosofia dell’azione responsabile, con premessa e introd. di C. Caputo, M. De Michiel, A. Ponzio, I. M. Zavala, Manni, Lecce 1998.
16 Tra le eccezioni ci piace ricordare Carlo Augusto Viano, storico della filosofia, che afferma in
una intervista su “Aprile on line” (del 17.4.07): “Heidegger: «un reazionario distante da ogni idea
di modernità» Sartre: «il nulla» Foucault: «un falsificatore». C’è un fiorir di riferimenti ai profeti e
santoni del passato da Heidegger a Sartre, da Foucault a Freud che servono a coprire la crisi di
un’ideologia, il marxismo, data per duratura e risolutiva, ma oggi soprattutto c’è da fronteggiare criticamente la crescente invadenza della Chiesa e del pensiero religioso che nega le libertà individuali.” C. A. Viano che prima, in Laici in ginocchio, ha criticato intellettuali e politici che soffrono di
complesso d’inferiorità nei confronti della gerarchia ecclesiastica ora, con La filosofia del Novecento, critica la filosofia italiana che, a suo dire, manca di capacità critica.
17 Cfr. La caduta degli dei filosofi, incontro con Giacomo Marramao e Massimo Fagioli, alla libreria “Amore e Psiche”, dell’11 marzo 2007. Il dibattito è riportato su “Il sogno della farfalla”, n. 3,
2007.
18Cfr. G. BRUCO, Animalità e ragione nel mondo greco. Irrazionale e realtà umana 2500 anni
dopo, “Giornale di Pedagogia”, rivista quadrimestrale della Fiped, n. 2, 2006; Reindirizzare verso
20-05-2008
17:24
Pagina 105
una psicoterapia che non tradisca, n. 2, 2007; La reattività del neonato come fonte del pensiero,
ivi, n. 3, 2007; La matrice irrazionale del ventaglio pedagogico, n. 4, 2007.
19 Cfr. G. BRUCO, Formazione dell’unità bio-psicoperante e sviluppo del linguaggio, intervento
in corso di pubblicazione negli atti del Convegno Nazionale Fiped tenutosi presso l’Istituto degli Innocenti di Firenze il 19.5.2007.
20 Cfr. G. BRUCO, La zucca di Cenerentola. L’errore pedagogico, Manni, San Cesario di Lecce
2005, p. 20.
21 Cfr. A. PONZIO, Filosofia del linguaggio come arte dell’ascolto, cit., pp. 38-39.
22A chiusa del suo articolo Ponzio afferma: “della semiosi della vita, in quanto animale semiotico, l’essere umano è responsabile. E, più di ogni altro essere umano, lo è chi per professione si
occupa delle studio dei segni. Prafrasando Terenzio: sono uno che si occupa di segni, e niente della vita dei segni mi è indifferente”, ivi, p. 77.
23 Ivi, p. 76.
24Dal programma della Scuola di Bari-Lecce denominato Semioetica.
25 Le ripercussioni della responsabilità di una corretta lettura di una diagnosi psichiatrica in ambito giuridico sono enormi, perché la capacità di intendere e di volere riferita solo al pensiero razionale e al comportamento manifesto porta spesso fuori strada; nel senso ad es. che uno studente diligente che ha ottimi voti a scuola lo si mette in prigione se accoltella la madre invece di curarne la schizofrenia. Sul caso Erika e Omar: Cfr. Atti degli incontri di ricerca psichiatrica 2002, a
c. di E. Pappagallo, Nuove Edizioni Romane, Roma. Della sessione svoltasi nell’Università di Chieti-Pescara segnaliamo, a p. 88, l’intervento del giurista Francesco Dall’Olio sui due termini-concetti di imputabilità e punibilità relativi al famoso Codice Rocco del 1930.
26 Cfr. S. MORAVIA, L’enigma della mente, Laterza, Roma-Bari 1986.
27 Cfr. E. STOCCO, P. FIORI NASTRO, L’origine biologica della psiche, “Il sogno della farfalla”, n.
4. 1992; MARCELLA FAGIOLI, Realtà biologica umana, ivi, n. 2, 2005.
28 Cfr. D. COLAMEDICI, G. CARPINELLI, R. NICOLAI, F. VIRGILI, Più o meno di un seme. Il limite della vitalità del feto, ivi, n. 3, 2006.
29 Da una lezione tenuta dalla prof.ssa Daniela Colamedici, psichiatra, e dal fisico prof. Matteo
Fago, al Corso di Psicologia della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Chieti il
2.4.2007 (in corso di pubblicazione).
30 Cfr S. MAGGIORELLI, Propaganda sulla pelle delle donne. Intervista alla neonatologa G. Gatti, “Left”, n. 35, 2007.
31 I risvolti culturali della teoria della nascita sono grossi perché è chiaro che non si può uccidere chi non è vivo. Mentre continua la rivolta degli scienziati per la laicità, G. Corbellini, C. Flamigni e D. Neri, che hanno messo in crisi il Presidente del Comitato Nazionale di bioetica (Cfr. Cnb,
una presidenza da rifare, di C. Patrignani, “Left Avvenimenti”, n. 40), vogliamo invece ricordare la
tavola rotonda su “Bioetica, Cellule Staminali, Embrione Umano: il Pensiero Religioso e Laico”
svoltasi il 3.5.07 presso la sala del Grand Hotel Parco dei Principi di Roma, dove si tiene il “Cord
Blood Transplant European Conference”, di cui Franco Mandelli è Presidente onorario. Al dibattito tra religiosi e scienziati che si sono confrontati sul tema dell’inizio della vita umana durato quattro ore alla presenza di più di mille persone erano presenti tre esponenti religiosi: don Andrea Manto, docente di Teologia Morale della Pontificia Università Lateranense, Riccardo Di Segni, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, l’ambasciatore Mario Scialoja, membro del Centro culturale Islamico, lo psichiatra Massimo Fagioli, il bioeticista Maurizio Mori e il filosofo Eugenio Lecaldano. A coordinare gli interventi l’ematologo Lucio Luzzatto dell’Istituto Toscano Tumori di Firenze e l’ematologo dell’Università romana di Tor Vergata William Arcese. Durante la discussione,
Scialoja, Di Segni, Mori, Fagioli e Lecaldano hanno ribaltato l’impostazione religiosa di Don Manto sull’inizio della vita. A sua volta Fagioli ha affermato: “Ci vuole la nascita, il vagito, il respiro per
avere la vita umana: è solo alla nascita che si attiva e si forma per la stimolazione della retina da
parte della luce il pensiero umano non ancora verbale ma fatto di immagini”. Quindi, mentre lo psichiatra pone l’inizio della vita umana alla nascita (prima il feto è vitale, non vivo e lo diventa quando si forma il pensiero), don Manto invece ribadisce l’inizio della vita umana “a partire dal concepimento”. Secondo il filosofo Lecaldano, il credo religioso ostacola la ricerca scientifica, mentre il
bioeticista Mori sostiene che è dimostrato scientificamente che l’embrione non è ancora una persona ma potrà diventarlo, quindi: “vietare la ricerca sulle cellule staminali in ragione del fatto che
l’embrione sia uno di noi, è un danno al progresso della medicina che ha la possibilità, oggi, di pas-
NOTE
Segni e comprensione 65
105
Segni e comprensione 65
106
20-05-2008
17:24
Pagina 106
sare da riparatrice a rigeneratrice di organi”. Le posizioni dell’Ebraismo e dell’Islam sono state
chiarite da Di Segni e da Scialoja che ha sottolineato che queste posizioni sono condivise dalla religione islamica: “per il Corano il feto diventa essere umano successivamente e non al concepimento: dunque la distruzione di un embrione non è infanticidio”. Inoltre, ha aggiunto che per l’Islam
“la ricerca sugli embrioni sovrannumerari è anzi un obbligo per raggiungere maggiori conoscenze,
anche se siamo contrari alla creazione ad hoc di embrioni da usare per la ricerca”. Concludendo
ha sottolineato che in Iran, Egitto, Turchia, Arabia Saudita e Singapore sono in corso studi su cellule staminali embrionali: nel mondo islamico c’è un consenso per un uso responsabile degli embrioni ai fini della ricerca”. Cfr. C. PATRIGNANI, su “Agenzia Radicale” a proposito della conferenza
europea “CBT”.
32 Cfr. T. DE MAURO, Capire le parole, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 59.
33 Cfr. M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, Armando, Roma 1972; 12° ed., Nuove Edizioni Romane, Roma 2007, cap.III, paragrafo 6°, p. 224: La perdita dell’immagine dell’oggetto e la
creazione del simbolo verbale.
34Immagine della linea, Nuove edizioni Romane, Roma 1996, Atti del Convegno inaugurale
della mostra “Il coraggio delle immagini. Progetti di un gruppo di architetti italiani su idée e disegni
di Massimo Fagioli”.
35Cfr. MARCELLA FAGIOLI, La parola dell’inconscio Ipotesi che legano gli studi linguistici alla realtà psichica, tesi sperimentale, 1992-1993, Università La Sapienza di Roma.
36 Cfr. M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza, cit.; La marionetta e il burattino, Nuove Edizioni Romane, Roma 1974; IX ed. 2007; Teoria della nascita e castrazione umana cit.; Bambino
Donna e Trasformazione dell’Uomo, Nuove Edizioni Romane, Roma 2007, 7° ed.; Lezioni 2002, a
cura di D. Armando, Nuove Edizioni Romane, Roma 2006; Una vita irrazionale. Lezioni 2006, a cura di D. Armando, Nuove Edizioni Romane, Roma 2006; Das Umbewusste, l’inconoscibile, Lezioni 2003, a cura di D. Armando, Nuove Edizioni Romane, Roma 2007.
37 Cfr. L. DE BLASI, Il Kant di Heidegger, cit.
38 “L’acceso dibattito francese sul nazismo di Heidegger ha recentemente compiuto un ulteriore salto di qualità […], in Francia la discussione sull’affaire Heidegger è piuttosto avanzata, perché
non concerne più la compromissione politica del filosofo dell’Essere per la morte, data ormai per
scontata, bensì quella del suo pensiero. Al centro della riflessione del filosofo-giornalista Droit, una
delle firme più prestigiose del quotidiano Le Monde, c’è un enigma: l’incantamento, quasi una malìa, esercitato da Heidegger su tutta la cultura francese, nonostante che «nell’immediato dopoguerra, comunisti come Henri Lefebvre denunciavano il “nazista Heidegger” e cattolici ferventi come
Gabriel Marcel lo schernivano». […] Nel rilevare il ruolo determinante di Sartre, che ridusse l’impegno hitlerista del filosofo ad una «debolezza di carattere», Droit sottolinea un’inversione che ha
portato tutta la cultura francese «da Sartre a Derrida passando per Axelos, Levinas, Ricoeur o Lacan», a camminare, negli ultimi sessanta anni, «al passo di Heidegger». L’analisi di questo enigma, conclude Droit, tocca «elementi determinanti dell’identità culturale francese» e forse anche del
suo «declino». Considerata l’influenza che gli intellettuali francesi hanno esercitato sulla maggior
parte dell’attuale cultura di sinistra, tanto europea quanto americana, la questione acquista un rilievo ancora maggiore, che sarebbe potuto emergere in Italia con largo anticipo, già intorno al
1979-80. Risale infatti a quegli anni il volume Bambino donna e trasformazione dell’uomo nel quale Massimo Fagioli – quale diretta conseguenza delle sue scoperte sulla realtà umana senza coscienza – evidenziò con la sua critica il fondamento nazista del pensiero heideggeriano”. Da “Il riformista”, 14 marzo 2007, p. 6, Compromissioni. In Francia il dibattito sul pensiero del filosofo è
più avanzato; Sofri, Heidegger e la bella addormentata intellettualità italiana, di Livia Profeti.
39 Cfr. F. TARANTINO, La ripetizione e la nascita. Storia della filosofia e psicoterapia, “Segni e
comprensione”, n. 62, 2007.
40 “Ma la mia domanda, ribaltata, è radicale: una filosofia che ammetta l’‘ambiguità’ del reale,
deve o può definire e distinguere anche quando pensa che nel reale sia il chiasma di ragione e
nonragione? La distinzione-definizione è utile, ma è un atto pratico, non teoretico, né conoscitivo”.
Cfr. G. INVITTO, Prefazione a G. BRUCO, La zucca di Cenerentola. L’errore pedagogico, cit., p. 10.
41Ivi, p.184.
42 Ivi p.185. Il corsivo è mio.
43 Op. cit., nota 1.
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 107
L’IDEA DELL’ITALIA.
TRA PENSIERO POLITICO E STORIA CIVILE
L’ultimo volume di Paolo Bagnoli, dedicato a L’idea dell’Italia 1815-1861, è
apparso nelle edizioni Diabasis, collana “Biblioteca di cultura civile. I muri bianchi” (Reggio Emilia 2007, pp. 360). La casa abbastanza giovane, se riferita all’età delle editrici che producono in Italia volumi di notevole interesse, si è sempre segnalata non solo per la qualità delle edizioni ma anche per la scelta di titoli che rientrano nel quadro di un impegno intellettuale, scientifico e civile. Come è avvenuto per il volume di cui qui si parla.
Paolo Bagnoli, che oggi è ordinario di Storia del pensiero politico a Siena,
ha già avuto, accanto alla carriera accademica, un impegno pluriennale come
direttore della Fondazione “Primo Conti” di Fiesole e poi del Gabinetto Vieusseux di Firenze. Molto vicino a Giovanni Spadolini, si è fatto apprezzare per i
suoi studi nei quali si è manifestato come serio analista, in particolare della storia del pensiero liberalsocialista, individuando in Piero Gobetti un autore chiave nella storia italiana delle teorie politiche.
Quest’ultima robusta e pregevole fatica è rilevante non solo in quanto è una
completa e documentata ricostruzione, dal punto di vista della elaborazione
politica, del processo unitario italiano, ma anche perché porta alla definizione
di un lessico, sinora spesso confuso, che fa perno sui termini di popolo, nazione, nazionalità. Tutto ciò aiuta a capir meglio un dibattito storiografico e agevola una corretta ermeneutica dei testi.
Contemporaneamente, il volume in oggetto è una mappa esaustiva delle
elaborazioni ideologiche che hanno contribuito al movimento unitario. Ma unità di cosa? Il volume di Bagnoli ci delinea il rapporto esistente tra ciò che l’Italia era, o poteva essere, come nazione e la sua espressione culturale, vale a
dire la sua idea nella mente e nelle testimonianze di coloro che ne hanno promosso e costruito la storia dal Congresso di Vienna all’unità. Il lavoro comporta – ed è dichiarato – strumenti disciplinari diversi: storici, giuridici, filosoficoideologici, politico-dottrinari, sociologici “oppure genericamente dottrinari”.
Sin dall’inizio, l’autore non si nasconde dietro metafore e afferma che, nella realtà italiana, lo Stato moderno nasce solo “per trapianto” quando viene imposto “sulla punta delle baionette”. In sostanza, la tesi, affermata con rigoroso
piglio argomentativo, è quella di una “unità” d’Italia che non ha risolto il problema della “identità” italiana. Infatti, è un’unità che si è realizzata in forme e modi non riscontrabili nelle elaborazioni teoriche nate tra il 1815 e il 1860, tutte
presentate, nella ricerca in questione, con acribia e ricchezza documentaria.
Leggiamo nel testo: “L’Italia unita coniugò, paradossalmente, Mazzini e
Gioberti: una contraddizione che avrebbe pesato sulla vicenda nazionale co-
NOTE
di Marisa Forcina
107
Segni e comprensione 65
108
20-05-2008
17:24
Pagina 108
me un dato genetico fortemente compromissorio” fino ai nostri giorni (p. 29).
Già i fatti del 1821 non furono una rivoluzione, bensì un’insorgenza di tipo prerivoluzionario voluto da un’avanguardia che puntava alla trasformazione del
vecchio Stato sardo da assolutista in costituzionale. Insomma, il problema “dell’unità costi quel costi”, aveva sottodimensionato il problema del recupero e
della valorizzazione delle diversità culturali, politiche, antropologiche esistenti
nel territorio. Una pluralità la cui genesi era già individuata, nel 1846, in un saggio di Giacomo Durando che, parlando della “nazionalità” italiana, aveva affermato che era la stessa configurazione geografica “longitudinale” dell’Italia, così come aveva detto Napoleone, ad “ostare alla di lei nazionalità”.
Allora le considerazioni fattuali dello storico si coniugano con le proiezioni
dello studioso del pensiero politico, quando ci avverte che tra il 1830 e il 1848,
in termini di cultura politica, la soluzione unitaristica si era radica nel ragionamento complessivo di un Paese che voleva ricomporsi, prescindendo dal portato di una storia risultante “di tante storie tenute in subordine per paura di
compromettere le meta aspirata; esse, al contrario, se valutate avrebbero potuto arricchirla e completarla” (p. 83).
Ma chi avrebbe potuto farlo? Nell’ampia e importante ricostruzione di Bagnoli emergono anche indirettamente alcune risposte a quell’interrogativo: non
sarebbe stato possibile nella linea degli integralismi cultural-politici, ma forse
nella traccia delineata da Cattaneo dove era riconosciuto il ruolo privilegiato
delle autonomie locali. L’autore afferma che è sicuramente a Carlo Cattaneo
che dobbiamo “lo sforzo intellettualmente più alto nell’approfondire e interpretare i nodi storici e politici della questione italiana”. Cattaneo si era posto il problema dell’idea dell’Italia sulla scia di Romagnosi e del suo concetto di “incivilimento”, inteso come criterio di una “utilità positiva” e come sintesi di una processualità storica che partiva dalla constatazione di una permanenza della
“barbarie”, nonostante le tesi vichiane che ne affermavano il superamento.
Pertanto la storia, per Romagnosi e Cattaneo, doveva essere sempre animata da una morale, anche concreta, della libertà. La “filosofia civile” diveniva, in
tal modo, “filosofia dei liberi”.
D’altro canto anche Romagnosi aveva definito, in ambito filosofico-politico,
la questione della nazione in virtù di un parametro storico fondato sull’autonomia delle comunità e sulla loro capacità di convivere liberamente e civilmente.
Parimenti, l’identità italiana per Cattaneo si definiva nel rapporto culturale e
storico con la dimensione delle città e con “la cognizione dell’Europa” quale
luogo geo-politico cui l’Italia apparteneva e si rapportava. Elemento che rimarrà in Piero Gobetti, “il più cattaneano degli intellettuali politici del Novecento italiano” (p. 157).
Il profilo teorico elaborato da Cattaneo si accompagna ad una forte attenzione ai dialetti. “Il vero stato degli animi e delle anime, lo specchio delle abitudini, delle tradizioni, delle simpatie, delle antipatie, sfugge alle superbe fasi delle letteratura nazionale. Ella vien tracciata dalla raccolta dei poeti vernacoli” affermava il nostro in uno scritto del 1836. Quasi contestualmente,
una simile tesi era portata avanti anche dal Ferrari che rifiutava la teoria invalsa di ricondurre il tema della “nazione italiana” all’unità linguistica. In un
20-05-2008
17:24
Pagina 109
saggio del 1838 egli parlò, per contrasto, del ruolo della poesia popolare italiana e dei dialetti.
Per tali motivi, Bagnoli legge nel tardo Cattaneo il rimpianto di una “rivoluzione negata”. Il fondatore de “Il Politecnico” aveva individuato il limite del moto del ’48 quando si era ritenuto che non fosse necessaria una rivoluzione legata alla libertà, ma solo una guerra di indipendenza dell’Austria. E, una volta
ottenuta l’indipendenza, il progetto sarebbe finito? Qui l’analisi dello storico investe le altre teorizzazioni di quei decenni, quelle che comunque alimentarono
il dibattito sulle sorti dell’Italia, magari senza giungere o senza percepire la necessità di una definizione dell’idea-Italia.
Così in Massimo Taparelli D’Azeglio troviamo le “speranze e i limiti del liberalismo moderato di una classe dirigente tanto contraria, naturalmente, alle cospirazioni e alle società segrete quanto consapevole che fosse un compito sabaudo precipuo quello di segnare i destini dell’Italia” (p. 104).
Vincenzo Gioberti è il polo opposto di Cattaneo, per storia, dottrina politica
e cultura, perché esprimeva la giustificazione nazionalistica dell’idea d’Italia
rintracciandola nel “genio” italiano. Per Gioberti, essere nazione non era un
problema reale, risolvendosi l’identità in tutto e per tutto nel cattolicesimo. La
sua certezza era tale che, già alla fine del 1847, individuava l’ambiguità dei
processi unitari dichiarando: “1° il risorgimento italiano andrà innanzi anche
senza il papa; 2° e anche senza il papa non lascerà di esser cattolico”. Ma progressivamente, dopo la perdente esperienza di Carlo Alberto, il suo giudizio
severo non fu scevro dal più duro moralismo quando attaccò l’intero sistema
del potere sabaudo. In una lettera del maggio 1851 Gioberti scriveva: “Il re [Vittorio Emanuele II] è più leale di Carlo Alberto, ma più asino ancora. È per di più
dissolutissimo; e in tutti i dintorni della sua villeggiatura non v’ha una donna né
una zitella che sia intatta. Il resto della corte è pinzochero, austriaco, gesuita.
L’Azeglio ha buone intenzioni, ma tutto si riduce alle intenzioni. Non fa nulla;
lascia gli affari in mano al primo uffiziale che è un retrogrado; e come il re alle
contadine, così egli attende alle ballerine. Redentori d’Italia! Cavour è il solo
ministro che sia attivo; versato nelle finanze e nell’economia, ma ignorante in
politica; e di più nemico d’Italia, senza probità, senza fede, senza principii.
Pronto a tradire la patria in mano agli stranieri, purché gliene metta bene” (pp.
185-186).
Bagnoli osserva che l’ossessione dell’unità impedì a Gioberti di vedere anche la questione autonoma della nazione perché data aprioristicamente risolta
col cattolicesimo. Nonostante ciò, egli offrì degli squarci ideologici e dottrinali
vicini a quelli del “laico” Cattaneo. Nello scritto Del Rinnovamento civile d’Italia, del 1851, infatti Gioberti parlava dell’ampliamento delle libertà comunali
“anzi che statuali, perché la divisione per comuni è assai più naturale che quelle di altra specie, il municipio essendo il primo stadio della civil comunanza, come la patria nazionale ne è l’ultimo”. Né va sottovalutato il fatto che, di lì a qualche decennio, un altro sacerdote, Luigi Sturzo, pose nel manifesto ideologico
del suo Partito Popolare il tema delle autonomie locali. Ma, per quei paradossi che talvolta la storia presenta, proprio le opere di coloro che avevano difeso, in vario modo, il ruolo nel cattolicesimo nei processi della unificazione ita-
NOTE
Segni e comprensione 65
109
Segni e comprensione 65
110
20-05-2008
17:24
Pagina 110
liana furono messe nell’Index librorum prohibitorum: le opere politiche di Rosmini nel 1849, le opere complete di Gioberti del 1852. Quelle del laico Ferrari nel 1877.
Se Cattaneo e Gioberti rappresentarono, secondo la ricostruzione di Paolo
Bagnoli, i due poli dottrinalmente più importanti nel percorso verso la nuova Italia, la sua lettura del ruolo di Giuseppe Mazzini è più articolata. Egli afferma
che la personalità di quest’ultimo emerge, nella storia d’Italia, per il messaggio
civile e morale che la sua vita ci ha consegnato, ma che il suo pensiero politico, tuttavia, non ha “complessità dottrinale e si articola intorno ad alcuni concetti di fondo che ritroviamo costantemente nella copiosissima produzione pubblicistica” (p. 208). Una di queste semplificazioni teoriche è, per esempio, nel
confronto con Gioberti che giustificava e mediava le indiscutibili radici cristiane
con il “genio italiano”, mentre Mazzini riconduceva il genio italiano direttamente e senza mediazioni a Dio.
Con questo, l’autore non disconosce il portato storico di alcune critiche
mazziniane come quella contro il comunismo, visto come inevitabile generatore di tirannide, e contro il liberalismo a sua volta sfociante nell’individualismo.
Per il patriota genovese, l’uomo era libero solo in un sistema democratico poiché “il problema dalla democrazia è problema religioso d’educazione”. Democrazia e socialità, quindi, per il Mazzini che scriveva nel 1851: “La rivoluzione
sarà sociale. Ogni rivoluzione è tale o perisce, sviata da trafficatori di potere e
raggiratori politici”.
In un inedito del 1861, anche il fondatore della “Giovane Italia” torna sul tema delle autonomie municipalistiche, affermando che nazione e comuni sono
“le sole due manifestazioni della vita generale e locale che abbiano radice nell’essenza delle cose”, affiancandosi così a Cattaneo e a Gioberti. E forse questi non sono solo paradossi della storia ma intuizioni comuni di intellettuali accorti alle realtà fattuale.
Una volta detto dei protagonisti primari e indiscussi del dibattito sulle sorti
possibili dell’Italia, il ricco ed esauriente studio di Bagnoli tocca tanti altri personaggi che, dialetticamente, hanno concorso a formare un mosaico pregnante di progetti e passioni. Troviamo sottolineate alcune osservazioni acute del
Ferrari, quando in La rivoluzione e i rivoluzionari in Italia (1844-1845) criticava
le società segrete perché “sono state troppo funeste al liberalismo italiano; esse lo hanno isolato dal popolo, staccato dalla borghesia, in cui doveva trovare
la sua forza”. Per esempio, al di là degli studi sulla Carboneria e sulle associazioni mazziniane, la storiografia sul Risorgimento non ha dato pari risultati per
ciò che concerne il ruolo assunto dalla massoneria. Tornando al Ferrari, egli fu
contro le idee astratte e le utopie, ma questo non gli vietò di affermare, nel
1851, che “la rivoluzione è il trionfo della filosofia chiamata a governare l’umanità”, in una sorta di platonismo positivo e partecipato.
Non poteva mancare, e difatti non manca, un adeguato posto dedicato a
Carlo Pisacane ed alle sue riflessioni. Potremmo dire che il profilo che ne
emerge è quasi quello di un filosofo della storia che anticipa, o accompagna,
percorsi teorici che venivano dal contesto tedesco e dalla sinistra hegeliana.
Per Pisacane, infatti, la rivoluzione nasceva dai fatti, dalla prassi. Scrisse nel
20-05-2008
17:24
Pagina 111
suo Saggio sulla rivoluzione: “L’idea, il concetto dominano, è vero, il destino de’
popoli: ma esse son conseguenza de’ fatti, e non si traducono in fatti che dalle rivoluzioni compite per forza d’armi; ed il popolo non trascorse mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato da’ dolori”. Ed il suo
testamento politico fu la conferma esistenziale prevista e, forse, cercata di
un’alternativa “pratica” nella costruzione dell’unità del Paese.
Non mancano, in questo excursus, neanche Rosmini e il suo concetto di
persona, anche qui con anticipazioni storiche illuminanti. Nel Progetto di costituzioni elaborato dal sacerdote di Rovereto, per esempio, lo Stato costituzionale non può contemplare una propria religione ufficiale: “La Religione non ha
bisogno di protezioni dinastiche, ma di libertà; ha bisogno che sia protetta la
sua libertà e non altro”. Per segnalare l’attualità di una tesi del genere non c’è
bisogno di ulteriori chiose.
Ed infine poi i due “realizzatori”: Cavour e Garibaldi. Questi, con la sua generosità e il suo carisma, permise una convergenza fattuale di Italie diverse:
quella laicista e massonica (1856: “Il più terribile avversario nostro, i preti sono potentissimi”) con quella più attenta alle reali potenzialità del paese. Bagnoli ricorda come Garibaldi abbia posto la questione dell’integrazione del Sud nell’agenda politica nazionale e che gli errori commessi dai governi unitari non sono imputabili a lui. Uno dei meriti storici di Garibaldi fu proprio quello di segnalare il problema del Sud come diversa identità.
Disincantata, come tutta la ricerca, è la lettura, così come emerge dal libro,
del ruolo di Cavour. Il conte è il politico stratega che si muove sul terreno come su una scacchiera e se, nel 1860, scriveva che l’arresto di Mazzini è “uno
dei maggiori servigi che rendere si possa all’Italia”, condivideva quel aveva
scritto Costantino Nigra di Garibaldi, ritenuto “lo strumento cieco che lavora,
senza averne coscienza, per noi” (p. 333).
Quali le conclusioni di questo importante lavoro? Che quella italiana è una
“identità melliflua”, secondo la definizione data da Giorgio Rumi. Fu il fascismo
a portare ad una identità lo Stato non più solo unitario ma nazionale, perché,
in quella logica, nazione e patria coincidevano. L’altra unificazione solida fu in
parte rappresentata dai valori dell’antifascismo. La tesi di Paolo Bagnoli è precisa: l’unità fu piemontese e sabauda e, con la sua realizzazione, la discussione sull’idea dell’Italia venne archiviata, ma non fu risolto il problema che essa
portava in sé. Però “la contingenza della storia ha sicuramente pesato nel compattare un destino collettivo e nel determinare le responsabilità degli italiani;
guardando a una difficile storia nazionale si deve rilevare che a tali ‘responsabilità’, essi hanno dato più volte forte dimostrazione di corrispondere ed è proprio in quei passaggi che l’idea dell’Italia si è manifestata al di là di ogni ambiguità” (p. 339). Anche qui l’eterogenesi dei fini emerge nella storia: l’idea dell’Italia si è progressivamente costruita nelle prassi e nelle coscienze storiche
dei suoi cittadini.
NOTE
Segni e comprensione 65
111
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 112
RILEGGERE CARLO MICHELSTAEDTER
di Damiano Russo
112
Il volume di cui ci interessiamo qui, a cura di L. Perego, E. S. Storace e R.
Visone, raccoglie i contributi di A. Carrera, M. Fortunato, A. Gallarotti, P. Librandi, e dei curatori1. L’obiettivo, perseguito nel libro, è quello di costruire un’esegesi delle opere del giovane pensatore goriziano, ripercorrendo gli aspetti più
innovativi e anticipatori propri della riflessione etico-pedagogica del filosofo
giuliano. Riproponendo in tutta la sua completezza e fluidità il pensiero michelstaedteriano, che si connota di un forte carattere di “asistematicità”, in contrasto con un sapere istituzionalizzato, bloccato, irrigidito, cristallizzato nei grandi
sistemi filosofici. Lo studio che gli Autori di questo testo, nelle loro specificità,
propongono, risulta essere una introduzione alla complessa e articolata riflessione michelstaedteriana, dalla quale si traggono gli spunti per ermeneutiche
sulla volontà della persuasione.
Il testo presenta al suo interno una Prefazione di Amedeo Vigorelli, un saggio sulla vita e le opere di Carlo Michelstaedter, seguito da quattro articoli sul
suo pensiero, i quali affrontano un’analisi mirata delle principali opere (La Persuasione e la Rettorica, gli Scritti Vari, l’Epistolario e le Poesie) e da un articolo sulla produzione pittorica; inoltre, nel finale, il volume propone tre Appendici: la prima ripercorre la storia del “Fondo Carlo Michelstaedter”, facendone
emergere l’immenso valore che esso ha ricoperto nel lavoro di ricerca e ricostruzione filologica del pensiero del filosofo della persuasione, mentre le ultime
due appendici contengono in copia fotostatica alcuni materiali manoscritti (lettere), documenti (fotografie, pagine autografe, disegni), ed una cronologia della vita e delle opere assieme ad una bibliografia aggiornata.
La ricostruzione storiografica condotta da Roberta Visone, nel saggio “Vita
e Opere di Carlo Michelstaedter”, ripercorre la vita di Carlo Raimondo Michelstaedter (Gorizia 3 giugno 1887 – 17 ottobre 1910), attraverso un percorso ricco di notizie e particolari riguardanti sia la situazione familiare del giuliano, caratterizzata da un rapporto altalenante con i genitori e da un forte legame con
i fratelli, in particolare con la sorella Paula, sia le sue esperienze giovanili, dalle amicizie, tra cui emergono quelle con Nino Paternolli ed Enrico Mreule (detto Rico), nate negli anni ginnasiali e rimaste punti di riferimento per tutta la sua
breve esistenza, agli affetti travagliati2 che hanno segnato profondamente l’animo del giovane pensatore.
Emerge, in tal modo, la figura di un giovane fragile, dai “grandi pensieri”,
che deciderà di concludere la sua vita in giovane età il 17 ottobre 1910.
Nel saggio La persuasione e la rettorica, gli autori propongono una rivisitazione del pensiero michelstaedteriano alla luce del confronto con Arthur Scho-
20-05-2008
17:24
Pagina 113
penhauer: se quest’ultimo esplicita la concezione della realtà, il cui “intimo essere” coincide con la volontà (e quindi con il dolore), a livello teoretico-argomentativo e gnoseologico, per il suo intento di creare un’opera che dovesse
essere “etica e metafisica allo stesso tempo”3, nella sua opera ultima, La persuasione e la rettorica, il giovane pensatore giuliano, che rifiuta ogni costruzione gnoseologica e teoretica di tipo sistematico, donde la totale assenza di
un’intenzione di tradurre in senso concettuale-sistematico una conoscenza intuitiva ed originaria, utilizza la concezione della realtà schopenhaueriana come
leit motive su cui fondare il proprio pensiero, attento all’aspetto pratico morale.
Perego e Storace soffermano la propria attenzione all’attività di monito che Michelstaedter, in La persuasione e la rettorica, rivolge al persuaso. Ma chi è il
persuaso per Michelstaedter? Il persuaso è colui che, scorgendo l’impossibilità d’affermazione della sua continua volontà d’essere in relazioni, scopre l’infinità della propria persona come volontà d’affermazione, l’infinito valore dell’individuo, che nella sua profondità vede, nell’offrirsi di una relazione particolare,
presente la propria negazione d’affermazione totale: il persuaso coglie l’immensità coscienziale della propria persona, dà nuovo valore a se stesso, ricrea se stesso, e, prendendo coscienza e consapevolezza dell’immenso valore di sé, di ogni sé, coglie l’immenso valore di ogni individuo, di ogni singolo,
dell’uomo. Ma la via per giungere a tale scoperta è una strada ardua, continua,
ricca di negazioni: l’uomo per cogliere tale verità deve inoltrasi verso se stesso, abbandonare ogni filoyucia/ 4, esperire nell’attimo, senza soste. Solo così,
attraverso il continuo esperire la realtà attuale, potrà l’uomo crear se stesso,
dando nuovo valore, infinito, alla propria persona, comunicando il proprio valore individuale attraverso la propria continua azione attuale, volitiva e concreta,
nella quale egli stesso si identifica.
Michelstaedter vede nel persuaso la persona giusta in senso pieno5, e nella giustizia, come sottolineano Perego e Erasmo, un asintoto che l’uomo non
potrà mai raggiungere: “il dovere verso la giustizia gli resta infinito”6. Il giovane
pensatore, che definisce il dovere come “tutto dare e niente chiedere”, individua nel beneficare l’attività che contiene in sé i due atteggiamenti che devono
caratterizzare la condotta del persuaso, ossia il dare e il fare: nel beneficio il
dovere viene applicato all’agire, in quanto il beneficio è l’ “attività che non chiede”7,“che fa non per avere, ma facendo dà”8. Il persuaso non deve dare per
avere, ma nel dare egli trova la sua ricompensa, in quanto è un donare tutto
se stesso al mondo, ossia a se stesso, in quanto è “uno egli e il mondo”9. Perego e Storace risaltano, inoltre, l’atteggiamento pedagogico proposto da Michelstaedter: compito che egli affida al persuaso è di continuare a dare, a comunicare l’immensità del valore individuale, di ogni uomo, la parola persuasa,
attraverso il proprio esempio, a coloro i quali non sono giunti sulla via della persuasione. Il persuaso non deve vedere l’altro come diverso da sé, ma “attribuire all’altro la persona che nega, che soffre, che non ha, ch’egli sente dentro di
sé”10, e “niente ha dato finché non ha dato la vicinanza delle cose lontane, così che anche i ciechi la vedano […] poiché dal suo amore attratti essi prendano la persona ch’egli ama in loro: allora i ciechi vedranno”11. Gli autori indicano, in particolare, proprio nell’intento pedagogico di Michelstaedter l’origine
NOTE
Segni e comprensione 65
113
Segni e comprensione 65
114
20-05-2008
17:24
Pagina 114
della quasi assenza di citazione in La persuasione e la rettorica di Schopenhauer, suggerendo l’ostilità michelstaedteriana ad un approccio descrittivo in ambito morale.
L’Epistolario, come suggerisce Paolo Librandi, diviene strumento utile per
scoprire quali furono le riflessioni, le letture e gli elementi storico-biografici che
spinsero il giuliano a dare fortemente un indirizzo in senso morale alla propria
formulazione concettuale.
Il giovane filosofo della persuasione ricopriva una posizione particolare all’interno della realtà storica in cui era situato, quella dell’ebreo italo-austriaco
nella Gorizia a cavallo del Novecento: egli percepiva fortemente gli effetti limitanti di una società che vedeva ipocrita in ogni sua manifestazione, dalla famiglia alla comunità religiosa, allo Stato; non sentiva il legame con le proprie origini ebraiche, essendo praticamente laico, né il richiamo di una patria o di un
dio. Si può costruire così l’ipotesi, secondo Librandi, che tutte queste considerazioni, che generarono in lui un senso di distacco, allorché egli ne divenne totalmente cosciente, lo condussero verso la definizione di una condizione umana avente tali caratterizzazioni. Per cui l’uomo dovrà, per Michelstaedter, prendere coscienza della mancanza di “ogni vero cordone ombelicale con l’esterno”12, e, partendo da questa nuova dolorosa consapevolezza, crear da sé un
nuovo originale rapporto con il mondo.
Librandi compie, dunque, una attenta analisi delle lettere, e in particolar modo dalla lettera del 1908 possiamo apprendere la lettura e il vivo interesse del
Nostro per Ibsen e Tolstoj, che diverranno testate d’angolo della costruzione
michelstaedteriana: i due autori vengono messi in fecondo dialogo dal giovane
pensatore, il quale ne evidenzia la differenza in un diverso sguardo di una comune tematica, l’avversione verso la realtà sociale esistente. Se da una parte
Ibsen chiede all’uomo di distruggere il cerchio di menzogna che lo stringe, e lo
sprona alla lotta e all’educazione alla lotta per far trionfare la verità, risultato
che Ibsen ritiene realmente conseguibile dall’uomo, dall’altro Tolstoj chiede all’uomo la devozione per poter resistere alle benevolenze ingannatrici di una
società falsa e prepotente: il pensatore russo, infatti, ritiene che l’uomo debba
uscire da questo sistema di vita non per distruggere la macchina sociale, ma
per tentare di riparare, operando il bene, i disagi prodotti dalla società sui più
deboli. Michelstaedter individua nel dinamismo morale di Tolstoj una forma di
continuo divenire proteso verso l’azione benefica nei confronti dell’alterità, da
contrapporre alle forme borghesi di vita. Si può intravedere in tal modo come
la polarizzazione del rapporto uomo-mondo, impregnata da un intento morale,
sia il punto di arrivo di una ricerca sociale, intrapresa con vigore dal goriziano,
che incontra sulla propria strada d’indagine le riflessioni ibseniane e tolstojane.
L’azione di comunicazione della parola persuasa, della verità, come compito imprescindibile assegnata al persuaso, può esser colto anche nell’opera
poetica di Carlo Michelstaedter, ed in particolare, come suggerisce Marco Fortunato, nella poesia intitolata “Risveglio” e datata giugno 1910: il poeta, in tal
componimento, pone il regno della persuasione, della verità, al di là della corporeità in cui l’uomo immerso, al di là della corporeità che lo vincola e lo rende schiavo del tempo e del disio. “La mia vita”13, mia del persuaso, è proprio in
20-05-2008
17:24
Pagina 115
quella libertà da ogni legame, da ogni bisogno, ma non solo: il giuliano ricorda
che tale è anche “la vita!”14, la vita intera, ossia ammonisce l’uomo che l’impresa del persuaso non è esclusivamente solitaria, che questi non deve isolarsi
da coloro che ancora “giacciono”15 nel mondo, bensì deve fra loro essere monito, essere alba, essere un richiamo, deve risvegliare gli altri, soprattutto coloro i quali sono più restii ad incontrare la verità.
Infine, si vuole sottolineare l’inestimabile valore che ha assunto il “Fondo
Carlo Michelstaedter”, come già accennato in apertura, nel lavoro di ricostruzione filologica del pensiero del filosofo della persuasione nel corso del Novecento e del nuovo millennio.
Ufficialmente costituito il 4 marzo 1973, il Fondo Michelstaedter nasce fin
subito dopo la morte di Carlo: ad una prima fase in cui la famiglia ha svolto un
primo lavoro di raccolta e conservazione dei testi, degli appunti e di ogni materiale sviluppato dal figlio prematuramente scomparso, segue, a causa dei tragici eventi che, nel corso della prima metà del secolo scorso, investono Gorizia e profondamente la famiglia Michelstaedter16, il fervido lavoro di conservazione dei beni familiari recuperati e l’acquisizione di ogni tipo di materiale riguardante il fratello da parte della sorella Paula Michelstaedter, la quale, così,
diviene l’autrice della nascita dell’attuale “Fondo vivo”. Sarà Paula Michelstaedter che, alla sua morte, deciderà di donare tutto il prezioso materiale raccolto alla Biblioteca Civica di Gorizia. Nell’ottobre del 1974 il “Fondo Carlo Michelstaedter” viene ufficialmente presentato al pubblico e reso disponibile per il lavoro dei vari studiosi che si interesseranno alla vita e alle opere del giovane
giuliano. Attualmente, per favorire una più fruibile documentazione e conoscenza dell’opera michelstaedteriana, la Biblioteca Civica di Gorizia ha realizzato il sito www.michelstaedter.it.
Per il suo carattere analitico storico-biografico e per la ricchezza di spunti di
riflessione originali e fertili e per ulteriori importanti approfondimenti, il volume
Carlo Michelstaedter. Un’introduzione diviene un fruttuoso strumento d’avvicinamento alle opere e al pensiero del filosofo della persuasione.
1 Carlo Michelstaedter. Un’introduzione, a cura di L. Perego, E.S. Erasmo, R. Visone, Albo Versorio, Milano 2005.
2 Si ricordi, a tal proposito, il rapporto d’amicizia, fortemente intellettuale, e forse sentimentale
creatosi fra il Nostro e Nadia Baraden. Il legame con la giovane donna russa, già divorziata, che
ha dato forza alla passione di Carlo per gli autori russi, sarà drammaticamente interrotto dal suicidio della donna, evento, questo, che turberà profondamente l’animo del giovane pensatore goriziano.
3 L. PEREGO, E.S. ERASMO, La persuasione e la rettorica, op. cit., p. 41.
4 filoyuci
a/ : Brama di vivere.
5 Perego e Storace evidenziano come giusto e giustizia abbiano qui un accezione morale e
non legislativa. Vedi L. PEREGO, E.S. ERASMO, La persuasione e la rettorica, in Carlo Michelstaedter. Un’introduzione, cit., p.46.
6 C. MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, 10a ed., Adelphi, Milano 2005, p.78.
7 Ivi, p. 80.
NOTE
Segni e comprensione 65
115
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 116
Ibidem.
Ivi, p. 82.
10 Ivi, p. 84.
11 Ibidem.
12 P. LIBRANDI, L’Epistolario, in Carlo Michelstaedter. Un’introduzione, cit., p. 110.
13 C. MICHELSTAEDTER, Risveglio, in ID., Poesie, a cura di S. Campailla, 7a, Adelphi, Milano 2005,
p. 70.
14 Ibidem.
15 Ibidem.
16 Si ricordi il ruolo chiave che Gorizia riveste durante il primo conflitto mondiale e durante il
secondo conflitto mondiale, la totale deportazione della comunità ebraica di Gorizia, di cui la famiglia Michelstaedter faceva parte, e a cui scampò tra i pochi Paula Michelstaedter, grazie alla cittadinanza svizzera acquisita mediante il proprio matrimonio.
8
9
116
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 117
LA FELICITÀ IMPROROGABILE
A ritroso
Scritti in un lungo arco di tempo, i sette saggi di cui si compone il libro di
Ferruccio Andolfi Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (Diabasis, Reggio
Emilia 2004) sono felicemente armonizzati tra di loro e sviluppano in forma
ariosa e coerente un discorso di filosofia sociale le cui fila sono tratte nella conclusione, dove la riflessione di Marx, Marcuse e Arendt – gli autori che costituiscono l’oggetto del confronto – è portata a dialogare con le tematiche contemporanee della trasformazione, crisi se non fine del lavoro. L’approccio filosofico non rimane però interno alla tradizione testuale ma si fa carico di una responsabilità più ampia: un’autoriflessione dei percorsi del pensiero critico degli ultimi due secoli; un viaggio a ritroso, volto ad individuare le false svolte, gli
abbagli, i crampi mentali che sembrano aver portato in un vicolo cieco il pensiero critico e radicale della società. Ciò cui il percorso tende è quindi una diagnosi epocale delle patologie di cui soffre il pensiero critico. Ripercorrere alcuni momenti cruciali della sua storia è così un’operazione di anamnesi, attraverso la quale deve essere individuata la prima insorgenza dei sintomi e così elaborata una strategia di individuazione delle cause da rimuovere. Questa diagnosi porta a tre conclusioni generali. Dannoso è stato, nei percorsi della sinistra, innanzitutto l’abbandono dell’utopia a favore di un preteso passaggio alla
scienza; quindi l’abbandono dell’umanesimo; infine il rinvio della felicità individuale in nome di processi oggettivi e esigenze collettive. È quindi sotto la costellazione di umanesimo, utopia e felicità – come concetti che s’illuminano solo nel loro nesso reciproco – che la stessa diade di lavoro e libertà deve essere pensata, e che quindi può essere criticata anche l’articolazione che tali nozioni hanno conosciuto all’interno della storia del pensiero.
La felicità sacrificata
Si potrebbe affermare, sfidando il paradosso, che solo in apparenza il tema
del saggio di Andolfi è quello del lavoro: più in profondità è invece la questione
della felicità a muovere il testo, intesa come attenzione non rinviabile ai bisogni
effettivi degli individui e alla loro ansia di possibilità ulteriori. È questa angolatura a rendere possibile un approccio critico: poiché nell’incapacità delle teorie di
farsene carico integralmente è possibile leggere la premessa che avrebbe condotto ai fallimenti della prassi di trasformazione della società. Purché, appunto,
NOTE
di Italo Testa
117
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 118
la felicità sia intesa come qualcosa che ha insieme un momento soggettivo e un
momento oggettivo, e che non è mai comprensibile isolatamente da una delle
due prospettive: nella felicità individuale deve essere salvato il momento oggettivo, la richiesta, implicita o esplicita, di qualcosa che non si risolva nel mero appagamento di sé. Ma d’altra parte nell’oggettività della felicità, che la filosofia
classica intendeva salvaguardare, deve essere anche riscattato – contro questa tradizione, cui lo stesso Marx ha sacrificato qualcosa – il momento soggettivo, senza il quale la nozione stessa sarebbe priva di senso.
L’ideologia del lavoro
118
Il legame con la tradizione, in particolar modo della filosofia classica tedesca, ha un rilievo centrale nella diagnosi offerta. Il pensiero di Marx avrebbe assunto dall’idealismo tedesco, in particolar modo da Hegel, la centralità del lavoro per la definizione stessa dell’umano e per la sua distinzione dalla mera
animalità. Secondo Andolfi Marx, pur nella consapevolezza della storicità delle sue trasformazioni, non risolve integralmente su questo piano la funzione
antropologica del lavoro, e riesce anche a comprenderne la funzione strutturante per l’identità individuale: nello stesso tempo Marx si pone il problema del
nesso tra lavoro e libertà, cercando di ripensare il lavoro al di là delle forme del
dominio, come ambito espressivo di libertà. Per questo in Marx la liberazione
del lavoro non si risolve mai in una liberazione dal lavoro – sebbene lo stesso
Marx pensi ad un futuro in cui aumenti il tempo a disposizione per il libero sviluppo individuale. Se questi aspetti del pensiero di Marx sono valutati positivamente, si avanza però il sospetto che Marx abbia ecceduto, finendo per identificare integralmente l’uomo con il lavoratore, e così per introiettare l’ideologia
produttivista del capitalismo. La patologia non nasce quindi secondo Andolfi
dalla visione positiva del lavoro come qualcosa che dà forma all’esistenza, ma
piuttosto dalla sua assolutizzazione, dall’incapacità di vederne i limiti e di integrarlo in una visione più articolata e differenziata dell’esistenza.
L’assolutismo di Marx
È questo assolutismo del lavoro il frutto dell’eredità avvelenata di Hegel? Per
capire meglio la faccenda, bisognerebbe liberarsi dallo schema ideologico – cui
Lavoro e libertà paga un prezzo – per cui il passaggio dall’idealismo al marxismo è di per sé un progresso, in cui al massimo si può imputare a Marx di non
aver del tutto bruciato le scorie idealistiche – schema alla fin fine comune sia al
marxismo umanista che al marxismo antiumanista. Il caso del lavoro è a mio avviso illuminante in questo senso: non è stato Marx ad ereditare l’ideologia del
lavoro dall’idealismo; è stato invece il marxismo, e Marx stesso, ad assolutizzare e ad ideologizzare le riflessioni hegeliane sul lavoro. La questione non è unicamente interpretativa e storiografica ma credo vada al cuore del problema
stesso che nasce dalle trasformazioni contemporanee del lavoro.
20-05-2008
17:24
Pagina 119
Identificare l’uomo con il lavoratore, proiettare la struttura teleologica del lavoro su ogni attività, finisce per impoverire la nostra esperienza e per restringere indebitamente i confini dell’umano: voglio qui ricordare le esperienze tutt’altro che
allegre che i cosiddetti parassiti hanno conosciuto in Unione Sovietica: si pensi al
caso tragico di Mandel’stam e a quello doloroso di Brodskij, che per la sua pretesa di vivere di letteratura dovette affrontare un processo per parassitismo e quindi una condanna all’internamento in un campo di lavori forzati, seguito dall’esilio.
Limiti del lavoro
Questa ideologia non ha però a mio avviso niente a che fare con l’antropologia hegeliana. Si pensi alla sua più celebre versione, la lotta per il riconoscimento nella dialettica servo-padrone: la definizione dell’umano è qui legata non al lavoro, bensì al riconoscimento; e il lavoro è il mezzo attraverso il quale il servo
compensa la frustrazione del suo bisogno di riconoscimento. Certamente così
Hegel apprezza la funzione strutturante che il lavoro può avere per l’identità individuale: ma solo una lettura ideologica poteva vedere qui la premessa per la
sussunzione dell’umano sotto la categoria del lavoratore: tanto più che qui non
si parla affatto di lavoro nel senso stretto del termine. Per capire meglio il problema bisognerebbe allargare lo sguardo agli altri lavori di Hegel, dagli scritti giovanili sino all’Enciclopedia e ai Lineamenti di Filosofia del Diritto. Il lavoro, come intervento strumentale di trasformazione della natura, è sicuramente apprezzato
come attività di autoformazione: tuttavia il lavoro è solo uno dei medi della Bildung dello spirito, il quale si costituisce attraverso processi di riconoscimento reciproco. Il lavoro è allora una forma di riconoscimento – che nella società moderna è divenuta vieppiù importante, come Hegel apprende da Smith – ma non
esaurisce lo spirito umano. Le forme di riconoscimento private – come l’amore e
l’affetto entro la famiglia, la morale universalistica per l’individuo – e pubbliche –
come il diritto, la solidarietà sociale delle corporazioni, la solidarietà politica – sono molteplici e differenziate: diverse di esse si intrecciano con il momento del lavoro – così nella società civile – ma non sono mai ad esso riducibili.
Sfere del riconoscimento
Le sfere del riconoscimento sono molteplici e non possono essere ridotte ad
una di esse. L’assolutismo marxista è consistito a mio avviso proprio in questa riduzione. Ed è in questa luce che dobbiamo guardare alla crisi del lavoro. Giustamente Ferruccio Andolfi mette in luce come ad andare in crisi sia stata l’ideologia del lavoro, senza che ciò debba condurci all’errore contrario, cioè a negare
qualsiasi funzione positiva al lavoro e a bandirlo dall’ambito delle esperienze in
cui prende forma l’essere umano. Questa crisi del lavoro può essere vista anche
sullo sfondo dello spostamento dell’agenda politica dal paradigma della giustizia
distributiva al paradigma dell’identità: nella cultura in generale, nei movimenti politici ma anche nella filosofia politica, si è avuto negli ultimi venti anni un cambia-
NOTE
Segni e comprensione 65
119
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 120
mento d’agenda, per cui i bisogni di identità, giustizia riconoscitiva, hanno in certo modo preso il posto delle richieste di redistribuzione, se non di trasformazione del processo produttivo. L’assunzione di questa prospettiva credo possa far
emergere in una luce più viva alcuni degli aspetti più interessanti dei saggi di Lavoro e libertà. Possiamo leggere infatti il mutamento in corso anche come un effetto sia della crisi del lavoro – il fatto che è venuta meno la prospettiva del lavoro a vita per tutti – sia della crisi della sua ideologia. Tale ideologia impediva cioè
di vedere come vi siano esigenze di riconoscimento affettivo, simbolico, culturale, che non possono essere semplicemente soddisfatte attraverso il riconoscimento del lavoro, anche quando questo sia trasformato in senso più giusto ed
umano. La cecità in questa direzione è tra gli elementi che hanno condotto alla
sottovalutazione del bisogno individuale di felicità, nella cui soggettività si erano
annidati tutti quei bisogni simbolici e relazionali che l’etica sacrificale del lavoro
produttivo e rivoluzionario volentieri sacrificava.
Dark Side
120
Se dunque possiamo valutare positivamente questa crisi anche come un progresso nella percezione di sé e dei propri bisogni che gli individui del nostro tempo, e i movimenti politici che li organizzano, avvertono, resta tuttavia da indagare il lato oscuro della faccenda. Quando è che il giusto apprezzamento della differenziazione dei bisogni riconoscitivi si trasforma a sua volta in un’ideologia assolutizzante? Qualcosa del genere avviene proprio quando si finisce per trascurare del tutto la questione del lavoro, sganciando da essa i bisogni d’identità se
non auspicando o teorizzando la fine del lavoro stesso. Uno dei meriti di Lavoro
e libertà è proprio quello di farci guadagnare dall’interno i limiti del lavoro, attraverso una critica immanente della sua ideologia, tenendo però ancora una volta
fermo l’intreccio del lavoro con la prassi, l’interazione e l’agire economico. Dimenticare questa connessione, infatti, apre al rischio di fare del riconoscimento
a sua volta una ideologia, se non una semplice forma di compensazione rispetto all’insoddisfazione materiale e all’inappagamento del bisogno di giustizia economica. Il lavoro, per quanto flessibilizzato e decentralizzato, continua tuttavia a
permeare parte rilevante dell’esistenza degli individui e a mediare le loro interazioni, in tal modo plasmando le forme di riconoscimento ad essa propria sul modello di relazioni di dominio. Sicché le stesse politiche del riconoscimento non
possono trascurare il fatto che i processi lavorativi continuano ad essere il tramite attraverso il quale si riproduce una forma di riconoscimento sociale ideologico: ove cioè gli individui sono riconosciuti come soggetti produttivi nella misura
in cui riconoscono determinate relazioni di potere.
Porte girevoli
Ogni tentativo di sganciare la questione della liberazione dal lavoro da quella della liberazione del lavoro è così destinato ad arrendersi a due ideologie
20-05-2008
17:24
Pagina 121
complementari. Il nesso tra lavoro e libertà continua ad essere dialettico, ed
ogni approccio critico al problema non può mancare di partire da questa tensione dinamica dei due termini. Come si può pensare ciò che sta oltre il lavoro se non a partire dalle forme storicamente date in cui questo si articola? E
per converso come si può pretendere che ciò che sta oltre il lavoro sia veramente sottratto da ogni legame con il lavoro stesso e non ne riproduca piuttosto le relazioni di dominio, le costrizioni interne? Tenendo accesa questa consapevolezza, e mostrando il nesso che lega le attese e le delusioni della filosofia e dei movimenti politici del passato con i bisogni inappagati e le trasformazioni del presente, Lavoro e libertà mostra così come i problemi della liberazione del lavoro e della liberazione dal lavoro siano delle porte girevoli, ciascuna delle quale porta all’altra come al suo rovescio. Questo girare intorno
dell’azione e del pensiero non può essere semplicemente esorcizzato con la
proiezione fantasmatica di vie d’uscita a senso unico.
NOTE
Segni e comprensione 65
La felicità improrogabile
Così la critica dell’ideologia totalizzante del lavoro, come più volte sottolinea
Andolfi, deve portarci a valorizzare quell’altro dal lavoro che sono le forme del
godimento, del gioco, del dono. Più in generale è la cura del nesso sociale, come cura di sé e delle relazioni, ciò a partire da cui può essere guadagnata una
visione più complessa e ricca dell’esistenza, e così anche avvertita l’urgenza di
bisogni che l’interesse esclusivo per la dimensione del lavoro – e anche per la
sua trasformazione – tende a cancellare. Ma cosa è questa cura del nesso sociale se non un ascolto ed una coltivazione di quei bisogni differenziati di riconoscimento che si intrecciano in una esistenza individuale? Per questo tale ascolto non è solo una chiusura privata, ma può essere inteso come estensione della prassi politica – nel senso della politica di autorganizzazione di Gorz e dell’agire politico allargato di Beck – nella misura in cui agisce criticamente rispetto alla
pretesa di fare dell’identità legata al lavoro l’ambito esclusivo della formazione
del senso di sé rilevante in senso socio-politico. La prassi esistenziale, così come la cura di sé e del nesso sociale, possono essere a nostro avviso il vettore
che avvia nuove lotte per il riconoscimento: da un lato si lotta per il riconoscimento di identità simboliche, sociali, culturali, ingiustamente disprezzate o sottostimate nel mondo contemporaneo; dall’altro si nega riconoscimento alle forme dominanti, mirando a rompere la rete dei riconoscimenti polarizzati dall’ideologia produttivista. Questa prestazione critico-trasformativa, allora, rischia fatalmente di rimanere una vana pretesa se non sa raccordarsi a quell’altra esigenza di trasformare dall’interno l’organizzazione del lavoro, e cioè di non considerare quest’ultimo come un sistema autoreferenziale, immodificabile, bensì come un aspetto
dell’esistenza sociale che deve ancora oggi essere interrogato a partire dal bisogno improrogabile di godimento, felicità e libertà. Solo così potremo continuare
a tenere in vista la liaison tra il momento oggettivo e il momento soggettivo della felicità: quel legame imprescrittibile senza il quale ogni critica si trasforma in
lamento, fuga, o ancor peggio in un rinvio indefinito, alla fine cinico.
121
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 122
V. WELBY, Senso, significato, significatività, trad. it. e cura di S. Petrilli, Graphis,
Bari 2007, pp. 202.
A. PONZIO, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico, Meltemi,
Roma 2007, pp. 335.
122
Il mondo d’oggi si vede senza uscite perché tutto è uguale, tutto si assorbe
nell’Identico, tutto è omologato: dal cibo ai vestiti, dalle feste popolari alle vacanze. Un mondo chiuso in una comunicazione stereotipata, finta, funzionale al potere della parola dominante, affetta dalla “sindrome di Humpty Dumpty”, cioè
dalla manipolazione dei segni, verbali e non verbali, per deciderne il significato
e controllare i comportamenti. “Non esiste il Senso della parola in senso stretto, ma soltanto il senso in cui la si utilizza […]. Il Significato della parola è l’intento che si vuole trasmettere – l’intenzione dell’utente”, come avvertiva già agli
inizi del Novecento l’inglese Victoria Welby (1837-1912) in uno degli scritti ora
disponibili in italiano nel volume di Graphis (p. 90). Qual è oggi, ad esempio, il
senso di “riformismo”? Non certo quello che questa parola aveva agli inizi del
movimento operaio. Nella prospettiva della “significs”, termine coniato da Welby in alternativa a semantica e semiotica per indicare l’unione intrinseca del segno e del senso, i processi comunicativi sono visti in chiave etico-pragmatica o
“semioetica”, con grande attenzione al valore sociale delle espressioni.
La significs ruota attorno alla triade senso, significato, significatività, secondo una progressione di carattere qualitativo e non soltanto quantitativo.
Il senso corrisponde alla vita pre-razionale, ovvero al livello più primitivo
della significazione, quello della risposta organico-istintiva indifferenziata, da
parte dell’interprete-interpretante, ai segni del proprio ambiente. Esso si riferisce, dunque, a qualcosa di cui ne può avere esperienza tutto il mondo organico (vegetale e animale), ci informa sulla capacità di adattamento al mondo in
quanto sentito, percepito, ed è alla base di qualsiasi esperienza, interpretazione e comportamento; attraversa pertanto tutte le varie fasi della significazione
e della sua espressione.
Il significato, che compare solo successivamente al senso, riguarda il mondo umano, l’intenzionalità con cui si trasmette un senso specifico; esso implica deliberazione, volontarietà, ma non si può tracciare un confine ben preciso
tra senso e significato dal momento che essi interagiscono e dunque non possono essere considerati separatamente.
La significatività riguarda il valore complessivo e ideale di qualsiasi forma di comunicazione, con essa l’esperienza avanza verso i livelli più complessi dell’espressività e della semiosi, in una sintesi di senso e significato che coinvolge l’orientamento etico di ogni esperienza, attività e azione. “La Significatività – scrive Welby
– è sempre molteplice, e intensifica sia il senso sia il significato della parola in quanto ne esprime l’importanza, l’attrazione per noi, il peso, la forza emotiva, il valore
ideale, l’aspetto morale, la portata universale o per lo meno sociale” (p. 90).
La significs, pertanto, non si pone soltanto come una filosofia della significatività ma anche come una filosofia della traduzione e dell’interpretazione.
Traduzione e interpretazione si intrecciano inestricabilmente, ma soprattutto la
20-05-2008
17:24
Pagina 123
traduzione, nella prospettiva di Welby, diventa metodo conoscitivo in quanto le
stesse attività intellettuali sono un processo traduttivo, un continuo rinvio ad altro che favorisce la creazione di collegamenti e corrispondenze insospettate.
La moltiplicazione dei processi traduttivi contribuisce ad arricchire il nostro patrimonio conoscitivo attraverso l’interscambio e il potenziamento reciproco tra
segni, linguaggi e campi di esperienza diversi. La traduzione è, in altre parole,
la possibilità di interpretare il segno con un altro segno attraverso l’incontro di
interpretanti diversi, attraverso l’apertura reciproca delle differenze o delle
identità, diventando conoscenza critica e dialogica.
Oggi invece il dominio dell’identico è tale che anche ogni forma di rivendicazione è basata sull’aspirazione all’identica vita di chi detiene il potere: avere
l’identico potere per fare le stesse cose. Ciò crea un senso omologato che
esclude ogni alterità, ogni altra possibilità di vita e di mondi. L’identità vive sulla indifferenza per ciò che è diverso o differente: la stessa società è la risultante di identità (o differenze) reciprocamente indifferenti quali si manifestano nella scissione fra comportamento pubblico e privato, fra ruoli, competenze, nell’egoismo sociale. È questa socialità che grida “fuori gli extracomunitari!”.
Per Augusto Ponzio il “fuori” non è lo spostamento spaziale, il cambiamento di posto, come quello auspicato dai vari razzismi e intolleranze, ma è, al contrario, l’uscita dai luoghi comuni della comunicazione, dal mondo così come è,
dal discorso realistico della politica che ha, “come premessa, l’affermazione
che la politica non può non essere realistica e, come conclusione […] la necessità della guerra come punto di arrivo dell’argomentazione razionale” (p. 262).
L’identità è la categoria dominante della ragione occidentale, dice Ponzio, ma
oggi la sua ritrovata baldanza non si spiega in termini esclusivamente filosofici
quanto piuttosto con la realtà economico-sociale del capitalismo globalizzato e
con la fase della “comunicazione-produzione” in cui la comunicazione è parte integrante non solo dello scambio ma anche della produzione e del consumo e il
dominio è ottenuto tramite il controllo dei mezzi di comunicazione. La classe dominante quindi è la classe che possiede il controllo della comunicazione, come già
sosteneva Ferruccio Rossi-Landi agli inizi degli anni ’70 (Il linguaggio come lavoro e come mercato, Semiotica e ideologia), sviluppando alcune tematiche di Marx
e di Gramsci. Con l’espansione mondiale del capitalismo – sostiene Ponzio – “tutti i programmi della comunicazione fanno parte di un’unica globale progettazione
che, a parte gli interni conflitti e interessi, coincide con il piano di sviluppo del sistema capitalistico” (p. 236). Un’omologazione che concerne tutto l’agire sociale
e individuale: al mercato globale corrisponde una comunicazione globale che
esprime gli stessi bisogni, rivendica la stessa vita e lo stesso modo di esercitare
il potere. “Questa progettazione è l’ideologia della comunicazione-produzione. Essa è talmente realistica, talmente aderente all’essere delle cose da presentarsi,
sbandierando la lieta notizia della fine delle ideologie, più come la sua logica, che
come la sua ideologia. Può essere indicata perciò come l’ “ideologica” della comunicazione-produzione mondializzata. Anzi l’ideologia funzionale alla conservazione di questa forma sociale particolare finisce […] col far passare tale conservazione per quella della riproduzione sociale in generale” (pp. 271-272).
A ciò risponde – dice Ponzio – la Costituzione europea, perfettamente allinea-
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
123
Segni e comprensione 65
124
20-05-2008
17:24
Pagina 124
ta, peraltro, con la concezione della libertà in The National Security of the United
States of America (2002) dove si legge: “Se sei in grado di fare una cosa gli altri apprezzano, allora dovresti anche essere in grado di vendergliela. Se gli altri
sono in grado di fare una cosa che per te ha un valore, dovresti essere in grado
di comprarla. Questa è la vera libertà, la libertà per una persona o una nazione”
(cit. a p. 239). Un diritto di libertà che non si basa sul legame dell’uomo con l’uomo ma sull’isolamento dell’uomo, ripiegato sul proprio interesse privato.
Marx, sostiene Ponzio, ha pensato che l’uscita dalla scissione fra l’individuo
egoisticamente isolato e l’uomo come ente generico dovesse essere opera di un
soggetto parziale, il proletariato, interessato ad emancipare se stesso per emancipare tutti gli altri ed affermare così i diritti dell’uomo in generale. “La storia ha
mostrato la difficoltà di realizzazione di questo progetto, basato in fin dei conti su
due soggetti astratti: parziale l’uno, universale l’altro: il proletariato e l’uomo in generale” (pp. 282-283). La differenza di classe, l’internazionalismo proletario, nell’ambito dell’essere delle cose prodotte dall’ideo-logica dell’identità rafforzata dal
capitalismo, non ne potevano costituire una effettiva alterità. Se dunque le cose
storicamente sono andate diversamente dal previsto, probabilmente non è stato
solo per situazioni contingenti, come la negatività del “socialismo reale”, l’inconsistenza dell’internazionalismo proletario di fronte alle due guerre mondiali.
Ciò che mette veramente in questione un genere non è un altro genere, nel
qual caso si ha semplicemente un aggiustamento dei loro rapporti di forza o un
capovolgimento dei rapporti di potere. La questione è di alternativa, non di alternanza, rispetto ai generi: Società civile, Sessi, Etnie, Popoli, Democrazia, Libertà, Solidarietà, che è poi l’armamentario concettuale cui fa appello, in nome
della Realtà e della Storia, l’attuale forma economica e sociale. Solo l’alterità
mette in questione i generi e la stessa alternanza, che è parte costitutiva del
paradigma, dei luoghi del discorso oggi dominante.
La via d’uscita, dice Ponzio sulle tracce di Kierkegaard, Bachtin, Lévinas, sta
nel “singolo” in quanto “unico”, nel suo essere fuori luogo, fuori genere, nella sua
non appartenenza a nessun Noi. Non si tratta però di un ritorno al singolo di Max
Stirner, autarchico, indifferente, proprietario, che è già realizzato nell’attuale società; non è un rapporto con un’essenza e come tale un rapporto con un fantasma.
L’unico è fuori dal rapporto genere-individuo, l’unico è nel rapporto con l’altro, nella responsabilità senza alibi di genere verso l’altro, nel rapporto faccia a faccia,
pratico, non gnoseologistico e quindi non generalizzante. Senza il superamento
dell’allergia all’alterità la democrazia, il liberalismo – conclude Ponzio – non possono nulla contro la minaccia del razzismo e delle pulizie etniche.
Cosimo Caputo
Carlo Michelstaedter: l’essere come azione, a c. di E.S. Storace, con uno scritto di R. De Monticelli, Albo Versorio, Milano 2007, pp. 122.
Il libro Carlo Michelstaedter: l’essere come azione prende spunto da una
giornata di studio dedicata al pensiero del filosofo goriziano, svoltasi il 2 mag-
20-05-2008
17:24
Pagina 125
gio 2006 presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano.
In un confronto continuo con le pagine michelstaedteriane il nucleo tematico del
presente lavoro è «il ruotare attorno alla nozione di persuasione, in cui il Nostro
traduce la nozione parmenidea di essere (o quella schopenhaueriana di volontà, che è lo stesso) e la manipola in modo nuovo, trattandola cioè non alla stregua di un mero concetto, il che sarebbe un mero cogitare,ossia un non entia
coagitare, e quindi un non esse, bensì in senso verbale alla stregua di una vera e propria Azione, ossia di quell’attività (energheia) attraverso cui è possibile
fare esperienza diretta della persuasione stessa, nella sua duplice faccia dell’essere persuaso (arghia) e del persuadere (beneficare, dare)» (Ivi, p. 11).
Il libro si schiude con lo scritto di Marco Cerruti, Ricordi per Michelstaedter, a
testimonianza dell’attenzione posta alla ricostruzione particolareggiata del pensiero del filosofo, portando in luce i possibili contatti con quello che era stato il mondo dello stesso Michelstaedter. Infatti è riproposto il dialogo epistolare svoltosi tra
Cerruti e la sorella di Carlo, Paula. Due gli elementi di maggiore risalto che possiamo estrapolare da questi scambi epistolari: il primo un “risentimento da sorella” dovuto all’affermazione di Cerruti che usa in riferimento al comportamento di
Carlo Michelstaedter il termine “nevrosi”, ella infatti sottolinea che «non si può dire fosse stato un nevrotico», ma soltanto molto stanco del lavoro interminabile di
tesi che stava in quel periodo concludendo. L’altro è relativo all’influenza che
D’Annunzio ha avuto sulla formazione di Carlo, che a parere della sorella, non fu
determinante. Questa constatazione la si può confermare leggendo la critica dello stesso Michelstaedter, apparsa in “Il corriere friulano” all’opera Più che l’amore
di Gabriele D’Annunzio, in cui il filosofo asserisce che il dramma resta involuto, il
lavoro sfugge al D’Annunzio, “sembra che egli stesso gli abbia volto le spalle”.
Segue lo studio di Claudio La Rocca, Prima e dopo la persuasione, interpretare Michelstaedter, in cui si insiste sull’anomalia del goriziano, una anomalia da
rinvenire come particolarità costitutiva del pensiero del filosofo. La riflessione è
divisa in «due parti la prima dedicata allo sguardo genetico sul prodursi del pensiero di Michelstaedter, un’altra alle conseguenze che si possono trarre da un approccio filosofico al pensiero della Persuasione». Nella prima parte si scandaglia
il sentiero sotterraneo della formazione del Nostro, nel tentativo di focalizzare
l’idea centrale della persuasione nel pensiero di Platone e Aristotele. Dall’analisi
è ricostruita l’indagine che Michelstaedter ha condotto sul linguaggio, investendo da un lato i fondamenti della scienza così come si manifestano in Platone e
in Aristotele, e dall’altro il carattere e il destino della parola nell’epoca dello sviluppo tecnologico-scientifico. Questa sorta di decostruzione dell’universo epistemologico e conoscitivo, prima che formale, costituisce il background di La persuasione e la rettorica. Se il linguaggio usato da Platone e da Aristotele propende per una struttura categoriale atta a definire il mondo secondo un ordine classificatorio e distintivo, la parola socratica è riportata alla sua valenza di sintesi semantica fra il soggetto del conoscere e l’oggetto della conoscenza.
(Questo complesso di argomentazioni è rinvenibile nell’analisi degli Appunti di filosofia di Carlo Michelstaedter, da me trascritti e commentati – D. De Leo,
Michelstaedter filosofo del “frammento”, per l’edizioni Milella, Lecce 2004 – in
cui è ricostruita l’indagine che il Nostro ha condotto sul linguaggio, investendo
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
125
Segni e comprensione 65
126
20-05-2008
17:24
Pagina 126
da un lato i fondamenti della scienza così come si manifestano in Platone e in
Aristotele, e dall’altro il carattere e il destino della parola nell’epoca dello sviluppo tecnologico-scientifico. Siamo di fronte ad una svolta radicale in cui alla
ricerca di un universo formale, contraddistinto dall’armonia, dalla grazia, dalla
conformità alle regole, si sostituisce quella di un universo in cui è dominante
invece il valore della ricerca di esperienze nuove, sia sul piano filosofico che
su quello della formalità e dei valori linguistici e stilistici).
Michelstaedter afferma, come incisivamente sostiene La Rocca, che la parola in Platone e Aristotele parla a proposito delle cose, la parola socratica dà le
cose, in quanto persegue come scopo la persuasione nella vita: «la parola che
convince è la parola irriducibilmente “in situazione”, che manifesta non un mondo ma quel mondo, non il mondo di chiunque ma un mondo pienamente proprio,
“posseduto” come tale. Il discorso che persuade non può essere quello che mostra delle verità da contemplare, indifferenti, ma quello che parla alle più profonde corde della vita del singolo» (Ivi, p. 21). Solo il linguaggio decostruito dai suoi
stereotipi diviene, dunque, svelamento della causa prima e delle essenze che
compongono l’ordine delle cose, giungendo, così, ad una filosofia come riflessione generale sull’essere, che si configura come una filosofia del linguaggio. «Michelstaedter riscopre così che le esperienze più alte del linguaggio […] sono
quelle in cui il senso costitutivamente non è catturato nelle parole, ma è esposto
per così dire al decadere: come notava Heidegger in Sein und Zeit, “basta dire
e ridire perché si determini il capovolgimento dell’apertura in chiusura”» (Ivi, p.
23). Heidegger suggestivamente sancisce questi fatti osservando che non è l’uomo a parlare il linguaggio, ma il linguaggio a parlare l’uomo. È proprio nel linguaggio, come linguaggio, che l’essere si apre, accade temporalmente.
Puntualmente La Rocca rinviene, nell’ermeneutica di Michelstaedter, l’importanza di riscontrare nel dialogo una forma di esperienza del linguaggio non
subordinata alla fissità di una “teoria”, e ad una presunta autonomia dei sensi
ideali che nel linguaggio, identici a se stessi, verrebbero a manifestarsi, ma la
ricerca di senso deve essere svolta “in prima persona”. Assumendo come punto di partenza questa indagine riflessiva alle radici della parola e della sua forza vitale, e insieme verso le origini dell’esperienza del linguaggio della metafisica occidentale in Platone e Aristotele, La Rocca indica il nucleo problematico in cui molti motivi si intrecciano, l’“anomalia” profonda del pensiero di Michelstaedter, più significativa del suo relativo “isolamento” storico-culturale.
«Ogni interpretazione filosofica di Michelstaedter deve dunque tener conto della peculiarità non peregrina del discorso circa la Persuasine, che nella sua incompletezza e irripetibilità chiede di riprenderne il problema» (Ivi, p. 28).
Il successivo saggio di Marco Fortunato, Totalità e miseria, ipotesi per una
definizione di “persuasione” sceglie come suolo argomentativo la differenza tra
la pars destruens e la pars construens del pensiero del goriziano. È qui condotta una attenta analisi comparativa tra il pensiero del Nostro con Schopenhauer e Leopardi sulla “nullità dell’esistenza”, soffermandosi su quelle che sono le parole-idee che occupano un posto di primaria importanza nella riflessione michelstaedteriana: l’impermanenza e il vuoto.
«In ultima analisi, il grande e tremendo termine che dice impermanenza e ma-
20-05-2008
17:24
Pagina 127
ledizione del suo influsso su qualsiasi abitatore della terrestrità è, anche in Michelstaedter, “tempo”; e non c’è forse luogo dei suoi scritti in cui esso e la sua opera
di quasi-annichilente svuotamento siano “in scena” più imperiosamente e siano
descritti con più precisione che nel punto di La persuasione e la rettorica in cui è
detto che il tempo allontana di continuo l’essere all’individuo rinviandoglielo sempre al momento successivo» (Ivi, p. 37). Questa analisi michelstaedteriana, come
acutamente sottolinea Fortunato, si pone in linea di continuità con Schopenhauer,
che definisce il tempo come ciò a causa del quale ogni cosa si converte in nulla
fra le mani dell’uomo, e soprattutto riprende le analisi leopardiane secondo le quali la condizione dell’uomo è, ad ogni istante, quella di dover registrare che non sta
sentendo piacere e al contempo tentare di riconfortarsi e di consolarsi dell’amarezza del mancato conseguimento della soddisfazione riproponendosi di ottenere
la soddisfazione nell’attimo successivo. Ed è quello che Michelstaedter teorizza
nel momento in cui chiede all’uomo di non cadere nel cerchio dell’illusione rettorica, ma partendo dal proprio io, dal deserto della solitudine andare verso il progetto futuro di sé. Un’ulteriore aggiunta teoretica alla concezione del tempo in Michelstaedter è compiuta nel saggio di Marco Fortunato, che riporta la nostra attenzione sull’istante, cioè sul «momento del tempo e nel tempo che “parla” contro il tempo perché in qualche modo lo blocca/ne determina l’arresto» (Ivi, p. 49).
Nello scritto Totalità e miseria il nodo cruciale nel quale è intrecciato il paradigma riflessivo dell’opera michelstaedteriana è nella dialettica tra antignosologismo e ontologismo: «antignoseologismo e ontologismo di Michelstaedter, strettamente congiunti, rifulgono in modo paradigmatico nella critica, che è
praticamente uno smontaggio, da lui rivolta alla sentenza insieme più ambiziosa e più influente che l’impresa teoretica dell’Occidente abbia mai prodotto,
quel suo aurgumentum-monumentum, quella roboante “parola-d’ordine” con
cui essa arriva a sancire che è il pensare-conoscere a fondare l’essere e non
viceversa: il cartesiano cogito, ergo sum» (Ivi, p. 45). Ed è in questo chiasma
sintetizzata la filosofia michelstaedteriana: «conoscere-pensare-edificare sistemi filosofici: fluttuare nel regno spettrale e funerario delle ombre, nel massimo distanziamento dal piano di ciò che unicamente conta e cui ci si deve assolutamente ricongiungere, cioè dall’essere» (Ivi, p. 45).
Essere uguale a persuadere, secondo la corrispondenza attuata da Michelstaedter con il pensiero parmenideo. A tal proposito sarebbe funzionale al discorso il lavoro di trascrizione e commento da me condotto nel testo D. DE LEO,
Mistero e persuasione in Carlo Michelstaedter. Passando da Parmenide ed
Eraclito, Ed. Milella, Lecce 2001.
Nel saggio di Erasmo Silvio Storace, L’ontologia morale di Carlo Michelstaedter: l’echontologia, il nucleo argomentativo è costituito dalla riflessione, non solo
della dimensione della persuasione, ma soprattutto dall’agire del persuaso: «una
volta persuaso, l’individuo deve però Persuadere, ossia abbandonare la quiete
per tornare nel mondo della Volontà, abitandolo però non più secondo la modalità del volere, negando così l’Avere che viene sostituito dal suo contrario, il Dare.
Tutto ruota intorno al concetto di Avere che è il vero nome dell’Essere e quindi il
vero protagonista del pensiero della Persuasione: negando l’Avere illusorio, che
è un essere-avuto, si passa all’Avere in senso proprio, che deve essere superato
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
127
Segni e comprensione 65
128
20-05-2008
17:24
Pagina 128
nel suo contrario, il Dare» (Ivi, p. 63). Secondo questo declivio teorico nella filosofia michelstaedteriana si dovrebbe parlare non di ontologia, ma piuttosto di una
“echontologia”, ovvero di una “fenomenologia del concetto di Avere”.
In La deviazione della “persuasione” dalla Noluntas di Roberta Visone sono
strutturate le analogie e le differenze tra La persuasione e la rettorica e Il mondo
come volontà e rappresentazione. La filosofia di Schopenhauer è presente in particolar modo in Michelstaedter nel richiamo esplicito di certa sua terminologia, soprattutto nella prima parte di La persuasione e la rettorica e, in forma sparsa, negli Scritti vari e nell’Epistolario. Anche se è da sottolineare che la negazione michelstaedteriana del mondo, che attraversa tutta l’architettura del reale, dal soggetto all’oggetto, alle strutture che li relazionano, non ha un esito tale da far sì che
l’unico che emerga sia il nulla della sua negazione – la noluntas schopenhaueriana –, ma si costituisce, pur attraverso il suo carattere negativo, come un’autentica attività di rivolta. La filosofia michelstaedteriana si configura come la potenza
dl negativo, proiettata verso il riconoscimento della nullità delle cose. E la veridicità di essa è implicita nella sua negatività: è vera solo in quanto è negativa.
Nell’ambito di La persuasione e la rettorica si assiste proprio a questa dialettica del negativo, al riscatto del procedere negativo per poter ripercorrere la
ricerca filosofica, sintetizzata nell’esempio storico della “triste istoria”. In questo saggio di Roberta Visone l’ipotesi sostenuta è che «la messa tra parentesi
di Schopenhauer nell’opera michelstaedteriana avviene nel momento in cui la
nozione di persuasione entra in diretto conflitto con quella di Noluntas […] La
persuasione, prende corpo, non già come argia, cosa che il confronto con la
Noluntas può indurre a pensare, ma invece, come il tonos che conduce all’argia. E questo tonos, è l’ienergeia. La persuasione viene definita, infatti come
l’infinita attività nei confronti della Giustizia» (Ivi, pp. 80-81).
Nella parte finale del libro Antonella Gallarotti, che si occupa del “Fondo
Carlo Michelstaedter” di Gorizia, elenca alcune tra le tesi di laurea e di dottorato su Carlo Michelstaedter. Questo studio risulta essere un contributo alla
storia della «fortuna di Michelstaedter in ambito accademico e alla valorizzazione di un settore del “Fondo Carlo Michelstaedter” che la Biblioteca di Gorizia cura con particolare attenzione» (Ivi, p. 93).
Conclude il libro, il saggio di Roberta De Monticelli Ricordo di una giovinezza. Il sogno della Persuasione, o del delirio di autenticità, costituisce la prima
parte di un testo più ampio, ideato per una serata “quasi teatrale”, uno degli incontri de “La voce scritta” tenuti nella primavera del 2002. Il tema è il sogno come “realtà”, questa scelta configura l’inizio di una ricerca ancora in fieri, che comunque è proceduta molto oltre questo stesso testo iniziale, e di cui sembra
almeno individuata la direzione: dal Sogno della Persuasione all’Umiltà, che è
il consentire alla realtà.
Il libro, dunque, fornisce nella sua varietà di approcci una complessa, approfondita e ben articolata discussione sul pensiero di Carlo Michelstaedter, aprendo uno spiraglio dal quale osservare il mondo michelstaedteriano, alla ricerca di
quella attività per la quale il Nostro aveva investito tutta la propria vita.
Daniela De Leo
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 129
Il testo ha inizio con il prendere in esame la critica heideggeriana al concetto di evidenza che in Husserl, richiamandosi alla metafisica cartesiana, riproporrebbe secondo Heidegger la “metafisica della presenza”. La nozione di evidenza non sarebbe infatti provata a sufficienza ma assunta come tale, come
cioè un principio dogmatico e di natura metafisica. Il problema principale di
un’analisi fenomenologica diviene dunque quello di chiarire il concetto di “presenza” di ciò che si dà in evidenza e, pertanto, di “datità”, evitando una sua assunzione indebita e, soprattutto, avendo la coscienza che la questione dell’evidenza lascia aperte una serie di problematiche, per cui l’ideale della piena evidenza non potrà mai essere definitivamente raggiunto.
Una volta premesso, dunque, che il tema della manifestatività non implica
che in Husserl vi sia mai il raggiungimento di una assolutezza del sapere e,
quindi, della sua trattazione definitiva ed esaustiva ma che, piuttosto, si abbia
sempre a che fare con un “nuovo inizio”, obiettivo del primo capitolo è trattare
la tematica della soggettività in relazione alla coscienza e alla psiche. In primo
luogo, viene chiarito il concetto di soggettività trascendentale e la concezione
ad esso correlata di realtà. A differenza dell’idealismo assoluto, la fenomenologia trascendentale non ritiene che l’oggetto esista solo «in quanto vi è una
coscienza che ne ha notizia» (p. 26). Piuttosto significa che noi poniamo un in
sé dell’oggetto e che diamo ad esso una posizione di realtà, da cui esso si ritiene esistente (per noi) prima della nostra percezione. Siamo cioè noi ad attribuire questa esistenza precedente all’oggetto in relazione al legame intenzionale tra noi e l’oggetto. L’esistenza del mondo e, dunque, l’esperienza del mondo stesso, è così strettamente connessa alla nostra vita intenzionale. Ma di
più, poiché l’esistenza oggettiva del mondo non può dipendere da un solo soggetto, la costituzione di un mondo oggettivo dipende dalla costituzione dell’intersoggettività. Infatti, osserva Costa, rifacendosi alla quinta delle Meditazioni
cartesiane, «a partire dalla nostra esperienza solipsistica, noi non potremmo
mai giungere a parlare di una mondo esistente in sé» (p. 33). Questo implica
dunque che non bisogna interpretare la fenomenologia in senso psicologistico,
come se la psiche fosse il luogo in cui si costituisce ogni realtà. Ma occorre
piuttosto distinguere la coscienza dalla psiche e riproporre il problema della realtà e della soggettività da un punto di vista trascendentale, alla luce cioè del
legame intenzionale che connette la coscienza al mondo.
Il problema dell’evidenza e del luogo in cui l’evidenza si manifesta, nella soggettività, rimanda quindi a quello che la tradizione brentaniana chiama la percezione interna. Quest’ultima infatti è ciò che possiamo dire assolutamente indubitabile, ossia quanto Cartesio definiva essere la natura del cogito. Oggetto del secondo capitolo è dunque questa realtà, quella della percezione interna, che si
connette all’evidenza. È la mia percezione di un oggetto «e solo la percezione, ad
essere evidente» (p. 48), laddove i sensi sia per Brentano come per Cartesio, ci
ingannano e non ci dicono come sono realmente le cose. La sensazione in effetti ci inganna perché ci dà dell’oggetto un’immagine distorta ed incompleta, men-
RECENSIONI
V. COSTA, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose, Soveria Mannelli,
Rubbettino 2007.
129
Segni e comprensione 65
130
20-05-2008
17:24
Pagina 130
tre soltanto nel pensiero è possibile comprendere la natura degli oggetti. Ma le cose stanno in maniera completamente differente in Husserl. A suo avviso infatti,
scrive Costa, «l’oggetto è ciò che, attraverso le sensazioni, si mostra alla coscienza, e non ciò che sta dietro o al di là delle sensazioni» (p. 55).
Questa conclusione permette il passaggio ad un’altra questione, trattata nel
terzo capitolo, vale a dire, il problema della percezione esterna nelle Ricerche logiche di Husserl. Mentre la percezione interna si caratterizza in evidenza per immediatezza e adeguazione, e qui il dubbio non è possibile proprio per l’evidenza
in cui si offre il dato «senza mediazioni e in piena adeguazione» (p. 62), per la percezione esterna la stessa evidenza non è possibile, per il fatto che in quest’ultima
le cose non sono date immediatamente. Tuttavia proprio perché la percezione
esterna ha come risultato il fornire materiale come vissuto della coscienza, essa
manifesta una evidenza possibile che consiste nella sua piena adeguazione. E
questo si pone in contrapposizione con quanto sosteneva Brentano, per il quale
invece soltanto gli atti manifestano un’evidenza. Nella percezione interna rientrano dunque anche le manifestazioni che vengono vissute mediante la percezione
esterna. Per tale ragione in quest’ultima è possibile distinguere un contenuto effettivo e un contenuto intenzionale, ossia il grado di manifestabilità e la ricezione
di tale manifestazione. Ma questa manifestazione non risulta essere nelle Ricerche qualcosa di dato in evidenza, bensì evidente è solo ciò che è immediato e
adeguato. Tuttavia questa sua immediatezza, rileva Costa, conduce Husserl (almeno nella prima edizione delle Ricerche) a contraddizioni decisamente insuperabili. Il problema fondamentale di tale impostazione, si osserva, risiede nel fatto
che «la nozione di evidenza si sostiene qui su un’immagine puntuale della temporalità» (p. 71). Ma questo comporta che la coscienza come tale (come coscienza che vive) non potrebbe di fatto esistere nella sua funzione essenziale.
In connessione al tema della manifestatività il quarto capitolo approfondisce
la questione della sensazione e della datità, ossia di come si dà il mondo reale.
La domanda che subito si pone concerne il fatto che la sensazione, secondo certe interpretazioni, possa essere la stessa realtà, come a dire che ciò che noi
“sentiamo” della realtà sia un nostro evento cerebrale, ossia «le cose che appaiono sono in qualche modo del tutto illusorie» (p. 78). La prospettiva idealistica
che muove dal fatto che il reale sia una nostra costruzione, ritiene pertanto essenziale il tema della sensazione, proprio perché mediante la sensazione si rende possibile la costituzione della realtà. E, al tema della sensazione, dedica le
sue analisi un allievo di Husserl, H. Hofmann del quale qui vengono prese in esame le Ricerche sul concetto di sensazione. Tendendo in considerazione il fatto
che lo stesso Hofmann ammette di essere stato influenzato dalle lezioni del Maestro che, in quegli anni, approdavano alla inclusione dell’oggetto trascendente e,
dunque, alla “svolta trascendentale” di Idee, Costa esamina i contributi di questa
filosofia che, a suo avviso, può essere denominata una “filosofia della psicologia”, perché si cerca di determinare il significato di “mente” e, quindi, dar luogo
ad un’analisi del sentire da un punto di vista fisiologico (in relazione agli impulsi
nervosi e alle modificazioni chimiche) e psicologico (in relazione a ciò che “appare”: sensazioni e percezioni). Riguardo al concetto di mente, riallacciandosi al
concetto fenomenologico di intenzionalità, Hofmann ritiene che avere una men-
20-05-2008
17:24
Pagina 131
te significhi avere «una direzione verso qualcosa» (p. 85). In questo ordine di
idee, egli è critico nei confronti della “sensazione pura” (propone della sensazione, piuttosto, un’analisi dal punto di vista della psicologia genetica) e di tutti i concetti affini ad essa come, ad es., la concezione di “sensazione primitiva” di Hillebrand e quella di “sensazione semplice” elaborata da Wundt. Ma la differenza sostanziale con Husserl a tale riguardo viene posta nel rapporto tra sensazione e
percezione le quali, in Husserl, sono distinte, pur sempre all’interno dell’immanenza, come due differenti atteggiamenti della coscienza: «Uno rivolto verso ciò
che si manifesta e l’altro verso il suo modo soggettivo di datità» (96), laddove, si
osserva, «in Hofmann, vi la tendenza a confondere sistematicamente il sentito e
percepito, l’oggetto percepito con ciò che di esso viene sentito» (p. 97). Tuttavia,
si osserva, nella sua filosofia della sensazione Hofmann ritiene che la cosa visiva abbia la capacità di “rimandare oltre se stessa” e, pertanto, di “trascendersi”,
e questo porta le sue indagini, come in Husserl, a considerare fenomeno «sia la
cosa visiva che la manifestazione della cosa visiva» (105). Ora l’inclusione degli
elementi sensibili nell’ambito della psicologia descrittiva, lo allontana dalla distinzione brentaniana tra fenomeni psichici e fisici e prepara il cammino all’ulteriore
sviluppo trascendentale della fenomenologia, operato da Husserl.
Obiettivo del quinto capitolo è quello di delineare sulla scorta delle precedenti analisi e in reazione al contributo sull’analisi della sensazione offerto da Hofmann, come venga a strutturarsi progressivamente il concetto di manifestatività
in Husserl. Se in Ricerche logiche era ancora preminente la riduzione sensistica,
l’impianto generale della fenomenologia cambia decisamente quando al suo interno fa il suo ingresso la riduzione trascendentale. Ora quest’ultima, come spiega lo stesso Husserl ha come scopo proprio quello di mettere in luce il mondo o,
meglio, «l’intreccio intenzionale» da cui ha luogo ogni esperienza (p. 109). In
questo senso, l’inclusione dell’oggetto intenzionale nella sua trascendenza, rispetto all’atto che lo coglie, porta a considerare evidente anche l’oggetto intenzionale (come anticipato da Hofmann), contro alla visione brentaniana. Questo
modifica radicalmente la nozione di evidenza, dato che «trasforma la datità in un
modo di apparizione» (p. 110). Da ciò deriva la differenza fondamentale con
Brentano: la manifestazione di un oggetto non è qualcosa che avviene all’interno della coscienza, ma in relazione all’oggetto. L’evidenza pertanto non è un
qualcosa che “sta dentro” la coscienza (come riteneva la tradizione empirista),
bensì l’oggetto di manifestazione. E questo implica che, a prescindere dall’esistenza dell’oggetto (esistenza e “presenza in carne ed ossa” sono distinte), il dato fondamentale su cui occorre focalizzare l’attenzione è l’oggetto intenzionale,
la credenza e la percezione che io ho dell’oggetto, che si presenta come l’autentica evidenza (l’oggetto che si manifesta, la sua datità, si osserva “è un senso”).
In questo ordine di idee si inscrive la tematica “trascendentale”, oggetto del
sesto capitolo, dove si inizia subito con il rilevare il tentativo di superamento
del dualismo cartesiano rispetto a Ricerche. Ciò che cerca la fenomenologia
in questa nuova fase facente capo a Idee I, è infatti un “apparire originario”
che, si rileva, «accade prima della diffrazione in coscienza e mondo» (p. 133)
e che, dunque, non è uno stato interno ma qualcosa che si dà nella manifestazione mediante i decorsi percettivi che portano a datità l’oggetto e l’oriz-
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
131
Segni e comprensione 65
132
20-05-2008
17:24
Pagina 132
zonte in cui si delinea. Occorre pertanto porre l’attenzione anche sulle predelineazioni di senso implicite nel vissuto attuale che contribuiscono in maniera
essenziale alla manifestazione dell’oggetto. Ma questo implica anche che, se
il vissuto della cosa è costituito temporalmente mediante adombramenti e predelineazioni di senso, non possa esservi un’evidenza “piena”, totale ed esaustiva dell’oggetto. E questo porta a superare la visione idealistica che pretendeva un’identità tra pensiero e essere. La costituzione del mondo, da parte
della soggettività trascendentale, non significa infatti “strutturazione” del mondo, ma connessione del soggetto con il mondo che si rivela alla soggettività
nel legame intenzionale. Questa manifestatività, si nota, non si dà a prescindere dal soggetto ma si rende possibile proprio nella facoltà della ragione del
giudizio che è «la condizione di manifestatività dell’ente» (p. 143). Tuttavia
non è l’atto a conferire senso alla cosa, bensì il senso, delineandosi di per sé
a partire dalle sintesi passive (“intenzionalità fungente”), viene semplicemente esplicitato (nella “intenzionalità d’atto”). Vi è, cioè, una struttura pre-egologica che rende possibile la costituzione soggettiva della realtà mondana e che
precede l’attività costitutiva stessa da parte del cogito.
Per tali ragioni, si afferma nel settimo capitolo, non bisogna pensare ad una
soggettività che conferisce senso dando alle cose le sue forme. Piuttosto «il
senso appare al soggetto, ma non è prodotto dal soggetto» (p. 154). Per questa ragione, occorre pensare alla fenomenologia come fondata essenzialmente
sul legame intenzionale tra la soggettività e il mondo, tanto che mediante essa
è possibile lasciare che appaia il reale nella sua interezza (sempre secondo le
modalità della coscienza a cui appare). Ma qual è allora il nesso tra il “senso oggettuale” e l’oggetto reale? Il fatto che vi sia la realtà ci risulta in conseguenza
a dei decorsi percettivi. Dall’esperienza, cioè, deriva che qualcosa continua ad
esistere indipendentemente dal fatto che sia sotto osservazione. E questo fatto, che la realtà esista “in sé”, afferma Costa, significa che l’idealismo trascendentale ben lungi dall’essere opposto al realismo, si configura piuttosto come
una sorta di «realismo non dogmatico» (p. 155). L’oggetto reale è quindi differente dal noema, quello continua ad esistere indipendentemente dal mio sguardo (e questo tuttavia è dimostrato dai decorsi fenomenici, nella dimensione temporale), laddove la sua modalità di apparizione dipende dalla coscienza (dal legame intenzionale che sta a fondamento dell’intero processo). In questo senso
la cosa reale è vista come “polo teleologico”, poiché i decorsi percettivi tendono a “riempire” il noema approssimandosi sempre di più all’oggetto reale.
Torna così la questione della manifestatività, inquadrata, nell’ultimo capitolo,
dal punto di vista degli aspetti della verità e della storia. Da quanto detto cade,
innanzitutto, la prospettiva della teoria rappresentazionalistica della percezione:
«L’ellisse sentita non è un’immagine del cerchio, ma il cerchio stesso visto da
una prospettiva» (p. 163). Ora, per comprendere il perché vi siano significati occorre aggiungere che il noema a cui si era pervenuti è guidato dal significato,
da “condizioni” che rendono possibile la manifestatività dell’oggetto intenzionato. E tali condizioni sono rappresentate, secondo Husserl, dal contesto di un
mondo storico, orizzonte di senso e «condizione trascendentale dell’apparire
delle cose» (p. 166). Il mondo percettivo rappresenta quindi il riferimento che re-
20-05-2008
17:24
Pagina 133
siste ai significati, da cui si genera la differenza tra sapere e verità, tra come intendiamo le cose e le cose stesse da noi indicate. Al telos della verità, preso come ideale regolativo, segue così un sapere che tende sempre ad accrescersi e
a progredire approssimandosi sempre di più alla verità. Tuttavia, ci si chiede,
come si origina questo sapere? Già nel pensiero mitico la conoscenza nasce
dalla meraviglia. Per Husserl, in particolare, lo stupore è un fatto della ragione:
dalla meraviglia di fronte alle cose nasce l’apparire del vero essere, dell’ordine,
ossia un’apertura alla verità. Lo stupore «deriva dunque dall’esperienza di una
sproporzione tra il finito e l’infinito» (p. 187), tra la finitezza dei mondi circostanti e la infinitezza della verità, come telos di ogni indagine filosofica. E tale verità
infinita e irraggiungibile segna il limite al sapere tanto che, si conclude, lo stupore diviene «un rispondere che si fa domanda» (p. 188).
Il testo molto ben articolato tra tutte le fondamentali questioni della fenomenologia husserliana, segue un percorso molto coerente e originale (il tema della manifestatività in relazione anche alla storia e alla verità) e, allo stesso tempo, metodologico e molto opportunamente documentato. Gli interessanti ripensamenti intorno all’interpretazione idealistica della fenomenologia trascendentale e la rilettura decisiva dell’ultima fase dell’attività produttiva di Husserl, lo rendono un testo di
fondamentale importanza per comprendere Husserl alla luce delle sue più recenti interpretazioni e da un’ottica affascinante e stimolante sotto ogni profilo.
Nicoletta Ghigi
L’uomo e la parola. Pensiero dialogico e filosofia contemporanea, a cura di M.
Spano e D. Vinci, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2007, pp. 158.
Il volume presenta la raccolta degli atti di un Convegno tenutosi a Cagliari
il 17 maggio 2006 presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, che
ha avuto come tema centrale di riflessione e dibattito il nesso tra l’uomo e la
parola attraverso il confronto tra il “pensiero dialogico” ed alcune prospettive filosofiche contemporanee.
La nostra epoca, forse più di ogni altra, ha posto in essere il rapporto tra
l’uomo e la parola nella molteplicità irriducibile dei suoi percorsi, in una ricca e
continua variazione sul tema: basti pensare alla filosofia del linguaggio, all’ermeneutica, alle riflessioni sulla “parola poetica” e sulla “retorica della parola”,
ma soprattutto al passaggio dall’ontologia della parola alla riscoperta del suo
valore simbolico ed iconico.
Emilio Baccarini, docente di Antropologia filosofica presso la Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma, affronta il tema della
ragione dialogica come nuova modalità di pensiero. L’essere umano è “un
pensante che parla”, cioè un soggetto razionale che attraverso la parola esprime il pensiero, ma allo stesso tempo è “un parlante che pensa”, che articola
il suo pensiero in un linguaggio interiore. Tenere uniti i due momenti, pensiero e linguaggio, rappresenta la via maestra per cogliere la ragione umana come dia-logicamente determinante; è attraverso questa strada che è possibile
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
133
Segni e comprensione 65
134
20-05-2008
17:24
Pagina 134
superare la crisi della ragione che ha segnato il pensiero del Novecento e che
si è tradotta in crisi dell’umano, per poter così ritrovare un’altra dicibilità dell’umano, percorrendo nuovi sentieri che non sono “sentieri interrotti” – come
affermava Heidegger – bensì nuovi percorsi che vanno dalla ragione pura al
“pensiero parlante”. Il parlante non abita solo lo spazio simbolico di una cultura, ma anche lo spazio e il tempo reale in cui diviene inter-locutore. Se parlare è un verbo relazionale, dialogare significa allora raggiungere un’intesa
accomunante, all’interno di un discorso coerente: il dialogo è un incontro, la
peculiare modalità personale di porsi di fronte all’altro, che richiede attesa ed
allo stesso tempo attenzione. Nella dimensione comunicativa del domandare,
dell’interrogare, viene pertanto a manifestarsi il limite della ragione come possibilità di determinazione solitaria e totale: interrogazione è richiesta di senso
fuori di me ed oltre me. La ragione dialogica, pertanto, è quella che meglio
esprime la struttura complessa della ragione umana che, consapevole della
propria finitezza, è originariamente interrogativa. Il momento dell’ascolto, del
silenzio, rappresenta l’imprescindibile situazione iniziale che permette alla parola di divenire parola di verità, sempre rivelativa e apertura di orizzonti di senso che trascendono la mera informazione o comunicazione. Nella ragione dialogica – conclude Baccarini – si manifesta una logica della gratuità, come fedeltà alla verità, in una doppia direzione: attenzione alla verità ed attenzione
pre-occupata all’altro.
Silvano Zucal, docente di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia dell’Università di Trento, pone a confronto, nella sua riflessione, due
filosofie dialogiche del Novecento: quella di Max Picard e quella di Ferdinand
Ebner. Entrambe sono caratterizzate dalla centralità del tema della parola, per
il primo attinta a partire dal fenomeno vitale del silenzio, per il secondo in chiave radicalmente cristologica. L’uomo soltanto, sia per Picard che per Ebner,
ha la parola come “fatto” originario ed originante, e l’uomo stesso, come animale razionale, ha a che fare con la parola viva e dialogica grazie alla ragione, che è facoltà direzionata alla parola, cui va incontro e si apre, sempre disponibile e recettiva. Ciò che avvenne nel dialogo originario con Dio si replica nella relazione io-tu interumana, dove rimane, se autentica, un’eco di quella prima relazione, consegnata alla singolare esperienza del silenzio. Entrambi i filosofi – secondo Zucal – colgono nella parola che esiste come spirito mitezza, dia-logicità, fame d’incontro, relazione ed apertura all’Altro, al Tu divino e al tu umano: essa soltanto è il ponte che supera l’abisso della solitudine
negativa e della patologia solipsistica. Il silenzio dona alla parola candore, trasparenza e levità: la parola, così, non è condannata al mutismo, perché è l’illuminazione del silenzio che le dona luce. Parola e Amore sono insieme il veicolo, oggettivo e soggettivo, del movimento dell’Io verso il Tu. Un amore non
detto, senza parola, è inesistente. Così il contenuto autentico della vita spirituale dell’uomo è il legame strettissimo tra parola e amore, in cui sta la “relazione giusta” nata da una “parola giusta”, saldata nell’amore ed inverata dall’amore. Parola d’amore, dunque, come dono originario divino del quale
l’evento cristologico costituisce la conferma: Cristo come grande maestro della parola, della riconciliazione tra parola e verità.
20-05-2008
17:24
Pagina 135
Di Pierluigi Plata, dottorando in Teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, è l’interessante riflessione sulla dimensione dialogica dell’uomo nelle fonti e negli scritti minori di Franz Rosenzweig. La parola, rivolta
all’uomo e pronunciata da esso come “risposta a”, viene ad essere parte costitutiva del suo essere stesso. L’uomo, attraverso il linguaggio, diviene un essere capace di elevarsi al di sopra della sua natura, poiché parlare significa produrre il riferimento all’altro ed all’intera comunità linguistica. La referenzialità
reciproca tra il parlare e lo scrivere ha il suo punto d’unione nel tradurre, come
testimonianza della vitalità della parola.
Il tradursi della parola è oggetto della riflessione di Massimo Giuliani, docente di Studi Ebraici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Trento, che tratta in maniera specifica del “tradimento della parola” in Lévinas,
il quale non è altro che la parola nel suo tradire, nel suo tradursi e denunciarsi come irrinunciabile organo-ostacolo per ciò che essa designa e serve. Il riconoscimento di tale tradimento è la condizione di possibilità della trascendenza, è il luogo in cui sta e vive “l’altrimenti detto”, l’intraducibile ed indicibile e
non-accessibile al linguaggio, che rappresenta l’orizzonte in cui e per cui il linguaggio stesso ha senso.
Pierpaolo Ciccarelli, ricercatore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Cagliari, affronta la posizione di Heidegger relativa alla parola “essere” ed al problema dell’essenza dell’uomo. “Essere uomo significa
essere un dicente” (Introduzione alla metafisica, 1953): questa – secondo
l’autore – è la svolta, che riguarda il ruolo ontologico fondamentale attribuito
da Heidegger all’uomo. Ciò che viene meno con la svolta è l’assegnazione
all’uomo di quel primato che ne fa il fondamento ontico dell’ontologia. Se in
Essere e Tempo l’uomo era origine del senso dell’essere, dopo la svolta l’uomo è schema dell’aporia dell’essere, non è più origine ontica del senso dell’essere, bensì è indicato come un senso dell’essere, un senso storico dell’essere. La parola “essere” è pertanto una parola vuota, evanescente, ma
per quanto indeterminata, ha una sua indubbia determinatezza. La riflessione sulla parola “essere” delinea la condizione formale di qualsiasi domanda
sull’ente in quanto tale come una condizione radicalmente ambigua, da cui
Heidegger muove per definire l’uomo come il dicente, nel cui linguaggio alberga la “determinatezza indeterminata” della parola “essere”. In definitiva –
secondo Ciccarelli – è nel linguaggio, nella parola che l’essere si svela come
“indeterminatamente determinato”, ossia si svela velandosi, si presenta assentandosi, si dona ritraendosi.
La posizione paradossale di Derrida, sorta dal confronto con Lévinas, è invece oggetto della riflessione di Massimiliano Spano, docente di Storia della Filosofia e di Logica presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna che insieme
a Daniele Vinci, docente di Questioni di Filosofia e di Teologia nel medesimo Ateneo e autore di una ricostruzione bibliografica sul pensiero dialogico che chiude il
volume, è tra i curatori del testo che raccoglie gli atti del Convegno. In Derrida –
secondo Spano – la cancellatura del fondamento e dell’origine della filosofia significa e comporta una più radicale contestazione di ogni tipo di metafisica e di pensiero dell’essere, in nome di una differance non tra l’ente e l’Essere, come in Hei-
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
135
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 136
degger, ma di una differenza che è un puro gioco di relazioni semiologiche che
condizionerebbe essenzialmente il linguaggio e la realtà dell’uomo. Derrida vuole
smantellare gli ultimi residui della metafisica occidentale, considerata come il pensiero della presenza dell’essere e della verità nella parola e nel logos, per giungere invece ad un pensiero radicale dell’assenza. La parola vivente, nel momento in
cui si consegna alla scrittura, rimanda ad una parola che non offre una presenza,
ma un’assenza sia del soggetto parlante che del riferimento al senso veritativo a
cui il parlante si riferiva a sua volta: la differance come rinvio all’altro da sé che è
implicito in ogni parola, rappresenta pertanto la distanza che separa la parola della scrittura dal suo senso e allo stesso tempo il distacco che la parola vivente opera nei propri confronti consegnandosi alla scrittura.
Antonio Micali
M. ARICI, Avventure dell’espressione. La pittura, la musica e la nuova ontologia
di Maurice Merelau-Ponty, Bulzoni, Roma 2007, pp. 224.
136
Il libro di Mita Arici schiude al lettore la dimensione dell’espressione artistica del filosofo francese Merleau-Ponty. Uno spazio che il filosofo aveva incominciato a scandagliare fin da L’Oeil et l’Esprit, in cui la pittura al pari della filosofia veniva chiamata in causa per sondare il mistero dell’Essere, l’occhio del
pittore secondo tale ermeneutica penetra l’enigma della percezione e vede nel
fondo invisibile delle cose. Questo è descritto come un “nuovo nodo” che non
solo la pittura, ma anche la letteratura e la musica stringe con l’invisibile. Il tema della visione è centrale in tutta l’opera merleau-pontyana, come sottolinea
la stessa Arici, puntualizzandone con acume critico il fondamento fenomenologico: «se la tematica della visione si arricchisce nel corso dell’opera di Merleau-Ponty è proprio perché uno studio fenomenologico approfondito della vista
gli apriva la possibilità di una nuova filosofia che esordisse diversamente da
quella classica; mentre quest’ultima identificava il vedere con il pensiero di vedere, ossia con una visione che non nasce dall’interno del mondo, ma che è
distaccata dal vedente e dal suo corpo, il filosofo francese studia la visione in
atto nel suo concreto esercitarsi, la quale avviene a partire dall’interno dell’essere nel momento in cui un visibile comincia a vedere» (p. 68).
Se per un certo verso si può parlare di un “primato” della visione, quindi della pittura come arte di maggiore espressività, lo stesso Merleau-Ponty non protende verso una “gerarchia dei sensi”, e al contempo il suo interesse per l’arte
si muove liberamente anche attraverso il campo del cinema, della scultura e
della musica. A questo livello si chiarisce, come sottolinea l’Autrice, tutta la profondità dell’affermazione merleau-pontyana “la percezione sinestetica è la regola”, infatti «per il filosofo francese, ad esempio, una separazione radicale tra
il tatto e la vista è problematica» (p. 69).
Su questa linea teoretica l’Autrice intesse una attenta analisi comparativa
tra Dufrenne, Straus e Merleau-Ponty: «Dufrenne fa reagire la prospettiva di
Straus con quella di Merleau-Ponty. In effetti il sentire di Straus ha molte affi-
20-05-2008
17:24
Pagina 137
nità con quel logos primitivo, sistema di equivalenze tra i vari registri sensoriali, di cui parla Merleau-Ponty. Questi tende però a cancellare la distinzione fra
sentire e percepire […]. È importante sottolineare come questa unità del sentire, o questa coesione carnale delle cose, trascenda ogni nostro tentativo di
avvicinarci ad essa tramite un atto concettuale» (p. 71).
Il discorso si dipana intorno a questo chiasma dei sensi, il parallelismo che
viene colto e sviluppato nella parte centrale del libro, è quello che si stabilisce
tra unità e pluralità delle arti e unità e pluralità dei sensi, che subisce una “complicazione”, in quanto non è possibile associare rigidamente un’arte ad uno
specifico registro: ad esempio la vista con la pittura, o l’udito con la musica, in
quanto il presupposto fondamentale è che la comunicazione tra i sensi si basa su di un’unità originaria, preestetica.
Un’ulteriore sezione di approfondimento di queste tematiche è costituita dal
capitolo relativo alla musica, in cui Arici ricostruisce, riproponendo una attenta
lettura delle opere merleau-pontyane, le riflessioni sul musicale mettendo in dialogo tra loro delle interpretazioni di lettura sulla supremazia della pittura in confronto alla musica nella filosofia di Merleau-Ponty. «F. Cavallier, indugiando sul
termine épures […], tratto dal lessico geometrico, sostiene che la musica sarebbe stata esclusa da L’occhio e lo spirito perché troppo vicina alla razionalità del
pensiero matematico […] Raymond Court rimprovera a Merleau-Ponty di aver
sottovalutato il legame della musica con la carne […] M. Villella-Petit […] fa notare come il privilegio della pittura nell’opera di Merleau-Ponty non sia dettato
né da ragioni di gusto personale, né da un misconoscimento del rapporto della
musica con la carne, ma da motivi di fondo del su pensiero» (pp. 78-79).
Ma anche se le riflessioni sulle ricerche che Merleau-Ponty conduce negli
ambiti del campo musicale si limitano a osservazioni ristrette o brevi appunti,
al massimo di tre-quattro fogli consecutivi, inseriti all’interno di un quadro artistico, laddove gli accenni specifici in merito al musicale appaiono più rari ed
esigui rispetto a quelli dedicati alla pittura, tali riflessioni non sono segno di
marginalità nella ricerca del filosofo.
Le esperienze musicali risultano essere esperienze speculative che, lungi
dal risultare conclusive, si offrono come invito per una meditazione incessante
suoi suoni, e il loro potere di riflettere, come in uno specchio l’Essere.
Su questo suolo la musica si radica come una esplosione di un invisibile e
svelamento di un universo di idee. Si tratta di un linguaggio musicale iconologico che coglie il fra, quell’invisibile modulazione che trascorre fra le cose, e in una
sorta di dispiegamento disgrega la classica separazione tra contenuto e segno.
E soprattutto dallo studio della musica politonale e del ricorso alle possibilità combinatorie della musica politonale, espressione di un gioco di rimandi e
incastri, che Merleau-Ponty punta il dito, andando al fondo delle cose. Come
sottolinea Arici, Merleau-Ponty riformula il problema in un prospettiva più generale, inserendo la riflessione sul musicale all’interno non solo della dimensione estetica, ma proprio come nuovo campo da pensare, come nodo del
pensiero filosofico che si interroga sull’essere: per il filosofo francese le “idee
musicali” esprimono una universalità inseparabile dalla sua manifestazione
sensibile, «descrivono una relazione tra forma e materia, tra visibile e invisibi-
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
137
Segni e comprensione 65
138
20-05-2008
17:24
Pagina 138
le a quella stabilita dall’ontologia classica e quindi insegnano a pensare ad un
nuovo tipo di rapporto all’essere» (p. 162).
La materialità dei suoni svanisce, il timbro non ha più alcuna localizzazione
in quanto l’impressione pura della musica appartiene all’ascoltatore, siamo dinanzi ad una indeterminatezza determinata dall’incarnazione dell’impressione
puramente musicale.
La successione dei suoni non è, dunque, in questa visione merleau-pontyana, oggetto di pensiero, non può essere sottoposta a descrizione analitica, non
può essere oggettivata. E la protensione verso di essa, non è uno sterile creare facsimili di quelle frasi fuggitive – sarebbe un voler costruire delle fondamenta durevoli in mezzo alle onde, la soggettività rivela la passività dell’attività
creatrice di un nuovo campo da pensare, in cui quell’Etwas può essere concepito, secondo Merleau-Ponty, non secondo il pensiero prossimale, ma come inglobante, investimento laterale, carne.
Inoltre l’Autrice ricostruendo il dibattito filosofico sulle tematiche estetiche
e le relative categorie spazio-temporali di catalogazione delle arti, rinviene
nella filosofia mereleau-pontyana il superamento della contrapposizione tra
pittura, come arte dello spazio, e musica, come arte del tempo: «lo spazio pittorico merleau-pontyano […] è infatti intriso di elementi temporali, dato che
non si può scindere dal movimento: non solo il tempo, ma anche lo spazio è
pregno di quell’atmosfera dell’indefinibile che la ratio e il concetto non possono possedere; non solo la musica, ma anche la pittura quindi “riacquista il suo
potere, di manifestare, di mostrare più che se stessa” di essere più del suo
puro e semplice “esserci”» (p. 104).
Dunque, seguendo l’ermeneutica dell’Autrice le chiavi che fornisce il linguaggio estetico, secondo la visione di Merleau-Ponty, aprono le porte alle manifestazioni della non filosofia, di quel qualcosa di diverso dalla conoscenza, di una filosofia come ontologia interrogativa, che sostituisca l’incantesimo alla soluzione.
Daniela De Leo
G. INVITTO, Idee e schermi bianchi. Filosofia e cinema tra mito e falso, Mimesis,
Milano 2007, pp. 176.
Esiste una significatività filosofica del cinema? Vi è un rapporto osmotico,
di stretto scambio, tra questi due ambiti, o il nesso è ascrivibile solo a mera moda dialogica del momento? Il dibattito è antico – in Francia se ne discute a partire da Bergson –, tuttavia negli ultimi anni, infittendosi, sembra quasi aver
gemmato ulteriori competenze filosofiche, ampliando quegli ambiti che per oltre due millenni avevano connotato il percorso ermeneutico.
Il confronto-disputa sull’argomento, rinverdito di recente, in un’alternanza di
opposte tesi, anche da un importante Convegno organizzato da Carlo Tatasciore per la Società Filosofica Italiana, è rilanciato da Giovanni Invitto con Idee e
schermi bianchi. Obiettando l’approccio “logopatico”, che coniugherebbe comprensione razionale ed emozionale, del filosofo latino-americano Julio Cabrera,
20-05-2008
17:24
Pagina 139
quale nuovo modo di trasmissione delle idee filosofiche, Invitto mette in guardia
dal rischio di aggressività delle immagini, la cui forza “manifesta o mascherata”
può risultare “un ulteriore fenomeno di violenza in una società in cui la violenza,
in tutte le sue forme, anche gentili, è al potere”. Tuttavia, sostiene, individuare linee di convergenza con la narrazione cinematografica – elemento ormai conclamato di produzione estetica –, è doveroso e importante per la filosofia, che da
sempre si è confrontata con le varie forme del racconto. L’obiettivo è quello di rintracciare fra i due ambiti un humus comune di modelli percettivi e ideativi.
In un’efficace e stimolante prisma di film, sceneggiature, registi, il testo mette
a fuoco l’incrocio culturale tra filosofia e cinema, avanzando una riflessione mirata sulle categorie del “mito” e del “falso”, poli tematici primari della filosofia occidentale. Il mito, da sempre unito in un indissolubile abbraccio chiastico con la
filosofia, si pone come oggetto privilegiato di narrazione nel cinema – alcune volte, invero, banalizzato in versioni improprie, ma altre valorizzato in un recupero
espressivo quanto mai efficace della dimensione archetipica. Ma, il mito, anche
perché partorito in nuove forme, da quella macchina di straordinaria potenza di
riproduzione ma anche di creazione di miti, che è l’industria cinematografica.
Un’attenta analisi della fenomenologia del femminile costella il volume, con
un’indagine approfondita, nella filmografia di Ingmar Bergman, del ruolo della
donna, protagonista, o comunque fondante nell’intreccio filmico. Una donna emblema non solo di speranza, ma di concretezza esistenziale, di saggezza, di rispetto di quei valori minimi determinanti, ad onta di un’apparente ed erronea
marginalità. Specularmente, il femminile nell’accezione negativa è scandagliato
nell’affascinante ricostruzione del mito di Lilith: prima donna nata dalla terra, in
condizione di parità con l’uomo, successivamente trasformata in perversione e
sensualità per “l’eterno terrore che la forza creatrice incute al primitivo popolo
maschile”, rinvenibile nella filmografia di Carl Th. Dreyer, per il portato affettivopassionale del femminile, che ancorché talora salvifico, può rappresentare minaccia al potere dell’uomo. Il mito di Aracne, proposto nella realizzazione cinematografica di un corto di animazione di Eva Cocca del 1999, nasce, invece, dal
rifiuto a sottomettersi a un’autorità costituita maschile. Punita per aver osato denunciare abusi, soprusi, stupri e per aver voluto rivendicare, attraverso la tessitura, la possibilità di un’attività creativa, produttiva, autonoma, proibita a un essere non divino, viene trasformata dalla gelosa Atena in ragno.
Per il binomio reale/falso, Invitto esemplifica, attraverso questioni di lessico, il rapporto, controverso e dibattuto, cinema-verità e cinema-realtà, con un
excursus che dal “realismo socialista sovietico” e dalla coeva filmografia di
regime fascista, ugualmente ideologizzata, approda al neorealismo italiano
degli anni ’40-50, non trascurando il realismo poetico pasoliniano, fino all’opposta corrente del surrealismo buñueliano. Propone l’endiadi classica JekyllHyde, quale sintesi emblematica di scissione esistenziale fra due opposti
estremi, nella realizzazione di John Stuart Robertson, e un cult degli anni
Settanta, Ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci, come metafora di
paura esistenziale della verità e di fuga dalla realtà, attraverso un eros, estremo viatico. Ma esplora anche il rapporto sartriano col cinema – che nasce
come amore-passione, pietra miliare della sua formazione, definito arte che
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
139
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 140
“inaugura la mobilità in estetica” – e dedica un’analisi approfondita alla figura dell’Anticristo nella filmografia occidentale.
Concludendo con un divertissement, orienta la riflessione sulla costruzione
dell’identità, attraverso la vicenda umana di un attore-cantante, Domenico Modugno, che decidendo di modificare la propria anagrafe, si “falsificò” siciliano.
Alessandra Spadino
C. AUGIAS, M. PESCE, Inchiesta su Gesù, Mondadori, Milano 2007, pp. 245.
140
Soltanto il settantaduenne Corrado Augias, già noto per la lunga esperienza di scrittura giornalistica, narrativa, teatrale, saggistica, l’ampia cultura letteraria, storica, geografica, la conoscenza diretta e partecipata di situazioni, avvenimenti, personaggi significativi della nostra epoca, la larga produzione di libri, i programmi televisivi, poteva concepire una maniera così originale per fare di Cristo una figura semplicemente umana, mostrarlo libero da quanto la religione, la fede, il culto, la Chiesa gli hanno per secoli attribuito e restituirlo ai
suoi tempi, ai suoi luoghi, ai suoi rapporti individuali, sociali, alla sua vita in terra tra gli altri. Vi è riuscito tramite un lungo dialogo con lo storico del Cristianesimo e biblista Mauro Pesce, docente presso l’Università di Bologna e autore
di molti saggi sul Nuovo Testamento. Augias gli ha posto una serie interminabile di domande, ha assunto la posizione del curioso di genio, di chi vuole sapere quanto accadeva ai tempi di Gesù, intorno a lui, come si è comportato,
cosa ha fatto, con chi, cosa ha detto, a chi, ed il risultato è stato raccolto e pubblicato nel volume “Inchiesta su Gesù”. È un’opera suggestiva, che prende il
lettore fin dalle prime pagine poiché gli svela quanto ancora non sapeva di un
fenomeno che era convinto di conoscere.
Alle domande dell’Augias il Pesce risponde mostrando non solo le proprie
ampie, approfondite conoscenze ma anche quelle dei molti altri studiosi che cita e che sono contemporanei o del passato vicino e lontano. Ogni volta l’argomento risulta notevolmente ampliato, spiegato, chiarito dalle risposte dello studioso e queste muovono l’Augias verso altre, più particolari, domande. Si crea
un movimento che va oltre la storia del personaggio in esame, Gesù, oltre la
geografia della sua terra poiché accoglie anche quanto succedeva, si pensava, si faceva a distanza, quanto di leggendario, di mitico si è creato, è circolato intorno. Ci si ferma solo quando un principio, una verità, un valore appaiono raggiunti, acquisiti.
La tendenza seguita da chi pone i quesiti è convinzione per chi vi risponde:
prima che della Chiesa cattolica Gesù ha fatto parte di una famiglia fra le tante, è vissuto tra i villaggi, le strade, le piazze, le persone d’Israele, prima che
idea di molti la sua è stata realtà di pochi, prima che Dio è stato uomo. E uomo ebreo che degli ebrei ha vissuto e sofferto la situazione storica del momento, l’occupazione romana della Palestina, ha risentito nei costumi, nella religione e in quanto da essa richiesto nei pensieri e nelle azioni. Gesù non è venuto, vogliono dimostrare i due autori del libro, per trasformare, sconvolgere
20-05-2008
17:24
Pagina 141
quanto esisteva ma solo per migliorarlo tramite un messaggio di pace e di bene, per ridurre, eliminare i gravi disagi materiali e morali sofferti dal suo popolo. Egli era uno dei tanti predicatori ai quali allora in quei luoghi si assisteva e
solo un caso è stato che la sua parola abbia avuto maggiore fortuna, un caso
spiegato con i discepoli che l’hanno continuata, diffusa, difesa fino a farne
un’altra religione. Gesù non ha avuto simili intenzioni, non ha pensato alla sua
come ad una futura, nuova dottrina perché dal passato, dalla tradizione civile
e religiosa del suo paese, dalle profezie della Bibbia, del Vecchio Testamento
si è sentito ispirato, mosso a predicare, agire, soffrire. Voleva solo cambiare lo
stato attuale delle cose come volevano tanti predicatori d’allora e come ad essi nemmeno a lui riuscì anche se a differenza del loro il suo messaggio non fu
dimenticato ma riportato, scritto in tanti testi oltre che nei Vangeli, continuato fino ai nostri giorni, trasformato in una religione senza confini. Ma è successo
pure che nelle scritture che seguirono di quell’antica figura e vicenda si siano
persi i caratteri primari, distintivi, autentici, che molto sia stato cambiato, aggiunto secondo le convinzioni, le circostanze di chi scriveva. Questo Augias, insieme al Pesce, vuole segnalare nel libro su Gesù, vuole recuperare la nuda,
semplice verità dei fatti ed essere riuscito in un compito così arduo è stato possibile solo con l’aiuto di uno studioso che non si mostra sorpreso da nessuna
delle sue domande. Con facilità e chiarezza vi risponde e fa dell’opera un lavoro degno di nota poiché svolge in modo quanto mai semplice problemi piuttosto difficili e sui quali non si finirà mai di discutere.
Antonio Stanca
M. LÖWY, Kafka. Sognatore ribelle, trad. a c. di G. Lagomarsino, Elèuthera, Milano 2007, pp. 134.
In un breve volume Kafka – Sognatore ribelle il sessantanovenne brasiliano Michael Löwy, direttore di ricerca presso il CNRS di Parigi ed autore di molti studi, è riuscito a far rientrare il lavoro di critica che si è svolto intorno alla figura e l’opera di Franz Kafka, scrittore praghese d’origine ebrea, vissuto dal
1883 al 1924 ed autore di numerose opere, soprattutto racconti (“La Metamorfosi”) e romanzi (“America”, “Il processo”, “Il castello”). La maggior parte delle
narrazioni di Kafka sono state pubblicate postume ed alcune sono rimaste incompiute. Questo, insieme alla malattia ed alla morte prematura, ha contribuito ad accrescere l’atmosfera di mistero che avvolge lo scrittore boemo e ne ha
fatto un caso isolato pur in un contesto culturale ed artistico quale quello europeo di fine Ottocento e primo Novecento che è tra i più animati e ricchi di collegamenti e richiami. Anche la città di Praga, dove Kafka visse la maggior parte della sua breve vita, era un ambiente fervido di attività letteraria, filosofica,
politica, religiosa (ebraismo) e lo scrittore partecipò di questo movimento ma in
maniera particolare, “da solo e in silenzio”. Soltanto qualche volta risulta inserito in azioni di gruppo, giornali, riviste, riunioni, perché sempre riservata rimase la sua vita. Soffrì l’ambiente di famiglia a causa di un difficile rapporto con
RECENSIONI
Segni e comprensione 65
141
Segni e comprensione 65
142
20-05-2008
17:24
Pagina 142
un padre molto autoritario, cercò inutilmente di legarsi ad una donna e, tuttavia, strinse amicizie. I suoi amici sono stati i primi interpreti della sua opera,
quelli che hanno arricchito l’indagine del Lowy con documenti autentici e testimonianze dirette. In “Kafka – Sognatore ribelle” queste sono solo alcune delle
voci critiche riportate e più volte citate ché a molte altre l’autore fa riferimento.
Diviso in capitoli, seguiti da molte note e dedicati ai diversi modi usati nel tempo per spiegare Kafka e le sue opere, il libro riferisce su quanto, in ambito critico, si è pensato, detto, scritto circa lo scrittore praghese da quando era ancora in vita ai giorni nostri. Tramite Löwy il lettore scopre che quasi senza sosta
si è lavorato intorno a Kafka da parte di studiosi di diversa nazionalità, formazione e corrente al fine di chiarire il significato delle sue opere nel loro complesso o singolarmente, collegandole o separandole dalla sua vita. Un motivo
rintracciabile in ognuna di esse è quello dell’uomo comune, del semplice cittadino che si vede superato, escluso dal sistema amministrativo, burocratico
presso il quale non ha nessuna possibilità di vantare i propri diritti oppure che
viene accusato di colpe che è convinto di non aver commesso e condannato a
pene da parte di un tribunale, di giudici che non conosce, non vede e non gli
permettono di difendersi. Immaginarie, surreali diventano, così, le narrazioni
dello scrittore, misteriosi rimangono fino alla fine dell’opera i suoi personaggi,
i luoghi, i tempi della loro vita. Questo spiega perché Kafka abbia attirato tanta attenzione e perché la sua opera costituisca ancora un “caso” da studiare.
Tra le tendenze emergenti nella critica va segnalata quella che fa risalire l’autoritarismo sofferto dai personaggi kafkiani al tormentato rapporto dell’autore
con il padre e l’altra che vede nelle aspirazioni di quei personaggi a sollevarsi
dalla loro condizione di sconfitti, di vinti, a ribellarsi al sistema che li opprime,
il bisogno di Kafka di un riscatto non solo individuale ma anche sociale da ottenere mediante un’azione collettiva di tipo religioso o politico. Su quest’ultima
possibilità d’interpretare la scrittura di Kafka si sofferma il Löwy ma non esclude nessuna delle altre che finora sono state prospettate e che egli cita. In
ognuna di esse coglie quelle parti, quegli elementi che gli sembrano indiscutibili, da ognuna estrae verità che crede non possano subire alterazioni. Compie, quindi, un’operazione molto rigorosa, molto attenta ai particolari dell’opera e della vita di Kafka. Leggendo Löwy si sa di confidenze dell’autore ad amici, di sue brevi osservazioni, giudizi, azioni, di piccole cose delle quali finora
non si era avuta notizia e che vengono utilizzate per cercare di completare e
spiegare la sua immagine. Non ci riesce, tuttavia, Löwy con questo studio ed
è costretto a concludere che quella di Kafka è una figura singolare, che non all’esterno, nella cultura, nella storia del suo tempo va cercata la spiegazione ma
all’interno dell’uomo, nell’individualità di un artista che ambisce ai propri spazi
e se li vede contesi dalla vita. Quindi la trasforma, nelle opere, in una serie di
ostacoli, in un universo negativo che fa rimanere astratto, impersonale, fa diventare un simbolo, gli procura l’estesa dimensione dell’arte.
Antonio Stanca
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 143
PUBBLICAZIONI RICEVUTE DA “SEGNI E COMPRENSIONE”
Volumi:
Bergson, l’Evolution créatrice e il problema religioso, a c. di G. Invitto, Mimesis, Milano
2007, pp. 130;
S. BERNI, L’antropologia dogmatica di un giurista eterodosso, Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali di Gips, Siena 2007, pp. 108;
S. BERNI, Ermeneutica giuridica e postmoderno, Aracne, Roma 2007, pp. 132;
C. BONALDI, H. Jonas e il mito. Tra orizzonte trascendentale di senso e apertura alla trascendenza, Mercurio, Vercelli 207, pp. 336;
P. BOURGET, Décadence. Saggi di psicologia contemporanea, a c. di F. Manno, introd. di G.
Campioni, Aragno, Torino 2007, pp. XXVIII, 234;
R. CALDARONE, Caecus Amor. Jean-Luc Marion e la dismisura del fenomeno, ETS, Pisa
2007, pp. 260;
M. CANEVARI, La religiosità feroce. Studio sulla filosofia etero logica di G. Bataille, pref. di
S. Borutti, Le Monnier, Firenze 2007, pp. 166;
A. CAPUTO, Amore e sofferenza: tra autenticità e inautenticità. Un percorso con L. Biswanger, Centro volontari della sofferenza, Roma 2007, pp. 106;
G. CERA, Il familiare e l’estraneo, Edizioni di pagina, Bari 2008, pp. 90;
R. DADOUN, Paolo Uccello – Valentin Tereshenko, Spirali/Vel, Milano 2007, pp. 134, 156;
P. DE GIORGI, Il tarantismo come mito, Congedo, Galatina 2007, pp. 124;
E. DE MARTINO, Dal laboratorio del “Mondo magico”. Carteggi 1940-1943, a c. di P. Angelini, Argo, Lecce 2007, pp. 166;
Dio, la vita e il nulla. L’evoluzione creatrice di H. Bergson a cento anni dalla pubblicazione, a c. di G. Strummiello, Edizioni di Pagina, Bari 2008, pp. 164;
P. DUPONT, Dictionnaire Merleau-Ponty, Ellipses, Paris 2007, pp. 234;
F. FERRAROTTI, Diplomatico per caso. La Parigi degli anni Cinquanta raccontata da un giovane osservatore, Guerini & Associati, Milano 2007, pp. 222;
Filosofia e letteratura in Karol Wojtyla, a c. di A. Delogu e A. M. Morace, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2007, pp. 276;
G. GIMMA, Selva. Sunti di prediche, a c. di M. Occhinegro e F. A. Sulpizio, Milella, Lecce
2007, pp. 192;
G. INVITTO, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze, Mimesis, Milano
2007, pp. 204;
La malinconia di Hume. Sul pensiero di G. Semerari, a c. di F. Fistetti e F. Semerari, Guerini, Milano 2007, pp. 156;
G. LAMPIS, La verità e i confini dell’anima, II ed., Mythos, Roma 2007, pp. 174;
L. LA PUMA, Giuseppe Mazzini democratico e riformista europeo, Olschki, Firenze 2008,
pp. 174;
Le lettere di J. Pogonowski, a c. di F. Piper, trad. dal polaco di A. Fonseca, Xane e FrapBooks, Melendugno-Oswiecim, 2008, pp. 88;
M. MARTI, Sul valore sentimentale attribuibile alle scelte del critico, Lettera di M. Nocera a
M. Marti e risposta, con i caratteri Tallone, Alpignano 2007, pp. 16;
M. NYISZLI, Sono stato l’assistente del Dottor Mengele. Memorie di un medico internato a
ad Auschwitz, trad. dal polacco di A. Fonseca, Zane, Melendugno 2008, pp. 184;
P. PASCUZZO, Re-interpretando il Desiderio cinematografico di G. Rocha: sceneggiatura di
A Idade de Terra, intr. E collab. di V. Camerino, Barbieri, Manduria 2007, pp. 174;
143
Segni e comprensione 65
20-05-2008
17:24
Pagina 144
M. PESARE, La dimora dei luoghi. Saggi sull’abitare tra filosofia e scienza sociali, Icaro, Lecce 2007, pp. 204;
F. POLIDORI, Passi indietro. Su verità, soggetto, altro, Galiani, Napoli 2007, pp. 222;
F. W. J. SCHELLING, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, a c. di G. Strummiello, Bompiani, Milano 2007, pp. 326;
I. TAVILLA, Ordet di C. Th. Dreyer. Il miraggio kierkegaardiano, Ets, Pisa 2007, pp. 158;
M. R. TENI, Una donna e la sua musica: M. L. Lombardini e la Venezia del XVIII secolo,
pref.di F. Mineccia, Bibliotheca Minima, Novoli (Le) 2008, pp. 126;
D. E. VIGANÒ, G. SCARAFILE, L’adesso del domani. Rifigurazioni della speranza nel cinema
moderno e contemporaneo, Effatà, Cantalupa 2007, pp. 96;
S. VUSKOVIC ROJO, Dawson, Il Raggio Verde, Lecce 2007, pp. 184.
Periodici:
144
Aesthetica Preprint, n. 81, dicembre 2007: G. PINNA, Il sublime romantico. Storia di un concetto sommerso; C.I.S.d.E., Palermo;
Alpha Omega, a. X, n. 3, settembre-dicembre 2007; Rivista di Filosofia e Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma;
Archivium Scholarum Piarum, n. 62, 2007; Archivio generale dei Padri Scopoli, Roma;
Diogene. Filosofare oggi, a. II, n. 8, novembre-dicembre 2007; Giunti, Firenze;
Estudios Franciscanos, v. 108, n. 443, septiembre-diciembre 2007; Provincias Capuchinas
Ibéricas, Barcelona
Estudios Mindonienses, n. 23, 2007; Centro de Estudios de la Diócesis de MondoñedoFerrol, Coruña;
Dianoia, a. XII, n. 12, novembre 2007, Rivista di Storia della Filosofia; Dipartimento di Filosofia, Università di Bologna;
Foedus, n. 18, n. 19, 2007; Associazione Artigiani e Piccole Imprese, Mestre;
Giornale di Metafisica, n. s., a. XXIX, 2007, n. 2: Ontologia e metafisica; Tilgher, Genova;
Hermeneutica, n. s., 2007: Corpo e persona; Morcelliana, Brescia;
Idee, n. 65-66, 2007; Milella, Lecce;
Il Protagora, a. XXXV, V s., n. 10, luglio-dicembre 2007; Barbieri, Manduria;
Itinerari, n. 2, 2007; Ed. Itinerari, Lanciano;,
L’immaginazione, nn. 234, 235, 2007; 236, 2008; Manni, San Cesario di Lecce;
Note di matematica, v. 27, n. 2, 2007; Università del Salento; Liguori, Napoli;
Notes et documents, a. XXXII, n. s., nn. 7, 8, janvier-avril, mai-août 2007; Inst. Int. Jacques
Maritain, Roma;
Pensar y educar, n. 0, diciembre 2007; Instituto superior de Filosofía, “San Juan Bosco”,
Burgos;
Perficit. Revista de estudios humanísticos, noviembre 2007, tercera época, v. XXVII, 2; Biblioteca San Estanislao, Salamanca (España);
Progresso del Mezzogiorno, a. XXXI, n. 2, 2007: Il cristianesimo promotore della cultura e
della civiltà dell’Europa moderna, parte II; Loffredo, Napoli;
Proyección. Teologiía y mundo actual, n. 227, ocrobre-diciembre 2007; Facultad de Teología, Granada;
Ricerche. Continuità e rinnovamento, n. 94, a. XXVII, ottobre-dicembre 2007; Rivista trimestrale degli Scopoli in Italia, Roma;
Rivista di Filosofia, n. 3, 2007; il Mulino, Bologna;
Rivista di Studi Utopici, n. 4, novembre 2007; Carra, Casarano;
Studia Patavina, n. 3, a. LIV, settembre-dicembre 2007; Facoltà Teologica del Triveneto,
Padova.