Blackberry - Processo Penale e Giustizia

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PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
3-2016
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Sequestro preventivo in funzione di confisca
The seizure in confiscation depending
Intercettazioni tra dispositivi blackberry
Wiretapping between Blackberry mobiles
Lo statuto italiano della “vittima” del reato
The italian victim’s statute
Il controllo sul potere cautelare dopo la legge n. 47/2015
The control on the power of pretrial detention after the reform of 2015
Ricorso inammissibile e illegalità della pena
Appeal inadmissible and illegality of the penalty
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
3-2016
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di
procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di procedura
penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea, Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor
Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, professore associato di procedura penale,
Università di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro
Diddi, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di
procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale,
Università di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo
– Antonio Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato – Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia
Ester Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato – Alessio Scarcella, magistrato – Giuseppe Tabasco, ricercatore di procedura penale, Università di
Napoli Federico II – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
V
Sommario
Editoriale | Editorial
ADOLFO SCALFATI
L’ombra inquisitoria sul sequestro preventivo in funzione di confisca
1
Inquisitorial aspects of preventive seizure
1
Scenari | Overviews
Novità legislative interne / National legislative news (ROBERTO PUGLISI)
9
Novità sovranazionali / Supranational news (FRANCESCA MANFREDINI)
22
De jure condendo (DANILA CERTOSINO)
26
Corti europee / European Courts (MARCELLO STELLIN)
29
Corte costituzionale (LAURA CAPRARO)
35
Sezioni Unite (PAOLA MAGGIO)
39
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
49
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
L’illegalità della pena per violazione dell’art. 7 Cedu tra le questioni rilevabili d’ufficio
dalla Corte di Cassazione
Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza 9 novembre 2015, n. 44897 – Pres. Marasca; Rel.
Catena
53
La veste legale della pena: una questione non differibile / The legal form of penalty: a matter can not be postponed (ROSSELLA MASTROTOTARO)
56
Blackberry ed intercettazioni di comunicazioni trasmesse tramite tecnologia pin to pin
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 10 novembre 2015, n. 50452 – Pres. Franco; Rel.
Rosi
64
Come si intercettano le chat pin to pin tra dispositivi Blackberry? / How is it possible to intercept chat pin to pin between Blackberry mobiles? (MAURO TROGU)
73
L’esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p. nel giudizio di rinvio
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 22 dicembre 2015, n. 50215 – Pres. Fiale; Rel. Di
Nicola
78
Prescrizione e lieve entità del fatto: i limiti ai poteri cognitivi nel giudizio di rinvio / Limitation of action and slight crimes: judge’s limited power of cognizance after the rescission of a
sentence (ADRIANO SPINELLI)
84
Il soggetto in vinculis che intenda comparire all’udienza di riesame deve averne fatto richiesta nell’istanza ex art. 309 c.p.p.
Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 17 dicembre 2015, n. 49882 – Pres. Chieffi; Rel. Casa
89
La partecipazione all’udienza di riesame dopo la legge n. 47 del 2015 / Participation in
the hearing of the riesame after the law no. 47 of 2015 (FRANCESCA ROMANA MITTICA)
94
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
VI
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Lo statuto italiano della “vittima” del reato: nuovi diritti in un sistema invariato / The
italian victim’s statute: new rights in an unchanged criminal system (LUDOVICA TAVASSI)
108
Esecuzione penale: questioni aperte e dubbi interpretativi / Criminal enforcement: open
iusses and interpretation doubts (MARIA FRANCESCA CORTESI)
118
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
Il controllo sul potere cautelare dopo la legge n. 47 del 2015 / The control on the power of
pre-trial detention after the reform of 2015 (CATERINA SCACCIANOCE)
136
Ricorso (tardivo) inammissibile e (ir)reversibilità dell’illegalità della pena / Inadmissibility of the appeal out of time and (ir)reversibility of the legality of the sanction (ANTONELLA MARANDOLA)
145
Indici | Index
Autori / Authors
158
Provvedimenti / Measures
159
Materie / Topics
160
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
1
Editoriale | Editorial
ADOLFO SCALFATI
Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
L’ombra inquisitoria sul sequestro preventivo
in funzione di confisca
Inquisitorial aspects of preventive seizure
La materia cautelare imporrebbe fumus boni juris e periculum in mora, regola valida anche per le misure reali. Il
sequestro preventivo disposto in attesa della confisca si sottrae ad entrambi i requisiti: la lacuna del legislatore e
l’assenza di una aggiustamento giurisprudenziale trasformano la misura in un anticipo punitivo, in difformità alla
presunzione di non colpevolezza.
When a preventive seizure is ordered in relation to a possible future confiscation, neither the “fumus boni iuris”
nor the “periculum in mora” is requised. In this way the measure turns to be an advanced sanction, in contradiction whit the right to be presumed innocent until proven guilty
IL SEQUESTRO PREVENTIVO NELL’ORIZZONTE CAUTELARE
Anche quando è disposto in vista di una futura confisca – per collocazione, dinamiche applicative e
struttura dei gravami – il sequestro preventivo si presenta come un provvedimento cautelare in rem 1.
Per capire se è davvero così o se le sue caratteristiche non somiglino, piuttosto, ad una misura di matrice autoritaria, occorre passare la disciplina e la prassi al setaccio dei criteri che caratterizzano il genere cautelare, senza tralasciare l’effettività dell’intervento difensivo durante la procedura dei controlli.
Sul piano generale, fumus e periculum rappresentano le ineludibili condizioni del potere cautelare –
com’è noto – caratterizzato dai requisiti di accessorietà e strumentalità rispetto all’adozione di una misura
conclusiva, frutto dell’accertamento principale 2. Ciò significa che il provvedimento cautelare, da un lato,
postula l’apparente fondatezza della pretesa dalla quale dipende l’applicazione della misura definitiva
e, dall’altro, si giustifica in presenza di un rischio capace di compromettere la fisiologia dell’accertamento o l’effettività della decisione finale. Un intervento giudiziario volto a comprimere in via anticipata diritti individuali che sfuggisse ai requisiti del fumus e del periculum si tramuterebbe in un potere
svincolato dalla necessità di salvaguardare la fisiologia del giudizio principale e il conseguimento dei
suoi risultati, vulnerando il legame strumentale tra mezzi di cautela e provvedimenti sul merito 3.
1
La letteratura che esamina la materia è assai vasta. Senza pretese di completezza, tra gli altri, P. Balducci, Il sequestro
preventivo nel processo penale, Milano, 1990; T.E. Epidendio, Sequestro preventivo, in Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli
enti, Milano, 2010, p. 243 ss.; P. Gualtieri, Sequestro preventivo, in G. Spangher (diretto da), Trattato di procedura penale, Prove e
misure cautelari, II (a cura di A. Scalfati), Le misure cautelari, 2008, Torino, p. 366 ss.; M. Montagna, I sequestri nel sistema delle
cautele penali, Padova, 2005; C. Santoriello, Il sequestro preventivo, in F. Fiorentin-C. Santoriello (a cura di), Le misure cautelari reali,
Torino, 2009, p. 21; F. Vergine, Il “contrasto” alla illegalità economica. Confisca e sequestro per equivalente, Padova, 2012.
2
E. Amodio, Le cautele patrimoniali nel processo penale, Milano, 1971, p. 40 ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2003, p. 556.
3
Volendo, già A. Scalfati, Il sequestro preventivo: temperamento autoritario con aspirazioni al “tipo” cautelare, in Dir. pen. proc.,
2012, p. 533 ss.
EDITORIALE | L’OMBRA INQUISITORIA SUL SEQUESTRO PREVENTIVO IN FUNZIONE DI CONFISCA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
2
A prescindere dai tradizionali rapporti tra la dinamica incidentale e la procedura principale, le menzionate tipicità del fenomeno sono imposte dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2,
Cost.), dalla quale si desume, tra l’altro, il principio nulla poena sine judicio 4; calato nella materia in esame, ciò significa che, nel processo penale, la risposta afflittiva costituisce il contenuto delle sole pronunce emesse a seguito di un giusto processo sul fatto colpevole e mai di provvedimenti disposti prima
della soluzione giudiziaria definitiva. Pertanto, il potere cautelare, esercitato in anticipo, “allo stato degli
atti” e secondo dinamiche distinte rispetto al procedimento sull’imputazione, non si spiega in vista di
un intervento repressivo, mirando piuttosto ad eliminare rischi d’ineffettività derivanti dal ritardo della
pronuncia finale.
Inoltre, è sempre l’art. 27, comma 2, Cost., a imporre che il provvedimento cautelare sia disposto solo dopo aver formulato una previsione di applicabilità della misura definitiva, per evitare che l’intervento giudiziario interinale incida sui diritti individuali più di quanto possa la pronuncia di merito. Insomma, l’art. 27, comma 2, Cost., vieta di utilizzare la disciplina cautelare per anticipare un trattamento
penale.
Non vale replicare, per dissolvere una simile conclusione, che l’art. 27, comma 2, Cost., richiamando
le figure dell’imputato e della colpevolezza, attiene solo alla tutela delle libertà personali in senso stretto
ed esula dal campo operativo dell’intervento penale volto a incidere sul patrimonio; né cambierebbe obiettare, sulla base di una lettura strettamente formale del testo, che il dato costituzionale si disinteressa
alle procedure dove la misura ablativa ricade su soggetti diversi dall’imputato o non postula una pronuncia di colpevolezza (es., art. 240, comma 2, n. 2, c.p.). Innanzitutto, il principio espresso dall’art. 27,
comma 2, Cost. – peraltro ribadito esplicitamente o implicitamente da più di una fonte sovranazionale –
funge da criterio-guida per l’esercizio del potere giudiziario in ambito penale, indipendentemente dal
fatto che siano in gioco libertà strettamente individuali o diritti di altra natura. Inoltre, è ininfluente che
la misura privativa – in taluni casi – non segua ad una sentenza di condanna, considerato che il peculiare scioglimento del vincolo tra pronuncia di colpevolezza e confisca non incrina le caratteristiche proprie dell’intervento penale e, soprattutto, non autorizza ad abbandonare lo schema delle garanzie nell’ambito del quale si muove l’esercizio del potere giudiziario specifico.
Dinanzi alla prospettiva che attribuisce all’art. 27, comma 2, Cost., una funzione cardine del giusto processo penale, sarebbe ancora debole sostenere che, utilizzato in vista della misura ablativa finale, il fenomeno cautelare reale non sarebbe riconducibile ai corollari della norma costituzionale quando detta misura esuli dal catalogo delle pene e si identifichi in uno strumento securitario. A prescindere dal fatto che un tale argomento sarebbe improponibile già pensando che un egual discorso potrebbe valere per l’applicazione delle
misure di sicurezza personali, la soluzione sarebbe irragionevole anche sotto altro profilo: la differenziata
natura della confisca, nel pendolo tra modello sanzionatorio e archetipo securitario, imporrebbe di distinguere la struttura dell’intervento cautelare in ragione della fisionomia attribuita alla misura ablativa. Simile
conclusione, peraltro, non terrebbe conto dell’orientamento costante della Corte e.d.u. circa l’esistenza di
una categoria allargata di “materia penale” 5 – indipendentemente dalle nomenclature impiegate da ciascun
Paese – le cui procedure giudiziarie rispondono all’esigenza di un comune trattamento processuale sul piano delle garanzie contemplate dalla Cedu per attuare il sistema punitivo.
Ora è difficile dubitare, stando ai principi elaborati dal menzionato orientamento, che la confisca di
cui si sta parlando: (a) consegue ad una vicenda penalmente rilevante secondo la legge nazionale 6; (b)
4
I corollari della presunzione di non colpevolezza sono principalmente esposti da M. Chiavario, Processo penale e garanzie
della persona, II, Le garanzie fondamentali, Milano, 1984, p. 324 ss.; G. Illuminati, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna,
1979, passim; E. Marzaduri, Misure cautelari personali (principi generali e disciplina), in Dig. pen., VIII, Torino, 1994, p. 59; Id., Accertamenti non definitivi sulla responsabilità dell’imputato ed attenuazione della presunzione di non colpevolezza, in AA.VV., Presunzione di
non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni (Atti del Convegno di Foggia-Mattinata, 25-27 settembre 1998), Milano, 2000, p. 213
ss.; P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Torino, 2008, passim.
5
A partire da Corte e.d.u., Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi; com’è noto, tale decisione fissa criteri generali
per individuare la natura “penale” dei procedimenti – parametri richiamati da Corte e.d.u., 7 luglio 2014, Grande Stevens c.
Italia, in tema di ne bis in idem – ai quali vanno applicate le garanzie specifiche previste dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo. Sulla scia, Corte e.d.u., 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia; 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia; sent. 17 febbraio
2015, Boman c. Finlandia; sent. 20 maggio 2014, Glantz c. Finlandia; 20 maggio 2014, Hakka c. Finlandia; 20 maggio 2014, Nykanen c.
Finlandia; 20 maggio 2014, Pirttimaki c. Finlandia; 23 giugno 2015 Butnaru et Bejan-Piser c. Romania.
6
Sempre la Corte e.d.u. (tra l’altro, 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia) ha escluso le misure di prevenzione dalla
“materia penale” perché si tratterebbe di strumenti derivanti da una pericolosità indipendente dalla sussistenza di un reato, con
EDITORIALE | L’OMBRA INQUISITORIA SUL SEQUESTRO PREVENTIVO IN FUNZIONE DI CONFISCA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
3
rappresenta la risposta dell’ordinamento ad un fatto giuridicamente previsto a tutela di beni collettivi;
(c) produce conseguenze (in tal caso, patrimoniali) di non lieve pregiudizio per l’individuo.
L’EVANESCENTE CONSISTENZA DEL FUMUS
I contenuti del fumus boni juris, nello specifico contesto, dovrebbero tradursi in un giudizio prognostico
circa l’adozione della confisca 7. Di certo, non aiuta a centrare una simile prospettiva lo scarno tessuto
legislativo dell’art. 321, comma 2, c.p.p. (o di altre statuizioni contemplate dalla disciplina speciale in
materia), secondo cui «il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca»; formula neutra, che sembra dissolvere l’esigenza di postulare una concreta prognosi in ordine alla
conseguibilità della misura ablativa finale. Tuttavia – al di là di ogni possibile esegesi del dato letterale
– fare a meno di tale valutazione in sede cautelare equivale ad autorizzare, di fatto, l’esercizio di un potere svincolato dalle condizioni di applicabilità della misura definitiva, con ogni ricaduta circa la natura
eterodossa dell’intervento interinale e la sua dubbia inclusione nel quadro del giusto processo.
Osservata al microscopio, la selezione dei temi da affrontare nel giudizio prognostico presuppone
una summa divisio: da un lato, le questioni di matrice sostanzialistica relative ai presupposti, alle condizioni e ai limiti di applicabilità della confisca; dall’altro, l’analisi dei requisiti più autenticamente processuali, tra i quali spiccano lo standard probatorio cautelare e l’effettività della difesa nei mezzi di controllo. Naturalmente, nel work in progress decisionale, riflesso nell’apparato giustificativo del provvedimento, i due circuiti tematici possono sovrapporsi in un groviglio euristico che rende complessa la distinzione concettuale.
Nella prima fase, l’analisi sull’apparente fondatezza della pretesa impone di rispondere, innanzitutto,
all’interrogativo se l’ipotesi fattuale astrattamente postulata dal magistrato requirente è sussumibile nel compendio normativo che autorizza la confisca; se tale “corrispondenza” mancasse già in astratto sarebbe inutile
esaminare la consistenza indiziaria dell’ipotesi fattuale posta a base della richiesta d’accusa.
Tale spicchio del giudizio cautelare manifesta i dibattiti di matrice sostanzialistica, relativi all’an (e al
quomodo) della misura finale, che vale la pena ricordare per punti (e senza pretesa di completezza), solo
per sottolineare la complessità della verifica. Ecco in sintesi i principali profili d’esame:
1) configurabilità del fatto colpevole e antigiuridico dal quale discende la confisca o, nelle ipotesi in cui questa
prescinde da un provvedimento di condanna (es., art. 240, comma 2 n. 2, c.p.), l’integrabilità del reato che funge
da condizione al provvedimento ablativo;
2) collocazione dei beni da assoggettare a confisca nella categoria di “prezzo”, “prodotto” e, soprattutto, di
“profitto” del reato, in relazione alle distinte discipline legislative;
3) struttura della confisca: diretta (unica figura dove conta il rapporto di pertinenza tra reato e bene da approvvigionare), per equivalente (aspetto in progressiva espansione) 8, allargata 9 (o per sproporzione) e allargata in
forma equivalente 10 (criterio a bassissimo standard di legalità);
4) natura della confisca (tema prevalentemente emerso in ragione del divieto di retroattività della nuova disposizione sfavorevole in vista dell’adozione dell’art. 200 c.p.): misura di sicurezza, misura sanzionatoria, misura
amministrativa equiparabile a quella di sicurezza e ulteriori sotto-generi di dubbia autonomia, come quello della
misura restitutoria o ripristinatoria 11;
5) forma obbligatorie o discrezionali di confisca (aspetto che, tra l’altro, genera incertezze in tema di rapporto
tra doverosità della misura finale e necessità di imporre il sequestro preventivo, allorché si dice, secondo una ricorrente affermazione in giurisprudenza, che “la misura cautelare è obbligatoria se la confisca è obbligatoria”);
6) aspetti peculiari nella disciplina sulla responsabilità degli enti (l’ambito del profitto illecito nei “reati in contratto” e
ogni riflesso quanto all’adozione delle garanzie fondamentali previste per il circuito giudiziario, limitate, per le dette misure,
alle sole tutele contemplate dall’art. 6 § 1 della Convenzione.
7
Sul punto, cfr. P. Gualtieri, Sequestro preventivo, cit., p. 405.
8
A titolo esemplificativo, art. 644, comma 6, c.p.; art. 322 ter c.p.; art. 640 quater c.p.; art. 648 quater c.p.; art. 600 septies c.p.;
art. 187, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; artt. 19 e 53, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231; art. 2641 c.c.; art. 12 bis, d.lgs 10 marzo 2000, n. 74.
9
Art. 12 sexies, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif., in legge 7 agosto 1992, n. 356.
10
Art. 12 sexies, comma 2-ter, d.l. n. 306 del 1992.
11
D. Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale, Bologna, 2007, p. 232 ss; L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche
sanzionatorie. Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto penale, Padova, 1995, p. 656 ss.; M. Montagna, I sequestri, cit., p. 277 ss.
EDITORIALE | L’OMBRA INQUISITORIA SUL SEQUESTRO PREVENTIVO IN FUNZIONE DI CONFISCA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
4
nei “reati contratto” 12, approvvigionabilità dei beni della società fallita 13; adozione della misura in funzione dei reati associativi anche diretti alla realizzazione di delitti scopo che non sono inclusi nel catalogo dei fatti-presupposto 14, ecc.);
7) figura del “terzo estraneo al reato” (la cui estensione dipende dalle diverse discipline di confisca e dalla nozione di “disponibilità dei beni anche per interposta persona”).
Se l’ipotesi postulata dal pubblico ministero coincide con una fattispecie normativa, la verifica giudiziale prosegue nella valutazione del fumus boni juris dai toni marcatamente processuali, sciogliendosi
nell’analisi sulla sostenibilità indiziaria della rappresentazione fattuale oggetto della pretesa; qui occorre precisare che il fondamento probatorio posto a base del sequestro dovrebbe coprire ciascun segmento che articola le condizioni per ottenere la confisca (es., fatto colpevole, individuazione del profitto, assenza di terzietà del disponente, ecc.).
Al contrario, è ancora dominante una prassi che tende a sottovalutare il fumus indiziario a corredo della domanda, accettando che il sequestro preventivo sia adoperabile anche quando la rappresentazione allegata dal pubblico ministero presenti una mera compatibilità giuridico-fattuale al modello normativo che
autorizza la confisca 15. Non solo, pertanto, non occorrono indizi “gravi” o “sufficienti”, ma bastano rari
elementi dalla inafferrabile consistenza, tramite i quali desumere che i contenuti della richiesta non siano
estranei al catalogo delle condizioni autorizzative della misura finale. In termini del tutto minoritari, si delinea un orientamento che ammette un panorama indiziario meno instabile, ma in ragione del sequestro
preventivo disposto nell’ambito della disciplina per la responsabilità degli enti 16; in ogni caso, laddove la
più evoluta corrente si manifesta, essa assume un carattere frammentario, ora concentrandosi sulla sussistenza del reato-presupposto, ora sulla disponibilità fittizia dei beni in capo a terzi, e così via.
Relativamente all’esigenza di un serio compendio indiziario sull’ipotesi fattuale descritta dal pubblico ministero, l’assenza di una disposizione ad hoc nel regime del sequestro preventivo non autorizza ad
escludere la necessità di detto requisito; anzi, la impalpabile emersione del fumus compromette il significato cautelare dell’intervento, che ben potrebbe essere rivendicato dalla giurisprudenza nel tentare un
riequilibrio praeter legem della disciplina rispetto ai canoni del giusto processo.
Va aggiunto, oltre a quanto detto in premessa, che non ritenere necessario un solido compendio indiziario della rappresentazione postulata dal pubblico ministero consuma una parossistica lesione dell’art.
27, comma 2, Cost., soprattutto nei casi in cui la legge obbliga ad una riparto dell’onere di prova a svantaggio dell’imputato: si allude al sequestro preventivo funzionale alla c.d. confisca per sproporzione 17,
dove il pubblico ministero può semplicemente allegare una rappresentazione della pretesa “compatibile”
con la peculiare fattispecie di confisca, secondo una disciplina che lo esime dal dimostrare il legame tra
accumulo di ricchezza e reato ipotizzato; mentre l’esecutato ha il compito dimostrare ex post, dopo la notifica del provvedimento, che i beni oggetto dell’intervento cautelare non sono di provenienza illecita. Qui
appare più manifesto lo sbilanciamento tra chi avanza la pretesa cautelare e chi la subisce.
UN PERICULUM IN RE IPSA
Di regola, le misure cautelari fronteggiano il rischio di compromettere in qualche modo l’effettività
del risultato finale del giudizio a causa del fisiologico ritardo della pronuncia definitiva. In linea di fondo, già assume un natura eccentrica rispetto alla strumentalità cautelare la rilevanza di un periculum che
mira a tutelare fattori estranei alla funzionalità dell’accertamento, come quelli connessi alla protezione
della collettività, dove la natura dell’intervento cautelare è piegato ad esigenze repressive. È fuor di
12
Cass., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988, in Dir. giust. online, 10 marzo 2015.
13
Cass., sez. III, 28 maggio 2015, n. 30484, in Guida dir., 2015, 40, p. 72.
14
Cass., sez. III, 04 marzo 2015, n. 26721, Diritto e Giustizia online, 26 giugno 2015.
15
Orientamento (ritenuto costituzionalmente discutibile da C. cost., sent. 17 febbraio 1994, in Cass. pen., 1994, p. 1455)
chiaramente affermato da Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 7, in Dir. pen. proc., 2000, p. 719.
16
Cass., VI, 31 maggio 2012, n. 34505, in Cass.pen., 2013, p. 3667; più in generale, qualche isolata pronuncia tende a
valorizzare la verifica circa la consistenza del fumus: Cass., sez. un., 20 novembre 1996, Bassi, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p.
198; Cass., sez. III, 27 gennaio 2011, n. 8982, in Guida dir., 2011, 19, p. 58; Cass., sez. III, 25 settembre 2012, n. 1261, in Dir. giust.
online, 11 gennaio 2013; Cass., sez. II, 25 marzo 2014, Mussari, in Guida dir., 2014, 37, p. 71.
17
Art. 12 sexies, d.l. n. 306/1992, cit.
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5
dubbio che il sequestro preventivo ha un nome che richiama esattamente il suo compito, ossia, di evitare conseguenze ulteriori rispetto a quelle già manifestatesi con il reato; è come dire che il fatto in corso
di accertamento presenta una lesione antigiuridica che funge da premessa al rischio che se ne realizzino
altre, meritevoli di essere paralizzate (art. 321, comma 1, c.p.p.).
A ben vedere, però, il sequestro funzionale alla confisca non richiede la presenza di specifici pericula,
nemmeno quelli previsti dall’art. 321, comma 1, c.p.p. (es: il rischio di commissione di nuovi reati derivanti dalla permanenza del possesso dei beni nelle mani del disponente); il legislatore ritiene che la
semplice possibilità di adottare la misura ablativa finale sia di per sé un rischio sociale da fronteggiare
tramite l’intervento giudiziario interinale, in attesa che la pronuncia definitiva consolidi il risultato 18.
Stando così le cose, la confisca adottata (con provvedimento di condanna o di proscioglimento) in seguito ad un processo legale che accerti le condizioni per disporre la misura, trova un proprio antecedente nel provvedimento di sequestro, a prescindere dalla presenza di rischi cautelari autonomi connessi al possesso dei beni; la qual cosa implica la marcata fisionomia autoritaria del fenomeno.
In questa logica, il sequestro assume una funzione di tutela collettiva analoga alla misura finale: colpisce beni che sono pericolosi per scelta legislativa, secondo le distinte accezioni sottese alle previsioni
normative concernenti la confisca; al riguardo, si dice abitualmente che il pericolo cautelare non va
spiegato, è in re ipsa. Così, il contrasto al rischio sociale connesso alla circolazione di determinati beni,
aspetto che rappresenta la causa giustificativa della confisca, arretra a funzione del sequestro preventivo, dissolvendone l’autonomia di scopo rispetto alla misura penale definitiva.
L’intervento giudiziario raggiunge l’apice della torsione nel provvedimento interinale funzionale alla confisca per equivalente, la quale si dirige verso beni lecitamente accumulati e del tutto privi di pertinenza con l’evento illecito. Si tratta di una misura tipicamente sanzionatoria 19, dove manca il pericolo
derivante dalla circolazione di beni “penalmente inquinati”; eppure, il sequestro viene solitamente disposto dinanzi alla semplice presenza delle condizioni che legittimano la misura ablativa finale, senza
la necessità che si presenti un rischio connesso al ritardo nell’approvvigionamento definitivo dei beni: il
decreto interinale “per equivalente” è una figura che semplicemente anticipa una sanzione.
IL VUOTO DI “ADEGUATEZZA”
Ulteriore caratteristica del modello cautelare va individuata nella simmetria tra l’entità dell’intervento giudiziario e l’intensità del periculum. La misura processuale dev’essere calibrata sulla qualità del rischio da fronteggiare secondo il principio del “minimo sacrificio necessario”; diversamente, l’intervento
giudiziario servirebbe solo ad anticipare i contenuti del provvedimento emesso a seguito del giudizio.
Ed è proprio quanto si verifica nella disciplina (e nell’applicazione) del sequestro preventivo in funzione di confisca, dove l’area operativa del primo coincide sempre con l’estensione della seconda; anzi,
la prassi, talvolta, è incline – giustificandolo con l’immediatezza dell’intervento – a sottovalutare in pejus la coincidenza tra i due ambiti, rinviando la determinazione dei limiti di approvvigionamento al
momento di decifrare i confini operativi della confisca, magari in fase d’esecuzione.
Inoltre, nella disciplina mancano sostitutivi all’adozione del sequestro preventivo, come sarebbe la figura
di una cauzione, che ben potrebbe funzionare come alternativa nei casi di confisca per equivalente o per sproporzione, ed è assente qualsiasi rapporto sinergico con le misure personali interdittive, aspetto che, in vista
del pericolo derivante dalla disponibilità del bene, potrebbe svolgere una più equilibrata funzione cautelare.
Talvolta, viene indicato quale aspetto tipico della “strumentalità” cautelare il fatto che, perlomeno in
linea teorica, il sequestro preventivo non può avere una latitudine maggiore di quanto è consentito dalla misura finale. È un risultato largamente condivisibile che, però, postula errore di prospettiva. A ben
vedere tale carattere è tipico anche dei provvedimenti semplicemente anticipatori della misura finale e
non connota esclusivamente la dimensione cautelare: anche l’anticipo della sanzione non si sottrare ad
una simmetria tra il provvedimento provvisorio e quello definitivo.
18
Esprimono con chiarezza il principio, Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887, in CED Cass., 2015; Cass., sez. III, 17 settembre
2014, n. 47684, in CED Cass., 2015; Cass., sez. II, 26 giugno 2014, n. 31229, in CED Cass., 2014; in tempi meno recenti, Cass., VI, 21
ottobre 1994, Giacalone, in Cass. pen., 1996, p. 2315: Cass., sez. I, 23 giugno 1993, Cassanelli, in Arch. nuova proc.pen., 1994, p. 130.
19
Si tratta di pensiero espresso, sia dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (Corte cost., ord. 2 aprile 2009, n. 97, in
Giur.cost., 2009, p. 984), sia dalla Corte di Cassazione (Cass., sez. un., 31 gennaio 2013, n. 18374, in Cass. pen., 2013, p. 2913).
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LA DIFESA DISARMATA (MOTIVAZIONE E CONTROLLI)
Lo sfondo autoritario dell’intervento si manifesta anche sul terreno della difesa, affievolendo
l’effettività dei diritti partecipativi. Si tratta di un problema di natura generale, non legato esclusivamente al provvedimento disposto in funzione della confisca, di cui tuttavia si dà conto per completare
il tratto fisionomico del sequestro preventivo.
Un primo aspetto nevralgico è costituito dalle ricadute derivanti dalla scarsa analisi del compendio indiziario che dovrebbe fondare l’ipotesi di confisca postulata dal pubblico ministero. Se il provvedimento è
consentito anche nell’ipotesi di semplice “compatibilità” tra rappresentazione accusatoria e fattispecie
normativa, il pregiudizio della difesa è duplice: si rivela pressoché inutile chiedere un approfondimento
dimostrativo basato su elementi di segno diverso; contro il decreto, le si impone, di fatto, un onere di allegare indizi contrari talmente lampanti da capovolgere l’inafferrabile giudizio di “compatibilità”. Ne deriva una disequilibrata distribuzione di forze in campo, tra chi (agevolmente) ottiene il sequestro e chi ha
diritto di reagire contro il provvedimento, con le dovute implicazioni sul versante della par condicio.
Contribuisce alla deminutio difensiva l’assenza di un modello legale di motivazione, sulla falsariga di
quanto dispone l’art. 292 c.p.p. in tema di misure personali; la qual cosa, se abbinata alla minimale esigenza di fermarsi al solo giudizio di “compatibilità” giuridico-fattuale dell’ipotesi avanzata nella richiesta di sequestro, autorizza forme sommarie o implicite di motivazione.
In materia, peraltro, la prassi ammette trame argomentative per relationem 20, consentendo un radicale
rinvio (il più delle volte, un integrale recepimento) ad altri atti della procedura, come le richieste del
pubblico ministero o le informative di polizia giudiziaria; il che sottovaluta l’esigenza di autonomia critica del giudice.
In proposito, l’intervento operato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, art. 11, comma 3, può essere in grado
di mutare l’indirizzo interpretativo. Tale disciplina ha innovato l’art. 309, comma 9, c.p.p., nella parte in
cui – in tema di riesame delle ordinanze cautelari personali – impone al tribunale di annullare il provvedimento se la motivazione non contiene una valutazione autonoma, a norma dell’art. 292 stesso codice,
delle esigenze cautelari degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa 21. Dal canto suo, l’art. 324, comma
7, c.p.p. – in materia di riesame del decreto di sequestro – richiama proprio l’art. 309 comma 9 c.p.p. nella
sua interezza e, dunque, anche nella sua rinnovata veste quanto alla verifica circa l’autonomia critica del
giudizio cautelare. L’art. 324, comma 7, peraltro è stato interpolato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47 senza
alcun’altra precisazione in ordine al rinvio effettuato al vigente art. 309, comma 9, c.p.p.; pertanto, bisogna
presumere che, se il legislatore avesse voluto paralizzare le ricadute dell’intervento normativo sui poteri
del giudice del riesame cautelare reale, avrebbe manipolato la disciplina in tale prospettiva.
Certo, il richiamo esplicito effettuato dall’art. 309, comma 9, c.p.p. all’art. 292 ostacola un trasferimento integrale di detta disciplina nel contesto dei poteri attribuiti al giudice del riesame cautelare reale (art. 324, comma 7, c.p.p.); tuttavia, niente vieta – considerando il predetto richiamo come recepimento della ratio sottesa all’art. 309, comma 9, c.p.p. – che la “autonoma valutazione”, quale criterio che caratterizza il tenore argomentativo del provvedimento giurisdizionale de libertate, sia esportabile al decreto di sequestro 22.
Ulteriore criticità, che si aggiunge aritmeticamente alle predette incertezze, attiene alle strettoie del
ricorso per cassazione. Secondo l’art. 325, comma 1, c.p.p., il controllo de legitimitate contro le ordinanze
in materia di sequestro è consentito per la sola “violazione di legge”; la qual cosa esclude censure su logicità e contraddittorietà della motivazione, oltre a precludere rilievi in ordine a omissioni valutative o
travisamenti della prova. Sinora, la possibilità di obbiettare i contenuti espositivi del provvedimento è
stata ammessa nei casi di tale gravità da essere inquadrati nell’ambito della mancanza (o apparenza) di
motivazione 23, lasciando intuire come i nodi presenti nel regime dei controlli sul provvedimento di sequestro preventivo non trovino soluzione nemmeno dinanzi alla Corte regolatrice.
20
Cass., sez. VI, 17 marzo 1995, H. Franceschini, in Cass.pen., 1996, p. 2694. Cass., sez. VI, 21 maggio 1990, D. Bonamore, in
Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 290.
21
P. Maggio, I controlli, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari. Analisi della legge n. 47 del 16 aprile 2015,
Torino, 2015, p. 83 ss.
22
In tale direzione, Cass., sez. un., 31 marzo 2016 (informazione provvisoria).
23
Cass., sez. un., 26 giugno 2008, n. 25932, in Cass. pen., 2008, p. 4533.
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Ulteriore self restraint giudiziario, con ricadute sull’effettività difensiva durante il controllo de legitimitate, dipende dall’affermazione secondo cui la procedura camerale più adatta, nei ricorsi contro
provvedimenti di sequestro, è quella “non partecipata” (art. 611 c.p.p.) 24, principio che evita alle parti
di presentarsi dinanzi alla Corte per esercitare oralmente il contraddittorio argomentativo; una lettura
che contrae significativamente gli spazi alla difesa durante il tortuoso cammino delle impugnazioni
cautelari in rem.
24
Cass., sez. un., 30 dicembre 2015, n. 51207.
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Scenari
Overviews
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NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
NATIONAL LEGISLATIVE NEWS
di Roberto Puglisi
DISPOSIZIONI PER CONFORMARE IL DIRITTO INTERNO ALLA DECISIONE QUADRO 2009/948/GAI DEL CONSIGLIO, DEL 30 NOVEMBRE 2009, SULLA PREVENZIONE E LA RISOLUZIONE DEI CONFLITTI RELATIVI ALL’ESERCIZIO DELLA GIURISDIZIONE NEI PROCEDIMENTI PENALI
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 29)
CONFLITTI DI GIURISDIZIONE E LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE
Il d.lgs. n. 29/2016 (in Gazz. Uff., 7 marzo 2016, n. 55; entrata in vigore il 22 marzo 2016) dà attuazione,
in forza della delega contenuta nell’art. 18, comma 1, lett. g), l. 9 luglio 2015, n. 114, alla decisione quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30 novembre 2009 sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti
relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali. L’esigenza alla base della novità legislativa è la neutralizzazione del pericolo di bis in idem in ambito europeo; occorre evitare che, con riferimento allo stesso fatto, vengano emesse diverse decisioni, impedendo che scaturiscano paralleli procedimenti penali nell’ambito degli ordinamenti nazionali. Il rischio di conflitti giurisdizionali, invero,
mette a rischio l’efficacia dell’azione penale e la corretta amministrazione della giustizia. Si rende necessario, dunque, adottare strumenti che non consentano la pronuncia di diverse decisioni in due o più
Stati membri. L’interessamento europeo sorge dall’assenza di strumenti giuridici atti a dirimere ab initio
la concentrazione di più autorità giudiziarie sullo stesso caso. L’unica frontiera giuridica di contenimento è, del resto, rappresentata dagli artt. da 54 a 58 della Convenzione di Schengen, disciplinanti il
divieto di bis in idem (esecutivo) e non il conflitto positivo di giurisdizioni.
Oltretutto, l’eventuale proliferazione degli interessi punitivi attorno alle medesime condotte può determinare effetti pregiudizievoli travalicanti la sfera del singolo sottoposto al procedimento penale; il
rischio è, infatti, costringere la pluralità di soggetti (vittime e testimoni) coinvolti nel procedimento penale a una fastidiosa peregrinazione presso le diverse autorità giudiziarie nazionali. Perseguendo la libera circolazione delle persone (“pietra angolare della cittadinanza dell’UE”) – la cui base normativa
sono gli artt. 3, § 2, TUE, e 21 TFUE – l’UE mira a offrire uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” e,
per raggiungere tale obiettivo, occorre ottimizzare l’attività giudiziaria evitando inutili duplicazioni.
Tale esigenza bene si concilia con gli intenti in materia di cooperazione giudiziaria in materia penale.
OBBLIGO DI CONTATTO
Il primo passo per attenuare il rischio di sovrapposizione delle giurisdizioni nazionali ai fini dello stesso accertamento e di violazione della libera circolazione delle persone si compie mediante la previsione
dell’obbligo, per l’autorità giudiziaria italiana procedente, di contattare in forma scritta il proprio omologo del Paese membro UE laddove vi sia “fondato motivo” di ritenere l’esistenza di un procedimento
penale parallelo (art. 3); al fine di meglio perseguire tale primaria esigenza, l’autorità giudiziaria italiana compie gli accertamenti necessari, anche tramite i punti di contatto della rete giudiziaria europea. Il
riferimento al “fondato motivo” viene ripreso dalla decisione quadro 2009/948/GAI del Consiglio
(considerando n. 5): qualora «l’indagato o l’imputato adduca, fornendo dettagli, di essere oggetto, in
relazione agli stessi fatti, di un procedimento penale parallelo in un altro Stato membro o una pertinente richiesta di assistenza giudiziaria reciproca da parte di un’autorità competente di un altro Stato
SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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membro riveli la possibile esistenza di siffatto procedimento penale parallelo ovvero l’autorità di polizia fornisca informazioni in tal senso».
L’art. 4 si occupa della situazione complementare in cui sia l’autorità di altro Paese membro Ue ad
attivarsi per avere conferma della litispendenza nell’ordinamento italiano; l’autorità nazionale contattata deve rispondere sollecitamente alle richieste, provvedendo a sua volta a contattare la diversa autorità
estera dinanzi alla quale è pendente il procedimento penale. In entrambe le ipotesi, trattasi, evidentemente, di attività prodromica all’attivazione degli strumenti successivamente previsti per neutralizzare
il rischio di ne bis in idem.
SCAMBIO DI INFORMAZIONI
Gli artt. 6 e 7 si interessano dello «scambio obbligatorio di una serie specifica minima di informazioni»
prescritto dalla Decisione quadro 2009/948/GAI, stabilendo il contenuto che debbono avere, rispettivamente, la richiesta di informazioni e la risposta all’autorità estera contattante. Nel primo caso (art. 6),
occorre acquisire informazioni attinenti all’autorità estera competente, alla descrizione dei fatti e delle
circostanze oggetto del procedimento penale, all’identità dell’indagato, della persona offesa e del danneggiato, alla fase e allo stato del procedimento penale, all’eventuale sottoposizione a custodia cautelare. Nel caso di risposta, anziché prevedere un mero obbligo di soddisfazione della richiesta di informazioni proveniente dall’altro Stato membro, il legislatore delegato si preoccupa (art. 7) di precisare che le
informazioni debbono riguardare l’esistenza di provvedimenti definitivi o pendenze per il fatto oggetto
del procedimento penale estero, l’indicazione dell’autorità competente, la fase, lo stato e il grado del
procedimento e, ove adottata, la decisione e il suo contenuto; salvo, poi, prevedere la possibilità di fornire ulteriori informazioni.
L’art. 8 disciplina la successiva fase delle “consultazioni dirette” per cui è competente il procuratore
generale presso la corte di appello nel cui distretto ha sede l’autorità giudiziaria italiana contattante o
contattata. È previsto un obbligo di comunicazione dell’avvio delle consultazioni dirette al Ministro
della giustizia che, entro 10 giorni, «può disporre che non si dia corso alla concentrazione dei procedimenti in altro Stato membro qualora rilevi che, a seguito del mancato esercizio della giurisdizione in
Italia, possano essere compromessi la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato».
RISOLUZIONE DEL CONFLITTO
La risoluzione del conflitto positivo di giurisdizione va impostata sulla scorta di alcuni criteri già contenuti nella Relazione annuale Eurojust 2003 (p. 62 ss.) in virtù dei quali si deve considerare il luogo in
cui si è verificato prevalentemente il fatto costituente reato, il luogo in cui si è subita la maggior parte
dei danni, il luogo in cui si trova l’indagato o l’imputato e la possibilità di assicurare la sua consegna o
estradizione in altre giurisdizioni, la cittadinanza o la residenza dell’indagato o dell’imputato, gli interessi rilevanti dell’indagato o dell’imputato, gli interessi rilevanti delle vittime e dei testimoni, l’ammissibilità degli elementi probatori o possibili ritardi. La Decisione quadro 2009/948/GAI condivide tale
impostazione, precisando tuttavia come si tratti di «un catalogo “aperto” di criteri puramente orientativi, non vincolanti, né gerarchicamente ordinati». L’art. 8 del d.lgs. n. 29 del 2016 recepisce tali indicazioni, specificando il bilanciamento, che il procuratore generale deve compiere, con interessi nazionali
essenziali o la sicurezza di una persona. Al fine della risoluzione del conflitto è possibile, altresì, interessare Eurojust per i reati di sua competenza (art. 4 Decisione 2002/187/GAI).
L’impianto finale consta di un articolato normativo che rimette alle autorità nazionali, attraverso
meccanismi di consultazione diretta, il raggiungimento di una soluzione “efficace”; del resto, è lo stesso
preambolo della Decisione quadro 2009/948/GAI a rammentare che «nessuno Stato membro dovrebbe
essere obbligato a rinunciare o a esercitare la competenza giurisdizionale contro la sua volontà» e «finché non sia raggiunto un consenso sulla concentrazione dei procedimenti penali, le autorità competenti
degli Stati membri dovrebbero poter proseguire un procedimento penale per qualsiasi reato che rientri
nella loro giurisdizione nazionale» (considerando n. 11). La buona riuscita della cooperazione è rimessa
alla valorizzazione degli interessi sottostanti (amministrazione della giustizia, oneri per i soggetti coinvolti nel processo) di volta in volta operata degli Stati interessati. Il sistema delineato si regge sulla facoltatività della risoluzione del conflitto.
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Qualche dubbio di costituzionalità potrebbe essere, comunque, sollevato con riferimento all’art. 112
Cost. nella misura in cui non si dovesse ritenere soddisfatta l’obbligatorietà dell’azione penale mediante
la rinuncia alla stessa in favore di quella di un altro Stato membro. Una lettura congiunta con l’art. 11
Cost. laddove contempla limitazioni alla sovranità nazionale può fare superare l’impasse (sebbene dette
limitazioni di sovranità dovrebbero operare in favore di ordinamenti sovranazionali e non di altri Stati
nazionali).
RICADUTE PROCESSUALI
L’azione intrapresa dal procuratore generale ai sensi del d.lgs. n. 29/2016 non determina la sospensione
del procedimento penale pendente nell’ordinamento interno (art. 9), salvo il divieto (che non potrà operare, comunque, per oltre 20 giorni) di pronunciare sentenza per il giudice.
Nel caso in cui si pervenga alla concentrazione dei procedimenti nell’ordinamento interno, è prevista
una clausola di riconoscimento dei periodi di custodia cautelare sofferti all’estero (in relazione al fatto per
il quale si verifica la concentrazione) sia ai fini del computo del periodo massimo di custodia cautelare
(artt. 303 e 304 c.p.p.), sia ai fini della determinazione della pena da eseguire ai sensi dell’art. 657 c.p.p.
***
ATTUAZIONE DELLA DECISIONE QUADRO 2009/299/GAI DEL CONSIGLIO, DEL 26 FEBBRAIO 2009, CHE MODIFICA LE DECISIONI QUADRO 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI E 2008/947/GAI,
RAFFORZANDO I DIRITTI PROCESSUALI DELLE PERSONE E PROMUOVENDO L’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO
DEL RECIPROCO RICONOSCIMENTO ALLE DECISIONI PRONUNCIATE IN ASSENZA DELL’INTERESSATO AL
PROCESSO
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 31)
Il d.lgs. n. 31 del 2016 (in Gazz. Uff., 8 marzo 2016, n. 56; entrata in vigore il 23 marzo 2016) attua, in
forza dell’art. 18, comma 1, lett. e), legge 9 luglio 2015, n. 114 – recante delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – la decisione quadro
2009/299/GAI del Consiglio del 26 febbraio 2009 sul rafforzamento dei diritti processuali delle persone. Il legislatore delegato interviene modificando la legge 69 del 2005 e il d.lgs. n. 161 del 2010 nella parte in cui si interessano delle interazioni tra cooperazione giudiziaria europea e diritto alla partecipazione effettiva dell’imputato al processo. Il contenuto della novella viene sintetizzato dal considerando n. 1
della decisione quadro 2009/299/GAI, in cui si ribadisce come, da una parte, il diritto dell’imputato a
comparire personalmente rientri tra i diritti fondamentali dell’uomo così come affermati dalla Corte
e.d.u. e, dall’altra, a tale diritto vi si possa liberamente rinunciare. La decisione quadro in esame, poi,
prende atto della disomogeneità delle soluzioni offerte dalle varie decisioni quadro alla questione del
reciproco riconoscimento delle decisioni emesse in absentia. Tali differenze rendono ardua la cooperazione giudiziaria europea e, pertanto, ci si prefigge l’obiettivo di uniformare i motivi ostativi al riconoscimento delle sentenze pronunciate contro chi non ha partecipato al processo penale che lo riguardava.
La decisione quadro 2009/299/GAI interviene, dunque, sulle decisioni quadro in materia di MAE e di
reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea.
MODIFICHE AL MAE
Il d.lgs. n. 31 del 2016 (art. 2) modifica, perciò, l’art. 19 legge n. 69/2005 (MAE) stabilendo quattro casi in
cui, nella procedura passiva, la corte di appello può dare luogo alla consegna anche in presenza di una
pena detentiva o di una misura di sicurezza irrogata a seguito di un processo svolto senza la partecipazione dell’imputato. La prima ipotesi (art. 19, comma 1, lett. a), n. 1) è la citazione personale per il processo con l’informazione all’imputato che si sarebbe potuto procedere in absentia. Vale la pena rammentare come la condizione minima prevista nell’ordinamento italiano per procedere in assenza sia la cono-
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scenza effettiva del procedimento (e non del processo, come ora fissato dalla legge MAE per la consegna
passiva) scaturente dalle presunzioni ex art. 420 bis c.p.p. Il secondo caso (art. 19, comma 1, lett. a), n. 2) è
quello del condannato in absentia il quale, sempre regolarmente informato del processo (personalmente?), sia stato rappresentato da un difensore. Considerata l’alternatività delle condizioni previste dall’art.
19, c’è da chiedersi se l’assistenza difensiva non sia imposta anche nel caso di cui al n. 1) che non ne fa
menzione. L’art. 19, comma 1, lett. a), n. 3, include il caso dell’acquiescenza alla decisione emessa in absentia ovvero della rinuncia espressa al diritto a ottenere un nuovo processo o a impugnare. L’ultima ipotesi (art. 19, comma 1, lett. a), n. 4) è quella della decisione ancora non notificata personalmente
all’interessato; qui vi deve essere l’impegno dello Stato richiedente a notificare il titolo esecutivo al soggetto richiesto e, quindi, a informarlo del diritto a un nuovo processo o al processo di appello.
MODIFICHE AL RECIPROCO RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE PENALI
L’art. 3 del d.lgs. n. 31/2016 apporta modifiche al d.lgs. n. 161/2010, intervenendo sui casi di rifiuto del
riconoscimento della sentenza di condanna emessa in absentia. Viene riformato l’art. 13, comma 1, lett.
i), che, ora, esclude il riconoscimento della condanna contro l’assente a meno che il certificato attesti
l’effettiva conoscenza del processo e circa la possibilità che si sarebbe potuto svolgere in assenza, il conferimento di un mandato difensivo in occasione dello svolgimento del processo o l’acquiescenza tacita
o espressa alla condanna (manifestata mediante la rinuncia ad opporvisi o il mancato appello o la mancata richiesta di nuovo processo).
***
NORME DI ATTUAZIONE DELLA DECISIONE QUADRO
RELATIVA ALLE SQUADRE INVESTIGATIVE COMUNI.
2002/465/GAI DEL CONSIGLIO DEL 13 GIUGNO 2002
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 34)
La cooperazione europea si estende anche all’attività investigativa, in modo da offrire ai cittadini un elevato livello di sicurezza nell’ambito di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia; dunque, preoccupazione dell’UE deve essere anche la prevenzione e la lotta alla criminalità attraverso una più stretta cooperazione tra forze di polizia, autorità doganali e altre autorità. Per rendere più efficace la lotta contro la criminalità internazionale, si rende indispensabile l’adozione di uno “strumento specifico giuridicamente
vincolante relativo alle squadre investigative comuni” (SIC) da applicare nelle indagini relative alla tratta
di esseri umani, traffico di stupefacenti e terrorismo. Il d.lgs. n. 34/2016 (in Gazz. Uff., 10 marzo 2016, n.
58; entrata in vigore il 25 marzo 2016) dà attuazione – in forza della delega contenuta nell’art. 18, comma
1, lett. a), legge 9 luglio 2015, n. 114 – alla decisione quadro 2002/465/GAI del 13 giugno 2002.
INIZIATIVA DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
L’art. 2 investe il procuratore della Repubblica dell’iniziativa per la costituzione di squadre investigative comuni, in caso di indagini relative ai delitti di cui agli artt. 51, commi 3-bis, 3-quater e 3-quinquies, e
407, comma 2, lettera a), c.p.p. o ai delitti per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione
superiore nel massimo a cinque anni. In caso di indagini collegate, la richiesta è formulata d’intesa dagli uffici coinvolti. Oltre alle fattispecie richiamate, lo stimolo alla cooperazione investigativa può provenire dall’esigenza di compiere indagini particolarmente complesse.
La richiesta è trasmessa all’autorità competente dello Stato membro, informando della richiesta stessa il procuratore generale presso la corte d’appello ovvero, per i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3quater, c.p.p., il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo.
RICHIESTA DA UNO STATO MEMBRO
Nel caso in cui sia un altro Stato ad avere l’iniziativa per la costituzione, competente a riceverla è il procuratore della Repubblica il cui ufficio è titolare di indagini che esigono un’azione coordinata e concerSCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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tata con quelle condotte all’estero ovvero del luogo in cui gli atti di indagine della squadra investigativa
comune devono essere compiuti (art. 3). Dopo la previsione di obblighi informativi (del tutto analoghi a
quelli previsti per il caso di richiesta verso l’estero), è previsto il divieto di cooperazione laddove gli atti
di indagine richiesti siano vietati dalla legge o contrari ai principi generali dell’ordinamento.
ATTO COSTITUTIVO DELLA SIC
La costituzione della squadra investigativa avviene con la sottoscrizione di un atto costitutivo (art. 4)
che indica i componenti della squadra di cui, per l’ambito interno, possono fare parte agenti e ufficiali
di polizia giudiziaria e uno o più pubblici ministeri dell’ufficio sottoscrittore dell’atto stesso. Il direttore
è scelto tra i componenti della squadra (nel caso vi siano magistrati, è scelto tra questi); ad ogni modo,
le attività svolte sul territorio dello Stato sono dirette dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 327 c.p.p.
Nell’atto costitutivo, non solo deve essere indicato l’oggetto e le finalità dell’indagine con relativo termine, ma deve esservi allegato anche il piano di azione operativo, contenente le misure organizzative e
l’indicazione delle modalità di esecuzione.
I membri distaccati (dello Stato estero) che operano sul territorio sono considerati pubblici ufficiali,
anche agli effetti della legge penale (art. 5).
Ogni Stato è civilmente responsabile per i danni cagionati, nell’adempimento della missione investigativa comune, da parte dei propri membri (art. 7).
UTILIZZAZIONE DEI RISULTATI INVESTIGATIVI
L’art. 6 recepisce il principio della lex loci fissato dall’art. 1, comma 3, lett. b) della decisione quadro
2002/465/GAI. Si conferma la regola dell’art. 431 c.p.p. (il cui ambito operativo, dunque, si allarga anche agli atti provenienti dalla SIC) per la formazione del fascicolo del dibattimento, cui possono accedere solo gli atti di indagine non ripetibili posti in essere dalla squadra investigativa comune. Vi è
un’omologazione totale degli atti compiuti all’estero agli atti di indagine compiuti sul territorio dello
Stato, comunque utilizzabili solo secondo la legge italiana.
L’art. 6 si interessa, poi, dell’utilizzabilità dei risultati investigativi, fissando una disciplina speciale
rispetto a quella delle rogatorie; rispetto a quegli “elementi non altrimenti reperibili per le autorità competenti dello Stato membro interessato”, si prevede un regime di limitazioni dettate da: i fini previsti
all’atto di costituzione della SIC; il consenso dello Stato presso il quale sono state reperite (il rifiuto è
negato «soltanto in caso di grave pericolo per l’efficacia delle indagini penali condotte nello Stato sul
cui territorio le informazioni sono state assunte o qualora quest’ultimo possa rifiutare l’assistenza giudiziaria ai fini di tale uso»); la scongiura di una minaccia immediata e grave alla sicurezza pubblica; altri scopi convenuti tra gli Stati.
In caso di grave pregiudizio per le indagini svolte internamente, il procuratore può richiedere di ritardare, per fini diversi da quelli della SIC, l’utilizzazione delle informazioni ottenute dai membri della
squadra l’utilizzazione delle informazioni ottenute dai membri della squadra.
***
ATTUAZIONE DELLA DECISIONE QUADRO 2003/577/GAI DEL CONSIGLIO DEL 22 LUGLIO 2003, RELATIVA
ALL’ESECUZIONE NELL’UNIONE EUROPEA DEI PROVVEDIMENTI DI BLOCCO DEI BENI O DI SEQUESTRO PROBATORIO
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 35)
Il d.lgs. n. 35 del 2016 (in Gazz. Uff., 11 marzo 2016, n. 59; entrata in vigore il 26 marzo 2016) dà attuazione alla decisione quadro 2003/577/GAI il cui obiettivo è stabilire le norme secondo cui uno Stato
membro deve riconoscere ed eseguire nel suo territorio un provvedimento di blocco o di sequestro
emesso da un’autorità giudiziaria di un altro Stato membro.
L’art. 3 si occupa di una delimitazione oggettiva delle fattispecie di reato per le quali è previsto il riSCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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conoscimento dei provvedimenti di blocco o di sequestro; muovendosi al di fuori di tale elencazione, è
richiesto il requisito della doppia incriminabilità.
AUTORITÀ COMPETENTE A DECIDERE NELLA PROCEDURA PASSIVA
L’art. 4 individua il procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui territorio si trova il bene o
la prova da sottoporre a vincolo quale autorità competente a ricevere la richiesta proveniente dallo
Stato membro emittente. Unitamente alla richiesta è previsto l’invio del certificato relativo alle informazioni contenute nel provvedimento di sequestro o di blocco e la richiesta di trasferimento o di confisca ovvero la richiesta di mantenimento del bene nel territorio dello Stato. È, dunque, il procuratore
della Repubblica così individuato a essere competente a provvedere sulla richiesta di riconoscimento
ed esecuzione del provvedimento di blocco o sequestro a fini probatori. In caso di confisca, il procuratore medesimo presenta le proprie richieste al giudice per le indagini preliminari. In ogni caso, sussiste un obbligo informativo nei confronti del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo (per i
delitti di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p.) ovvero del procuratore generale presso la corte
di appello (per i delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p.). Regole suppletive di individuazione
dell’organo competente sono previste dall’art. 4, comma 4, nel caso si tratti di prove o beni situati in
più circondari.
DECISIONE SULLA RICHIESTA
L’autorità competente (g.i.p., per fini di confisca; procuratore, per fini probatori) decide con proprio decreto o ordinanza, disponendo che sia data immediata esecuzione al provvedimento (art. 6, comma 1).
Quanto all’assunzione della prova mediante sequestro probatorio, si fa ricorso (art. 6, comma 2) a una
disciplina analoga alle rogatorie dall’estero (art. 725 c.p.p.) prevendendo che vengano rispettate le
«formalità e le procedure espressamente indicate dall’autorità competente dello Stato di emissione per
l’esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro probatorio». Per le finalità di confisca, si segue
la procedura per il sequestro preventivo.
Il rigetto della richiesta di esecuzione del provvedimento di blocco o di sequestro è legato a ipotesi
tassative (art. 6, comma 3) connesse all’omessa trasmissione del certificato relativo alle informazioni
contenute nel provvedimento di sequestro o di blocco ovvero all’incompletezza o non corrispondenza
al provvedimento oggetto della richiesta di esecuzione (salva la possibilità di richieste integrative nei
confronti dell’autorità emittente); in caso di immunità particolari godute dalla persona colpita dal
provvedimento da eseguire; nel caso di violazione del ne bis in idem; qualora il reato presupposto si
ponga al di fuori dell’elencazione prevista dall’art. 3 (tuttavia, se il provvedimento di blocco o di sequestro è stato emesso in relazione a violazioni tributarie, doganali o valutarie, l’esecuzione non può
essere rifiutata per il fatto che la legge italiana non impone lo stesso tipo di tasse o di imposte o per il
fatto che la legislazione italiana in materia tributaria, valutaria o doganale è diversa da quella dello
Stato di emissione). A tali condizioni, si consegue l’effetto del riconoscimento ed esecuzione immediata voluto dall’art. 5 della decisione quadro 2003/577/GAI, escludendo la possibilità di sindacato nel
merito (con probabili ripercussioni in termini di disomogeneità dei presupposti limitativi della proprietà individuale).
Il rigetto ovvero l’impossibilità di procedere all’esecuzione del sequestro è immediatamente comunicata all’autorità emittente estera.
RINVIO DELL’ESECUZIONE
In alcuni casi (art. 7), l’autorità interna può rinviare l’esecuzione per motivi legati a esigenze investigative in corso, se il bene o la prova sono già sottoposti ad altro vincolo (fino all’eventuale revoca dello
stesso). Alla cessazione delle predette cause ostative, è previsto un obbligo di immediata attivazione ai
sensi dell’art. 5, comma 1, da parte dell’autorità interna e di informazione nei confronti dell’autorità richiedente.
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DURATA DEL VINCOLO
La durata del provvedimento interno di esecuzione è in funzione (art. 8) dei tempi previsti per il trasferimento della prova o per la confisca (v. art. 12) e, con pedissequa riproduzione dell’art. 6, § 3, della decisione quadro 2003/577/GAI, il legislatore interno (art. 8, comma 4, d.lgs. n. 35 del 2016) impone
l’immediata comunicazione dell’eventuale revoca del titolo presupposto rivolgendosi indifferentemente (sembrerebbe) sia all’autorità interna, sia (non si comprende con quale legittimazione) a quella estera.
IMPUGNAZIONI
Il sistema dei controlli (art. 9) attivabili da coloro che hanno subito l’imposizione del vincolo reale (indagato/imputato e difensore, persona cui è stato sequestrato il bene e quella che avrebbe diritto alla restituzione dello stesso) ricalca l’art. 324 c.p.p. con la precisazione che, in sintonia con l’obbligo di riconoscimento ed esecuzione immediata ai sensi dell’art. 6, è esclusa la sindacabilità nel merito. Tale ultima limitazione viene riferita solo al giudizio di impugnazione dinanzi all’autorità di esecuzione, con la
conseguenza che si dovrebbe potere accedere, nell’ambito dell’ordinamento dell’autorità che ha emesso
il provvedimento eseguito, agli ordinari strumenti di impugnazione.
INIZIATIVA VERSO L’ESTERO: TRASMISSIONE DIRETTA
In caso di richiesta verso l’estero, il meccanismo di esecuzione transfrontaliera dei provvedimenti di
blocco dei beni o di sequestro probatorio prevede l’attivazione dell’autorità giudiziaria emittente il
provvedimento. Ai sensi dell’art. 12, quest’ultima deve trasmettere il provvedimento direttamente
all’autorità dello Stato membro nel cui territorio si dovrà eseguire, chiedendo il trasferimento della
prova o la confisca del bene. In alternativa, l’autorità richiedente deve fornire indicazioni in merito al
trasferimento o alla confisca nel certificato da allegare alla trasmissione diretta e redatto secondo il modello allegato al decreto legislativo in commento. Tale forma di comunicazione diretta tra autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento e autorità che lo dovrà eseguire in territorio straniero è prevista dall’art. 4 della decisione quadro 2003/577/GAI.
***
DISPOSIZIONI PER CONFORMARE IL DIRITTO INTERNO ALLA DECISIONE QUADRO 2009/829/GAI DEL CONSIGLIO SULL’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DEL RECIPROCO RICONOSCIMENTO ALLE DECISIONI SULLE MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE CAUTELARE
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36)
Tra gli intenti menzionati nella decisione quadro 2009/829/GAI, vi è il rafforzamento della protezione
dei cittadini in generale da attuarsi mediante la sorveglianza, da parte dello Stato di residenza, dei soggetti sottoposti a procedimento penale nell’ambito di un altro Stato. Scopo ambizioso è il superamento
di quella che viene descritta come alternativa secca tra detenzione cautelare e circolazione senza controllo. L’interesse, in questa prospettiva, è soprattutto tutelare più efficacemente la presunzione di innocenza mediante un più ampio ricorso a misure alternative alla detenzione. Così, la decisione quadro
2009/829/GAI si pone il problema dell’uniformità di trattamento nell’ambito dell’UE onde scongiurare
il pericolo di legare le modalità di trattamento della libertà di un soggetto sottoposto a procedimento
penale solo all’evenienza di trovarsi o risiedere in un Paese piuttosto che in un altro (considerando n.
5). Nella decisione quadro, si incentiva il ricorso all’impiego della teleconferenza o videoconferenza al
fine di evitare spostamenti onerosi per i soggetti coinvolti; si invita, altresì, al ricorso a sistemi di sorveglianza elettronica, in modo da limitare le restrizioni personali precedenti alla condanna. Il considerando n. 15 ribadisce, invece, il principio di sussidiarietà di cui all’art. 2 TUE, preso atto dell’insufficienza
dell’azione degli Stati per conseguire l’obiettivo del reciproco riconoscimento delle misure cautelari.
Su tali presupposti, il d.lgs. n. 36 del 2016 (in Gazz. Uff., 11 marzo 2016, n. 59; entrata in vigore il 26
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marzo 2016) dà attuazione a tale decisione quadro affrontando (come di consueto) il problema nella
duplice prospettiva di richiedere all’estero ovvero ricevere una domanda di riconoscimento della misura cautelare alternativa alla detenzione.
L’art. 3 individua nel Ministero della Giustizia e nell’autorità giudiziaria gli organi competenti in subiecta materia. L’art. 4 delimita, invece, l’ambito applicativo delle misure cautelari alternative alla detenzione interessate: obbligo di comunicare ogni cambiamento di residenza al fine di garantire la propria
reperibilità; divieto di frequentazione di determinati luoghi o persone; obbligo di permanenza in un determinato luogo; restrizioni al diritto di trasferimento all’estero; obbligo di presentazione; divieto di
esercizio di determinate attività.
I) TRASMISSIONE ALL’ESTERO
Nel caso di applicazione, da parte dell’autorità interna, di una misura cautelare alternativa alla detenzione, al soggetto residente legalmente e abitualmente in altro Stato membro è riconosciuta la possibilità di farvi rientro per dare ivi esecuzione alla misura alternativa stessa. Al requisito della residenza legale va unita l’esistenza di un’effettiva situazione di fatto; nella decisione quadro ispiratrice, invece, si
fa riferimento alla residenza abituale. Qualora l’interessato manifesti tale volontà, il pubblico ministero
dispone la trasmissione (direttamente o, se è necessaria la traduzione, per il tramite del Ministero della
giustizia, art. 7) la decisione sulle misure cautelari all’autorità competente dello Stato membro. È prevista, altresì, la facoltà di trasferimento in altro Stato ove il soggetto non abbia la residenza abituale e legale, ma in questo caso è necessario il consenso dell’autorità competente. Oltre al provvedimento applicativo della misura alternativa, è prevista la trasmissione di un certificato (redatto secondo un modello
allegato al decreto) in cui si dà atto del consenso dell’interessato e, ove necessario, dell’autorità ricevente (art. 6).
Fino a quando l’esecuzione all’estero non abbia avuto inizio, il pubblico ministero può ritirare il certificato nel caso in cui l’autorità estera comunichi termini di durata massima della misura superiori a
quelli previsti dalla legge italiana ovvero quando riceva la comunicazione che l’autorità estera abbia
deciso di adattare la misura alla legislazione interna (art. 7). Non è chiaro tale meccanismo di blocco
della procedura, nella misura in cui non si comprende entro quali spazi temporali può pervenire la comunicazione dall’estero che potrebbe fare cambiare idea al pubblico ministero; soprattutto, nella misura in cui l’inizio dell’esecuzione all’estero sembra innescare un processo irreversibile. Tuttavia, il potere
di modifica della decisione sulla misura cautelare (art. 8, comma 3) conferma la permanenza della competenza dell’autorità italiana a decidere sull’applicazione della misura.
L’avvenuto riconoscimento da parte dell’autorità estera solleva l’autorità italiana dalla sorveglianza
degli obblighi e delle prescrizioni impartite (art. 8); la riassunzione degli stessi può avvenire in caso di
cessazione della competenza dell’autorità estera se: l’interessato si trasferisce in altro Stato; vi è incompatibilità con le modifiche eventualmente intervenute ad opera dell’autorità italiana; è scaduto il termine massimo previsto dalla legislazione dello Stato estero.
II) TRASMISSIONE DALL’ESTERO
Il riconoscimento interno della decisione sulle misure cautelari diverse dalla detenzione spetta alla corte di appello del distretto ove il soggetto ha la residenza legale e abituale (art. 9). Le condizioni per il riconoscimento (art. 10, comma 1) sono: la doppia punibilità del fatto dal quale scaturiscono le misure
cautelari alternative alla detenzione, a meno che non si ricada nelle ipotesi previste dall’art. 11 contenente delle deroghe alla doppia punibilità; la volontà del soggetto di eseguirla nello Stato; la compatibilità applicativa tra legislazione italiana ed estera. È previsto un potere di adeguamento da parte della
corte di appello (con divieto di reformatio in peius) qualora la natura o la durata degli obblighi e delle
prescrizioni impartite siano incompatibili con la legislazione italiana; di tali interventi se ne dà comunicazione all’autorità estera richiedente (art. 10, comma 2).
Qualora il certificato trasmesso dall’autorità estera sia incompleto o difforme rispetto alla decisione
sulle misure cautelari o comunque insufficiente ai fini del riconoscimento, la corte di appello può richiedere la trasmissione di un nuovo certificato (art. 12). La corte decide entro 10 giorni senza formalità
e trasmette il provvedimento al procuratore generale presso la corte di appello per l’esecuzione. Contro
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il provvedimento di riconoscimento si può ricorrere per cassazione. La decisione definitiva è trasmessa
dal Ministero della giustizia all’autorità estera competente.
Il riconoscimento può essere rifiutato, previa consultazione dell’autorità estera richiedente, se mancano le condizioni per il riconoscimento previste dall’art. 10, comma 1 (v. supra), se il certificato è incompleto o manifestamente non corrispondente alla decisione di cui si chiede il riconoscimento, se ricorre la violazione del ne bis in idem; il rigetto non è preceduto dalla consultazione in caso di mancata
doppia punibilità (a meno che non si ricada in materia di tasse e imposte), di prescrizione del reato presupposto, di immunità o di mancanza di imputabilità.
Una volta effettuato il riconoscimento, competente per l’esecuzione della misura è il procuratore generale presso la corte di appello e la disciplina applicabile è quella italiana, rimanendo ferma, invece, la
competenza dell’autorità estera per eventuali modifiche o revoche della decisione applicativa della misura riconosciuta (art. 14, comma 3).
L’art. 15 prevede le ipotesi di cessazione della competenza dell’autorità italiana per l’esecuzione della misura riconosciuta. Oltre che in caso di trasferimento all’estero dell’interessato (lett. a) e b)), la sorveglianza viene meno qualora, in caso di modifiche medio tempore intervenute da parte dell’autorità
estera, sopravvenga l’incompatibilità della misura con la legislazione italiana (lett. c)), se scadono i termini massimi fissati dalla normativa italiana e in caso di inerzia dell’autorità estera dinanzi all’inosservanza agli obblighi o alle prescrizioni prontamente comunicata dall’autorità italiana.
***
DISPOSIZIONI PER CONFORMARE IL DIRITTO INTERNO ALLA DECISIONE QUADRO
RIA DEL RECIPROCO RICONOSCIMENTO DELLE SANZIONI PECUNIARIE
2005/214/GAI IN MATE-
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37)
Il d.lgs. n. 37/2016 (in Gazz. Uff., 12 marzo 2016, n. 60; entrata in vigore il 27 marzo 2016) dà attuazione alla decisione quadro 2005/214/GAI. Oggetto del reciproco riconoscimento utile all’avvicinamento delle
singole legislazioni nazionali sono, questa volta, le sanzioni pecuniarie. Lo schema ricalca, in gran parte, il
riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare (v. supra).
I) TRASMISSIONE ALL’ESTERO
In capo al pubblico ministero presso il tribunale che ha emesso la decisione definitiva di condanna al
pagamento di una sanzione pecuniaria (penale ovvero amministrativa) è fissata la competenza per la
trasmissione all’autorità dello Stato membro ove il condannato disponga di beni o di un reddito ovvero
vi risieda e dimori abitualmente ovvero, se persona giuridica, vi abbia la sede legale (art. 4). Anche qui,
non si comprende se il doppio requisito della residenza legale e della dimora abituale possa impedire il
riconoscimento laddove alla residenza formale non corrisponda la dimora abituale; nella decisione
quadro ispiratrice si fa riferimento solo alla residenza abituale. Allegato alla decisione di condanna è il
certificato redatto secondo il modello prescritto dal d.lgs. n. 37 del 2016 (art. 5).
Avvenuto il riconoscimento da parte dell’autorità estera, l’obbligo dell’autorità italiana di provvedere all’esecuzione viene meno e, successivamente, si riassume nel caso di mancata esecuzione da parte
dell’autorità estera, di amnistia o grazia. Non è chiara l’ipotesi di riassunzione nel caso di rifiuto del riconoscimento (art. 7, comma 2, lett. b)): in questo caso, non dovrebbe neanche verificarsi la perdita del
potere di eseguire la misura (art. 7, comma 1).
II) TRASMISSIONE DALL’ESTERO
Gli artt. 8 ss. si occupano della procedura di esecuzione nel territorio dello Stato di una sanzione pecuniaria irrogata da un’autorità estera. La competenza a riconoscere il provvedimento contenente la sanzione pecuniaria è della corte d’appello nel cui distretto si prefigurano i presupposti per il riconoscimento (art. 9): luogo in cui il condannato dispone di beni o redditi ovvero risiede e dimora abitualmenSCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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te (rimangono gli stessi dubbi sollevati per la procedura attiva, v. art. 4) ovvero ha la propria sede legale. Presupposto ulteriore è la doppia punibilità o la ricorrenza di una delle fattispecie di cui all’art. 10.
Nel momento in cui riceve la decisione sulla condanna unitamente al certificato secondo il modello
allegato al decreto in esame (sarebbe stato più opportuno rinviare al modello allegato alla decisione
quadro, unico punto di riferimento per tutti gli Stati membri), il procuratore generale presso la corte di
appello competente ne richiede il riconoscimento senza ritardo.
Salvo il caso in cui si renda necessario l’invio di un nuovo certificato da parte dell’autorità estera
(art. 11, comma 2), la corte di appello decide con procedimento ai sensi dell’art. 127 c.p.p. entro venti
giorni dal ricevimento della decisione da riconoscere, prorogabile di 30 giorni nel caso di circostanze
eccezionali che ne rendano impossibile il rispetto. La scansione puntuale della tempistica è una premura tutta italiana, considerato che nella decisione quadro si parla di riconoscimento “senza ulteriori formalità” e di adozione “immediata di tutti i provvedimenti necessari all’esecuzione”. L’architettura studiata dal legislatore italiano sembra non accogliere in toto le prospettive europee finalizzate a una più
semplice circolazione delle decisioni emesse dalle diverse autorità nazionali; oltretutto, la decisione della corte di appello sul riconoscimento è ricorribile in cassazione (con ulteriore proroga di 30 giorni). Al
giudizio di cassazione, poi, si applica la disciplina del MAE (art. 22, legge n. 69 del 2005) che prevede il
controllo anche nel merito, la sospensione dell’esecuzione e la possibilità di annullamento con rinvio
alla corte di appello per nuovo giudizio. L’innalzamento delle garanzie interne (minori rispetto al riconoscimento delle decisioni sulle misure cautelari alternative alla detenzione, v. supra, d.lgs. n. 36 del
2016) costituisce una barriera a una più snella condivisione degli affari giudiziari nell’area comunitaria.
RIFIUTO DEL RICONOSCIMENTO
Il rifiuto del riconoscimento è legato alla mancata doppia punibilità del fatto come reato o, comunque,
alla non appartenenza all’elenco dei reati-presupposto, all’incompletezza del certificato trasmesso con
la richiesta estera, al bis in idem, all’estinzione del reato per prescrizione, all’immunità o imputabilità del
soggetto, alla commissione del reato fuori del territorio dello Stato estero richiedente nei casi in cui la
legge italiana non prevede la punizione dei reati commessi all’estero (art. 12). Il rigetto può essere, poi,
deciso dalla corte di appello nei casi di violazione del diritto alla partecipazione effettiva del condannato al processo che l’ha riguardato; in particolare, occorre assicurarsi che il soggetto, in caso di procedura
cartolare, sia stato informato della possibilità e dei tempi per opporvisi ovvero, in caso di processo in
absentia, sia consapevole e volontaria la rinuncia a partecipare o a un nuovo processo.
ESECUZIONE
All’esecuzione provvede il procuratore generale presso la corte di appello competente. L’art. 13 prevede espressamente lo scorporo di somme che il soggetto condannato abbia già pagato. In caso di esecuzione impossibile in tutto o in parte, si può dare corso, in caso di consenso dello Stato richiedente, alla
conversione in pene alternative secondo la legislazione italiana.
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DISPOSIZIONI PER CONFORMARE IL DIRITTO INTERNO ALLA DECISIONE QUADRO 2008/947/GAI DEL CONSIGLIO, DEL 27 NOVEMBRE 2008, RELATIVA ALL’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DEL RECIPROCO RICONOSCIMENTO ALLE SENTENZE E ALLE DECISIONI DI SOSPENSIONE CONDIZIONALE IN VISTA DELLA SORVEGLIANZA DELLE MISURE DI SOSPENSIONE CONDIZIONALE E DELLE SANZIONI SOSTITUTIVE
(D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 38)
Il d.lgs. n. 38 del 2016 (in Gazz. Uff., 14 marzo 2016, n. 61; entrata in vigore il 29 marzo 2016) dà attuazione alla decisione quadro 2008/947/GAI, il cui scopo è il rafforzamento della cooperazione giudiziaria mediante il reciproco riconoscimento delle decisioni in materia di pene non detentive. Alla base, vi è
ovviamente la preoccupazione per il reinserimento sociale del condannato da attuarsi unitamente al
miglioramento per la protezione delle vittime.
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L’art. 4 delimita l’ambito operativo del d.lgs. n. 38/2016 prevedendo, quali obblighi e prescrizioni
impartiti con la sospensione condizionale della pena, che le sanzioni sostitutive o la liberazione condizionale siano oggetto di disciplina.
I) TRASMISSIONE ALL’ESTERO
Il pubblico ministero competente per l’esecuzione trasmette la sentenza o la decisione di liberazione condizionale all’autorità competente dello Stato membro in cui la persona condannata ha la residenza legale
e abituale o del diverso Stato membro indicato dal condannato e che abbia prestato il consenso al riconoscimento (art. 5). Presupposto per l’invio è il passaggio in giudicato della condanna ovvero l’avvenuta liberazione condizionale e che si tratti di obblighi e prescrizioni riguardanti un periodo uguale o maggiore
di sei mesi. Unitamente alla decisione va trasmesso il certificato secondo il modello allegato al decreto legislativo in esame; l’inoltro avviene per il tramite del Ministero della giustizia ovvero, qualora non sia richiesta la traduzione, direttamente dall’autorità giudiziaria (art. 7). Fino all’inizio dell’esecuzione, il pubblico ministero può ritirare il certificato (e, quindi, bloccare la procedura) qualora l’autorità estera comunichi che la legislazione di quello Stato prevede l’applicazione di una misura restrittiva della libertà personale di durata superiore a quella della legislazione interna ovvero che sia stata assunta la decisione di
adattare le misure di sospensione condizionale alla legislazione dello Stato estero di esecuzione. Rimangono sbiaditi i contorni temporali entro i quali possa agire il ripensamento del pubblico ministero.
L’avvenuto riconoscimento da parte dell’autorità estera determina la cessazione della competenza
esecutiva dell’autorità giudiziaria italiana che, tuttavia, può essere riassunta laddove venga comunicata, da parte dell’autorità estera di esecuzione, la fine della propria competenza per l’esecuzione in ragione del fatto che la persona condannata si è sottratta all’esecuzione o non ha più in quello Stato la residenza e la dimora abituale (art. 8).
II) TRASMISSIONE DALL’ESTERO
La competenza interna per il riconoscimento di decisioni estere è della corte di appello nel cui distretto
la persona condannata ha la residenza legale e abituale. Per potere accogliere la richiesta estera, la corte
d’appello deve ravvisare congiuntamente le condizioni fissate dall’art. 10. In particolare, la residenza
legale e abituale nel territorio dello Stato o la volontà di ivi recarsi per stabilire la residenza legale e abituale, la doppia punibilità (o la ricorrenza di una delle ipotesi di reato previste dal successivo art. 11) e
la compatibilità per natura e durata tra legislazione interna e obblighi e prescrizioni di cui si richiede il
riconoscimento (in quest’ultimo caso, è previsto che la corte d’appello proceda ai necessari adeguamenti informandone lo Stato di emissione).
Il procedimento è scandito dall’art. 12 che, fissata la competenza della corte d’appello per la ricezione delle richieste di riconoscimento dall’estero, prevede la possibilità di una richiesta di integrazione
del certificato nel caso in cui lo stesso risulti incompleto, manifestamente difforme rispetto alla decisione da eseguire ovvero insufficiente ai fini dell’accoglimento della richiesta. Si applica l’art. 127 c.p.p.
per l’adozione della decisione entro il termine di trenta giorni prorogabile di venti in caso di richiesta di
integrazioni all’autorità estera; la decisione è ricorribile per cassazione, con rinvio alla procedura prevista per il MAE (art. 22, l. n. 69 del 2005). Quindi, il giudizio di cassazione si estende anche al merito e
l’esecuzione è sospesa fino alla decisione da adottarsi entro 15 giorni dalla ricezione degli atti.
RIFIUTO DEL RICONOSCIMENTO
Le ipotesi di rifiuto (art. 13) ricalcano pedissequamente quelle già previste dall’attuazione del riconoscimento delle sanzioni pecuniarie (v., supra, d.lgs. n. 37 del 2016).
ESECUZIONE
Ottenuto il riconoscimento, per la sorveglianza si applica la legislazione italiana ed è competente il procuratore generale presso la corte di appello (art. 14). Rimane ferma la competenza della corte di appello
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per le decisioni inerenti alla sospensione condizionale della pena, alla liberazione condizionale e alle
sanzioni sostitutive (ad esempio, in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni imposte o
qualora venga commesso un nuovo reato).
Si verifica la cessazione dei poteri di sorveglianza dell’autorità italiana in caso di sottrazione agli obblighi e alle prescrizioni da parte del condannato ovvero in caso di insussistenza della residenza legale
e abituale nello Stato italiano (art. 15).
***
INTRODUZIONE DEL REATO DI OMICIDIO STRADALE E DEL REATO DI LESIONI PERSONALI STRADALI, NONCHÉ DISPOSIZIONI DI COORDINAMENTO AL DECRETO LEGISLATIVO 30 APRILE 1992, N. 285, E AL DECRETO
LEGISLATIVO 28 AGOSTO 2000, N. 274
(L. 23 marzo 2016, n. 41)
La legge n. 41/2016 (in Gazz. Uff., 24 marzo 2016, n. 70; entrata in vigore il 25 marzo 2016) introduce il
reato di omicidio stradale rispondendo all’esigenza di maggiore sicurezza per la circolazione dei veicoli. Sul fronte processuale, si apportano leggere modifiche all’apparato codicistico, prevalentemente riassumibili nell’inclusione di tali nuove fattispecie nell’ambito applicativo di taluni istituti già noti ma riferibili, secondo dinamiche proprie del doppio binario, solamente ad alcuni reati.
L’art. 1, comma 4, lett. a), estende l’applicazione della perizia disciplinata dall’art. 224 bis c.p.p.; di
modo che, quando si procede per i delitti di omicidio stradale (art. 589 bis c.p.) e di fuga del conducente
in caso di omicidio stradale (art. 589 ter c.p.), il giudice dispone con ordinanza, anche d’ufficio,
l’esecuzione coattiva di perizie che comportino atti idonei a incidere sulla libertà personale del soggetto
da sottoporvisi (prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici).
L’art. 1, comma 4, lett. b), introduce il comma 3-bis nell’articolato dell’art. 359 bis c.p.p. relativo al
prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi disposto in indagini preliminari da parte del
pubblico ministero d’urgenza. Infatti, sempre nei casi di cui agli artt. 589 bis e 589 ter c.p., dal rifiuto
opposto dal conducente di sottoporsi agli accertamenti dello stato di ebbrezza alcolica ovvero di alterazione correlata all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope può, ora, scaturire il decreto del pubblico
ministero (adottabile anche oralmente e successivamente confermato per iscritto) di esecuzione coattiva
degli accertamenti qualora vi sia il fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave o irreparabile pregiudizio alle indagini. In tali casi, gli ufficiali di polizia giudiziaria procedono all’accompagnamento dell’interessato presso il più vicino presidio ospedaliero al fine di sottoporlo al necessario
prelievo o accertamento e si procede all’esecuzione coattiva delle operazioni se la persona rifiuta di sottoporvisi. Il provvedimento così adottato dal pubblico ministero deve esser convalidato successivamente dal giudice per le indagini preliminari.
L’art. 1, comma 5, lett. a) e b) allunga la lista delle fattispecie presupposto per l’arresto obbligatorio e
facoltativo in flagranza, includendovi rispettivamente le ipotesi di omicidio stradale e lesioni personali
stradali aggravate dallo stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Con la riforma del comma 8 dell’art. 189 c.d.s., si esclude l’arresto in flagranza nel caso di lesioni personali stradali qualora il conducente si fermi e, occorrendo, presti assistenza a coloro che hanno subito danni alla persona, mettendosi immediatamente a disposizione
degli organi di polizia giudiziaria (art. 1, comma 6, lett. a)).
L’art. 1, comma 5, lett. c) e d), include, invece, i delitti di nuovo conio nell’elenco di quelli per i quali
è prevista la possibilità di una sola proroga delle indagini (art. 406, comma 2-ter, c.p.p.) e di quelli per i
quali la richiesta di rinvio a giudizio deve essere depositata entro trenta giorni dalla conclusione delle
indagini (art. 406, comma 2-ter, c.p.p.) e il termine tra la data del decreto che dispone il giudizio e la data fissata per il giudizio non deve essere superiore a sessanta giorni (art. 429, comma 3-bis, c.p.p.).
Per il reato di lesioni personali stradali, anche se aggravate, si procederà mediante citazione diretta a
giudizio dinanzi al tribunale monocratico (art. 550, comma 2, lett. e-bis), c.p.p.) emesso non oltre trenta
giorni dalla conclusione delle indagini preliminari (art. 552, comma 1-bis, c.p.p.) con data di comparizione fissata non oltre novanta giorni dalla data di emissione del decreto (art. 552, comma 1-ter, c.p.p.).
Si stabiliscono, dunque, criteri di priorità finalizzati al perseguimento di un più pronto ed efficace acSCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE
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certamento processuale dei reati in esame, da attuarsi anche mediante la sottrazione delle lesioni personali stradali alla competenza del giudice di pace (art. 1, comma 7).
L’art. 1, comma 6, lett. b), interviene sull’art. 222 c.d.s. che, nel prevedere la pena accessoria della revoca della patente per i condannati (anche ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) per i delitti di cui agli artt. 589 bis
e 590 bis c.p., prescrive la trasmissione al prefetto della sentenza irrevocabile di condanna nel termine di
15 giorni (dall’irrevocabilità).
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Francesca Manfredini
GLI ACCORDI BILATERALI DI COOPERAZIONE CON FRANCIA E KAZAKHSTAN
L’ACCORDO TRA ITALIA E FRANCIA IN MATERIA DI COOPERAZIONE BILATERALE PER L’ESECUZIONE DI
OPERAZIONI CONGIUNTE DI POLIZIA
In data 1° dicembre 2015, il Presidente della Repubblica ha promulgato la Legge di ratifica ed esecuzione
dell’accordo tra il Ministro dell’Interno della Repubblica italiana e il Ministro dell’Interno della Repubblica francese in materia di cooperazione bilaterale per l’esecuzione di operazioni congiunte di polizia (legge 1° dicembre
2015, n. 215, in Gazz. Uff., 8 gennaio 2016, n. 5).
L’Atto internazionale, siglato a Lione il 3 dicembre 2012, introduce uno specifico strumento giuridico, volto a regolamentare le operazioni congiunte tra le forze di sicurezza interna dei rispettivi Stati, nel
pieno rispetto della normativa vigente in materia a livello europeo, all’interno della quale rientra il
Trattato di Prüm, firmato il 27 maggio 2005, a cui l’Italia ha aderito con la legge 30 giugno 2009, n. 85 (in
Gazz. Uff., 13 luglio 2009, n. 160).
L’Accordo bilaterale in esame, inoltre, richiama espressamente la Decisione del Consiglio dell’Unione europea 2008/615/GAI, nonché la relativa Decisione di attuazione 2008/616/GAI del 23 giugno
2008, le quali, recependo le disposizioni del Trattato di Prüm nel quadro giuridico dell’Unione, disciplinano il potenziamento della cooperazione transfrontaliera, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla
criminalità.
Fermo restando che alcuni profili concernenti l’intervento delle forze di polizia di uno Stato nel territorio di un altro risultano già disciplinati dalla normativa nazionale, alla luce dell’adesione della Repubblica italiana all’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 e alla relativa Convenzione applicativa
del 19 giugno 1990 (ratificati con la legge 30 settembre 1993, n. 388, in Gazz. Uff., 2 ottobre 1993, n. 232),
è possibile rilevare che l’Accordo in esame rappresenta un’ideale evoluzione dei c.d. "Commissariati
europei", servizi di prevenzione generale svolti tra il 2008 e il 2011 dal personale di polizia italiano e
francese, istituiti nell’ambito di un progetto di collaborazione, precipuamente finalizzato alla lotta alla
criminalità, illegalità e terrorismo. Inoltre, è opportuno evidenziare come l’accordo bilaterale, di cui ci si
occupa, sia strettamente connesso all’art. 7 bis del d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni
dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 (in Gazz. Uff., 15 ottobre 2013, n. 242), il quale, all’interno delle norme
in materia di sicurezza per lo sviluppo, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e per la prevenzione e il contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale, ha previsto la possibilità di disporre operazioni congiunte nell’ambito di accordi internazionali di polizia, disciplinandone, altresì, alcuni profili
pratici, tra cui l’attribuzione di qualifiche pubbliche agli agenti stranieri e l’uso dei veicoli e delle armi
di servizio (Analisi tecnico-normativa, Atti parlamentari (Camera dei Deputati, n. 3085, pp. 9 e 10)).
Venendo al contenuto dell’atto, con la sua stipulazione le Parti contraenti si sono poste l’obiettivo di
potenziare la cooperazione di polizia, nonché di facilitare la realizzazione di operazioni di pubblica sicurezza e di assistenza ai cittadini, al fine di mantenere l’ordine pubblico, migliorare la sicurezza interna e prevenire la commissione di reati nei rispettivi Stati.
A tale scopo, si prevede che le autorità competenti per l’applicazione dell’Accordo (individuate, per
la Parte italiana, nel Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e, per la Parte
francese, nella Direzione della Cooperazione Internazionale del Ministero dell’interno (art. 1)) possano
concordare pattugliamenti ed altre operazioni congiunte, in cui gli agenti di uno Stato (c.d. agenti dello
Stato di invio) assistono gli agenti dello Stato nel cui territorio si svolge l’operazione congiunta (c.d.
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agenti dello Stato di destinazione) nell’esercizio delle loro funzioni. L’Accordo si premura di fornire la
nozione di “agenti”, i quali sono identificati nel personale appartenente alle amministrazioni competenti delle due Parti, impiegato nelle operazioni congiunte (art. 2).
Quanto alle modalità della cooperazione, l’art. 3 dell’Accordo precisa, da un lato, che l’assistenza
fornita dagli agenti dello Stato di invio deve essere principalmente diretta alle funzioni che coinvolgono
o interessano i cittadini dello Stato inviante e, dall’altro lato, che essa avvenga sotto il controllo e alla
presenza degli agenti dello Stato di destinazione. Inoltre, gli agenti della Parte di invio sono soggetti alle istruzioni della competente autorità dello Stato di destinazione per quanto concerne l’impiego e
l’organizzazione del servizio (art. 3, § 2), mentre, sotto il profilo disciplinare, l’art. 9 precisa che essi restano soggetti alle norme vigenti nel proprio Stato.
Nel corso delle operazioni, gli agenti dello Stato di invio possono indossare l’uniforme nazionale e
possono portare le armi, le munizioni e le attrezzature in base a quanto previsto dall’ordinamento dello
Stato inviante, seppure in conformità alle condizioni concordate con la competente Autorità dello Stato
di destinazione (art. 4). L’uso delle armi è consentito unicamente in caso di legittima difesa propria o
altrui, fermo restando il rispetto della legislazione dello Stato di destinazione (art. 4, § 2). Anche
l’utilizzo dei veicoli da parte degli agenti dello Stato di invio è disciplinato dalle norme di circolazione
stradale, che si applicano agli agenti dello Stato di destinazione (art. 5).
Viene, inoltre, specificato che ciascuna Parte è tenuta a prestare agli agenti dell’altra Parte, nell’esercizio delle loro funzioni, la medesima protezione e assistenza garantita ai propri agenti (art. 6).
L’Accordo in esame provvede anche a disciplinare i profili attinenti alla responsabilità civile e penale degli agenti coinvolti nelle operazioni congiunte. Quanto alla responsabilità civile, l’art. 7 prevede la
responsabilità dello Stato inviante con riferimento ai danni causati dai propri agenti nell’adempimento
dei loro servizi, conformemente alla legislazione dello Stato di destinazione. A tal proposito, viene precisato che lo Stato di destinazione provvederà al risarcimento dei danni alle medesime condizioni applicabili ai danni causati dai propri agenti e che lo Stato di invio rimborserà integralmente le somme
corrisposte (art. 7, §§ 2-3). Con riferimento alla responsabilità penale, l’art. 8 equipara gli agenti dello
Stato di invio a quelli dello Stato di destinazione, tanto in relazione ai reati da essi commessi, quanto in
relazione ai reati perpetrati nei loro confronti.
Le operazioni congiunte, ai sensi dell’art. 11, verranno organizzate d’intesa tra le Autorità competenti attraverso specifici protocolli, all’interno dei quali saranno definite le relative condizioni di svolgimento, compresi i poteri degli agenti e le condizioni di impiego di armi, munizioni e attrezzature.
L’accordo prevede che eventuali controversie inerenti all’interpretazione e all’attuazione del medesimo vengano risolte tramite negoziati e consultazioni tra le due Parti (art. 10).
Con riferimento agli aspetti di natura finanziaria, l’art. 12 dispone che il finanziamento della cooperazione è a carico di entrambe le Parti: di norma, lo Stato di destinazione dovrà concedere agevolazioni
per l’alloggio e il vitto degli agenti dello Stato di invio, mentre quest’ultimo dovrà farsi carico delle spese di trasferimento, della retribuzione e delle indennità di missione dei propri agenti.
Infine, l’art. 13 precisa che l’Accordo ha durata pari a 5 anni e prevede che lo stesso sia tacitamente
rinnovabile per ulteriori periodi di analoga portata. La medesima disposizione disciplina la possibilità
di emendare l’Accordo su reciproco consenso delle Parti, nonché di denunciarlo per iscritto e per via
diplomatica in qualsiasi momento.
L’ACCORDO TRA ITALIA E KAZAKHSTAN PER LA COOPERAZIONE NEL CONTRASTO ALLA CRIMINALITÀ
ORGANIZZATA, AL TRAFFICO ILLECITO DI SOSTANZE STUPEFACENTI, AL TERRORISMO E AD ALTRE FORME
DI CRIMINALITÀ
Con la legge 7 dicembre 2015, n. 216 (in Gazz. Uff., 8 gennaio 2016, n. 5) è stata autorizzata la ratifica
dell’Accordo fra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica del Kazakhstan di cooperazione nel contrasto alla criminalità organizzata, al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope, di precursori e
sostanze chimiche impiegate per la loro produzione, al terrorismo ed altre forme di criminalità, concluso a Roma
il 5 novembre 2009.
Tale Accordo si inserisce all’interno della progressiva intensificazione dei rapporti tra i due Stati, che
ha dapprima riguardato il settore economico e quello militare, e poi si è estesa anche all’ambito penale.
A tal proposito, si richiamano il Memorandum sulla cooperazione fra la Procura Generale della Repubblica del
Kazakhstan e la Direzione Nazionale Antimafia italiana nella lotta alla criminalità organizzata e al riciclaggio dei
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proventi di reato del 28 maggio 2003, il Trattato sul trasferimento delle persone condannate del novembre
2013 (ratificato con la legge 16 giugno 2015, n. 79, in Gazz. Uff., 23 giugno 2015, n.143, per la cui analisi v.
P. Zoerle, Novità sovranazionali, in questa Rivista, 2015, 5, pp. 13-15), nonché l’Accordo in materia di estradizione e l’Accordo di cooperazione in materia penale, firmati il 22 gennaio 2015.
Con la stipulazione dell’Accordo in esame, le Parti hanno inteso, in particolare, adottare misure efficaci per prevenire, contrastare e reprimere la criminalità organizzata, nonché i reati connessi alle sostanze stupefacenti, all’immigrazione clandestina e al terrorismo, in conformità alle rispettive legislazioni nazionali e ai pertinenti accordi internazionali da esse riconosciuti, che vengono espressamente
richiamati (Dossier n. 247, Camera dei Deputati, 2 dicembre 2014).
Posto che l’ambito di applicazione del presente atto non comprende la reciproca assistenza legale in
materia di criminalità ed estradizione (art. 1), l’art. 2 dell’Accordo individua i reati inclusi nella cooperazione (tra i quali rientrano il traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope; i crimini riferibili ad
attività economiche; la corruzione; il terrorismo; il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; il
traffico di esseri umani; i reati contro la proprietà; i reati ambientali ed informatici; il traffico illecito di
armi, di materiali nucleari e di opere d’arte) e specifica che, previo consenso delle Parti, tale catalogo
potrà essere integrato dagli ulteriori reati, che le Parti siano interessate a perseguire.
Le specifiche modalità di cooperazione, disciplinate dall’Accordo, sono differenziate in ragione delle
categorie di reati che vengono in rilievo. In particolare, con riferimento alla criminalità organizzata,
l’art. 4 prevede una strategia fondata sullo scambio sistematico di informazioni, pubblicazioni e atti
normativi, relativi a tali forme di criminalità e al loro contrasto, nonché di informazioni riguardanti i
mezzi tecnici di sicurezza personale impiegati in operazioni speciali. Viene, inoltre, previsto lo scambio
di esperti e l’organizzazione di corsi di formazione, concernenti specifiche tecniche investigative e operative, oltre alla cooperazione nella conduzione di ispezioni operative e allo scambio di esperienze e
conoscenze tecniche, relative alla sicurezza delle reti di comunicazione telematica, dei trasporti aerei,
marittimi e ferroviari, al fine di migliorare gli standard di sicurezza adottati per la prevenzione di atti
terroristici. Infine, la disposizione in esame stabilisce che gli organismi competenti delle Parti (che l’art.
3 individua, per l’Italia, nel Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e, per il Kazakhstan, nel Ministero degli Affari Interni e negli altri organismi preposti alla sicurezza, agli affari internazionali e alla prevenzione dei crimini economici) sono tenuti a fornire assistenza reciproca nelle
indagini sui crimini, nonché nella ricerca e detenzione di persone sospettate di aver commesso un illecito penale, in conformità alle rispettive disposizioni di diritto interno e nell’ambito delle proprie competenze.
Con riferimento alla cooperazione inerente alla lotta al traffico di sostanze stupefacenti, psicotrope,
tossiche e di precursori, l’art. 5 dispone che le Parti forniscano le necessarie informazioni, nel rispetto
delle legislazioni nazionali sulle condizioni di reciprocità. Più in dettaglio, è previsto lo scambio di dati
relativi alle persone sospettate di aver commesso un reato; lo scambio di informazioni concernenti le
circostanze del reato e gli atti illegali correlati alla dispersione delle sostanze; lo scambio di esperienze
pratiche e di pubblicazioni scientifiche, oltre allo scambio di ogni altro tipo di informazione, che non sia
in contrasto con la legislazione della Parte a cui vengono richieste. Infine, è prevista l’adozione di misure comuni per contrastare il traffico di sostanze, all’interno delle quali sono espressamente annoverate
le c.d. “consegne controllate” e le “attività sotto copertura”.
Anche la strategia di collaborazione finalizzata al contrasto del terrorismo è basata sullo scambio di
informazioni, le quali dovranno riguardare gli atti terroristici pianificati e compiuti, i relativi preparativi e le forme e i metodi del loro compimento (art. 6). Gli Stati dovranno essere informati circa i gruppi
terroristici e le persone che pianificano, compiono o hanno compiuto reati contro gli interessi dell’altra
Parte. Verrà fatto ricorso allo scambio di informazioni concernenti persone sospettate di appartenere ad
organizzazioni estremiste, ogni volta che ciò risulti necessario ai fini del contrasto di atti terroristici e
della prevenzione di reati, che costituiscano una minaccia per la sicurezza nazionale e pubblica. Viene
altresì precisato che tale scambio dovrà avvenire unicamente tra le unità antiterrorismo dei competenti
organi delle Parti.
Sullo scambio di informazioni si fonda pure la cooperazione volta al contrasto dell’immigrazione
clandestina. A tal proposito, in particolare, l’art. 7 dispone che le comunicazioni abbiano ad oggetto
l’attraversamento clandestino dei confini di Stato da parte di persone provenienti dal territorio delle
Parti, la scoperta di falsa documentazione, nonché le attività perpetrate dai gruppi di criminalità organizzata coinvolti in tale fattispecie di reato.
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Poiché le informazioni, che saranno scambiate dalle Parti, avranno ad oggetto dati personali e sensibili, l’art. 9 dell’Accordo ne dispone un’adeguata tutela, prevedendo che questi ultimi possano essere
utilizzati unicamente per gli scopi previsti dall’Accordo stesso, conformemente al diritto interno delle
Parti e degli accordi internazionali dalle stesse riconosciuti. Inoltre, tali dati potranno essere trasmessi a
terzi, sempre per gli scopi contemplati dall’Accordo, previa autorizzazione scritta della Parte che li
aveva originariamente comunicati.
L’Accordo stabilisce le condizioni che giustificano il rifiuto di prestare assistenza, individuandole
nelle ipotesi in cui una delle Parti ritenga che la relativa richiesta sia suscettibile di compromettere la
sovranità o la sicurezza del proprio Paese o altri interessi statuali di primaria importanza o, ancora, che
essa sia in contrasto con la propria legislazione nazionale (art. 10).
Da ultimo, l’Accordo prevede che la risoluzione delle controversie inerenti all’interpretazione delle
sue disposizioni avvenga tramite la negoziazione e la consultazione tra le Parti (art. 12). Si precisa, infine, che il testo dell’atto potrà essere modificato o integrato tramite protocolli aggiuntivi, previo reciproco consenso delle Parti (art. 13), e che, poiché l’Accordo ha durata illimitata, esso rimarrà in vigore finché una delle Parti non notifichi all’altra, tramite canali diplomatici, la propria intenzione di denunciarlo (art. 14). In quest’ultima ipotesi, l’Accordo cesserà di produrre i suoi effetti sei mesi dopo la data della ricezione della notifica scritta.
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DE JURE CONDENDO
di Danila Certosino
LA TUTELA DEL FIGLIO MINORENNE DI GENITORI SOTTOPOSTI A MISURE LIMITATIVE DELLA LIBERTÀ PERSONALE
Il 16 febbraio 2016 la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati in sede referente ha iniziato
l’esame del d.d.l. C. 3523, recante «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di protezione dei minori i cui genitori siano tratti in arresto o sottoposti a pene detentive o a misure
cautelari restrittive della libertà personale», presentato il 12 gennaio 2016 su iniziativa dell’on. Bruno Bossio
ed altri.
La proposta di legge intende affrontare uno degli aspetti più significativi della questione dell’infanzia violata, quello del c.d. “indottrinamento mafioso”, cioè l’esposizione quotidiana e costante dei
minori, figli di genitori appartenenti alla criminalità organizzata, alle logiche antisociali e apertamente
contra legem che i clan pongono alla base della loro stessa sopravvivenza.
È noto, infatti, come all’interno delle organizzazioni criminali sussista un sistema di relazioni basate
essenzialmente sui rapporti di sangue, laddove il legame di consanguineità coincide con quello criminale e con la condivisione del contesto malavitoso.
Il processo di affiliazione comincia attraverso un’educazione, normalmente affidata alle donne, improntata all’insegnamento di valori distorti, basati sull’affermazione di una diversità che si nutre di codici e rituali propri ed illegali. Conseguentemente, per un bambino crescere in ambienti mafiosi – si
legge nella Relazione di accompagnamento – non significa solo «assorbire la negatività della dimensione valoriale sostenuta dalla sua famiglia, ma vuol dire anche subire la disincentivazione al processo naturale di progressivo distacco dal nucleo familiare d’appartenenza».
L’effetto inesorabile prodotto è quello della perdita definitiva della propria personalità, che viene a
dissolversi all’interno di un sistema di relazioni patologico, in cui è riconosciuto esclusivamente il
gruppo familiare e non i singoli membri che lo compongono.
Come evidenziato dalla Commissione parlamentare antimafia nell’ottobre del 2015, si profila, quindi, la necessità di trovare una linea univoca nella direzione della tutela dei minori esposti alle logiche di
inglobamento; in particolare, dalle varie audizioni svolte, è emerso un grave vuoto normativo per
quanto concerne le informazioni all’autorità giudiziaria minorile in ordine alla condizione detentiva di
uno dei genitori dei figli minorenni.
In effetti, al di là di quanto previsto dall’art. 609 decies c.p. – che riguarda alcune fattispecie di reato
particolarmente gravi, come la pornografia minorile o i maltrattamenti in famiglia –, non esiste un obbligo generale di informare il tribunale per i minorenni competente per territorio, nel caso in cui uno o
entrambi i genitori siano stati tratti in arresto, per una qualunque altra tipologia di reato.
Muovendosi lungo questa linea direttrice, il disegno di legge in commento si snoda, così, in tredici
articoli, finalizzati a statuire peculiari modifiche al codice di procedura penale, al codice penale, al codice civile, nonché al decreto del Ministro dell’interno 13 maggio 2005, n. 138, recante «Misure per il reinserimento sociale dei collaboratori di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione, nonché dei minori compresi nelle speciali misure di protezione».
Dal punto di vista processuale, gli artt. 1, 2, 3, 4, 7 e 8 prevedono la modifica degli artt. 371, 292, 296,
347 e 656 c.p.p., nonché l’introduzione dell’art. 387 bis c.p.p., al fine di affermare l’obbligo di informazione alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni dell’avvenuto arresto o fermo,
dell’applicazione di una misura cautelare a carattere restrittivo, della dichiarazione di latitanza e della
sentenza di condanna a pena detentiva, emesse nei confronti di uno o entrambi i genitori di minori di
diciotto anni. Il medesimo obbligo di informativa viene poi contemplato anche nell’ambito dell’art. 609
decies c.p., a seguito di quanto sancito dall’art. 5 della proposta de qua.
L’articolo 6, intervenendo nel contesto dell’art. 275 c.p.p., stabilisce l’obbligo della procura della Re SCENARI | DE JURE CONDENDO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
27
pubblica e della procura della Repubblica minorile di contemperare le esigenze di custodia cautelare
dei genitori di figli minorenni con i diritti al normale sviluppo psicofisico di questi ultimi.
Sotto il profilo sostanziale, l’articolo 9 del d.d.l., al fine di apprestare una maggior tutela nei confronti dei minori in presenza di rischi di indottrinamento mafioso, prevede l’inclusione, nell’ambito della
fattispecie di reato ex art. 572 c.p., della condotta di chi, in violazione dei doveri educativi connessi alla
responsabilità genitoriale, arrechi pregiudizio all’integrità psicofisica di un minore sottoposto alla sua
autorità o a lui affidato per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza e custodia.
Gli articoli 10, 11 e 12 contemplano modifiche agli articoli 9, 10 e 11 del decreto del Ministro dell’interno n. 138 del 2005 e intendono colmare il vuoto di tutela tra la proposta di ammissione al piano
provvisorio di protezione e la delibera della Commissione centrale sulla speciale misura di protezione,
onde evitare situazioni prolungate di limbo assistenziale per il minore, oltre che di assenza scolastica.
Infine, dal punto di vista civilistico, l’art. 13 introduce un meccanismo premiale per i soggetti genitori di figli minori ammessi a piani di protezione, con la finalità di prevedere una loro riammissione
alla responsabilità genitoriale, qualora ne fossero stati privati da un provvedimento precedente (art.
332 c.c.).
Dall’analisi appena effettuata emerge come il d.d.l. in commento intenda rafforzare maggiormente la
tutela del superiore interesse del minore, in piena sintonia con quanto solennemente sancito dall’art. 3,
§ 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo (c.d. Convenzione di New York), ai sensi del quale «in
tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza
sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del
fanciullo deve essere una considerazione preminente».
***
REQUISITI PER L’APPLICAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI PERSONALI
Il 25 gennaio 2016 è stato assegnato all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il
d.d.l. C. 3473, recante «Modifiche agli articoli 274 e 275 del codice di procedura penale, in materia di requisiti
per l’applicazione e di criteri di scelta delle misure cautelari», d’iniziativa dell’on. Chiarelli ed altri.
La proposta di legge si colloca nel solco tracciato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, entrata in vigore l’8
maggio 2015, che ha ridisegnato la disciplina in materia di misure cautelari.
In particolare, gli artt. 1 e 2 del recente provvedimento legislativo hanno modificato l’art. 274 c.p.p. –
che individua, come è noto, i pericula legittimanti l’applicazione di una misura cautelare personale – con
un duplice e “simmetrico” intervento sulle lett. b) (pericolo di fuga) e c) (pericolo di commissione di
gravi delitti o di delitti della stessa specie), ispirato dall’intento di condizionare l’applicazione delle misure cautelari ad una più rigorosa e stringente valutazione delle predette esigenze.
Per effetto della novella, ai fini dell’applicazione di un’eventuale misura cautelare personale, risulta
ora necessaria la sussistenza di un pericolo non più solo “concreto”, ma anche “attuale”, sia in merito
all’esigenza di cui alla lett. b), sia quanto a quella di cui alla lett. c) dell’art. 274 del codice di rito. Del resto, anche sotto l’imperio della norma previgente, la giurisprudenza di legittimità aveva identificato
nell’“attualità” del pericolo quasi un’intrinseca espressione della sua “concretezza”.
Tutti i parametri normativi individuati dall’art. 274 c.p.p. sono stati, così, conformati al requisito
dell’attualità dell’esigenza cautelare, già fissato con riferimento al “pericolo di inquinamento delle
prove”.
Con ulteriori importanti modifiche, la legge n. 47/2015 ha inteso ulteriormente ridurre la possibilità
di utilizzo della misura custodiale in carcere, sia nella fase applicativa che nel successivo svolgersi della
“vicenda cautelare”. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso la riaffermazione della funzione di extrema ratio attribuita dal sistema alla custodia in carcere, da un lato valorizzando il ricorso a soluzioni
alternative di nuovo conio (quale quella dell’applicazione congiunta delle altre misure coercitive, finora
praticabile solo nelle particolari circostanze di cui agli artt. 276, comma 1, e 307, comma 1-bis, c.p.p.), o
comunque di recente “riscoperte” dal legislatore (quale quella degli arresti domiciliari con le procedure
di controllo mediante l’utilizzo di dispositivi elettronici); dall’altro, intervenendo, in modo estremamente significativo, sulle disposizioni del codice che – in relazione ad alcuni titoli di reato (art. 275,
comma 3, c.p.p.), a particolari condotte trasgressive dell’indagato (art. 276, comma 1-ter, c.p.p.), o alle
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sue condizioni personali (art. 284, comma 5-bis, c.p.p.) – precludevano al giudice una valutazione discrezionale circa l’individuazione della misura più appropriata, sancendo una presunzione di adeguatezza della sola misura inframuraria.
Viene, così, escluso ogni automatismo ed ampliato, anche in relazione ad alcuni tra i più gravi reati
previsti dal nostro ordinamento, lo spazio per l’applicazione di misure cautelari personali alternative al
carcere.
Il disegno di legge in commento si compone di due articoli e – come evidenziato nella Relazione di
accompagnamento – nasce da uno studio approfondito della materia «che trova fondamento nell’allarme sociale in tema di terrorismo, attualmente assai preoccupante, strettamente correlato alle possibili
conseguenze della riforma che, al fine di contrastare il dramma tutto italiano del sovraffollamento carcerario, rischia di favorire gli autori di taluni reati anche assai gravi, tra cui quelli commessi nel settore
finanziario».
L’art. 1, modificando l’art. 274, comma 1, lett. b) e c) c.p.p., contempla la soppressione del requisito
dell’“attualità” per le misure riguardanti gli imputati dei delitti di cui agli artt. 270, 270 bis, 270 quater,
270 quater.1 e 270 quinquies c.p., come introdotti o modificati dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, conv. con
mod. dalla legge 17 aprile 2015, n. 43.
La ratio di tale previsione risiede nella ravvisata necessità di eliminare tale criterio alla luce del delicato periodo storico che stiamo vivendo, anteponendo la tutela della sicurezza dei cittadini ad esigenze,
pur rilevanti, che hanno presieduto alle recenti innovazioni sulla materia.
Merita precisare, infatti, che, ove al termine “attuale” si attribuisse il significato che esso assume nel
comune linguaggio, si rischierebbe di non poter mai ricorrere alle misure cautelari, al di fuori dei casi di
flagranza o di immediata e minima distanza temporale dai fatti.
Il successivo art. 2 del d.d.l. in esame opera, poi, una parziale modifica al testo dell’art. 275, comma
3, c.p.p., disponendo l’applicazione della misura di carattere custodiale – già prevista quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati di cui agli artt. 270, 270 bis e 416 bis c.p. (salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari) – anche alle ipotesi delittuose ex artt. 270 quater, 270 quater.1, 270 quinquies c.p., al fine di porre in essere un’efficace azione di
contrasto al fenomeno del terrorismo internazionale.
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Marcello Stellin
DIVIETO DI TORTURA – LIBERTÀ PERSONALE – RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE
(Corte e.d.u., 23 febbraio 2016, Nasr e Ghali c. Italia)
A meno di un anno di distanza dalla nota pronuncia Cestaro c. Italia – avente ad oggetto i fatti accaduti
presso la scuola Diaz-Pertini nel corso del G8 tenutosi a Genova nell’estate del 2001 – i giudici di Strasburgo rivolgono al nostro Paese una nuova reprimenda con riferimento al mancato rispetto, ad opera
dell’apparato statale, delle prescrizioni sancite dall’art. 3 della Cedu. La vicenda da cui la pronuncia in
esame prende le mosse è quella, balzata in cima alle cronache dell’ultimo decennio, relativa al sequestro
dell’Imam Abu Omar nel corso di un’operazione nota col nome di extraordinary rendition.
Si volga un rapido sguardo ai fatti. Il ricorrente, Osama Mustafa Nasr, altrimenti detto Abu Omar
(rifugiato politico in Italia, sospettato di associazionismo terroristico ex art. 270 bis c.p.), stando a quanto
emerso dalla sua prospettazione, oltre che dal materiale conoscitivo sottoposto al visus della Corte europea, sarebbe stato prelevato dalla città di Milano, in data 17 febbraio 2003, a seguito d’un agguato tesogli da una squadra composta da agenti della CIA e da un carabiniere appartenente ai ROS (§ 10). Caricata a forza su un furgone, la vittima veniva condotta presso la base militare americana di Aviano: un
aereo la trasportava presso un sito analogo, a Ramstein, in Germania, ove costei era costretta a salire su
un altro velivolo, successivamente atterrato al Cairo, in Egitto (11-12). Giunto sull’opposta sponda del
Mediterraneo, l’odierno ricorrente affrontava un duplice periodo di detenzione. Il primo si protraeva in
totale segretezza, avulso da qualsivoglia presupposto normativo, fino alla seconda metà di aprile del
2004 (§ 21): salvo il trasferimento in diverso luogo di prigionia (§ 17), il soggetto rimaneva ininterrottamente ristretto, in condizioni d’isolamento, all’interno di anguste celle, del tutto prive di finestre e di
servizi igienici; i carcerieri lo sottoponevano a continue vessazioni psicologiche, nonché a violenze fisiche e sessuali, allo scopo d’indurlo a confessare asseriti rapporti con alcune organizzazioni terroristiche,
d’ispirazione islamica, di stanza in Italia (§ 16). Impegnatosi a dichiarare di essersi recato in Egitto
spontaneamente e di non aver subito alcun maltrattamento, Abu Omar veniva, in seguito, rilasciato (§
20): egli riusciva, quindi, a contattare la propria moglie [anch’ella ricorrente (§ 22)], alcuni conoscenti, e
ad inviare una memoria alla procura milanese, la quale – grazie alla tempestiva segnalazione della di
lui consorte (§ 28) – aveva, nel frattempo, avviato un’indagine (§ 30). In tale missiva, l’odierno ricorrente aveva illustrato la vicenda di cui era stato vittima (§ 34). Nel maggio del 2004 l’autorità egiziana arrestava nuovamente Abu Omar, ponendolo, questa volta, in detenzione amministrativa – sulla scorta della legislazione antiterroristica – fino al 12 febbraio del 2007, data in cui egli veniva rilasciato in assenza
d’accuse a suo carico (§ 24). Il ricorrente non poteva fare, tuttavia, ritorno nello Stivale fino al giugno
del 2005 (§ 43), nonostante l’autorità giudiziaria avesse domandato all’Egitto di poterlo interrogare allo
scopo di chiarire le circostanze del presunto rapimento (§ 25). Nel frattempo, infatti, grazie ad una sapiente attività di controllo del traffico telefonico (§§ 36-37) ed aereo (§ 39), era stato possibile riscontrare
la versione della persona offesa ed identificare i presunti responsabili.
Si sviluppava, quindi, una vicenda caratterizzata da forti contrasti tra il potere giudiziario e quello esecutivo. L’indagine si era, infatti, ampliata, esplorando un possibile coinvolgimento del SISMI, giacché il carabiniere che aveva preso parte al sequestro aveva reso dichiarazioni in tal senso (§ 58). Gli allora vertici
del Servizio, ascoltati dall’autorità giudiziaria, opponevano, tuttavia, il segreto di Stato (§ 66); analoga condotta veniva tenuta dal Presidente del Consiglio (§ 67) e dal Ministero della Difesa (§ 70), cui era stato chiesto di fornire la documentazione afferente al sequestro del ricorrente ed alla pratica delle c.d. extraordinary
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renditions. Veniva, dunque, formulata richiesta di rinvio a giudizio (§ 72) nei confronti di trentacinque imputati (due dei quali accedevano all’applicazione della pena ex art. 444 c.p.p.) per le accuse di sequestro di
persona ovvero di favoreggiamento: tra l’esercizio dell’azione penale e la pronuncia della sentenza di
primo grado venivano sollevati, tuttavia, sei conflitti di attribuzione (§§ 76-97) concernenti la sussistenza
del segreto di Stato in ordine ai rapporti tra la CIA ed il SISMI (§ 88) – segreto, peraltro, confermato
dall’Esecutivo (§ 95) a seguito della procedura ex art. 202 c.p.p., attivata nel corso del dibattimento (§§ 9094) – e la conseguente (in)utilizzabilità dei relativi elementi di prova. Riuniti i ricorsi sollevati innanzi a sé,
la Consulta (sent. n. 196/2009) riconosceva la natura discrezionale del potere, in capo al PdCdM, di porre
il segreto su determinate notizie (§ 109). Viste le prescrizioni del Giudice delle leggi, il Tribunale milanese,
ritenuta l’inutilizzabilità delle prove afferenti alle predette circostanze (§ 110), condannava ventidue agenti della CIA per l’avvenuto sequestro e tre imputati italiani per favoreggiamento; veniva, tuttavia, pronunciata sentenza di non doversi procedere nei riguardi di tre imputati americani, oltre che dei vertici del
SISMI (§ 116), in forza, rispettivamente, dell’immunità diplomatica e del segreto di Stato [gli elementi secretati erano, infatti, essenziali ai fini della prova del coinvolgimento dei servizi, fatto comunque "lasciato
presumere" dalle circostanze (§ 113)]. Veniva disposta, altresì, una provvisionale a favore degli odierni ricorrenti, costituitisi parti civili (§ 117). Il non doversi procedere nei confronti dei membri del SISMI veniva
confermato dalla Corte d’Appello (§ 121). La Cassazione annullava, tuttavia, la sentenza in parte qua, prescrivendo al giudice di merito di sceverare con maggior precisione le fonti di prova utilizzabili: poiché,
infatti, tanto il Consiglio dei Ministri, quanto i vertici del Servizio avevano affermato l’estraneità del SISMI rispetto ai fatti di causa, le condotte dei singoli agenti – frutto d’iniziative individuali, estranee alle
rispettive funzioni – non potevano essere coperte dal segreto [che, al contrario, afferiva ai soli rapporti tra
le due agenzie (§ 122)]. A nulla rilevava, dunque, che gli agenti italiani avessero agito d’accordo con
membri di servizi stranieri, giacché non v’era stata alcun’autorizzazione da parte della struttura d’appartenenza (così, la corte di legittimità). La corte d’appello di Milano, con sentenza datata 12 febbraio 2013,
ravvisato il coinvolgimento dei membri del SISMI, concludeva, quindi, per la responsabilità dei cinque
agenti imputati (§ 124). La Consulta – ad esito d’un duplice conflitto d’attribuzione sollevato, ancora una
volta, dall’Esecutivo (§§ 126-127) – riteneva, tuttavia, da un lato, che l’operazione non potesse essere ascritta all’iniziativa dei singoli agenti (§ 130) e, dall’altro, che il segreto (la cui estensione era definibile unicamente dal «titolare del relativo munus») comprendesse tutte le interlocuzioni tra le due agenzie, a condizione che i fatti posti in essere fossero «oggettivamente orientati alla tutela della sicurezza dello Stato»
(così C. cost., sent. 24/2014, nonché il § 131 della pronuncia in esame). Con sentenza datata 24 febbraio
2014, n. 20447, la Suprema corte – preso atto che il dictum della Consulta eliminava qualunque possibilità
di verificare i fatti di causa (§ 133) – annullava senza rinvio la predetta condanna (§ 134).
Per quel che attiene, invece, agl’imputati d’origine americana, la condanna pronunciata a carico di
ventitré di costoro diveniva definitiva (§§ 137-140); anche quanti avevano inizialmente beneficiato dell’immunità diplomatica venivano riconosciuti colpevoli – con sentenza irrevocabile (§ 143) – dei fatti
loro ascritti (§ 142).
Le condanne rimanevano, tuttavia, ineseguite: nessuna richiesta d’estradizione veniva presentata, da
parte del competente ministero, nei confronti degli imputati americani (§ 145); tre di costoro beneficiavano, inoltre, d’un provvedimento di grazia [(§§ 148-150) decisione, peraltro, sottoposta a vivaci critiche da parte della dottrina, in quanto ritenuta esorbitante rispetto alle finalità umanitarie ed equitative
tipicamente sottese a questo istituto]. Gli odierni ricorrenti non riuscivano nemmeno ad ottenere la corresponsione delle somme loro assegnate a titolo di risarcimento (§ 144).
Prima di esaminare nel merito le doglianze presentate dalle parti, la Corte muove da alcune premesse
di carattere metodologico. Per quel che attiene al principio dell’onus probandi, i Giudici europei rammentano la sussistenza di forti presunzioni in capo allo Stato resistente, tutte le volte in cui i fatti rilevanti ai
fini degli artt. 2 e 3 della Cedu siano avvenuti quando la vittima si trovava sottoposta al controllo delle
loro autorità: in queste ipotesi, infatti, «gli avvenimenti in esame sono conosciuti esclusivamente»
dall’apparato statale [(§ 220); cfr., proprio in materia di extraordinary renditions, Corte e.d.u., Grande Camera, 13 dicembre 2012, El Masri, c. la ex Repubblica Jugoslava di Macedonia (§ 152)]. Replicando, inoltre, ad un’eccezione sollevata dal Governo in ordine all’utilizzo degli elementi coperti da segreto di Stato, la Corte rammenta l’inesistenza di ostacoli procedurali all’acquisizione di prove innanzi a sé: ai fini
della decisione potranno essere, quindi, liberamente apprezzate tutte le circostanze allegate dalle parti –
salva la possibilità di attingere anche ad informazioni di pubblico dominio – «oltre a tutte le prove a sua
disposizione, ivi comprese le risultanze acquisite dalle autorità investigative e giurisdizionali interne» (§
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227). Per quel che attiene ai punti controversi della vicenda in esame (§ 230), la Corte di Strasburgo – richiamate le risultanze d’indagine (§ 231) – ritiene che l’autorità italiana fosse al corrente, già all’epoca dei
fatti, della c.d. extraordinary rendition, posta in essere ai danni di Abu Omar (§ 235): i Giudici europei aderiscono, dunque, alle conclusioni del Tribunale milanese, secondo cui la dinamica dei fatti – conforme ad
una procedura invalsa presso i servizi americani – lasciava presumere che l’apparato statale avesse avuto contezza (ove non fosse stato addirittura complice) dell’avvenuta operazione (§ 233). Ulteriori chiarimenti attengono ai principi applicabili ai fini della valutazione della responsabilità dello Stato:
quest’ultimo è, infatti, chiamato a rispondere anche di quanto compiuto sul suo territorio da autorità
straniere che abbiano operato col di lui consenso, espresso o tacito (§ 241); rammentato, poi, che la violazione dell’art. 3 può sussistere anche in forza della mera decisione d’espellere un rifugiato verso un paese ove costui rischi di subire torture o trattamenti inumani [(§ 242) cfr. Corte e.d.u., Grande Camera, 22
febbraio 2008, Saadi c. Italia (§§ 125-126)], la Corte precisa che tale pericolo è «intrinseco» ad un’operazione di extraordinary rendition, qualora il trasferimento sia, dunque, finalizzato a sottoporre il soggetto a
detenzione e ad interrogatorio al di fuori delle garanzie ordinamentali (§ 243); connaturata ad una procedura di tal genere è, del pari, la violazione dell’art. 5 [(§ 244) nonché, ex plurimis, Corte e.d.u., 24 luglio
2014, Al Nashiri c. Polonia, (§ 454); Corte e.d.u., 24 luglio 2014, Husayn (Abu Zubaydah) c. Polonia (§ 452)].
La prima verifica compiuta dalla Corte concerne la violazione dell’art. 3, nel suo portato procedurale: il carattere assoluto del divieto comminato dalla norma in esame, chiosano i Giudici europei, impone
agli Stati di condurre inchieste ufficiali ed effettive: qualora i pubblici agenti dovessero godere di un
margine d’impunità, il precetto convenzionale verrebbe, infatti, deprivato della sua efficacia generalpreventiva (§ 262). I contorni di tale obbligo sono stati precisati in seno al noto precedente Cestaro c.
Italia (§§ 205-208): le indagini compiute a seguito d’una notitia criminis devono essere condotte con celerità, allo scopo di pervenire tempestivamente alla ricostruzione fattuale, nonché all’identificazione ed
alla persecuzione dei responsabili (si tratta, ovviamente, della c.d. funzione esplorativa delle indagini
preliminari); l’imperativo che discende dalla norma in esame si proietta, inoltre, verso le fasi successive,
afferenti all’esercizio della giurisdizione ed all’irrogazione della pena, adempimento, quest’ultimo, che
– per quanto di esclusiva competenza dell’autorità nazionale – può essere soggetto al controllo della
Corte ogniqualvolta la «sproporzione manifesta tra la gravità del fatto e la pena inflitta» rischi di annichilire la tutela dei diritti sanciti dalla Convenzione (cfr., a questo proposito, Corte e.d.u., 3 novembre
2015, Myumyum c. Bulgaria, già pubblicata in questa Rivista, n. 2/2015). Da tale premessa consegue,
dunque, che i comportamenti dei pubblici agenti, riconducibili nell’alveo dell’art. 3, non dovrebbero,
tendenzialmente, essere soggetti a prescrizione (sul punto, Corte e.d.u., 17 settembre 2014, Mocanu ed
altri c. Romania, § 326); non sarebbero, quindi, ammissibili, in linea di principio, nemmeno provvedimenti lato sensu clemenziali quali l’amnistia, la grazia, ovvero la sospensione condizionale della pena
(Corte e.d.u., 20 gennaio 2015, Ateşoğlu c. Turchia).
Contrariamente a quanto riscontrato in altre regiudicande, che vedevano coinvolti pubblici ufficiali
(oltre ai summenzionati precedenti, si veda il noto precedente Corte e.d.u., 29 marzo 2011, Alikaj c. Italia), nella vicenda in esame la Corte non ha ravvisato alcuna carenza quanto alle indagini svolte (§ 265):
un duplice profilo di criticità si staglia, tuttavia, con riguardo all’annullamento della condanna pronunciata a carico degli agenti del SISMI, oltre che alla «assenza di adempimenti adeguati per dare esecuzione alle condanne pronunciate nei confronti degli agenti americani» (§ 266). Il primo esito è, tuttavia,
imputabile non alle autorità inquirenti e giurisdizionali – le quali, al contrario, hanno esercitato le loro
funzioni con un rigore «esemplare» (§ 267) – bensì all’opposizione del segreto di Stato ed alla conseguente impossibilità d’utilizzare gli elementi di prova necessari all’accertamento della responsabilità
degli imputati (§ 268). La Corte denuncia, peraltro, un utilizzo pretestuoso di tale espediente, giacché le
informazioni relative al coinvolgimento degli agenti, oggetto di secretazione, erano già state «ampiamente diffuse» attraverso i media (§ 65). La scelta dell’Esecutivo – finalizzata a tenere gli imputati esenti da pena (§§ 268-272) – ha, dunque, frustrato l’impegno profuso dalla magistratura (§ 269). Le pronunce di condanna sono rimaste «sans effect» anche a causa dei provvedimenti di grazia. Il fatto, poi, che tra
Italia e USA sia in vigore un trattato d’estradizione ha reso questo epilogo «encore plus déplorable». Il
contegno dell’apparato statale e l’impunità che ne è conseguita – non rilevando, questa volta, la carenza
di adeguate fattispecie incriminatrici (§ 273) – hanno determinato il mancato rispetto della norma in
commento, nel suo versante procedurale.
Analoga violazione concerne l’ambito materiale dell’art. 3. A detta della Corte, si deve infatti ritenere, come si è visto, che le autorità nazionali fossero state a conoscenza dell’extraordinary rendition (§ 284).
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Alla luce degli elementi loro sottoposti, i Giudici europei propendono per la rilevanza, ai fini della
norma in esame, delle condotte poste in essere ai danni del ricorrente «non essendo [a tale scopo] necessario esaminare ogni aspetto del trattamento riservato» alla vittima (§ 288). I servizi italiani avrebbero, inoltre, dovuto prevedere che il sequestro cui avevano cooperato avrebbe costituito il preludio di
comportamenti più gravi (§ 288). Lo Stato ha, quindi, consentito all’autorità straniera di prelevare, sul
territorio nazionale, un soggetto (che godeva dello status di rifugiato) sottoposto alla propria giurisdizione: l’Italia ha, dunque, trasgredito, all’obbligo (sancito dagli artt. 1 e 3 della Convenzione) di adottare tutti gli accorgimenti necessari ad impedire che la vittima fosse sottoposta a tortura (§ 289), esponendola, quindi, «scientemente», al rischio di subire maltrattamenti (§ 290).
Anche l’art. 5 della Convenzione è stato vulnerato: il ricorrente è stato, infatti, sottoposto ad una restrizione della libertà personale del tutto avulsa da quel sistema di garanzie delineato dalla norma in
commento (§§ 299-303). Ad analogo epilogo la Corte giunge anche con riferimento all’art. 8: il complesso di condotte "attive ed omissive" poste in essere dallo Stato italiano ha, infatti, contribuito a cagionare
una restrizione, non prevista dalla legge, del diritto al rispetto della vita privata e familiare della vittima, posta in condizioni d’isolamento rispetto alle proprie relazioni affettive (§§ 308-309).
Sussiste una violazione degli artt. 3 ed 8 anche ai danni della sposa di Abu Omar. Sotto il primo profilo assume particolare rilevanza non tanto il fatto della «sparizione» del proprio congiunto, bensì «la
reazione ed il comportamento posto in essere dall’autorità» innanzi ad una notizia di tal fatta [(§ 314),
nonché Corte e.d.u., Grande Camera, 8 luglio 1999, Çakici c. Turchia (§ 98)]. A fronte d’una pronta attivazione da parte delle autorità inquirenti, la ricorrente ha, tuttavia, dovuto subire le conseguenze dei
tentativi ostruzionistici e di depistaggio posti in essere, rispettivamente, dal SISMI e dalla CIA: il primo
aveva, infatti, celato le informazioni di cui disponeva; la seconda aveva, invece, tentato di sviare le indagini, tentando d’indirizzare l’autorità verso i Balcani (§§ 31, 114, 316). L’angoscia dovuta alla mancanza di notizie – unitamente ai patimenti provocati dall’improvvisa sparizione del marito – avevano,
quindi, cagionato alla ricorrente una sofferenza suscettibile d’ammontare ad una violazione dell’art. 3.
Gli argomenti spesi con riferimento alla posizione del primo ricorrente vengono utilizzati per giustificare il mancato rispetto del portato procedurale dell’art. 3 (§§ 318-320), oltre che dell’art. 8 (§§ 324-326),
anche ai danni della consorte.
Residua, infine, un margine di responsabilità dello Stato italiano anche con riferimento all’art. 13
della Convenzione. La Corte coglie, dunque, l’occasione per fare chiarezza in ordine all’estensione della
norma in esame, che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo, innanzi ad un’istanza nazionale, in capo a
chiunque abbia subito, anche ad opera di un pubblico agente, una violazione dei diritti e della libertà
sanciti dalla Cedu. Dalla disposizione in esame scaturiscono una serie di obblighi, a carico dello Stato,
la cui portata – che dipende dalla norma su cui il reclamo si fonda – appare tendenzialmente onnicomprensiva qualora si verta in materia di maltrattamenti posti in essere da pubblici ufficiali. In tale ipotesi,
il ricorrente ha diritto non solo ad un’inchiesta effettiva – ai sensi del versante procedurale dell’art. 3 (§
332) – e di accedere «alla procedura d’indagine», bensì anche ad ottenere un risarcimento dei danni subiti (§ 331). Qualora si versi, poi, in materia di espulsione, vista la natura del bene giuridico coinvolto,
occorre, altresì, un «esame indipendente e rigoroso» della doglianza relativa al rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3: tale verifica deve prescindere sia da eventuali condotte, poste in essere dal ricorrente, che abbiano potuto «giustificare un’espulsione» sia dalla «minaccia per la sicurezza nazionale
eventualmente percepita dallo Stato» [(§ 333), nonché Corte e.d.u., 15 novembre 1996, Chahal c. Regno
Unito (§ 151)]. Per quel che attiene al caso di specie, la Corte riesamina, alla luce dell’art. 13, i reclami
presentati sulla base degli artt. 3, 5 ed 8 della Convenzione (§ 334): preso, dunque, atto dell’inefficacia
del procedimento penale (§§ 335-336) e della mancata corresponsione del risarcimento accordato ai ricorrenti sul piano civilistico (§ 336), i Giudici europei ravvisano la violazione anche della norma in
esame, in combinato disposto con gli articoli suddetti (§ 337).
TUTELA DELLA VITTIMA DI TRATTA D’ESSERI UMANI – EFFETTIVITÀ DELLE INDAGINI – RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO
(Corte e.d.u., 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia)
La pronuncia che si annota afferisce l’analisi delle implicazioni che discendono dall’art. 4 della Cedu,
ponendo particolare riguardo al coordinamento tra il procedimento amministrativo – concernente la
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privazione della libertà e l’espulsione di chi si trovi illegalmente nel territorio dello stato – e quello penale, ove l’immigrato irregolare può, invece, assumere la veste di vittima del reato.
La norma in esame, che vieta la schiavitù ed i lavori forzati, costituisce – unitamente agli artt. 2 e 3
della Convenzione – un caposaldo di quell’assetto valoriale cui è ispirata l’azione del Consiglio d’Europa (§ 64).
Analogamente alle disposizioni che tutelano il diritto alla vita ed inibiscono la tortura od i trattamenti inumani o degradanti, anche l’art. 4 presenta un duplice portato, sostanziale e procedurale. Il
primo versante consta tanto di un obbligo negativo – che inibisce agli Stati membri di mantenere esseri
umani nelle condizioni suddette – quanto di un vincolo positivo, giacché impone all’apparato statale di
predisporre, da un lato, una cornice normativa tesa a sanzionare tali comportamenti ed una regolamentazione migratoria suscettibile di disincentivare la tratta di persone (§ 65), nonché, dall’altro, l’adozione
di provvedimenti concretamente idonei a tutelare le persone che siano potenzialmente soggette a condotte contrarie all’art. 4. Quest’ultima problematica – ampiamente analizzata con riferimento agli artt. 2
e 3 della Convenzione [cfr. Corte e.d.u., Grande Camera, 24 marzo 2011, Giuliani e Gaggio c. Italia (§
244)] – sorge ogniqualvolta la pubblica autorità sappia (o avrebbe dovuto sapere) che un soggetto rischia di essere vittima di tratta di persone (§ 66): cfr., mutatis mutandis, il noto precedente Corte e.d.u., 9
giugno 2009, Opuz c. Turchia.
Il versante procedurale dell’art. 4 implica, invece, un’obbligazione di mezzi in capo all’autorità inquirente la quale, innanzi ad una notitia criminis, deve attivarsi con prontezza e diligenza – soprattutto
laddove occorra sottrarre la persona offesa da una situazione di pericolo – allo scopo di pervenire
all’identificazione ed alla punizione dei responsabili. Le investigazioni devono, peraltro, essere condotte indipendentemente dal fatto che la vittima od un prossimo congiunto abbiano presentato querela:
costoro devono, tuttavia, essere coinvolti nell’instaurando procedimento «nella misura in cui ciò sia necessario a proteggere i loro interessi legittimi» (§ 68).
Nel caso di specie, la Corte ha ravvisato una duplice violazione della norma in esame. Attesa
l’adeguatezza dell’ordinamento penale della Grecia a reprimere la tratta di persone (§§ 70-72), i Giudici
europei hanno, tuttavia, ritenuto che l’autorità non si fosse prontamente attivata a tutela della persona
offesa: quest’ultima, di origini nigeriane, era giunta in Grecia nel 2004 assieme ad un altro soggetto – nei
cui confronti s’era fortemente indebitata – che l’aveva costretta ad esercitare il meretricio (§§ 6-7). Arrestata più volte per violazione delle leggi relative alla prostituzione ed all’ingresso degli stranieri nel territorio dello stato (§§ 10-13), l’odierna ricorrente, grazie al supporto di un’organizzazione non governativa, aveva presentato un esposto contro il reo e la di lui compagna, mentre si trovava detenuta in attesa
d’espulsione (§ 14). A causa d’un difetto di coordinamento, tuttavia, non erano state trasmesse al procuratore le dichiarazioni con cui la direttrice della o.n.g. aveva fornito notizie in ordine alla situazione in
cui versava la vittima (§§ 15, 18). A seguito di tale omissione, la ricorrente era rimasta in detenzione per
circa due mesi dopo avere presentato la denuncia; a ciò si aggiunga che il procuratore le aveva attribuito
lo status di persona offesa quasi nove mesi dopo tale momento: siffatto ritardo è stato ritenuto irragionevole dalla Corte europea (§ 77), la quale ha ravvisato un «difetto sostanziale» di tutela (§ 78).
L’art. 4 della Convezione è stato vulnerato, per tre diverse ragioni, anche sotto il profilo procedurale
(§ 86). La mancata acquisizione della testimonianza suddetta aveva determinato una stasi della procedura, giacché il pubblico ministero aveva inizialmente propeso per l’inattendibilità di quanto riportato dalla vittima (§ 19); anche dopo l’ottenimento del contributo mancante, l’autorità inquirente non aveva riesaminato la doglianza motu proprio, bensì solamente su impulso della persona offesa (§§ 20, 82): il procedimento penale, ciononostante, era stato formalmente instaurato solo a distanza di cinque mesi (§ 22).
Il reo si era, peraltro, reso irreperibile: non risulta, tuttavia, che la polizia avesse diretto le ricerche di
costui in tutti i luoghi indicati dalla persona offesa, né che fossero stati profusi sforzi significativi – come, ad esempio, richiedere l’assistenza delle autorità nigeriane – allo scopo di rintracciarlo (§ 85). La fase preliminare innanzi al giudice istruttore aveva, inoltre, subito dei ritardi, alcuni dei quali sono stati
ritenuti ingiustificati (§ 84).
La ricorrente aveva censurato anche l’irragionevole durata del processo – conclusosi con l’assoluzione dell’unica imputata presente – nel corso del quale ella s’era costituita parte civile: i Giudici europei hanno ravvisato la violazione tanto dell’art. 6, § 1, della Convenzione, quanto dell’art. 13, giacché,
all’epoca dei fatti, l’ordinamento nazionale non forniva alcun rimedio tramite cui dolersi di siffatte lungaggini giudiziarie (§ 100).
SCENARI | CORTI EUROPEE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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DIVIETO DI TORTURA – LIBERTÀ MORALE – EQUO PROCESSO
(Corte e.d.u., 25 febbraio 2016, Zyakun c. Ucraina)
Con la pronuncia in esame i Giudici di Strasburgo denotano, ancora una volta, un modus procedendi assai
rigoroso in tema di confessioni rese da persone, private delle libertà personale, a seguito di violenze morali o fisiche perpetrate, nei loro confronti, dall’autorità di polizia (cfr., anche, Corte e.d.u., 18 giugno
2015, Ushakov e Ushakova c. Ucraina, già pubblicata in questa Rivista, n. 5/2015). Ribaditi, ancora una volta, i principi relativi agli obblighi d’indagine che sorgono in capo all’autorità qualora un soggetto affermi, in modo credibile, di essere stato sottoposto a tortura (§§ 39-42), la Corte rammenta che la presenza
del difensore al momento della confessione non garantisce la genuinità delle dichiarazioni rese contra se
(§ 53): la sussistenza di una garanzia formale non esclude, infatti, che l’indagato abbia precedentemente
subito violenze e versi, dunque, tuttora, in uno stato di timore, essendo ancora soggetto al «controllo»
della polizia (cfr., mutatis mutandis, Corte e.d.u., 31 marzo 2015, Nalbandyan c. Armenia, § 102).
Il carattere assoluto del divieto di tortura (§ 39) e l’effetto annichilente che siffatti comportamenti
sortiscono sulla libertà morale del dichiarante determinano una radicale impossibilità di utilizzare i
contributi così estorti ai fini della prova dei fatti oggetto d’accusa (§ 62): l’inosservanza di tale regola
rende iniquo l’intero procedimento penale, indipendentemente dall’idoneità dimostrativa della prova
spuria e dal carattere decisivo della medesima ai fini della condanna dell’imputato (cfr., anche, Corte
e.d.u., 27 giugno 2013, Kaçiu e Kotorri c. Albania).
Nel caso di specie, i Giudici europei hanno ritenuto vulnerati tanto l’art. 3, quanto l’art. 6, § 1, della
Cedu, in quanto il ricorrente, accusato d’omicidio, era stato sottoposto a maltrattamenti nel corso della
detenzione (§§ 54-55) e le dichiarazioni autoaccusatorie conseguentemente rese non erano state espunte
dal compendio probatorio utilizzato ai fini della pronuncia di colpevolezza (§ 63).
SCENARI | CORTI EUROPEE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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CORTE COSTITUZIONALE
di Laura Capraro
INCAPACITÀ IRREVERSIBILE DELL’IMPUTATO E ASSENZA DI PRESCRIZIONE DEL REATO: INAMMISSIBILITÀ
(ANCHE) PER ERRATA FORMULAZIONE DEL PETITUM
(C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4)
La Consulta dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt.
159, comma 1, e art. 150 c.p., sollevate dal Tribunale ordinario di Cagliari con riferimento rispettivamente agli artt. 3, 24, comma 2, 111, comma 1, e 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 6 Cedu e 3 e 27
Cost.
Per quanto riguarda l’art. 159 c.p. comma 1 c.p., la questione appare superata dalla sent. n. 45 del
2015 che ha dichiarato, medio tempore, l’illegittimità della disposizione «nella parte in cui, ove lo stato
mentale dell’imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga
sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è irreversibile».
Poiché l’ordinanza del giudice rimettente era ugualmente finalizzata a risolvere la situazione di sospensione sine die che si veniva a verificare ogni volta che l’interruzione del corso della prescrizione fosse
stata causata da una incapacità dell’imputato a partecipare al processo (incapacità valutata “irreversibile” e destinata verosimilmente a definirsi soltanto con la morte dell’interessato e con la conseguente
sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato), la Corte – nel solco della sua consolidata giurisprudenza (ex multis, ord. n. 129/2015) – dichiara manifestamente inammissibile la relativa questione, già accolta dalla citata decisione, emessa nelle more del nuovo giudizio di legittimità costituzionale.
Peraltro – chiarisce la Corte – le ragioni della inammissibilità derivano anche dalla circostanza che il
giudice rimettente, sollevando con la medesima ordinanza dubbi di costituzionalità (non solo dell’art.
159, comma 1) anche dell’art. 150 c.p., quest’ultimo «nella parte in cui non prevede l’assoluta ed irreversibile incapacità di intendere [e] di volere sopravvenuta al fatto derivante da una lesione cerebrale
ingravescente quale causa di estinzione del reato», ha prospettato «il petitum in forma ancipite, proponendo quesiti collegati da un nesso di irrisolta alternatività».
Le due questioni, infatti, non poste in un rapporto di subordinazione, avrebbero determinato risultati diversi: l’una (quella avente ad oggetto l’art. 159, comma 1, c.p.) mirava a far decorrere la prescrizione nonostante la sospensione del processo per l’incapacità dell’imputato di parteciparvi; l’altra (riguardante l’art. 150 c.p.), a definire immediatamente il processo, mediante una pronuncia di estinzione del reato.
RIBADITO IL PRINCIPIO DI ACCESSORIETÀ DELL’AZIONE CIVILE NEL PROCESSO PENALE
(C. cost., sent. 29 gennaio 2015, n. 12)
Con una sentenza di non fondatezza la Corte ha ritenuto legittimo l’art. 538 c.p.p., nella parte in cui
prevede che il giudice penale, quando pronuncia sentenza di assoluzione per non imputabilità, per essere l’imputato incapace di intendere e di volere al momento del fatto per vizio totale di mente, non
possa decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli
artt. 74 ss. c.p.p.
La soluzione interpretativa utilizzata, in forza della quale non sussiste alcun profilo di contrasto della norma censurata con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., ruota intorno ai principi che informano i rapporti tra
azione civile e azione penale nel vigente sistema processuale: l’autonomia tra i relativi giudizi; il favor
separationis; e soprattutto il principio di accessorietà, ad essi strettamente correlato. Quando il dannegSCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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giato decide di far valere i propri diritti in sede penale, costituendosi parte civile, compie una scelta con
la quale acconsente che le sue pretese subiscano il condizionamento delle regole del processo all’interno
del quale l’azione civile viene ad innestarsi. Così, quando all’esito del processo l’imputato sia prosciolto
per vizio totale di mente, come accade nel caso di specie, la parte civile non può pretendere l’applicazione “estensiva” dell’art. 538 c.p.p., per il quale il giudice penale è tenuto a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria soltanto in caso di condanna.
Argomento determinante per la decisione – intorno al quale ruota anche la giurisprudenza della
Corte e.d.u. richiamata (sez. III, sent. 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema s.c.
Rompetrol s.a. e s.c. Geomin s.a. e altri contro Romania; sez. I, sent. 4 ottobre 2007, Forum Maritime s.a.
contro Romania) – quello in forza del quale il danneggiato costituitosi parte civile, che abbia visto frustrate le sue richieste dalla assoluzione per vizio totale di mente dell’imputato, conserva il diritto di riproporre la domanda risarcitoria in sede civile.
La diversa interpretazione dell’art. 538 c.p.p., prospettata dal giudice rimettente, peraltro, incrinerebbe il collegamento sistematico che emerge normativamente dal disposto combinato degli artt. 74 e
538, comma 1, c.p.p., tra la competenza del giudice penale a decidere sulle questioni civili e la disposizione sostanziale che obbliga l’autore del reato e le persone che debbono rispondere del fatto di lui
a norma delle leggi civili a risarcire il danno, patrimoniale o non patrimoniale, cagionato dal reato
medesimo (art. 185 c.p.); non sarebbe più quest’ultima disposizione, infatti, il fondamento della pretesa del danneggiato, ma la disciplina contenuta nell’art. 2047 c.c., in ragione del quale la parte civile
nel processo a quo aveva chiesto che l’imputato fosse condannato ad un “equo indennizzo” (comma
2). Ma la norma civile in parola prevede nella sua prima parte (comma 1) che le istanze risarcitorie
debbano essere rivolte dapprima nei confronti di chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, chiamato a provare, in qualità di responsabile civile, di non aver potuto impedire il fatto. Con l’effetto paradossale, in un caso come quello sottoposto allo scrutinio costituzionale, che tale soggetto dovrebbe
rispondere civilmente del fatto dell’imputato in sede penale, pur in assenza di profili penali di responsabilità di costui.
Per quanto attiene infine la lamentata violazione del principio di ragionevole durata del processo,
atteso che il danneggiato dovrà instaurare un autonomo giudizio civile, viene confermato l’indirizzo
già espresso dai giudici delle leggi (ex plurimis, sentt. n. 23 del 2015, n. 63 e n. 56 del 2009, n. 148 del
2005), secondo il quale «possono arrecare un vulnus a quel principio solamente le norme “che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza”».
Ipotesi non ravvisabile nel caso di specie, in cui l’allungamento dei tempi processuali derivante dalla
impossibilità per il giudice, ex art. 538 c.p.p., di decidere sulle richieste della parte civile, deriva dalla
necessità di rispettare la scelta sistematica del codice, per il quale l’azione civile esercitata nel quadro
del processo penale è subordinata al rispetto delle finalità di quest’ultimo, e in particolare, per quanto
rileva nel caso in esame, alla «sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità».
RESTA FERMA LA MANCATA PREVISIONE DEL PATTEGGIAMENTO NEL GIUDIZIO PENALE DI PACE
(C. cost., ord. 9 marzo 2016, n. 50)
La Corte costituzionale esclude profili di contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. dell’art. 2 del d.lgs 28 agosto
2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non consente l’applicazione di pena su richiesta delle parti nel
procedimento penale davanti al giudice di pace.
Pur ritenendo la questione ammissibile e rilevante, i giudici delle leggi confermano il preesistente
orientamento (ord. n. 28 del 2007, n. 312 e n. 228 del 2005), dichiarando la manifesta infondatezza delle
censure sollevate: la diversità di disciplina oggetto di censura da parte del giudice remittente non determina una ingiustificata disparità di trattamento tra il procedimento davanti al giudice di pace, riservato ai reati di minore gravità, e quello che si celebra davanti al tribunale, né alcuna violazione del diritto di difesa, ma è invece il frutto di una scelta ben precisa del legislatore.
In base a tale opzione, ritenuta non irragionevole nel giudizio costituzionale, il procedimento disciplinato dal d.lgs. 274/00, oltre ad essere dotato di un peculiare apparato sanzionatorio, è caratterizzato
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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da una spiccata semplificazione delle forme, un fondamentale ruolo conciliativo del giudice e soprattutto un costante e intenso coinvolgimento della persona offesa.
Tale soggetto, cui è riconosciuto il diritto di attivare il procedimento mediante citazione a giudizio
(art. 21 d.lgs. 274/00), nonché la possibilità di dare corso alla definizione alternativa di esso (artt. 34,
comma 2, e 35, commi 1 e 5, del d.lgs. n. 274 del 2000), svolge nell’ambito del procedimento dinanzi al
giudice di pace un ruolo di grande rilievo, contrariamente a quanto accade nella applicazione di pena
su richiesta: sotto tale aspetto si registra dunque un attrito insanabile tra il procedimento speciale in parola e il rito che si svolge davanti al giudice di pace. Attrito che dà conto della diversità tra la disciplina
prevista per quest’ultimo e quella del rito che si celebra davanti al tribunale, quanto alla diversa accessibilità al c.d. patteggiamento.
La Corte non ravvisa peraltro alcun profilo di irragionevolezza o disparità di trattamento neppure
con riguardo a quei casi in cui, essendo i reati di competenza del giudice di pace giudicati dal tribunale
per ragioni di connessione, l’imputato può accedere ai riti alternativi, compreso il “patteggiamento”, e
fruire quindi dei relativi benefici sul piano sanzionatorio, con «l’illogica conseguenza che per fatti più
gravi l’interessato potrebbe ottenere una pena più mite».
Come già affermato in un precedente pronunciamento (ord. n. 228 del 2005), infatti, «le situazioni
poste a raffronto sono tra loro affatto diverse e non possono essere oggetto di comparazione al fine del
giudizio di costituzionalità».
GIUDICE DELL’ESECUZIONE E SENTENZA SCOPPOLA: ALT AL TRATTAMENTO SANZIONATORIO IN MELIUS
PER I CASI “NON IDENTICI” A QUELLO ESAMINATO DALLA CORTE E.D.U.
(C. cost., sent. 23 marzo 2016, n. 57)
Tornando ancora una volta al complesso quadro normativo in tema di successione di leggi nel tempo,
la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 ter, commi 2 e
3, del d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla l. 5 giugno 2000, n. 144, e dell’art. 7, comma 1 «(come
risultante dalla declaratoria di incostituzionalità del 3 luglio 2013 della Corte costituzionale)» e comma
2, del d.l. 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’Amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla l. 19 gennaio 2001, n. 4, sollevate con riferimento agli
artt. 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7, § 1, della Cedu.
Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli, in funzione di giudice
dell’esecuzione, aveva ritenuto che in seguito all’entrata in vigore della legge n. 479/1999 (che aveva
reso possibile il giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo) e dell’art. 4 ter, commi 2 e 3, del
d.l. n. 82/2000 (che aveva permesso la relativa richiesta anche in appello), l’imputato in un processo
pendente in secondo grado avesse acquisito il diritto al trattamento più mite, pur non avendo richiesto
il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 341/2000, in seguito al quale il giudizio abbreviato comporta la sostituzione dell’ergastolo senza isolamento diurno con la pena di trenta anni di
reclusione e la sostituzione dell’ergastolo con isolamento diurno con l’ergastolo semplice (art. 7, commi
1 e 2). Il giudice rimettente ha dubitato che una circostanza puramente fortuita ed indipendente dalla
volontà dell’imputato, come la mancata fissazione della prima udienza in appello dopo il 24 novembre
2000, vale a dire successivamente all’entrata in vigore della normativa che ha introdotto per la condanna in abbreviato il trattamento sanzionatorio più rigoroso, potesse impedire agli imputati che si trovavano in quella situazione di beneficiare degli effetti scaturiti dalla decisione della Corte e.d.u. (Grande
Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia), con la quale era stata ravvisata una violazione degli artt. 6 e 7 della Cedu.
Come è noto, secondo la Corte di Strasburgo, poiché l’art. 442, comma 2, c.p.p. va considerata norma
sostanziale, come tale rientrante nel campo di applicazione dell’art. 7, § 1, della Cedu, la successione tra
la legge n. 479/1999 e il d.l. n. 341/2000, ha determinato una violazione degli artt. 6 e 7 della Cedu,
avendo lo Stato italiano, con la introduzione di tali successive discipline, violato sia il diritto del ricorrente a un processo equo, sia il diritto all’applicazione della legge più favorevole.
I giudici costituzionali, tuttavia, hanno ritenuto inammissibile la questione proposta, rinviando sul
piano dei principi alla sent. n. 210 del 2013: il giudicato penale può (rectius deve) soccombere dinanzi
SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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all’obbligo per i giudici italiani (sorto in seguito alla sentenza Scoppola) di porre rimedio alla violazione
riscontrata a livello normativo e di rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovano nelle medesime condizioni; tale eccezionale potere del giudice dell’esecuzione di intervenire sul titolo esecutivo per modificare la pena è subordinato alla «assoluta identità tra il caso deciso dalla Corte
e.d.u., alla cui sentenza il giudice ritiene di doversi adeguare, e il caso oggetto del procedimento a quo,
giacché ogni diversa ipotesi verrebbe ad esorbitare dai limiti propri del giudizio esecutivo».
SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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SEZIONI UNITE
di Paola Maggio
LA NOTIFICA ALLA PERSONA OFFESA DELLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE È OBBLIGATORIA ANCHE NEI
PROCEDIMENTI PER “STALKING”
(Cass., sez. un., 16 marzo 2016, n. 10959)
Secondo le Sezioni Unite, l’obbligo contemplato nell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p. di dare avviso anche
alla persona offesa della richiesta di archiviazione per i delitti commessi con violenza alla persona è riferibile ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti in famiglia previsti rispettivamente dagli artt. 612
bis e 572 c.p.
Il ragionamento trae linfa da ragioni di ordine sistematico, combinate alla considerazione degli spazi
sempre maggiori riservati ai diritti della persona offesa nell’ambito interno, europeo ed internazionale.
Prendendo, in particolare, spunto dalla rinnovata attenzione penalistica verso le forme di violenza
sulle donne e in genere sulle violenze domestiche, la Corte di legittimità fornisce una nozione ampia
dell’espressione «delitti commessi con violenza della persona» per i quali scattano gli obblighi informativi, con una significativa dilatazione dello spazio processuale riservato alla “vittima”.
Mediante una lettura dei dati legislativi nazionali, “conforme” agli indicatori europei e internazionali, si getta specifica luce sull’espressione utilizzata dal legislatore interno ricomprendendovi anche le
ipotesi di «violenza morale» e si superano altresì i dubbi sulla possibilità di includere in tale novero le
fattispecie che non presentano tra gli elementi costituivi del reato la «violenza fisica».
Il reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p. è stato introdotto nel nostro ordinamento dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. con mod. dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. Si tratta di un delitto contro la persona, espressamente disciplinato fra quelli contro la libertà morale. Le condotte incriminate incidono sulla
tranquillità psichica, sulla libera autodeterminazione e, appunto, sulla libertà morale del soggetto. Caratteristica essenziale del reato è il carattere assillante e ripetitivo delle minacce o molestie, in grado di
produrre sulla vittima l’insorgere di stati di ansia e di paura tali da stravolgere le sue abitudini di vita.
Spesso, peraltro, tali condotte sono prodromiche alla realizzazione di altre e ancor più gravi manifestazioni delittuose.
Con la previsione suddetta il legislatore italiano ha voluto fornire una risposta a forme di aggressione particolarmente insidiose, mediante uno strumentario penalistico, civilistico e amministrativistico,
capace di proteggere la vittima dal rischio della progressione di atti di violenza da parte del persecutore. Tali scelte sono state confermate da interventi successivi, volti a rafforzare la suddetta tutela repressiva e preventiva (d.l. 1° luglio 2013, n. 78, conv. dalla legge 9 agosto 2013, n. 94; d.l. n. 14 agosto 2013,
n. 93, conv. dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119).
I decisi segnali legislativi interni si collocano nell’ambito di una strategia europea ed internazionale
di crescente considerazione riservata alla vittima per effetto del grave allarme sociale provocato dalle
varie forme emergenti di criminalità violenta (terrorismo, tratta di essere umani, sfruttamento di minori, violenza contro le donne in contesti familiari).
L’Unione europea ha mostrato peculiare attenzione verso il “soggetto che subisce il reato” sia in
chiave generale sia con riguardo alle vittime “vulnerabili” di specifici delitti particolarmente offensivi
dell’integrità fisica e morale delle persone. Fra i più significativi interventi del primo tipo rientra sicuramente la Direttiva 2012/29 UE in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima, che ha sostituito la Decisione-quadro 2001/220 GAI e che costituisce uno strumento di unificazione legislativa dotato di efficacia vincolante. A tale Direttiva è stata data recente attuazione nell’ordinamento interno con
il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212.
Nel secondo gruppo di fonti, aventi a oggetto specifiche forme di criminalità e correlativamente parSCENARI | SEZIONI UNITE
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ticolari tipologie di vittime, rientrano invece la Convenzione di Lanzarote del Consiglio d’Europa del 25
ottobre 2007, sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, e la Convenzione di
Istanbul del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011, sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei
confronti delle donne e la violenza domestica, entrambe incentrate sulla esigenza di garantire partecipazione, assistenza, informazione e protezione ai soggetti “deboli”.
Il delineato quadro consente alle Sezioni Unite di cogliere un essenziale «snodo per le politiche criminali, di matrice sostanziale e processuale dei legislatori europei» che impone, ineludibilmente, l’individuazione di «una chiara posizione sistemica all’offeso».
Al contempo, tuttavia, gli interventi settoriali del legislatore interno, improntati spesso alla decretazione d’emergenza, hanno prodotto una sorta di «arcipelago normativo» nel quale l’interprete ha difficoltà a orientarsi. Tra questi interventi rientra appunto il d.l. 14 agosto 2013, n. 93, conv. dalla legge 15
ottobre 2013, n. 119 che ha introdotto l’avviso obbligatorio alla persona offesa, in un contesto che assegna ai reati di maltrattamenti in famiglia, agli atti persecutori e alla violenza sessuale, obiettivi politicocriminali di contrasto alla violenza di genere, mediante l’inasprimento delle pene edittali e la configurazione di nuove circostanze aggravanti.
Nel complessivo disegno, volto al contenimento dei fatti di “femminicidio” e di ogni forma di violenza domestica in linea con le previsioni della Convenzione di Istanbul, si colloca dunque la specifica
previsione processuale del nuovo comma 3-bis dell’art. 408 c.p.p. secondo cui, «per i delitti commessi
con violenza alla persona, l’avviso della richiesta di archiviazione è in ogni caso notificato, a cura del
pubblico ministero, alla persona offesa e il termine di cui al comma 3 è elevato a venti giorni». A parere
della Corte di legittimità, l’iter parlamentare che ha condotto alla formulazione del testo definitivo dell’art. 408 ter c.p. e all’inserzione dell’espressione «delitti commessi con violenza sulla persona» conferma l’intenzione del legislatore di volere ampliare il campo di applicazione del testo, così come formulato nel precedente decreto legge. Lo scopo dichiarato è stato infatti proprio quello di introdurre, anche
con riferimento agli obblighi imposti dalla Direttiva UE 29/2012, «i primi interventi strutturali idonei a
garantire maggiormente le vittime circa l’informazione del complesso dei propri diritti fin dal primo
contatto con l’autorità procedente», nonché, successivamente, riguardo alle scelte operate sull’esercizio
dell’azione penale e riguardo alla dinamica delle misure cautelari.
Orbene, lo sfondo processuale della modifica, sicuramente orientato dagli input europei ed internazionali, si proietta pure sulla nozione di «violenza sulla persona» dalla quale fare dipendere la sussistenza dei descritti obblighi informativi. Molteplici indicazioni in tal senso si traggono anzitutto dalla
Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77, nella descrizione della
violenza nei confronti delle donne, della violenza domestica e della violenza di genere. Tali condotte
sono tutte accomunate dalla completa parificazione tra violenza fisica e psicologica da cui, conseguentemente, discende una nozione di vittima riferita a qualsiasi persona fisica che subisce tali manifestazioni vessatorie. Va segnalato che, accanto alla necessaria penalizzazione da parte degli Stati firmatari
delle condotte di violenza psicologica e di atti persecutori (stalking) la Convenzione (al pari della normativa italiana) prevede l’accesso all’informazione da parte della vittima unitamente a un complesso di
diritti partecipativi nel processo penale.
Altrettanto nitidi sono i segnali provenienti dalla Direttiva 2012/29/UE, attuata con il menzionato
d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 entrato in vigore il 20 gennaio 2016.
Nella premessa n. 17 della Direttiva 2012/29/UE è contenuta infatti una definizione ampia della violenza di genere, quale «violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di
genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere». Essa può arrecare un «danno fisico, sessuale o psicologico, o una perdita economica alla
vittima». La violenza di genere è considerata come una forma di discriminazione e una violazione delle
libertà fondamentali e ricomprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo
stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme
dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i c.d. “reati d’onore”.
La violenza nelle relazioni strette viene a sua volta definita (premessa n. 18) come «quella commessa
da una persona che è l’attuale o l’ex partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia,
a prescindere se l’autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima. Questo tipo di violenza
potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica e provocare un danno fisico
mentale o emotivo, o perdite economiche».
La Direttiva detta, parallelamente, norme minime in materia di diritti all’assistenza, all’informazioSCENARI | SEZIONI UNITE
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ne, interpretazione e traduzione nonché alla protezione nei confronti di tutte le vittime di reato, senza
distinzione collegata al tipo di criminalità e alla qualità della vittima, suscettibili di ampliamento dai
singoli legislatori nazionali al fine di garantire una sfera di protezione più elevata, com’è avvenuto proprio nel caso dell’obbligo previsto dall’art. 408, comma 3-bis, c.p.p., ove la tutela è rafforzata rispetto al
semplice diritto a ricevere informazioni di cui all’art. 6 della fonte dell’Unione.
Un conforto ulteriore alla ricostruzione proposta la Corte di legittimità trae dalla Direttiva 2011/36/UE
per la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. Tali disposizioni, recepite nel nostro ordinamento dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, fanno riferimento alle violenze
gravi alla persona, alla tortura, all’uso forzato di droghe, allo stupro e d altre forme di violenza psicologica, fisica o sessuale.
Altrettanto rilevanti sono, per le Sezioni Unite, i contenuti della Direttiva 2011/99/UE, volta ad istituire l’Ordine di protezione europeo (OPE), anch’essa recentemente attuata con il d.lgs. 11 febbraio
2015, n. 9. Di questo strumento di cooperazione giudiziaria, finalizzato a rafforzare la protezione di
quelle vittime che vogliano esercitare il loro diritto di cittadini dell’Unione di circolare e risiedere liberamente nel territorio degli Stati membri (Considerando n. 6, Direttiva 2011/99/UE e art. 1 del d.lgs. n.
9/2015), gli artt. 5 e 9 del d.lgs. n. 9/ 2015 hanno in particolare recepito taluni elementi, circoscrivendo
il riconoscimento dell’OPE alle misure cautelari dell’allontanamento della casa familiare (art. 282 bis
c.p.p.) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter c. p.p.), e
stabilendo altresì (comma 1-bis dell’art. 282 quater c. p. p.) l’obbligo, per l’autorità giudiziaria procedente, di informare la persona offesa circa la facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo.
I destinatari delle descritte misure di protezione sono dunque le vittime, anche potenziali, di reati
che mettano in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, la libertà personale, la sicurezza o l’integrità
sessuale del soggetto da proteggere. Una posizione di particolare rilievo è ivi assegnata alle vittime della violenza di genere o nelle relazioni strette, che si esprime con violenze fisiche, molestie, aggressioni
sessuali, stalking, intimidazioni o altre forme indirette di coercizione (Considerando n. 9 e n. 11 della Direttiva 2011/99/UE).
Orbene, le Sezioni Unite considerano, dunque, tutte le suddette accezioni “estese” ed “euro-orientate” della violenza quali parti integranti dell’ordinamento interno: le norme convenzionali recepite attraverso legge di ratifica sono invero sottoposte, anche alla luce del comma 1 dell’art. 117 Cost., all’obbligo di interpretazione conforme che impone di scegliere fra le diverse interpretazioni quella che consenta il rispetto degli obblighi internazionali.
Nel percorso delineato le fonti nazionali e sovranazionali delineano un concetto di «violenza alla
persona» comprensiva non solo delle aggressioni fisiche ma anche di quelle morali o psicologiche tipiche del delitto di stalking, che, al pari di quello dei maltrattamenti in famiglia, mira a reprimere tali
forme di criminalità e a proteggere la persona che la subisce, rientrando in definitiva nella nozione di
«delitti commessi con violenza alla persona», con cui il legislatore ha inteso ampliare il campo della tutela dell’art. 408, comma 3-bis, c.p.p.
Ne discende che l’omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa nell’ipotesi del
reato di atti persecutori, determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità, ex art. 127,
comma 5, c.p.p., del decreto di archiviazione, impugnabile con ricorso per cassazione (Cass., sez. IV, 13
novembre 2014, n. 49764; Cass., sez. VI, 19 marzo 2013, n. 24273).
L’INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO PER CASSAZIONE PRECLUDE LA DECLARATORIA D’UFFICIO DELLA PRESCRIZIONE DEL REATO
(Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 12602)
Con due distinti principi di diritto le Sezioni Unite affermano che «l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p. e art. 609, comma 2, c.p.p.,
l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d’appello, ma non eccepita nel grado di merito, né rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso». Laddove, invece, il ricorso sia dichiarato ammissibile, la richiesta di declaratoria di intervenuta
estinzione del reato per prescrizione, maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non
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dichiarata dal giudice di merito, integra un «motivo consentito ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b),
c.p.p.».
Nel pronunciarsi sui margini cognitivi riservati al giudice dell’impugnazione inammissibile, la Suprema corte affronta prioritariamente il rapporto che intercorre tra il ricorso per Cassazione inammissibile e le cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p., con particolare riferimento alla prescrizione
del reato maturata prima della sentenza d’appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure
nei motivi di ricorso.
Si tratta di un tema spinoso riguardo al quale – a seguito di molteplici interventi della stessa Corte di
legittimità – è prevalsa l’affermazione dell’efficacia preclusiva dell’inammissibilità dell’impugnazione
rispetto alla possibilità di dichiarare eventuali cause di non punibilità.
A tale orientamento aderisce in un ultima istanza la Corte di Cassazione mediante un’attenta ricostruzione storico-sistematica della quaestio.
L’origine delle incertezze interpretative affonda le radici nella previgente sistematica codicistica che
scansionava anche a livello temporale la dichiarazione di impugnazione (artt. 197 e 199 c.p.p. 1930) dalla successiva presentazione dei motivi (art. 201 c.p.p. 1930). Tale “iato” aveva indotto la giurisprudenza
a individuare le due distinte categorie giuridiche delle cause “originarie” e delle cause “sopravvenute”
di inammissibilità dell’impugnazione. Le cause “originarie” colpivano l’impugnazione nel momento
genetico, con la conseguenza che la stessa era improduttiva di effetti, non consentiva di introdurre il
nuovo grado di giudizio (in quanto presupponeva la formazione del giudicato) e precludeva l’eventuale applicabilità di disposizioni più favorevoli al reo o di cause di non punibilità (Cass., sez. un., 10
gennaio 1976, n. 2553).
Le cause “sopravvenute” d’inammissibilità traevano invece origine da fattori estranei e successivi
(come la mancata o la irregolare presentazione dei motivi) alla dichiarazione d’impugnazione originariamente ammissibile. Esse non incidevano dunque sulla valida instaurazione del rapporto d’impugnazione e non impedivano la valutazione del giudice in merito in ordine a eventuali cause di non punibilità, da rilevarsi d’ufficio ai sensi del richiamato art. 152 c.p.p. 1930.
Il suddetto orientamento giurisprudenziale individuava un obbligo da parte del giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio l’esistenza di eventuali cause di non punibilità, ritenendo, in via di eccezione rispetto a tale obbligo, che fosse pur sempre necessario accertare prioritariamente la sussistenza
dei requisiti minimi richiesti per la proposizione di un atto d’impugnazione idoneo all’instaurazione
della corrispondente fase processuale. Se l’impugnazione risultava priva di tali requisiti minimi si sarebbe ritardato soltanto il giudicato formale, mentre il giudicato sostanziale doveva ritenersi già formato contestualmente alla proposizione dell’atto invalido, con l’effetto di precludere al giudice qualunque
valutazione diversa dalla constatazione preliminare e assorbente di inammissibilità. Se, invece, l’atto
d’impugnazione fosse stato dotato dei requisiti minimi di legge, si sarebbe pienamente legittimato il rilievo officioso delle cause di non punibilità.
Assolutamente diverso l’assetto voluto dal codice di rito del 1988 nel quale è venuta meno la distinzione tra dichiarazione e motivi d’impugnazione e, in base all’art. 591 c.p.p., comma 2, si è affidata al
solo giudice dell’impugnazione la competenza a dichiararne l’inammissibilità.
Esigenze di razionalizzazione e semplificazione concentrano nell’unico atto d’impugnazione –contenente sia la dichiarazione sia i motivi – la manifestazione di volontà di non prestare acquiescenza al
provvedimento impugnato e il sostrato argomentativo circa l’ingiustizia o la contrarietà alla legge della
decisione impugnata (art. 581 c.p.p.).
In questo contesto si è escluso che l’art. 648 c.p.p., in quanto diretto a regolamentare il giudicato
formale e, quindi, a dare avvio alla fase esecutiva, possa essere utilizzato per chiarire il rapporto tra
inammissibilità dell’impugnazione e cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., dovendosi invece trarre la
disciplina di riferimento dal complesso delle norme processuali vigenti, al fine di stabilire se debba prevalere la declaratoria di inammissibilità ovvero debbano comunque prendersi in considerazione le cause di non punibilità.
In una prima fase applicativa della riforma codicistica – ancora culturalmente ispirata dalla esperienza del vecchio codice di rito – si era continuato a far riferimento alle categorie delle “cause originarie” e delle “cause sopravvenute” d’inammissibilità (Cass., sez. un., 11 novembre 1994, n. 21; Cass., sez.
un., 24 giugno 1998, n. 11493). Successivamente, tuttavia, le “cause originarie” sono state dilatate al
punto da pervenire al definitivo abbandono di tale distinzione (Cass., sez. un., 30 giugno 1999, n. 30). In
altri termini, nell’affrontare la specifica questione del rapporto tra inammissibilità del ricorso per maniSCENARI | SEZIONI UNITE
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festa infondatezza e prescrizione del reato (maturata dopo la scadenza del termine per proporre il ricorso) si è postulata una categoria unitaria con assimilazione della manifesta infondatezza alle altre ipotesi di inammissibilità intrinseche alla struttura del ricorso (Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 32), in
conformità al dettato dell’art. 606 c.p.p.
In tale percorso il potere-dovere di immediata declaratoria di eventuali cause di non punibilità si attiva soltanto in presenza di un valido atto d’impugnazione: se l’impugnazione è priva dei requisiti previsti dagli artt. 581, 591 e 606 c.p.p. e, quindi, è ab origine inammissibile, rimane precluso l’accesso al
nuovo grado di giudizio.
Anche con riguardo a un ricorso avente ad oggetto esclusivo la richiesta di estinzione del reato per
prescrizione, maturata dopo la decisione impugnata ma prima della decorrenza del termine per proporre ricorso, si è sottolineata la mera apparenza dell’atto di impugnazione che si limita a reclamare,
con un unico motivo, nonostante il giudicato sostanziale, l’applicazione della causa estintiva sopravvenuta alla medesima decisione (Cass., sez. un, 27 giugno 2001, n. 33542). Doglianza non rientrante, peraltro, nella griglia tassativa dei “casi” di ricorso ex art. 606 comma 1 c.p.p., e, quindi, non consentita. È
prevalsa dunque la considerazione della pronuncia di inammissibilità quale absolutio ab instantia, con
effetti assorbenti e preclusivi di eventuali altre censure.
Sotto altro profilo, l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale, derivante dalla proposizione
di un atto d’impugnazione invalido, non consentiva di attivare il corrispondente rapporto processuale,
e dunque di riconoscere le cause di non punibilità già maturate in sede di merito, quali, appunto, la
prescrizione (Cass., sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428). Si precisava, tuttavia, come al giudice dell’impugnazione inammissibile fosse consentito, in via eccezionale, di privilegiare l’applicazione dell’art. 129
c.p.p., con peculiari cause di non punibilità rigorosamente delimitate, quali l’abolitio criminis, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, l’ipotesi in cui debba essere dichiarata
l’estinzione del reato a norma dell’art. 150 c.p., e, infine, l’ulteriore ipotesi di estinzione del reato per remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per Cassazione e ritualmente accettata (Cass.,
sez. un., 25 febbraio 2004, n. 24246). Su tali epiloghi deve, però, prevalere la declaratoria d’inammissibilità riconducibile all’inosservanza del termine per impugnare, considerata la coincidenza fra giudicato
sostanziale e giudicato formale.
La pressoché costante giurisprudenza, seguita ai menzionati arresti delle Sezioni Unite, ha dunque
guardato alle cause di inammissibilità del ricorso per cassazione (ad eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, costituente causa sopravvenuta di inammissibilità) quali vizi intrinseci dell’atto che impediscono la valida costituzione del rapporto processuale d’impugnazione e sono di ostacolo a far valere o a rilevare d’ufficio, ex art. 129 c.p.p., l’estinzione del reato per prescrizione, pure se
maturata in data anteriore alla sentenza di merito, ma non dedotta né rilevata in quella sede (Cass., sez.
VI, 14 marzo 2014, n. 25807; Cass., sez. I, 20 gennaio 2014, n. 6693).
Un differente indirizzo esegetico, che ha originato la rimessione della questione alle Sezioni Unite,
ha posto invece l’accento sul superamento della preclusione conseguente al ricorso inammissibile ai fini
della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, intervenuta prima della sentenza d’appello e
da questa non dichiarata. Tale soluzione parifica la prescrizione (maturata prima della conclusione della fase di merito) all’abolitio criminis, all’incostituzionalità della norma incriminatrice e alla morte dell’imputato. Tutte fattispecie idonee a superare la barriera della preclusione del ricorso inammissibile e
ad assegnare al giudice il potere-dovere della cognizione corrispondente.
Una tale assimilazione consente di ritenere applicabile l’art. 129 c.p.p. e, conseguentemente, di rilevare ex officio la prescrizione maturata prima della sentenza d’appello e ivi non rilevata. La ratio della
causa estintiva, che vede nel decorso del tempo il venire meno dell’interesse dello Stato a esercitare la
pretesa punitiva, impone infatti di rilevarla quando si verifichi ope legis.
A suffragio della tesi si pone l’art. 411 c.p.p. relativo ad alcune ipotesi di archiviazione che, ancor
prima dell’instaurazione di un rapporto processuale in senso stretto, inibiscono l’inizio dell’azione penale in presenza di un reato estinto per prescrizione.
Il detto orientamento identifica altresì una sostanziale differenza, in caso di ricorso inammissibile,
tra la prescrizione maturata anteriormente alla sentenza impugnata e quella maturata dopo di essa: la
prima, in quanto erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, non può incontrare alcuna preclusione ad essere rilevata, sia pure tardivamente, in sede di legittimità, proprio per emendare l’errore
commesso; la seconda vicenda estintiva, invece, non può trovare spazio nell’ambito di un rapporto processuale d’impugnazione soltanto apparente, perché non validamente instaurato e quindi mai venuto a
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esistenza, con conseguente formazione del giudicato sostanziale che arresta il decorso del termine di
prescrizione (Cass., sez. IV, 17 aprile 2015, n. 27160; Cass., sez. V, 15 gennaio 2015, n. 10409). Ulteriori
interventi giurisprudenziali hanno precisato come la rilevabilità d’ufficio della causa estintiva del reato
maturata prima della decisione di merito e non dichiarata in quella sede sia possibile solo laddove non
occorra alcuna attività di valutazione delle prove volta ad individuare l’effettiva data di consumazione
del reato dalla quale fare decorrere il termine di prescrizione, rimanendo tale attività estranea ai compiti istituzionali della Corte di legittimità (Cass., sez. IV, 16 maggio 2015, n. 27019).
La scelta delle Sezioni Unite è nettamente nel solco del primo dei due descritti orientamenti.
Nella visione della Corte le ipotesi di inammissibilità previste, in via generale, dall’art. 591, comma
1, lett. a), b), c) c.p.p. e, con riguardo specifico al ricorso per cassazione, dall’art. 606, comma 3, c.p.p., viziano geneticamente l’atto, provocando la reazione dell’ordinamento con la sanzione dell’inammissibilità, quale risposta ad un potere di parte non correttamente esercitato. Si pensi al «tatticismo difensivo a
fini dilatori» che mira a procrastinare il passaggio in giudicato formale della sentenza, nella prospettiva
spesso di propiziare la scadenza dei termini di prescrizione. L’inammissibilità per manifesta infondatezza, al pari degli altri casi, ha lo scopo dunque di reprimere “l’abuso processuale”, integrato dalla
proposizione di una impugnativa non conforme al modello normativo, priva di ogni base giuridica e
contraria ad ogni postulato di razionalità (Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 32).
L’unica causa di inammissibilità che sfugge all’inquadramento nella categoria di cui si è detto è la
rinuncia alla impugnazione, che sia, però, geneticamente ammissibile (art. 591, comma 1, lett. d), c.p.p.),
in quanto essa deriva dall’esercizio di un diritto potestativo dell’interessato, che pure è in grado di
estinguere il rapporto processuale validamente introdotto, provocando, non appena dichiarata l’inammissibilità, la verificazione del giudicato formale. La diagnosi di ammissibilità dell’impugnazione – al
pari di quanto accade in materia di giurisdizione, di competenza, di improcedibilità per mancanza di
querela – deve dunque precedere logicamente e cronologicamente lo scrutinio circa la fondatezza dei
motivi proposti e l’eventuale decisione ex art. 129 c.p.p.
Se dunque l’ammissibilità dell’impugnazione è prodromica (per l’effetto “propulsivo” che la connota) a investire il giudice del potere decisorio sul merito del processo, viceversa, la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione inibisce una qualsiasi pronuncia sul merito. L’attività processuale di accertamento di una causa di inammissibilità viene dunque intesa alla stregua di «un grado successivo a
quello concluso con la sentenza impugnata», in senso del tutto formale. La sentenza invalidamente impugnata diventa intangibile sin dal momento in cui si concretizza la causa di inammissibilità, che va
apprezzata in un’ottica “sostanzialistica” della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul
piano delle preclusioni processuali (giudicato sostanziale). Non è dunque possibile rilevare, a norma
dell’art. 129 c.p.p., cause di non punibilità, quali l’estinzione del reato per prescrizione, sia se maturate
successivamente alla sentenza impugnata sia se verificatesi in precedenza, nel corso cioè del giudizio
definito con tale sentenza destinata a rimanere immodificabile, proprio perché contrastata da una impugnazione inammissibile.
Diversamente opinando, si verificherebbe una impropria “sanatoria” delle situazioni di inammissibilità e risulterebbe arbitrariamente alterato il fisiologico svolgimento dell’iter processuale.
Fatte queste premesse di fondo, le Sezioni Unite circoscrivono la portata dell’art. 609, comma 2,
c.p.p. che, al di là dei motivi proposti, consente l’esame delle questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e
grado del processo, quali certamente sono le cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p.
Con una precisazione: il momento di operatività dell’effetto devolutivo ope legis presuppone, sempre
e comunque, un’impugnazione valida. Né potrebbe farsi leva sulla ratio di favore ispiratrice dell’art.
129 c.p.p. per trarre argomenti decisivi a favore della prevalenza della declaratoria di non punibilità.
Tale norma non attribuisce un autonomo spazio decisorio al giudice dell’impugnazione ma si limita a
dettare una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo, così come normativamente disciplinata, e che deve guidare il giudice nell’esercizio dei poteri decisori (Cass., sez. un., 25
gennaio 2005, n. 12283).
A riprova ulteriore della scelta compiuta si pone l’art. 610 c.p.p., così come novellato dalla legge 26
marzo 2001, n. 128, che ha affidato alla c.d. sezione-filtro della Corte di Cassazione il vaglio di ammissibilità dei ricorsi al fine di razionalizzare l’organizzazione interna dell’ufficio di legittimità. Nella legge
n. 128/2001 (e nei relativi lavori preparatori) non v’è infatti alcuna riserva sulla eventuale operatività
dell’art. 129 c.p.p., visto il carattere assorbente e preclusivo della declaratoria d’inammissibilità del ricorso.
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La ricostruzione che onera la parte interessata ad attivare correttamente il rapporto processuale
d’impugnazione si pone altresì in linea con le garanzie di equità, razionalità e ragionevole durata del
processo (art. 6, 1, Cedu), con la presunzione d’innocenza della persona fino a pronuncia definitiva di
colpevolezza (art. 6, 2, Cedu), con la garanzia di prevedibilità di tutte le conseguenze negative del reato
anche sotto il profilo della tutela processuale della condotta realizzata (art. 7, 1, Cedu).
È la presentazione di un ricorso invalido a privare il giudice del potere di cognizione e decisione sul
merito del processo o in ordine a eventuali cause di non punibilità, ivi compresa la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza conclusiva del grado precedente.
La declaratoria di estinzione del reato, inoltre, è sostanzialmente diversa dalla abolitio criminis e dalla
dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice. Tali casi, infatti, possono determinare la
revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell’esecuzione ex art. 673 c.p.p. e possono essere rilevati, pur in presenza di un ricorso inammissibile, dal giudice della cognizione, chiamato ad anticipare per ragioni di economia processuale gli esiti obbligati della fase esecutiva. L’eventuale declaratoria d’inammissibilità avrebbe in effetti vita effimera e non impedirebbe il successivo intervento derogatorio in executivis.
Analoga soluzione in sede esecutiva non è invece prevista per la prescrizione del reato, maturata
prima della conclusione del processo di merito e non rilevata.
Differente dalla declaratoria di estinzione per prescrizione è pure l’estinzione legata alla morte
dell’imputato, avvenuta prima della condanna (art. 150 c.p. e art. 69 c.p.p.). Quest’evento risolve ab imis
il rapporto processuale e fa considerare qualunque provvedimento successivo come inesistente giuridicamente tanto che l’eventuale inammissibilità del ricorso ha natura recessiva rispetto alla richiamata
causa estintiva (Cass., sez. un., 23 gennaio 1982, n. 3489; Cass., sez. VI, 9 marzo 2010, n. 10199). A non
diversa conclusione deve pervenirsi con riferimento alla remissione di querela, intervenuta in pendenza
del ricorso per cassazione e ritualmente accettata.
La remissione di querela, per la sua peculiare fisionomia, prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto nel rispetto dei termini previsti dall’art. 585 c.p.p. (Cass., sez. un., 25 febbraio 2004, n. 24246). La
proiezione di tale causa estintiva, oltre la soglia del giudicato sostanziale, si giustifica in forza della assoluta prevalenza della voluntas del remittente che pone nel nulla la condizione per l’inizio dell’azione
penale.
Le Sezioni Unite respingono anche il postulato parallelismo con le deroghe all’effetto preclusivo
dell’inammissibilità recentemente individuate dal Giudice delle leggi, dal legislatore e dalle stesse Sezioni Unite riguardo al trattamento sanzionatorio dei reati previsti dalla normativa sugli stupefacenti.
Qui, invero, il principio di diritto affermato secondo cui l’illegalità della pena conseguente a dichiarazione d’incostituzionalità di norme riguardanti il trattamento sanzionatorio è rilevabile d’ufficio nel
giudizio di cassazione anche in caso di inammissibilità del ricorso presenta una differente portata
(Cass., sez. un, 28 luglio 2015, n. 33040). La declaratoria d’incostituzionalità (C. cost., n. 32/ 2014), spiegando effetti ex tunc, incide sul giudicato sostanziale, prevale su di esso e impone al giudice di ricondurre entro limiti legali la sanzione, anticipando in sostanza un intervento che, in difetto, potrebbe comunque essere spiegato dal giudice dell’esecuzione (Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858; Cass.,
sez. un., 26 giugno 2015, n. 46653). Nelle ipotesi di successione di leggi nel tempo, la Corte di Cassazione, pur in presenza di un ricorso inammissibile, può dunque ritenere applicabile d’ufficio all’imputato
il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio, disponendo l’annullamento sul punto della sentenza di merito pronunciata prima della modifica normativa in mitius. A venire in gioco sono infatti la
finalità rieducativa della pena e il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità che impongono di rivalutare, sulla base dei nuovi e più miti parametri edittali, la misura della sanzione precedentemente individuata e non più legalmente conformata. La “illegalità sopravvenuta” della pena integra
un motivo “costituzionalmente imposto” (art. 1 c.p., art. 25, comma 2, Cost., art. 7, comma 1, Cedu e art.
117, comma 1, Cost.), del quale la Corte di legittimità, anche a fronte di un ricorso inammissibile, deve
dunque “autoinvestirsi”. Un ragionamento analogo non potrebbe invece legittimarsi in tema di prescrizione sopravvenuta.
Le Sezioni Unite respingono poi anche l’asserita violazione del principio costituzionale di uguaglianza, legata alla condizione che imputati nella identica situazione di fatto e di diritto vengano diversamente valutati a seconda che abbiano o meno diligentemente eccepito (o che comunque sia stata rilevata dal giudice di merito) la prescrizione. A ben vedere, le situazioni non sono sovrapponibili, consiSCENARI | SEZIONI UNITE
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derato che rileva anche la condotta della parte processuale interessata a escludere l’operare della estinzione per prescrizione proponendo un’impugnazione non conforme al modello legale e inidonea ad instaurare il grado successivo di giudizio.
Privo di consistenza è, infine, l’argomento secondo cui, ancor prima dell’esercizio dell’azione penale
e quindi al di fuori dell’instaurazione del rapporto processuale in senso stretto, sussiste l’obbligo di rilevare e dichiarare, con l’archiviazione del procedimento (art. 411 c.p.p.), la prescrizione del reato. La
Suprema corte afferma agevolmente l’ontologica diversità fra le due situazioni.
La prima, di natura interlocutoria e sommaria, è ispirata dalla regola di giudizio di cui all’art. 125
disp. att. c.p.p., che impone a chiusura delle indagini preliminari di operare un vaglio degli elementi
acquisiti nella loro attitudine a giustificare il rinvio a giudizio oppure l’archiviazione per la superfluità
dell’accertamento giudiziale (C. cost., n. 88/1991).
Del tutto differente è, invece, la rilevabilità della questione della prescrizione nell’ambito di un rapporto di impugnazione validamente instaurato. In questa seconda ipotesi, se la sequenza processuale è
inficiata dall’inammissibilità dell’atto introduttivo, il potere cognitivo dell’organo giudicante non può
che rimanere circoscritto alla sola rilevazione di tale inammissibilità, precludendosi l’esame del fatto in
relazione al quale dovrebbe operare la causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p.
Dal complesso delle richiamate considerazioni discende dunque l’enunciazione del primo principio
di diritto, secondo cui «l’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare
d’ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p.p. e art. 609, comma 2, c.p.p., l’estinzione del reato per prescrizione
maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d’appello, ma non eccepita nel grado di merito, né rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso».
Differente è la conclusione cui le Sezioni Unite pervengono per il caso in cui con il ricorso per cassazione sia dedotta, sia pure come unica doglianza, l’estinzione del reato per prescrizione maturata prima
della sentenza d’appello, ma non eccepita dalla parte interessata nel grado di merito né rilevata da quel
giudice. In questa eventualità, il ricorso non può ritenersi inammissibile e la causa di non punibilità (erroneamente non dichiarata dal giudice di merito) deve essere rilevata e dichiarata, in accoglimento del
proposto motivo, in sede di legittimità. Nessun dato positivo nega infatti la censura in Cassazione
dell’errore del giudice di appello che ha omesso di dichiarare la già intervenuta prescrizione del reato,
pur se non eccepita dalla parte interessata in quel grado. Il ricorso per cassazione, anche se strutturato
su questo solo motivo, è certamente ammissibile, perché volto a fare valere l’inosservanza o l’erronea
applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.
In tale caso, l’error in iudicando si concretizza proprio nella detta omissione e l’impugnazione è volta
a emendare tale errore. L’ammissibilità del ricorso non è pregiudicata dal fatto che il ricorrente, con le
conclusioni rassegnate in appello, non abbia eccepito la prescrizione maturata nel corso di quel giudizio
né dalla mancata deduzione di parte con i relativi motivi (art. 606, comma 3, c.p.p.). L’art. 129 c.p.p. impone al giudice l’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità. Se egli non adempie, la
sentenza di condanna, viziata da palese violazione di legge, può essere fondatamente impugnata con
atto certamente idoneo ad attivare il rapporto processuale del grado superiore, e a escludere la formazione del c.d. “giudicato sostanziale”. Pertanto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., è «ammissibile il ricorso per cassazione col quale si deduce, anche con un unico motivo, l’intervenuta estinzione
del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata
dal giudice di merito».
PER EFFETTUARE LA RINUNCIA TOTALE O PARZIALE ALL’IMPUGNAZIONE È NECESSARIA LA PROCURA SPECIALE DEL DIFENSORE
(Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 12603)
Secondo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, il difensore, di fiducia o d’ufficio,
dell’indagato o imputato, non munito di procura speciale, non può effettuare una valida rinuncia, totale
o parziale, all’impugnazione, anche se da lui proposta, a meno che il rappresentato sia presente alla dichiarazione di rinuncia fatta in udienza e non vi si opponga.
Il ragionamento della Corte si pone nel solco della giurisprudenza maggioritaria (Cass., sez. un., 31
maggio 1991, n. 6; Cass., sez. VI, 25 novembre 1988, n. 1802; Cass., sez. IV, 5 febbraio 1992, n. 6117; più
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recentemente, Cass., sez. II, 5 dicembre 2014, n. 5378; Cass., sez. III, 16 aprile 2015, n. 33032) ed è confortato sia da ragioni dogmatiche sia da una puntuale ricostruzione sistematica.
Nell’ottica della Corte il potere di impugnazione e il potere di rinunciare ad una impugnazione già
presentata costituiscono fenomeni diversi per cui l’attribuzione legislativa di un autonomo potere di
impugnazione al difensore non implica la conseguente attribuzione di un potere (non previsto) di successiva rinuncia.
Il difensore non munito di procura speciale non è infatti legittimato a operare una valida dismissione, totale o parziale, dell’impugnazione, quand’anche da lui proposta poiché tale attività non rientra
nell’aspetto strettamente tecnico del diritto di difesa e nella discrezionalità professionale del suo mandato. La rinuncia all’impugnazione costituisce, invece, un atto abdicativo di un diritto del quale unici
titolari sono l’indagato, l’imputato o il condannato, anche qualora l’impugnazione venga proposta dal
difensore per conto e nell’esclusivo interesse di tali soggetti.
Una qualche eccezione l’indirizzo maggioritario – presente già nel codice del 1930 – ammetteva per i
casi di rinuncia fatta in udienza dal difensore privo di procura speciale accettata o almeno non ricusata
dal suo assistito che fosse presente o non manifestasse un’opposizione (Cass., sez. III, 13 novembre
1979, n. 1629; Cass., sez. V, 26 febbraio 1979, n. 4202). In tale eventualità la provenienza della dichiarazione di rinuncia doveva comunque imputarsi alla parte che col suo comportamento inequivoco esprimeva una implicita volontà di ratifica; il difensore agiva come mero nuncius e non quale soggetto titolare di un vero e proprio potere rappresentativo.
Contrastando questo orientamento – pressoché granitico – una parte della giurisprudenza (Cass.,
sez. VI, 8 giugno 1992, n. 2115) proponeva invece di estendere il potere di rinuncia parziale all’impugnazione, pur in assenza del contributo volitivo del suo assistito a ogni motivo di doglianza che il difensore poteva avere fatto valere, non potendosi accettare approssimative distinzioni tra rinuncia totale
(inammissibile) e rinuncia parziale (ammissibile).
Tale impostazione contrastava però con il dato testuale dell’art. 589 c.p.p., che attribuisce il potere di
rinuncia alle sole «parti private», per cui presto venne ribadita la regola secondo cui il difensore
dell’imputato non può validamente rinunciare all’impugnazione, anche se da lui stesso proposta, senza
mandato speciale da rilasciarsi nelle forme previste dall’art. 122 c.p.p. (Cass., sez. I, 14 gennaio 1994, n.
198; Cass., sez. un., 5 ottobre 1994, n. 18, in tema di legittimazione del difensore dell’imputato latitante
o evaso).
Il filone minoritario ha vissuto un recente revirement giurisprudenziale (Cass., sez. I, 18 giugno 2014,
n. 48289) con l’affermazione della possibilità per il difensore di fiducia di rinunciare alla impugnazione
pure in difetto della procura speciale sulla base della titolarità del diritto autonomo di impugnazione:
nell’ambito del ruolo partecipativo, e non di mera assistenza, attribuito alla difesa tecnica nel processo
penale, il diritto di impugnare è espressamente riconosciuto al difensore dell’imputato dall’art. 571,
comma 3, c.p.p. e implica l’esercizio di un potere dispositivo sulle sorti del processo in grado di produrre effetti sostanziali anche pregiudizievoli per il rappresentato.
Le Sezioni Unite, con la decisione in analisi, negano fondamento al descritto indirizzo minoritario ritenendo che la rinuncia, in quanto dichiarazione estintiva dell’efficacia dell’atto di impugnazione già
proposto, implichi una legittimazione attuale a disporre dei diritti e facoltà che con esso sono venuti in
essere, riservata esclusivamente al soggetto attivo del diritto stesso. A conforto di tale scelta si pone il
tenore letterale dell’art. 589, comma 2, c.p.p. che, attribuendo il potere di rinunciare all’impugnazione
alle «parti private», sembra volere eccettuare il difensore. La locuzione esprime la ratio sistematica che
assegna valore prioritario alla volontà dell’imputato di avvalersi o meno degli effetti dell’atto di impugnazione formulato dal difensore, sottesa sia all’art. 589, comma 2 sia all’art. 571, comma 4, c.p.p. (che si
limita a disciplinare il modo e la forma con cui l’imputato può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo difensore). È all’imputato, dunque, che spetta in definitiva la valutazione dei propri reali interessi nonché della convenienza a rinunciare o meno allo strumento di successivo controllo delle decisioni.
Questa rinuncia – a detta delle Sezioni Unite – ben può avvenire anche tacitamente o implicitamente
purché il complessivo comportamento del soggetto legittimato dimostri in modo certo una sua inequivoca volontà di concordare con la dichiarazione del difensore non obiettando nulla in contrario.
Del resto, il legislatore ha avuto cura di distinguere nella disciplina delle impugnazioni le «parti private» dai difensori, sia con riguardo alla presentazione dell’impugnazione (art. 582, comma 2, c.p.p.) sia
con riguardo alla spedizione dell’atto di impugnazione (art. 583, comma 3, c.p.p.). Si tratta di un imporSCENARI | SEZIONI UNITE
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tante dato ermeneutico, utile a restringere l’indicazione contenuta nell’art. 589, comma 2, c.p.p. unicamente all’imputato. Nell’ottica descritta, gli artt. 571, comma 4, e 589, comma 2, c.p.p. esauriscono dunque le ipotesi di rinuncia aventi ad oggetto le impugnazioni della «parte imputato» (sia proposte
dall’imputato personalmente sia proposte autonomamente dal difensore), senza lasciare spazio alcuno
a poteri “atipici” di rinunzia del difensore.
Né potrebbe accettarsi l’accentuazione del ruolo partecipativo e non di mera assistenza della difesa
tecnica, ricavabile dal disposto dell’art. 99, comma 1, c.p.p., che attribuisce al difensore le «facoltà e i diritti che la legge riconosce all’imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest’ultimo».
Invero, la regola speciale contenuta nell’art. 589, comma 2, c.p.p. fa letteralmente riferimento alla rinuncia proposta dalle «parti private», anche a mezzo di procuratore speciale. Dunque, il legislatore ha voluto attribuire al difensore soltanto il potere di impugnazione e riservare invece la potestà abdicativa
esclusivamente all’imputato.
A parere delle Sezioni Unite, non potrebbe rilevare in prospettiva contraria neppure la prospettata
mutazione di contenuti del principio di unicità del diritto di impugnazione nel diverso principio
dell’autonomia delle impugnazioni dell’imputato e del difensore che ha trovato espressione recentemente dalla giurisprudenza in tema di restituzione del termini per impugnare al contumace (Cass., sez.
un. 31 gennaio 2008, n. 6026). Quand’anche si ritenesse, infatti, che il principio di unicità del diritto di
impugnazione sia stato totalmente travolto e scardinato per essere sostituito dal diverso principio
dell’autonomia delle impugnazioni dell’imputato e del difensore (di ufficio o anche di fiducia), non potrebbe necessariamente ricavarsene la sostanziale modifica o l’abrogazione tacita delle specifiche norme
che attribuiscono al solo interessato o a un suo procuratore speciale il potere di rinunciare a una impugnazione già proposta dal difensore (di fiducia o d’ufficio) per suo conto e nel suo interesse.
Il principio affermato viene riferito – e non poteva essere altrimenti – anche alle ipotesi di rinuncia
parziale: se la rinuncia è un atto dispositivo del rapporto processuale, non riconducibile al semplice
esercizio della difesa tecnica, medesima natura di atto dispositivo ha la rinuncia parziale con la quale si
abdica alla possibilità, già esercitata per conto dell’imputato, di ottenere la riforma o la caducazione di
un capo o punto del provvedimento impugnato. La rinuncia parziale integra un atto abdicativo di diritti e facoltà processuali già acquisiti, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella totale, cosicché pure
quest’atto esula da quelli autonomamente attribuiti alla discrezionalità tecnica del difensore.
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
I TERMINI, STABILITI DALLA LEGGE N. 47 DEL 2015, PER IL DEPOSITO DELL’ORDINANZA CHE HA DECISO IL
RIESAME SONO APPLICABILI ALLE DECISIONI EMESSE PRIMA DELL’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE?
(Cass., sez. I, 11 febbraio 2016, n. 5774)
Come è noto nell’ambito del procedimento incidentale di riesame, l’art. 11 della legge 16 aprile 2015, n.
47 ha modificato il comma 10 dell’art. 309 c.p.p., stabilendo che «l’ordinanza decisoria debba essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione
sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni»; in tali ipotesi il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione. L’inosservanza di tali termini perentori comporta la perdita di efficacia dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva e, salve eccezionali esigenze cautelari
specificamente motivate, il divieto della sua rinnovazione.
Non è chiaro tuttavia se la norma novellata sia o meno applicabile alle decisioni emesse in data antecedente a quella in cui sono entrati in vigore i nuovi termini, qualora l’ordinanza sia stata pronunciata
dal tribunale in sede di riesame prima dell’8 maggio 2015 – data dell’entrata in vigore della legge –, ma
la motivazione della decisione non sia stata depositata nei trenta giorni successivi all’entrata in vigore
della legge di riforma, né sia stata disposta una proroga. La questione delle conseguenze derivanti dal
superamento dei termini fissati dalla novella per la stesura della motivazione della pronuncia sul riesame, quando tale decisione sia stata assunta precedentemente all’entrata in vigore della nuova disciplina, è stata diversamente risolta dalla giurisprudenza.
Nella sentenza in esame la Cassazione esclude l’applicabilità dell’art. 309, comma 10, c.p.p., nella sua
nuova formulazione, alle decisioni emesse prima dell’entrata in vigore della novella. Pur non mettendo
in discussione, in mancanza di una disciplina transitoria, il valore del principio tempus regit actum, secondo cui, nei casi di successione di norme nel tempo, ciascuna attività processuale va tendenzialmente
assoggettata alla normativa del tempo in cui essa si verifica, la Suprema Corte ritiene essenziale apprezzare il contenuto di ogni singola disposizione e rapportare ogni innovazione alle sue potenziali ricadute sui procedimenti in atto. In base all’analisi delle disposizioni che individuano diritti, facoltà,
oneri, e decadenze nella fase delle impugnazioni, si deve escludere – ad avviso della Cassazione – che
l’applicazione del principio tempus regit actum determini l’applicabilità delle novità normative al caso di
specie: l’actum che viene in rilievo è costituito dalla decisione assunta in sede di riesame con ordinanza;
l’ordinanza è atto unitario, in cui non si distingue tra parte dispositiva e parte argomentativa; anche se
il provvedimento si manifesta provvisoriamente con il deposito del solo dispositivo, la norma applicabile è pertanto quella vigente al momento dell’emissione dell’ordinanza stessa e quindi – prima dell’8
maggio 2015 – la regola del deposito integrale del provvedimento del giudice entro cinque giorni, stabilita dall’art. 128 c.p.p. Secondo la Corte il fatto che nella prassi si verifichi una scissione tra deposito del
dispositivo e quello della motivazione non determina una autonomia «del momento puramente espressivo della motivazione rispetto a quello della decisione»; di conseguenza tale attività non può dirsi attratta nell’ambito applicativo della nuova disposizione, tanto più che la previsione attuale introduce
una sanzione processuale che finirebbe per produrre i suoi effetti in relazione a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti alla vigenza della norma che la contiene.
La sentenza in esame si contrappone ad una precedente pronuncia che viceversa ritiene applicabile
la nuova normativa anche alle decisioni emesse anteriormente all’entrata in vigore della legge di riforma, in ossequio al principio del tempus regit actum. Secondo questo orientamento, l’attività procedimentale oggetto della disciplina novellata è costituita dalla redazione della motivazione dell’ordinanza deSCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
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cisoria della procedura di riesame e non più dalla precedente, e ormai esaurita, emissione del dispositivo. Poiché nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, l’attività di stesura della motivazione era pienamente in corso al momento dell’entrata in vigore della legge, tale attività era da ritenersi soggetta alla
nuova disciplina, sia con riguardo alla durata dei termini per il deposito, sia con riguardo alla sanzione
di inefficacia della misura cautelare prevista per l’inosservanza dei termini; pertanto il superamento dei
termini determina l’inefficacia della misura cautelare (Cass., sez. V, 7 ottobre 2015, n. 40342).
L’APPLICABILITÀ IN SEDE DI LEGITTIMITÀ DELL’ART. 131 BIS C.P.
(Cass., sez. VI, 11 marzo 2016, n. 10168)
Il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 ha introdotto nel nostro ordinamento attraverso l’art. 131 bis c.p. la nuova
causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. La giurisprudenza ha riconosciuto a tale istituto
una natura sostanziale e in ossequio al principio della retroattività della legge di favore, sancito dall’art.
2, comma 4, c.p., ha ritenuto applicabile la previsione della esclusione della punibilità di cui all’art. 131
bis c.p. ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 28 del 2015, ivi compresi quelli
pendenti in sede di legittimità (Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449; Cass., sez. VI, 16 settembre 2015,
n. 45073; Cass., sez. V, 11 febbraio 2016, n. 5800).
Non altrettanto uniforme appare la giurisprudenza con riguardo alle modalità e ai limiti entro i quali è consentito alla Corte di Cassazione prendere atto della causa di non punibilità nel giudizio di legittimità.
Un primo profilo problematico riguarda la possibilità di rilevare d’ufficio l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, quando questa non sia oggetto di una richiesta specifica formulata
dalla parte nell’ambito di motivi aggiunti o di memorie o ancora oralmente in udienza.
Secondo la tesi prevalente, il giudice di legittimità può rilevare e valutare d’ufficio la sussistenza
delle condizioni di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. in forza del disposto dell’art. 609, comma 2, c.p.p.
che ammette la decisione della Corte Suprema, oltre che su questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e
grado del processo, anche su questioni «che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello»
(Cass., sez. V, 11 febbraio 2016, n. 5800; Cass., sez. VI, 16 settembre 2015, n. 45073; Cass., sez. III, 26
maggio 2015, n. 27055).
Tuttavia la giurisprudenza di legittimità sembra escludere la rilevabilità d’ufficio della causa di non
punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. nel giudizio di cassazione laddove asserisce che l’esclusione della punibilità per tenuità del fatto, configurandosi come motivo nuovo, non prospettabile nel ricorso per
difetto della relativa previsione normativa, va richiesta fino a quindici giorni prima dell’udienza ai sensi dell’art. 585, comma 4, c.p.p. (Cass., sez. V, 29 gennaio 2016, n. 3963). Anche la sentenza in esame a
prima vista pare escludere la rilevabilità d’ufficio della nuova causa di non punibilità quando afferma
che i limiti posti allo scrutinio demandato al giudice di legittimità – là dove precludono una valutazione di profili concernenti il merito – impediscono di rilevare già in questa fase la ricorrenza della lieve
entità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis c.p.
Riconoscere alla Corte la possibilità di procedere direttamente alla valutazione dei presupposti applicativi dell’art. 131 bis c.p.p. fa sorgere un’ulteriore questione: se tale giudizio debba essere espresso
attraverso un annullamento con rinvio della sentenza impugnata o se sia consentito anche un annullamento senza rinvio.
Secondo un orientamento non vi è ragione di escludere la diretta applicazione della causa di non
punibilità nel giudizio di legittimità, nell’esercizio dei poteri riconosciuti alla Corte dall’art. 620 lett. l),
quando già dalla sentenza impugnata risultino palesi la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi e un apprezzamento del giudice di merito nel senso che il caso di specie vada sussunto nella particolare tenuità del fatto (Cass., sez. VI, 16 settembre 2015, n. 45073; Cass., sez. VI, 6 novembre 2015, n.
44683; Cass., sez. V, 3 dicembre 2015, n. 48020; Cass., sez. V, 11 febbraio 2016, n. 5800).
In altre pronunce, come nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la valutazione relativa all’applicabilità della causa di non punibilità per tenuità del fatto debba essere, di norma,
demandata al giudice di merito non potendosi in sede di legittimità effettuare apprezzamenti di fatto
diretti alla ricostruzione e alla delibazione nel merito della vicenda: pertanto, secondo questo orientamento, il giudice di legittimità, ritenute sussistenti le condizioni di applicabilità dell’art. 131 bis c.p., sulSCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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la base di quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata
deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito (Cass., sez. fer., 9 settembre 2015, n. 36500;
Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449).
Come viene sottolineato dalla sentenza in esame, sotto questo profilo, il contrasto è tuttavia più apparente che reale. Il diverso epilogo decisorio – annullamento con rinvio o senza rinvio – dipende non
da un diverso approccio teorico alla questione, bensì dal «diverso atteggiarsi della fattispecie storico
fattuale sub iudice e, soprattutto, dall’impianto argomentativo della pronuncia sottoposta al vaglio» della Corte.
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Processo penale e giustizia n. 5 | 2015
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
Avanguardie in giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | VIOLAZIONE DEI DIRITTI DELL’EQUO PROCESSO E LA LORO APPLICABILITÀ
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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L’illegalità della pena per violazione dell’art. 7 Cedu tra le
questioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di Cassazione
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE V, SENTENZA 9 NOVEMBRE 2015, N. 44897 – PRES. MARASCA; REL. CATENA
La violazione del principio di legalità della pena, pur se non dedotta nei motivi di impugnazione, è rilevabile d’ufficio
anche nell’ambito del giudizio di Cassazione.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza pronunciata dal
Tribunale di Forli in composizione monocratica – sezione distaccata di Cesena – in data 4 aprile 2013,
con cui veniva affermata la penale responsabilità di [Omissis] per il reato di cui all’art. 582 c.p, in danno
di [Omissis] commesso in Cesenatico il 5 maggio 2008, condannando l’imputata alla pena di mesi due di
reclusione – previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, con applicazione del beneficio
della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel certificato del casellario giudiziale
– oltre che al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile costituita.
Con ricorso depositato il 16 aprile 2015 il difensore della ricorrente deduce, con unico motivo, erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, in quanto la Corte territoriale sarebbe pervenuta all’affermazione di penale responsabilità della ricorrente per il delitto di lesione senza rispettare
il principio del ragionevole dubbio; in particolare non sarebbe stata debitamente considerata la versione
dei fatti fornita dalla [Omissis] non sarebbero state valutate le contraddizioni emerse dall’esame dibattimentale della persona [Omissis] offesa erroneamente ritenuto attendibile, non sarebbe stata considerata la sussistenza della scriminante di cui all’art. 52 c.p., né, infine, sarebbe stata valutata altra sentenza
di condanna per il medesimo fatto, la n. 442/2012, pronunciata dal Tribunale di Forlì in composizione
monocratica nei confronti del predetto [Omissis] per il delitto o di lesioni, ingiurie e minacce commesso
in danno della odierna ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato
Le censure mosse dalla ricorrente si fondano su punti della sentenza di primo e secondo grado già
oggetto di specifica decisione.
Va premesso che, come noto, la struttura motivazionale della sentenza di primo grado e della sentenza di appello formano un unico e complessivo corpo argomentativo, integrandosi reciprocamente,
ciò soprattutto qualora, nell’esaminare le censure dell’appellante, i giudici dell’appello utilizzino i medesimi criteri del primo giudice, ovvero criteri assimilabili; ciò in sede di controllo di legittimità sull’analisi e la valutazione dei mezzi di prova, implica la complessiva considerazione dell’intera struttura
motivazionale risultante dalla saldatura tra le strutture giustificative delle sentenze di primo e di secondo grado (Sez. III, n 44418 del 16 luglio 2013, Rv. 257595; sez. I, n. 8868 del 26 giugno 2000, Rv.
216906; sez. II, n. 5606 dell’8 febbraio 2007, Rv. 236181). La ricorrente lamenta, specificamente, la valutazione di attendibilità della persona offesa da parte del giudice dell’appello, non essendo stata fornita
alcuna giustificazione delle ragioni per cui non è stata ritenuta attendibile, al contrario, la versione dell’imputata. La Corte di Appello, ritenendo condivisibile la valutazione di coerenza e di attendibilità del
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ILLEGALITÀ DELLA PENA PER VIOLAZIONE DELL’ART. 7 CEDU
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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[Omissis] operata dal primo giudice, ha sottolineato la mera riproposizione delle argomentazioni difensive, superate dal riscontro costituito dal certificato medico redatto nei confronti della persona offesa,
del tutto coerente con la narrazione dei fatti dalla stessa fornita, a fronte, peraltro, del certificato medico
redatto nei confronti della ricorrente attestante semplicemente una crisi isterica e delle escoriazioni ai
polsi, anche questo elemento di conferma della versione del [Omissis] che aveva affermato di aver tenuto la [Omissis] per i polsi al fine di difendersi dall’aggressione della donna.
Quanto all’affermato contrasto di giudicati, va rilevato come la sentenza n. 442/2012 emessa dal Tribunale di Forlì in composizione monocratica – sezione distaccata di Cesena – nei confronti di [Omissis],
non riguardi affatto la medesima vicenda storica, ma un’analoga vicenda verificatasi in altra data, il 22
maggio 2008. Con la sentenza da ultimo citata, infatti, [Omissis] era stato effettivamente condannato per
i delitti di minaccia, ingiurie e lesioni ai danni della [Omissis] ma appare del tutto improprio parlare di
contrasto di giudicati, non tanto per la mancata attestazione di irrevocabilità della sent. n. 442/2012 –
considerato che l’applicazione dell’art. 649 c.p.p non è affatto condizionato dalla irrevocabilità delle
sentenze, come pacificamente a seguito di sez. un., sent. n. 34655 del 28 giugno 2005, Rv. 231800), ma,
soprattutto, per la evidente diversità storica dei fatti, verificatisi, rispettivamente, in data 5 maggio 2008
quelli oggetto della sentenza di cui al presente ricorso, ed in data 22 maggio 2008 quelli di cui alla sentenza n. 442/2012.
La circostanza affermata in ricorso – secondo cui il [Omissis] soggetto dedito all’assunzione di alcool
e di stupefacenti – è stata meramente affermata anche nei motivi di appello, dove non veniva sostenuta
da alcuna specifica allegazione; parimenti viene prospettata in sede di ricorso, semplicemente come non
verosimile la possibilità che il [Omissis] di corporatura massiccia potesse essere stato aggredito dalla
[Omissis] di corporatura esile e di statura non alta, non individuandosi, però, alcuna fonte di prova a
sostegno di tale ricostruzione alternativa, che la Corte di appello avrebbe omesso di valutare. Ne deriva
che anche la tesi della legittima difesa da parte della [Omissis] appare una mera congettura difensiva
non sostenuta, nei motivi di appello, da alcun elemento probatorio, e pertanto espressamente esclusa
dalla Corte territoriale nella motivazione della sentenza.
Diversamente da quanto sostenuto in ricorso, quindi, la sentenza impugnata ha effettuato una valutazione delle emergenze processuali adeguata e corretta indicando in maniera esaustiva anche richiamandosi alle argomentazioni della sentenza di primo grado, sulla base di quali dati fattuali si doveva
ritenere dimostrata la penale responsabilità per il delitto di lesioni commesso dalla [Omissis] in danno
del [Omissis] inquadrando la vicenda in un clima di conflittualità familiare perdurante.
2. Resta da esaminare la questione relativa alla determinazione della pena, benché essa non costituisca specifico motivo di ricorso.
La Corte di Appello ha confermato la pena inflitta dal primo giudice, individuata in mesi due di reclusione, previa concessione alla [Omissis] delle circostanze attenuanti generiche. Non vi è dubbio che il
reato di cui all’art. 582, comma 1, c.p – trattandosi di lesioni giudicate guaribili in giorni dieci – rientri
nella competenza del giudice di pace, con la conseguenza che avrebbe dovuto essere applicata la sola
pena pecuniaria di cui all’art. art. 52, comma 2, lett. b), d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, come previsto specificatamente dall’art. 63 del medesimo decreto legislativo (sez., II, n. 24411 del 9 giugno 2010, Calandra,
Rv. 247856).
Nel caso di specie, quindi, la pena in concreto inflitta deve essere ritenuta pena illegale, essendo pacifica la individuazione del concetto di pena illegale tanto nella pena diversa per specie da quella che la
legge stabilisce per quel determinato reato, quanto nella pena inferiore o superiore, per quantità, ai relativi limiti edittali (sez. II, n. 12991 del 19 febbraio 2013, Stagno ed altri, Rv. 255197).
In dette eventualità, infatti, irrogare una sanzione diversa per specie e/o quantità rispetto ai confini
edittali involge il valore costituzionale della legalità della pena di cui all’art. 25 Cost., che risulterebbe in
concreto vulnerato se non si potesse porre rimedio, anche d’ufficio, all’errore dei giudice del grado precedente.
A ciò va aggiunta la valutazione anche del principio della funzione rieducativa della pena, di cui
all’art, 27, comma 3, Cost., principio fra quelli che, anche in ossequio alla evoluzione interpretativa determinate dai principi della Cedu, le Sezioni unite di questa Corte hanno riconosciuto essere in opposizione all’esecuzione di una sanzione penale rivelatasi, pure successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima (sez. un., sent. n. 18821 del 24 ottobre 2013, Rv. 258651).
Ne deriva come possa pacificamente ritenersi che la illegalità della pena inflitta, dipendente da una
statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento di consumazione del reato –
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come verificatosi nel caso di specie – debba essere rilevata prima della formazione del giudicato, anche
prescindendo dalla articolazione di un corrispondente motivo di impugnazione.
Inoltre, nel caso in esame, la pena in contrasto con la previsione di legge è stata inflitta anche in senso sfavorevole alla ricorrente, ed a detto errore la Cassazione, pur in assenza di specifico motivo di gravame, può porre rimedio in osservanza a quanto previsto dall’art. 1 c.p., oltre che in forza del compito
istituzionale, proprio della Corte di Cassazione, di correggere le deviazioni da tale disposizione, fermo
restando che la possibilità di correggere in sede di legittimità la illegalità della pena, nella specie o nella
quantità, è limitata all’ipotesi in cui l’errore sia avvenuto in danno e non in vantaggio dell’imputato
(sez. VI, n 49858 del 20 febbraio 2013, Rv. 257672).
Infine va osservato che soccorre anche il richiamo al principio di ragionevole durata del processo,
ciò in quanto nella situazione in esame appare agevole la determinazione della pena legale senza dover
formulare alcun giudizio di merito ulteriore né dovendosi procedere ad accertamenti in fatto, entrambi
incompatibili con il giudizio di legittimità, bensì potendosi semplicemente applicare alla pena legale la
modalità di calcolo operata dal primo giudice, apparendo al contrario del tutto irragionevole rinviare la
determinazione della pena al giudice dell’esecuzione.
Ne deriva, quindi, che, avendo il primo giudice determinato la pena detentiva nel minimo edittale
previsto dall’art. 582 cod. pen., quindi individuando la specie di pena prevista in epoca precedente
l’entrata in vigore del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 – pertanto pena illegale – applicando poi
le circostanze ex art. 62 bis c.p. nella massima estensione, è agevole individuare la pena legale in concreto attraverso la riproposizione dello stesso criterio di calcolo applicato alla pena legale edittale, prevista, per la fattispecie in esame, nel minimo pari ad euro 516,00 di multa, ridotta di un terzo per effetto
dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione, pervenendosi pertanto alla pena di euro 344,00 di multa; ciò senza procedere ad alcuna ulteriore valutazione di merito ai
sensi dell’art. 133 c.p.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio, rideterminato in euro 344,00 di multa.
Nel resto il ricorso della [Omissis] va rigettato e, per l’effetto, la ricorrente va condannata al rimborso
delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in euro 1.600,00 oltre accessori come
per legge.
[Omissis]
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ROSSELLA MASTROTOTARO
Ricercatore di Diritto processuale penale – Università del Salento
La veste legale della pena: una questione non differibile
The legal form of penalty: a matter can not be postponed
Il valore costituzionale di legalità della pena e la funzione rieducativa a cui essa deve tendere impongono al Giudice
di legittimità di darsene carico indipendentemente da una richiesta della parte, quando la pena in contrasto con la
previsione di legge è stata inflitta in senso sfavorevole al condannato.
The constitutional legality of penalty and rieducatrice function to which it should be oriented, impose to the Supreme Court taking charge independently of a request from the party, when the penalty, contrary to the legal prevision, was imposed in a manner unfavorable to the convinte.
LA QUESTIONE AFFRONTATA DALLA CASSAZIONE
La sentenza in commento si inserisce in quel movimento giurisprudenziale che da qualche anno a questa parte si sta adoperando per individuare spazi e strumenti di controllo sullo statuto della pena. È
nuovamente il turno del giudizio di legittimità contraddistinto da una cognizione circoscritta ai temi
devoluti con i motivi di gravame, a cui si aggiungono le questioni rilevabili d’ufficio, che con i primi
hanno in comune il tratto di non involgere accertamenti sul fatto e valutazioni nel merito.
In relazione ad un episodio del 2008 di lesioni personali giudicate guaribili in giorni dieci, rientrante
nella competenza del Giudice di pace, la Quinta Sezione della Cassazione, nonostante l’acquiescenza
sul punto del ricorrente, sostituisce la pena – condizionalmente sospesa – di mesi due di reclusione, erroneamente inflitta nei gradi di giudizio precedenti, con la pena pecuniaria, giusta la previsione
dell’art. 52, comma 2, lett. b), del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.
La pena va modificata in quanto giudicata illegale, essendo pacifica l’individuazione del concetto di
pena illegale sia nel caso di pena diversa per specie da quella che la legge stabilisce per quel determinato reato, sia al cospetto di pena inferiore o superiore ai relativi limiti edittali 1.
Non è la prima volta che il Giudice di legittimità avoca a sé temi di questo genere rispetto a pene
comminate per reati che, a partire dal 2000, sono stati trasferiti dalla competenza del Tribunale a quella
del Giudice di pace; in particolare ciò è accaduto in relazione a pene irrogate per fatti che, in quanto
commessi prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000, erano stati giudicati dal Tribunale 2.
Considerata la natura riparatoria delle misure sanzionatorie previste dal titolo II del d.lgs. n. 274/2000,
la loro applicazione è consentanea alla finalità conciliativa a cui deve tendere l’organo giurisdizionale
chiamato a comporre i conflitti generati da reati di natura bagatellare.
Come altri autorevoli suoi precedenti 3, neppure troppo remoti, il tessuto argomentativo della sentenza che si annota risente del fervido dibattito d’oltralpe intorno alla portata del principio di legalità
convenzionale in materia penale di cui all’art. 7 Cedu.
1
Cass., sez. VI, 15 luglio 2014, n. 32243, in CED Cass., n. 260326; Cass., sez. II, 19 febbraio 2013, n. 22136, in CED Cass., n.
255729; Cass., sez. II, 7 maggio 2013, n. 20275, in CED Cass., n. 255197.
2
Cass., sez. IV, 19 dicembre 2002, n. 7292, in Dir. e formazione, 2003, p. 1041.
3
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47776, in Cass. pen., 2016, p. 492.
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IL SINDACATO GIURISDIZIONALE SULLO STATUTO DELLA PENA NEL DIBATTITO EUROPEO
Per quel che riguarda l’Italia, un arresto significativo si è avuto con la nota sentenza della Corte e.d.u.,
Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, che qui rileva in quanto ha offerto l’occasione alle
Corti giurisdizionali nazionali di interrogarsi sul potere-dovere del giudice di incidere su una pena divenuta illegale, anche dopo il passaggio in giudicato, supplendo all’inerzia del condannato.
Innovando rispetto alla sua consolidata giurisprudenza 4 ed attestandosi su un trend di tutela più
elevato, peraltro già garantito negli ordinamenti di alcuni Paesi tra cui l’Italia 5, la Corte e.d.u. nella sentenza Scoppola ha precisato che l’art. 7 della Convenzione non garantisce soltanto il principio di irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche e implicitamente la retroattività o ultrattività della lex
mitior, che incide sulla configurabilità del reato o sulla specie ed entità della pena e, quindi, sui diritti
fondamentali della persona.
Su queste premesse, la Corte europea ha riconosciuto il diritto del ricorrente ad ottenere la sostituzione della pena perpetua con quella meno afflittiva della reclusione a 30 anni 6.
La portata generale della pronuncia, nonostante non si trattasse di una sentenza pilota, ha posto alle
autorità giurisdizionali italiane il problema dell’estensibilità della decisione a coloro che, pur trovandosi in una situazione giuridica analoga a quella del ricorrente Scoppola, non avessero proposto ricorso al
Giudice europeo; con la conseguenza che nei loro confronti la sentenza di condanna era passata in giudicato 7.
Nel sollevare la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 d.l. 24 novembre 2000, n. 341,
in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. – quest’ultimo in relazione all’articolo 7 della Convenzione europea –, le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che, di fronte a pacifiche violazioni
convenzionali di carattere oggettivo e generale, già stigmatizzate in sede europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all’art. 34 Cedu (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte e.d.u. cui dare esecuzione, non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di
illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo
rispetto ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona 8.
L’istanza di legalità della pena, incidendo la sanzione sul diritto inviolabile della libertà personale, è
costantemente sub iudice, anche dopo che la condanna è divenuta irrevocabile. Uno Stato democratico di
4
Corte e.d.u., 5 dicembre 2000, Le petit c. Regno Unito; Corte e.d.u., 6 marzo 2003, Zaprianov c. Bulgaria.
5
L’art. 2, comma 4, c.p. recita: «Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile».
6
Come è noto, Scoppola nel 1999 aveva commesso un omicidio aggravato e altri reati in concorso, puniti all’epoca dei fatti
con la pena dell’ergastolo con isolamento diurno. Durante la fase delle indagini preliminari entrava in vigore la legge 16 dicembre
1999, n. 479 che modificava l’art. 442, comma 2, c.p.p. prevedendo che all’esito del giudizio abbreviato la pena dell’ergastolo poteva essere sostituita con quella della reclusione a trenta anni. Ammesso al rito speciale dal gup, l’imputato era condannato a
quest’ultima pena. Lo stesso giorno entrava in vigore il d.l. 24 novembre 2000, n. 341, il cui articolo 7, nel dichiarato intento di
dare un’interpretazione autentica al secondo periodo dell’art. 442, comma 2, c.p.p., disponeva che l’espressione “pena dell’ergastolo” ivi adoperata doveva intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno ed inseriva all’interno dello stesso comma
un terzo periodo, secondo il quale alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo. Su appello del p.m., Scoppola veniva condannato alla più afflittiva pena dell’ergastolo.
La Cassazione rigettava il ricorso dell’imputato e confermava la condanna. Il ricorrente denunciava alla Corte di Strasburgo
l’applicazione retroattiva da parte dell’autorità giurisdizionale italiana dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000, sull’erroneo presupposto che si trattasse di una norma interpretativa dell’art. 442, comma 2, c.p.p; con l’effetto di essere stato condannato ad
una pena più severa rispetto a quella prevista nel momento in cui era stato giudicato in primo grado, la quale a sua volta era più
mite rispetto a quella prevista al momento della commissione del fatto.
7
La sentenza Scoppola presenta i connotati “sostanziali” di una sentenza pilota in quanto, pur astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure generali da adottare, evidenzia comunque l’esistenza, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, di un problema strutturale dovuto alla non conformità dell’art. 7, d.l. n. 341 del 2000 all’art. 7 Cedu, che impone l’applicazione della legge più favorevole tra tutte quelle entrate in vigore dalla commissione del fatto alla pronuncia della sentenza
definitiva.
8
Cass., sez. un., 19 aprile 2012, n. 34472, in Cass. pen., 2012, p. 3969, con note di M. Gambardella, Overruling favorevole della
Corte Europea e revoca del giudicato di condanna: a proposito dei casi analoghi alla sentenza “Scoppola” e di C. Musio, Di nuovo alla Corte
costituzionale il compito di tracciare il confine tra tutela dei diritti fondamentali e limite al giudicato nazionale. La questione è stata accolta da C. cost., sent. 18 luglio 2013, n. 210, in Giur. cost., 2013, p. 2915.
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diritto non può assistere inerte all’esecuzione di pene non conformi alla Cedu e quindi alla Carta fondamentale. La restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme a Costituzione (artt. 13 e 25 Cost.).
Ciò in quanto la legalità della pena, su cui incidono le vicende concernenti la validità della norma
che ne ha rappresentato la base, costituisce a sua volta condizione necessaria affinché la sanzione possa
svolgere la funzione rieducativa ad essa demandata dall’art. 27, comma 3, Cost. 9
Lo aveva già affermato la Corte costituzionale in occasione della declaratoria di incostituzionalità
della circostanza aggravante di clandestinità di cui all’art. 61, n. 11-bis c.p., osservando che il quid pluris
di pena derivante da norma costituzionalmente illegittima non può svolgere alcuna funzione rieducativa, essendo stato inflitto sulla base di una previsione legislativa dichiarata contraria ai principi costituzionali 10.
Ne consegue che nel bilanciamento tra il valore costituzionale dell’intangibilità del giudicato e il diritto fondamentale ed inviolabile della libertà personale, va data prevalenza a quest’ultimo 11.
L’esito della ponderazione, a ben vedere, può estendersi ad ogni ipotesi di restrizione illegittima della libertà personale, vuoi per effetto di una circostanza aggravante dichiarata incostituzionale 12, vuoi
per l’irragionevole mancata applicazione di una circostanza attenuante 13, vuoi, come nel caso Scoppola,
per la declaratoria di incostituzionalità di una norma penale divenuta illegittima a seguito di revirement
della Corte di Strasburgo 14, vuoi a seguito di reviviscenza del trattamento sanzionatorio più mite solo
“apparentemente abrogato” da una cornice edittale più severa dichiarata incostituzionale 15.
In tutti quei casi sarà necessario emendare il titolo esecutivo dello stigma dell’ingiustizia; di fronte
alla necessità di preservare i diritti fondamentali del condannato, la giurisdizione deve farsi carico di
riportare la condanna ad una dimensione di legittimità, nonostante l’inerzia dell’interessato.
La strada percorribile viene indicata dalle Sezioni unite Ercolano nella possibilità per il giudice
dell’esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte, di “scalfire” il giudicato avvalendosi
dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione 16.
La praticabilità della soluzione però non è affatto scontata. Vi si oppone il “mito” dell’intangibilità
del giudicato, quale garanzia di stabilità e di certezza delle statuizioni contenenti l’accertamento della
responsabilità del condannato e la conseguente irrogazione di una sanzione penale; d’altro canto, la
possibilità di incidere sul giudicato in via eccezionale è limitata ai soli casi di abolitio criminis espressamente previsti dall’art. 673 c.p.p., comprensivi dei fenomeni di abrogazione o di dichiarazione d’ille-
9
Così Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, in Cass. pen., 2015, p. 28.
10
C. cost., sent. 8 luglio 2010, n. 249, in Cass. pen., 2010, p. 3741, con nota di F. Nuzzo, Appunti sulla incostituzionalità dell’art.
61, n. 11-bis, c.p.; v. anche M. Gambardella, Gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale della circostanza aggravante della
“clandestinità”: abolizione o annullamento?, ivi, 2011, p. 1349 ss.; Id, Annullamento di circostanze aggravanti e revoca parziale del giudicato di condanna, ivi, 2012, p. 1664 ss.
11
Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41.
12
C. cost., sent. 8 luglio 2010, cit.
13
Si vedano: C. cost., sent. 5 novembre 2012, n. 251, in Cass. pen., 2013, p. 1745, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art.
69, comma 4, c.p. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5,
d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 sulla recidiva reiterata ex art. 99, comma 4, c.p.; nonché C. cost., sent. 18 aprile 2014, nn. 105 e 106, in
www.cortecostituzionale.it, che hanno dichiarato incostituzionale l’art. 69, comma 4, c.p., nella formulazione successiva alla novella introdotta dalla legge c.d. ex-Cirielli, nella parte in cui precludeva al giudice penale di considerare prevalenti le circostanze
attenuanti speciali di cui all’art. 648, comma 2, c.p. (fatto di particolare tenuità nel reato di ricettazione) e 609 bis, comma 3, c.p.
(casi di minore gravità nel reato di violenza sessuale), sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata di cui all’art. 99,
comma 4, c.p.
14
C. cost., sent. 18 luglio 2013, cit.
15
C. cost., sent. 25 febbraio 2014, n. 32, in Foro it., 2014, I, c. 1003, ha dichiarato incostituzionali gli artt. 4 bis e 4 vicies ter d.l.
30 dicembre 2005, n. 272, inseriti nella legge di conversione n. 49/2006, che equiparavano a fini sanzionatori le sostanze stupefacenti leggere a quelle pesanti.
16
Cfr. Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, cit. La sentenza rinvia, a sua volta, a Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977,
Huohou, in CED Cass., n. 252062, la quale, in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della c.d. aggravante della
clandestinità di cui all’art. 61 bis c.p., aveva riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di rideterminare la pena inflitta in
via definitiva al condannato, con eliminazione della pena in eccesso, da considerarsi illegittima, e pertanto non eseguibile. Per
un commento alla sentenza v. F. Nuzzo, Illegittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11 bis c.p., e poteri del giudice dell’esecuzione, in
Arch. n. proc. pen., 2012, p. 419, e M. Gambardella, Annullamento di circostanze aggravanti incostituzionali e revoca parziale del giudicato di condanna, in Cass. pen., 2012, p. 1660.
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gittimità costituzionale di una norma penale “strettamente incriminatrice”, ossia comprensiva di precetto e sanzione 17. Fuori dai questi casi, un indirizzo giurisprudenziale risalente ritiene applicabile la
disciplina generale di cui all’art. 2, comma 4, c.p., che oppone il giudicato all’applicazione della lex mitior più favorevole derivante dalla declaratoria di incostituzionalità di norme penali “non strettamente
incriminatrici”, in quanto incidenti sugli elementi del trattamento sanzionatorio 18. In senso contrario si
osserva che, nei casi da ultimo indicati – a cui erroneamente vorrebbe estendersi l’art. 2, comma 4, c.p.,
deputato a disciplinare il fenomeno fisiologico dell’abrogazione della norma penale, da tenere distinto
da quello patologico della declaratoria di incostituzionalità 19 – il giudice dell’esecuzione potrà rimodulare in melius la sanzione a mente dell’art. 30, comma 4, legge 11 marzo 1953, n. 87. La norma, sancendo
il divieto generale di esecuzione delle sentenze di condanna pronunciate in applicazione di disposizioni
dichiarate incostituzionali, si riferisce ai fenomeni caducatori coinvolgenti qualsivoglia norma penale
sostanziale, dunque anche quelle che ineriscono al solo trattamento sanzionatorio 20.
Abbracciando quest’ultima impostazione, con un intervento di poco successivo alla sentenza Ercolano, le Sezioni unite Gatto individuano nell’incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p. lo strumento attraverso cui rimuovere la sopravvenuta illegittimità del titolo esecutivo 21. L’art. 30, comma 4, legge n.
87/1953, colmando la lacuna testuale dell’art. 673 c.p.p., consente di espandere il potere del giudice
dell’esecuzione di rimodulare in melius il trattamento sanzionatorio. Si supera, in tal modo, una certa
concezione “assolutistica” del giudicato penale – che ben si innestava nel contesto culturale ante Costituzione – in nome dei superiori diritti della personalità, del diritto di difesa e del principio di finalizzazione della pena alla risocializzazione del condannato.
I POTERI DEL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ RISPETTO ALLE QUESTIONI RELATIVE ALL’ART. 7 CEDU
Rispetto ad un tale assetto appare del tutto ragionevole e coerente la conclusione della sentenza in esame, nella parte in cui si adopera a sostituire d’ufficio la pena erroneamente inflitta nei gradi precedenti.
Se la questione sulla legalità della pena resta sub iudice anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, a fortiori essa si pone permanentemente prima di quel momento; se è consentito riformare la pena in caso di illegalità sopravvenuta, a maggior ragione deve provvedersi alla sua correzione in caso di illegalità dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente
al momento di consumazione del reato, in quanto il giudice che procede non può ignorare la “base giuridica” su cui riposano la sentenza di condanna e, con essa, la specie e l’entità della pena da eseguire.
In entrambi i casi, l’inerzia della parte – rispettivamente, i condannati che non hanno proposto ricorso ex art. 34 Cedu, ribattezzati in dottrina “fratelli minori di Scoppola” 22, ed il ricorrente che non abbia
articolato uno specifico motivo di impugnazione avverso la sanzione erroneamente inflitta dal Tribunale – non può essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico, attraverso la giurisdizione,
per eliminare una situazione di illegalità della sanzione.
Come la dottrina non ha mancato di sottolineare, la scelta maturata nel dibattito comunitario di
17
Sul tema, A. Scalfati, La pronuncia di abolitio criminis nel vigente assetto dell’esecuzione penale, in Arch. pen., 1997, p. 61.
18
Quali potrebbero essere, ad esempio, le pronunce di incostituzionalità di cui alle note nn. 12-15.
19
La distinzione tra i due istituti dell’abrogazione e della declaratoria di incostituzionalità di una norma giuridica viene
messa in luce da Cass., sez. un., 7 luglio 1984, n. 7232, in CED Cass., n. 165563.
20
Per una ricostruzione del contrasto giurisprudenziale sul tema, si rinvia a E. Turco, Illegittimità costituzionale di una norma
penale non strettamente incriminatrice e rimodulazione della pena in executivis: un altro passo verso la graduabile erosione del “mito del
giudicato”, in questa rivista, 2015, n. 3, p. 73 ss.
21
Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41. In argomento, in particolare per quanto attiene agli
strumenti esecutivi di cui dispone il giudice della fase per emendare il titolo divenuto illegittimo e quindi ineseguibile, cfr. E.
Turco, Illegittimità costituzionale, cit.; A. Franceschini, La fragilità del giudicato al cospetto di una pena costituzionalmente illegittima, in www.diritto.it. In generale, v. anche G. Romeo, Le sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di pena “incostituzionale”, in www.penalecontemporaneo.it., 17 ottobre 2014; D. Vicoli, L’illegittimità costituzionale della norma penale sanzionatoria
travolge il giudicato: le nuove frontiere della fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni unite, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015,
p. 975.
22
L’espressione è di F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la
saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont., 2014, I, p. 250.
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considerare l’istanza di legalità della pena alla stregua di un diritto fondamentale della persona implica che la libertà e la personalità dell’individuo non abbiano a subire limitazioni e pregiudizi senza ragione 23.
Considerato da questa prospettiva, il divieto per il Giudice di rilevare la violazione di un diritto
fondamentale come quello all’applicazione di una pena conforme a legge, in mancanza di esplicite e
tempestive deduzioni o richieste della parte, apparirebbe del tutto irragionevole.
Come pure sembrerebbe irragionevole una tale preclusione a fronte di un ricorso inammissibile.
E tuttavia la conclusione, fino “all’altro ieri”, non era affatto pacifica. In giurisprudenza si contrapponevano l’idea che l’invalida instaurazione del rapporto di impugnazione (o la necessità di compiere
accertamenti in fatto o valutazioni di merito) ostacolasse la devoluzione al giudice ad quem anche delle
questioni rilevabili d’ufficio, inclusa quella relativa alla legalità della pena 24, e la diversa impostazione
che, muovendo dal riconoscimento del potere-dovere del giudice dell’esecuzione di rimuovere una
sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima, riteneva, a fortiori, doverosa, alla stregua degli artt. 27 Cost. e 1 c.p., la rilevazione ex officio
dell’illegalità della pena a cura della Corte di Cassazione, prima della formazione del giudicato, pure in
presenza di un ricorso inammissibile 25.
Il contrasto rifletteva il dibattito giurisprudenziale, da cui originava, intorno al rapporto tra le cause
di non punibilità ex art. 129 c.p.p. e le cause di inammissibilità dell’impugnazione 26.
Le ragioni di efficienza del sistema che hanno determinato la prevalenza della tesi più restrittiva 27, si
attenuano di fronte alla considerazione che alcune tra le cause di non punibilità producono effetti anche
dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Considerato che l’art. 673 c.p.p. consente eccezionalmente
di incidere in executivis sul provvedimento in relazione al quale si è formato il giudicato formale nei casi
di abolitio criminis e di declaratoria di illegittimità della norma incriminatrice, ragioni di economia processuale impongono al giudice dell’impugnazione inammissibile di rilevare d’ufficio la non punibilità
ex art. 129 c.p.p. al cospetto di un fatto non più previsto dalla legge come reato, o per intervenuta abrogazione o a seguito di declaratoria di incostituzionalità della norma penale incriminatrice. La pronuncia
di inammissibilità del ricorso avrebbe come unico effetto quello di rinviare la questione alla fase esecutiva. Conserva carattere preclusivo di qualsiasi accertamento l’inammissibilità originaria del ricorso, in
particolare per l’inutile decorso del termine di impugnazione, che determina la trasformazione del giudicato sostanziale in giudicato formale 28..
Tali arresti hanno costituito la base per un recente intervento delle Sezioni Unite.
Una volta ammessa la possibilità di incidere in melius sul titolo esecutivo, anche limitatamente al
trattamento sanzionatorio, nei casi di invalidità sopravvenuta 29, deve ritenersi che analogo intervento
23
Sul tema si rinvia alle considerazioni di G.A De Francesco, Sulle garanzie in materia di disciplina intertemporale della legge penale, in Dir. pen. proc., 2014, p. 224 ss.
24
Cass., sez. II, 8 luglio 2013, n. 44667, in CED Cass., n. 257612; Cass., sez. IV, 3 febbraio 2009, n. 26351, in Cass. pen., 2010, p.
3983; Cass., sez. V, 3 dicembre 2003, n. 24926, in CED Cass., n. 229812; Cass., sez. V, 9 luglio 2004, n. 36293, in CED Cass., n.
230636.
25
Cass., sez. V, 13 giugno 2014, n. 46122, in Cass. pen., 2015, p. 2310; Cass., sez. I, 21 marzo 2013, n. 15955, in CED Cass., n.
255684; Cass., sez. V, 27 aprile 2012, n. 24128, in CED Cass., n. 253763.
26
Secondo l’indirizzo prevalente, superata la distinzione classica tra cause di inammissibilità originarie e sopravvenute, in
quanto ritenute equipollenti sul piano degli effetti giuridici processuali prodotti, il ricorso per cassazione ab origine affetto da
inammissibilità non può considerarsi idoneo ad instaurare un rapporto di impugnazione, quindi risultano inibiti i poteri officiosi del giudice, inclusi quelli relativi alla possibilità di rilevare le cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p: così Cass., sez. un., 11
novembre 1994, n. 21, in Cass. pen., 1995, p. 1165; Cass., sez. un., 30 giugno 1999, n. 15, ivi, 2000, p. 25; Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n 32, ivi, 2001, p. 1760; Cass., sez. un., 27 giugno 2001, n. 33542, in CED Cass., n. 219531. Stando a un diverso orientamento, l’accertamento delle cause di non punibilità, per esigenze di giustizia sostanziale, deve precedere sempre quello relativo
all’inammissibilità dell’impugnazione: cfr. Cass., sez. I, 8 ottobre 1990, n. 3228, in Cass. pen., 1992, p. 813. Sul tema, in dottrina v.
G. Spangher, Impugnazione inammissibile e applicabilità dell’art. 129 c.p.p., in Dir. pen. proc., 1995, p. 595; E. Turco, L’impugnazione
inammissibile. Uno studio introduttivo, Cedam, 2012.
27
La propedeuticità dell’accertamento sull’ammissibilità del mezzo di gravame rispetto a qualsiasi questione rilevabile anche d’ufficio rispondeva all’esigenza di reagire ad un uso pretestuoso delle impugnazioni, presentate al solo fine di posticipare
il passaggio in giudicato della sentenza e lucrare il vantaggio della prescrizione maturata dopo la pronuncia di merito.
28
Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, in Foro it., 2000, II, c. 341.
29
Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, cit.
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sia consentito al giudice dell’impugnazione inammissibile per rimuovere una pena illegale. Anche in
questo caso, una declaratoria di inammissibilità sortirebbe come unico effetto quello di provocare lungaggini ingiustificate, in quanto la pena illegale sarebbe comunque emendata dal giudice dell’esecuzione. Resta salvo il caso di ricorso inammissibile perché tardivamente proposto: questa speciale causa
di invalidità del mezzo di gravame è preclusiva ad un intervento sul trattamento sanzionatorio, anche a
fronte di una pena incostituzionale 30. Il ricorso tardivo è considerato un “simulacro” di impugnazione,
inidoneo ad introdurre il giudizio ad quem: in tal caso, la pronuncia di inammissibilità si limita a constatare, con effetti dichiarativi, l’avvenuta formazione del giudicato in senso sostanziale fin dalla scadenza
del termine per proporre l’impugnazione 31.
La stessa regola e la connessa eccezione sono state ribadite da un successivo intervento della Corte a
composizione allargata, in relazione ad un caso di ricorso inammissibile, in quanto tardivo, avverso
una sentenza di condanna a pena illegale comminata con una statuizione ab origine contraria all’assetto
normativo vigente al momento di consumazione del reato 32.
In definitiva, l’inammissibilità del ricorso per inosservanza del termine di impugnazione comporta
un differimento al giudice dell’esecuzione della questione relativa alla illegalità, originaria o sopravvenuta, della pena, precludendo ogni delibazione del giudice di cognizione 33.
I recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, nel mettere puntualmente a fuoco le interazioni
tra la fase di cognizione e quella dell’esecuzione, incoraggiano soluzioni di avanguardia nella tutela dei
diritti fondamentali.
Nel caso che si annota, la Quinta Sezione della Cassazione, investita da un ricorso ammissibile, ha rilevato d’ufficio la violazione dei parametri normativamente fissati per l’irrogazione della sanzione.
L’intervento emendativo d’ufficio del Giudice di legittimità è giustificato anzitutto dalla necessità di
salvaguardare il valore costituzionale della legalità della pena ex art. 25, comma 2, Cost., che risulterebbe in concreto vulnerato ove non si potesse porre rimedio, indipendentemente da una censura di parte,
all’errore dei giudice del grado precedente che abbia irrogato una sanzione diversa per specie e/o
quantità rispetto ai confini edittali.
Non solo. La Corte indirizza il suo ragionamento verso ulteriori parametri costituzionali che, insieme a quello appena richiamato, concorrono a formare lo statuto di legalità della pena.
Rievocando l’insegnamento delle Sezioni Unite Ercolano, la Quinta sezione ribadisce che la pena
può assolvere alla nobile funzione che l’art. 27 Cost. prevede, solo se è irrogata in base ad una norma
legittima. Viceversa, la sua capacità di attivare i processi di ravvedimento e conseguente adesione a
nuovi valori da parte del condannato è compromessa ove essa sia comminata in forza di una norma
che, anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, sia risultata in contrasto con la
fonte costituzionale, eventualmente per il tramite di una norma convenzionale. Idem qualora il giudice,
come nel caso di specie, abbia erroneamente comminato una pena più afflittiva di quella legale.
Invero, la disponibilità del condannato ad espiare una pena è proporzionata alla percezione che egli
ne ha. Il reo che si vedesse condannato ad una pena più grave, per specie o quantità, rispetto a quella
legalmente determinata – allo stesso modo di chi fosse punito sulla base di una norma risultata incostituzionale – non potrebbe che ritenere ingiusta la condanna. Ne resterebbe così compromessa la sua disponibilità ad accettare la sanzione, presupposto ineludibile di ogni prospettiva rieducativa 34.
La Corte, tuttavia, precisa che il suo intervento ex officio è limitato all’ipotesi in cui l’errore compiuto
dal giudice di merito sia avvenuto in danno dell’imputato, ostandovi altrimenti il divieto di reformatio
in peius, applicabile anche in sede di legittimità 35.
30
Cass., sez. un., 26 febbraio 2015, n. 33040, in Foro it., 2015, II, c. 694, con nota di S. Lo Forte, L’effetto domino della dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi: illegalità della pena e rilevabilità d’ufficio anche in caso di ricorso inammissibile.
31
Cass., sez. un., 30 giugno 1999, n. 15, cit.
32
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, in Cass. pen., 2016, p. 492.
33
Così Cass., sez. IV, 6 maggio 2014, n. 4, in CED Cass., n. 259381, relativa a un caso di sopravvenuta illegalità della pena dovuta a dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma attinente alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
34
Cfr. G. De vero, Limiti di vincolatività in ambito penale degli obblighi comunitari di tutela, in Grasso-Sicurella (a cura di), Per
un rilancio del progetto europeo. Esigenze di tutela degli interessi comunitari e nuove strategie di integrazione penale, Milano, 2008, p.
310 ss.
35
Cass., sez. VI, 20 novembre 2013, n. 49858, in CED Cass., n. 257672.
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Nel tessuto argomentativo della pronuncia campeggia inoltre il richiamo al principio della ragionevole durata del processo: nella situazione considerata, compete alla Cassazione individuare la pena legale in concreto, potendo essa mutuare le modalità di calcolo del primo giudice senza dover procedere
a nuovi accertamenti in fatto o ad una ulteriore valutazione di merito ex art. 133 c.p., incompatibili con
il perimetro cognitivo del giudizio di nomofilachia. Il suo intervento rende superfluo il differimento
della questione al giudice dell’esecuzione.
La soluzione si presta a qualche considerazione, avendo presente che l’errore del giudice della cognizione è caduto sull’individuazione della specie di pena da applicare nel caso concreto.
Come è noto, la giurisprudenza ammette pacificamente che il giudice dell’esecuzione possa rettificare la sanzione, ai sensi dell’art. 666 c.p.p., a condizione che la stessa sia, nella specie, determinata per
legge ovvero sia determinabile senza alcuna discrezionalità. Analogamente, la pena eccedente, per
quantità, il limite legale, è emendabile in executivis, purché la sanzione sia, nella durata, determinata per
legge ovvero sia determinabile senza discrezionalità 36. La soluzione è stata di recente ribadita dalle Sezioni unite anche in relazione a pene accessorie applicate extra o contra legem dal giudice della cognizione: invero, ove al giudice dell’esecuzione fossero consentiti, nella rinforzata veste di organo di controllo
sulla pena, apprezzamenti discrezionali in ordine alla scelta della specie e della durata della sanzione,
esso finirebbe per diventare tributario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizza il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del Giudice di legittimità, della pena illegalmente applicata nei gradi di merito 37.
Nel solco di questi orientamenti, le Sezioni unite della Cassazione, chiamate a pronunciarsi in un caso analogo a quello esaminato, hanno osservato, con un obiter dictum, che a fronte della mancata applicazione delle sanzioni previste dal titolo II del d.lgs. n. 274 del 2000, da parte del tribunale che abbia erroneamente irrogato la pena della reclusione ordinariamente prevista dalla legge per reati che sono attribuiti alla competenza del giudice di pace, è l’intero modello sanzionatorio a dover essere rielaborato,
con scelte che attengono alle attribuzioni tipiche del giudice di merito 38.
Basti considerare che quando il reato – come nella vicenda in esame – è punito con la sola pena della
reclusione o dell’arresto, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da euro 516 a euro
2.582 o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena
del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi. Dunque, il giudice che è chiamato ad applicare,
anche in funzione correttiva di una precedente statuizione, quel modello, dovrà effettuare una valutazione contenutistica di tutti i parametri di commisurazione del trattamento sanzionatorio alla luce delle
risultanze processuali, operando le conseguenti determinazioni, non soltanto sulla quantità del trattamento, ma anche sulla specie della sanzione da applicare, tenendo conto anche delle richieste dell’interessato, dal momento che il lavoro di pubblica utilità può essere applicato solo su sua istanza, a norma dell’art. 54, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000.
È evidente che la rideterminazione della pena nei termini precisati, lungi dal porsi come mera opera
di sostituzione, matematicamente scontata, della pena illegale applicata dal giudice della cognizione,
costituisce un nuovo giudizio, del tutto eccentrico rispetto al pur accresciuto ambito entro il quale può
trovare spazio l’intervento del giudice dell’esecuzione 39.
Alla luce di queste considerazioni, la scelta compiuta dalla sentenza in commento appare solo in
parte condivisibile.
Rilevando d’ufficio l’illegalità della pena inflitta, la Corte di Cassazione ha impedito il passaggio in
giudicato della relativa statuizione; così evitando che si cristallizzasse una pena non altrimenti emendabile dal giudice dell’esecuzione senza infrangere quei limiti alla discrezionalità nella scelta della specie ed entità del trattamento che le Sezioni unite hanno con vigore ribadito. Con buona pace dei principi
36
Cass., sez. I, 20 gennaio 2014, n. 14677, in CED Cass., n. 259733; Cass., sez. I, 23 gennaio 2013, n. 38712, in CED Cass., n.
256879; Cass., sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26117, in CED Cass., n. 253562.
37
Così Cass., sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240, in Cass. pen., 2015, p. 2578, con nota di F. Costantini, L’intervento in executivis per erronea applicazione di una pena accessoria tra principio di legalità e intangibilità del giudicato: la decisione delle Sezioni Unite; si
veda anche T. Alesci, I poteri del giudice dell’esecuzione sulla determinazione della pena accessoria illegale: presupposti e limiti, in questa
rivista, 2015, n. 4, p. 106.
38
Si tratta di Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, cit.
39
Così Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, cit.
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cristallizzati negli artt. 25 Cost. e 1 c.p., il cui raggio applicativo si estende indubbiamente alla fase esecutiva.
Sennonché, le ragioni ostative ad un interveto emendativo discrezionale da parte del giudice dell’esecuzione valgono, a fortiori, per il giudice della nomofilachia, il quale, pertanto, nel caso di specie,
dopo aver rilevato d’ufficio l’errore in cui erano incorsi i giudici di merito, avrebbe dovuto annullare
con rinvio la sentenza impugnata, rimettendo la determinazione del trattamento sanzionatorio al giudice della fase rescissoria.
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Blackberry ed intercettazioni di comunicazioni trasmesse
tramite tecnologia pin to pin
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 10 NOVEMBRE 2015, N. 50452 – PRES. FRANCO; REL. ROSI
Il sequestro probatorio di supporti informatici o di documenti informatici, anche detenuti da fornitori di servizi telematici, esclude, di per sé, il concetto di comunicazione e va disposto quando è necessario acquisire al processo
documenti a fini di prova, mediante accertamenti che devono essere svolti sui dati in essi contenuti, mentre nel
caso di messaggistica con sistema Blackberry è corretto e doveroso acquisirne i contenuti mediante intercettazione ex art. 266 bis c.p.p. e seguenti, atteso che le chat, anche se non contestuali, costituiscono un flusso di comunicazioni. Il fatto che gli utenti intercettati si trovino in Italia, poi, rende non necessario il ricorso alla rogatoria internazionale.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 10 agosto 2015, il Tribunale di Roma, sezione riesame, ha rigettato i ricorsi presentati da […], […], […], […], […] avverso l’ordinanza con cui il g.i.p. presso il Tribunale di Roma aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti degli stessi (e di […], non ricorrente). La misura cautelare della custodia cautelare era stata disposta dal g.i.p. presso il Tribunale di
Roma, con ordinanza del 7 luglio 2015, nei confronti dei predetti, in quanto gravemente indiziati dei
reati di cui al d.p.r. n. 309 del 1990, artt. 73 e 80 (capi a) b) c) d) e)). Il Tribunale ha rilevato che gli elementi acquisiti costituivano gravi indizi di reità ed erano pertanto idonei a legittimare l’adozione della
misura cautelare, giuste le motivazioni dell’ordinanza cautelare, si è inoltre soffermato sulle emergenze
probatorie raccolte con riferimento a ciascun capo di imputazione.
2. In particolare, secondo quanto esposto nell’ordinanza impugnata, all’esito di intercettazioni ambientali nell’auto in uso a […].
[…], era emerso, che aveva procurato al nipote […] una partita di 10 kg di cocaina (capo a), rivolgendosi allo […] e al […], i quali avevano agito da mediatori.
L’ordinanza ha dato conto di una conversazione intercettata tra […], […] e […], in cui si discuteva
del prezzo della droga e della quantità fissata in 10 kg per 420.000,00 Euro.
Gli interlocutori avevano parlato di prezzi oscillanti tra 41 e 43 mila Euro, alludendo al prezzo al kg.
In particolare,[…] e […] procuravano a […] una quantità di droga per farla testare. In seguito […] aveva
avvisato telefonicamente il nipote dicendogli che lo avrebbe raggiunto a [Omissis], e confidava a […]
che avrebbe chiesto un compenso in denaro al nipote per la mediazione compiuta. Il giorno successivo,
la quantità di stupefacenti convenuta veniva consegnata nei pressi di un vivaio sito sulla via [Omissis].
Che l’incontro doveva avvenire per lo scambio del denaro con la droga, risulterebbe secondo i giudici,
dal fatto che sull’auto in uso a […] veniva intercettato un dialogo con il nipote […]. Lungo il tragitto i
due stavano per essere fermati da una pattuglia per un controllo, e preoccupati per il possibile rinvenimento del denaro portato come corrispettivo per l’acquisto e nascosto nel bracciolo dell’auto, […] si
era accordato con il nipote sulla giustificazione da offrire ai carabinieri. Sul luogo convenuto, […] aveva
riferito a […] di avere trattenuto 1.500 Euro per la mediazione da ripartire anche con […]. La consegna
della droga era stata confermata da altre conversazioni, dalle quali è emersa certamente la presenza di
tutti gli indagati (in particolare di […] e di […] nell’auto di […]).
3. Anche in relazione al capo b), ascritto a […], risultano una serie di conversazioni in chat con un
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fornitore spagnolo, avente ad oggetto l’importazione di un quantitativo di stupefacente di 10 kg, e per
quanto attiene al capo c), secondo i giudici vi sono le prove del sodalizio tra […], […] e […] nel settore
del narcotraffico.
Le due operazioni di cessione di droga indicate nei capi precedenti si inserirebbero nell’ambito di
una stabile e ramificata organizzazione, nella quale […] e […] svolgono il ruolo di promotori ed organizzatori, mentre […] sarebbe l’intermediario con i fornitori esteri delle sostanze. Quanto ai capi d) e),
relativi alla contestazione di estorsione e illecita concorrenza, gli indagati avevano fatto pressione sul
sig. […] affinché lo stesso non avviasse l’attività SNAI nei pressi di [Omissis], tanto da indurlo a chiudere l’attività imprenditoriale già esistente.
Circostanza confermata dalle tre conversazioni telefoniche registrate dal […] e dai risultati delle intercettazioni telefoniche ed ambientali. Il Tribunale del riesame ha escluso la configurabilità del reato di
esercizio arbitrario delle proprie ragioni sostenuta dalla difesa, sottolineando come l’obiettivo delle minacce di […] e […] fosse l’eliminazione del concorrente per garantirsi il monopolio delle scommesse on
line e delle slot machine.
5. Avverso l’ordinanza, gli indagati hanno proposto, per il tramite dei propri difensori, distinti ricorsi per cassazione.
– La difesa di […] ha lamentato:
1) Violazione di legge e mancanza di motivazione con riferimento ai presupposti applicativi delle
misure cautelari nonché con riferimento agli artt. 513 bis e 629 c.p. e dell’art. 7 della legge n. 203/1991.
La difesa ha precisato che l’imputato, sessantenne, è soggetto sostanzialmente incensurato e risulta
indagato dei delitti di cui ai capi d) (art. 110 c.p., art. 629, commi 1 e 2, c.p. e dell’art. 7 della legge n.
203/1991) ed e) (art. 110 c.p., art. 513 bis c.p. e dell’art. 7 della legge n. 203/1991), nonostante non risultino elementi dimostrativi delle asseriti minacce a […]. Quanto al capo d), i giudici del riesame, nel valutare i gravi indizi di colpevolezza, hanno fatto riferimento ai diversi procedimenti penali a carico del
ricorrente per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., ma tali procedimenti non sono conclusi e solo queste vicende processuali avrebbero determinato la contestazione dell’aggravante del metodo mafioso. Infatti i
giudici del riesame non hanno tenuto conto della circostanza che, in data 1° aprile 2015, il g.i.p. presso il
Tribunale di Napoli aveva assolto perché il fatto non sussiste sia […] che il fratello dal reato di concorso
esterno in associazione mafiosa; né del fatto che nell’ambito di un diverso procedimento penale pendente presso il Tribunale di Roma, sarebbe stata revocata la misura della custodia cautelare.
La considerazione di tali provvedimenti avrebbe dovuto essere, al contrario, considerata per escludere la contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 della legge n. 203/1991, contestazione
erronea, posto che non risulta riscontrabile alcun metodo mafioso, né esisterebbe alcun clan […]; d’altra
parte la stessa persona offesa non ha mai dichiarato di aver subito minacce da parte di persone operanti
in ambienti mafiosi. Infatti l’attività della [Omissis] è legale perché legata ai monopoli di Stato (lottomatica, totocalcio, totip) e quindi la condotta posta in essere dall’indagato era finalizzata non a far cessare
l’attività di impresa di […], ma ad impedire allo stesso di aprire un punto Snai in violazione delle norme che disciplinano l’esclusiva.
Quanto al capo e), secondo la difesa, il reato di cui all’art. 513 bis c.p., non potrebbe essere contestato
quando ricorrono atti di violenza e minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la mira teleologia dell’agente.
2) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza delle esigenze cautelari,
posto che il Tribunale del riesame avrebbe dovuto applicare gli arresti domiciliari data anche la disponibilità manifestata dall’indagato all’uso del braccialetto elettronico, considerato che i fatti per cui si
procede sarebbero risalenti nel tempo. Da ultimo, non si sarebbe tenuto conto delle precarie condizioni
fisiche del ricorrente, che è portatore di protesi articolare femorale destra e sinistra e avrebbe subito un
preoccupante calo ponderale di 26 kg durante la permanenza in carcere.
– La difesa di […] ha lamentato:
1) Nullità dell’ordinanza per violazione dell’art. 309, comma 5, c.p.p. in relazione all’art. 178 c.p.p.,
in quanto la difesa non aveva avuto accesso effettivo ai contenuti delle intercettazioni che costituiscono
elemento di prova su cui si fonda la misura cautelare: tale impedimento risulterebbe confermato da un
dichiarazione rilasciata da un funzionario della cancelleria e nonostante l’espressa censura, il Tribunale
del riesame avrebbe motivato in maniera illogica. Inoltre, sarebbe stato indicato erroneamente il RIT
8145/13, che non contiene alcuna registrazione;
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2) Violazione di legge e contraddittorietà della motivazione:
sarebbero inutilizzabili i risultati probatori ottenuti attraverso l’attività di intercettazione posta in essere sui dispositivi Blackberry. La società che gestisce il servizio ha sede in Canada e perciò per procedere all’acquisizione dei dati sarebbe stata necessaria la rogatoria internazionale. Il riferimento alla procedura dell’instradamento per radicare la competenza in Italia, sarebbe erroneo perché non terrebbe conto delle peculiarità tecniche del servizio, né del fatto che l’attività captativa sarebbe possibile solo con la
collaborazione del gestore canadese. Inoltre, vi sarebbero problemi procedurali anche nella procedura
di intercettazione seguita; va considerato che le modalità di gestione e conservazione del traffico dei dati indurrebbero a ritenere che non vi sia una vera e propria comunicazione, difettando il requisito della
contestualità e proprio in relazione alla conservazione dei dati captati, sarebbe stata necessaria la procedura di cui all’art. 254 bis c.p.p., che disciplina il sequestro di dati informatici. Ed infatti, l’intercettazione non è stata eseguita dalla sala di ascolto della procura della Repubblica o dalla società area delegata della guardia di finanza, ma direttamente dalla RIM Limited, che poi ha trasferito i dati alla società
italiana, che ha curato le operazioni per conto della procura;
3) La motivazione sarebbe illogica e contraddittoria nella parte in cui ha ritenuto sussistenti gli indizi di colpevolezza a carico dell’indagato per il reato di cui al capo a), nonostante gli elementi probatori
fortemente equivoci;
4) La motivazione sarebbe altresì illogica nella parte in cui ha ritenuto sufficienti i gravi indizi di
colpevolezza con riferimento alla contestazione del reato di cui all’art. 74, d.p.r. n. 309/1990.
Secondo la difesa, se il ruolo dell’indagato è quello di intermediario nelle cessioni, non si vede come
lo stesso possa essere anche promotore ed organizzatore dell’associazione dedita allo spaccio ed inoltre
difetterebbe la motivazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo;
5) La motivazione della ordinanza sarebbe, altresì, illogica ed insufficiente laddove ha ritenuto sussistente i gravi indizi di colpevolezza per i reati contestati nel capo e) e d), poiché l’aver ritenuto che la
voce nel colloquio captato con […] fosse quella del ricorrente costituirebbe un mero pregiudizio; inoltre, la condotta contestata potrebbe integrare al più il delitto di violenza privata, né vi sarebbero i presupposti per la contestazione dell’aggravante del metodo mafioso;
6) L’ordinanza, infine, sarebbe illogica ed immotivata con riferimento alla sussistenza delle esigenze
cautelari. La pericolosità del ricorrente sarebbe desunta dal fatto che l’indagato era stato processato in
altro procedimento dinanzi al Tribunale di Roma, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. (in continuazione con i fatti di cui a capi e) e d) del presente procedimento), per fatti risalenti a più di due anni fa, per i
quali è stata disposta la scarcerazione.
– La difesa di […] ha lamentato:
1) Nullità dell’ordinanza per violazione di legge e omessa motivazione, atteso che il Tribunale non
avrebbe svolto una valutazione autonoma da quella del g.i.p., travisando le risultanze delle intercettazioni e deducendo in maniera apodittica l’esistenza di rapporti del ricorrente con i fratelli […]: l’erroneo
presupposto del possesso in capo a […] della concessione SNAI, aveva indotto i giudici a ritenere in
maniera illogica che non vi fossero i presupposti per l’applicabilità dell’art. 393 c.p.;
2) Difetterebbero, inoltre, i presupposti per la contestazione dell’aggravante del metodo mafioso;
3) La motivazione sarebbe altresì resa in violazione di legge perché non sarebbero stati tenuti in considerazione i presupposti per valutare l’attualità della sussistenza delle esigenze cautelari.
– La difesa di […] ha lamentato:
1) Violazione delle norme processuali, per mancato accesso ai contenuti delle intercettazioni che costituiscono elemento di prova su cui si fonda la misura cautelare, in quanto i CD contenenti i flussi di
comunicazione ambientale e telefoniche non sarebbero stati accessibili alla difesa, come confermato da
un dichiarazione rilasciata da due funzionari della cancelleria;
2) Mancata declaratoria di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte sugli apparati
Blackberry, poiché la società che gestisce i flussi di comunicazione sui dispositivi Blackberry è la RIM Limited che ha sede in Canada; inoltre per le intercettazioni disposte sugli apparati Blackberry sarebbe illegittimo il ricorso alla disciplina delle intercettazioni di cui all’art. 266 c.p.p., poiché la messaggistica pin
to pin non sarebbe assimilabile alle conversazioni; pertanto, difettando la contestualità che sussiste nelle
conversazioni, sarebbe stato necessario ricorrere al sequestro di dati informatici previsto dall’art. 254 bis
c.p.p.;
3) Mancanza dei gravi indizi di colpevolezza con riferimento ai reati contestati nel capo a), poiché
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[…] non era presente nell’auto di […], e comunque non è desumibile alcun ruolo rilevante nella cessione di sostanze stupefacenti alla luce del tenore delle frasi attribuitegli;
4) Mancanza dei gravi indizi di colpevolezza con riferimento ai reati contestati nel capo b), non essendovi alcun riscontro individualizzante in capo al ricorrente, mancando elementi che consentano di
attribuire allo stesso l’utenza Blackberry;
5) Insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza è stata sostenuta dalla difesa anche con riferimento
ai reati contestati nel capo c), mancando elementi che provino il vincolo stabile tra gli associati e la consapevole partecipazione da parte di […], non essendovi alcun riscontro alla condotta di cessione di
droga, comunque, non emergendo il coinvolgimento dell’indagato né nelle trattative per l’acquisto delle partite di droga né nelle presunte cessioni;
6) Motivazione illogica con riferimento alle ritenute esigenze cautelari, che non risultano più attuali
poiché i fatti sarebbero risalenti a più di due anni fa e non sono stati evidenziati elementi idonei ad indicare la ricaduta nel reato.
– La difesa di […] ha lamentato:
1) Nullità dell’ordinanza, per violazione dell’art. 309, comma 5, c.p.p. in relazione all’art. 178 c.p.p.,
poiché la difesa ha sostenuto di non aver avuto accesso effettivo ai contenuti delle intercettazioni telefoniche, ambientali e dei flussi di comunicazione, come confermato dalla dichiarazione rilasciata dai
funzionari della cancelleria;
2) Carenza dei gravi indizi di colpevolezza ed motivazione insufficiente. La difesa ha eccepito
l’incompetenza per territorio del Tribunale di Roma, poiché il fatto oggetto di giudizio sarebbe già stato
sottoposto all’attenzione del Tribunale di Tivoli, quanto alle condotte tenute nei confronti di […]. Per le
contestazioni nei capi e) e d), la difesa ha sottolineato l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza,
evidenziando come i giudici del riesame non avrebbero tenuto conto dell’assoluzione dei fratelli […],
né della revoca della misura cautelare disposta dal Tribunale di Roma. Inoltre, non vi sarebbe la prova
certa circa la presenza del ricorrente nell’autovettura, al più potendosi ipotizzare a suo carico la fattispecie di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La considerazione di tali vicende avrebbe dovuto indurre i giudici del riesame a ritenere insussistente la gravità indiziaria relativa all’aggravante di cui
all’art. 7 della legge n. 203/1991;
3) Omessa motivazione e mancanza delle esigenze cautelari legittimanti la misura applicata, essendo
la presunta condotta attribuita a […] risalente nel tempo. Peraltro, sarebbe illogico ritenere che se non
sussistono le esigenze cautelari per il reato associativo queste possano sussistere per il reato fine, senza
contare che il ricorrente è già stato sottoposto al regime di custodia cautelare per oltre sette mesi e da
allora ha mantenuto un condotta incensurabile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Devono innanzitutto esaminate le censure di tipo processuale, cominciando da quella relativa alla
violazione del disposto di cui all’art. 309, comma 5, c.p.p sollevata dalle difese di […], di […] e di […]
con il primo motivo di ciascun ricorso.
Occorre considerare che la giurisprudenza di questa Corte ha precisato, proprio in riferimento al riesame delle misure cautelari, che «l’omesso deposito del cosiddetto “brogliaccio” di ascolto e dei “files” audio
delle registrazioni di conversazioni oggetto di intercettazione non è sanzionato da nullità o inutilizzabilità, dovendosi ritenere sufficiente la trasmissione, da parte del p.m., di una documentazione anche sommaria ed informale, che dia conto sinteticamente del contenuto delle conversazioni riferite negli atti della polizia giudiziaria, fatto
salvo l’obbligo del tribunale di fornire congrua motivazione in ordine alle difformità specificamente indicate dalla
parte fra i testi delle conversazioni telefoniche richiamati negli atti e quelli risultanti dall’ascolto in forma privata
dei relativi “files” audio» (così, Cass., sez. I, 9 gennaio 2015, in CED Cass., n. 263107).
2. Peraltro, facendo seguito alla sent. n. 335 del 2008 della Corte Costituzionale, le sezioni unite di
questa Corte hanno chiarito (Cass., sez. un., 27 maggio 2010, n. 20300, in CED Cass., n. 246906) che il diniego o l’ingiustificato ritardo da parte dell’ufficio del p.m. nel consentire al difensore “l’accesso” alle
conversazioni intercettate e trascritte (e dunque anche la duplicazione delle registrazioni su supporto
magnetico, di cui il difensore possa, poi, autonomamente disporre) dà luogo a nullità di ordine generale e regime intermedio – ex art. 178 c.p.p., lett. c) – in quanto determina vizio nel procedimento di acquisizione della prova, vizio che, tuttavia, non inficia l’attività di ricerca in sé e il conseguente “risultato”,
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ma che si riverbera, se la nullità è stata tempestivamente dedotta, nella fase cautelare, atteggiandosi
come circostanza che indebitamente ha compresso – limitatamente al subprocedimento de libertate –
l’esercizio del diritto di difesa, con la conseguenza che le trascrizioni delle captazioni di cui non è stata
resa disponibile la registrazione non possono essere utilizzate come prova nel giudizio de libertate
(Cass., sez. un., n. 20300/2010, cit.).
3. Ovviamente, la giurisprudenza è concorde nel ritenere necessario che la difesa formuli una esplicita richiesta di rilascio di copia dei supporti medesimi (cfr., ex multiis, Cass., sez. VI, 3 dicembre 2014,
n. 22145, in CED Cass., n. 263635). È stato però anche chiarito che non vìola il diritto di difesa, ad esempio, l’impossibilità pratica di visionare le videoriprese trascritte su DVD per mancanza del relativo
software, poiché il diritto di difesa consiste nell’ottenere copia del documento informatico e non coincide
con l’esame in cancelleria dei “files” informatici, né vi è obbligo da parte dell’ufficio giudiziario di disporre di un siffatto “software”, né dell’ufficio del p.m. di assicurarsi di tale disponibilità, considerato
che causa della violazione del diritto di difesa è l’omessa “discovery” di atti posti a fondamento della
ordinanza cautelare, che si realizza per mancata consegna dei supporti contenenti la riproduzione del
file, a prescindere dalla possibilità di avere il programma necessario ad “aprire” e “leggere” i files stessi
(in tal senso, Cass., sez. VI, 10 ottobre 2012, n. 41530, in CED Cass., n. 253741).
4. Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha precisato che dagli atti non risultava che la difesa
avesse chiesto alla cancelleria copia dei supporti informatici DVD, ritualmente depositati con la discovery degli atti, contenenti cartelle compresse e files, cosa che gli avrebbe consentito di accedere ai documenti con tecnologie opportune con un proprio personal computer; di fatti l’attestazione della cancelleria depositata dai ricorrenti aveva attestato unicamente la non accessibilità alle cartelle compresse presenti nei supporti e non il file Iplayer Viewer, accessibile con una semplice selezione e contenente messaggi di testo (chat) non già conversazioni (tanto, a proposito del R.T.I. n. 8145/13). La giurisprudenza
ha già segnalato la necessità che la difesa predisponga i propri supporti tecnologici per acquisire la fonte conoscitiva, rappresentata dalle risultanze dei mezzi di prova esperiti, mediante operazioni tecnologiche (sul punto, si veda la parte motiva della sent. Cass., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53425, in CED
Cass., n. 262334).
Il principio deve essere qui ribadito, atteso che il dato informatico rileva con riguardo al patrimonio
informativo in esso contenuto e la dottrina ha tempo evidenziato che il concetto stesso di copia perde di
significato nel caso del documento informatico, dovendosi più propriamente parlare di operazione di
duplicazione. Nel caso di specie non sussiste la lamentata violazione di legge, relativa alla impossibilità
per la difesa di accedere ai supporti magnetici, contenenti le conversazioni captate, essendo stato evidenziato sia il deposito che l’estrazione di copia dei documenti informatici versati alla discovery.
5. Per quanto attiene al secondo motivo avanzato nei ricorsi di […] e di […], con lo stesso si eccepisce
la violazione di legge e la mancanza ed illogicità della motivazione in relazione alle modalità esecutive
della intercettazione posta in essere su utenze con sistema Blackberry. I ricorrenti hanno lamentato
l’omesso ricorso alla rogatoria internazionale per ottenere i dati identificativi dei codici pin e lo svolgimento delle operazioni di intercettazione, ritenendo che fosse invece doveroso applicare l’istituto del
sequestro ex art. 254 c.p.p.
6. A tale proposito, va precisato che è principio consolidato che la destinazione ad uno specifico
“nodo” telefonico, posto in Italia, delle telefonate estere, provenienti da una determinata zona (c.d. instradamento), non rende necessario il ricorso alla rogatoria internazionale, in quanto l’intera attività di
captazione e registrazione si svolge sul territorio dello Stato (cfr. Cass., sez. VI, 12 dicembre 2015, n.
18480 non mass., nonché Cass., sez. VI, 3 dicembre 2007, n. 10051, in CED Cass., n. 239459).
7. Orbene, il collegio della cautela ha correttamente applicato i principi nel caso di cui si tratta ed ha
evidenziato che le intercettazioni telematiche ex art. 266 bis c.p.p., erano state disposte direttamente sui
codici pin, mentre la successiva richiesta alla società RMI in merito ai dati identificativi associati ai codici pin intercettati aveva riguardato dati comunque non muniti di alcuna protezione particolare. Peraltro, è stato opportunamente sottolineata la irrilevanza del fatto che la società RIM fosse canadese, posto
che risulta pacifico (e non è contestato invero nemmeno dai ricorrenti) che le comunicazioni avvenivano in Italia per effetto del convogliamento delle chiamate in un nodo situato in Italia, ove è stata svolta
l’attività di captazione.
8. Quanto alla doglianza in punto di mancato utilizzo del mezzo di prova del decreto di sequestro
probatorio ex art. 254 bis c.p.p., quanto alle comunicazioni con il sistema Blackberry, la stessa è del tutto
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infondata. Il sequestro probatorio di supporti informatici o di documenti informatici, anche detenuti da
fornitori di servizi telematici, esclude, di per sé, il concetto di comunicazione e va disposto quando è
necessario acquisire al processo documenti a fini di prova, mediante accertamenti che devono essere
svolti sui dati in essi contenuti, mentre nel caso di specie è pienamente legittimo (ed anzi doveroso) il
ricorso alla procedura di intercettazione regolata dagli artt. 266 bis c.p.p. e ss. Infatti, va affermato il
principio di diritto che in materia di utilizzazione di messaggistica con sistema Blackberry è corretto acquisirne i contenuti mediante intercettazione ex art. 266 bis c.p.p. e seguenti, atteso che le chat, anche se
non contestuali, costituiscono un flusso di comunicazioni. Anche la dottrina più attenta ai delicati rapporti tra sistema delle intercettazioni telematiche e nuove tecnologie ha osservato che per la chat di
Blackberry, l’intercettazione avviene con il tradizionale sistema, ossia monitorando il codice pin del telefono (ovvero il codice IMEI), che risulta associato in maniera univoca ad un nickname, sottolineando
come a livello tecnico l’intercettazione sia gestita dalla sede italiana della società.
9. Questo Collegio ritiene anche che vada respinta l’eccezione di incompetenza sollevata dalla difesa
di […] con il secondo motivo di ricorso in riferimento al reato di estorsione ed illecita concorrenza in
danno di […]. Il motivo risulta proposto con argomentazioni aspecifiche, sulla base di una pretesa identità di fatti già contestati innanzi al Tribunale di Tivoli, mentre l’ordinanza impugnata ha posto in evidenza la diversità di quei fatti rispetto alle condotte per cui si procede, ossia alle minacce reiterate nei
confronti di […], commesse in concorso con gli altri coindagati, dal 22 marzo 2013 al 2 aprile 2013,
all’esito delle quali la persona offesa aveva dovuto rinunciare all’apertura del punto SNAI e poi chiudere la suddetta attività.
10. Per quanto attiene agli specifici motivi di ricorso di ciascun indagato, relativi ai reati rispettivamente addebitati secondo le imputazioni provvisorie, va ricordato, innanzitutto che l’ambito del controllo che la Corte di cassazione esercita in tema di misure cautelari non riguarda la ricostruzione dei
fatti, né le valutazioni, tipiche del giudice di merito, sull’attendibilità delle fonti e la rilevanza e/o concludenza dei dati probatori, né la riconsiderazione delle caratteristiche soggettive delle persone indagate, compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate: tutti questi accertamenti rientrano nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata richiesta l’applicazione della misura cautelare e del tribunale del riesame. Il Giudice di legittimità deve invece verificare
che l’ordinanza impugnata contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che hanno
sorretto la decisione e sia immune da illogicità evidenti: il controllo investe, in sintesi, la congruenza
delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (in tal senso, Cass., sez. VI, 1°
febbraio 1999, n. 3529, in CED Cass., n. 212565; nonché Cass., sez. IV, 20 ottobre 1996, n. 2050, in CED
Cass., n. 206104).
12. Ciò posto, va rilevato che tutti i ricorsi presentati hanno contestato proprio la valutazione e la
consistenza delle prove e la tenuta della motivazione in ordine agli elementi raccolti e posti a base delle
misure cautelari a fronte, invece, di una perfetta tenuta argomentativa del provvedimento impugnato
quanto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza. Nel caso di specie, infatti, l’ordinanza impugnata ha sintetizzato con argomentazione congrua gli elementi indiziari pertinenti ai ruoli rivestiti da
ciascuno degli indagati; ciò sia avuto riferimento alla sussistenza della ipotizzata associazione, che in
relazione ai reati di estorsione ed illecita concorrenza in relazione all’attività scommesse SNAI che la
parte offesa aveva intenzione di svolgere in [Omissis].
I giudici della cautela hanno fondato il proprio giudizio di gravità indiziaria in relazione alla fattispecie associativa sui contenuti delle conversazioni telefoniche ed ambientali intercettate, unitamente
agli esiti di una complessa attività investigativa, condotta anche attraverso servizi di controllo e osservazione.
Inoltre l’ordinanza impugnata da conto degli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari
dai quali emerge, e si qualifica, la condotta posta specificamente in essere da ciascuno degli indagati.
Ciò vale in riferimento alle cessioni di cocaina di cui ai capi a) e b), ascritte a […], estraneo al presente ricorso, a […] e a […] (con analisi degli elementi alle pag. 8-13 dell’ordinanza), che in riferimento alla
stabilità del sodalizio tra gli albanesi (tra i quali […] e […]) di cui al capo c) (nelle pagine seguenti, anche con specifico riferimento al ruolo di […]). Come precisato dai giudici del riesame, dagli elementi
probatori raccolti soprattutto attraverso le intercettazioni ambientali, è emersa l’esistenza di
un’organizzazione che si occupava del narcotraffico e non di singoli ed occasionali episodi di cessione
in cui erano coinvolti i tre indagati, […] e […] nel ruolo di promotori ed organizzatori, e […] quale
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l’intermediario con i fornitori esteri delle sostanze. Tutto il compendio investigativo ha confermato, secondo i giudici, l’intensità del narcotraffico del gruppo intercettato per il quale i reati di cui ai capi a) e
b) avevano rappresentato due dei numerosi episodi di acquisto; in particolare, i giudici hanno dato conto dei riferimenti ad operazioni passate tratti dalle intercettazioni, della trattativa per l’acquisto di 160
kg, del dialogo tra […] e […], in cui, il primo ha riferito al secondo, di ricevere la somma di Euro
3000,00 come compenso ogni qualvolta si adoperava per lo scarico di 170/200 kg di sostanza stupefacente. In definitiva, l’ordinanza ha posto in luce gli elementi strutturali del sodalizio evidenziando la
consuetudine delle operazioni, le disponibilità finanziarie, la cautela nelle comunicazioni, con ciò dando atto del carattere stabile e organizzato dell’attività di narcotraffico gestita dagli indagati. Pertanto, i
motivi di ricorso sono infondati e per le medesime ragioni, vanno del pari respinti gli assunti difensivi
comuni ai ricorsi di […], di […] e di […] circa la mancanza dei presupposti quanto alle condotte di cessione contestate nei capi di imputazione a) e b).
13. Analoghe considerazione devono essere svolte con riferimento ai motivi di ricorso comuni a […]
e […], quanto alla insussistenza dei presupposti per i reati contestati nei capi e) e d). Anche su questo
punto, l’ordinanza risulta correttamente e congruamente motivata quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Infatti, i giudici del riesame hanno dato conto delle emergenze investigative gravemente indiziarie dell’attività estorsiva posta in essere in danno di […] dai fratelli […], con la collaborazione di […] e di […], su incarico di […].
14. Ugualmente vanno respinte per infondatezza le specifiche censure avanzate da […] in merito
alle condotta addebitata di cui all’art. 513 bis c.p. Invero, ai fini della configurazione di tale fattispecie, sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei
a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa
(in tal senso, Cass., sez. II, 26 marzo 2015, n. 15781, in CED Cass., n. 263529). Sul punto, con argomentazioni logiche ed adeguate, l’ordinanza ha richiamato a sostegno dell’ipotesi accusatoria non solo le
attività di intercettazione telefonica e ambientale ma anche le dichiarazioni rese dalla persona offesa,
[…], che aveva prodotto anche tre conversazioni registrate, sottolineando il ruolo attivo di […] identificato «come mandante dell’operazione di eliminazione della concorrenza tramite il braccio armato
dei fratelli […]», avendo sollecitato i complici a fare le telefonate e a suggerire a […] le minacce da rivolgere a […].
15. Quanto invece alla contestata aggravante del metodo mafioso, la motivazione dell’ordinanza impugnata non è riuscita a chiarire i profili della consistenza indiziaria che la dovrebbero far ritenere sussistente. Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte «la circostanza aggravante del cosiddetto metodo mafioso è configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma
ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla
mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto» (cfr. Cass., sez. II, 5 giugno 3013, n. 38094, in CED Cass., n. 257065).
È stato chiarito che «per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”,
prevista dal d.l. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, (conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203), non è necessario
che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente
che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa» (cfr. Cass., sez. II, 2 ottobre 2013, n.
322, in CED Cass., n. 258103) o comunque che la violenza e minaccia «richiamino alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo» (cfr.
Cass., sez. II, 25 marzo 2015, n. 16053, in CED Cass., n. 263525).
16. La ratio legislativa dell’aggravante de qua è infatti quella di reprimere il metodo mafioso, che può
essere utilizzato anche dal delinquente individuale sul presupposto dell’esistenza in una data zona di
associazioni mafiose: si intende, cioè, punire con maggiore severità la condotta illecita di chi, partecipe
o meno in un reato associativo, utilizzi metodi mafiosi, cioè si comporti come mafioso oppure ostenti,
in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle attività criminali poste in
essere da organizzazioni di tipo mafioso. Ne consegue che la tipicità dell’atto intimidatorio, necessario
per la configurabilità di detta circostanza aggravante, è ricollegabile non già alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento in sé considerato, bensì al metodo utilizzato, nel senso che la violenza con cui
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esso è compiuto deve risultare in qualche modo collegata, nel concreto, alla forza intimidatrice del vincolo associativo.
17. Nel caso di specie, il Tribunale si è limitato ad affermare la ricorrenza dell’aggravante di cui trattasi avuto riguardo alle minacce rivolte a […] al fine di agevolare l’attività del clan […] «e comunque
senz’altro con metodo mafioso». Tale affermazione risulta apodittica, considerato il mero richiamo a
quanto affermato nelle ordinanze di applicazione delle misure cautelari emesse dal g.i.p. Non è dato
comprendere se risultino elementi probatori univoci circa la sussistenza del clan […] e, soprattutto, non
è stata fornita una descrizione puntuale delle modalità specifiche con le quali si sarebbe estrinsecato «il
metodo mafioso», piuttosto le due possibilità sembrano essere state ipotizzate in astratto e in via alternativa. La motivazione del provvedimento impugnato è sul punto del tutto carente, per cui merita
l’annullamento sul punto.
18. Infine, questo Supremo Collegio ritiene di dover valutare fondate le censure proposte da tutti gli
indagati relative alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla loro attualità, nonché all’adeguatezza
di quella applicata rispetto alle ritenute esigenze.
Anche se il tempo trascorso dalla commissione del reato non esclude automaticamente l’attualità e la
concretezza delle condizioni di cui all’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p. (cfr., già, Cass., sez. IV, 26 giugno
2007, n. 6717, in CED Cass., n. 239019); tuttavia è indubbio che in presenza di una distanza temporale
dai fatti che sia oggettivamente apprezzabile, l’obbligo di motivazione debba essere adempiuto in termini particolarmente rigorosi nell’indicare le ragioni sia dell’attualità del tipo di esigenza cautelare ritenuta sussistente che della scelta della misura cautelare, perché tale distanza temporale per sé costituisce un elemento di fatto tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare,
ancorché non per sé incompatibile (si veda Cass., sez. IV, 12 marzo 2015, n. 24478, in CED Cass., n.
263722).
19. La legge n. 47 del 2015 ha mutato il quadro normativo della valutazione di adeguatezza, anche
avuto riguardo alla presunzione relativa della custodia cautelare in carcere per la fattispecie associativa
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Tale presunzione era divenuta relativa già a seguito della
sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2011, che ne aveva affermato la vincibilità qualora risultino
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Ma il menzionato art. 4 della legge n. 47/2015, ha modificato
proprio dell’art. 275 c.p.p., la seconda parte del comma 3, dedicata all’individuazione dei titoli di reato
per i quali è possibile applicare solo la misura della custodia in carcere (salvo che gli elementi acquisiti
comprovino l’insussistenza di esigenze cautelari). La presunzione assoluta è mantenuta, oltre che per il
delitto di cui all’art. 416 bis c.p., solo per le ulteriori ipotesi associative di cui agli artt. 270 e 270 bis c.p.
(concernenti, rispettivamente, le associazioni sovversive e quelle aventi finalità di terrorismo o di ordine democratico), e non è più incluso alcun riferimento all’elenco delle fattispecie incriminatrici contenuto nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p.
Per i delitti da ultimo menzionati, infatti – tra i quali quello per cui si procede – la nuova disposizione recita: «è applicata la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure».
20. Orbene, l’ordinanza impugnata non si è premurata di descrivere con motivazione idonea la valutazione sull’adeguatezza, né di precisare quali siano, nel concreto e con valenza di attualità, gli elementi
in ragione dei quali le esigenze cautelari menzionate (pericolo di reiterazione delle condotte illecite,
conseguente alla gravità dei fatti ed all’inserimento dei ricorrenti in ambienti criminali) debbano essere
salvaguardate necessariamente con la detenzione cautelare in carcere.
Nel caso di specie, a fronte di un periodo temporale di circa tre anni dai fatti oggetto di investigazione all’adozione della misura, il tribunale ha ricordato il pericolo di recidiva e quanto ai delitti contestati nei capi a) e b), lo stabile inserimento degli indagati nel commercio degli stupefacenti; per il reato
di cui al capo c), è stata richiamata la pericolosità che esprime un’organizzazione stabile dedita al commercio di stupefacenti importati dall’estero; mentre per i reati di cui ai capi d) ed e), l’ordinanza ha sottolineato la propensione degli indagati a minacciare altri imprenditori con il metodo mafioso.
Tuttavia, dette argomentazioni non chiariscono quali elementi abbiano consentito ai giudici della
cautela di valutare l’attualità del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie di quelli per cui si
procede nei confronti di ciascun indagato, e la sussistenza delle condizioni per ritenere che tali esigenze
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non potessero essere garantite mediante l’adozione di misure cautelari meno incisive della custodia in
carcere.
Alla luce delle considerazioni svolte, l’ordinanza impugnata deve perciò essere annullata limitatamente all’aggravante del metodo mafioso ed alle esigenze cautelari con rinvio al Tribunale di Roma, sezione riesame, mentre i restanti motivi vanno rigettati per le ragioni già esposte in precedenza.
[Omissis]
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MAURO TROGU
Assegnista di ricerca in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Cagliari
Come si intercettano le chat pin to pin
tra dispositivi Blackberry?
How is it possible to intercept chat pin to pin
between Blackberry mobiles?
Negli ultimi mesi la Corte di Cassazione è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla validità delle intercettazioni
delle chat pin to pin disposte a carico di utenti Blackberry, ritenendo che esse siano rispettose del dettato codicistico e che per eseguirle non sia necessario ricorrere alle rogatorie internazionali. In realtà, la concreta modalità di
esecuzione delle operazioni lascia propendere per la conclusione inversa.
In the last months the Italian Supreme Court was asked several times to rule on the validity of the interception of
chat pin to pin placed against Blackberry users, sentencing that they are respectful of the rule of law and to execute them it is not necessary to resort to the international letters rogatory. In reality, the practical conditions under
which such operations leaves lean towards the opposite conclusion.
BREVE DESCRIZIONE DEL FENOMENO
Negli ultimi mesi la Corte di Cassazione è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla validità di un
particolare tipo di intercettazione di comunicazioni 1, tanto peculiare da indurre taluno a dubitare che si
possa correttamente parlare di intercettazione 2. Il fenomeno è quello della captazione di particolari
messaggi di testo (definiti tecnicamente “chat pin to pin”) scambiati tra soggetti dotati di dispositivi
Blackberry, specie del genere smartphone.
La “chat pin to pin” tra dispositivi Blackberry consente ai detentori di tali apparecchi di scambiarsi comunicazioni scritte attraverso un particolare programma che sfrutta il sistema telematico creato dalla
casa produttrice dei medesimi dispositivi, la RIM (Research in motion), società con sede in Canada. In
estrema sintesi, il soggetto che invia un messaggio ad un altro utente dà avvio ad una sequenza di questo tipo: il messaggio viene cifrato dal suo smartphone, spedito al server della RIM (allocato in Canada),
e da qui inviato all’apparecchio destinatario, che decomprime il messaggio e lo rende intelligibile. Questa tecnologia rende inutile intercettare le chat attraverso i tradizionali canali delle compagnie telefoniche, perché i dati che vi transitano non possono essere decifrati 3. Il problema è dunque analogo a quello
che si pone di fronte alle conversazioni via Skype, che nella prassi investigativa viene ovviato mediante
l’installazione nell’apparecchio di un programma spia capace di captare le conversazioni prima che siano cifrate dal mittente o dopo che sono state decifrate dal destinatario 4.
1
La prima pronuncia dei giudici di legittimità che pare aver esaminato il problema è Cass. VI, 22 settembre 2015, n. 39449, in
Arch. pen. web, 1, 2016 con nota di L. Filippi, Questioni nuove in tema di intercettazioni: quid iuris sul “pin to pin” dei blackberry?, ivi, a
cui hanno fatto seguito Cass., sez. VI, 22 settembre 2015, n. 39925, in Arch. pen. web, 1, 2016 con nota di S. Furfaro, Le intercettazioni
“pin to pin” del sistema blackberry, ovvero: quando il vizio di informazione tecnica porta a conclusioni equivoche, ivi; Cass., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 1342, inedita; Cass., sez. III, 10 novembre 2015, n. 5818, in Arch. pen. web, 1, 2016, con nota di A. Testaguzza, ivi.
2
Così G. Pittelli e F. Costarella, Ancora in tema di chat “pin to pin” su sistema telefonico BlackBerry, in Arch. pen. Web, 1, 2016,
p. 2 ss. Su questi profili si tornerà nel prosieguo del commento.
3
Sul punto, cfr. S. Furfaro, Le intercettazioni “pin to pin” del sistema blackberry, cit., p. 4.
4
Sul punto, volendo, cfr. a M. Trogu, Le intercettazioni di comunicazioni a mezzo Skype, in questa rivista, 3, 2014, p. 102 ss.
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Invece, di fronte all’uso della tecnologia pin to pin, diffuso tra le organizzazioni criminali per celare i
contenuti delle conversazioni degli associati, gli organi inquirenti hanno scelto la strada che prevede la
collaborazione della casa madre per captare e decifrare i messaggi, dando però adito ad una serie di osservazioni critiche, che si analizzeranno nei prossimi paragrafi.
LE PROCEDURE POSTE IN ATTO PER ACQUISIRE LE CHAT TRA BLACKBERRY
Come si accennava, alcune procure distrettuali antimafia, trovandosi di fronte all’esigenza di intercettare presunti criminali che comunicavano tra loro sfruttando la tecnologia pin to pin mediante dispositivi
Blackberry, hanno chiesto ed ottenuto collaborazione dalla casa madre dei predetti apparecchi telefonici.
In particolare, da quel che è dato apprendere dalla lettura del provvedimento in commento e dagli altri
sopra citati (cfr. supra, nota 1), nonché da alcune ordinanze di merito 5, gli inquirenti hanno chiesto alla
RIM Italia s.r.l., società che rappresenta la casa madre canadese in Italia dal punto di vista commerciale,
di ottenere i testi decifrati dei messaggi pin to pin inviati e ricevuti dagli apparecchi sottoposti ad intercettazione. Questa operazione, tuttavia, non può essere compiuta in Italia, perché il server su cui transitano quei messaggi si trova in Canada, ed allora la RIM Italia s.r.l. ha trasmesso la relativa richiesta alla
RIM canadese la quale, dopo aver ottemperato, ha spedito gli esiti delle captazioni alla succursale italiana che, a sua volta, li ha trasmessi alle apparecchiature installate presso la procura procedente, dove
sono state registrate su appositi supporti informatici.
LA QUALIFICAZIONE GIURIDICA DELLE ATTIVITÀ POSTE IN ESSERE
Come si accennava, una prima questione sorta tra i commentatori e in giurisprudenza è se le attività di
acquisizione dei testi decifrati dei messaggi pin to pin debba seguire le regole del sequestro probatorio o
delle intercettazioni di comunicazioni telematiche.
A sostegno della prima soluzione si è detto che «la acquisizione di dati telematici già formati e già
oggetto di operazioni di archiviazione di massa presso un server estero, è senz’altro maggiormente assimilabile ad una ablazione ex art. 254 c.p.p., che ad una intercettazione di conversazioni, ex artt. 266 ss.
c.p.p.» 6. Sul punto occorre intendersi. Il sequestro probatorio serve per acquisire dati telematici già salvati, conservati e detenuti da un soggetto a prescindere da una espressa richiesta dell’autorità giudiziaria, cioè se il documento informatico si è formato fuori ed indipendentemente dal procedimento penale.
Pur non conoscendo i dettagli della vicenda processuale esaminata dagli Autori citati, sarebbe inquietante scoprire che la RIM conservi tutti i testi delle chat pin to pin intercorse tra gli utenti Blackberry 7 (nel
qual caso sarebbe corretto ricorrere al sequestro probatorio), e risulta più facile pensare che la stessa società capti e conservi solo i messaggi scambiati dagli utenti sottoposti ad intercettazione dall’autorità
giudiziaria, su espressa richiesta di quest’ultima. Se così è, «si tratta di flusso di comunicazioni in corso
relativo a sistemi telematici, per cui si tratta di intercettazione telematica alla quale deve applicarsi l’art.
266-bis c.p.p. e non di sequestro» 8.
Tale soluzione non risulta scalfita neppure dalla considerazione che il novellato art. 254 c.p.p.
«contempla oggi la possibilità di apprendere, con le modalità del sequestro, qualsiasi “oggetto di corrispondenza”, anche se inoltrato per via telematica» 9. La disposizione in parola trova applicazione
quando i dati oggetto di corrispondenza sono già giunti al destinatario, quando cioè il flusso di comunicazione si è concluso 10. Ma se il dato viene captato mentre il flusso scorre e prima ancora che il
5
Cfr., in particolare, Trib. Reggio Calabria (ord.), 16 giugno 2015, in Arch. pen. web, 1, 2016, con nota di G. Pittelli e F. Costarella, Ancora in tema di chat “pin to pin” su sistema telefonico BlackBerry, cit.
6
G. Pittelli e F. Costarella, Ancora in tema di chat “pin to pin” su sistema telefonico BlackBerry, cit., p. 2.
7
Una simile attività di conservazione sarebbe in aperto contrasto con gli artt. 15 Cost. e 132 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e
risulterebbe radicalmente incompatibile con il nostro sistema processuale.
8
L. Filippi, Questioni nuove in tema di intercettazioni, cit., p. 2.
9
G. Pittelli-F. Costarella, Ancora in tema di chat “pin to pin” su sistema telefonico BlackBerry, cit., p. 3.
10
Si veda al riguardo l’art. 4, comma 2, lett. m), d.lgs. n. 196/2003, che definisce la «posta elettronica» come «messaggi contenenti testi, voci, suoni o immagini trasmessi attraverso una rete pubblica di comunicazione, che possono essere archiviati in
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destinatario abbia avuto conoscenza dello stesso, non si può non ritenere integrata la fattispecie intercettiva 11.
Anche la circostanza che l’acquisizione e la lettura dei messaggi da parte degli inquirenti avvenga in
un momento successivo alla captazione, non sposta i termini del problema: ciò che conta, perché si possa parlare di intercettazione, è che il flusso di comunicazione venga acquisito prima che sia giunto al
destinatario, perché è quello il momento in cui la conversazione si svolge, ed è rispetto ad esso che deve
verificarsi la contestualità. Sarebbe invece corretto invocare la disciplina del sequestro nel caso in cui si
volessero acquisire i testi dei messaggi già salvati sul telefono dell’utente sotto osservazione.
LE MODALITÀ SEGUITE NELL’INTERCETTAZIONE DELLE CHAT PIN TO PIN: CRITICITÀ
L’esecuzione della intercettazione di flussi telematici è disciplinata dalle stesse disposizioni che regolano l’intercettazione di comunicazioni telefoniche. Il punto maggiormente problematico, nella fattispecie
che interessa, è con quali impianti possano essere eseguite e a chi possano essere delegate le operazioni
di captazione. L’art. 268, comma 3, c.p.p. pone come regola generale che le operazioni siano svolte per
mezzo degli impianti installati presso la procura della Repubblica. Tuttavia, qualora si debbano intercettare comunicazioni telematiche, il pubblico ministero può disporre l’uso di impianti appartenenti ai
privati, a norma dell’art. 268, comma 3-bis, c.p.p. Questa disciplina è una delle “garanzie stabilite dalla
legge” di cui all’art. 15 Cost., che dovrebbe garantire un controllo diretto del magistrato inquirente sulle
operazioni 12.
Come si è detto supra, per poter intercettare i dispositivi Blackberry le procure si sono rivolte alla RIM
Italia s.r.l., la quale a sua volta ha inoltrato la richiesta alla casa madre canadese, unico possessore del
server in cui transitano le chat pin to pin. Questo soggetto, nelle sue sedi operative (sulla cui allocazione
geografica si dirà infra), ha svolto in totale autonomia le attività di captazione dei flussi telematici, di
decifratura dei dati, di trasmissione, tramite la succursale italiana, alla procura della Repubblica che ne
aveva fatto richiesta.
Tale procedura vìola il disposto dell’art. 268, commi 3 e 3-bis, c.p.p. 13. La giurisprudenza ha sempre
distinto il concetto di installazione degli impianti presso la procura da quello di proprietà degli impianti medesimi. In particolare, si è ripetutamente affermato che «l’obbligo dell’impiego di impianti “installati” presso la procura, ovvero di pubblico servizio o “in dotazione” alla polizia che discende da tale
previsione, non esclude affatto l’uso di apparecchiature di proprietà di privato e non attiene allo strumento giuridico (compravendita, comodato, locazione o altro) attraverso cui la procura della Repubblica o la polizia giudiziaria si procurino dette apparecchiature, ma impone esclusivamente che esse siano
installate presso gli uffici giudiziari o siano in dotazione alla polizia» 14. Ciò che conta, insomma, è che
la captazione e la registrazione avvengano presso i locali della procura, «al fine di consentire un controllo diretto del pubblico ministero sulle operazioni» 15, ammettendosi l’uso di apparecchiature collocate all’esterno solo quando debba procedersi a intercettazioni ambientali 16.
L’art. 268 c.p.p., dunque, non ammette che le attività di captazione possano essere svolte con impianti allocati presso soggetti privati, e va da sé che non possa condividersi l’assunto per cui nella fattispecie in esame esso sarebbe comunque rispettato, in quanto «i dati telematici delle captazioni [...] sono
rete o nell’apparecchiatura terminale ricevente, fino a che il ricevente non ne ha preso conoscenza». A contrario, dopo che il ricevente
ne ha preso conoscenza, si parlerà correttamente di documento informatico. Sul punto cfr. E. M. Mancuso, L’acquisizione di contenuti e-mail, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, Torino, 2014, p. 53 ss.
11
L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, Milano, 1996, p. 17: «una cosa è assicurare al processo un documento scritto, sia
pure riservato, ma in ogni caso preesistente al provvedimento o all’atto di acquisizione; altra è captare una comunicazione nel
momento stesso in cui questa si svolge».
12
L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 91 ss.
13
L. Filippi, Questioni nuove in tema di intercettazioni, cit., p. 3.
14
Cass., sez. I, 19 dicembre 2014, n. 3137, non massimata sul punto. In senso conforme, ex plurimis, Cass., sez. III, 27 febbraio
2015, n. 32699, inedita.
15
L. Filippi, L’intercettazione di comunicazioni, cit., p. 92.
16
Ibidem, p. 92. In giurisprudenza ritengono legittimo l’uso di apparecchiature esterne alla procura solo in caso di intercettazioni ambientali Cass., sez. VI, 25 giugno 2002, n. 1281, Barilari, in Riv. pen., 2004, p. 137; Cass., sez. V, 24 settembre 1998, n.
10076, Burgio, in Cass. pen., 2000, p. 1324; Cass., sez. VI, 16 dicembre 1997, n. 5156, ivi, 1999, p. 1863.
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stati trasmessi in originale dalla società con sede in Italia direttamente sul server degli uffici della procura, ove gli stessi si trovano attualmente custoditi, con possibilità di accesso e consultazione delle parti, a
garanzia della genuinità della prova» 17, in quanto quest’ultima dipende dall’attività di captazione e decifratura dei flussi telematici, e quindi è questa che deve essere svolta sotto il diretto controllo dell’autorità giudiziaria.
Dalla violazione delle norme di cui all’art. 268, commi 3 e 3-bis, c.p.p., discende l’inutilizzabilità delle
intercettazioni eseguite usando impianti installati presso soggetti privati.
L’EXTRATERRITORIALITÀ DELLE OPERAZIONI DI INTERCETTAZIONE: CONSEGUENZE
Materialmente le operazioni di captazione del flusso e decifratura dei dati sono dunque svolte in Canada, Stato in cui sono collocati materialmente i server della RIM e ove sono custodite le chiavi di criptazione, ragione per la quale ci si è posti il quesito se sia o meno necessario procedere tramite rogatoria
internazionale.
In via preliminare, deve sgombrarsi il campo da un equivoco: per procedere alle intercettazioni in
esame non viene sfruttato nessun “nodo” telefonico posto in Italia, pertanto risulta assolutamente inconferente il richiamo alla tecnica dell’instradamento 18. Al contrario, la stessa tesi per cui l’instradamento renderebbe non necessario procedere con rogatoria internazionale in quanto «l’intera attività di
captazione e registrazione si svolge sul territorio dello Stato» 19 svela che la giurisprudenza ha sempre
ritenuto necessario, per evitare il ricorso alla rogatoria, che la captazione (fase di primaria importanza
nella sequenza intercettiva) si svolge in territorio nazionale, tanto da aver affermato che «è necessario il
ricorso all’assistenza giudiziaria all’estero unicamente per gli interventi da compiersi all’estero per l’intercettazione di conversazioni captate solo da un gestore straniero» 20.
Ciò detto, ogni volta che deve svolgersi un’attività di acquisizione probatoria all’estero, va attivata la
procedura rogatoriale, perché è un principio generale del diritto internazionale il divieto posto alle autorità giurisdizionali di uno Stato di compiere atti istruttori sul territorio di un altro Stato in assenza di
un’espressa previsione normativa o di uno specifico accordo tra i due Stati 21. Poiché nel caso in esame
il flusso telematico viene captato e decifrato all’estero, è qui che la fonte di prova può dirsi assicurata,
pronta per essere custodita in vista delle successive fasi del procedimento probatorio, e non pare contestabile che ci si trovi dinnanzi ad un’attività di acquisizione probatoria all’estero.
Alcuni atti internazionali confortano tale ricostruzione, anche se sono pochi i trattati che disciplinano espressamente le richieste di intercettazione di comunicazioni da svolgersi all’estero, e la convenzione di mutua assistenza in materia penale tra Italia e Canada 22 non è tra quelli. Pur se inapplicabile al caso di specie, è interessante osservare che la Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia
penale tra gli Stati membri dell’Unione europea (c.d. Convenzione di Bruxelles) 23, nel disciplinare attentamente la materia, stabilisce che le procedure di assistenza debbono essere attivate anche quando la
persona sottoposta ad intercettazione si trova nello Stato membro richiedente ed esso necessita dell’assistenza tecnica dello Stato membro richiesto per intercettare le comunicazioni della persona in questione (art. 18, par. 2, lett. a). Più di recente, la materia è stata trattata nella direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all’Ordine europeo di indagine penale (OEI), il
cui considerando n. 32 recita «In un OEI contenente la richiesta di intercettazione di telecomunicazioni
l’autorità di emissione dovrebbe fornire all’autorità di esecuzione informazioni sufficienti quali la con17
Cass., sez. VI, 22 settembre 2015, n. 39925, cit.
18
S. Furfaro, Le intercettazioni “pin to pin” del sistema blackberry, cit., p. 4.
19
Così la sentenza in commento, che richiama un tralatizio orientamento giurisprudenziale.
20
Cass., sez. VI, 12 dicembre 2014, n. 7634, in CED Cass., n. 262495.
21
G. Kojanec, voce Rogatoria internazionale, in Enc. giur. Treccani; A. Gaito, Dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere (artt.
656-675 c.p.p), Padova, 1985, 33; P. Laszloczky, La cooperazione internazionale negli atti d’istruzione penale, Padova, 1980, 5 ss.; E.
Calvanese, Tipologia e gerarchia delle fonti, in G. La Greca-M. R. Marchetti (a cura di), Rogatorie penali e cooperazione giudiziaria internazionale, Torino, 2003, 31.
22
Trattato di mutua assistenza in materia penale tra la Repubblica italiana ed il Canada, fatto a Roma il 6 dicembre 1990, ratificato con legge 12 aprile 1995, n. 124.
23
Adottata a norma del titolo VI del trattato sull’Unione europea, approvata con Atto del Consiglio del 29 maggio 2000.
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dotta criminale oggetto dell’indagine, al fine di consentire all’autorità di esecuzione di valutare se l’atto
di indagine interessato sia autorizzato in un caso interno analogo», sottolineando ancora una volta la
necessità che l’autorità che esercita il potere giurisdizionale nel luogo in cui l’attività intercettiva viene
svolta controlli le operazioni. L’art. 30 della medesima direttiva inoltre prevede che l’Ordine europeo di
indagine per le intercettazioni può essere eseguito sia «trasmettendo le telecomunicazioni immediatamente allo Stato di emissione», sia «intercettando, registrando e trasmettendo successivamente il risultato dell’intercettazione delle telecomunicazioni allo Stato di emissione», il quale può chiedere «una trascrizione, una decodificazione o una decrittazione della registrazione, fatto salvo l’accordo dell’autorità
di esecuzione». Pare evidente che alla base di questi atti sovranazionali vi sia l’implicita considerazione
che la captazione o anche la semplice collaborazione tecnica alla captazione rappresenti un’attività di
acquisizione probatoria.
In definitiva, poiché l’intercettazione delle chat pin to pin vìola il diritto alla segretezza delle comunicazioni di persone presenti sul territorio italiano, deve essere sottoposta ad un doppio controllo giurisdizionale: in Italia, dove i risultati probatori vogliono essere utilizzati e dove si trovano i soggetti la cui
libertà è stata conculcata, e in Canada, dove tale violazione si concretizza. Se così non fosse, dovremmo
ammettere che in Canada la RIM può liberamente intercettare le chat degli utenti Blackberry di tutto il
mondo senza alcun controllo sulla legittimità della richiesta ricevuta, il che stride con il diritto alla privacy che deve essere riconosciuto ai suoi clienti.
CONCLUSIONI
Il caso delle intercettazioni delle chat pin to pin è l’ennesimo in cui la criminalità organizzata dimostra di
saper sfruttare al meglio le pieghe delle nuove tecnologie per perseguire i propri scopi, mentre le autorità statali si trovano prive di strumenti giuridici adeguati al contrasto di tali fenomeni. Le rogatorie
non si dimostrano adeguate, per molteplici ragioni, e allora gli inquirenti cercano scorciatoie per eludere la normativa applicabile, trovando una solida spalla negli organi giudicanti. Non è facile biasimare
questo modo di fare, se si pensa all’oggetto dei processi che ne hanno fatto da scenario: escludere da essi la prova di determinati reati non sarebbe facilmente comprensibile ai più, e potrebbe apparire addirittura un’ingiustizia. È una questione di ruoli: in Italia il giudice penale non è il giudice delle libertà,
delle garanzie, dei diritti, ma è il giudice a cui si chiede di punire il colpevole. E se non ha gli strumenti
normativi per farlo li crea egli stesso, così sollevando da ogni responsabilità il soggetto politico che invece dovrebbe assumersele, il legislatore. Il tutto è umanamente comprensibile, ma inaccettabile dal
punto di vista giuridico e ordinamentale, che pretende il rispetto delle riserve di legge e di giurisdizione in ordine alle limitazioni delle libertà fondamentali.
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L’esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p.
nel giudizio di rinvio
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 22 DICEMBRE 2015, N. 50215 – PRES. FIALE; REL. DI NICOLA
In assenza della disciplina transitoria, la particolare causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. può essere
applicata in tutti i procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della norma e, pertanto, il novum può essere
preso in considerazione dai giudici di legittimità anche ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p. L’astratta configurabilità dei presupposti impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, al quale – in
caso di sopravvenuta prescrizione del reato – è preclusa la possibilità di dichiarare estinto l’illecito ai sensi dell’art.
157 c.p., in ragione dei limiti al potere decisorio derivanti dall’annullamento parziale ex art. 624 c.p.p.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. S.G. ricorre per cassazione impugnando la sentenza emessa in data 19 febbraio 2015 dalla Corte
d’appello di Potenza che ha confermato quella resa dal tribunale di Matera che aveva condannato il ricorrente alla pena di venti giorni di arresto e 3.600, 00 Euro di ammenda per il reato previsto dal D.P.R. 6
giugno 2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c), perché, in qualità di comproprietario dell’area ubicata in
contrada [omissis] e censita nel Comune di [omissis], in assenza del permesso di costruire, realizzava abusivamente, in aderenza ad un preesistente fabbricato, un pollaio consistente in un manufatto edilizio a
pianta rettangolare delle dimensioni lorde di metri 4,20 per metri 2,65 ed avente struttura portante verticale costituita da muratura perimetrale in tufo dello spessore di cm 27 e struttura orizzontale costituita da
4 travi in legno con sovrastante copertura di pannelli in lamiera zincata con copertura a falda unica.
Accertato in [omissis].
2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, articola i due seguenti
motivi di gravame.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione della legge penale ed in particolare del
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e la contraddittorietà della motivazione (art. 606, comma 1, lett. b)
ed e), c.p.p.).
[Omissis]
2.2. Con il secondo motivo di gravame il ricorrente prospetta l’applicabilità al caso di specie dell’art.
131 bis codice penale in considerazione della particolare tenuità del fatto, applicabile alla fattispecie
quale ius superveniens anche nel giudizio di legittimità. Nel caso in esame, sussisterebbero tutti i presupposti richiesti dall’art. 131 bis c.p., per la declaratoria della particolare tenuità del fatto ed il riconoscimento della relativa causa di non punibilità atteso che si è in presenza di un "pollaio" di dimensioni
lorde 4,20 m 2,65 m, quindi di modeste dimensioni e prontamente demolito a seguito dell’accertamento
effettuato dalla polizia locale del Comune di [omissis].
Non ravvisandosi nella motivazione del provvedimento impugnato elementi che escludano la particolare tenuità del fatto e ritenuta la non abitualità del comportamento, il ricorrente insiste per l’applicazione della causa di non punibilità.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è fondato, per quanto di ragione, sulla base del secondo motivo. Il primo motivo è invece
infondato.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ EX ART. 131 BIS C.P. NEL GIUDIZIO DI RINVIO
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2. Secondo la Corte d’appello, dalla documentazione fotografica in atti e dalle deposizioni dei testi
autori del sopralluogo effettuato in data 10 maggio 2011, il manufatto realizzato, in assenza del permesso di costruire, consiste in un corpo di fabbrica edificato con blocchetti di tufo con copertura di travi di
legno e lamiera zincata, destinato a pollaio, perimetrato da una rete metallica di recinzione infissa in un
cordolo anch’esso realizzato con blocchetti di tufo. È stato pertanto escluso trattarsi di un’opera definibile come precaria in quanto non affatto destinata ad esigenze temporanee (non essendo tali quelle sottese a procurare agli animali di cortile un idoneo riparo) ma altresì realizzata con modalità e materiali
non idonei ad essere sollecitamente eliminati e denotanti, per converso, la finalizzazione del manufatto
ad esigenze non contingenti e limitate nel tempo.
Quanto alla attribuibilità all’imputato dell’opera in questione, è stato posto in evidenza che il teste
D. abbia riferito che il ricorrente è l’unico dei comproprietari dell’azienda, cui il pollaio è annesso, ad
occuparlo stabilmente in quanto tutti gli altri contitolari "non sono presenti sul territorio" a causa di una
problematica attinente proprio al possesso della menzionata azienda che il prevenuto rivendica in via
esclusiva.
3. Pertanto, con logica ed adeguata motivazione, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto la
non precarietà dell’opera e dunque la necessità che, per la sua realizzazione, fosse necessario il permesso di costruire in considerazione della natura dell’intervento realizzato e ha altrettanto correttamente
attribuito il fatto di reato all’imputato essendo costui l’unica persona ad avere un rapporto permanente
con i luoghi in cui l’abuso è stato realizzato e l’unica ad avervi interesse ad eseguirlo.
Nel pervenire a tali conclusioni la Corte lucana si è attenuta ai principi di diritto affermati da questa
Corte secondo i quali, in materia edilizia, la natura precaria di un manufatto non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve risultare
dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il
mancato ancoraggio al suolo (sez. III, 3 giugno 2004, n. 37992, Mandò, Rv. 229601).
Nel caso di specie, il fatto che l’opera fosse adibita abitualmente al ricovero degli animali (pollaio)
esclude, con tutta evidenza, la natura precaria della stessa ed il fatto che l’imputato fosse l’unico tra i
comproprietari dell’immobile, ove insisteva il manufatto abusivo, ad utilizzarlo induce fondatamente a
ritenere che egli fosse il committente dell’opera, stante la diretta utilizzazione della stessa da parte sua e
l’assenza in zona degli altri comproprietari.
4. Il secondo motivo è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
La giurisprudenza di questa Corte si è assestata nel senso di ritenere che l’esclusione della punibilità
per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis c.p., ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell’art.
609, comma 2, c.p.p. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su
quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di
valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito (sez. III, 8 aprile 2015, n.
15449, Mazzarotto, Rv. 263308).
Nel caso di specie, l’applicabilità dell’istituto per effetto dello ius superveniens è stata peraltro eccepita con il secondo motivo di ricorso e sussistono i presupposti affinché il giudice di merito verifichi, in
concreto, se sussistono le condizioni per l’applicazione dell’invocata causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, posto che tale accertamento richiede apprezzamenti fattuali (nel caso in esame,
anche se l’opera abusiva sia stata o meno rimossa) e che ogni valutazione al riguardo è preclusa in sede
di legittimità.
Va tuttavia precisato che nei reati permanenti, nei cui novero rientrano le contravvenzioni relative
agli abusi edilizi, è preclusa, quando la permanenza non sia cessata, l’applicazione della causa di non
punibilità per la particolare tenuità del fatto a cagione della perdurante compressione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, per effetto della condotta delittuosa compiuta dall’autore del
fatto di reato, non potendosi considerare tenue, secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p., comma 1, e dei
quali occorre tenere conto ai fini della (particolare) tenuità del fatto, un’offesa all’interesse penalmente
tutelato che continua a protrarsi nel tempo. Questa Corte ha tuttavia opportunamente precisato che il
reato permanente, non essendo riconducibile nell’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio ex art. 131 bis c.p., può essere oggetto di valutazione con riferimento all’“indicecriterio” della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ EX ART. 131 BIS C.P. NEL GIUDIZIO DI RINVIO
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quando più tardi sarà cessata la permanenza (sez. III, 8 ottobre 2015, n. 47039, P.M. in proc. Derossi,
non ancora mass.).
Quindi, l’eliminazione dell’opera abusiva, attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della permanenza, può consentire, a condizioni esatte,
l’applicazione della causa di non punibilità introdotta dall’art. 131 bis c.p.
5. Questa Corte ha già affermato che la particolare tenuità del fatto costituisce una causa di non punibilità atipica (sez. III, 7 maggio 2015, n. 21014, v. Fregolent, non mass.) per gli effetti negativi che produce per l’imputato (anzitutto la possibile rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi ed, ancora,
l’iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale) e la sua applicazione presuppone, tra l’altro,
l’accertamento della responsabilità penale ossia l’accertamento dell’esistenza delitto e della sua attribuibilità all’imputato.
Ciò spiega la ragione per la quale la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale
sull’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis c.p., sia perché diverse sono le conseguenze che scaturiscono dai due istituti, sia perché il primo di essi estingue il reato,
mentre il secondo lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (sez. III, del
26 maggio 2015, n. 27055, P.C. in proc. Sorbara, Rv. 263885).
Perciò, la questione del concorso tra le due cause di estinzione del reato e non punibilità può porsi
solo quando le stesse siano entrambe contemporaneamente applicabili "in partenza", con la conseguenza che – quando, come nella specie, la Corte di cassazione, non essendosi verificata la causa estintiva
della prescrizione del reato, annulli la sentenza con rinvio al giudice di merito per l’applicabilità o meno dell’art. 131 bis c.p., (e quindi al cospetto di un annullamento parziale avente ad oggetto statuizioni
diverse ed autonome rispetto al riconoscimento dell’esistenza del fatto-reato e della responsabilità
dell’imputato) – nel giudizio di rinvio non può essere dichiarato prescritto il reato quando la causa
estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale.
6. Siffatta conclusione è autorizzata dal fatto che la “punibilità” – e dunque le cause che per immancabile previsione di legge ne certificano la mancanza (cosiddette “cause di non punibilità”) – non costituisce un elemento costitutivo del reato e l’assenza della punibilità non esclude la configurabilità
dell’illecito penale, per la cui ontologica e giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di
un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, non anche l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale
di colui che lo ha commesso.
A questo proposito, sotto un primo profilo, è sufficiente considerare che, ex positivo iure, l’art. 129
c.p.p., allo stesso modo del previgente art. 152 c.p.p. 1930, non ha inserito – al di là dell’accenno (non
vincolante per l’interprete) nella rubrica della disposizione alle “cause di non punibilità” (e, all’evidenza, in senso lato) – le altre ragioni di non punibilità, compreso il difetto dell’imputabilità, tra le cause di cui sia obbligatoria la immediata declaratoria (Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, cit., non mass. sul
punto).
Tale silenzio non è stato ritenuto il frutto di una mera dimenticanza del legislatore, trovando al contrario radici profonde nei presupposti che giustificano il ricorso alle cause di proscioglimento nel merito, alle cause di estinzione del reato o alle cause d’improcedibilità codificate ed esulando invece dall’ambito operativo della fattispecie processuale le ipotesi in cui la causa di non punibilità possa essere
dichiarata esclusivamente dopo l’accertamento del fatto di reato e della sua attribuibilità all’imputato,
epilogo, questo, confermato, sia pure con riferimento all’imputabilità, dalla Corte costituzionale (sent. 10
febbraio 1993, n. 41) secondo cui la suddetta declaratoria (di non punibilità per difetto d’imputabilità)
postula il necessario accertamento della responsabilità in ordine al fatto-reato e della sua attribuibilità
all’imputato.
Sotto altro profilo, è stato lucidamente chiarito, in dottrina, come alla punibilità possano essere attribuiti due significati: uno generico, con il quale si rappresenta che un determinato fatto in tanto è preveduto dalla legge come reato in quanto per esso è prevista, come ordinaria conseguenza per coloro che lo
hanno commesso, l’applicazione d’una sanzione penale; l’altro, strettamente tecnico, secondo cui nella
punibilità deve riconoscersi il complesso di tutti gli elementi richiesti dalle norme del diritto penale sostanziale per l’assoggettamento di una persona alla potestà punitiva dello Stato, pervenendosi alla conclusione che né dal primo punto di vista e né dall’altro la punibilità appare elemento costitutivo o carattere del reato: nel primo caso essa non è infatti che l’indicazione del carattere (o disvalore) criminoso di
un determinato fatto i cui estremi costitutivi sono e restano la conformità al tipo, l’antigiuridicità e la
colpevolezza; mentre nel secondo la punibilità si identifica con la ordinaria conseguenza del reato, con
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la potenzialità dell’applicazione della pena, vuoi nel suo momento giudiziale (cosiddetta punibilità in
astratto), vuoi nel suo momento esecutivo (cosiddetta punibilità in concreto).
Ne consegue che il precetto penale, pur essendo riconoscibile solo per la previsione della sanzione
criminale, tipicizza i fatti che sono configurati dalla legge come reato, rispetto al quale, quando se ne
compia l’esame o l’analisi in concreto, la punibilità non appare come indefettibile elemento, posto che i
due momenti della norma penale (precetto e sanzione) mostrano in pieno la loro rispettiva autonomia,
al punto che l’inapplicabilità della sanzione non appare affatto come elemento decisivo per negare che
un determinato interesse rientri nella sfera dei fatti penalmente rilevanti, allorquando l’ordinamento
penale una tale rilevanza attribuisca tanto quando ammette l’esistenza di eventi o di condizioni che determinano l’applicabilità della sanzione, pur non facendo parte del fatto tipico (quali le cosiddette condizioni oggettive di punibilità), tanto quando contempla eventi o condizioni che, pur non escludendo il
reato perché non attengono né al fatto tipico né alla sua antigiuridicità né alla colpevolezza, escludono
tuttavia l’applicabilità della sola sanzione.
Una conferma di tale soluzione si coglie quando si consideri che, pur al cospetto di tali eventi e condizioni che escludono la punibilità, l’esistenza del reato non può negarsi, vuoi perché la causa di non
punibilità è riferibile soltanto a un momento successivo a quello del perfezionamento di tutti gli estremi
di esso (come nel caso della ritrattazione della falsa testimonianza), vuoi perché la esclusione della pena
è rimessa al potere discrezionale del giudice (come nel caso della non punibilità dell’ingiuria per reciprocità delle offese).
Si tratta di un principio che questa Corte ha già affermato con riferimento alla causa di non punibilità prevista dal d.l. 12 settembre 1983, n. 463, art. 2, comma 1-bis, conv. in legge 11 novembre 1983, n.
638, a proposito del reato di omesso versamento delle ritenute d’imposta operate dal datore di lavoro
allorquando è stato precisato (sez. III, 18 luglio 2014, n. 45451, Cardaci, non mass. sul punto) come le
cause, nel caso di specie sopravvenute, di non punibilità siano caratterizzate da situazioni o da fatti che
derivano sempre da accadimenti posteriori alla commissione di un reato e tali accadimenti possono essere collegati ad un comportamento dell’agente di valore inverso rispetto alla condotta illecita tenuta
(come, a titolo esemplificativo, nel caso di recesso dai delitti di cospirazione politica o di banda armata
alle condizioni rispettivamente previste dagli artt. 308 e 309 c.p., nel caso di ritrattazione della falsa testimonianza) ovvero ad una manifestazione di volontà del soggetto passivo (come ad esempio nel caso
previsto dall’art. 596, comma 3, n. 3, c.p. in relazione all’ultimo comma della medesima disposizione)
oppure all’esercizio di un potere discrezionale del giudice (come avviene, ad esempio, nell’art. 599 c.p.,
che attribuisce al giudice il potere di non punire uno o entrambi gli offensori se le offese sono reciproche).
Perciò nei casi in cui l’esenzione da pena dipende da comportamenti del reo successivi al fatto o è
rimessa soltanto al potere discrezionale del giudice non si può negare che la valutazione compiuta dal
legislatore nell’attribuire rilevanza alle cause di esenzione discrezionale da pena riguardino esclusivamente l’an o il quantum della punibilità e non anche gli elementi (tipicità, antigiuridicità e colpevolezza)
che reggono la struttura del reato, presupponendone pertanto l’accertamento e la sua attribuibilità all’autore, posto che la ragione dell’esenzione della pena riposa, di regola, su motivi di convenienza o di
politica utilità della punizione che, come è stato precisato, tradizionalmente si vogliono vedere alla base
delle cause di esclusione della sola punibilità sussumibili piuttosto in una fattispecie di "perdono" giudiziale che non di un accertamento dei presupposti del dovere di punire.
Va aggiunto come questa Corte, nella sua più autorevole composizione, abbia già affermato il principio secondo il quale la punibilità non può essere considerata un elemento costitutivo del reato, osservando che il diritto positivo, prevedendo cause che escludono l’illiceità del fatto – c.d. cause di giustificazione – nonché cause scusanti che escludono la colpevolezza ma non l’illiceità del fatto (artt. 45 e 46
c.p.) e cause di esclusione della punibilità in senso stretto – le quali hanno l’effetto di escludere la sola
pena lasciando sussistere l’illiceità del fatto e la colpevolezza dello autore – non consente di ritenere che
del reato sia sempre componente essenziale l’applicazione della pena comminata, evidenziando come
emerga, dunque, un ruolo autonomo della punibilità rispetto al reato, sganciato dall’applicazione della
sanzione tipica, punibilità che va, pertanto, esclusa dai suoi elementi costitutivi, anche se, di norma, alla
commissione di un illecito penale e accertamento della colpevolezza segue l’applicazione della relativa
sanzione. (sez. un., sent. 26 marzo 1997, n. 4904, Attinà, in motiv.).
Decisivo a questo proposito è lo scrutinio concernente la fattispecie riguardante la pacifica ammissibilità di un concorso punibile nel fatto commesso dal soggetto esentato dalla pena per la particolare teAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ EX ART. 131 BIS C.P. NEL GIUDIZIO DI RINVIO
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nuità del fatto. Se quest’ultimo non avesse realizzato il presupposto minimo della partecipazione criminosa, che è la realizzazione del fatto tipico, un concorso penale del terzo, per il quale sussista l’abitualità del comportamento delittuoso, assente invece nel concorrente, non si potrebbe in alcun modo
concepire.
Invece la possibilità di un tale concorso deve essere, secondo i principi generali, pacificamente ammessa cosicché, come è stato rilevato, proprio nella prospettiva del reato plurisoggettivo è dato cogliere
la peculiare fisionomia delle cause personali di non punibilità e la loro differenza dalle cause di esclusione del reato.
Ne consegue che il fatto non punibile non assume alcuna diversa rilevanza nel senso che non diviene lecito, ma resta reato, pur se non punibile.
Ciò spiega anche la ragione per la quale la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto
non configura un’ipotesi di abolitio criminis sul rilievo, desumibile dal comb. disp. ex art. 2, comma 2,
c.p. e art. 673 c.p.p., che, qualora ricorrono i presupposti dell’istituto previsto dall’art. 131 bis c.p., il fatto è pur sempre qualificabile – e qualificato dalla legge – come “reato”, dovendosi ricordare, tra l’altro,
che il nuovo art. 651 bis c.p.p., attribuisce efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi alla
sentenza dibattimentale di proscioglimento per particolare tenuità del fatto anche “quanto all’accertamento (...) della sua illiceità penale” (sez. III, 24 giugno 2015, n. 34932, Elia, non mass. sul punto).
7. La causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto si presta quindi a testare ulteriormente le conclusioni alle quali si è giunti in precedenza, convalidandole e confermando che essa presuppone l’integrazione del reato al completo di tutti i suoi elementi e, per l’effetto, l’accertamento della responsabilità e l’attribuibilità del fatto – reato all’autore, il quale rimane esentato, se la causa è applicata,
solo dall’assoggettamento alla sanzione penale.
L’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto non esige, allora, un
fatto conforme al tipo ma inoffensivo, anzi richiede la presenza di un fatto conforme al tipo ed offensivo, seppure in maniera esigua e tenue secondo i due “indici-criteri” della tenuità del fatto (la “tenuità
dell’offesa” e la “non abitualità del comportamento”) in coincidenza necessaria con due ulteriori sottoindici (o “indici-requisiti”) della tenuità dell’offesa, rappresentati dalle “modalità della condotta” e dalla “esiguità del danno o del pericolo”.
La valutazione in ordine alla sua applicabilità è affidata al potere discrezionale del giudice al quale,
secondo il principio della discrezionalità guidata o vincolata per essere i parametri di riferimento normativamente previsti, è affidato il compito di riconoscerne la sussistenza nonostante l’accertata commissione del reato e l’attribuibilità di esso all’imputato.
Logico corollario di tale fisionomia della causa di non punibilità è costituito dagli effetti negativi che
il reato commesso produce nonostante che, per ragioni di politica criminale, l’autore è esentato dalla
pena: l’iscrizione nel casellario giudiziale dei provvedimenti “che hanno dichiarato la non punibilità ai
sensi dell’art. 131 bis c.p.”, e la rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi secondo quanto disposto
dall’art. 651 bis c.p.p., recante la disciplina dell’efficacia della sentenza di proscioglimento ex art. 131 bis
c.p., nel giudizio civile o amministrativo di danno, con i conseguenti risvolti processuali, tra cui vanno
segnalati i più importanti: l’opposizione, ex art. 411 c.p.p., comma 1-bis, che possono presentare la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa sulla richiesta di archiviazione del pubblico ministero
per particolare tenuità del fatto, l’esclusione della causa di non punibilità dal novero di quelle codificate nell’art. 129 c.p.p., e la previsione del meccanismo descritto nell’art. 469 c.p.p., posto che la sentenza
di non doversi procedere prevista dall’art. 469 c.p.p., comma 1-bis, presuppone che l’imputato e il pubblico ministero non si oppongano alla declaratoria di improcedibilità, essendo anche necessario consentire alla persona offesa di interloquire sulla questione della tenuità del fatto mediante notifica dell’avviso della fissazione dell’udienza in camera di consiglio, con espresso riferimento alla procedura ex art.
469, comma 1-bis, c.p.p. (sez. III, 08 ottobre 2015, n. 47039, P.M. in proc. Derossi, cit.).
Da tutto ciò consegue che l’annullamento con rinvio della sentenza di condanna per la verifica della
sussistenza dell’art. 131 bis c.p., impedisce l’applicabilità nel giudizio di rinvio della causa di estinzione
del reato per prescrizione e, fermo restando l’accertamento della responsabilità penale, la statuizione di
condanna rimane sospesa al verificarsi di una condizione costituita dall’applicabilità o meno della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto.
Sul punto, va ricordato che questa Corte ha stabilito che, da un lato, non si può ritenere la punibilità
elemento costitutivo del reato, come tale in grado di condizionarne il perfezionamento;
dall’altro lato, vige il principio della formazione progressiva del giudicato, che si forma, in conseAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ EX ART. 131 BIS C.P. NEL GIUDIZIO DI RINVIO
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guenza del giudizio della Corte di cassazione di parziale annullamento dei capi della sentenza e dei
punti della decisione impugnati, su quelle statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, quale
quella relativa all’accertamento della responsabilità in merito al reato ascritto, che diventano non più
suscettibili di ulteriore riesame. (Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 2004, n. 15472, cit., Rv. 228499; sez. II, 17
ottobre 2013, n. 44949, Abenavoli, Rv. 257314).
La configurabilità del giudicato progressivo comporta, infatti, che l’accertamento della responsabilità e l’irrogazione della pena possono intervenire in momenti distinti posto che la punibilità non è elemento costitutivo del reato e dunque non è "extra ordinerà" la concezione di una definitività decisoria
che, attenendo all’accertamento della responsabilità dell’autore del fatto criminoso e ponendo fine
all’iter processuale su tale parte, crei una barriera invalicabile all’applicazione di cause estintive del reato, sopravvenute alla sentenza di annullamento ad opera della Cassazione, con la conseguenza che, se
l’annullamento è parziale e non intacca le disposizioni della sentenza che attengono all’affermazione di
responsabilità, la sentenza acquista "autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione
essenziale con la parte annullata" (art. 624 c.p.p.) e tale connessione non sussiste quando venga rimessa
dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla punibilità, sul rilievo che il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive sopravvenute all’annullamento parziale (sez. un., 26 marzo 1997, n. 4904, Attinà, Rv. 207640).
8. La sentenza impugnata va pertanto annullata per la verifica dell’applicazione al caso di specie della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto con rinvio, per nuovo giudizio sul punto,
alla Corte di appello di Salerno, la quale si atterrà ai principi di diritto in precedenza affermati.
Nel resto, il ricorso va invece rigettato.
[Omissis]
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ADRIANO SPINELLI
Dottore di ricerca in Scienze penalistiche – Università degli Studi di Trieste
Prescrizione e lieve entità del fatto: i limiti ai poteri cognitivi
nel giudizio di rinvio
Limitation of action and slight crimes: judge’s limited power
of cognizance after the rescission of a sentence
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione conferma l’orientamento per cui, laddove siano astrattamente configurabili i presupposti di applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p., la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio al giudice di merito, affinché questi valuti l’applicabilità nel caso concreto della speciale
causa di non punibilità. Inoltre, con riferimento alla possibilità che nel corso del giudizio rescissorio maturi il termine prescrizionale ex art. 157 c.p., si precisa che il giudice incaricato della decisione non potrà dichiarare estinto il
reato. Richiamando un consolidato filone giurisprudenziale, il Supremo collegio ricorda altresì come, in caso di
mancato annullamento dei punti relativi alla sussistenza del fatto e alla responsabilità dell’imputato, il reato è giudicato nella sua interezza, indipendentemente dalla definitività delle statuizioni sul trattamento sanzionatorio, poiché la punibilità non rappresenta un elemento indefettibile del delitto. Essendo il nucleo essenziale dell’illecito accertato entro i termini di cui all’art. 157 c.p., la pronuncia assolutoria estenderebbe – indebitamente – l’ambito di
operatività della causa di estinzione del reato.
The annotated sentence confirms the interpretive way according to which, if the conditions provided for in the art.
131 bis of the penal code can be configured, the Supreme Court, at first, has to declare the rescission of the sentence and then has to indicate the judge charged of the decision about the application of the rule in the specific
case. The Court also predicts the possibility that the maximum term for the prosecution could expire during the
preceding that follows the rescission of the judgement and the same Supreme Court states that, if it were so, the
judge cannot acquit the indicted person. If the points of the decision about the existence of the crime and the liability of the accused are not invalidated, the decision is irrevocable; indeed, the concrete punishability is not fundamental. Both of the specified crime’s constituent elements are definitively judged in a shorter period than the
one established by art. 157 of the penal code; for that reason, an absolution sentence would represent an improper expansion of the crime’s extinction.
PREMESSA
Aderendo ad un orientamento giurisprudenziale in via di consolidamento, con la pronuncia commentata la Corte di Cassazione conferma la possibilità di affrontare il tema della particolare tenuità del fatto
ai sensi dell’art. 131 bis c.p. in sede di legittimità; avendo tale istituto natura sostanziale ed essendo applicabile nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, la questione è devoluta ope legis alla cognizione della Suprema corte, ai sensi dell’art. 609 c.p.p. 1, poiché, nel
1
I giudici di legittimità richiamano un proprio precedente sul punto: Cass., sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449, in C.E.D. Cass., n.
263308. Precisa, inoltre, la Suprema corte che, nella specie, l’applicabilità dell’istituto per effetto dello ius superveniens era stata
peraltro eccepita dal ricorrente, essendosi così già ab origine manifestato l’effetto devolutivo. La sentenza qui annotata non
affronta il tema, tuttavia, sembra utile evidenziare come, in altra pronuncia, la Corte di Cassazione abbia ritenuto imprescindibile l’ammissibilità del ricorso al fine di poter rilevare – anche ex officio – l’applicabilità della lex mitior, partendo dal presupposto
che l’inammissibilità dell’atto introduttivo impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale: Cass., sez. III, 24 giugno
2015, n. 2775, in www.italgiure.giustizia.it. In dottrina, P. Gaeta-A. Macchia, Tra nobili assiologie costituzionali e delicate criticità
applicative: riflessioni sparse sulla non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, in Cass. pen., 2015, p. 2618.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRESCRIZIONE E LIEVE ENTITÀ DEL FATTO
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caso di specie, l’introduzione di tale causa di non punibilità è stata successiva alla pronuncia della sentenza di condanna all’esito del giudizio d’appello: da qui l’impossibilità di dedurre la specifica questione nella sede di merito.
Ciò posto, la Corte di Cassazione va oltre il semplice annullamento della sentenza impugnata, con
rinvio al giudice di merito affinché questi valuti la sussistenza dei requisiti necessari per il proscioglimento ai sensi dell’art. 131 bis c.p.; infatti, i giudici di legittimità precisano come nel corso del giudizio
rescissorio non sarà possibile rilevare l’eventuale prescrizione del reato, stante i limiti cognitivi e decisori derivanti dall’annullamento parziale disposto ai sensi dell’art. 624 c.p.p.
LA VICENDA ED I PROFILI SOSTANZIALI DELL’ART. 131 BIS C.P.
Il ricorrente – condannato alla pena di giorni venti di arresto ed euro 3.600 di ammenda per la contravvenzione di cui all’art. 44, comma 1, lett c), d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, per aver realizzato abusivamente un piccolo manufatto edilizio, poi demolito – ha sostenuto l’applicabilità in sede di legittimità dell’art. 131 bis c.p., poiché, trattandosi di ius superveniens, la nuova causa di non punibilità doveva trovare
operatività, ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p., in tutti i procedimenti in corso al momento dell’entrata in
vigore della nuova norma.
Concorda la Corte di Cassazione – affermando, come anzidetto, la rilevabilità d’ufficio della questione ex art. 609, comma 2, c.p.p. – che, tuttavia, precisa due profili inerenti, il primo, al rapporto tra la
causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e i reati permanenti e, il secondo, alla relazione
tra l’art. 131 bis c.p. e la prescrizione.
Sulla compatibilità tra la particolare tenuità dell’offesa e il reato permanente – natura da riconoscere
all’abuso edilizio per cui era intervenuta la condanna del ricorrente – richiamando un proprio precedente, il Collegio evidenzia come tale tipologia di illeciti non possa essere ricondotta nell’alveo dell’abitualità, ostativa al riconoscimento del beneficio in esame. Da ciò non discende la generalizzata applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.: il criterio della particolare tenuità dell’offesa non è concettualmente incompatibile con la natura di reato permanente, tuttavia, affinché il comportamento possa essere considerato non punibile la Corte richiede che la compressione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice sia terminata. Non solo: rileva altresì il momento in cui sono
eliminati gli effetti del reato; infatti, la tenuità sarà tanto più di difficile riconoscimento, tanto più la cessazione della permanenza si sia attardata 2.
In secondo luogo, ricordano i giudici di legittimità, la particolare tenuità del fatto rappresenta una
causa di non punibilità atipica, in ragione degli effetti negativi per l’imputato che da essa discendono 3 e
del riconoscimento della sussistenza del fatto e della responsabilità dell’imputato. Effetti negativi che
invece non conseguono alla declaratoria di estinzione del reato per prescrizione; questa la ragione per
cui, laddove le menzionate cause di proscioglimento concorrano, l’osservanza del generale principio
del favor rei impone di dar prevalenza all’estinzione ex art. 157 c.p. 4.
I LIMITATI POTERI DECISORI DEL GIUDICE DEL RINVIO
La prescrizione del reato rappresenta, dunque, un approdo maggiormente favorevole per l’imputato.
Tuttavia, al giudice del rinvio siffatta rilevazione è preclusa, poiché – come emerge dalla pronuncia in
commento – «la questione del concorso tra le due cause di estinzione del reato e non punibilità può
2
Cass., sez. III, 8 ottobre 2015, n. 47039, in www.cortedicassazione.it. La Corte così procede alla valutazione astratta ed
all’elaborazione di linee guida per il giudice del rinvio, che rappresentano il binomio conclusivo del giudizio rescindente, come
già affermato da Cass., sez. III, 7 maggio 2015, ord. n. 21014, in Dir. pen. proc., 2015, p. 987, con nota di S. Milone, La “tenuità del
fatto” non arriva per ora alle Sezioni Unite. In termini dubitativi, R. Bartoli, L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto,
in Dir. pen. proc., 2015, p. 670. Paventa, seppur criticamente, la possibilità che la non punibilità per particolare tenuità del fatto
segua la «lettura piuttosto disinvolta» dell’art. 129 c.p.p. anche in sede di legittimità, G. Garuti, L’esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto: profili processuali, in questa Rivista, 2015, 6, p. 6.
3
In particolare, trattasi della rilevanza della pronuncia di proscioglimento nei giudici civili ed amministrativi e dell’annotazione nel casellario giudiziale.
4
Già Cass., sez. III, 26 maggio 2015, n. 27055, in C.E.D. Cass., n. 263885.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRESCRIZIONE E LIEVE ENTITÀ DEL FATTO
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porsi solo quando le stesse siano entrambe contemporaneamente applicabili ‘in partenza’»; posto che
nel caso di specie il termine prescrizionale, invece, ancora non era decorso, nel giudizio di rinvio – volto
a valutare l’applicabilità o meno dell’art. 131 bis c.p. – «non può essere dichiarato prescritto il reato
quando la causa estintiva sia sopravvenuta alla sentenza di annullamento parziale» 5.
Dunque, è duplice il possibile scenario: da un lato, l’originaria coesistenza della causa di estinzione
del reato e della causa di non punibilità, che impone, per le ragioni anzidette, che sia la prima ad essere
privilegiata; laddove così nella specie fosse stato, sarebbe stato compito della stessa Corte di Cassazione
assolvere l’imputato in ragione della prescrizione del reato. Dall’altro lato, si colloca l’esistenza del solo
ius superveniens, che determina l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, affinché venga valutata in concreto l’applicabilità della nuova causa di non punibilità 6.
La limitata devoluzione derivante dal giudizio rescindente sarebbe stata di per sé sufficiente a circoscrivere l’ambito cognitivo e decisorio del giudizio rescissorio 7; invece, con una buona dose di pragmatismo, la Suprema corte arricchisce la motivazione della pronuncia, affrontando – prognosticamente –
eventuali “futuribili”. Afferma, come già ricordato, che laddove il giudizio rescissorio dovesse concludersi successivamente al decorso del termine prescrizionale previsto per la contravvenzione contestata,
questa non potrebbe comunque essere dichiarata estinta, in ragione della cognizione parziale del giudice individuato dalla Corte di Cassazione in sede di annullamento.
I giudici di legittimità colgono l’occasione per ribadire il proprio orientamento in tema di giudicato
progressivo “proprio”, che si realizza in caso di annullamento parziale di alcuni punti d’un singolo capo di imputazione ex art. 624 c.p.p. 8, per il quale acquisiscono «autorità di cosa giudicata le parti che
non hanno connessione essenziale con la parte annullata» 9. In particolare, la questione maggiormente
controversa concerne l’annullamento della sentenza in relazione a punti diversi dall’accertamento del
fatto e della responsabilità dell’imputato; il tema ha determinato un triplice intervento delle Sezioni
unite della Corte di Cassazione, le quali hanno progressivamente definito il concetto di «cosa giudicata» e di «connessione essenziale», nonché i relativi effetti 10.
Si ravvisavano, infatti, nella giurisprudenza di legittimità orientamenti non univoci: un primo filone
ermeneutico individuava nell’annullamento parziale una mera preclusione all’esame di quelle parti della
sentenza non colpite da annullamento, né ad esse inscindibilmente connesse, sicché la sopravvenienza di
una causa di non punibilità ben poteva essere rilevata dal giudice del rinvio 11; in contrapposizione a siffatto pensiero, altra parte della giurisprudenza di legittimità riteneva che la sentenza di rinvio della Corte
di Cassazione determinasse, comunque, il passaggio in giudicato della relativa decisione 12.
5
Analogamente, Cass., sez. V, 12 aprile 2013, n. 17050, in www.iusexplorer.it, per la quale il giudice del rinvio può dichiarare
l’estinzione del reato per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di parziale annullamento che abbia escluso la
sussistenza di un’aggravante ed imposto un nuovo esame della questione relativa alla corretta individuazione della data di
consumazione del reato.
6
Ai sensi dell’art. 131 bis, comma 1, c.p., il giudice del rinvio dovrà tener conto dei limiti quoad poenam della fattispecie, della
modalità della condotta e dell’eseguità del danno o del pericolo – valutate ai sensi dell’art. 133 c.p. – e della non abitualità del
comportamento criminoso.
7
M. Petrini, voce Giudizio di rinvio, in Dig. pen., Agg., 2014, p. 295. In giurisprudenza, Cass., sez. III, 29 febbraio 2012, n. 7882,
in Arch. n. proc. pen., 2013, p. 584, nonché Cass., sez. II, 26 novembre 2013, n. 47069, ivi, 2015, p. 286.
8
Sulla distinzione con il giudicato progressivo “improprio”, che si realizza allorquando vi sia l’annullamento di solo alcuni
capi d’una sentenza oggettivamente cumulativa, cfr. S. Beltrami, Il giudizio di rinvio, in G. Spangher, Impugnazioni, V (Trattato di
procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 840 ss.
9
Sulla specifica questione della rilevabilità della prescrizione da parte del giudice del rinvio, si veda, ex multis, Cass., sez. I, 6
novembre 2009, n. 42528, in Arch. n. proc. pen., 2011, p. 105, per la quale il giudice del rinvio può dichiarare l’estinzione del reato
per prescrizione maturata anteriormente alla sentenza di annullamento totale, non trovando in tal caso l’impedimento di un
giudicato parziale. Esclude la possibilità di dichiarare in sede di rinvio l’intervenuta prescrizione a seguito di riqualificazione
del fatto Cass., sez. VI, 8 marzo 2013, n. 28412, in Cass. pen., 2014, p. 952 ss.
10
C. Conti, La preclusione nel processo penale, Milano, 2014, p. 221.
11
E tale impostazione era altresì sostenuta dalla dottrina maggioritaria; cfr. G. Leone, Trattato di diritto processuale penale,
Napoli, 1961, III, p. 235. Più recentemente, F.R. Dinacci, Il giudizio di rinvio nel processo penale, Padova, 2002, p. 41; A. Bargi, Il
ricorso per cassazione, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, Torino, 1998, p. 649; D. D’Arrigo, Il giudicato parziale e le cause
estintive del reato, in Giur. it., 1999, p. 607 ss.
12
Per una disamina dei diversi orientamenti della giurisprudenza formatasi durante la vigenza del codice Rocco, D. Siracusano,
Il principio di diritto nel giudizio penale di rinvio, in AA.VV., Studi in onore di Francesco Antolisei, III, Milano, 1965, p. 271 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRESCRIZIONE E LIEVE ENTITÀ DEL FATTO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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Un primo tentativo di composizione di tale divario interpretativo è rappresentato dalla pronuncia
delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (cosiddetta “Agnese”) 13: il Supremo consesso preliminarmente osserva come l’«autorità di cosa giudicata» di una parte della sentenza – ai sensi dell’art. 545 cod.
abr., prima, e dell’art. 624 c.p.p., ora – non vada confusa né con il giudicato in senso sostanziale, né con
la possibilità di eseguire la sentenza: con detta locuzione il riferimento è esclusivamente «all’esaurimento del potere decisorio del giudice della cognizione». Ciò posto, essa non può «riferirsi soltanto ai
“capi autonomi” della sentenza, (poiché, laddove così fosse) la norma si segnalerebbe per la sua assoluta superfluità, non essendo certo contestabile l’autonomia delle azioni penali confluenti nel processo
cumulativo, sia in relazione al loro esercizio che alla loro consunzione».
Concludono le menzionate Sezioni unite affermando l’impossibilità per il giudice del rinvio di rilevare la prescrizione intervenuta successivamente all’annullamento da parte della Corte di Cassazione,
qualora la pronuncia rescindente abbia ad oggetto statuizioni diverse ed autonome rispetto alla sussistenza del reato ed alla responsabilità dell’accusato 14.
La soluzione è stata confermata da un’ulteriore pronuncia delle Sezioni unite di poco successiva 15,
che evidenzia come l’art. 624 c.p.p. faccia coincidere il concetto di «autorità di cosa giudicata» della sentenza, relativamente alle parti non annullate, con quello di «irrevocabilità» delle medesime. Ne consegue che l’«espediente interpretativo» della preclusione processuale non appare ulteriormente proponibile, poiché – come già affermato con la sentenza Agnese – l’autorità di cosa giudicata si riferisce al solo
esaurimento del potere decisorio del giudice della cognizione 16.
L’orientamento è stato, poi, ribadito da una terza pronuncia delle Sezioni unite, con la quale è stato
definitivamente superato l’argomento per cui la determinazione del trattamento sanzionatorio doveva
essere considerata in «connessione essenziale» con l’accertamento del fatto e della responsabilità; connessione per la quale non avrebbe potuto attribuirsi alla parte non annullata autorità di cosa giudicata.
Si individua, con una sentenza dell’anno 1997 (cosiddetta Attinà), «un ruolo autonomo della punibilità
rispetto al reato, sganciato dall’applicazione della sanzione tipica, punibilità che va dunque esclusa dai
suoi elementi costitutivi, fermo restando che di norma alla commissione di un illecito penale e all’accertamento della colpevolezza segue l’applicazione della relativa sanzione» 17.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte approfondisce il tema della “punibilità”, confermando la tesi per cui essa non costituisce elemento costitutivo dell’illecito, poiché precetto e sanzione appaiono come elementi dotati di reciproca autonomia, «al punto che l’inapplicabilità della sanzione non
appare affatto come elemento decisivo per negare che un determinato interesse rientri nella sfera dei
fatti penalmente rilevanti».
13
Cass., sez. un., 23 novembre 1990, in Cass. pen., 1991, p. 728 ss., con nota di M. Vessichelli.
14
Cass., sez. un., 23 novembre 1990, cit., p. 733. Sotto la vigenza del c.p.p. 1930, dello stesso tenore Cass., sez. un., 18 febbraio
1988, in Cass. pen., 1988, p. 1343 ss.
15
Si veda Cass., sez. un., 11 maggio 1993, in Cass. pen., 1993, p. 2499 ss.
16
G. Spangher, Bis in idem delle Sezioni unite sui limiti di applicabilità dell’art. 152 c.p.p. 1930 nel giudizio di rinvio con annullamento parziale, in Cass. pen.,1993, p. 2506 s.
17
Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 4904, in Cass. pen., 1997, p. 2684. L’orientamento è poi confermato anche da Cass. pen.,
sez. un., 19 gennaio 2000, n. 1, ivi, 2000, p. 2975, le quali, pur riconoscendo la formazione del giudicato in relazione ai soli capi
della sentenza, con esclusione dei punti, non si discostano – per esplicita precisazione – dalla giurisprudenza di legittimità
appena richiamata; tutte rappresentano «sicura conferma della distinzione tra giudicato e preclusione processuale, nonché della
non idoneità di quest’ultima ad impedire l’applicazione delle cause estintive del reato, onde il principale errore interpretativo
dell’indirizzo giurisprudenziale qui confutato va evidenziato nell’avere compiuto una indebita trasposizione delle regole sul
giudicato conseguente all’annullamento parziale ex art. 624 comma 1 c.p.p., nell’àmbito proprio delle preclusioni derivanti
dall’effetto devolutivo dell’impugnazione e dalla disponibilità del rapporto processuale in sede di gravame». In dottrina,
aderiscono G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Torino, 2013, p. 751; S. Beltrani, Il giudizio di rinvio, cit., p. 848; E. Savio, Poteri del
giudice del rinvio in un particolare caso di abolitio criminis, in Dir. pen. proc., 2012, p. 52. Contra, – isolatamente, in tempi recenti –
Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2011, n. 45994, in Ced. Cass., n. 251405, per la quale l’impugnazione sulla sola quantificazione
della pena impedisce che il capo della sentenza acquisisca autorità di cosa giudicata e non esime il giudice del rinvio dalla
valutazione circa l’esistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRESCRIZIONE E LIEVE ENTITÀ DEL FATTO
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L’impostazione appare condivisibile: sembra possibile affermare che sia la stessa ratio della prescrizione ad escluderne la rilevabilità in sede di rinvio. L’istituto comporta l’estinzione del reato nel momento in cui, dalla data dell’illecito, non intervenga una sentenza irrevocabile di condanna entro un
predeterminato periodo di tempo 18. Ebbene, nella specie, l’irrevocabilità si manifesta, seppure in modo
parziale. Il fatto illecito e la colpevolezza dell’imputato sono accertati entro i termini previsti dall’art.
157 c.p. Il nucleo essenziale della responsabilità penale è compiutamente accertato, sicché ne deve essere affermata la definitività e l’irretrattabilità.
18
Ex multis, G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2010, p. 792.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PRESCRIZIONE E LIEVE ENTITÀ DEL FATTO
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Il soggetto in vinculis che intenda comparire all’udienza
di riesame deve averne fatto richiesta nell’istanza
ex art. 309 c.p.p.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE I, SENTENZA 17 DICEMBRE 2015, N. 49882 – PRES. CHIEFFI; REL. CASA
Il combinato disposto dei commi 8 e 8-bis del novellato art. 309 c.p.p. va interpretato nel senso che il soggetto detenuto (per via del provvedimento cautelare impugnato o per altra causa) o internato, o comunque sottoposto ad
altra misura privativa o limitativa della libertà personale, il quale intenda, anche per il tramite del suo difensore,
esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale, deve averne fatto richiesta nell’istanza di riesame.
Con la recente novella, il legislatore si è, infatti, prefisso di ancorare il diritto dell’indagato detenuto o internato a
comparire all’udienza ad un dato obiettivo e certo – insuscettibile di interpretazioni “elastiche” e volto a prevenire
eventuali atteggiamenti dilatori o di mera ostruzione – costituito dall’inserimento della richiesta di comparire nel
corpo dell’istanza di riesame. A opinare diversamente, disancorando, quindi, il diritto dell’interessato di comparire
dalla previa richiesta ai sensi del comma 6 dell’art. 309 c.p.p., si finirebbe con il privare il comma 8-bis del medesimo articolo di una qualsivoglia pratica applicazione.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 16 giugno 2015, il Tribunale del riesame di Brescia confermava il provvedimento reso in data 6 giugno 2015, con il quale il G.I.P. del Tribunale di Bergamo aveva applicato a [omissis]
la misura della custodia in carcere per il reato di detenzione illegale di armi clandestine, commesso in
concorso con [omissis] (nei cui confronti veniva confermata la misura non custodiale dell’obbligo di dimora).
1.1. In via preliminare, il Tribunale rigettava l’eccezione di nullità dell’udienza camerale per omessa
traduzione del [omissis], che ne aveva fatto richiesta.
Osservavano i Giudici bresciani che la disciplina introdotta con la legge n. 47/2015, modificativa
dell’art. 309 c.p.p. (commi 6 e 8-bis), aveva riordinato la materia: da un lato, riconoscendo un diritto di
partecipazione uguale per ciascun indagato, cioè senza differenze originate dal luogo di detenzione;
dall’altro, risolvendo in radice ogni questione fattuale sulla tempestività o meno della richiesta dell’indagato, attraverso la previsione che imponeva la veicolazione della richiesta stessa con l’istanza di riesame del provvedimento cautelare.
L’individuazione legislativa del momento preciso in cui deve essere esercitato il diritto in questione
valeva a scongiurare soluzioni differenziate sulla base di una nozione, invero assai discrezionale, di
tempestività della domanda.
Secondo il Tribunale, l’obiezione di una difficoltà dell’indagato circa la conoscenza di questo specifico obbligo, qualora si fosse personalmente attivato per proporre l’impugnazione, non era dirimente, atteso che la presentazione personale dell’impugnazione non esonerava l’interessato dal rispetto delle
forme procedimentali, ne’ lo rendeva immune dalle conseguenze di carattere preclusivo discendenti
dall’inosservanza delle norme procedurali prescritte.
Ad avviso del Giudice a quo, neppure valeva l’obiezione di una compressione dei diritti dell’indagato in ragione di un adempimento ulteriore ristretto nelle suddette forme.
Invero, a differenza del sistema pregresso, la richiesta di comparizione non doveva essere formulata
personalmente dall’interessato, essendo sufficiente il suo inserimento nel ricorso, ancorché presentato
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL SOGGETTO IN VINCULIS CHE INTENDA COMPARIRE ALL’UDIENZA DI RIESAME
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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dal difensore. Ciò era dato desumere dal disposto dell’articolo 309, comma 6, che, a differenza dell’art.
309 c.p.p., comma 9-bis, non imponeva che la richiesta di comparire fosse avanzata personalmente
dall’indagato (tale avverbio nel comma 6 essendo riferito alla comparizione); pertanto, proprio in ragione dello stretto collegamento instaurato tra atto d’impugnazione e richiesta di comparizione, doveva
ritenersi che la relativa domanda potesse essere inserita anche nel ricorso sottoscritto esclusivamente
dal difensore.
Non avendo l’indagato presentato la richiesta di partecipare all’udienza camerale contestualmente
all’istanza di riesame, l’eccezione di nullità dedotta doveva essere disattesa.
1.2. Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale del riesame ravvisava nei confronti del [omissis] il rischio di recidiva, fondandolo sulle modalità dei fatti e sulla personalità dell’indagato.
Sotto il primo profilo, si sottolineava il rilevante allarme sociale destato dal reato di detenzione illegale di armi, sia perché sintomatico di collegamenti con circuiti criminali di spessore, sia perché prodromico all’uso delle armi stesse per la commissione di ulteriori delitti.
Sotto il secondo profilo, si valorizzavano i numerosi precedenti penali del [omissis] e la sua condizione di sorvegliato speciale.
1.2.1. L’esclusiva idoneità del presidio di massimo rigore veniva ancorata non solo alla prognosi negativa circa l’eventuale rispetto, da parte dell’indagato, delle prescrizioni connesse ad eventuali misure
gradate (seppure con gli strumenti di controllo elettronici), atteso che egli aveva commesso il reato oggetto di riesame quando era sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ma anche alla inidoneità del domicilio indicato, trattandosi dell’abitazione sovrastante il locale dove erano
state rinvenute le armi contestate.
2. Ha proposto ricorso per cassazione [omissis] per il tramite del difensore di fiducia.
2.1. Con il primo motivo, si deduce violazione di legge in ordine alla mancata partecipazione
all’udienza camerale dell’indagato che ne aveva fatto richiesta.
Il provvedimento del Tribunale appariva in contrasto con l’intento de legislatore che, mediante la
nuova disciplina di cui alla legge n. 47 del 2015, aveva rafforzato il diritto all’autodifesa dell’indagato
(attraverso il diritto a comparire personalmente all’udienza e ad ottenere il differimento di quest’ultima
per giustificati motivi); inoltre, risultava difforme anche dalla normativa sul procedimento camerale in
forza della quale la decadenza dalla partecipazione ed audizione dell’indagato era da collegarsi al termine di cinque giorni antecedenti la data dell’udienza.
Infine, attraverso l’affermata interpretazione il Collegio aveva inibito all’indagato l’esercizio del diritto di enunciare motivi nuovi all’udienza camerale.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia omessa motivazione sulle esigenze cautelari. Omettendo di
rispondere alle obiezioni del difensore circa la necessità di motivare sulla concretezza ed attualità del
pericolo di recidiva, il Tribunale ne aveva ravvisato la sussistenza richiamando pedissequamente la
motivazione del primo Giudice.
2.3. Con il terzo motivo, si lamenta mancanza di motivazione circa la ritenuta esclusiva idoneità della custodia in carcere.
Il Tribunale di Brescia non aveva speso una parola sull’inidoneità di misure meno afflittive.
Quanto alla affermata inidoneità del luogo degli eventuali arresti domiciliari, il Collegio non aveva
neanche valutato la circostanza che il locale, nel frattempo, era stato chiuso e riconsegnata l’attività ai
legittimi proprietari, sicché il paventato sospetto non aveva ragione di esistere.
Infine, diversamente da quanto ritenuto nel provvedimento impugnato, l’indagato aveva sempre rispettato le prescrizioni impostegli con la misura della sorveglianza speciale, da ultimo quella dell’obbligo di dimora nel comune di residenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. Il primo motivo porta all’esame di questa Corte un tema ermeneutico nuovo, originato dalla modifica di recente apportata dell’art. 309 c.p.p., commi 6 e 8-bis, dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, art. 11
(recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche
alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità”), entrata in vigore in data 8 maggio 2015.
L’art. 11 della legge citata ha, da un lato, modificato dell’art. 309, il comma 6, finora dedicato escluAVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL SOGGETTO IN VINCULIS CHE INTENDA COMPARIRE ALL’UDIENZA DI RIESAME
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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sivamente alle modalità di presentazione (contestuale o successiva) dei motivi di gravame, disponendo,
in particolare, che, con la richiesta di riesame, oltre a poter essere enunciati anche i motivi, “l’imputato
può chiedere di comparire personalmente”.
D’altro lato, il medesimo art. 11 ha aggiunto al comma 8-bis dell’art. 309, finora dedicato alla legittimazione del P.M. richiedente la misura a partecipare all’udienza camerale, il seguente ulteriore periodo: “L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente”.
2.1. La descritta novità normativa si innesta in un sistema precedentemente regolato dell’art. 309
c.p.p., comma 8, mediante rinvio alle disposizioni dettate dall’art. 127 c.p.p., che disegna un modello
generale a partecipazione non necessaria: in tale modello, l’interessato ha diritto ad essere sentito se
compare, mentre, qualora sia detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione e ne fa richiesta, ha diritto di essere sentito prima dell’udienza camerale dal magistrato di sorveglianza del luogo (art. 127, comma 3, c.p.p.).
In tale sistema, l’orientamento maggioritario di questa Corte ha espresso il principio per cui la mancata traduzione all’udienza camerale del detenuto fuori distretto (che ne abbia fatto richiesta) è causa di
nullità assoluta e insanabile, senza che da ciò, derivi, peraltro, la perdita di efficacia della misura (tra le
più recenti, vedi sez. VI, 21/5/2015, n. 21849, Farina, Rv. 263630; vedi anche sez. VI, 17 ottobre 2013, n.
44415, Blam, Rv. 256689; sez. VI, 4 dicembre 2006, n. 1099, dep. 2007, Di Girolamo, Rv. 2356211; in tema
di giudizio camerale d’appello ex art. 599 c.p.p., vedi sez. un, 24/6/2010, n. 35399, F., Rv. 247835).
Peraltro, va rilevato che in talune recenti decisioni si è ancorato il diritto di presenziare del detenuto
fuori distretto alla necessità “sostanziale” che la richiesta sia formulata “in modo tale da rendere manifesta la volontà di rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta” (sez. II, 5
novembre 2014, n. 6023, dep. 2015, Di Telia, Rv. 262312).
Quanto allo specifico profilo della necessaria tempestività della richiesta di traduzione, si è posto in
evidenza che essa non deve pregiudicare la celerità del procedimento e che la sua presentazione deve
avvenire “nella ragionevole immediatezza della ricezione della notificazione dell’avviso della data fissata per l’udienza camerale dinanzi al Tribunale” (sez. VI, 4 ottobre 2011, n. 42710, Ventrici, Rv. 251277;
sez. II, 30 aprile 2013, n. 20883, Campo, Rv. 255819).
A tal proposito, si è precisato che, in considerazione della “peculiarità della procedura di riesame,
caratterizzata dalla ristrettezza dei tempi e dalla rilevanza determinante della loro osservanza ai fini
dell’efficacia stessa della decisione, solo tale “ragionevole immediatezza” (che dovrà essere oggetto di
specifica argomentazione, ove necessario) individua il punto di bilanciamento tra il diritto fondamentale dell’imputato di essere presente e la necessità di rispettare le caratteristiche di snellezza e celerità del
rito e di assicurare che l’esito del procedimento non sia influenzato da condotte dell’imputato maliziose
o non giustificate” (n. 42710/2011 cit.).
2.2. In tale contesto, dunque, sono intervenute le modifiche normative in esame, il senso delle quali
sembra quello di affermare, in modo inequivoco, il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto; la possibilità di esercitare
tale diritto, peraltro, risulta strettamente correlata, per l’impugnante detenuto o internato, alla formulazione della richiesta nell’atto di riesame.
2.3. Le obiezioni palesate dal ricorrente, condivise da parte della dottrina, seppure ragionevolmente
argomentate, ad avviso del Collegio debbono essere superate alla luce di un’interpretazione letterale e
sistematica del nuovo dato normativo.
Vi è, anzi tutto, un elemento ineludibile da cui partire, ed è l’inequivoco significato letterale delle disposizioni in commento, che subordinano il “diritto di comparire personalmente” attribuito all’”imputato” – espressione, quest’ultima, che, ovviamente, va intesa estensivamente ricomprendendovi anche
l’“indagato”, ai sensi dell’art. 61 c.p.p., comma 1, – all’adempimento/condizione di averne fatto richiesta “ai sensi del comma 6”, ovvero contestualmente alla istanza di riesame (“Con la richiesta di riesame …
l’imputato può chiedere di comparire personalmente”).
Nel contesto di una procedura scandita da ritmi serrati come quella delineata dall’art. 309 c.p.p., tale
rigorosa disposizione riveste una sua precisa coerenza, in quanto appare finalizzata a dirimere ogni incertezza, eliminando la relativa discrezionalità in capo ai giudici de libertate, in ordine alla individuazione della concreta nozione di “tempestività” (della richiesta di comparire), sulla quale la giurisprudenza di questa Corte è stata, finora, costretta a intervenire per individuare “il punto di bilanciamento
tra il diritto fondamentale dell’imputato di essere presente e la necessità di rispettare le caratteristiche
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di snellezza e celerità del rito e di assicurare che l’esito del procedimento non sia influenzato da condotte dell’imputato maliziose o non giustificate” (vedi sopra gli arresti richiamati).
Con la novella in commento il legislatore si è, dunque, prefisso la finalità di ancorare il diritto
dell’indagato detenuto o internato a comparire all’udienza ad un dato obiettivo, certo e incontrovertibile – insuscettibile di interpretazioni “elastiche” e volto a prevenire eventuali atteggiamenti dilatori e/o
di mera ostruzione – costituito dall’inserimento della richiesta di comparire nel corpo dell’istanza di
riesame, che sia questa sottoscritta dall’interessato o dal suo difensore, parimenti legittimato a proporre
istanza di riesame ai sensi dell’art. 309, comma 3, c.p.p. (e, in conseguenza, parimenti legittimato, ai
sensi dell’art. 99 c.p.p., a presentare, per conto del suo assistito, contestuale richiesta di comparizione
personale all’udienza camerale).
A opinare diversamente, disancorando, quindi, il diritto dell’interessato di comparire dalla previa
“richiesta ai sensi del comma 6”, si finirebbe con il privare il comma 8-bis di un qualsivoglia ambito di
pratica applicazione, facendo di detto comma una norma inutiliter data.
Non è dato ravvisare, in tale opzione ermeneutica, una portata lesiva dei diritti della difesa.
Non può ignorarsi, infatti, che l’indagato, solo pochi giorni prima dell’udienza di riesame, ha già
avuto modo di esporre compiutamente le sue ragioni in sede di interrogatorio di garanzia (art. 294
c.p.p.), atto, quest’ultimo, dalla natura eminentemente difensiva, in quanto volto a consentire all’indiziato di fare presenti le circostanze adducibili a suo favore (sotto il profilo indiziario e cautelare), così
da obbligare il giudice ad un controllo successivo della “tenuta” delle valutazioni operate ex ante, a fronte
degli argomenti emersi in quella sede.
Questa forte accentuazione della fisionomia dell’interrogatorio di garanzia come strumento di difesa
– che spiega anche la previsione del meccanismo di caducazione disciplinato dall’art. 302 c.p.p. (ogniqualvolta il giudice non proceda all’interrogatorio entro il termine perentorio di cui all’art. 294 c.p.p.) –
e la breve distanza temporale che lo separa dall’udienza di riesame, comportano, come conseguenza
logica e sistematica, che, nella fase dell’incidente cautelare, la presenza dell’indagato assume un rilievo
in chiave difensiva necessariamente di minore pregnanza, sia perché rimessa alla sua volontà, sia perché parimenti rimesso alla sua volontà è l’esercizio della facoltà di rendere spontanee dichiarazioni in
udienza, sia, infine, perché dette spontanee dichiarazioni, proprio per essere rese solo qualche giorno
dopo l’obbligatorio interrogatorio di garanzia, nella stragrande maggioranza dei casi non possono che
risolversi nella pedissequa ripetizione di quanto già dichiarato davanti al G.I.P. o in generiche proteste
d’innocenza.
Così delineata la funzione della (eventuale) presenza dell’indagato all’udienza di riesame, non può
ritenersi lesiva dei diritti di difesa una disposizione, come quella in commento, che, per soddisfare le finalità più sopra illustrate e nel contesto di una procedura necessariamente celere e snella, ha ancorato il
diritto dell’indagato a presenziare all’udienza alla condizione che ne faccia richiesta nel corpo dell’istanza
di riesame.
D’altro canto, a fronte di norme certamente rigorose come quelle di cui ai modificati commi 6 e 8-bis
dell’art. 309 c.p.p., il legislatore, con la novella del 2015, ha inteso accrescere gli strumenti a disposizione della difesa, consentendo, con l’introduzione del nuovo comma 9-bis, che, “su richiesta formulata
personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso”, il Tribunale differisca “la
data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi sono giustificati motivi”.
Nonostante la natura prettamente tecnica delle esigenze difensive atte a fondare una richiesta di differimento del termine, il legislatore ha inteso ricollegare quest’ultima ad una manifestazione di volontà
espressa direttamente dall’imputato per intuibili ragioni correlate alla delicatezza di un tema quale la
privazione della libertà personale anche oltre il termine ordinario previsto dalla legge.
Anche alla luce del tenore della richiamata ultima disposizione, che, in relazione ad una questione
eminentemente tecnica, ha voluto, comunque, affidarsi, in via esclusiva, all’iniziativa personale dell’imputato, non possono che disattendersi le obiezioni formulate, a sostegno di un’interpretazione meno
“stringente” del combinato disposto dei commi 6 e 8-bis dell’articolo 309 c.p.p., a proposito di un’iniziativa certamente meno complessa sul piano tecnico-difensivo – quella di chiedere di presenziare all’udienza di riesame contestualmente alla presentazione dell’impugnazione – rimessa a un soggetto sprovvisto delle necessarie cognizioni tecniche.
Si tratta, invero, di una scelta legislativa – finalizzata alle preminenti esigenze già illustrate – che non
ignora, da un lato, che, antecedentemente alla presentazione della richiesta di riesame, un previo contatto tra indagato e difensore vi è già stato (o all’udienza di convalida dell’arresto o del fermo o in sede
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d’interrogatorio di garanzia dopo l’esecuzione dell’ordinanza cautelare non preceduta da arresto in flagranza o da fermo) e, dall’altro, che la richiesta di riesame (con la contestuale eventuale richiesta di partecipazione dell’indagato all’udienza camerale) può essere presentata anche dal difensore tecnico.
2.3.1. Così chiarita la portata innovativa dei commi 6 e 8-bis dell’art. 309 c.p.p., va escluso, per il carattere rigoroso caratterizzante tali disposizioni, che, come sostenuto da parte della dottrina, persisterebbe, comunque, alla luce dell’immutato comma 8 dell’art. 309 c.p.p. (con il richiamo alle forme dell’udienza celebrata ai sensi dell’art. 127 c.p.p.) in coordinamento con l’art. 101 disp. att. c.p.p., il diritto
del soggetto detenuto o internato “in luogo posto fuori del circondario del tribunale competente” di essere ascoltato dal magistrato di sorveglianza, nel caso di mancata richiesta di partecipare all’udienza
con l’istanza di riesame.
Atteso che la disciplina dell’udienza di riesame assume il carattere di una vera e propria lex specialis
rispetto alla disciplina generale prevista dall’art. 127 c.p.p., ed è, quindi, destinata a prevalere su quest’ultima ogniqualvolta esprima una norma diversa e/o incompatibile, non vi ha dubbio che, dopo l’introduzione dei modificati commi 6 e 8-bis dell’art. 309 c.p.p., le disposizioni di cui all’art. 127 c.p.p., comma 3
e art. 101 disp. att. c.p.p., debbano intendersi non più applicabili all’udienza di riesame, in quanto, se lo
fossero, comporterebbero una irragionevole “rimessione in termini” a beneficio esclusivo di chi è detenuto o internato in luogo posto fuori del circondario del Tribunale competente (che potrebbe essere
ascoltato dal magistrato di sorveglianza), con iniqua penalizzazione del soggetto detenuto o internato
in luogo interno al predetto circondario (che non potrebbe essere ascoltato).
2.3.2. Vale la pena, infine, di rammentare che, per il suo carattere di sotto-sistema normativo speciale, nessuna influenza dalle due disposizioni in commento subisce la disciplina di partecipazione
all’udienza mediante collegamento audiovisivo prevista dall’art. 146 bis disp. att. c.p.p., per i detenuti
indagati per i reati indicati dell’art. 51 c.p.p., comma 3-bis e art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. o sottoposti
al regime penitenziario particolare di cui all’art. 41 bis Ord. Pen., disciplina che resta, pertanto, invariata.
2.4. Per quanto sinora detto, può, in conclusione, esprimersi il seguente principio di diritto, cui il
Tribunale del riesame di Brescia si è correttamente conformato:
“Il combinato disposto dei commi 6 e 8-bis del novellato articolo 309 c.p.p. va interpretato nel senso
che il soggetto detenuto (per via del provvedimento cautelare impugnato o per altra causa) o internato,
o comunque sottoposto ad altra misura privativa o limitativa della libertà personale, il quale intenda,
anche per il tramite del suo difensore, esercitare il diritto di comparire personalmente all’udienza camerale, deve averne fatto richiesta nell’istanza di riesame”.
3. Manifestamente infondate sono le censure dedotte in relazione alla asserita carenza di motivazione sulle esigenze cautelari e sulla scelta della misura, avendo il Tribunale fornito, su entrambi i temi,
risposta congrua ed adeguata nei termini sintetizzati nella superiore esposizione in fatto (vedi paragrafo 1.2.).
4. Il ricorso va, nel complesso, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
Si eseguano gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att., comma 1-ter, c.p.p.
[Omissis]
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FRANCESCA ROMANA MITTICA
Dottoranda in Procedura penale – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
La partecipazione all’udienza di riesame
dopo la legge n. 47 del 2015
Participation in the hearing of the riesame
after the law no. 47 of 2015
La Corte di Cassazione si pronuncia sulla partecipazione del soggetto nei cui confronti è stata applicata una misura
cautelare all’udienza di riesame, delineando la portata del novellato comma 8-bis dell’art. 309 c.p.p., volto a consacrare il diritto dell’indagato a comparire personalmente. Secondo i giudici di legittimità non trova più applicazione la
disciplina di cui all’art. 127 c.p.p., operante prima della riforma, realizzata con la legge n. 47 del 2015: per poter
partecipare al giudizio di riesame, oggi, i soggetti destinatari di un provvedimento restrittivo della libertà personale
– sia ristretti nel circondario che fuori – hanno l’onere di indicarlo, eventualmente anche per mezzo del difensore,
unitamente alla presentazione dell’istanza di riesame.
L’Autrice, pur apprezzando la decisione per l’introduzione di un contraddittorio più garantito e non meramente
eventuale, avanza tuttavia talune riserve sulla effettività del diritto dell’indagato a presenziare all’udienza ex art.
309 c.p.p., diritto sottoposto invero a non pochi vincoli processuali e a taluni limiti temporali.
The [Italian] Supreme Court emphasized the participation of the person against whom a protective order hearing
the review, outlining the scope of the amended paragraph 8-bis of art has been applied. 309 Code of Criminal Procedure, which aims to consecrate the right of the suspect to appear in person. According to the judges of legitimacy no longer applies discipline in art. 127 Code of Criminal Procedure, which operates before the reform, created by Law no. 47 of 2015: in order to participate in the review proceedings, today, the beneficiaries of a measure restricting personal freedom – is restricted in the district and outside – have the burden to point it out, possibly by means of defense, together with the presentation of ‘motion for reconsideration.
The author, while appreciating the decision for the introduction of a guaranteed contradictory and not merely potential, advances however certain reservations on the effectiveness of the suspect’s right to attend the hearing as
per art. 309 Code of Criminal Procedure, Law indeed undergone many procedural constraints and to certain time
limits.
RILIEVI INTRODUTTIVI
La sentenza annotata affronta la tematica dell’ambito di esplicazione del contraddittorio in sede di
impugnazione dei provvedimenti applicativi delle misure cautelari e, in particolare, si pronuncia sui
cambiamenti apportati in materia dalla legge n. 47 del 2015 1.
1
Legge 16 aprile 2015, n. 47 (pubblicata in G.U. n. 94 del 23 aprile 2015 ed entrata in vigore l’8 maggio 2015, dopo l’ordinaria
vacatio legis), recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975,
n. 354, in materia di visite a persone affette da handicap in situazione di gravità». Per i primi commenti, v. R. Bricchetti-L. Pistorelli,
Misure cautelari: dall’8 maggio il ricorso al carcere preventivo è sottoposto a criteri rigidi e a precisi obblighi motivazionali. Concesso
all’imputato il diritto a comparire di persona in udienza, in Guida dir., 2015, 20, p. 51; D. Chinnici-D. Negri, Una riforma carica di
ambizioni ma troppo cauta negli esiti, in D. Chinnici-E.N. La Rocca-F. Morelli-D. Negri (a cura di), Le misure cautelari personali nella
strategia del “minimo sacrificio necessario”, Roma, 2015, p. 3 ss.; A. Foti, Il nuovo testo della norma codicistica è applicabile ai giudizi
cautelari in corso di esecuzione?, in Dir. e giustizia, 2015, 28, p. 75; G. Illuminati, Verso il ripristino della cultura delle garanzie in tema di
libertà personale dell’imputato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 3, p. 1130; P. Maggio, I controlli, in T. Bene (a cura di), Il Rinnovamento
delle misure cautelari, Analisi della legge n. 47 del 16 aprile 2015, Torino, 2015, 4, p. 83 ss.; M. Malerba, Il “nuovo” potere di annul-
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Prima della riforma, il procedimento di riesame, in virtù del rinvio contenuto al comma 8 dell’art.
309 c.p.p., si svolgeva nelle forme previste dall’art. 127 c.p.p. 2, che delinea un modello generale di rito
camerale a partecipazione non necessaria, secondo cui il soggetto interessato ha diritto di essere sentito
se compare. Le peculiarità di detto giudizio, caratterizzato da forme semplificate, alternative a quelle
dibattimentali, sono l’assenza di pubblicità e la non necessaria partecipazione delle parti. Ciò al fine di
consentire l’emissione del provvedimento decisorio in tempi ristretti, ma comunque nel rispetto del canone del contraddittorio.
Con riferimento al procedimento di riesame, il legislatore del 1988 ha voluto richiamare l’archetipo
di cui all’art. 127 c.p.p. 3 proprio in ragione della rapidità attraverso cui deve intervenire la decisione,
onde consentire una procedura snella, oltre che in considerazione di esigenze organizzative e di sicurezza 4. Tale assetto non è stato considerato lesivo della dialettica processuale in considerazione del
fatto che il Tribunale della Libertà ha comunque una cognizione piena e non limitata all’oggetto del
ricorso.
Rispetto al rito camerale tipico, tuttavia, il modus procedendi di cui all’art. 309 c.p.p. presenta alcune
particolarità giustificate in ragione della celerità con cui è necessario definire lo status libertatis: così, ad
esempio, il termine per la comunicazione della fissazione dell’udienza alle parti è di soli tre giorni liberi
rispetto a quello di dieci di cui all’art. 127 c.p.p.; si ritiene sufficiente, per l’urgenza, esperire la notificazione al difensore a mezzo di telefono, telegramma e telefax; fino al giorno dell’udienza gli atti rimangono depositati in cancelleria e il difensore ha facoltà di esaminarli ed estrarne copia; i motivi o motivi
nuovi possono essere presentati fino all’inizio della discussione.
Per quanto riguarda più specificamente la partecipazione dell’interessato all’udienza 5 – strumento
di massima esplicazione del diritto di difesa – prima della riforma, l’art. 309, comma 8, c.p.p. rinviava
all’art. 127 c.p.p., che, a sua volta, al comma 3 detta una disciplina differenziata a seconda che il soggetto in vinculis sia detenuto nel circondario o fuori dallo stesso: nel primo caso egli può prendere parte
lamento del tribunale del riesame alla luce della l. 16 aprile 2015, n. 47: un’occasione perduta, in Cass. pen., 2015, p. 4234; A.
Marandola, I nuovi criteri di scelta della misura, in Dir. pen. proc., 2015, p. 405 ss.; A. Mari, Prime osservazioni sulla riforma in
materia di misure cautelari personali (l. 16 aprile 2015, n. 47), in Cass. pen., 2015, p. 2538; E. Marzaduri, Verso una maggiore tutela
dell’imputato nel procedimento di riesame: luci e ombre della nuova disciplina, in www.lalegislazionepenale.eu, 1 dicembre 2015; R.
Mastrototaro, Custodia cautelare in carcere e presunzioni legali, in Foro it., 2015, V, c. 105; G. Spangher, Un restyling per le misure
cautelari, in Dir. pen. proc., 2015, p. 529 ss.; G. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la l. n. 47 del 2015, in
www.penalecontemporaneo.it, 6 luglio 2015, p. 5; E. Turco, La riforma delle misure cautelari, in questa Rivista, 2015, 5, p. 106 ss.; AA.
VV., Le modifiche in materia di misure cautelari, in G. M. Baccari-K. La Regina-E. M. Mancuso (a cura di), Il nuovo volto della giustizia
penale, Padova, 2015, p. 383 ss.
2
La giurisprudenza e la dottrina prevalente ritengono che il modello generale dell’art. 127 c.p.p. trovi applicazione anche
nei casi in cui il legislatore, nel prescrivere che il procedimento si svolga in camera di consiglio, senza disciplinare particolari
diversità di struttura, ometta di fare espresso riferimento alle forme dell’art. 127 c.p.p. V. Cass., sez. VI, 1 settembre 1992, n.
3107, in Giur. it., 1992, II, p. 609, con nota di F. Coppi, Il contradditorio sulla richiesta di proroga dei termini di custodia cautelare;
Cass., sez. VI, 12 febbraio 1992, 413, ivi, 1992, II, p. 623; Cass., sez. VI, 28 ottobre 1991, n. 3484, ivi, p. 193, con nota di A. Gaito,
Proroga della custodia cautelare e vizi procedurali; Cass., sez. un., 11 aprile 2006, n. 14991, in Cass. pen., 2006, p. 2369; Cass., sez. un.,
28 maggio 2003, n. 26156, ivi, 2003, p. 2978. In dottrina, v. in particolare, G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano,
1994, p. 197. Da ultimo, Cass., sez. II, 11 novembre 2005, n. 46207, in CED Cass., n. 232587, statuisce che, avuto riguardo alla
valorizzazione del principio del contraddittorio operata dall’art. 111 Cost., deve ritenersi che la procedura camerale partecipata,
quale prevista dall’art. 127 c.p.p., costituisca, rispetto a quella de plano, non l’eccezione ma la regola, derogabile solo in presenza
di espressioni normative quali «senza formalità di procedura», «senza ritardo», «d’ufficio» e simili.
3
Sulla disciplina dell’art. 127 c.p.p., v. E. Amodio, Artt. 127-128 c.p.p., in E. Amodio-O. Dominioni (a cura di), Commentario
del nuovo codice di procedura penale, II, Milano, 1989, p. 85; M. Chiavario, Tribunale della libertà e libertà personale, in AA.VV.,
Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, 1983, p. 131; A. Rocca, sub art. 127 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura
di), Codice di procedura penale commentato, IV, Milano, 2010, p. 1270 ss.; P. Tonini, Manuale di procedura penale, IV ed., Milano 2005,
p. 164; V. Grevi, Misure cautelari, in G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, Compendio di procedura penale, VII ed., Padova, 2014, p. 413; D.
Negri, L’imputato presente al processo. Una ricostruzione sistematica, Torino, 2014, p. 187 ss.; A. Furgiele, Il Riesame, in A. Scalfati (a
cura di), Prove e misure cautelari, II, t. 2, (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2008, p. 485.
4
In proposito nella Relazione al progetto preliminare al c.p.p., con riferimento al procedimento di esecuzione, si è evidenziato
che ove si fosse optato per un indiscriminato diritto dei detenuti alla traduzione ci si sarebbe esposti al concreto pericolo di
iniziative strumentali da parte di soggetti pericolosi finalizzate unicamente ad ottenere il trasferimento per tentare la fuga o
mantenere contatti con i membri dell’organizzazione criminale.
5
Per una ricognizione v. P. Spagnolo-L. Ludovici alla voce partecipazione, par. 9, in G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di), Codice di
procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, IX, Milano, 2008, p. 1283 ss.
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all’udienza, nel secondo, invece, ha soltanto la facoltà di essere sentito dal magistrato di sorveglianza
del locus detentionis 6. E soltanto per il soggetto ristretto nel luogo in cui ha sede il giudice è previsto il
rinvio dell’udienza in caso di legittimo impedimento, sempre che lo stesso abbia chiesto di essere sentito personalmente (art. 127, comma 4, c.p.p.).
La ratio di tale regime risiede nell’esigenza di evitare problemi pratici dovuti allo spostamento del
detenuto, specie se recluso in località posta a notevole distanza dalla sede del tribunale procedente,
preoccupazione tanto più avvertita in relazione alle problematiche connesse all’applicazione della custodia cautelare.
Tuttavia la delineata diversità di trattamento ha suscitato non poche perplessità, specie per ciò che
concerne la portata del diritto di audizione del detenuto fuori circondario, rivelatasi una delle questioni
maggiormente dibattute in letteratura.
Per quanto concerne la comparizione del soggetto ristretto nel luogo in cui ha sede il giudice non si
pongono, invero, particolari questioni interpretative. Peraltro, sul tema, sono intervenute le Sezioni
Unite della Corte di legittimità che hanno chiarito le conseguenze sanzionatorie ricollegabili alla mancata traduzione dell’imputato: avallando l’indirizzo che propugnava la nullità assoluta dell’intera procedura camerale nonché del provvedimento reso all’esito della stessa, il Supremo Collegio ha considerato l’ordine di traduzione e la sua esecuzione, insieme con l’avviso di cui all’art. 127 c.p.p., atti indefettibili della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio. Questo perché, senza di essi,
la comunicazione della camera di consiglio non può svolgere in concreto la funzione che le è propria,
ossia quella della vocatio in iudicium, che può essere realmente tale solo in quanto rivolta a chi ad essa
sia in grado di rispondere. Di conseguenza, la citazione dell’imputato detenuto realizza un’unica fattispecie complessa, costituita dalla notificazione dell’udienza e dalla dichiarazione di volontà di comparire, con la conseguenza che la mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita, determina la
nullità insanabile ex artt. 178, lett. c), e 179 c.p.p. 7
Con riferimento al soggetto ristretto fuori circondario, invece, la giurisprudenza sinora non ha seguito linee omogenee 8.
Secondo un primo indirizzo, l’audizione presso il magistrato di sorveglianza può surrogare la partecipazione, ma non incombe alcun obbligo di disporla autonomamente, dovendo avvenire sempre su richiesta, anche della persona offesa 9. Pertanto, qualora la parte non eserciti autonomamente tale diritto,
né manifesti l’intenzione di esercitarlo, nessuna violazione procedurale può ravvisarsi nel comportamento del giudice che pervenga all’atto decisionale senza l’escussione della stessa 10.
Altro filone giurisprudenziale, in virtù della natura tipicamente camerale del procedimento di riesame ex art. 127, comma 3, c.p.p., afferma che il diritto a presenziare del detenuto fuori circoscrizione
sarebbe pienamente garantito dall’audizione dello stesso prima del giorno dell’udienza, precisandosi
tuttavia che l’eventuale omissione dell’atto determina una nullità assoluta ed insanabile del procedimento e del provvedimento conclusivo 11.
Secondo un terzo orientamento, infine, in base ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la
sentenza 31 gennaio 1991, n. 45 12 – secondo cui il combinato disposto degli artt. 309, comma 8, e 127,
comma 3, c.p.p. non vieta la comparizione del detenuto fuori circondario – il diritto di costui a essere
6
Il legislatore del 1998 per ragioni di ordine pratico – tra cui anche i costi e i tempi di trasporto di un detenuto – aveva
ritenuto altrettanto garantista, rispetto alla comparizione, far sentire l’interessato dal proprio giudice naturale.
7
Cass., sez. un., 24 giugno 2010, n. 35399, in CED Cass., n. 247836.
8
A. Famiglietti, Novità legislative interne, in questa Rivista, 2015, 4, p. 10 ss.
9
Cass., sez. VI, 11 febbraio 1999, n. 3501, in CED Cass., n. 212702.
10
Cass., sez. VI, 15 ottobre 1999, n. 2443, in Riv. pen., 2000, p. 397. Per lo stesso motivo, in materia di revoca e sostituzione delle
misure cautelari nei confronti dell’estradando che abbia chiesto di essere sentito dal magistrato di sorveglianza, qualora tale
incombente abbia avuto luogo in assenza dei difensori di fiducia non preventivamente avvisati, non è stata ravvisata la nullità di
cui agli artt. 178, comma 1, lett. c), e 179, comma 1, c.p.p., considerato che l’invito “ad audiendum” ex art. 127 c.p.p. non è assimilabile
all’interrogatorio o all’esame, e «si concreta in una mera richiesta di rilasciare spontanee dichiarazioni nell’ambito della procedura camerale,
che non prevede il diritto del difensore di essere presente, con la conseguenza che l’omesso avviso a quest’ultimo non comporta alcuna nullità»
(Cass., sez. VI, 4 aprile 2006, n. 19297, in CED Cass., n. 234731).
11
Cass., sez. IV, 29 maggio 2013, n. 26993, in CED Cass., n. 255461; Cass., sez. IV, 12 luglio 2007, n. 39834, in CED Cass., n. 237886;
Cass., sez. II, 20 settembre 2006, n. 32666, in CED Cass., n. 235313.
12
In G.U., 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, 6 febbraio 1991, n. 6.
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sentito personalmente vincola il giudice, a pena di nullità assoluta e insanabile, a disporne la traduzione davanti a sé, senza possibilità di alcuna valutazione discrezionale 13, ma da ciò non scaturirebbe
l’inefficacia della misura già adottata 14.
Nel contesto appena delineato si inserisce la legge n. 47 del 2015, successiva a tutta una serie di interventi legislativi frammentari 15, volti a modificare settorialmente il codice di rito penale 16, e, nello
specifico ambito della materia cautelare 17, finalizzati ad ottemperare agli obblighi derivanti dalle censure europee e dai moniti della Consulta, che hanno reiteratamente stigmatizzato il malfunzionamento
cronico del sistema penitenziario italiano 18.
In particolare, la novella di ultimo conio recepisce talune indicazioni provenienti da Commissioni
ministeriali di studio che negli ultimi anni hanno tentato di operare una riforma più omogenea e di più
ampio respiro, formulando alcune proposte relativamente ai limiti che le misure cautelari personali
possono incontrare ed ai rimedi da adottare per circoscrivere meglio l’area della restrizione della libertà
personale 19.
Duole rilevare però, che, come per altri interventi riformatori degli ultimi anni, il linguaggio giuridico usato dal legislatore risulta a volte lacunoso 20 e caratterizzato da «ridondanza di aggettivazione e reiterazione […] di prescrizioni normative» 21.
Per quanto in questa sede più interessa, l’art. 1 della menzionata legge n. 47 del 2015 ha modificato il
comma 6 dell’art. 309, c.p.p., prevedendo che con la richiesta di riesame, oltre a poter essere enunciati i
motivi di gravame, «l’imputato può chiedere di comparire personalmente»; il successivo art. 11 ha, inoltre,
13
Cass., sez. V, 11 maggio 2004, n. 24376, in CED Cass., n. 229653.
14
Cass., sez. VI, 4 dicembre 2006, n. 1099, in CED Cass., n. 235621.
15
Cfr. il d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, conv. con modif. nella legge 17 febbraio 2012, n. 9; il d.l. 1° luglio 2013, n. 78, conv. con
modif. nella legge 9 agosto 2013, n. 94; il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, conv. con modif. nella legge 21 febbraio 2014, n. 10; il d.l.
26 giugno 2014, n. 92, conv. con modif. nella legge 11 agosto 2014, n. 117: tali provvedimenti sono stati adottati, ricorrendo
addirittura alla decretazione d’urgenza, per trovare soluzioni all’attuale problema del sovraffollamento carcerario e contenere la
carcerazione preventiva. Sulla base degli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia, infatti, i detenuti attualmente nelle
carceri italiane sono 53.498, dei quali solo 34.309 condannati definitivi (www.giustizia.it).
16
Sull’annoso problema di apportare al codice di procedura penale uno strutturale rinnovamento in varie materie v. G.
Spangher, Urge una riforma organica del sistema sanzionatorio, in Dir. pen. proc., 2015, p. 913 ss.; già nella Relazione al progetto
preliminare al c.p.p. si trova qualche spunto in tal senso, v. Relazione al progetto preliminare al c.p.p., in G. Conso-V. Neppi Modona
(a cura di), Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, IV, Padova, 1990, p. 757; e ancora prima V. Grevi,
Tribunale della libertà, custodia preventiva e garanzie individuali: una prima svolta oltre l’emergenza, in V. Grevi (a cura di), Tribunale della
libertà e garanzie individuali, Bologna, 1987, p. 22; G. Illuminati, Modifiche, integrazioni e problemi non risolti nella normativa sul
tribunale della libertà, in V. Grevi (a cura di), La nuova disciplina della libertà personale nel processo penale, Padova, 1985, p. 391.
17
Evidenzia un eccesso di emendamenti A. Scalfati, Legislazione “a pioggia” sulle cautele ad personam: l’effervescente frammentarietà di un triennio, in questa Rivista, 2014, 6, p. 1 ss.
18
V. Corte e.d.u., sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia e C. cost., sent. 9 ottobre 2013, n. 279. Al riguardo, v. V. PazienzaG. Fidelbo, Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione n. III/03/2015, 6 maggio 2015, in www.cortedicassazione.it. In
risposta alla condanna emessa dalla Corte e.d.u. nei confronti dell’ordinamento italiano per le sistematiche violazioni dell’art. 3
Cedu, è stato emanato il d.l. 1° luglio 2013, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 94. Tale legge, onde
far fronte alla inadeguatezza delle strutture penitenziarie e al sovraffollamento carcerario, apporta le modifiche agli artt. 280 e
274, lett. c), c.p.p., che hanno elevato ad anni cinque la soglia della pena massima fissata per i reati ai quali può conseguire
l’applicazione della custodia cautelare in carcere, e introduce il comma 1-bis dell’art. 275 c.p.p., che ha escluso la custodia
cautelare in carcere in caso di prognosi di condanna a una pena inferiore ad anni tre. In dottrina non ha mancato di evidenziare
che «è facile intuire come, di fatto, la motivazione sugli aspetti prognostici affrontati in sede cautelare – soprattutto quando gli
argomenti a sostegno superano la prova di resistenza dinanzi alla Corte di Cassazione – influisca sulle scelte finali relative al
giudizio sulla pena», A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, in A. Diddi-R. M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad
personam in un triennio di riforme, Torino, 2015, p. 7.
19
In particolare, la Commissione istituita il 10 giugno 2013, guidata dal Presidente Giovanni Canzio: v. G. Canzio, Il processo
penale: le riforme “possibili”, in Criminalia, 2013, p. 487. Sul punto è utile analizzare anche la Proposta di riforma del codice di
procedura elaborata dalla Commissione ministeriale, presieduta dal prof. Dalia e approvata in seduta plenaria il 24 maggio
2005, inserita nel progetto di legge 2 maggio 2006, n. 323, a firma dell’on. Pecorella e altri, in www.senato.it; e ancora la posizione
manifestata dalla Commissione di riforma presieduta dal prof. Riccio nella bozza di delega legislativa al Governo per
l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, spec. p. 493 ss.).
20
Sull’esigenza di adottare testi normativi armonizzati tra loro e sulla questione delle “tecniche da raffinare” v. A. Scalfati,
Scaglie legislative sull’apparato cautelare, cit., p. 1 ss., spec. 3-4.
21
Così, E. Turco, La riforma delle misure cautelari, cit., p. 116.
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aggiunto al comma 8-bis dell’art. 309 c.p.p. (dedicato alla legittimazione del p.m. richiedente la misura a
partecipare all’udienza camerale) il seguente ulteriore periodo: «L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai
sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente».
La portata innovatrice di tale inciso è rilevantissima.
Con esso, infatti, si introduce una deroga alla disciplina del rito camerale a contraddittorio meramente eventuale, fino ad ora vigente, per sancire invece espressamente il diritto di partecipazione diretta dell’indagato all’udienza ex art. 309 c.p.p., annullando la precedente disparità di trattamento esistente tra detenuti in ragione della vicinanza o meno al Tribunale della Libertà.
Tuttavia, a ben vedere, la novella non è esente da zone d’ombra.
Essa, infatti, non prende in considerazione in alcun modo il comma 8 dell’art. 309 c.p.p. che, in assenza di un’abrogazione diretta o indiretta, sembra permanere in vita: con la conseguenza che, continuando a rinviare tout court alle disposizioni relative al procedimento di cui all’art. 127 c.p.p., parrebbe
tutt’ora ammettere, prima facie, la possibilità per il ricorrente detenuto fuori distretto di intervenire nel
giudizio chiedendo di essere sentito, prima dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo di
detenzione 22. Soluzione, questa, che ovviamente pone non pochi interrogativi sulla capacità effettivamente riformatrice della modifica apportata al comma 8-bis dell’art. 309 c.p.p., con cui si pone in evidente contrasto.
IL “NUOVO” COMMA 8-BIS DELL’ART. 309 C.P.P.
Con l’introduzione del secondo periodo del comma 8-bis dell’art. 309 c.p.p., ispirato ad un intento garantistico 23, come detto, viene esplicitato e rafforzato il diritto, per colui che ne faccia richiesta, di assistere direttamente all’udienza di riesame 24, con la conseguenza che, laddove venga avanzata tale istanza, sarà
obbligo del Tribunale assicurarne l’effettiva presenza, sempre che non ricorrano i presupposti e le ragioni
di opportunità previsti tassativamente per l’esame a distanza ai sensi dell’art. 45 bis norme att. c.p.p. 25
La partecipazione diretta, in virtù del tenore generale della disposizione de qua, viene ora ammessa a
prescindere dal locus detentionis: la ratio di tale scelta è da ravvisare nel proposito di comporre il lungo
contrasto interpretativo che aveva visto comprimere la possibilità per il detenuto fuori circondario di
prendere parte al procedimento 26.
Nondimeno, nella prassi, a ben vedere, anche per il soggetto recluso nella circoscrizione del giudice,
si creavano situazioni pregiudizievoli. Infatti, in assenza di un termine preciso entro cui presentare la
richiesta di traduzione, di fatto, quand’anche la stessa fosse stata inoltrata, a causa del requisito «senza
ritardo» 27 posto dalla giurisprudenza in virtù dell’art. 101 norme att. c.p.p., per poter formalizzare
l’istanza 28, spesso quest’ultima non veniva accolta. Ciò perché il concetto di “tempestività” della domanda lasciava ampi margini di discrezionalità in capo al giudice, a sfavore del soggetto sottoposto alla
22
Cfr. la Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, cit.
23
Si veda la Relazione di accompagnamento all’originaria proposta di legge n. 631/AC (in www.senato.it).
24
Ha valutato positivamente l’indicazione normativa de qua E. Marzaduri, Linee di riforma delle impugnazioni de libertate, in
AA.VV., Le fragili garanzie della libertà personale, Milano, 2014, p. 372.
25
È prevista la partecipazione a distanza quando si procede per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis, nonché
nell’art. 407, comma 2, lett. a), n. 4, c.p.p., nei confronti di persona che si trova, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere,
solo per gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico o qualora il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione
a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento (ad esempio se nei confronti dello stesso imputato siano
contemporaneamente in corso distinti processi presso diverse sedi giudiziarie); oppure ancora quando si procede nei confronti di
detenuto al quale sono state applicate le misure di cui all’art. 41 bis, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive
modificazioni, nonché, ove possibile, quando si deve udire, in qualità di testimone, persona a qualunque titolo in stato di
detenzione presso un istituto penitenziario, salvo, in quest’ultimo caso, diversa motivata disposizione del giudice.
26
Tale problematica viene affrontata in tutti i lavori preparatori della legge n. 47 del 2015. La scheda di sintesi del contenuto,
redatta dal Servizio studi del Senato, in occasione dell’esame di prima lettura del disegno di legge, si richiamava espressamente
a prassi che di fatto impedivano la comparizione.
27
Cass., sez. II, 5 novembre 2014, n. 6023, in CED Cass., n. 262312; Cass., sez. II, 30 aprile 2013, n. 26993, in CED Cass., n.
25819.
28
Sull’irragionevole immediatezza della richiesta rispetto alla ricezione dell’avviso dell’udienza cfr. Cass., sez. VI, 4 novembre 2011, n. 42710, in CED Cass., n. 251277.
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misura cautelare. E d’altra parte, l’effettiva partecipazione non era garantita anche a causa dell’incertezza circa il tipo di sanzione conseguente alla sua violazione 29.
Ecco perché si è ritenuto opportuno cercare di dare maggiori garanzie alla volontà dell’interessato di
partecipare effettivamente all’udienza di riesame 30.
Tuttavia, come detto, la novella del 2015 pare connotarsi per una tecnica normativa non del tutto
soddisfacente 31. Essa, infatti, non ha eliminato il rinvio contenuto nell’art. 309, comma 8, c.p.p. alle disposizioni dettate in via generale per i riti camerali, né, tantomeno, ha modificato la disposizione di cui
all’art. 101 norme att. c.p.p. che, con riferimento al procedimento di riesame, continua a richiamare l’art.
127 c.p.p. prevedendo per l’imputato ristretto fuori del circondario che «il magistrato di sorveglianza senza ritardo assume le dichiarazioni dell’imputato, previo tempestivo avviso al difensore e trasmette gli atti al tribunale con il mezzo più celere» 32.
Di conseguenza, stando alle previsioni tuttora vigenti, in linea teorica non sarebbe esclusa l’applicabilità delle disposizioni generalmente dettate per i procedimenti in camera di consiglio 33.
Tuttavia, a far propendere per una diversa soluzione è l’ulteriore modifica apportata dalla legge 47
del 2015 all’art. 309 c.p.p.: al comma 6 della norma è stato, infatti, inserito un termine entro il quale la
persona ristretta deve comunicare di voler comparire: «con la richiesta di riesame». Parrebbe, quindi, che
il legislatore abbia sancito in modo assoluto il diritto di presenziare, diversamente da quanto avviene
per il rito camerale e senza ammettere dilazioni 34.
Ciò induce, però, ad un’ulteriore riflessione: se da una parte, infatti, la riforma è nel senso di irrobustire le garanzie di partecipazione dell’indagato, al contempo, a ben vedere, ne realizza in qualche modo una compressione, prevedendo un termine anticipato della relativa richiesta con il deposito
dell’impugnazione.
Viene, in sostanza, limitato, a causa di una tempistica stringente, il libero intervento all’udienza di
riesame, condizionandosi la partecipazione dell’indagato all’esistenza di un presupposto meramente
formale 35. Mentre invece, in considerazione dell’assolutezza del diritto in questione, sarebbe stato più
opportuno prevedere che la manifestazione della volontà partecipativa potesse intervenire anche successivamente 36, in ragione di scelte difensive di tipo strategico, ancora non definite non conoscendo il
materiale investigativo 37.
Peraltro, merita d’esser segnalata anche la modifica apportata dalla riforma al comma 9-bis dell’art.
29
Cass., sez. IV, 29 maggio 2013, n. 26993, in CED Cass., n. 255461, si pronuncia per la nullità dell’udienza camerale e del suo
provvedimento conclusivo ribadendo la nullità assoluta dell’udienza e del suo provvedimento conclusivo; Cass., sez. VI, 6
dicembre 2012, n. 48773, in CED Cass., n. 254159, richiama una nullità a regime intermedio che deve essere dedotta prima del
compimento dell’atto da parte di chi assista; Cass., sez. V, 30 settembre 2010, n. 42234, in CED Cass., n. 248887, esclude, in forza
del principio di tassatività, il ricorrere della massima sanzione invalidante.
30
Sul diritto del detenuto fuori dal circondario a presenziare all’udienza di riesame cfr. Cass., sez. un., 25 marzo 1998, n. 9, in
Cass. pen., 2008, p. 2874, che però esclude l’integrazione di una nullità; nonché Cass., sez. IV, 19 novembre 2004, n. 275, in Dir.
pen. proc., 2005, p. 1129.
31
Peraltro, il riscritto comma 6 dell’art. 309 c.p.p. («Con la richiesta di riesame … l’imputato può chiedere di comparire
personalmente»), fa riferimento impropriamente «all’imputato», mentre sarebbe stato più appropriato, nella fase cautelare, parlare
di indagato.
32
G. Spangher, Un restyling per le misure cautelari, cit., p. 533, evidenzia il mancato coordinamento con l’art. 101 norme att. al
c.p.p.
33
Come già detto il comma 3 dell’art. 127 c.p.p., riconosce la possibilità di essere sentito dal magistrato di sorveglianza e il
comma seguente prevede il rinvio dell’udienza nel caso di impedimento dell’imputato o del condannato che ha chiesto di essere
sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice. Il legislatore del
1998 per ragioni di ordine pratico – tra cui anche i costi e i tempi di trasporto di un detenuto – aveva ritenuto altrettanto
garantista rispetto alla comparizione, far sentire l’interessato dal proprio giudice naturale.
34
P. Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in Dir. pen. cont., 3 giugno
2015, p. 23.
35
Sul punto si rintracciano perplessità anche nella Relazione dell’Ufficio del Massimario, cit., p. 26.
36
Ad esempio, nel caso del giudizio camerale d’appello successivo a rito abbreviato, Cass., sez. un., 24 giugno 2010, n. 35399,
in Cass. pen., 2011, p. 1325, consente che la richiesta sia comunicata sino a quando in concreto vi sia la possibilità di assicurare la
presenza dell’indagato, onerando il giudice di motivare espressamente in ordine alle ragioni concrete che giustifichino la
mancata traduzione.
37
Cfr. L. Giuliani, Autodifesa e difesa tecnica nei procedimenti de libertate, Padova, 2012, p. 43.
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309 c.p.p., secondo cui, «su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione
dell’avviso», il Tribunale differisce «la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni
se vi sono giustificati motivi». Tale ulteriore innovazione si inserisce sempre nell’obiettivo di riconoscere
al detenuto il diritto di presenziare all’udienza, configurando un’ipotesi di legittimo impedimento.
Infine, posto che i commi 6 e 8-bis dell’articolo 309 c.p.p. non vengono richiamati dall’articolo 310
c.p.p. e che nessuna modifica è stata apportata dalla novella a tale disposizione, deve ritenersi che non
sia riconosciuto analogo diritto di comparire nel caso di appello cautelare, relativamente al quale continuano a valere le regole generali dettate nell’articolo 127 c.p.p.
L’ARRESTO GIURISPRUDENZIALE IN COMMENTO
A pochi mesi dall’approvazione della legge n. 47/2015, è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza annotata 38 che, accogliendo con favore la scelta riformatrice, ha stabilito la prevalenza della nuova disciplina dell’udienza di riesame sulle regole codificate per i riti camerali in generale, in quanto lex
specialis. Di conseguenza, dopo l’introduzione delle modifiche apportate ai commi 6 e 8-bis dell’art. 309
c.p.p., le disposizioni di cui agli artt. 127, comma 3, c.p.p. e 101 norme att. c.p.p., devono ritenersi non
più applicabili, poiché, diversamente, comporterebbero una irragionevole “rimessione in termini” a beneficio esclusivo di chi è detenuto o internato in luogo posto fuori del circondario del Tribunale competente (che, invece, potrebbe essere ascoltato dal magistrato di sorveglianza), con iniqua penalizzazione
del soggetto ristretto in luogo interno al predetto circondario (che non potrebbe essere ascoltato).
La pronunzia coglie, dunque, l’elemento di novità della novella e mostra apprezzamento per il riconoscimento, in essa espresso, del diritto del detenuto (in generale) di partecipare al giudizio.
Al tempo stesso, però, evidenzia l’esigenza di individuare un momento certo e preciso per avanzare
la richiesta di comparire, posto che la “rapidità” generica per la sua presentazione appare requisito sfuggente e foriero di possibili disparità di trattamento. Pertanto, viene condiviso l’intento del legislatore di
trovare una soluzione che eviti sperequazioni: tale obiettivo si ritiene raggiunto con la previsione secondo cui la domanda di traduzione deve essere avanzata contestualmente alla presentazione dell’istanza
di riesame.
Tuttavia, in tal modo, sembra non tenersi in debito conto che un termine così ridotto va sicuramente
ad incidere sull’inviolabile diritto di difesa 39, inscindibilmente legato alla possibilità di partecipare
all’udienza nell’ambito della quale si decide in ordine alla libertà personale, altro bene costituzionalmente tutelato. Accade, infatti, non di rado che il diritto di difesa venga sacrificato dimenticandone il
rango gerarchico.
I giudici di legittimità, invero, hanno individuato una tale lacuna e hanno cercato di colmarla ammettendo la possibilità che la richiesta di partecipare all’udienza possa essere presentata anche dal difensore d’ufficio 40.
Tale soluzione viene suggerita, però, in base ad un’esegesi non ricavabile dal tenore letterale della
38
In merito alle prime pronunce, antecedenti alla pubblicazione della sentenza in commento, v. G. Spangher, Riesame: le
prime applicazioni giurisprudenziali dopo la L. 47 del 2015, in www.quotidianogiuridico.it, 8 settembre 2015.
39
Quanto al rispetto dei diritti della difesa, lo impongono tanto i principi fondamentali posti all’art. 6 TUE quanto la Carta
dei diritti (art. 48). Per uno sguardo alle garanzie europee nell’ambito del processo penale, v. T. Rafaraci, Diritti fondamentali,
giusto processo e primato del diritto UE, in questa Rivista, 2014, 3, p. 1 ss.; P. Spagnolo, Il tribunale della libertà tra normativa nazionale
e normativa internazionale, Milano, 2008, p. 29.
40
Tale soluzione ben si concilia con il diritto di difesa comunque garantito anche nell’udienza camerale, tanto è vero che,
ove l’imputato sia privo del difensore di fiducia, la mancata citazione del difensore d’ufficio all’udienza camerale, salvi i casi di
mancato reperimento o mancata comparizione o abbandono della difesa, è causa di nullità assoluta del procedimento, ai sensi
dell’art. 179 c.p.p. (Cass., sez. V, 19 febbraio 1996, n. 3058, in Cass. pen., 1996, p. 3406). È bene precisare che, diversamente,
l’omessa notifica dell’avviso di udienza al difensore di fiducia dell’imputato determina nei procedimenti camerali partecipati
una nullità generale a regime intermedio ai sensi dell’art. 178, lett. c), c.p.p., con conseguente sanatoria in difetto di mancata
tempestiva eccezione ad opera della parte privata assistita o del difensore designato d’ufficio (Cass., sez. un., 20 settembre 1997,
n. 2, in CED Cass., n. 208269).
A caldo i primi commenti alla legge 47 escludevano una tale possibilità: ad es. R. Bricchetti-L. Pistorelli, Misure cautelari:
dall’8 maggio il ricorso al carcere preventivo è sottoposto a criteri rigidi e a precisi obblighi motivazionali. Concesso all’imputato il diritto a
comparire di persona in udienza, cit., p. 51.
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norma, in quanto si sostiene che l’avverbio «personalmente» di cui al comma 6 dell’art. 309 c.p.p. non è
riferito alla presentazione dell’istanza di traduzione, bensì alla comparizione, ammettendo così la possibilità che tale richiesta non debba provenire necessariamente dall’interessato.
Secondo un’interpretazione che sembrerebbe più fedele al testo codicistico si potrebbe, invece, sostenere che il verbo «può» («Con la richiesta di riesame … l’imputato può chiedere di comparire personalmente») non
esclude che il detenuto possa chiedere la traduzione anche successivamente al suindicato termine. Infatti,
parrebbe che non esprimendosi in termini assoluti, il legislatore conceda la possibilità di manifestare la
volontà di presenziare già nell’atto di impugnazione e non, piuttosto, che introduca un termine finale entro cui avanzare detta richiesta: laddove si fosse stabilito una limitazione del genere, la disposizione
avrebbe dovuto, invece, prevedere l’avverbio “entro” (ad es. «l’imputato può chiedere di comparire personalmente entro il termine per la presentazione della richiesta di …») ovvero il verbo “deve” (ad es.
«l’imputato che intenda comparire personalmente deve comunicarlo con la richiesta di riesame»).
La Corte, peraltro, ha ritenuto che le norme di nuovo conio non siano lesive dei diritti della difesa,
osservando come nella fase dell’incidente cautelare, la presenza dell’indagato assuma un rilievo in
chiave difensiva di minore pregnanza, in quanto è rimessa alla volontà dello stesso ed anche perché la
facoltà di rendere spontanee dichiarazioni è esercitabile, ancora prima del riesame, nell’interrogatorio
di garanzia, atto obbligatorio dalla natura eminentemente difensiva, in quanto volto a consentire
all’indiziato di fare presenti le circostanze adducibili a suo favore.
Non solo. La Corte ha aggiunto, inoltre, che le affermazioni del soggetto ristretto «nella stragrande
maggioranza dei casi non possono che risolversi nella pedissequa ripetizione di quanto già dichiarato davanti al
G.I.P. o in generiche proteste d’innocenza. (…) così da obbligare il giudice ad un controllo successivo della “tenuta” delle valutazioni operate ex ante, a fronte degli argomenti emersi in quella sede» 41.
Si tratta di affermazioni che suscitano non poche perplessità. Il ragionamento espresso risulta, infatti, opinabile e sembra porsi in un’ottica di critica e valutazione delle scelte difensive piuttosto che in
termini processuali e di effettività delle garanzie riconosciute dall’ordinamento all’indagato.
Peraltro, ci si chiede come potrebbe conciliarsi il caso di una richiesta di comparizione intervenuta
nelle more tra la presentazione dell’istanza di riesame e l’udienza camerale con l’orientamento maggioritario della giurisprudenza che ha espresso il principio per cui la mancata traduzione del detenuto che
ne abbia fatto richiesta, anche se fuori distretto, è causa di nullità assoluta e insanabile 42.
Ma se la questione dell’audizione in luogo della comparizione, a seguito della legge n. 47/2015, è
superata, poiché oramai è riconosciuto al detenuto fuori dal circondario il diritto di comparire comunque all’udienza – prescindendo dalla volontà di rendere dichiarazioni –, critiche, invece, permangono
sul termine entro il quale la richiesta di traduzione va presentata. Infatti individuando un termine di
fatto penalizzante per chiedere di presenziare, si creerebbero ugualmente delle disparità.
Né pare ammissibile risolvere i problemi di ordine pratico ricorrendo alla disciplina della partecipazione mediante collegamento audiovisivo prevista dall’articolo 146 bis norme att. c.p.p., per i detenuti
indagati per i reati indicati dagli artt. 51, comma 3-bis, c.p.p. e 407, comma 2, lett. a), c.p.p. o sottoposti
al regime penitenziario particolare di cui all’art. 41 bis ord. penit.: come chiarito dalla pronuncia in
commento, la regolamentazione de qua non è influenzata dalla riforma e resta, pertanto, invariata per la
sua particolarità e tipicità. Peraltro, già in alcune decisioni della Suprema Corte è stato sottolineato come, pur in presenza delle condizioni prescritte dalla legge, l’art. 45 bis norme att. c.p.p. non consente
sempre e comunque l’uso della videoconferenza, giacché esso va interpretato alla luce di quanto disposto dal comma 3 dell’art. 127 c.p.p. e, in termini analoghi, dal comma 4 dell’art. 666 c.p.p., i quali prevedono che i detenuti o internati in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice devono, se ne hanno
fatto richiesta, essere sentiti da altro giudice, ovvero dal competente magistrato di sorveglianza 43.
41
Così, letteralmente, la sentenza in commento.
42
Tra le più recenti, vedi Cass., sez. VI, 21 maggio 2015, n. 21849, in CED Cass., n. 263630; vedi anche Cass., sez. VI, 17
ottobre 2013, n. 44415, in CED Cass., n. 256689.
43
In tal senso, Cass., sez. I, 14 novembre 2001, n. 44387, in Cass. pen., 2003, p. 2019.
Contra, qualche pronuncia giurisprudenziale si è spinta sino ad estendere la disciplina della partecipazione a distanza, oltre ai
casi tassativi, per compensare eventuali compressioni del diritto di difesa nel caso di detenuto fuori circondario che avesse richiesto
di partecipare all’udienza di riesame: Cass., sez. fer., 30 agosto 2005, n. 36630, in CED Cass., n. 232224; Cass., sez. II, 20 settembre
2006, n. 32666, in CED Cass., n. 235315; Cass., sez. II, 6 novembre 2002, n. 42158, in Cass. pen., 2003, p. 3129, con nota di M. Bordieri,
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LA FUNZIONE DIFENSIVA DEL DIRITTO DI PARTECIPARE ALL’UDIENZA CAMERALE
Il diritto di partecipare all’udienza camerale ha da sempre avuto una valenza difensiva e di garanzia concreta dell’esplicazione delle facoltà e dei diritti dell’interessato tanto nel precedente quanto nel vigente
codice di rito. Difatti, già con riferimento al procedimento per gli incidenti di esecuzione di cui al codice
Rocco 44, la sent. n. 98 del 1982 della Corte costituzionale 45 ha sottolineato la «funzione eminentemente difensiva dell’audizione personale dell’interessato», evidenziando come devono attuarsi le garanzie fondamentali
sia per quanto concerne la presenza dell’interessato sia con riferimento all’assistenza del difensore 46. Funzione rimarcata anche dalla successiva sent. n. 45 del 1991 47, che ha dichiarato infondata la questione di
legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 309, comma 8, c.p.p. e 127, comma 3, del codice di rito del 1988 nella parte in cui prevede che l’indagato – se in vinculis fuori dalla circoscrizione – deve
essere sentito, ove ne faccia richiesta, dal magistrato di sorveglianza del luogo, anziché dallo stesso Tribunale del riesame. Il Giudice delle leggi, nell’occasione, ha puntualizzato che la presenza personale
dell’imputato nei giudizi camerali a contraddittorio necessario è indispensabile quando il fine per cui la
comparizione è prevista sia «volto all’acquisizione di elementi probatori», ovvero funzionale al «diritto di autodifesa» 48 di colui che possa avere interesse a contrastare le acquisite risultanze probatorie e ad indicare altre circostanze a lui favorevoli 49. Finalità che, logicamente, sono assicurate da un contraddittorio 50 instaurato davanti al giudice della decisione e alle quali è auspicabile che si pervenga sempre 51.
Tuttavia, con tale decisione la Consulta non ha chiarito se l’interessato abbia o meno il diritto di
pretendere la propria presenza all’udienza camerale; da qui, come sopra rappresentato, il profilarsi
del profondo contrasto interpretativo sulla partecipazione, se da intendersi come diritto soggettivo
perfetto o come mera facoltà rimessa alla «scelta insindacabile e discrezionale del giudice» 52.
La garanzia del diritto dell’imputato alla partecipazione all’udienza di riesame anche mediante videoconferenza, e di R. A. Ruggiero, La
videoconferenza nell’udienza camerale di riesame, che considera il collegamento audiovisivo, a tutti gli effetti, equivalente alla
partecipazione personale e diretta, alla quale si sostituisce per esigenze logistico organizzative dell’amministrazione della giustizia
al fine di soddisfare le garanzie che assistono il diritto dell’interessato ad essere presente al giudizio che lo riguardi.
44
Si trattava di una camera di consiglio che iniziava a seguito di richiesta del p.m. o ad istanza dell’interessato. L’assistenza
del difensore era meramente facoltativa quindi, l’istante e gli altri eventuali interessati, anche per il tramite dei rispettivi
difensori appositamente nominati, potevano chiedere anche di essere sentiti personalmente, oltre che presentare memorie (art.
630, comma 1, c.p.p. 1930). A tal proposito, la giurisprudenza riteneva che l’interessato dovesse essere sentito, a pena di nullità,
soltanto ove ne avesse fatto esplicita richiesta.
45
In G.U., 1a Serie Speciale – Corte Costituzionale, 10 febbraio 1982, n. 40: la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità
dell’art. 630 del vecchio codice di rito (rubricato “procedimento per gli incidenti di esecuzione”), nella parte in cui non
prevedeva il rinvio dell’udienza camerale per legittimo impedimento dell’imputato o condannato che avesse chiesto di essere
udito personalmente.
46
Per uno spunto in materia cautelare v. M. Chiavario, Tribunale della libertà e libertà personale, in V. Grevi (a cura di),
Tribunale della libertà e garanzie individuali, Bologna, 1983, p. 131 ss.
47
C. cost., sent. 31 gennaio 1991, n. 45, in CED Cass., n. 16852, che ha individuato gravi lesioni del diritto di autodifesa –
principio di rango costituzionale previsto dall’art. 24 Cost. – dell’imputato ristretto in luogo situato fuori dal circondario del
giudice del riesame, in quanto sottratto al contatto diretto con il giudice naturale che dovrà emettere la decisione.
48
V. Paulesu, Procedimento in camera di consiglio e autodifesa dell’imputato detenuto, in Cass. pen., 2003, p. 1228.
49
Su tale aspetto risulta interessante P. Ferrua, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, in Studi sul processo penale, III,
Torino, 1997, p. 94.
50
Giova segnalare che nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo il diritto soggettivo al contraddittorio non si identifica o
giustappone al metodo del contraddittorio, rinviando piuttosto alla categoria del concreto “diritto all’esercizio del contraddittorio”,
inscritto in una prospettiva teleologicamente orientata all’accertamento della verità, che assicuri a ciascuna parte la possibilità di
proporre al giudice e alle altre parti gli elementi probatori e gli argomenti a sostegno della propria tesi, onde poter contrastare gli
analoghi elementi prospettati dalle controparti. Con il che, anche per tal verso, si conferma come la partecipazione diretta in
udienze diverse da quelle che investono il merito di una accusa penale, in tanto assume rilievo in quanto rivesta connotati di
autodifesa (Corte e.d.u., 18 maggio 2004, Somogyi c. Italia, § 86). In alcune occasioni, poi, la predetta Corte ha affermato che il diritto
dell’accusato di partecipare al processo costituisce un’espressione del diritto di difesa e all’equo processo ex art. 6 Cedu ma non è
inderogabile, in quanto può essere oggetto di una rinuncia anche implicita (un esempio della quale è il conferimento di un mandato
ad un difensore da parte del contumace): cfr., ad es., Corte e.d.u., 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia, § 84 s.
51
La Corte ha rilevato che l’art. 309 c.p.p. non vieta la comparizione personale dell’interessato se questi ne faccia richiesta o
se il Tribunale del riesame lo ritenga opportuno.
52
Cfr. Cass., sez. IV, 19 novembre 2004, n. 275, con nota di K. La Regina, Partecipazione all’udienza di riesame: scelta del detenuto
o del giudice?, in Dir. pen. proc., 2005, p. 1129.
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Certamente, però, al di là dell’audizione personale, anche la partecipazione dell’interessato nel giudizio camerale possiede una eminente funzione auto difensiva, atteso che il contatto diretto con il giudice può avere un’efficacia persuasiva delle argomentazioni difensive.
Di recente però, sul tema, si è consolidato un diverso orientamento: con riferimento alla distinta
questione delle forme del ricorso per cassazione ex art. 325 c.p.p., le Sezioni Unite si sono pronunciate a
favore dell’applicazione del rito previsto dall’art. 611 c.p.p., piuttosto che di quello disciplinato dall’art.
127 dello stesso codice 53.
Si è dunque optato per il rito camerale non partecipato, forma specifica e generale per il giudizio di
legittimità, derogatoria rispetto a quella prevista per la fase di merito, la cui peculiarità consiste nell’attuazione di un contraddittorio cartolare.
Tale scelta potrebbe lasciare spazio a qualche riserva, ma, in vero, si colloca in linea con la giurisprudenza quasi unanime, secondo cui nel giudizio di legittimità il rito camerale nella forma non partecipata costituirebbe la regola, sempre operante salvo che non sia diversamente stabilito.
La decisione in esame, peraltro, nel suo iter logico rimanda alla giurisprudenza della Corte costituzionale che, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità (ex artt. 117 Cost. e 6.1 Cedu) del procedimento di prevenzione – nella parte in cui non consente che, a richiesta di parte, il procedimento si svolga in udienza pubblica – ha individuato un netto discrimen tra giudizi di merito e di legittimità. Tuttavia, tale pronuncia risente di una valutazione ancorata ai soli vizi di legittimità: infatti, caso del tutto
particolare è il giudizio camerale di cassazione non partecipato (art. 611 c.p.p.) «sia perché l’oralità del
processo non è imposta in via assoluta ed attiene, peraltro, alla formazione della prova e non alle modalità di esercizio del diritto di difesa, sia perché il giudizio di cassazione non attribuisce alcun privilegio all’accusa, essendo
esclusa in esso non soltanto la presenza del difensore ma anche del p.m.; sia perché il diritto di difesa è adeguatamente assicurato dalla facoltà del difensore di presentare memorie di replica e non necessariamente deve esplicarsi
con la presenza della parte all’udienza camerale» 54.
Sicché, presumibilmente, potrà ritenersi che un tale indirizzo resterà circoscritto all’ipotesi di specie,
anche in ragione del peculiare oggetto del ricorso. Ma, comunque, si necessiterà maggiore chiarezza
onde poter valutare se nel giudizio di cassazione il procedimento camerale a contraddittorio scritto
possa essere ritenuto adeguato anche nel caso in cui abbia ad oggetto diritti ed interessi giuridici di natura personale piuttosto che patrimoniale, soprattutto in virtù del carattere non esclusivamente tecnico
degli accertamenti che contraddistingue la cautela personale 55.
Senza, peraltro, perdere di vista l’approdo cui è pervenuta la giurisprudenza della Corte e.d.u. in relazione al diritto di partecipare anche ai giudizi non strettamente di merito 56 quando alla comparizione
si conferisce una funzione ed un’aspettativa in termini difensivi.
Infatti, l’intento del rafforzamento delle garanzie difensive, nonché la risoluzione dell’attuale problema del sovraffollamento carcerario, invocata con estrema urgenza nella sentenza Torreggiani, sono
principalmente questioni «di cultura giuridica […] e soprattutto di rispetto dei valori fondamentali» 57.
53
Cass., sez. un., 30 dicembre 2015, n. 51207, in www.penalecontemporaneo.it.
54
V. Cass., sez. VI, ord. 6 maggio 2013, n. 22113, in www.giurispudenzapenale.com.
55
Le Sezioni Unite nella medesima pronuncia, peraltro, operano anche un altro distinguo tra la disciplina delle misure
cautelari reali e quella delle misure cautelari personali, quale la circostanza che il ricorso ex art. 325 c.p.p. è ammesso solo per
violazione di legge.
56
Non può sottovalutarsi che di recente C. cost., sent. 15 giugno 2015, n. 109, ha richiamato una sentenza della Corte di
Strasburgo (Lorenzetti c. Italia) sulla procedura per la riparazione per la ingiusta detenzione (che in base alla legge processuale
italiana si svolge in forma camerale), con la quale è stata ammessa la possibilità di richiedere l’udienza pubblica “non essendo
ravvisabile alcuna circostanza eccezionale che giustifichi, con riguardo a detta procedura, una deroga generale e assoluta al principio di
pubblicità dei giudizi”. Sui medesimi presupposti, la Consulta ha ritenuto che le disposizioni degli artt. 666, 667, comma 4, e 676
c.p.p., dovrebbero ritenersi in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1, della Cedu «nella parte in cui disciplinano la procedura di incidente
di esecuzione per l’applicazione della confisca» e, segnatamente, «nella parte in cui non consentono che la parte possa richiedere al giudice
dell’esecuzione lo svolgimento dell’udienza in forma pubblica» evidenziando che non vi sarebbero profili di complessità tecnica atti a
giustificare una deroga al principio della pubblicità delle udienze.
57 Si pone in questa prospettiva, R. Del Coco, La motivazione del provvedimento applicativo, in T. Bene (a cura di), Il rinnovamento delle misure cautelari. Analisi della l. n. 47 del 16 aprile 2015, cit., p. 61.
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104
CONCLUSIONI
Inoltre la nuova formulazione dell’art. 111, comma 2, Cost. (che garantisce il contraddittorio tra le parti
nel processo) impone un’interpretazione costituzionalmente orientata al fine di assicurare sempre la
più ampia tutela degli interessi contrapposti coinvolti nel processo penale, anche con riferimento alla
procedura camerale.
A parere di chi scrive, escludendosi l’applicazione dell’art. 127 c.p.p., in ordine alla partecipazione
dell’istante e prevedendosi un onere di comunicazione ancorato alla presentazione della richiesta di
riesame entro i termini previsti a pena di decadenza al comma 1 dell’art. 309 c.p.p., si potrebbe verificare un pregiudizio al diritto di difesa, tanto a causa dei termini perentori di cui sopra, quanto in ragione
della eventuale mancata conoscenza di questo specifico obbligo 58.
Nel caso esaminato dalla sentenza annotata, il Tribunale della Libertà aveva considerato che qualora
l’indagato si fosse personalmente attivato per proporre l’impugnazione, non fosse dirimente l’ignoranza dell’obbligo di dover richiedere in seno all’istanza di riesame anche la partecipazione all’udienza,
atteso che la presentazione personale dell’impugnazione non esonerava l’interessato dal rispetto delle
forme procedimentali, né lo rendeva immune dalle conseguenze di carattere preclusivo discendenti
dall’inosservanza delle norme procedurali prescritte 59.
Tuttavia, si ritiene di dover fare un’obiezione a tale assunto, atteso che nella prassi spesso è l’interessato, direttamente, a formulare istanza di riesame in via preliminare e, solo successivamente, interviene
un difensore che provvede a depositare i rituali motivi, ovvero accade che addirittura è solo l’indagato
a proporre l’impugnazione, anche senza motivi, confidando nella possibilità di poter presenziare ed essere sentito 60.
Sul piano strettamente operativo, è chiaro che la comunicazione deve intervenire in tempo utile per
organizzare la traduzione e senza pregiudicare la celerità del procedimento, nell’interesse del medesimo soggetto in vinculis; ma ad avviso di chi scrive, parrebbe più ragionevole che la richiesta di partecipazione potesse essere presentata nell’immediatezza della ricezione della notificazione dell’avviso
dell’udienza camerale dinanzi al Tribunale o comunque entro pochi giorni da essa 61. Tale conclusione
si porrebbe, peraltro, in linea con la ratio per cui la legge àncora alla notifica dell’udienza la decorrenza
dei diversi termini previsti per poter esercitare alcune facoltà difensive 62.
Diversamente opinando, si potrebbe porre una questione di legittimità costituzionale 63 del combinato disposto degli artt. 309, comma 8-bis, c.p.p. e 127, commi 1 e 3, c.p.p. in relazione agli artt. 3, 24,
comma 2, e 111 Cost. e all’art. 6 della Convenzione e.d.u. (diritto ad un processo equo) 64, nella parte in
cui tali norme non prevedono che l’imputato richiedente il riesame abbia diritto a presenziare personalmente ed essere sentito, se comparso, pur non avendo fatto specifica domanda contestualmente al58
C. Conti, La preclusione nel processo penale, Milano, 2014, p. 426 ss., secondo cui l’istituto rappresenta un criterio di
valutazione per riconoscere nei mutamenti dell’assetto del processo penale la proporzione tra le garanzie dei diritti umani e il
perseguimento dell’efficienza processuale.
59
Per rilievi critici sulle preclusioni, E. Marzaduri, in AA.VV., Preclusioni processuali e ragionevole durata del processo, in
Criminalia, 2008, p. 247.
60
Muove tale critica anche P. Maggio, I controlli, cit., p. 106.
61
Si rintracciano considerazioni simili in Cass., sez. II, 30 aprile 2013, n. 20883, in CED Cass., n. 255819; Cass., sez. VI, 4
ottobre 2011, n. 42710, in CED Cass., n. 251277.
62
Si pensi ai termini entro cui vanno notificati l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare con la richiesta di rinvio a
giudizio o il decreto che dispone il giudizio o la fissazione dell’udienza di appello, previsti per garantire, dalla avvenuta
notifica, un tempo utile entro cui consentire all’imputato di predisporre la propria difesa. In Cass., sez. II, 5 novembre 2003, n.
47841, in CED Cass., n. 227737, il provvedimento di traduzione disposto dal presidente del tribunale, in un giudizio di riesame, è
stato ritenuto addirittura equipollente alla comunicazione della data dell’udienza così sanando l’omessa notifica che, senza la
presenza del detenuto, avrebbe comportato una nullità assoluta ai sensi dell’art. 179 c.p.p.: la Corte ha ritenuto, infatti, che dalla
tassatività delle forme di conoscenza dell’inizio del procedimento discende l’effettività legale del diritto dell’interessato a
disporre del tempo per preparare la difesa, del correlato tempo minimo per comparire e dei termini per impugnare.
63
Sulle problematiche di rilievo costituzionale v. E. Amodio, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in
AA.VV., Le fragili garanzie della libertà personale. Per un’effettiva tutela dei principi costituzionali, Milano, 2014, p. 15; G. Colaiacovo,
Le fragili garanzie della libertà personale per una effettiva tutela dei principi costituzionali, in Cass. pen., 2014, p. 731.
64
Corte e.d.u., 4 marzo 2008, Marturana c. Italia, § 114, si è occupata della incidenza del termine in tema di impugnazione di
misure personali cautelari.
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l’istanza. Al riguardo, si segnala come, con particolare riferimento alle udienze in camera di consiglio,
la Corte e.d.u., con decisione del 18 ottobre 2006, pur non individuando una violazione dell’art. 6 Cedu
in un giudizio camerale di appello svoltosi in assenza del detenuto che non aveva chiesto di presenziare all’udienza, abbia “implicitamente” riconosciuto che – ove vi sia un’espressa richiesta – il giudice
deve assicurarne la presenza 65.
La Grande Camera, nella trattazione del caso oggetto di vaglio, ha rilevato, innanzitutto, come la
comparizione dell’imputato rivesta un’importanza fondamentale ai fini di un processo equo e giusto, in
base al rilievo della necessità di correlare i principi della Convenzione con le particolarità del singolo
procedimento e con le modalità con cui gli «interessi difensivi» della parte sono stati rappresentati e tutelati in sede giurisdizionale.
Per cui, il diritto di partecipazione diretta, anche se non espressamente menzionato nell’art. 6, può
essere desunto dal complesso della stessa disposizione in virtù delle previsioni di cui al paragrafo 3,
lett. c), d) ed e) che riconoscono all’accusato il diritto di prendere parte al processo, ivi incluse le facoltà
di assistervi e di seguire il dibattimento. La Corte ha precisato, tuttavia, che la comparizione personale
dell’imputato non riveste in appello la stessa importanza decisiva che assume in primo grado, ciò in
quanto l’art. 6 non implica a fortiori il diritto ad una pubblica udienza e, la presenza dell’imputato diviene necessaria unicamente quando la causa non può essere decisa senza una valutazione diretta delle
testimonianze personali dell’imputato, solo nell’ipotesi in cui la Corte è chiamata a decidere sulla colpevolezza o sull’innocenza dello stesso. I giudici di Strasburgo hanno aggiunto, inoltre, che l’eventuale
rinuncia ad intervenire deve essere stabilita in modo non equivoco e deve essere accompagnata da un
minimo di garanzie 66.
Di recente, peraltro, il diritto di partecipare all’udienza è stato riconosciuto come corollario del principio ad un equo processo anche a livello normativo con la Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali 67. La decisione appena richiamata, infatti, prescrive agli Stati membri di assicurare che gli indagati o imputati, in ogni fase del procedimento, abbiano il diritto di presenziare, di partecipare in modo efficace, in conformità delle procedure
previste dal diritto nazionale e di esercitare i diritti della difesa. Tuttavia, al § 41, si ammettono deroghe
quando il procedimento si svolge in maniera semplificata ricorrendo, in tutto o in parte, a una procedura scritta o a una procedura in cui non è prevista alcuna udienza. E, comunque, a determinate condizioni, gli interessati dovrebbero avere la possibilità di rinunciare alla comparizione, esplicitamente o tacitamente, purché in modo inequivocabile.
Orbene, la novella n. 47/2015 si pone in linea con gli obiettivi garantistici perseguiti a livello europeo in quanto emerge chiaro il fine di potenziare la partecipazione effettiva del soggetto nei cui confronti è stata applicata una misura cautelare personale. Tuttavia si avverte il pericolo di non considerare
appieno la portata innovatrice della stessa a causa di una tecnica legislativa non del tutto soddisfacente:
lasciando in vita una disposizione contrastante si rischia, infatti, di annullare il contenuto della modifica. Ma non può che soccorrere un’interpretazione logica della ratio legis, ai sensi dell’art. 12 delle preleggi, che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il “vero” contenuto della norma ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare.
E, senz’altro, l’introduzione di un diritto partecipativo diretto per tutti gli indagati, pareggiando i
diversi casi di detenzione fuori o dentro il circondario, significa certamente aver voluto derogare al rito
camerale dell’art. 127 c.p.p. in favore di un rafforzamento del contraddittorio, prima meramente eventuale.
65
Corte e.d.u., 18 ottobre 2006, Hermi c. Italia, § 68, che ha dedotto – dal comma 3 dell’art. 6 della Convenzione – un gruppo
di regole di garanzie processuali rilevanti per la presente questione: a) l’imputato ha il diritto di esser presente al processo
svolto a suo carico; b) lo stesso può rinunciare volontariamente all’esercizio di tale diritto; c) l’imputato deve essere consapevole
dell’esistenza di un processo nei suoi confronti; d) devono esistere strumenti preventivi o ripristinatori, per evitare processi a
carico di contumaci inconsapevoli, o per assicurare in un nuovo giudizio, anche mediante la produzione di nuove prove, il
diritto di difesa che non è stato possibile esercitare personalmente nel processo contumaciale già concluso.
66
Va posto in luce, infatti, che la giurisprudenza della Corte, pur ribadendo costantemente il rischio di compromissione del
diritto soggettivo di difesa indotto da eventuali elusioni del diritto al contraddittorio, ha sempre valorizzato il profilo della
«lesività concreta» e non meramente potenziale del diritto del soggetto pregiudicato.
67
In G.U. dell’Unione europea, 11 marzo 2016, legge n. 65.
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Alla luce di tali considerazioni, si impone, dunque, per l’autorità giudiziaria un’attenta valutazione
al fine di consentire un’armonizzazione fra il comma 8, rimasto inalterato, e il comma 8-bis dell’art. 309
c.p.p., frutto del recente innesto, onde consentire al ricorrente di comparire personalmente, anche in difetto di espressa richiesta, qualora abbia perlomeno sollecitato tempestivamente la traduzione.
In caso contrario, si creerebbe uno squilibrio tra l’esigenza di non pregiudicare in alcun modo la
“giusta” celebrazione del processo e la primaria necessità della tutela del diritto dell’interessato a partecipare a tutti gli atti della procedura de libertate 68, a sfavore di quest’ultima; sicché si auspica una attuazione del contraddittorio cautelare sulla scorta di «forme procedimentali più forti» 69, che ampli anche sostanzialmente le prerogative probatorie difensive 70.
In definitiva, principio imprescindibile ed ineludibile, è quello secondo cui la libertà di partecipare
al giudizio di riesame va garantita nonostante le esigenze di celerità del procedimento e ciò risulta
ancor più pregnante dal momento che l’interessato si trova sottoposto ad una misura coercitiva in una
fase nella quale, in base all’ulteriore principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, lo
stesso non è stato ancora ritenuto penalmente responsabile.
68
Tale necessità viene sollecitata da M. Ceresa Gastaldo, Riformare il riesame dei provvedimenti di coercizione cautelare, in Riv.
dir. processuale, 2011, p. 1180.
69
Modelli “forti” di contraddittorio sono richiamati da G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1996, p. 217 ss.,
per tutte e tre le impugnazioni cautelari.
70
A. Molari, Introduzione alla tavola rotonda, in AA.VV., Contraddittorio tra costituzione e legge ordinaria, Milano, 2002, p. 144 ss.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LO STATUTO ITALIANO DELLA “VITTIMA” DEL REATO
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LUDOVICA TAVASSI
Dottoranda di ricerca in Procedura penale e diritto delle prove – Università degli Studi di Milano-Bicocca
Lo statuto italiano della “vittima” del reato: nuovi diritti in un
sistema invariato
The italian victim’s statute: new rights in an unchanged criminal
system
Nell’obiettivo di uniformarsi agli standard dettati dall’Unione Europea, il d.lgs. n. 212/2015 ha importato nel nostro
sistema strumenti processuali per valorizzare i diritti, l’assistenza e la protezione delle vittime. Prendendo le mosse dall’osservazione delle scelte terminologiche che nel codice di rito sono state effettuate per rappresentare gli
interessi delle persone lese dal reato, si è osservato come sia cambiata la disciplina sul tema. L’analisi si è spinta
fino ad un auspicato ulteriore sforzo di riorganizzazione delle garanzie che possa fare ordine in un ventaglio di figure processuali dai poteri disomogenei e, a volte, irrazionali.
To inform to the European Union standards the legislative decree n. 212/2015 imported procedural remedies to
improve victims’ rights, assistance and protection. Taking a cue from the terminological observation adopted in
national criminal procedure code, the Author analyses how the rules change. The work looks forward a new systemic deal: the auspice is a warranties’ reorganization to rationalize a set of a disparate trial’s positions.
IL LUNGO CAMMINO EUROPEO VERSO LA TUTELA DELLA VITTIMA
Il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 ha recepito, nel nostro ordinamento, la direttiva europea n. 29 del 25
ottobre 2012 in materia di diritti, assistenza, e protezione delle vittime di reato.
L’Unione europea, nel più ampio contesto di intervento sui diritti dei soggetti processuali e nella
prospettiva dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali, presupposto del reciproco riconoscimento
delle decisioni giudiziarie, ha predisposto una specifica disciplina in tutela della vittima intesa come la
«persona che ha subito un danno anche fisico, mentale o emotivo, o una perdita economica, che sono
stati causati direttamente da un reato». Il perimetro delle garanzie è stato poi esteso ai familiari del deceduto in conseguenza del reato, concetto ampio in cui sono stati ricompresi «il coniuge, la persona che
convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima».
Gli scenari in cui raggiungere i risultati prefissati sono stati individuati in tre specifiche aree di intervento. Fin dai primi atti del procedimento deve esser riconosciuto il diritto di comprendere e di esser
compresi, di esser messi in condizioni di partecipare alle successive fasi del processo e di esser protetti
dal rischio di “vittimizzazione secondaria” 1 con misure individualizzate ad personam. Gli Stati pertanto
sono invitati a garantire il diritto della vittima ad essere informata anche della volontà dell’autorità
procedente di non esercitare l’azione penale, predisponendo tutti gli strumenti necessari per assicurare
1
L. Wolhunter-N. Olley-D. Denham, Victimology: Victimisation and Victims’Right, London, 2009, p. 47 la definiscono come
«the victimisation that occurs not as a direct result of the criminal act but trough the response of institutions and individuals to the
victim». Dello stesso avviso M. Gialuz, Lo statuto europeo delle vittime vulnerabili, in AA.VV., Lo scudo e la spada. Esigenze di
protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, Torino, 2012, p. 64. L’Autore specifica la definizione
intendendola come «la fragilità rispetto ai pericoli che derivano dal procedimento penale, dai suoi dispositivi e dai soggetti
che vi sono coinvolti».
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LO STATUTO ITALIANO DELLA “VITTIMA” DEL REATO
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al soggetto passivo del reato la possibilità di contribuire significativamente al dialogo processuale e di
aver accesso ai servizi di giustizia riparativa.
Muovendo da questi principi generali, il respiro della direttiva si è spinto fino ad individuare specifiche esigenze di protezione per le vittime cosiddette vulnerabili secondo l’osservazione delle caratteristiche personali, del tipo o della natura del reato e delle circostanze concrete di quest’ultimo. Particolare attenzione, fra queste, è stata rivolta a coloro che son stati vittime del terrorismo, della criminalità organizzata, della tratta di essere umani, di violenza di genere, della violenza nelle relazioni
strette, della violenza o dello sfruttamento sessuale o dei reati basati sull’odio e delle vittime con disabilità 2.
L’obiettivo imposto alle legislazioni nazionali è dunque quello di assicurare a tutte le vittime, e non
soltanto ad alcune di esse, parità di condizioni in materia di informazione, assistenza e protezione, indipendentemente dal luogo geografico in cui si svolge il processo.
Per comprendere il peso specifico della direttiva europea è sufficiente ricordare come nell’ultimo
ventennio si sia progressivamente realizzata un’evoluzione genetica del diritto, in genere, e della procedura penale, in specie. Il sistema piramidale-gerarchico delle fonti 3, incentrato sulla egemonia illuministica della legge nazionale, non esiste più. L’inossidabile binomio fra giustizia penale e sovranità
statale è stato spezzato dalla necessità di forgiare strumenti di tutela fluida e di intervento versatili tanto da essere in grado di tener testa alle nuove forme di criminalità divenute contrastabili, con
l’abbattimento delle frontiere e la globalizzazione dei mercati, soltanto attraverso la cooperazione giudiziaria e la armonizzazione delle legislazioni nazionali su scala europea.
La “legislazione” continentale ha così modellato le sue forme e i suoi contenuti sulla globalizzazione
dei regimi economici e sull’evoluzione, rectius sulla riscoperta, dei diritti fondamentali. Questi ultimi si
sono proposti come un formidabile strumento di integrazione che ha riportato al centro della scena
l’individuo nell’aspirazione ad un processo equo secondo «una visione antropocentrica della procedura
penale» 4.
La scelta di aderire ad un fronte comune, quale quello europeo costruito su un postmoderno tessuto
di scambi ed integrazioni fra culture e realtà disomogenee, è divenuta ineludibile e ha determinato
l’adesione ad una polifonia legislativa in cui il nostro codice di rito deve prestarsi ad essere una delle
voci in un’orchestra di principi e di previsioni generali basate sul mutuo riconoscimento reciproco delle
diversità nazionali.
La centralità della persona e l’incessante opera di armonizzazione delle singole legislazioni, in questi
termini, non poteva che passare per la creazione di un terreno comune che si occupasse dei profili di
garanzia del processo, dalla disciplina sull’ammissibilità reciproca delle prove, ai diritti della persona
nella procedura penale, ai diritti delle vittime, fino ad ogni altro aspetto processuale che possa essere
ritenuto rilevante.
L’umanesimo processuale 5, per queste ragioni, ha intrapreso il lungo percorso verso la tutela multilivello dei diritti fondamentali che non ha potuto tralasciare, in parallelo con gli interventi in favore dei
diritti processuali di indagati o imputati in procedimenti penali, la valorizzazione di misure volte ad
equilibrare le garanzie della vittima.
L’Unione europea si era già cimentata in quest’ambito prima che il terzo pilastro fosse abbattuto con
l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: osservare il processo dal punto di vista della vittima, infatti,
è stato un terreno vividamente fertile per coltivare la tutela dei diritti fondamentali della persona nel
2
Nella direttiva hanno trovato uniforme coronamento gli interventi precedenti sul tema, fra cui si menzionano la
Raccomandazione R(2006)8 del Comitato dei Ministri agli Stati membri; la Decisione quadro 220 del 2001; la Convenzione sulla
lotta contro la tratta degli essere umani, Varsavia, 2005; la Convenzione per la protezione dei bambini contro lo sfruttamento e
gli abusi sessuali, Lanzarote, 2007; la Convenzione sulla prevenzione e la lotta della violenza contro le donne e della violenza
domestica, Instanbul, 2011. Infine, merita rilievo la celebre sentenza Corte giust., 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino che, ben
prima dell’abbattimento del terzo pilastro, ha sancito l’obbligo per i giudici degli Stati membri di partecipare all’attuazione
delle decisioni quadro attraverso il metodo dell’interpretazione conforme.
3
Inquadramento che si deve a H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1994, p. 3.
4
O. Mazza, La procedura penale, in F. Viganò-O. Mazza (a cura di), Europa e giustizia penale, Gli speciali di diritto penale processo,
2011, p. 33.
5
Espressione coniata da C. Brenner, Pour un humanisme processual respectueux de l’autonomie processuelle, in Mèlanges Serge
Guinchard Dalloz, Paris, 2010, p. 175.
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processo. In questo percorso, già nel 2001, la decisione quadro 2001/220/GAI si era adoperata per unificare il livello di protezione delle vittime della criminalità in tutti gli Stati membri e per assicurare che
fossero riconosciuti, oltre gli ambiti strettamente civilistico-risarcitori, i suoi diritti prima, durante e dopo il rito penale nella prospettiva di elidere o comunque di attenuare gli effetti della vittimizzazione secondaria 6. Nella decisione quadro, l’obiettivo principe si limitava a prescrivere «il ravvicinamento delle
norme e delle prassi relative alla posizione e ai principali diritti della vittima, con particolare attenzione
al diritto ad un trattamento che ne salvaguardasse la dignità, al diritto di informare e di essere informata, al diritto di comprendere ed essere compresa, al diritto di essere protetta nelle varie fasi del processo
e al diritto di far valere lo svantaggio di risiedere in uno Stato membro diverso da quello in cui il reato è
stato commesso».
Pochi anni dopo, un ulteriore passo pre-Lisbona è stato mosso dalla direttiva 2004/80/CE che ha
previsto un obbligo di indennizzo delle vittime di reato nelle situazione transfrontaliere. Questo tassello è stato decisivo, riconoscendosi, almeno dal punto di vista risarcitorio, una mutua solidarietà fra gli
Stati tanto da imporre la riparazione dei danni cagionati anche dagli illeciti penali commessi in un territorio diverso da quello di residenza della persona offesa.
Successivamente, come è noto, i programmi dell’Aja del 2004 7 e di Stoccolma del 2010 8 hanno tracciato il percorso per coltivare la cooperazione nel campo della politica criminale nello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia 9. Alla base della road map europea è stata posta la necessità di una cultura giuridica
comune comprensiva di «una strategia volta ad assicurare la realizzazione dei diritti delle vittime della
criminalità, nonché dei minori e di tutte le minoranze vulnerabili e a migliorare il sostegno offerto a tali
vittime» 10.
In queste linee, proprio nei propositi di sicurezza e di giustizia, sono state emanate la direttiva
2011/35/UE in materia di prevenzione e repressione della tratta di essere umani e la direttiva 2011/92/UE
relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile. I due
fondamentali atti normativi hanno avuto il merito di prospettare un approccio generale di forte valenza
innovativa sul piano processuale, individuando nuove forme di responsabilità anche in capo alle persone giuridiche, e molteplici strumenti sanzionatori fra cui l’adozione d’incisive misure patrimoniali 11.
Contestualmente, per impedire che l’abbattimento delle frontiere e la libera circolazione dei cittadini
nell’Unione implicasse una perdita di sicurezza individuale, è stata adottata la direttiva 2011/92/UE
sull’ordine di protezione europeo per assicurare, in ossequio al principio del reciproco riconoscimento
delle decisioni giudiziarie, l’effettività e la continuità di una tutela trasversale della vittima in tutti gli
Stati membri 12.
Non poteva, a questo punto, non aspettarsi che con il Trattato di Lisbona, in particolare con la precisa base legale prevista nell’art. 82.2 TFUE 13, emergesse l’esigenza di un provvedimento che riordinasse
6
P. Groenhuijsen, The EU framework decision for victim of crime: does hard law make a difference? in European Journal of Crime,
Crime Law and Criminal Justice, Cullompton, 2009, p. 43 l’ha definita il primo «hardlaw instrument» di natura internazionale
dedicato alla vittima.
7
Programma dell’Aja: rafforzamento della libertà sicurezza e giustizia nell’Unione europea, GUUE C 53, 3 marzo 2005, 1.
8
Programma di Stoccolma: un’Europa aperta e sicura al servizio dei cittadini, GUUE C 115, 4 maggio 2010, 1.
9
Sull’argomento S. Manacorda, Le programme pour une politique pènale de l’Union entre mythe et rèalitè, in Revue de science
criminelle et de droit pénal comparè, 2011, p. 935 ss.
10
Così al punto 2.3.4 del Programma di Stoccolma, cit., dove il Consiglio europeo, con queste premesse, chiede alla
Commissione ed agli Stati membri, previa valutazione dei due strumenti normativi – la Direttiva 2004/80/CE e la Decisione
quadro 2001/220/GAI – di prodigarsi per uno strumento unico in tema di tutela delle vittime.
11
Un attento excursus sul tema si ritrova in D. Savy, Il trattamento delle vittime dei reati nella nuova disciplina dell’Unione europea,
in questa Rivista, 2013, p. 95.
12
Sul tema si rinvia a F. Ruggieri, Ordine di protezione europeo e legislazione italiana di attuazione: un’analisi e qualche perplessità,
in questa Rivista, 2015, p. 99 s.
13
La norma stabilisce che «L’Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali
nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri”; “Laddove necessario per facilitar il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale, il Parlamento europeo e il Consiglio possono stabilire norme minime deliberando
mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria. Queste tengono conto delle differenze tra le tradizioni giuridiche
e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri».
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il mosaico dei menzionati interventi specializzati sul tema in un’apposita tabella di marcia 14 che si occupasse, in maniera omogenea, dei diritti delle persone lese dagli eventi criminali 15.
In esecuzione di questo rinnovato progetto, la decisione quadro 2001/220/GAI è stata sostituita con
la direttiva che ci occupa, in grado di proporsi come una completa carta dei diritti che vincola uniformemente gli Stati membri ad un elevato standard di tutela in materia di diritti, assistenza, e protezione
delle vittime di reato.
IL RESTYLING CODICISTICO NELL’ATTUAZIONE LEGISLATIVA DELLA DIRETTIVA
Nel proposito di adempiere all’obbligo di risultato imposto dalla direttiva, il nostro legislatore ha ritenuto che gli interventi necessari potessero circoscriversi a poche modifiche del codice di procedura penale e delle sue norme di attuazione dal momento che, come è stato precisato nella relazione che accompagna il decreto, «il diritto interno, già fortemente orientato a garantire diritti, assistenza e protezione alle vittime di reato, viene modificato solo marginalmente dal decreto, ritenendosi, all’esito di un
capillare lavoro di analisi e di verifica della relativa concordanza, che molte delle disposizioni di tutela
previste dalla Direttiva siano già presenti e che, per l’effetto, l’ordinamento sia sostanzialmente conforme, fatte salve le specifiche disposizioni interne».
Il d.lgs. n. 212/2015 ha quindi apportato mirate modifiche alla disciplina processuale incentrate sulla
novellazione e sulla implementazione della norma chiave rappresentata dall’art. 90 c.p.p. L’art. 1, comma
1, lettera a), n. 1 del decreto legislativo inserisce nella menzionata disposizione un nuovo comma 2-bis
nel quale si prevede in capo al giudice l’obbligo di disporre, anche d’ufficio, la perizia per dissipare
l’incertezza sulla minore età della persona offesa e, nel caso persista il dubbio, si prescrive l’osservanza
di una presunzione della stessa ai fini dell’applicazioni delle disposizioni processuali. Da questo primo
innesto è chiaro che uno degli obiettivi preposti dal legislatore è quello di bilanciare le garanzie già apportate per l’imputato che versa nelle stesse condizioni 16.
Anticipando il contenuto del disegno di legge in tema di diritti civili oggi in corso di approvazione,
nel processo penale sono stati riconosciuti i legami familiari di fatto mediante l’equiparazione del coniuge alla «persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in
modo stabile e continuo». In caso di decesso della vittima in conseguenza del reato, gli stessi diritti
spettano, quindi, ai prossimi congiunti o al convivente more uxorio in base a requisiti fattuali che il giudice dovrà apprezzare caso per caso. Tale novità non può che essere salutata come una conquista di
modernità e di civiltà che emancipa l’ordinamento processuale da ingiustificate discriminazioni.
Una volta poste le coordinate per l’individuazione del soggetto di tutela, alla vittima o ai suoi familiari viene assicurato il maggior spazio di intervento e di protezione mediante due nuovi articoli, l’art.
90 bis c.p.p. e l’art. 90 ter c.p.p., che, sul presupposto secondo cui la conoscenza e la comprensione della
realtà processuale sono indispensabili per l’esercizio dei diritti, ha imposto all’autorità procedente l’obbligo di fornire alla persona offesa, fin dal primo contatto, dettagliate informazioni in una lingua a lei
comprensibile.
Nello specifico, l’obbligo di informazione investe un ampio e dettagliato catalogo di notizie riguardanti le modalità di presentazione degli atti di denuncia o querela; il ruolo che può assumere la persona
offesa nel corso delle indagini e del processo; il diritto ad avere conoscenza della data, del luogo del
processo e della imputazione e, ove costituita parte civile, il diritto a ricevere notifica della sentenza,
anche per estratto; la facoltà di ricevere comunicazione dello stato del procedimento e delle iscrizioni di
cui all’art. 335, commi 1 e 2, c.p.p.; la facoltà di essere avvisata della richiesta di archiviazione; la facoltà
di avvalersi della consulenza legale e del patrocinio a spese dello Stato; le modalità di esercizio del di-
14
Tabella di marcia di Budapest, Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea, 10 giugno 2011, GUUE C 187, 28 giugno
2011, 1.
15
Sul tema C. Amalfitano, L’azione dell’Unione europea per la tutela delle vittime di reato, in Dir. Un. eur., 2011, p. 6; H. Belluta,
Eppur si muove: la tutela delle vittime particolarmente vulnerabili nel processo penale italiano, in AA.VV., Lo statuto europeo delle vittime
di reato, Padova, 2015, p. 257 ss.; M. Del Tufo, La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Dir. pen. proc., 1999, p. 899.
16
Così è stato previsto nell’art. 67 c.p.p. anche per il caso di incertezza sull’età dell’imputato. Lo stesso desiderio di equiparazione si rinviene nell’ambito del diritto riconosciuto all’indagato-imputato all’interpretazione e alla traduzione imposto
dalla Direttiva 2010/64/UE, del 20 ottobre 2010 e attuato con il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32.
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ritto all’interpretazione e alla traduzione di atti del procedimento; le eventuali misure di protezione che
possono essere disposte in suo favore; i diritti riconosciuti dalla legge nel caso in cui risieda in uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello in cui è stato commesso il reato; le modalità di contestazione di eventuali violazioni dei propri diritti; le autorità cui rivolgersi per ottenere informazioni sul
procedimento; le modalità di rimborso delle spese sostenute in relazione alla partecipazione al procedimento penale; la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni derivanti da reato; la possibilità che
il procedimento sia definito con remissione di querela di cui all’art. 152 c.p., ove possibile, o attraverso
la mediazione; le facoltà ad essa spettanti nei procedimenti in cui l’imputato formula richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova o in quelli in cui è applicabile la causa di esclusione
della punibilità per particolare tenuità del fatto; le strutture sanitarie presenti sul territorio, le case famiglia, i centri antiviolenza e le case rifugio.
È agevole prevedere che la complessità dell’obbligo informativo imposto dall’art. 90 bis c.p.p. comporterà un notevole aggravio di attività per l’autorità procedente, a meno che tale informativa non venga nella prassi considerata poco più che un vuoto adempimento formale, come è già accaduto per
l’analoga previsione dell’art. 369 bis c.p.p. in favore dell’imputato. Certamente lo spirito della direttiva
è quello di garantire diritti effettivi e l’impegno dovrebbe essere quello di realizzare una compiuta informazione in favore della vittima.
Al di là di queste considerazioni di carattere generale, vanno rilevate alcune incongruenze del catalogo legislativo. Anzitutto, il decreto legislativo prevede l’obbligo di informare l’offeso della facoltà di
richiedere di essere avvisato dell’istanza di archiviazione. Tuttavia, quando si tratta di una richiesta di
archiviazione occasionata da una valutazione circa la particolare tenuità del fatto, la legge ha già previsto in ogni caso l’obbligo di informarne la persona offesa, a prescindere dalla sua richiesta (art. 411,
comma 1-bis c.p.p.) 17, così come deve essere sempre comunicata analoga richiesta riguardante delitti
commessi con violenza alla persona (art. 408, comma 3-bis, c.p.p.). La discrepanza con le “ordinarie” richieste di archiviazione, per le quali l’avviso deve esser notificato solo quando la persona offesa abbia
manifestato la volontà di essere informata, sembra segnare una significativa disparità di trattamento
non rispondente alle esigenze di omogeneità del sistema, né, tantomeno, a quelle di stretta razionalità,
soprattutto con riguardo alla tenuità del fatto, istituto che dovrebbe qualificarsi «come uno strumento
di depenalizzazione giudiziaria capace di rimodulare le forze processuali» 18 per alleggerire il carico di
lavoro in un’ipotesi di scarso significato lesivo. Sarebbe stato, forse, più lineare prevedere che in ogni
caso la persona offesa abbia il diritto di essere avvisata della richiesta di archiviazione, risparmiando la
farraginosa informazione circa il diritto di richiedere di essere informati della iniziativa del pubblico
ministero. L’occasione avrebbe potuto essere sfruttata anche per uniformare il termine per proporre
opposizione alla richiesta di archiviazione attualmente oscillante fra i 10 e i 20 giorni, a seconda della
tipologia di reato (art. 408, commi 3 e 3-bis, c.p.p.; art. 411, comma 1-bis, c.p.p.).
Poco chiara risulta poi l’informazione in ordine alle modalità di contestazione di eventuali violazioni
dei propri diritti. La perifrasi normativa sembra alludere ai meccanismi processuali di eccezione o di
deduzione delle invalidità. Se così fosse, si tratterebbe di attività normalmente devolute alla difesa tecnica nella quale finirebbero per rimanere assorbite.
All’interno dello stesso diritto di informazione è stato introdotto l’art. 90 ter c.p.p. per integrare
l’attuale regime delle comunicazioni nei casi di scarcerazione, cessazione della misura di sicurezza detentiva, evasione o sottrazione volontaria all’esecuzione. In queste circostanze, previa richiesta, nell’ambito dei soli “delitti commessi con violenza alla persona” 19 la vittima deve essere immediatamente al-
17
Sul tema v. M. Daniele, L’archiviazione per tenuità del fatto fra velleità deflattive ed equilibrismi procedimentali, in S. Quattrocolo
(a cura di), I nuovi epiloghi del procedimento penale per particolare tenuità del fatto, Torino, 2015, p. 53.
18
L. Tavassi, I primi limiti giurisprudenziali alla particolare tenuità del fatto, in Diritto pen. cont., 16 giugno 2015, p. 13, evidenzia
le contraddizioni in cui incorre la disciplina della particolare tenuità del fatto. Analogamente, cfr. F. Caprioli, Prime
considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. cont., 8 luglio 2015, p. 28; E. Marzaduri, L’ennesimo
compito arduo (… ma non impossibile) per l’interprete delle norme processualpenalistiche: la ricerca di una soluzione ragionevole del
rapporto tra accertamenti giudiziali e declaratoria di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p.p., in Arch. pen., 2015, p. 6.
19
Quest’espressione, presente nel d.lgs. 212/2015, si propone di recepire l’indicazione contenuta nella direttiva 2012/29/UE
nell’art. 6, § 6, laddove viene circoscritta la possibilità per la vittima di essere informata «nei casi in cui sussista un pericolo o un
rischio concreto di danni nei suoi confronti» sebbene non specifichi approfonditamente quali reati debbano ricomprendersi in
questa vasta nozione.
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lertata. Le perplessità lasciate dal tenore letterale della disposizione sono duplici. In prima battuta, non
si intravedono, nemmeno leggendo in combinazione il nuovo articolo con l’antesignano art. 299, commi
2-bis, 3 e 4-bis, c.p.p., delle coordinate per orientarsi nell’ampiezza del termine “scarcerazione” 20. Resta
incerto se debbano intendersi, nello stesso, tutti i casi di modifica dello status libertatis tanto in sede cautelare quanto di esecuzione della pena nella vastissima gamma di opzioni che va dalle concessioni di
misure alternative alla detenzione ai benefici penitenziari temporanei.
La mancata occasione definitoria si riflette negativamente sulla esatta portata da attribuirsi alla finalità di tali comunicazioni. È lecito domandarsi se queste rappresentino il preludio all’apertura di un
dialogo processuale tale da dover coinvolgere anche il punto di vista della persona offesa nelle sedi in
cui si decide delle sorti delle misure restrittive in capo all’autore del reato. Questa prospettiva preoccupa dal momento che, durante il lungo iter verso la sentenza definitiva, la persona offesa dal reato è soltanto presunta tale, soprattutto nell’ambito del “contraddittorio cautelare” in cui ci troviamo ancora in
un’area indiziaria sorretta dalla presunzione di non colpevolezza, con la conseguenza che «i diritti fondamentali dell’individuo accusato di un reato non possono entrare in bilanciamento con altri presunti
valori, dalla ragionevole durata del processo ai diritti della vittima» 21. Soprattutto, l’interlocuzione sul
tema della libertà personale finirebbe per trasformare radicalmente il ruolo della persona offesa, da
soggetto in cerca di una qualche forma di riparazione del danno subito dal reato a vero e proprio accusatore privato promotore di istanze puramente sanzionatorie.
È chiaro che il perno intorno a cui ruota l’intera materia è la salvaguardia dai rischi della vittimizzazione secondaria, intesa sotto la duplice veste della esposizione agli effetti traumatici insiti internamente al processo penale e della cosiddetta repeat victimisation 22, ossia dai pericoli di intimidazione, ritorsione o reiterazione esterna per mano del presunto autore del reato. Sulla scorta di tali indicazioni il decreto in commento apporta forse la più significativa delle sue novità introducendo nel nostro sistema,
nel nuovo art. 90 quater c.p.p., la figura della “particolare vulnerabilità della persona offesa”. Il legislatore, attuando quelle che sono state sul tema le conquiste europee, ha recepito che si presenta ormai
come necessaria rispetto alla complessità in cui si compone la realtà odierna dei fatti criminosi la riconduzione dei frammentari interventi in categorie di ordine generale che consentano una effettiva tutela
di tutti i soggetti che versano in una condizione di particolare vulnerabilità per aver subito «la ferita
umana prima che sociale» 23. La figura della persona offesa particolarmente vulnerabile viene definita
perciò in base all’età, allo stato di infermità o di deficienza psichica, al tipo di reato, alle modalità e alle
circostanze del fatto per cui si procede, oltre che per l’apprezzamento di elementi come la violenza alla
persona, l’odio raziale, la relazione con le dinamiche della criminalità organizzata, dei movimenti terroristici o di tratta degli esseri umani, la discriminazione e, in ultimo, la dipendenza affettiva, psicologica
o economica dall’autore del reato.
Per soddisfare l’esigenza di individualizzare le misure con strumenti di tutela ad hoc sono stati previsti l’obbligatorietà della riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni rese dalla persona offesa vulnerabile per accompagnare la stessa ad uscire il più agilmente possibile dalle dinamiche processuali 24 (art.
134, comma 4, c.p.p.); il diritto all’interprete e alla traduzione a titolo gratuito in ogni circostanza che lo
richieda e l’estensione dell’ausilio psicologico anche nei casi in cui è necessario assumere sommarie in20
Le stesse perplessità sono state sollevate dalla Relazione 3 febbraio 2016, Novità legislative: d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212
della Corte suprema di Cassazione, p. 11.
21
O. Mazza, Il pregiudizio effettivo fra legalità processuale e discrezionalità del giudice, in Giust. pen., III, 2015, p. 699.
22
L’espressione, presente nella stessa recente direttiva 2012/29/UE all’art. 22, è stata adoperata per la prima volta nella
Risoluzione del Consiglio 2001/C187/01 del 10 giugno 2011 relativa a una tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti e
della tutela delle vittime, in particolare nei procedimenti penali.
23
H. Belluta, Un personaggio in cerca d’autore: la vittima vulnerabile nel processo penale italiano, in AA.VV., Lo scudo e la spada, cit.,
utilizza efficacemente quest’espressione per sottolineare «lo stato di isolamento di chi ha subito il reato» in cui versava la
vittima nel processo italiano prima dell’attuazione della direttiva 2012/29/UE.
24
Nelle argomentazioni della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati si apprezza chiaramente che le registrazioni
audiovisive rappresentano «una misura coerente anche con le indicazioni della giurisprudenza della Corte di legittimità che
assegna un valore inquinante alle domande suggestive (che possono essere poste anche all’inizio della progressione dichiarativa, ovvero durante le audizioni investigative, senza che la correttezza dell’esame sia controllabile). La misura si manifesta
opportuna anche in relazione al fatto che le difese spesso (legittimamente) basano le loro strategie difensive proprio sul dubbio
circa l’etero-induzione dei contenuti accusatori nella fase investigativa. Fase a volte “oscura”, che la videoregistrazione renderebbe finalmente fruibile a garanzia dell’accusa e della parte lesa».
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formazioni da una persona offesa maggiorenne, evitando, oltretutto, che la stessa, laddove non necessario, sia costretta a incontrare l’autore del reato (art. 351, comma 1-ter e art. 362, comma 1-bis c.p.p.).
Sempre in tema di assunzione del contributo conoscitivo, si è estesa la disciplina dell’art. 190 bis c.p.p.
alla persona offesa vulnerabile, con la conseguenza che la ripetizione dell’esame testimoniale già avvenuto precedentemente in contraddittorio sarà ammissibile soltanto laddove si presentino fatti o circostanze diversi da quelli già oggetto delle prime dichiarazioni o se il giudice o taluna delle parti coinvolte dovessero ritenerlo inevitabile sulla scorta di specifiche esigenze. Oltre ciò, per sollevare quanto prima la vittima del reato dai contatti con il processo, si è previsto che il pubblico ministero, anche su proposta della stessa persona offesa, ovvero la persona sottoposta alle indagini possano anticiparne
l’esame richiedendo che avvenga con incidente probatorio (art. 392, comma 1-bis, c.p.p.). Infine, al giudice, se la persona offesa o il suo difensore presentano richiesta, è sempre consentito disporre le modalità protette previste nell’art. 498 c.p.p. una volta riscontrata la particolare vulnerabilità del dichiarante.
Il decreto legislativo si è mosso in un proposito di uniformità: prima di queste modifiche, la gamma
degli strumenti di tutela era stata riservata alle sole «supervittime» 25, individuate in un catalogo di
soggetti ritenuti presuntivamente vulnerabili ex lege al risuonar degli allarmi sociali e delle logiche
emergenziali. Dal 1996 al 2013 26 tanti sono stati «gli interventi di “microchirurgia” normativa» 27 soffermatisi sul minore di sedici anni, sull’infermo di mente, sulla donna vittima di violenza di genere,
sulle vittime della tratta di esseri umani. La tecnica legislativa degli innesti spot e dei rinvii incrociati
aveva sempre mancato l’obiettivo di centrare un’esatta definizione del soggetto destinatario delle misure di protezione 28 e, per questo, aveva disordinatamente calibrato le modalità di trattamento processuale riservate, in sede probatoria, agli uni rispetto che agli altri. Non avendo inquadrato uniformemente il
concetto di vulnerabilità, i soggetti maggiorenni non erano posti a riparo dalle invadenze della cross
esamination, diversamente dai minorenni e dagli infermi di mente per i quali erano state introdotte alternative all’esame diretto 29. Considerato che il terreno in cui ci si muove è imprescindibilmente sorretto da principi fondanti quali, ad esempio, l’immediatezza, il diritto di difesa e il contraddittorio, il disomogeneo sistema di deroghe e di diversificate modalità assuntive della prova aveva cominciato a
mostrare preoccupanti criticità nel rispetto delle garanzie costituzionali. Non si può infatti dimenticare
che il rispetto per le particolari condizioni di vulnerabilità in cui può versare la vittima, che spesso si
attesta come l’unica fonte di prova, deve necessariamente fare i conti con il diritto dell’imputato di
esaminare il suo accusatore.
La sfida legislativa si misura pertanto sul delicato equilibrio che deve sussistere fra il principio del
contraddittorio, metodo imprescindibile di formazione della prova, e la salvaguardia della particolare
vulnerabilità della vittima. Tenendo fermo che il tema del processo resta pur sempre la colpevolezza e
che la stessa va dimostrata superando ogni ragionevole dubbio, non può nascondersi sotto la grande
coperta dell’Unione europea che ogni deroga prevista ai principi che sostengono il giusto processo deve
25
Così definite da S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in Lo scudo e la spada, cit., p. 13. La
necessità di una tutela specifica rivolta alle “supervittime” si rinviene anche in V. Maffeo, Il nuovo delitto di atti persecutori
(stalking): un primo commento al d.l. n. 11 del 2009, in Cass. pen., 2009, p. 2723.
26
Si fa riferimento alla legge 1° ottobre 2012, n. 172 con la quale è stata ratificata la Convenzione di Lanzarote per la
protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale; al d.l. 14 agosto 2013, n. 93 recante disposizioni urgenti in
materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle
province e al d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 in Attuazione della Direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione
della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime.
27
Con questa espressione, F. Cassibba, Oltre Lanzarote: la frastagliata classificazione soggettiva dei dichiaranti vulnerabili, in Dir.
pen. cont., 11 luglio 2014, p. 2, ripercorrendo le disposizioni intervenute sul tema, ha dipinto «l’opera cubista, dalla quale si
stenta[va] a far emergere un disegno razionale».
28
Come si può osservare in Corte cost., sent. 29 gennaio 2005, n. 63, in Giur. cost., 2005, p. 603 e in Corte cost., sent. 1° aprile
2003, n. 108, ivi, 2003, p. 870, lo stesso aggettivo “vulnerabile” è stato spesso sovrapposto ad altri semanticamente diversi come
“deboli” o “fragili”, sintomaticamente a dimostrare l’assenza di un indirizzo univoco.
29
Più specificamente, il tema della vittima fonte di prova ante d.lgs n. 212 del 2015 è stata affrontata, fra gli altri, da F.
Cassibba, La tutela dei testimoni vulnerabili, in O. Mazza-F. Viganò (a cura di), Il “pacchetto sicurezza” 2009, Torino, 2009, p. 302; L.
Luparia, Victimas vulnerable e incidente probatorio: la normativa italiana supera el test de la Corte UE, in Dir. pen. cont., 25 gennaio
2012, p. 1; M. Monteleone-V. Cuzzocrea, Le dichiarazioni delle vittime vulnerabili nei procedimenti penali, in questa Rivista, 2016, p.
97; V. Maffeo, L’esame incrociato tra legge e prassi, Napoli, 2012, p. 148; O. Mazza, Misure di protezione della vittima fonte di prova, in
Giur. it., 2012, p. 793 e S. Recchione, Il dichiarante vulnerabili fa (disordinatamente) ingresso nel nostro ordinamento: il nuovo comma 5ter dell’art. 398 c.p.p., in Dir. pen. cont., 14 aprile 2014, p. 3.
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essere giustificata da valori almeno equivalenti e deve inserirsi con determinatezza e precisione nelle
maglie del sistema. Osservando che gli strumenti in tutela della vittima fonte di prova si attivano al ricorrere delle condizioni previste dal nuovo art. 90 quater c.p.p., il presupposto deve essere tassativamente determinato. Questa condizione non sembra essere stata integralmente assolta dalla nuova previsione: la definizione di persona offesa vulnerabile riecheggia vaghi concetti criminologici, essendo
fondata, fra l’altro, sull’“età”, senza una specificazione se per questa si intenda solo la minore o anche
quella molto avanzata ed eventualmente entro quali limiti anagrafici; “la deficienza psichica”, che sfugge ad una definizione giuridica rinvenibile nei testi di legge o “la dipendenza affettiva”, insieme a quella psicologica o economica. Il diritto di difesa dell’imputato, il suo diritto alla prova e quello al pieno
esplicarsi del contraddittorio non possono essere limitati in base a presupposti non sufficientemente determinati, come alcuni di quelli tracciati dall’art. 90 quater c.p.p.
IL MOSAICO DEI SOGGETTI SUL VERSANTE PASSIVO DEL REATO: TROPPI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE
Il codice di rito, come è noto, non ha lasciato che le sue scelte terminologiche si conformassero al linguaggio criminologico che predilige, come i testi europei, il sostantivo vittima 30. Il legislatore italiano
ha preferito, piuttosto, quello di “persona offesa dal reato” o di “danneggiato” in attesa che negli sviluppi del processo possa rivestire il ruolo di “parte civile”. In questo modo risalta, in ossequio al monopolio dell’azione penale in capo al pubblico ministero, la domanda risarcitoria di chi ha visto leso il
proprio bene giuridico protetto dalla norma penale violata ovvero il danno derivante dalla commissione del reato. Ciò pone al riparo il processo dalle pulsioni giustizialiste per consentirgli di assurgere alla
più alta funzione politica di tutela di tutti i valori e dei contrastanti interessi in gioco.
Pur sfuggendo a un’espressa definizione legislativa, la persona offesa si indentifica, quindi, nel titolare del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice che si assume violata 31. Vi è un nesso di diretta interdipendenza fra la qualificazione giuridica del fatto-reato e l’assunzione della veste di persona
offesa. Sarà soltanto il giudice o comunque l’autorità procedente ad individuare di volta in volta la persona offesa in funzione della diversa offensività del reato contestato o ipotizzato 32.
Su queste basi non sempre solide e fisiologicamente fluide nel contesto investigativo, la logica tendenzialmente accusatoria del nostro codice ha riconosciuto alla persona offesa il ruolo di soggetto processuale con più accentuati diritti e facoltà rispetto al passato 33. Infatti, attraverso poteri di sollecitazione probatoria e di impulso processuale 34, l’offeso può intervenire nel procedimento per assumere il
30
Sebbene il termine “vittima” sia presente nell’interpolazione dell’art. 498, comma 4-ter, c.p.p. tale novellazione pare frutto
di una evidente svista ascrivibile a un linguaggio non troppo sorvegliato. Sotto il profilo sistematico, al di là della citata svista,
non può negarsi che il concetto di vittima sia estraneo alla cultura processual-penalistica. In tal senso, v., fra gli altri, O. Mazza,
Misure di protezione della vittima fonte di prova, cit., p. 1.
31
M.G. Aimonetto, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, p. 319; E. Amodio, Persona offesa dal reato, in E.
Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, I, p. 534; L. Bresciani, Persona
offesa dal reato, in Dig. pen., Torino, 2011, p. 5247 ss.; A. Giarda, La persona offesa dal reato nel processo penale, Milano, 1971, p. 13;
F.M. Grifantini, La persona offesa dal reato nella fase delle indagini preliminari, Napoli, 2012, p. 25; C. Pansini, Persona offesa dal reato,
in Dig. pen., Torino, 2011, p. 411; P.P. Paulesu, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, p. 593; S. Tessa, La
persona offesa dal reato nel processo penale, Torino, 1996, p. 4 e G. Tranchina, Persona offesa dal reato, in Enc. giur., XXIII, Roma, 1990,
p. 1.
32
Il meccanismo per l’individuazione della persona offesa dal reato così strutturato si rintraccia in Cass., sez. VI, 21 agosto
1995, n. 2453, F., in CED Cass. n. 202776.
33
Cfr. Rel. prog. prel., in Gazz. uff., n. 250 del 24 ottobre 1988, suppl. ord. n. 2, p. 41, laddove si legge che «nella topografia del
nuovo Progetto, l’introduzione di un titolo appositamente dedicato alla persona offesa, risponde all’esigenza di assegnare a tale
soggetto una specifica collocazione, allo scopo di attribuirgli uno spazio, anche sistematicamente, autonomo rispetto alle parti
private diverse dall’imputato». Sul tema T. Bene, La persona offesa tra diritto di difesa e diritto alla giurisdizione: le nuove tendenze
legislative, in Arch. pen., 2013, p. 10 osserva che «la previsione normativa attuale, sebbene non riconosca la qualità di parte
all’offeso, introduce “forme di tutela processuale assai più avanzate” rispetto al codice del 1930. Esse rappresentano il punto di
arrivo di un mutamento ideologico aperto alle “interferenze” dei privati nell’esercizio dell’azione penale».
34
La persona offesa può incidere nel dialogo procedimentale prodromico all’esercizio dell’azione penale sollecitando l’organo d’accusa: ha la possibilità di presentare memorie, indicare elementi di prova (art. 90 c.p.p.); può sollecitare la richiesta di
incidente probatorio e parteciparvi con un proprio consulente tecnico (art. 394 c.p.p.); ha diritto a vedersi notificati gli atti
previsti dall’art. 154 c.p.p.; può assistere agli esami (art. 401 c.p.p.); è ammessa a interloquire sulla proroga dei termini delle
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ruolo di accessorio ed adesivo accusatore privato a sostegno delle determinazioni circa l’esercizio
dell’azione penale spettanti esclusivamente al pubblico ministero 35. Nelle intenzioni del legislatore del
1988, pur non riconoscendole mai le vesti di parte processuale, è stata avvertita l’esigenza di attribuire
autonomia a questa sussidiaria figura per evitare che le sue aspettative potessero andare disperse nel
disimpegno o nella mancata sensibilità degli uffici della pubblica accusa 36. A ben vedere, nella sistematica codicistica la pretesa di cui è portatrice la persona offesa non è tanto quella punitiva, quanto quella
di vedere istaurato il processo unica sede nella quale potrà avvenire la costituzione di parte civile mediante la quale formulare la richiesta risarcitoria. Dunque, anche i poteri di sostanziale accusatore privato esercitabili durante le indagini finiscono per essere strumentali all’unica pretesa (azione) legittimamente esercitabile, quella risarcitoria.
Scindendo gli effetti scaturenti dal fatto criminoso nel “danno criminale”, derivante dalla violazione
della norma penale, e nel “danno civile”, ossia nella diminutio patrimonii conseguente alla commissione del
reato, si percepisce che già nella fase procedimentale devono distinguersi la persona offesa dal danneggiato (art. 185 c.p.) 37. Le due figure possono coincidere, ma non è scontato che ciò accada 38. La differenza è
fondamentale se si rapporta agli snodi del processo: il corredo di diritti e di doveri previsti dal novellato
art. 90 c.p.p. e dai nuovi art. 90 bis, 90 ter, 90 quater c.p.p. spetta soltanto alla persona offesa, mentre, una
volta transitati nella sede processuale, legittimato a costituirsi parte civile è soltanto il danneggiato 39.
Nel complesso panorama delle situazioni soggettive che si collocano sul versante passivo del reato
va considerata anche la figura del querelante. Questa qualifica può esser rivestita dalla sola persona che
con il proprio atto di volontà dà sostanza alla condizione di procedibilità necessaria all’esercizio
dell’azione penale per i reati non perseguibili d’ufficio. Ad aumentare la complessità, può accadere che
le due posizioni soggettive, querelante e persona offesa/danneggiato, non coincidano 40, come testimoniano, ad esempio, gli artt. 427 e 542 c.p.p. laddove si prevede la condanna alla restituzione delle spese
e al risarcimento dei danni di colui che ha presentato querela.
In questo quadro, complesso e frammentario, emerge comunque chiaramente che, malgrado il ventaglio di diritti e di facoltà riconosciuti dal codice del 1988 e riformati dal recente decreto legislativo in
commento, la persona offesa non assume la qualità di parte, non vedendosi mai riconosciuti gli strumenti
che le consentano di ottenere una pronuncia sulla regiudicanda. L’impostazione di fondo non viene perciò scalfita: soltanto dopo la chiusura delle indagini preliminari, con l’esercizio dell’azione penale, potrà
avvenire la costituzione di parte civile finalizzata pur sempre alla mera pretesa risarcitoria che verrà formulata non più dalla persona offesa in quanto tale, ma in quanto contestualmente danneggiata dal reato.
In questo bivio, come anticipato, si apprezzano le permanenti differenze: la persona offesa e il querelante che non si costituiscono in giudizio restano meri postulanti privati di qualsiasi potere di agire, di
proporre domande di merito o di esercitare poteri di impugnazione, per di più esclusi anche dalle dinamiche istruttorie dibattimentali 41. D’altro canto, nella fase prodromica alle determinazioni del pubindagini chiesta dal p.m. e non concessa de plano (art. 406 c.p.p.); può opporsi alla richiesta di archiviazione (art. 408, commi 2 e
3, 409 e 410 c.p.p.) e può chiedere l’avocazione delle indagini (art. 413 c.p.p.).
35
E. Amodio, art. 90, in E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989,
p. 534; cfr A. Ciavola, Art. 90, in G. Conso-G. Illuminati (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, II, Padova,
2015, p. 286 e A. Ghiara, Art. 90, in Comm. Chiavario, I, Torino, 1989, p. 414.
36
La stessa rivendicata autonomia ha trovato avallo in Cass., sez.un., 27 settembre 2007, L. M., in Dir. pen. proc., 2007, p. 985
con nota adesiva di F.Scarcella.
37
Di questo avviso P. Gualtieri, Soggetto passivo, persona offesa e danneggiate dal reato: profili differenziati, in Riv.it.dir.proc.pen.,
1995, p. 1071; C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dal reato, in G.P. Voena-G. Ubertis (a cura di), Trattato di
procedura penale, Milano, 2003, p. 159 ss.; G.P. Voena, La tutela del danneggiato nel processo penale, in La vittima del reato, questa
dimenticata, Torino, 2001, p. 57.
38
Così secondo A. Giarda, La persona offesa dal reato nel processo penale, cit., p. 17 e P. Gualtieri, Soggetto passivo, persona offesa e
danneggiate dal reato: profili differenziati, cit., p. 1077.
39
Questo schema trova conferma anche nella giurisprudenza: v., ad esempio, Cass., sez. V, 22 gennaio 1999, T., in CED Cass.
n. 211818.
40
V. ancora A. Giarda, La persona offesa dal reato nel processo penale, cit., p. 43 e P. Gualtieri, Soggetto passivo, persona offesa e
danneggiate dal reato: profili differenziati, cit., p. 1079.
41
F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 277 definisce l’offeso come «ovviamente interessato, figura marginale, subalterna al pubblico ministero: gli apporta lumi; lo stimola a mosse istruttorie o ad impugnare, avendo diritto a rifiuti motivati, sui
quali non può reagire, né esistono contromosse all’archiviazione da cui dissentisse, a parte un ricorso ex art. 409 c.p.p., fondato
sui difetti del contraddittorio».
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LO STATUTO ITALIANO DELLA “VITTIMA” DEL REATO
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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blico ministero, colui che si riconosce come solo danneggiato del reato non ha nessuna voce e potrà soltanto affidarsi al discernimento dell’organo procedente, senza peraltro vedersi riconosciuti i diritti di
informazione oggi tipici della persona offesa.
La sostanziale conferma dell’impianto sistematico originario proveniente anche dal decreto legislativo in esame ribadisce la refrattarietà del nostro legislatore ad accogliere la piena emancipazione processuale del titolare dell’interesse leso dal reato 42 in sottaciuto contrasto con quelle che invece sono le evidenti aspirazioni di apertura europee indicate dalle citate road maps. Del resto, una complessa struttura
processuale come quella italiana, che persegue l’interesse generale della collettività all’applicazione della legge penale, non può che riconoscere il monopolio del potere accusatorio in capo a un organo pubblico e non può riporre, per tali motivi, nelle iniziative private poteri di intervento sulla persecuzione
dei fenomeni criminali 43. In queste coordinate, anche volendo recepire al meglio le suggestioni europee,
non potrebbe ignorarsi che chi ha subito il reato, per non sconvolgere gli equilibri sottesi alla parità fra
le parti (art. 111, comma 2, Cost.), dovrebbe comunque limitarsi a far valere la sola pretesa risarcitoria
di carattere civilistico, non potendo assumere, a Costituzione invariata 44, la veste di accusa privata concorrente o sussidiaria 45.
Spostando poi l’attenzione dal piano sistematico-normativo a quello sociologico-criminologico, sarebbero molte le perplessità legate alla scelta di dare maggior spazio alle individuali pulsioni giustizialiste di chi pretende di essere vittima del reato, soprattutto nel corso di un accertamento processuale
che vede specularmente l’imputato presunto innocente e la vittima presunta non tale 46.
Volendo formulare alcune considerazioni conclusive, sebbene siano apprezzabili gli intenti del d.lgs.
n. 212 del 2015 di adeguamento alle conquiste della modernità europea, introducendo più raffinati
strumenti di tutela individuali e ampliando il catalogo delle istruzioni da recapitare a coloro i quali
hanno subito il reato e sono esposti alle invadenze del processo, non può non sottolinearsi che l’obiettivo più auspicabile non è stato nemmeno sfiorato: razionalizzare il sistema affollato da figure disomogenee che compongono il ventaglio dei ruoli di chi si colloca sul versante passivo del reato.
La forzata “complementarietà funzionale” fra la persona offesa dal reato e il danneggiato, in staffetta
con la parte civile, avrebbe meritato uno sforzo di riorganizzazione delle garanzie che interrompesse la
disomogeneità delle tutele e dei poteri che investono nel procedimento l’una e nel processo l’altra 47.
Occorre prendere atto che, nonostante la pressante spinta fornita dalla necessità di adeguarsi alle direttive europee in tema di diritti processuali, l’atteggiamento del legislatore rimane sostanzialmente immutato. Abbandonata da tempo l’idea di una riforma organica e di sistema, affidata all’interlocuzione
di tutti i protagonisti della giustizia penale, si continua a percorrere la strada di interventi settoriali e
giocoforza disorganici, senza avvertire che la crisi del processo penale e della sua legalità richiederebbero un ben diverso slancio riformatore.
42
Così secondo P.P. Paulesu, Persona offesa dal reato, cit., p. 594.
43
Va precisato che la previsione costituzionale dell’art. 112 Cost. non sancisce il monopolio dell’azione penale in capo al
pubblico ministero, ma solo l’obbligatorietà dell’azione pubblica, lasciando però spazio ad azioni penali private concorrenti. La
netta opzione in favore del monopolio pubblico dell’azione è stata invece effettuata dal legislatore ordinario con l’art. 231 delle
norme di coordinamento del c.p.p. che ha abrogato ogni disposizione riguardante l’esercizio dell’azione penale da parte di
organi diversi dal pubblico ministero.
44
Va anche considerato che nello stesso art. 111, comma 3, Cost. non si accenna minimamente alla vittima, né, tantomeno,
l’art. 24, comma 2, Cost. può estendersi a coloro che hanno subito un danno dal reato.
45
Dello stesso avviso, sia prima che dopo la riforma dell’art. 111 Cost., E. Amodio, Solidarietà e difesa sociale nella riparazione
alle vittime del delitto, in Vittime del delitto e solidarietà sociale, Milano, 1975, p. 74; A. Giarda, Praxis criminalis. Cronache di anni
inquieti, Milano, 1994, p. 129 ss.; E. Kostoris, La tutela della persona offesa nel procedimento penale, in AA.VV., La vittima del reato,
questa dimenticata, Roma, 2001, p. 43; O. Mazza, Misure di protezione della vittima fonte di prova, cit., p. 1; P.P. Paulesu, Persona offesa
dal reato, cit., p. 594.
46
V. ancora O. Mazza, Il pregiudizio effettivo fra legalità processuale e discrezionalità del giudice, p. 699. Cfr. supra, § 2, nota 21.
47
Un esempio di quanto sostenuto è offerto da P.P. Paulesu, Persona offesa dal reato, cit., p. 601, che rileva come «“la simmetria funzionale” tra persona offesa e parte civile tratteggiata dal codice, integrando una sorta di “forzatura concettuale”
basata su un mero criterio di frequenza (id quod plerumque accidit), lasci privo di tutela il danneggiato dal reato che non rivesta
anche la qualifica di persona offesa».
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | LO STATUTO ITALIANO DELLA “VITTIMA” DEL REATO
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MARIA FRANCESCA CORTESI
Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Cagliari
Esecuzione penale: questioni aperte e dubbi interpretativi
Criminal enforcement: open iusses and interpretation doubts
Il giudicato penale, grazie ai ripetuti interventi delle Sezioni Unite, sta mutando fisionomia, abbandonando i rigidi
confini che, da sempre, hanno contraddistinto la sua struttura. Di fronte a tale metamorfosi è indefettibile ed urgente l’intervento del legislatore, chiamato a porre un punto fermo in una materia così delicata.
The res judicata, due to all the repeated bench-warrant arrests of “Sezioni Unite”, is changing fisionomy, leaving
the rigid boundaries that have always distinguished its structure. In front of that metamorphis it is unwavering and
urgent an interventation of the legislator, called to define such delicate matter.
CENNI INTRODUTTIVI
L’approccio interpretativo che involge la fase dell’esecuzione penale e che costituisce una premessa indefettibile nell’analisi delle sue caratteristiche anche problematiche ed oggetto di aperta discussione in
dottrina ed in giurisprudenza, non può non riflettere la profonda modifica, financo concettuale, che essa ha subìto al passaggio tra la precedente codificazione e quella ora vigente.
Alla originaria considerazione di una sua natura eminentemente amministrativa in cui al giudice era
affidato un potere di intervento limitato e del tutto incidentale, espressione di un concetto rigido di
giudicato penale, succede il doveroso riconoscimento della sua essenza giurisdizionale, riconoscimento
necessitato dai nuovi equilibri dettati dalla Costituzione 1. Se, da un lato, infatti, i principi contenuti negli artt. 13, 24, 25, 102 e 111 Cost. impongono una riserva di giurisdizione in materia di libertà della persona, su cui è destinata ad incidere anche l’attività esecutiva, dall’altro, il principio di rieducazione del
condannato, cristallizzato nell’art. 27, comma 3, Cost., segna, non solo, un arricchimento dei compiti
degli organi destinati ad operare nella fase esecutiva, ma, altresì, incide sulla stessa struttura processuale che muta in modo evidente fisionomia 2.
L’esecuzione della sentenza penale di condanna diventa una vera e propria fase procedimentale, che
si sviluppa allorquando si esaurisce la fase della cognizione.
Il concetto stesso di processo risulta così dilatato, oltre i tradizionali limiti della res iudicata, fino a ricomprendere ogni attività che si renda necessaria per dare attuazione alla decisione irrevocabile del
giudice.
Tramonta, dunque, l’era in cui la pronuncia giudiziale è connotata da una rigorosa immutabilità e
1
O. Mazza, Il giudice ed il procedimento di esecuzione, in P. Corso (a cura di), Esecuzione penitenziaria, Bologna, 2006, pp. 347348, osserva, infatti, che «Il legislatore delegato si è mosso, dunque, verso una riedificazione dell’esecuzione penale conforme ai
criteri direttivi enunciati dalla legge n. 81 del 1987 e fondata sulla raggiunta consapevolezza che l’attuazione del giudicato non
può più essere riduttivamente intesa come una mera attività amministrativa, dovendo, al contrario, assurgere al rango di vera e
propria fase terminale del procedimento penale».
2
Sul tema, diffusamente, F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, p. 8 ss.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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si apre il varco ad un giudicato «flessibile, malleabile» 3, capace di recepire esigenze di giustizia sostanziale.
Da siffatte premesse concettuali, che influenzano in modo essenziale il legislatore del 1988, si muove
anche la giurisprudenza che, con un lavorio ininterrotto, ma che negli ultimi anni si è fatto sempre più
significativo, ha cercato di estendere i margini di revocabilità del giudicato penale.
L’analisi che segue, lungi dal possedere connotati di completezza ed esaustività, si pone l’obiettivo
di segnalare alcune complesse questioni che riguardano la fase dell’esecuzione penale (con esclusivo
riguardo alle funzioni di controllo del giudice sui presupposti e le condizioni legali per l’attuazione del
comando contenuto nel provvedimento irrevocabile, escludendo, pertanto, i compiti propri della magistratura di sorveglianza), ove emerge la difficoltà di bilanciare contrapposte posizioni tese a limitare
ovvero ad estendere l’intervento giurisdizionale in detta sede.
L’intento proposto, in ragione della complessità della materia, oltre che delle argomentazioni sviluppate dai diversi interventi della giurisprudenza europea, costituzionale e di legittimità è teso non
certo a sviscerare le singole questioni proposte, quanto piuttosto a cercare di tratteggiare i nuovi confini
che sembra aver raggiunto il concetto di giudicato penale.
Le vicende che caratterizzano le soluzioni interpretative offerte, pur nelle rispettive peculiarità, non
impediscono, infatti, di scorgere una direttiva comune in cui all’attività di esecuzione del comando giurisdizionale viene affidata una funzione centrale i cui margini di definizione sono in continuo divenire,
sollecitando, in tal modo, una sempre maggiore attenzione degli interpreti e degli operatori del diritto
verso una porzione del procedimento penale che ha, fino ad ora, evitato le “luci della ribalta”.
Emerge, altresì, una ostinata “latitanza” del legislatore, il quale, però, sarà costretto a porre mano alla materia, che non può, come oggi accade, essere governata dal “diritto giurisprudenziale”.
INAMMISSIBILITÀ DELLE IMPUGNAZIONI TARDIVE, FORMAZIONE DEL GIUDICATO, EFFETTI SUL PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE: LA LETTURA DELLE SEZIONI UNITE BUTERA
I criteri volti a identificare quando un provvedimento sia irrevocabile ed esecutivo costituiscono i primi
ed imprescindibili strumenti di interpretazione necessari per delineare i confini di operatività della fase
esecutiva.
Tali qualità, infatti, segnano il raggiungimento della fase terminale del giudizio di cognizione, ove la
decisione, acquistando il carattere dell’immutabilità, assume la veste di cosa giudicata formale.
Il reticolo normativo è costruito sulle disposizioni contenute negli artt. 648, 649 e 650 c.p.p.
L’art. 648, comma 1, c.p.p. definisce irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali
non sia ammessa altra impugnazione che la revisione. Se è ammessa l’impugnazione ordinaria, l’irrevocabilità matura quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile (art. 648, comma 2, c.p.p.). In modo similare, il decreto penale di
condanna diventa irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione o
quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile (art. 648, comma 3, c.p.p.). Qualora, infine, sia stato promosso ricorso per cassazione, il provvedimento acquisisce l’irrevocabilità dal giorno in
cui è pronunciata ordinanza o sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso (art. 648, comma
2, c.p.p.).
Al raggiungimento del crisma della irrevocabilità si accompagna l’esecutività, intesa come capacità
del provvedimento di essere messo in esecuzione 4 (art. 650 c.p.p.).
3
G. Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, 2004, p. 45, il quale sottolinea che «… l’idea di certificare il processo con il
suo risultato costituisce oggi non più che un dato storico, a fronte della necessità, unanimemente condivisa, di garantire
un’adeguata profilassi dell’errore giudiziario: il giudicato diviene, allora, istituto flessibile, malleabile, aperto alle verifiche
qualora ve ne sia comprovata necessità in bonam partem; evoca, cioè, un accertamento irrevocabile, ma non in modo assoluto ed
indiscriminato».
4
A.A. Sammarco, Il controllo del giudice dell’esecuzione sul titolo, in L. Kalb (a cura di), Trattato di procedura penale, Esecuzione e
rapporti con autorità giurisdizionali straniere, Milano, 2009, p. 182, il quale sottolinea come «… attraverso l’esecutività avviene la
trasformazione della verità di fatto condensata nel provvedimento giurisdizionale irrevocabile nella verità di diritto del
giudicato». Cfr. anche F. Corbi-F. Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, pp. 14-15, i quali puntualizzano che «Il
sintagma “forza esecutiva” compare nell’art. 650 c.p.p., e il relativo concetto palesa la necessità giuridica di attuare il comando
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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Si tratta di concetti, tra loro, intimamente interconnessi in cui il primo, di norma, appare essere necessario corollario dell’altro 5.
Nella prospettiva volta all’analisi delle questioni più controverse che abbiano un significativo riflesso sulla fase esecutiva, un problema assai delicato si pone in relazione alle ipotesi di impugnazione
inammissibile in quanto tardiva.
Il punctum dolens lambisce, invero, solo di riflesso la fase dell’esecuzione penale, ma con conseguenze che non si possono che definire significative.
I differenti indirizzi interpretativi sul punto, che hanno sollecitato un recente intervento della Suprema Corte, a Sezioni Unite, tendono, infatti, ad ampliare ovvero a circoscrivere i poteri riconosciuti al
giudice nella fase de qua. Gli approdi giurisprudenziali che sono prevalsi confermano, invero, la tendenza ad una maggiore valorizzazione del segmento procedimentale volto all’esecuzione penale, valorizzazione che si manifesta in un sensibile ampliamento delle facoltà di intervento dell’autorità giudiziaria in detta sede a discapito della intangibilità del giudicato.
Le difficoltà hanno origine dalle divergenti letture ermeneutiche in ordine alla indicazione del raggiungimento dell’irrevocabilità dei provvedimenti giudiziali, letture che derivano dalla apparente intelligibilità del precetto contenuto nell’art. 648 c.p.p., che indica siffatto momento nel decorso dei termini validi per proporre una impugnazione ordinaria ovvero per impugnare l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’impugnazione stessa.
Un primo orientamento considera irrevocabile la decisione, allorquando sia decorso il termine valido per impugnare 6.
Altro, invece, ritiene di dover identificare detto termine con il raggiungimento della irrevocabilità
della ordinanza dichiarativa della inammissibilità 7.
Anche in dottrina taluni ritengono che l’art. 648, comma 2, c.p.p. individui in modo differente il raggiungimento della irrevocabilità del provvedimento a seconda che l’impugnazione sia inammissibile
per tardività o per altra causa: nel primo caso la sentenza diviene irrevocabile allo scadere del termine
per impugnare ed indipendentemente dalla pronuncia del provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità; se l’impugnazione è, invece, inammissibile per ragioni differenti rispetto al decorso del termine,
occorre attendere la dichiarazione di inammissibilità ad opera del giudice dell’impugnazione e l’inoppugnabilità del relativo provvedimento 8.
Altri, al contrario, negano che il precetto citato consenta distinzioni tra cause di inammissibilità ai ficontenuto nella decisione giudiziale; denota, cioè, l’esigenza imprescindibile che il provvedimento, una volta emanato, sia nella
condizione di realizzare il contenuto di volontà espresso nel comando».
5
Cfr., sul tema, F. Corbi-F. Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, cit., p. 9 ss.
6
Cass., sez. I, 24 giugno 2014, n. 35503, in CED Cass., n. 260287, secondo cui la sentenza penale acquista il crisma
dell’irrevocabilità e, dunque, deve essere eseguita dal pubblico ministero, quando è inutilmente decorso il termine per proporre
ricorso per cassazione, a nulla rilevando che quest’ultimo sia stato tardivamente proposto, giacché, a volere opinare in senso
contrario, se ne dovrebbe inferire che la presentazione di un atto di impugnazione fuori termine sarebbe sempre sufficiente a
impedire la formazione del giudicato formale; Cass., sez. IV, 8 marzo 2000, n. 1073, in CED Cass., n. 215887; Cass., sez. IV, 19
aprile 2000, n. 1693, in CED Cass., n. 216584; Cass., sez. IV, 29 novembre 2000, n. 4867, in CED Cass., n. 219060. In precedenza
Cass., sez. un., 25 febbraio 2004, n. 24246, in CED Cass., n. 227681. Si segnala, altresì, Cass., sez. I, 13 maggio 2014, n. 44236, in
CED Cass., n. 260714, secondo cui non è necessaria, ai fini della formazione del titolo esecutivo e della legittima emissione
dell’ordine di carcerazione, l’attestazione del cancelliere in calce alla sentenza circa l’avvenuto passaggio in giudicato di essa,
allorché tale fatto non sia controverso, poiché l’efficacia esecutiva è una caratteristica intrinseca della sentenza divenuta
irrevocabile e l’attestazione di cancelleria un mero adempimento amministrativo di carattere interno, previsto a tutt’altri fini
dall’art. 27 del Regolamento di esecuzione del codice di procedura penale, approvato con d.m. 30 settembre 1989, n. 334.
7
Cass., sez. VI, 2 ottobre 2002, n. 37738, in CED Cass., n. 222850, secondo cui dalla lettura coordinata degli artt. 648, comma
2, e 591, comma 2, c.p.p. emerge che quando una impugnazione diversa dalla revisione sia ammessa dall’ordinamento, la
sentenza diventa automaticamente irrevocabile soltanto nel caso in cui non sia stata affatto proposta impugnazione, mentre in
presenza d’impugnazione, anche se tardiva, il passaggio in giudicato si realizza soltanto allorché sia divenuto definitivo il
provvedimento che dichiari inammissibile l’impugnazione. La declaratoria di inammissibilità spetta al giudice dell’impugnazione (art. 591, comma 2, c.p.p.), giacché anche la pronuncia di tardività richiede una verifica e una decisione, di competenza
esclusiva del predetto giudice. La diversa interpretazione implica che ogni questione sulla tempestività dell’impugnazione
diventerebbe automaticamente materia di incidente di esecuzione, nel senso che quando l’impugnazione appare tardiva la
competenza a decidere non spetterebbe al giudice ad quem, bensì al giudice dell’esecuzione. In tal modo verrebbe in gran parte
vanificata la previsione dell’art. 591 c.p.p., innovativa rispetto alla disciplina del vecchio codice.
8
B. Lavarini, L’esecutività della sentenza penale, Torino, 2004, p. 67; G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, 2010, Torino, p. 771 ss.
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ni dell’individuazione del momento di irrevocabilità della sentenza: la prima parte del comma 2 dell’art. 648 c.p.p., laddove precisa che, se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è
inutilmente decorso il termine per proporla, sarebbe, infatti, riferibile alla sola ipotesi in cui nessuna
impugnazione sia stata promossa; negli altri casi, ivi compresi quelli di tardività del gravame, la sentenza diventerebbe irrevocabile solo con l’inoppugnabilità del provvedimento che la dichiara inammissibile ovvero quando tale provvedimento è pronunciato dalla corte di cassazione 9.
È evidente, come l’accoglimento dell’uno o dell’altro indirizzo incida grandemente ai fini della disamina in oggetto, nella misura in cui, optando per ciascuna delle diverse scelte interpretative, si negherebbe, in un caso, un margine di intervento sulla sentenza da parte del giudice dell’impugnazione, con la
conseguenza che le relative questioni sulla pena, ove consentito, sarebbero tutte devolute al giudice dell’esecuzione; ammettendolo, nel caso opposto, si circoscriverebbe l’ambito di azione in executivis.
Le Sezioni Unite, di recente, hanno ribadito il principio, sviluppato, come prima accennato, anche da
precedente giurisprudenza, secondo cui in presenza di una impugnazione tardivamente proposta non
si instaura un valido rapporto processuale, dal momento che il decorso del termine ha già trasformato il
giudicato formale in giudicato sostanziale, con la conseguenza che l’inammissibilità derivante da inosservanza del termine per impugnare inibirebbe al giudice di potersi pronunciare su qualsiasi questione
attinente il provvedimento. La tardività determina, infatti, a parere della Corte, l’assenza di un presupposto essenziale, legislativamente previsto, da cui si trae l’inidoneità dell’atto ad introdurre il giudizio
di impugnazione. Si è in presenza di un «simulacro di gravame che il provvedimento giudiziale di
inammissibilità, per sua natura dichiarativa, rimuove dalla realtà giuridica fin dal momento della sua
origine» 10.
Il disposto di cui all’art. 648, comma 2, c.p.p. deve, dunque, alla luce di siffatto indirizzo, essere interpretato nel senso che il riferimento all’ordinanza di inammissibilità, quale termine da cui far discendere l’irrevocabilità della decisione giudiziale, riguarda ipotesi di inammissibilità diverse dalla tardività dell’impugnazione. Ne discende, quale corollario indefettibile, che la sentenza penale è irrevocabile e
deve, pertanto, essere eseguita dal pubblico ministero, quando sia inutilmente decorso il termine per
proporre impugnazione, anche nel caso in cui questa sia stata tardivamente proposta, poiché, altrimenti, la presentazione di un atto di impugnazione, fuori termine, sarebbe sempre sufficiente ad impedire
la formazione del giudicato formale.
In ragione delle esposte argomentazioni, il confine delineato attraverso la lettura offerta dalle Sezioni Unite segna il riconoscimento, in presenza di una impugnazione tardiva, della competenza ad incidere sulla pena solo da parte del giudice dell’esecuzione, pur nei limiti e con le prerogative allo stesso
attribuite, determinando in siffatta prospettiva una ulteriore erosione del crisma del giudicato.
GIUDICATO E PENA ILLEGALE: LA LETTURA DELLE SEZIONI UNITE BUTERA E SEZIONI UNITE BASILE
La giurisprudenza di legittimità ammette in modo pressoché concorde, anche in seguito all’intervento
delle Sezioni Unite Butera, la possibilità per il giudice dell’esecuzione di intervenire allo scopo di rimuovere la pena principale, allorquando essa sia inflitta in violazione dei parametri normativamente
fissati 11.
In particolare, al fine di definire il ruolo e la funzione del giudice, si è precisato che, in sede esecutiva, l’illegittimità della pena può essere rilevata solo se la sanzione inflitta non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero, se per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, salvo che non risulti
inesatto il calcolo attraverso cui essa è stata determinata (a meno che esso non sia frutto di errore macroscopico), poiché in siffatta ipotesi il vizio è censurabile solo con l’utilizzo degli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza.
9
A. Gaito-G. Ranaldi, Esecuzione penale, 2000, Milano, p. 45; G. Spangher, Impugnazione inammissibile e applicabilità dell’art. 129
c.p.p., in Dir. pen. proc., 1995, p. 568 ss.; E. Zappalà, L’impugnazione tardiva della sentenza penale nella pratica giurisprudenziale, 1985,
Milano, p. 101 ss.
10
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, inedita.
11
Cass., sez. I, 20 gennaio 2014, n. 14677, in CED Cass., n. 259733; Cass., sez. I, 23 gennaio 2013, n. 38712, in CED Cass., n.
256879; Cass., sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26117, in CED Cass., n. 253562; Cass., sez. I, 3 marzo 2009, n. 12453, in CED Cass., n.
243742; Cass., sez. I, 6 luglio 2000, n. 4869, in CED Cass., n. 216746.
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Alla luce di siffatti criteri la decisione di condanna ad una pena illegittima può essere rettificata in
executivis in caso di assoluta abnormità della sanzione; la pena sia frutto di un errore macroscopico non
giustificabile e non di argomentata, pur discutibile, valutazione; la sanzione sia oggetto di palese errore
di calcolo, da cui deriva la sostanziale illegalità della pena inflitta 12.
Il fondamento giuridico di siffatto potere, secondo la Suprema Corte, è rinvenibile nell’art. 1 c.p.,
laddove si enuncia il principio di legalità della pena e, seppur in modo implicito, nell’art. 25, comma 2,
Cost., precetti che informano l’intero sistema penale e non possono ritenersi operanti solo ed esclusivamente in sede di cognizione 13.
I giudici riconoscono, però, al contempo, un limite che non può essere superato nella fase post iudicatum ossia l’illegalità del comando contenuto nella sentenza non deve essere frutto di un errore di valutazione del giudice della cognizione in presenza del quale si conferma l’intangibilità della firmitas della
decisione.
La Corte, a Sezioni Unite, in una decisione successiva, ha riconosciuto al giudice dell’esecuzione il
medesimo potere anche in riferimento all’ipotesi di pena accessoria applicata extra o contra legem da
parte del giudice della cognizione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile senza alcuna
discrezionalità) nella specie e nella durata e non derivi da un errore valutativo del giudice di merito 14.
Sul punto, infatti, si sono formati due opposti indirizzi giurisprudenziali, che hanno, dunque, necessitato l’intervento del Supremo consesso.
Il primo, invero, maggioritario ritiene possibile che si effettui la correzione, in sede esecutiva,
dell’errore nell’irrogazione della pena accessoria, sempre che essa sia predeterminata nell’an e nel quantum e non richieda l’esercizio di poteri discrezionali da parte del giudice dell’esecuzione 15.
L’orientamento contrario considera non deducibile con il rimedio dell’incidente di esecuzione l’errore commesso dal giudice di cognizione nell’applicare con la sentenza di condanna le pene accessorie,
trattandosi di una modifica sostanziale del dictum, possibile solo nel giudizio di cognizione attraverso
l’esperibilità del rimedio dell’impugnazione ordinaria 16.
Il principio di diritto elaborato dalla Suprema Corte, che accoglie l’orientamento più ampio, è
espressione del progressivo, seppur lento, processo che ha portato ad un sempre maggiore riconoscimento di interventi in executivis, processo destinato, ovviamente, ad incidere, riducendone l’ampiezza,
sul concetto di non modificabilità della sentenza irrevocabile.
La sacralità del giudicato cede, dunque, il passo all’esigenza, costituzionalmente garantita, che la
pena attui un fine rieducativo, in ossequio all’art. 27, comma 3, Cost. Non sarebbe, infatti, accettabile né
tanto meno conforme ai canoni fondamentali del nostro ordinamento giuridico permettere una restrizione illegittima della libertà personale di un individuo solo al fine di proteggere l’area di irrevocabilità
di una sentenza.
È certo essenziale definire, però, gli ambiti ed i limiti dell’intervento sul giudicato ad opera del giudice dell’esecuzione, onde evitare che siffatti poteri eccedano al punto da interferire con le decisioni discrezionali operate dal giudicante in sede di cognizione.
12
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, in Proc. pen. giust., 2016, n. 2, p. 32, secondo cui l’illegalità della pena, non
rilevabile d’ufficio in sede di legittimità in presenza di ricorso inammissibile perché presentato fuori termine, è deducibile
davanti al giudice dell’esecuzione. Tale soluzione, per altro, oltre a garantire il rispetto del principio di legalità ai sensi dell’art. 1
c.p. e della funzione della pena delineata dall’art. 27 Cost., appare in linea con le coordinate fondamentali del nostro sistema
processuale, rispettando la formazione del giudicato e l’intangibilità dell’accertamento processuale allorché sia trascorso il
termine per proporre ricorso per cassazione. Né è invocabile, nel caso in esame, l’art. 619 c.p.p., in quanto il potere della corte di
cassazione di rettificazione del provvedimento impugnato non può essere esercitato in presenza di un ricorso inammissibile.
13
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 47766, cit., secondo cui, tra l’altro, l’applicazione di pena illegale, per errore nella
determinazione o nel calcolo di essa, non configura un caso di inesistenza giuridica o abnormità del provvedimento che la
dispone, e, ove la sua determinazione sia frutto non di argomentata valutazione, ma di palese errore giuridico o materiale da
parte del giudice della cognizione, se ne impone la rettifica e la correzione da parte del giudice dell’esecuzione, adito ai sensi
dell’art. 666 c.p.p., nel rispetto dei principi contenuti nell’art. 25, comma 2, Cost. e nell’art. 7 Cedu, i quali escludono la
possibilità di infliggere una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
14
Cass., sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240, in CED Cass., n. 262327.
15
Cass., sez. I, 30 gennaio 2013, n. 7346, inedita; Cass., sez. VI, 12 dicembre 2012, n. 49236, in CED Cass., n. 253970; Cass., sez.
I, 3 novembre 2012, n. 1800, in CED Cass., n. 254288.
16
Cass., sez. I, 10 maggio 2011, n. 33086, in CED Cass., n. 250672; Cass., sez. I, 19 febbraio 2009, in CED Cass., n. 243740; Cass.,
sez. I, 20 marzo 2007, n. 14007, in CED Cass., n. 236213.
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Le linee guida che ispirano i giudici di legittimità nella sentenza Basile sono ricavate dal sistema e
sono enucleabili in due principi.
Non può che essere esclusa l’emendabilità in sede di esecuzione, allorquando il giudice della cognizione si sia già pronunciato e sia pervenuto, sebbene in modo erroneo, a conclusioni che abbiano determinato l’applicazione di una pena accessoria illegale. In siffatta fattispecie, trattandosi di una erroneità di valutazione, è ammesso il sindacato solo attraverso l’utilizzo dei mezzi ordinari di impugnazione, interpretazione che, invero, conferma l’approccio ermeneutico elaborato sul punto anche nell’ipotesi in cui l’illegalità riguardi la pena principale.
L’intervento del giudice dell’esecuzione è, inoltre, consentito solo quando esso non implichi valutazioni discrezionali in ordine alla specie ed alla durata della pena accessoria 17.
Tale diversità di poteri rispetto al giudice di merito, oltre ad essere in linea con la funzione della fase
dell’esecuzione, non appare neppure in contrasto con il parametro evocato nell’art. 24 Cost., poiché in
executivis le prerogative del giudice sono, comunque, ispirate, pur nella maggiore flessibilità ad esso riconosciuta, al criterio della intangibilità del giudicato e consistono nel rideterminare il trattamento sanzionatorio sulla base di un “criterio oggettivo” meno discrezionale di quello attribuito al giudice della
cognizione.
GIUDICATO E VIOLAZIONE DI UNA NORMA CONVENZIONALE: LA LETTURA DELLE SEZIONI UNITE ERCOLANO
Riveste estremo rilievo, anche nella prospettiva in questa sede affrontata, l’ipotesi di un titolo esecutivo
“ingiusto”, in quanto formatosi in violazione dei principi della Cedu, qualora l’inosservanza riguardi il
diritto sostanziale.
Sul tema, in ragione della delicatezza e degli importanti riflessi insiti nella problematica in esame,
sono intervenute le Sezioni Unite Ercolano 18, le quali hanno avuto il compito di verificare se il giudice
dell’esecuzione, in attuazione dei canoni interpretativi espressi dalla Corte e.d.u. nella sentenza Scoppola c. Italia, possa modificare il giudicato, applicando, nella successione di leggi intervenute in materia, quella più favorevole.
La richiamata pronuncia dei giudici europei propone, infatti, una innovativa lettura dell’art. 7 Cedu,
affermando che detta norma non presenta solo una valenza negativa, garantendo il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma contiene anche un riflesso positivo, nella misura in cui impone l’applicazione della legge sopravvenuta più favorevole.
In virtù di siffatta lettura il principio di retroattività in mitius costituisce, dunque, un corollario del
canone di legalità, consacrato nell’art. 7 Cedu, il quale, riguardando le sole disposizioni che prevedono i
reati e le relative sanzioni, mostra un’area di operatività più angusta rispetto a quanto sancito nell’art.
2, comma 4, c.p., il quale, in tema di successioni delle leggi nel tempo, richiama, in modo più generico,
ogni disposizione penale successiva alla commissione di un fatto e favorevole al reo, in quanto incidente sul complessivo trattamento riservato al medesimo.
Il primo rilievo che emerge dalla lettura della decisione in analisi riguarda la necessità di comprendere in che modo possano assumere importanza nell’ambito dell’ordinamento interno ed in deroga alla
firmitas riconosciuta al giudicato le violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, accertate dalla Corte di Strasburgo.
17
Cass., sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240, in CED Cass., n. 262327, in particolare, sul punto precisa che anche in tutte le
ipotesi previste dall’art. 37 c.p. deve, pertanto, ritenersi consentito l’intervento in executivis: pur non essendo la durata della
pena accessoria predeterminata dalla legge, è possibile, infatti, determinarla con certezza ed automaticamente (senza alcuna
valutazione discrezionale del giudice dell’esecuzione), sulla base della durata della pena principale inflitta dal giudice della
cognizione, tenendo conto dei limiti invalicabili previsti per ciascuna specie.
18
Cass., sez. un., 7 maggio 2014, n. 18821, in Cass. pen., 2015, pp. 28 e ss., secondo cui la pena dell’ergastolo inflitta all’esito del
giudizio abbreviato, richiesto dall’interessato in base all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore
della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere
ulteriormente eseguita, essendo stata quest’ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di
legalità convenzionatale di cui all’art. 7, § 1, Cedu, come interpretato dalla Corte e.d.u., e dichiarata incostituzionale per contrasto
con l’art. 117, comma 1, Cost. Il giudice dell’esecuzione, investito del relativo incidente ad istanza di parte e avvalendosi dei suoi
poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione, è legittimato a sostituirla, incidendo sul giudicato, con
quella di anni trenta di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della richiesta del rito semplificato.
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Invero, l’approdo ermeneutico a cui sono pervenuti i giudici sovranazionali, nel caso di specie, non
può ritenersi circoscritto, secondo le Sezioni Unite, al singolo caso concreto, poiché nel cogliere ed
esplicitare il più pregnante significato della norma convenzionale enuncia un principio di portata generale astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella già esaminata.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, di fronte a pacifiche violazioni di carattere oggettivo e generale,
già stigmatizzate in sede europea, il mancato esperimento di un ricorso individuale e la conseguente
mancanza di uno specifico dictum della Corte e.d.u. cui dare esecuzione, non possono essere considerati
un ostacolo «ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando […] il valore della intangibilità del
giudicato».
L’istanza di legalità della pena è un tema che, a parere delle Sezioni Unite, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice e non può trovare un limite nel dato formale della irrevocabilità del
provvedimento giudiziale «non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto assista inerte
all’esecuzione di pene non conformi alla Cedu e, quindi, alla Carta fondamentale» 19. Eventuali effetti
determinati da una illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale interpretata in senso non convenzionalmente orientato, devono, dunque, essere rimossi e spetta al legislatore
apprestare strumenti idonei a porre rimedio a situazioni formalmente consolidate. Nel bilanciamento il
diritto fondamentale della libertà personale prevale, in questo caso, sul valore costituzionale dell’intangibilità del giudicato.
Di fronte, però, alla protratta inerzia del legislatore, che si mostra del tutto insensibile alle sollecitazioni dei giudici europei circa la necessità di una più incisiva tutela dei diritti fondamentali, la giurisdizione, secondo la Corte, è chiamata a farsi carico del problema, utilizzando spazi di operatività della
normativa vigente, che, benché non chiaramente evidenziati, sono in essa impliciti.
I giudici, pertanto, si pongono l’ulteriore obiettivo di individuare lo strumento processuale attraverso cui effettuare siffatto intervento correttivo sul giudicato e la scelta ricade sull’incidente di esecuzione
essendo necessario intervenire solo sul titolo esecutivo sostituendo la pena inflitta con quella conforme
alla Cedu, già determinata nella misura e nella specie.
È, dunque, sull’art. 30, comma 4, legge 11 marzo 1953, n. 87, che prescrive la cessazione dell’esecuzione e di tutti gli effetti penali di una sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione
di una norma dichiarata incostituzionale che viene individuata l’origine del potere di intervento sul titolo esecutivo da parte del giudice nella fase post iudicatum.
Al fine, però, che possa legittimarsi l’attivazione del procedimento de quo sono necessarie, secondo i
giudici, che sussistano le seguenti condizioni: la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte e.d.u.; la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve aver rilevato un vizio
strutturale della normativa interna sostanziale, che definisce le pene per determinati reati, in quanto
non coerente con il principio di retroattività in mitius; la possibilità di interpretare la normativa interna
in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria di incostituzionalità della medesima normativa; l’accoglimento della questione sollevata deve essere l’effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo.
Alla presenza dei menzionati requisiti il giudice dell’esecuzione, avvalendosi degli ampi poteri riconosciuti dagli artt. 665 e 670 c.p.p., deve limitarsi a ritenere ineseguibile la pena inflitta e sostituirla con
quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima riconducendo, in tal guisa, ad un regime di
piena legalità il trattamento sanzionatorio irrogato.
È, dunque, palese la portata innovativa contenuta nella decisione in analisi, decisione che contiene
una importante chiave di volta nell’approccio alle problematiche inerenti l’illegalità della pena e che
qualifica la fase dell’esecuzione come destinata a verificare costantemente la rispondenza del titolo esecutivo da eseguirsi ai parametri imposti dalla legge nella lettura convenzionalmente e costituzionalmente orientata.
19
Cass., sez. un., 7 maggio 2014, n. 18821, in Cass. pen., 2015, p. 28 ss., precisa, altresì, che la restrizione della libertà personale
del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13,
comma 2, 25, comma 2, Cost.) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma 3, Cost., profili che vengono
sicuramente vanificati dalla declaratoria d’incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta in
contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro imposto dall’art. 117, comma 1, Cost. E, allora s’impone un bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori, pure costituzionalmente presidiati, quale il
diritto fondamentale e inviolabile alla libertà personale, la cui tutela deve ragionevolmente prevalere sul primo.
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In tal senso si comprende come con essa si sia percepita la caduta del “mito del giudicato”, anche se,
invero, a ben vedere non pare essere questo il fine perseguito dai giudici di legittimità che, infatti,
rammentano come le operazioni devolute al giudice in executivis debbano essere sempre solo di natura
ricognitiva e non implicare una riapertura del processo, in modo da non invadere le funzioni del giudice della cognizione.
Tale confine costituisce una imprescindibile linea di demarcazione insuperabile, pur nell’affermazione di una nuova malleabilità del giudicato penale e che costituisce il trait d’union tra tutte le decisioni
sul tema, che, pur dalle differenti posizioni affrontate, confermano detto assunto in modo deciso e senza incertezze.
Altro aspetto di estremo rilievo è la constatazione, da parte dei giudici di legittimità, di una protratta
insensibilità del legislatore che costringe la giurisprudenza ad intervenire per cercare di risolvere le
problematiche sorte, pur nella consapevolezza di rivestire così un ruolo non proprio.
Ciò nonostante non pare che gli inviti ad una riconsiderazione della fase esecutiva siano stati accolti
e si paventano ancora lunghe stagioni in cui sarà la giurisdizione a dover costruire le linee guida in materia, con tutte le conseguenze pregiudizievoli che ciò comporta.
GIUDICATO ED ILLEGITTIMITÀ INCOSTITUZIONALE DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO: LA LETTURA
DELLE SEZIONI UNITE GATTO E DELLE SEZIONI UNITE MARCON
L’art. 673 c.p.p. consente al giudice dell’esecuzione, in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, di revocare la sentenza o il decreto penale di condanna, dichiarando
che il fatto non è previsto dalla legge come reato, adottando, altresì, tutti i provvedimenti conseguenti.
Il giudice interviene analogamente quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o sentenza di
non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità (art. 673, comma 2,
c.p.p.), al fine di consentire la rimozione degli effetti pregiudizievoli derivanti anche dall’emissione delle decisioni de quibus.
In tale ambito il legislatore ha, dunque, dato pieno riconoscimento al favor libertatis, consentendo un
travolgimento del giudicato di condanna.
Le difficoltà esegetiche, che hanno determinato la necessità di un recente intervento della Corte di
Cassazione, a Sezioni Unite, riguardano, invero, un’ipotesi, parzialmente differente rispetto a quella
esplicitamente menzionata nell’art. 673 c.p.p., ove la dichiarazione di illegittimità riguarda una norma
penale diversa da quella incriminatrice, ma idonea ad incidere, mitigandolo, sul trattamento sanzionatorio 20.
Si tratta, pertanto, di una eventualità non coincidente con quella normativamente disciplinata che
per espresso ed inequivoco dettato legislativo si riferisce solo alle norme penali incriminatici divenute
incostituzionali.
Sul punto si sono formati, in riferimento a vicende analoghe, due diversi orientamenti.
Il primo ritiene che, posta la non eseguibilità del giudicato di condanna per la parte riferibile all’applicazione di una circostanza aggravante colpita da declaratoria di illegittimità costituzionale, il giudice
dell’esecuzione possa intervenire sul titolo esecutivo ai fini della rideterminazione della pena, ma non
già ai sensi dell’art. 673 c.p.p., il quale si riferisce esclusivamente alle ipotesi in cui la dichiarazione de
qua colpisca l’intera fattispecie incriminatrice, bensì ai sensi dell’art. 30, comma 4, legge 11 marzo 1953,
20
Cfr. Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Dir. pen. proc., 2015, p. 175, ove si traggono i seguenti principi di diritto:
«Successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale
diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che
non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione». Ne consegue che: «Per effetto della sentenza della C.
cost. n. 251/2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui vietava di valutare
prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99,
comma 4, c.p., il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 666, comma 1, c.p.p. e in applicazione dell’art. 30, comma 4, legge 11
marzo 1953, n. 87, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata
esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile. Per effetto della
medesima sentenza della C. cost. n. 251/2012, è compito del pubblico ministero, ai sensi degli artt. 655, 656, e 666 c.p.p., di
richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta all’esito del nuovo giudizio di comparazione». Cfr. Cass., sez. I, 4 dicembre 2014, n. 53019, in CED Cass., n. 261581.
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n. 87. Siffatta disposizione non circoscrive in alcun modo, a parere dei giudici, né direttamente, né indirettamente, il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata in applicazione di una norma penale dichiarata, poi, incostituzionale 21.
Altro indirizzo, invece, esclude la rilevanza in sede esecutiva della dichiarazione di illegittimità di
una norma che preveda una circostanza aggravante, da cui deriverebbe l’immutabilità della pena inflitta ad esito del processo di cognizione 22.
Le Sezioni Unite Gatto hanno ritenuto di seguire la linea interpretativa più recente, che cerca di bilanciare il difficile rapporto tra il valore di intangibilità del giudicato e l’intollerabilità dell’esecuzione
di una sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima.
In primo luogo è assai significativo, in quanto costituisce il perno dell’intera decisione, il passaggio argomentativo in cui i giudici distinguono il fenomeno della successione delle leggi nel tempo, regolamentato dall’art. 2, comma 4, c.p. (ove si prescrive che, in caso di difformità tra la legge del tempo di commissione del fatto e le leggi posteriori, deve essere applicata la legge più favorevole al reo con il limite, però,
del raggiungimento del giudicato) ed il fenomeno della declaratoria di illegittimità costituzionale, che
causa, invece, una eliminazione ab origine del precetto, inficiandone fin dall’inizio efficacia e validità. Il limite alla permeabilità del giudicato in caso di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata deve essere individuato nella non reversibilità degli effetti, raggiunta nel momento in
cui gli stessi siano già “consumati”, come nell’ipotesi di soggetto che abbia scontato la pena 23.
La diversa incidenza sul giudicato in siffatte ipotesi appare del tutto ragionevole.
Rispondono, infatti, ad esigenze e motivazioni differenti e non cumulabili tra loro il mutamento di
disciplina attuato per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore ed il riconoscimento di illegittimità costituzionale di una certa disciplina che necessariamente travolge tutti i rapporti giuridici ed i fatti anche anteriori all’intervento della pronuncia de qua. L’uno costituisce un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico, l’altro palesa un evento di patologia normativa 24.
Lo strumento a cui ricorrere per raggiungere l’obiettivo di incidere su una pena che, in tal guisa, risulta illegale non è, però, contenuto nell’art. 673 c.p.p., che esaurisce la sua operatività nella possibilità
di revocare la sentenza di condanna allorquando sia venuto meno l’illecito penale per intervento del legislatore o della Corte costituzionale.
A tal fine è possibile utilizzare, secondo le Sezioni Unite, il potere riconosciuto al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 30, comma 4, legge n. 87 del 1953, che consente uno spettro di azione più ampio ed, in assenza di alcun limite letterale, permette di eliminare qualsiasi effetto pregiudizievole deri-
21
Cass., sez. I, 12 giugno 2012, n. 40464, inedita; Cass., sez. I, 25 maggio 2012, n. 26899, in CED Cass., n. 253084, secondo cui
l’interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 30, comma 4, l. 11 marzo 1953, n. 87, permette di ritenere che l’ambito
applicativo della norma non è limitato alla fattispecie incriminatrice intesa in senso stretto, ma riguarda qualunque parte della
condanna pronunziata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale e impedisce, perciò, anche solo una parte
dell’esecuzione della sentenza irrevocabile, quale appunto quella relativa alla porzione di pena irrogata; approdo interpretativo
che appare l’unico conforme al quadro costituzionale di riferimento e, in particolare, ai principi fissati dagli artt. 27 e 3 Cost., e
art. 25, comma 2, Cost.; Cass., sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, in CED Cass., n. 253338; Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, in
CED Cass., n. 252062.
22
Cass., sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640, in CED Cass., n. 253383.
23
Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Dir. pen. proc., 2015, p. 175, ove, tra l’altro, si sottolinea che «L’esecuzione della pena,
infatti, implica l’esistenza di un rapporto esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione
della pena. Sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, per definizione il rapporto esecutivo non può dirsi esaurito e gli effetti
della norma dichiarata costituzionalmente illegittima sono ancora perduranti e, dunque, possono e devono essere rimossi». Cfr.
Cass., sez. I, 26 giugno 2015, n. 32205, in CED Cass., n. 264620, secondo cui in sede esecutiva, l’interesse concreto ed attuale del
condannato ad ottenere la rideterminazione della pena applicata da sentenza irrevocabile, sulla base di parametri edittali più
favorevoli vigenti a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice,
sussiste non solo se la pena non sia stata ancora interamente revocata, ma anche quando una quota della pena espiata in eccesso
rispetto alla sopravvenuta cornice edittale più favorevole possa essere imputata alla condanna di un altro reato, in applicazione del
generale criterio di fungibilità previsto dall’art. 657 c.p.p.; Cass., sez. I, 28 agosto 2015, n. 32193, in CED Cass., n. 264257.
24
Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in Dir. pen. proc., 2015, p. 175, sottolinea che «La norma costituzionalmente
illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la
proiezione “retroattiva”, sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, già da essa disciplinati, della intervenuta
pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica la definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente invalida.
Una norma che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset».
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vante da condanna assunta sulla base di una norma, anche non incriminatrice, che abbia, però, avuto
incidenza sul trattamento sanzionatorio.
La necessità di accedere a siffatta chiave interpretativa è generata dalla tendenza, sempre più emergente nella giurisprudenza attuale, che tende a riconoscere una maggiore flessibilità al giudicato. La
nuova lettura dell’art. 30, comma 4, legge n. 87 del 1983 s’impone, dunque, «… nell’ambito della nitida
emersione della differente incidenza sull’ordinamento della successione della legge nel tempo per effetto di una nuova valutazione storico-politico-sociale del legislatore e della declaratoria di illegittimità
costituzionale per invalidità della norma dovuta a violazione della Costituzione».
Lo strumento processuale entro cui veicolare il potere del giudice dell’esecuzione è il modello delineato ai sensi dell’art. 666 c.p.p.
Nell’esercizio del suo compito, però, l’organo giudiziario non ha la stessa libertà del giudice della
cognizione, per cui le valutazioni dallo stesso assunte non potranno mai contraddire quelle in precedenza formulate e risultanti dal testo della sentenza irrevocabile. Ai fini dell’indagine suddetta, qualora
risultasse necessario, è possibile esaminare gli atti processuali, ai sensi dell’art. 666, comma 5, c.p.p., che
autorizza il giudicante, anche d’ufficio, ad acquisire i documenti e le informazioni e, quando occorre,
assumere prove nel rispetto del principio del contraddittorio.
Con una successiva pronuncia le Sezioni Unite Marcon 25 hanno sviluppato l’impostazione tracciata
con la decisione citata, al fine di verificare se possa essere riconosciuto un analogo potere di rideterminazione della pena al giudice dell’esecuzione nell’ipotesi di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, allorquando sia intervenuta una declaratoria di incostituzionalità che incida sui limiti edittali ed, eventualmente, quali confini debbano essere riconosciuti a siffatto potere di riquantificazione, se cioè si debba utilizzare un mero criterio aritmetico-proporzionale ovvero se si possa rivalutare
la congruità e la correttezza della sanzione irrogata dal giudice della cognizione avvalendosi dei criteri
di cui agli artt. 132 e 133 c.p.
Sulla scia dell’indirizzo interpretativo che le decisioni dei giudici di legittimità hanno definito in tema di giudicato si ritiene acquisito il principio che debba essere garantita la legalità della pena anche
nella fase dell’esecuzione, almeno fino a quando essa non sia stata interamente eseguita.
In ordine alla definizione dei limiti e del contenuto del potere di intervento del giudice, la Suprema
Corte osserva che potrebbe essere utilizzato lo strumento contenuto nell’art. 188 norme att. c.p.p., che
permette di intervenire in executivis al fine di riconoscere la continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili pronunciate ai sensi dell’art. 444 c.p.p. In assenza di specifici rimedi l’utilizzo
analogico del precetto in esame consente, infatti, di intervenire sulla pena illegale e di assicurare alle
parti la possibilità di rinnovare l’accordo, in modo da non snaturare l’intima natura dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti.
Nel caso in cui il giudice dell’esecuzione non ritenesse congrua la nuova quantificazione della sanzione, non potendo limitarsi a rigettare l’accordo, il cui effetto sarebbe di confermare una pena illegale,
dovrà rideterminare la stessa utilizzando i criteri indicati agli artt. 132 e 133 c.p., secondo i canoni di
adeguatezza e di proporzionalità che tengano conto della nuova perimetrazione sanzionatoria. Siffatta
operazione, pur prescindendo dall’accordo delle parti, non potrà, però, eludere la richiesta che ha dato
avvio al procedimento di esecuzione ossia la sensibile differenza delle cornici edittali che impone, come
è ovvio, risposte sanzionatorie differenti ed individualizzate.
Il pericolo che si cela dal percorso tracciato dai giudici di legittimità in entrambe le decisioni, seppur
sommariamente analizzate, è quello di attribuire alla giurisprudenza un ruolo di creazione del diritto
che spetta, invece, solo al legislatore 26.
25
Cass., sez. un., 15 settembre 2015, n. 37107, inedita, secondo cui la pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente
ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73, d.p.r. 309 del 1990, relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima
della sent. n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale. La
rideterminazione avviene ad iniziativa delle parti, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 norme att. c.p.p.,
sottoponendo al giudice dell’esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo. In caso di mancato accordo o di
pena concordata non congrua il giudice dell’esecuzione provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi
degli artt. 132 e 133 c.p.
26
Per un approfondimento cfr. M. Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una
parte, in Cass. pen., 2015, p. 87, il quale osserva «In mancanza di un intervento legislativo, che introduca una previsione
legislativa che renda concretamente ammissibile l’incidente di esecuzione per ottenere l’eliminazione della pena irrogata in
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Sono di certo condivisibili le motivazioni che spingono la Suprema Corte ad andare al di là del ruolo
ad essa affidato, le istanze di tutela della libertà personale a vantaggio della certezza dei rapporti giuridici definiti costituiscono un imput significativo, di fronte al quale è difficile rimanere inerti 27.
Lascia, ancora una volta, assai perplessi la protratta inerzia ed il silenzio di chi è chiamato a legiferare che non può e non deve più rimanere insensibile alla delicatezza dei temi trattati.
GIUDICATO E DEPENALIZZAZIONE
La revoca della sentenza di condanna 28 o del decreto penale di condanna nel caso di abrogazione del
reato riveste, come già in precedenza accennato, un ruolo centrale nell’ambito della fase esecutiva e
trova la sua esplicita disciplina ai sensi dell’art. 673 c.p.p. Il medesimo precetto prescrive che il giudice
provvede in modo analogo quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o sentenza di non luogo
a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità (art. 673, comma 2, c.p.p.), al fine di
consentire la rimozione degli effetti pregiudizievoli derivanti anche dall’emissione delle decisioni de
quibus 29.
La finalità, sottesa al disposto de quo, trova le sue radici nella necessità di adeguare il comando
espresso nel provvedimento giudiziale con il mutato quadro normativo e viene considerato un fenomeno del tutto fisiologico all’interno dell’ordinamento giuridico.
Alla luce delle evidenti ragioni di giustizia che sorreggono la ratio del precetto in esame, parrebbe
opportuno sganciare l’esercizio del potere di revoca dalla presenza di una richiesta di parte, sempre necessaria, salvo esplicita eccezione, per attivare l’intervento dell’autorità giudiziaria nella fase esecutiva
(art. 666, comma 1, c.p.p.), in modo da consentire anche al giudice un potere d’ufficio ai fini della rapida emissione del provvedimento assolutorio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato 30 e
dell’adozione dei provvedimenti conseguenti 31.
rapporto alla norma penale non incriminatrice dichiarata incostituzionale, la lacuna assiologica può essere colmata soltanto
dalla Corte costituzionale attraverso una sentenza additiva, che dichiari costituzionalmente illegittima l’assenza di una norma la
cui esistenza la Corte ritiene costituzionalmente necessaria; costituendo così la lacuna assiologica l’oggetto della sentenza
medesima».
27
Per completezza si segnala un nuovo arresto delle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 29 ottobre 2015, p.m. in proc. c. Mraidi
Adel) in favore della revoca della sentenza di condanna per pena illegale in caso di abolitio criminis non rilevata dal giudice della
cognizione. La questione devoluta alla Corte e risolta positivamente, quantunque al momento non si conoscano ancora le motivazioni, consente al giudice dell’esecuzione di revocare, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., la sentenza di condanna pronunciata dopo
l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la fattispecie incriminatrice, allorché l’evenienza della abolitio criminis non sia stata
presa in esame dal giudice della cognizione.
28
Nel senso di estendere l’efficacia del disposto di cui all’art. 673 c.p.p. anche alle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444
c.p.p., Cass., sez. I, 19 ottobre 2007, n. 42407, in CED Cass., n. 237969; Cass., sez. I, 20 novembre 2006, in Cass. pen., 2008, p. 1132.
29
F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, pp. 282-283, i quali osservano che «In quest’ottica, tuttavia, va messa in luce la differenza di fondo che corre tra i due casi previsti dall’art. 673, comma 2, c.p.p. Sono piuttosto esigue le
ricadute negative che trovano origine nelle sentenze con le quali il reato è dichiarato estinto; l’interesse tutelato, quindi, è soprattutto di natura morale e si manifesta nell’aspirazione della formula assolutoria secondo cui “il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Ben diverso è il quadro per le sentenze dichiarative della non imputabilità, essendo qui evidente il pregiudizio
che ne può derivare in capo al soggetto (si pensi solo all’applicazione di misure di sicurezza); di conseguenza, sul piano della
ratio legis, ha base più solida la previsione in tema di revoca». Cfr., pure, A. Scalfati, La pronuncia di abolitio criminis nel vigente
assetto delle esecuzione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 185.
30
F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, cit., pp. 280-281. Di contrario avviso, sul riconoscimento in siffatte ipotesi di un potere di impulso da parte del giudice dell’esecuzione F. Corbi-F. Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, cit., pp.
276-277.
31
Cfr. Cass., sez. I,19 gennaio 2015, n. 4461, in CED Cass., n. 262535, secondo cui in caso di “abolitio criminis” del reato per il
quale è intervenuta condanna, il giudice dell’esecuzione non può modificare l’originaria qualificazione o accertare il fatto in
modo difforme da quello ritenuto in sentenza, né sussumere la condotta del condannato sotto una diversa fattispecie, se la riconducibilità della condotta a detta fattispecie non ha mai formato oggetto di accertamento e di formale contestazione nel giudizio di cognizione; Cass., sez. I, 20 giugno 2006, n. 33817, in CED Cass., n. 261433, secondo cui il giudice dell’esecuzione, qualora, in applicazione dell’art. 673 c.p.p., pronunci per intervenuta “abolitio criminis” ordinanza di revoca di precedenti condanne,
le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, non
può, nell’ambito dei “provvedimenti conseguenti” alla stessa pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art. 164 c.p., esprimendo proprie e autonome valutazioni che si pongono in contrasto
con quelle già formulate dal giudice della cognizione.
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La revoca per abolitio criminis di una decisione di condanna implica, infatti, la cessazione di ogni altro effetto penale derivante dalla stessa, ivi comprese le eventuali pene accessorie. Sono, invece, escluse
dalle conseguenze demolitorie proprie della revoca in analisi le statuizioni contenute nella pronuncia
relative alla confisca, che costituisce una situazione giuridica ormai esaurita attraverso il trasferimento
del bene a titolo originario allo Stato, insuscettibile di essere neutralizzata con vicende successive e le
statuizioni relative al risarcimento del danno stabilito in favore della parte civile. La circostanza che il
fatto abbia perso rilevanza penale non incide sulla qualifica di illecito civile, che rimane inalterata 32.
L’operatività del disposto in parola, che, invero, come prima sottolineato, non costituisce un novum
nell’ambito delle attribuzioni devolute al giudice dell’esecuzione, assume oggi un interesse attuale in
ragione della depenalizzazione e della abrogazione di alcune fattispecie penali con la contestuale introduzione di illeciti puniti con sanzioni pecuniarie civili attuata, rispettivamente, con il d.lgs. 15 gennaio
2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione) 33 e con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in
materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili) 34.
L’art. 8, comma 1, d.lgs. n. 8 del 2016 contiene una norma di diritto intertemporale, quantunque la
legge di delega non abbia fornito indicazioni in tal senso, e prescrive che le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del decreto de quo, con l’esclusione dei procedimenti definiti con sentenza o
con decreto divenuti irrevocabili 35. Qualora i procedimenti penali relativi ai reati depenalizzati, in virtù
dei precetti in parola, siano stati già definiti, prima dell’entrata in vigore del relativo decreto legislativo,
con sentenza di condanna o con decreto penale di condanna irrevocabili, è previsto l’intervento del
giudice dell’esecuzione chiamato a revocare la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adottando i provvedimenti conseguenti (art. 8, comma 2, d.lgs. n. 8 del
2016).
È evidente il richiamo, seppur non esplicito, al precetto di cui all’art. 673 c.p.p.
Si rilevano, invero, difficoltà interpretative circa l’ambito di attribuzioni affidate in executivis in ordine ai “provvedimenti conseguenti” da assumere.
Si ritiene, infatti, di dover escludere che il giudice dell’esecuzione, oltre ad adottare i consueti provvedimenti che derivano dall’avvenuta abrogatio criminis, debba trasmettere gli atti all’autorità amministrativa, al fine di attivare in detta sede la conseguente fase accertativa destinata all’emissione di una
sanzione. Siffatta lettura sembrerebbe trovare conforto nella stessa lettera della legge, posto che l’art. 8,
comma 1, d.lgs. n. 8 del 2016 36 inibisce l’applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti ormai de32
In questi termini F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, cit., p. 283. In tema di confisca, cfr. Cass., sez. un., 28
gennaio 1998, Maiolo, in Foro it., 1998, p. 461.
33
L’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 8 del 2016 prevede che non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del
pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa e dell’ammenda. Sono
escluse le fattispecie contenute nel codice penale (fatto salvo gli artt. 527, comma 1, 528, commi 1 e 2, 652, 661, 668, 726 c.p.) e
quelle contenute nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero). Sono, altresì, esclusi gli atti normativi in materia di edilizia e urbanistica; ambiente, territorio e
paesaggio; alimenti e bevande; salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; sicurezza pubblica; gioco d’azzardo e scommesse; armi
ed esplosivi; elezioni e finanziamento ai partiti; proprietà intellettuale ed industriale. Sono, invece, depenalizzati ovvero
modificati gli artt. 8, comma 1, 11 e 12, legge 8 gennaio 1931, n. 234; artt. 171 quater, comma 1, e 171 sexies, comma 2, legge 22
aprile 1941, n. 633; art. 15, comma 2, legge 28 novembre 1965, n. 1329; art. 16, comma 4, d.l. 26 ottobre 1970, convertito, con
modificazioni, dalla legge 18 dicembre 1970, n. 1034; art. 2, comma 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con
modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638; art. 28, comma 2, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309.
34
L’art. 1, d.lgs. n. 7 del 2016 abroga gli artt. 485, 486, 594, 627 e 647. È, altresì, abrogata la fattispecie di danneggiamento non
aggravato di cui all’art. 635 c.p.
35
Cfr. Tribunale di Udine, 1 febbraio 2016, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, secondo cui con riferimento a tali fatti,
penalmente non più rilevanti, non vi è alcuna continuità normativa, ma una abolitio criminis che consente di ritenere applicabile,
nel caso di sentenza di condanna irrevocabile, la disposizione dell’art. 2, comma 2, c.p., in base alla quale nessuno può essere
punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e
gli effetti penali.
36
A conforto di tale lettura cfr. C. cost., sent. 31 maggio 2001, n. 169, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 101,
comma 2, d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio). Nella parte motiva la
Corte sottolinea, infatti, che «… nel quadro del programma di depenalizzazione perseguito con il decreto legislativo n. 507/1999, il
legislatore, attraverso una propria valutazione discrezionale, ha individuato le fattispecie che si prestavano, alla stregua di un
apprezzamento di minore gravità e disvalore, ad essere trasformate in mero illecito amministrativo. Ma una volta operate tali
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finiti con sentenza o decreto penale irrevocabili, indicando, pertanto, quale linea di confine invalicabile
il giudicato.
Il modello procedimentale, a cui ricorre il legislatore del 2016, ai fini della dichiarazione di revoca
prevede l’applicazione delle regole di cui all’art. 667, comma 4, c.p.p., in luogo di quelle indicate
nell’art. 666 c.p.p., che cadenza, in via generale, salvo esplicite eccezioni 37, lo svolgimento del procedimento di esecuzione, anche nei casi enucleati nell’art. 673 c.p.p.
Nel procedimento cosiddetto de plano l’autorità giudiziaria competente provvede senza formalità,
prescindendo, dunque, da qualsiasi forma procedimentale che assicuri l’attuazione dei princìpi costituzionali del contraddittorio e della difesa. Si tratta di un meccanismo semplificato, destinato ad esaurirsi,
in assenza di opposizione, nel dialogo cartolare tra il richiedente ed il giudice.
Si tratta, pertanto, di un rito a contraddittorio eventuale e differito.
Il giudice dell’esecuzione provvede con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata
all’interessato. L’ordinanza non è immediatamente esecutiva, dal momento che è assente il richiamo
all’art. 666, comma 7, c.p.p. 38. Trattandosi, quest’ultimo, di un precetto di matrice eccezionale si esclude, infatti, una sua applicazione estensiva.
Avverso il provvedimento de quo il pubblico ministero, l’interessato ed il suo difensore, a pena di
decadenza, possono proporre opposizione davanti al medesimo giudice, entro quindici giorni dalla sua
comunicazione o notificazione. L’eventuale giudizio di opposizione è celebrato ai sensi dell’art. 666
c.p.p. 39. Solo, dunque, in siffatta eventualità vengono recuperate le garanzie e le tutele prescritte per il
procedimento di esecuzione “tipico”.
La scelta effettuata dal legislatore delegato appare, invero, del tutto condivisibile, perché consente
una maggiore semplificazione delle procedure, fermo restando la possibilità, in caso di opposizione, di
garantire, in modo appropriato, diritti e facoltà alle parti interessate.
In siffatta ottica, sarebbe forse stato opportuno prevedere in modo esplicito un potere di impulso anche da parte del giudice. Sebbene, infatti, sulla scorta delle riflessioni prima espresse, si possa giungere
alla medesima soluzione in via interpretativa, trattandosi di una norma eccezionale e derogatoria rispetto all’ordinario regime imposto dall’art. 666 c.p.p. per la fase di esecuzione, sarebbe stata preferibile
una chiara indicazione in tal senso da parte del legislatore.
scelte, la disciplina del comma 2 dell’art. 101 e, in particolare, la permanenza per coloro che siano stati condannati a pena
pecuniaria, dell’esecuzione della relativa sanzione, nonostante l’avvenuta depenalizzazione, si atteggia, nel sistema, come elemento
di evidente ed ingiustificabile disarmonia con il diverso trattamento riservato a coloro che siano stati condannati a pena detentiva,
per i quali la disposta abolitio criminis comporta, invece, la totale cancellazione degli effetti della condanna stessa». In questi termini
F. Menditto, Linee guida per l’applicazione dei decreti legislativi 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e
introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili) e n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione), Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Lanciano, p. 20, in www.dirittopenalecontemporaneo.it. Di contrario avviso G. Amato, La “depenalizzazione”
realizzata in attuazione della legge delega n. 67 del 2014. Indicazioni operative, Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it, secondo cui il giudice dell’esecuzione deve adottare “i provvedimenti conseguenti”: ergo, deve
trasmettere gli atti all’autorità amministrativa competente, salvo che, ratione temporis, il fatto risultasse comunque prescritto o
estinto per altra causa, sì da rendere inapplicabile il trattamento sanzionatorio amministrativo.
37
Il richiamo è agli artt. 667, 668, 672 e 676 c.p.p. Cfr. Cass., sez. I, 16 settembre 2014, n. 41754, in CED Cass., n. 260524,
secondo cui il provvedimento che il giudice dell’esecuzione assume de plano, senza fissazione dell’udienza in camera di
consiglio, fuori dei casi stabiliti dalla legge, è affetto da nullità di ordine generale e a carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in
ogni stato e grado del procedimento, che, se accertata in sede di legittimità, comporta l’annullamento senza rinvio della
decisione impugnata, Cass., sez. I, 26 febbraio 2014, n. 12304, in CED Cass., n. 259475; Cass., sez. I, 14 febbraio 2014, n. 9818, in
CED Cass., n. 259172; Cass., I, 8 novembre 2013, n. 46704, in CED Cass., n. 257477.
38
Cass., sez. I, 18 giugno 2015, n. 36754, in CED Cass., n. 264704, secondo cui, in materia di provvedimenti del giudice
dell’esecuzione, non è configurabile un principio generale di immediata esecutività, dovendo distinguersi tra ordinanze
adottate all’esito dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti, immediatamente esecutive – in virtù della previsione
contenuta nell’art. 666, comma 7, c.p.p. – ed ordinanze adottate de plano che, salvo i casi di immediata esecutività espressamente
previsti dalla legge o comunque specificamente desumibili dal sistema normativo, diventano esecutive, in mancanza di
opposizione, allo scadere del termine previsto dall’art. 667, comma 4, c.p.p.
39
Cass., sez. I, 6 marzo 2015, n. 12572, in CED Cass., n. 262887, secondo cui quando è proposta opposizione contro l’ordinanza
adottata senza formalità dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 667, comma 4, c.p.p., il conseguente procedimento, per effetto
del formale richiamo operato da tale norma, è integralmente disciplinato dalle disposizioni di cui all’art. 666 c.p.p., con la
conseguenza che il giudice dell’esecuzione, ove non dichiari l’opposizione inammissibile a norma dell’art. 666, comma 2, c.p.p., ha
il dovere, a pena di nullità generale ed assoluta, di fissare l’udienza in camera di consiglio e di procedere con la necessaria
partecipazione del difensore e del pubblico ministero, provvedendo, altresì, all’audizione dell’interessato che ne ha fatto richiesta.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
131
In maniera similare al contenuto dell’art. 8, d.lgs. n. 8/2016, anche l’art. 12, d.lgs. n. 7/2016 prevede
che le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie civili si applichino ai fatti commessi anteriormente
all’entrata in vigore del relativo decreto, salvo che il procedimento penale non sia stato definito con
sentenza o decreto penale irrevocabili. In tale ultima ipotesi il giudice dell’esecuzione, con l’osservanza
dei precetti di cui all’art. 667, comma 4, c.p.p., revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto
non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
L’interpretazione del precetto de quo solleva indubbiamente minori difficoltà rispetto all’omologo
contenuto nel d.lgs. n. 8/2016, dal momento che non incombe in capo all’autorità giudiziaria alcun
compito aggiuntivo rispetto a quelli ordinari, non essendo prevista in dette ipotesi alcuna trasmissione
degli atti ad altra autorità competente.
IL GIUDICE DELL’ESECUZIONE E LA REVOCA DELLA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA
L’art. 674 c.p.p. enuclea ulteriori ipotesi in cui è consentito al giudice dell’esecuzione di intervenire sul
titolo irrevocabile con poteri modificativi.
Il disposto de quo è, invero, espressione della più tradizionale competenza esecutiva 40 ed, a differenza dell’area operativa disegnata dal precetto contenuto nell’art. 673 c.p.p., la revoca, nel caso di specie,
produce per il condannato solo effetti in malam partem, incidendo sui benefici della sospensione condizionale della pena, della grazia, dell’amnistia o dell’indulto condizionati o, infine, della non menzione
della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Si scorge, invero, dal dettato della norma un ruolo “subalterno” del giudice competente in siffatta
fase, il cui potere, tra l’altro sempre attivato su iniziativa esclusiva del pubblico ministero, unico titolare
dell’interesse ad ottenere una ordinanza di revoca 41, opera solo allorquando non abbia a ciò provveduto il giudice della cognizione con la sentenza di condanna per altro reato (art. 674, comma 1, c.p.p.).
Ai fini della esposizione qui effettuata, si rammenta come significativi problemi interpretativi abbiano, in particolare, riguardato il meccanismo legato alla revoca della sospensione condizionale della pena, al punto da richiedere un intervento chiarificatore della Suprema Corte, a Sezioni Unite.
L’intervento giudiziale in executivis riguarda, in primo luogo, le ipotesi di revoca di diritto 42 del beneficio circoscritte dall’art. 168, comma 1, c.p., che si riferiscono all’eventualità in cui il condannato
commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva 43 o non adempia agli obblighi impostigli 44 o, ancora, riporti un’altra condanna per un delitto
anteriormente commesso a pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, supera i limiti previsti dall’art. 163 c.p. Si tratta, pertanto, di casi tutti riconducibili entro l’area di decadenza del beneficio.
Le difficoltà ermeneutiche si sono, invero, incentrate sull’ambito applicativo dell’art. 674, comma 1-bis,
40
F. Corbi-F. Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, cit., p. 280.
41
Cass., sez. un., 23 aprile 2015, n. 37345, in CED Cass., n. 264381; Cass., sez. I, 17 ottobre 2013, n. 2939, in CED Cass., n.
258392, secondo cui il procedimento di esecuzione esige l’impulso di parte, salvo che per l’applicazione dell’amnistia e
dell’indulto, per cui il provvedimento del giudice dell’esecuzione adottato di ufficio, al di fuori di tali ipotesi, è viziato da nullità
insanabile; Cass., sez. I, 23 maggio 2013, n. 29203, in CED Cass., n. 256793; Cass., sez. I, 28 febbraio 2012, n. 11766, in CED Cass.,
n. 252295. Di segno contrario si segnala Cass., sez. I, 7 aprile 2010, n. 16243, in CED Cass., n. 247241, secondo cui il giudice
dell’esecuzione può procedere d’ufficio alla revoca della sospensione condizionale della pena solo nel caso in cui si tratti di
revoca di diritto.
42
Cass., sez. I, 8 ottobre 2013, n. 19936, in CED Cass., n. 262329, secondo cui la revoca facoltativa della sospensione
condizionale della pena, di cui all’art. 168, comma 2, c.p., è provvedimento discrezionale di competenza del giudice di
cognizione, al quale, una volta esaurito il giudizio, non può sostituirsi il giudice dell’esecuzione, cui non spettano poteri di
valutazione discrezionale nell’ambito della propria competenza funzionale, limitata ai casi di revoca di diritto.
43
Cass., sez. I, 29 maggio 2015, n. 34237, in CED Cass., n. 264156, secondo cui, nei casi di revoca obbligatoria e di diritto della
sospensione condizionale della pena, previsti dall’art. 168, comma 1, c.p., il giudice dell’esecuzione deve provvedervi, a
prescindere del fatto che la sussistenza di detta causa di revoca di diritto del beneficio fosse o meno rilevabile dagli atti in
possesso del giudice della cognizione, semplicemente facoltizzato alla revoca.
44
Cass., sez. III, 30 aprile 2015, n. 26744, in CED Cass., n. 264024, secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il
mancato adempimento, entro il termine fissato, dell’obbligo di demolizione dell’immobile abusivo – cui sia stata subordinata la
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, la quale opera di diritto, salva l’ipotesi di sopravvenuta
impossibilità, con la conseguenza che il giudice dell’esecuzione, al quale non è attribuita alcuna discrezionalità a riguardo, non è
tenuto a motivare su questioni diverse dall’adempimento e dalla inesistenza di cause che lo rendano impossibile.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
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c.p.p., ove si prescrive che il giudice dell’esecuzione provvede, altresì, alla revoca della sospensione
condizionale della pena quando rileva l’esistenza di una delle cause ostative indicate nell’art. 164,
comma 4, c.p. ossia nell’ipotesi in cui il beneficio sia stato concesso più di una volta, sempre che la pena
da infliggere con la nuova condanna, cumulata con la precedente, non superi i limiti imposti dall’art.
163 c.p. 45. L’operatività della revoca si estende anche ai casi di sentenza che applica la pena su richiesta
delle parti, ai sensi dell’art. 444, comma 3, c.p.p. (art. 168, comma 3, c.p.) 46. La revoca de qua, a differenza rispetto a quella enucleata nell’art. 168, commi 1 e 2, c.p., è tesa ad eliminare una patologia occorsa
nella concessione del beneficio, applicato in violazione di legge 47.
Il nodo controverso involge i limiti in cui si espleta il potere del giudice dell’esecuzione sul punto.
Un primo orientamento ritiene, infatti, che la revoca della sospensione condizionale della pena, concessa illegittimamente dal giudice di merito, possa essere disposta in seguito ad impugnazione della
sentenza viziata e non, invece, in sede di esecuzione, costituendo un ostacolo in tal senso l’intangibilità
del giudicato 48.
Al fine di argomentare la correttezza della soluzione interpretativa offerta, siffatto indirizzo distingue due fattispecie: in cui l’una, attraverso la revoca dichiarata in executivis, retrocede l’effetto di sentenza sopravvenuta su precedente pronuncia che aveva concesso il beneficio de quo in modo conforme
alla legge rebus sic stantibus; l’altra in cui la concessione della sospensione condizionale è originariamente patologica, con la conseguenza che il superamento dei limiti di legge non è qualificabile come un accadimento ex post, derivato dall’accertamento di ulteriori reati e quindi atto ad essere rimosso mediante
un mero adeguamento esterno al giudicato in quanto fondato su un elemento sopravvenuto, bensì come un vizio contenuto ab origine nella sentenza. In tale ultima ipotesi l’illegittimità della concessione
deve essere denunciata, in ossequio ai principi generali, attraverso il ricorso all’ordinario strumento di
impugnazione. Qualora, però, ciò non sia avvenuto e si sia formato il giudicato, «…ritenere che il giudice dell’esecuzione possa intervenire a supplire, con la revoca ex art. 674 c.p.p., comma 1-bis, c.p.p.,
l’omissione di iniziativa impugnatoria non è conforme alla struttura del sistema, che non affida al giudice dell’esecuzione la decisione di una sorta di impugnazione straordinaria, peraltro, non fondata su
elementi sopravvenuti rispetto al giudicato, bensì un compito di adeguamento retroattivo in base, appunto, ad elementi sopravvenuti al giudicato stesso» 49. Alla luce di siffatte riflessioni la funzione del
precetto contenuto nell’art. 674, comma 1-bis, c.p.p. non può che essere interpretata nel senso di eludere
il conflitto con il giudicato, vale a dire intendendo la norma – conformemente alla funzione dell’esecu-
45
Cass., sez. I, 18 novembre 2008, n. 48158, in CED Cass., n. 48158, in CED Cass., n. 243177, secondo cui la revoca della
sospensione condizionale della pena deve sempre essere disposta, eventualmente anche dal giudice dell’esecuzione, quando sia
stata concessa per più di una volta o per più di due volte nel caso previsto dall’art. 164, comma 4, c.p.
46
Cass., sez. I, 18 luglio 2013, n. 43498, in CED Cass., n. 256700, secondo cui è legittima in sede esecutiva, stante la sua natura
eminentemente dichiarativa, la revoca della sospensione condizionale della pena, concessa, pur in assenza dei presupposti di
legge, con sentenza di patteggiamento, a nulla rilevando che nell’accordo delle parti la proposta dell’imputato fosse stata
subordinata alla concessione del citato beneficio.
47
Cass., sez. un., 23 aprile 2015, n. 37345, in CED Cass., n. 264381, osserva che la disposizione in esame «… espande
indiscutibilmente la funzione del giudice dell’esecuzione, abilitandolo a rimuovere (sulla richiesta del pubblico ministero e con
la osservanza del rito ordinario degli incidenti di esecuzione) la statuizione, contenuta nella sentenza irrevocabile, di
concessione del beneficio sulla base del rilievo – non già di fatti o eventi sopravvenuti alla formazione del giudicato, bensì – del
vizio genetico del provvedimento, costituito dall’inosservanza dell’art. 164 c.p., comma 4, e preesistente alla irrevocabilità. L’intervento in executivis si caratterizza per la evidente finalità riparatoria, senza, per vero, integrare alcuna nuova impugnazione
straordinaria …, per la carenza dei requisiti strutturali relativi».
48
Cass., sez. III, 9 luglio 2013, n. 42167, in CED Cass., n. 257055 (in fattispecie in cui la sospensione condizionale, ritenuta non
revocabile, era stata illegittimamente concessa per la terza volta dal giudice di merito); Cass., sez. I, 8 ottobre 2009, n. 42661, in
CED Cass., n. 245575 (in fattispecie in cui la sospensione condizionale, ritenuta non revocabile, era stata illegittimamente
concessa per la seconda volta dal giudice di merito a seguito di una prima condanna a pena detentiva non sospesa).
49
Cass., sez. III, 9 luglio 2013, n. 42167, in CED Cass., n. 257055, ove, tra l’altro, si precisa che il giudicato, invero, si forma
oltre che sulla decisione del giudice, sulla base del contraddittorio delle parti, che rispetto alla decisione suddetta non è solo
prodromico, ma pure consolidante, in quanto si concreta anche nella scelta delle parti stesse di impugnare o non impugnare il
primo accertamento stabile che il processo genera, neppure la parte pubblica essendo dal codice di rito gravata di un obbligo di
impugnazione; pertanto, il contenuto del giudicato può ab origine includere anche elementi contra legem, il sistema essendo
diretto a evitarlo in modo preventivo, mediante l’attività dei soggetti processuali. La certezza del diritto accetta questo limite di
rischio nel giudicato, il quale la realizza nel caso concreto, onde la sua eventuale riapertura non può che essere disposta da
specifiche norme di eccezione sistemica.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
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zione – che non ha natura di procedimento di impugnazione 50 – come relativa soltanto ad elementi sopravvenuti rispetto al momento di formazione del giudicato.
Altro orientamento, invece, sostiene che il beneficio di cui all’art. 163 c.p., illegittimamente concesso,
possa essere revocato nella fase dell’esecuzione solo nel caso in cui l’elemento ostativo non sia stato conoscibile dal giudice della cognizione, dovendo, al contrario, la revoca essere fatta valere attraverso gli
ordinari mezzi di impugnazione, allorquando il giudice abbia erroneamente concesso il beneficio, pur
potendo avvedersi della sua non concedibilità 51.
Con una impostazione di certo più rispondente alla ratio del precetto tratto dal combinato disposto
degli artt. 168, comma 4, c.p. e 674, comma 1-bis, c.p.p., l’indirizzo giurisprudenziale citato ritiene, in
primo luogo, che il giudice dell’esecuzione possa nell’ipotesi di revoca obbligatoria, costituita dal rilievo di cause originariamente ostative, incidere sul beneficio illegalmente riconosciuto, trattandosi di un
mero riscontro formale sull’esistenza di condanne ostative. Ulteriore elemento che costituisce un limite
invalicabile per l’intervento del giudice dell’esecuzione è la non conoscibilità di siffatte cause da parte
del giudice della cognizione.
La correttezza dell’impostazione offerta con i menzionati passaggi argomentativi è, invero, seppur indirettamente avvalorata dai giudici costituzionali, i quali nel dichiarare inammissibile, per difetto di motivazione sulla rilevanza, la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 168, comma 3, c.p., in relazione agli
artt. 3 e 111, commi 4 e 5 Cost., hanno sottolineato che, attraverso siffatta lettura interpretativa, da un lato,
si impedisce all’imputato di «lucrare … vantaggi conseguenti ad errori “invincibili” del giudice, dipendenti dalle disfunzioni di strutture ausiliare», dall’altro, non si pongono problemi di violazione del giudicato,
trasformando lo strumento censurato in un nuovo mezzo di impugnazione straordinario contra reum, ma si
consente «soltanto di eliminare una violazione di legge, commessa in presenza di una situazione oggettiva,
non percepita né percepibile dal giudice della cognizione», divenuta conoscibile solo ex post 52.
La distanza tra i due indirizzi giurisprudenziali è evidente e capace di ripercuotersi, a seconda della
prevalenza dell’uno sull’altro, sull’entità della pena espianda dal condannato, oltre che, anche se da un
punto di vista più propriamente speculativo, sui limiti del potere di revoca esercitabile dal giudice in
sede di esecuzione del giudicato.
La delicatezza del tema e le importanti implicazioni legate allo stesso hanno sollecitato l’intervento
regolatore delle Sezioni Unite 53, che hanno riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di revocare
il beneficio della sospensione condizionale della pena concesso in violazione dell’art. 164, comma 4, c.p.
in presenza di cause ostative, a meno che tali cause non fossero documentalmente note al giudice della
cognizione. A tal fine il giudice dell’esecuzione è chiamato ad acquisire, per la doverosa verifica al riguardo, il fascicolo del giudizio 54.
50
Cass., sez. I, 17 ottobre 2012, n. 46405, in CED Cass., n. 254095, secondo cui il procedimento di esecuzione, pur non avendo
natura di giudizio di impugnazione e caratterizzandosi, invece, come procedimento di prima istanza in cui vige il principio
devolutivo, deve rispettare il principio della domanda e, quindi, porsi come strumento attraverso il quale il giudice si limita a
decidere sulla richiesta dell’istante.
51
Cass., sez. I, 24 ottobre 2013, n. 45292, in CED Cass., n. 257724, (in fattispecie in cui il giudice di merito aveva concesso la
terza sospensione condizionale nel 2009, mentre due precedenti benefici erano stati concessi rispettivamente nel 2001 e nel 2002
e revocati nel 2005); Cass., sez. III, 6 giugno 2012, n. 33345, in CED Cass., n. 253159.
52
C. cost., ord. 31 ottobre 2007, n. 363, in www.cortecostituzionale.it, secondo cui è manifestamente inammissibile, per difetto
di motivazione sulla rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168, comma 3, c.p., come modificato dall’art. 1,
l. 26 marzo 2001, censurato, in riferimento agli artt. 3 e 111, commi 4 e 5, Cost., nella parte in cui prevede la revoca, in sede di
esecuzione, della sospensione condizionale della pena concessa in violazione dell’art. 164, comma 4, c.p., anche quando si tratti
di beneficio accordato a seguito di richiesta di patteggiamento subordinato alla concessione della sospensione condizionale.
Infatti, il rimettente non prende in considerazione quell’indirizzo interpretativo secondo il quale la possibilità di revoca in
executivis della sospensione condizionale deve intendersi limitata alla sola ipotesi in cui il giudice della cognizione, pur potendo
accorgersi dei precedenti ostativi, abbia egualmente concesso il beneficio, anche la nuova ipotesi di revoca dovrebbe conseguire
alla proposizione degli ordinari mezzi di impugnazione), e non precisa se, nel caso al suo esame, i precedenti ostativi fossero
conosciuti o conoscibili dal giudice dell’esecuzione.
53
Cfr. Cass., sez. I, 12 giugno 2014, n. 3341, inedita, che ha rimesso la questione alle sezioni unite chiedendo alle stesse di
pronunciarsi «se la revoca della sospensione condizionale della pena, illegittimamente concessa dal giudice di merito, possa
essere rilevata nella fase esecutiva, e in quali limiti e con quali modalità, oneri probatori e poteri officiosi, siano individuabili
ipotesi di conoscenza o di conoscibilità degli elementi ostativi da parte del giudice della cognizione o ipotesi di conoscibilità ex
post degli stessi elementi ostativi da parte del giudice dell’esecuzione».
54
Cass., sez. un., 23 aprile 2015, n. 37345, in CED Cass., n. 264381.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
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Il percorso argomentativo scelto dalla Suprema Corte è teso, in primo luogo, a confutare gli indirizzi
ermeneutici prevalenti in giurisprudenza, con particolare riguardo a quello che nega la possibilità di
accedere al meccanismo della revoca in sede di esecuzione, sull’assunto che la causa ostativa preesisterebbe rispetto al passaggio in giudicato della sentenza di concessione della sospensione condizionale. È
palese, infatti, secondo la Corte, che, in tal guisa, si accederebbe ad una interpretatio abrogans delle disposizioni di cui agli artt. 168, comma 3, c.p. e 674, comma 1-bis, c.p.p., posto che la funzionalità demandata ai menzionati precetti riguarda proprio le cause ostative preesistenti, in assenza delle quali
non sarebbe neppure configurabile la violazione dell’art. 164, comma 4, c.p.
Sarebbe, inoltre, priva di pregio giuridico l’obiezione sviluppata circa una lesione del giudicato. Sono, infatti, gli interventi del giudice dell’esecuzione a tracciare il perimetro di intangibilità dello stesso,
cosicché «… non appare corretta l’evocazione della res iudicata per confutare il dato positivo che concorre a definirne l’ambito giuridico».
Se, dunque, il Supremo consesso mostra di aderire alla lettura ermeneutica che abilita il giudice
dell’esecuzione, ai fini della revoca del beneficio della sospensione condizionale, a rilevare cause ostative preesistenti alla formazione del giudicato, ma non note al giudice del merito, nella decisione in analisi amplia lo spettro di intervento dell’autorità giudiziaria nella fase post iudicatum rispetto ai confini
originariamente definiti dall’indirizzo giurisprudenziale sul punto.
L’orientamento citato esige, infatti, che la causa ostativa sia non solo nota, ma anche “non conoscibile” al momento della pronuncia della sentenza e ciò equivarrebbe al caso in cui il precedente ostativo
non sia stato inserito nel sistema del casellario giudiziale.
La Suprema Corte, invece, ritiene operante, nel caso di specie, una preclusione “debole” che copre le
questioni dedotte ed effettivamente decise e non anche quelle deducibili, competendo, pertanto, al giudice dell’esecuzione la verifica se i precedenti penali ostativi risultassero documentalmente nella fase di
merito. A tal scopo si riconoscono ampi poteri istruttori esercitabili, anche d’ufficio, in ossequio al disposto di cui all’art. 666, comma 5, c.p.p., tesi ad ottenere l’acquisizione del fascicolo al fine di verificare
la presenza o meno di elementi da cui si sarebbe dovuto desumere la presenza di elementi impeditivi
alla concessione del beneficio de quo.
Alla luce delle argomentazioni esposte è evidente come siffatta pronuncia si ascriva nel novero del
più vasto orientamento teso ad esaltare la funzionalità della fase dell’esecuzione e, di conseguenza, a
non circoscrivere i poteri del giudice, i quali, nel caso di specie, sono limitati in virtù del principio generale dell’ordinamento espresso nel ne bis in idem ai fatti posti a conoscenza da parte del giudice di merito, conoscenza che deve essere non meramente potenziale, bensì “documentata in atti”.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | ESECUZIONE PENALE: QUESTIONI APERTE E DUBBI INTERPRETATIVI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | IL CONTROLLO SUL POTERE CAUTELARE DOPO LA LEGGE N. 47 DEL 2015
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
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CATERINA SCACCIANOCE
Professore a contratto di Diritto dell’esecuzione penale e Diritto penitenziario – Università degli Studi di Palermo
Il controllo sul potere cautelare dopo la legge n. 47 del 2015
The control on the power of pre-trial detention after
the reform of 2015
Dopo avere analizzato brevemente l’assetto anteriforma in tema di rapporti tra i requisiti dell’ordinanza cautelare e
il potere di annullamento del tribunale del riesame, il contributo si sofferma sulle novità introdotte dalla legge n.
47/2015 in tema di motivazione del provvedimento restrittivo e sulle relative ricadute in ordine al potere di integrazione riconosciuto al tribunale della libertà.
The author, after analyzing briefly the frame about the relations between the conditions of pre-trial detention under art. 292 Code of Criminal Procedure and the power of annulment of the Court under art. 309 cpp, before the
reform of 2015, focuses on the changes introduced by Law no. 47/2015 over the reinforcement of the motivation
of pre-trial detention and on the effects consequent on the power of integration of the reasons of the judge that
has applied the measure.
LA RATIO DELLA RIFORMA
Nato per giustificare quella che Carrara definiva una “ingiustizia necessaria”, il sistema della cautela e
dei suoi controlli sconta indubbiamente una crisi di identità che da sempre lo ha contraddistinto, divenendo il risultato di scelte politico-normative di compromesso che, in risposta alle incalzanti istanze di
difesa sociale, hanno preferito optare, a dispetto del principio costituzionale di non colpevolezza, per
un uso sempre più disinvolto del potere coercitivo della libertà personale, la cui inviolabilità, pure sancita nella Carta Suprema, sembra, di conseguenza, piegarsi a definizioni che ne riflettono un valore
tutt’altro che irrinunciabile a fronte di “concreti” e “attuali” bisogni cautelari. Ma alle diverse ‘ondate
repressive’ sono seguite negli anni non poche istanze liberiste e garantiste che hanno dato vita, sulla
spinta anche dei potenti moniti provenienti dalla Corte costituzionale, e dei recenti ‘comandi’ europei, a
tentativi diretti a rafforzare le garanzie del soggetto sottoposto alla cautela, attenuando o correggendo
quelle distorsioni applicative, figlie dell’inasprimento del regime della carcerazione preventiva, che di
fatto avevano contribuito a far degenerare l’uso delle misure coercitive in una intollerabile anticipazione della pena 1.
In un contesto nel quale non può comunque farsi a meno del ricorso alla «custodia senza processo» 2,
1
Sul tema, ex plurimis, E. Amodio, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cass. pen., 2014, p. 12 ss.;
G. Canzio, Il processo penale: le riforme “possibili”, in Criminalia, 2013, p. 487 ss.; C. Fiorio, Misure cautelari personali e sovraffollamento carcerario: “cocci” di un’altra legislatura “sprecata”, in Giur. it., 2013, p. 735 ss.; A. Gaito, I criteri di valutazione della prova
nelle decisioni de libertate, in Id. (a cura di), Materiali d’esercitazione per un corso di procedura penale, Cedam, Padova, 1995, p. 159
ss.; A. Presutti, Le cautele nel processo penale come forma di anticipazione della pena, in Riv. dir. proc., 2014, p. 45 ss.; A. Scalfati, Scaglie legislative sull’apparato cautelare, in A. Diddi-R.M. Geraci (a cura di), Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme,
Torino, 2015, p. 1 ss.
2
L’espressione è di L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 1990, p. 567, per il quale la custodia preventiva, piuttosto che una «necessaria ingiustizia», è «il prodotto di un’inconfessata concezione inquisitoria del processo che
vuole l’imputato in condizione di inferiorità rispetto all’accusa, immediatamente soggetto a pena esemplare e soprattutto, al di
là delle virtuose proclamazioni contrarie, presunto colpevole».
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si inserisce la recente riforma del 2015, con cui il legislatore, nella nota e spesso discussa veste di «“moralizzatore” delle prassi giudiziarie ritenute non ortodosse» 3, è tornato a manipolare la materia della
cautela, articolando il proprio intervento lungo diverse direttrici, tra le quali quella del rafforzamento
della motivazione cautelare, a ragione considerata da molti il «cuore» della riforma 4.
L’obiettivo di rafforzamento del dovere di motivare l’ordinanza restrittiva della libertà personale, al
quale dovrebbe corrispondere un accrescimento dei poteri di annullamento da parte del giudice del
controllo, è sottolineato in modo esplicito dai proponenti della novella 5, tuttavia, la fiducia che gli scopi
dichiarati possano trovare concreta attuazione non è apparsa prima facie incoraggiante al punto da indurre parte della dottrina a prospettare semmai un «netto deterioramento della funzione di controllo
critico del riesame» 6, ovvero una «mera enfatizzazione dell’obbligo di motivazione», piuttosto che di
un suo rafforzamento 7.
Non facile preannunciare le effettive ricadute che le novità legislative in punto di obbligo per il giudice della cautela di fornire con maggiore senso critico la propria ragione giustificatrice del provvedimento restrittivo della libertà personale avranno sui poteri di controllo attribuiti al tribunale del riesame, potendo qui solo limitarci ad auspicare che la futura elaborazione giurisprudenziale riconosca con
maggiore fermezza le ‘nuove’ regole sottostanti ai rapporti tra gravame e nullità, ridimensionando, di
conseguenza, il potere discrezionale fino ad ora concesso al giudice del controllo.
Non sfuggono, ad ogni modo, gli intenti prioritari del riformatore di contenere l’uso della custodia
in carcere, pressato com’era, del resto, dalle plurime sollecitazioni europee che lo esortavano a porre
rimedio allo scandaloso sovraffollamento carcerario degli istituti penitenziari italiani, correggendo le
patologie sistemiche riscontrate, a partire dall’abuso del mezzo coercitivo ante iudicium, individuato dal
giudice sovranazionale quale concausa delle non più tollerabili condizioni dei nostri detenuti, apostrofate senza mezzi termini come “disumane e degradanti” 8. Contenere l’uso della carcerazione preventiva era infatti l’obiettivo principale cui dovevano ispirarsi gli Stati europei, tra cui l’Italia, ai quali il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha raccomandato di circoscrivere l’applicazione della misura
ai casi di stretta necessità, di ridurne la durata al minimo compatibile con gli interessi della giustizia e
di vietarne l’uso a scopi punitivi 9.
L’iter che ha condotto all’approvazione della legge n. 47/2015 è, dunque, contraddistinto da alcuni
passaggi in cui possono individuarsi senza ambiguità le ragioni che hanno spinto il legislatore a eleggere soprattutto il terreno della motivazione cautelare quale area su cui intervenire al fine di riportare a
regime l’uso della custodia in carcere, ossia recuperarne la dimensione costituzionale che ne confina l’adozione soltanto in situazioni di estrema ratio 10. Interpolando il testo degli artt. 292 e 309 c.p.p., si è arricchito il relativo contenuto del provvedimento restrittivo, che ora prevede un onere della motivazione
3
Si esprime in questi termini, M. Perrotti, La riforma del sistema cautelare vive nelle procedure camerali incidentali, in
www.unicost.eu, p. 1.
4
Vedi, tra gli altri, G. Spangher, Brevi riflessioni sistematiche sulle misure cautelari dopo la L. n. 47 del 2015, in www.penalecontempo
raneo.it; D. Negri-D. Chinnici, Introduzione. Una riforma carica di ambizioni, ma troppo cauta negli esiti, in D. Chinnici (a cura di), Le
misure cautelari personali nella strategia del «minimo sacrificio necessario», Roma, 2015, p. 12.
5
Nel corso della Relazione in sede di discussione sulle linee generali della proposta di legge, l’on. A. Rossomando rimarcava
come, obbligando il giudice cautelare a dare contezza delle scelte adottate, la motivazione del provvedimento cautelare divenga
il perno dell’intero sistema: la ragionevolezza della misura si misurerà, infatti, interamente all’interno della giustificazione offerta dal giudice. Al contempo, sottolineava la necessità di una disciplina di controllo del provvedimento cautelare adeguata al
maggiore protagonismo cui assurge la giustificazione del provvedimento nel contesto delle modifiche proposte, con la previsione di forme di controllo più intense, che portino all’annullamento della misura quando la giustificazione risulti sostanzialmente inadeguata a sorreggerla (seduta del 9 dicembre 2013, n. 134).
6
M. Ceresa Gastaldo, Una singolare antifrasi: i “nuovi” poteri rescindenti del tribunale della libertà, in www.penalecontemporaneo.it.
7
R. Bricchetti-L. Pistorelli, Valutazione autonoma del quadro indiziario da parte del giudice, in Guida dir., 2015, 20, p. 48.
8
Il riferimento è, ovviamente, a Corte e.d.u., sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia; cfr. O. Mazza, Dalla sentenza Torreggiani alla riforma del sistema penale, in www.archiviopenale.it.
9
Raccomandata (2006) 13 e Raccomandata (1999) 22.
10
Si legge negli Atti parlamentari come, nel corso dell’audizione del 17 ottobre, il Ministro della Giustizia abbia ricordato
che entrambe le Commissioni di studio, quella presieduta dal Presidente Giovanni Canzio, in tema di processo penale e quella
presieduta dal Prof. Glauco Giostra, in tema di ordinamento penitenziario, si sono orientate, tra l’altro, «al rafforzamento degli
obblighi di specificità della motivazione, per richiamare il giudice, specie nel momento dell’applicazione, alla stringente considerazione della residualità della cautela carceraria […]».
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ulteriore in capo al giudice della cautela, ovvero l’«autonoma valutazione» dei presupposti applicativi
della misura adottata, la cui idoneità dovrà essere accertata dall’organo del riesame in sede di controllo
della legalità del provvedimento de libertate emesso dal primo giudice.
Il punto dolente, nonostante le chiare intenzioni del riformatore, rimane però l’impatto di tale intervento. Occorre, infatti, chiedersi quanto e come la riforma abbia inciso sui rapporti tra obbligo di motivazione cautelare e potere di controllo da parte del giudice del riesame, essendo proprio la relazione tra
queste due delicate situazioni soggettive a essere coinvolta dalla novella. Ma per potere tirare le somme, onde tentare di verificare se la rimodulazione del predetto legame sia reale o apparente, occorre in
retrospettiva procedere a una sia pure veloce analisi dell’assetto del sistema dei controlli sul corretto
esercizio del potere cautelare, e dei suoi limiti, consolidatosi prima dell’odierna riforma.
ASSETTO ANTERIFORMA: IL CONTROLLO SULL’ESERCIZIO DEL POTERE CAUTELARE E L’INTEGRAZIONE POSTUMA DELLA MOTIVAZIONE
Una breve riflessione sui controlli delle misure cautelari non può non partire dal momento in cui, a fianco
alla generale ricorribilità in cassazione dei provvedimenti sulla libertà personale sancita dalla Costituzione all’art. 111, è stato riconosciuto all’imputato, con la legge n. 532 del 1982, il diritto di richiedere il riesame, anche nel merito, dei provvedimenti applicativi della custodia cautelare personale emessi nel corso
dell’istruzione 11. Al suo esordio lo strumento introdotto soffriva di rilevanti limitazioni in punto di confini operativi, essendo inizialmente attivabile solo sino all’emissione dell’ordinanza di rinvio a giudizio: la
sua funzione impugnatoria veniva di conseguenza estenuata a quella di mero «strumento di convalida
della misura emessa», assicurandone il controllo sulla relativa legalità da parte di un giudice collegiale
estraneo allo svolgimento delle indagini, ritenuto più affidabile dell’organo giudiziario emittente 12. L’istituto, tuttavia, sembrò accostarsi al genere delle impugnazioni a partire dal 1984 allorquando venne esteso
il suo ambito di esperibilità a tutti i provvedimenti adottati nella fase del giudizio 13.
Oggi il riesame è un rimedio, esperibile nei confronti di tutte le ordinanze che dispongono una misura coercitiva salvo che si tratti di ordinanza emessa a seguito di appello del pubblico ministero. Come
noto, accanto al riesame sono previsti l’appello e il ricorso per cassazione, il primo avente ad oggetto le
sole ordinanze che sostituiscono la misura originaria o che applicano una misura interdittiva. A differenza di questi ultimi, il riesame è considerato «puro gravame» 14 e la sua natura interamente devolutiva si evince, come si vedrà, oltre che dalla possibilità di presentarlo anche privo di motivi a corredo, nel
potere riconosciuto al giudice richiesto di confermare la misura per ragioni diverse da quelle enunciate
nell’ordinanza impugnata, ammettendo una sorta di sanatoria dei difetti di motivazione del provvedimento genetico mediante un’attività di integrazione delle lacune del discorso giustificativo reso dal
primo giudice. Ma, proprio in ragione di alcune peculiarità che lo contraddistinguono, il riesame sembra porsi «a metà strada tra gravame e azione di impugnativa» 15. Il difficile inquadramento concettuale
porta a considerarlo un rimedio sui generis la cui funzione di garanzia è nondimeno indiscussa: con esso
si chiede il riesame anche nel merito dell’ordinanza che dispone una misura coercitiva (art. 309, comma
1, c.p.p.), innescando così una procedura di controllo tempestivo del corretto esercizio della cautela, che
assicuri effettività e concretezza alla tutela della libertà personale ex art. 13 Cost. Poste tali premesse, si
è chiarito in dottrina come riesaminare voglia dire «rivalutare, sicché il tribunale della libertà è legittimato, indipendentemente dai motivi di doglianza e per il solo fatto di essere investito di una richiesta, a
rivedere la vicenda cautelare, nulla importando se il mezzo esperito lo investa come giudice del gravame nel merito, se per merito s’intenda cosa diversa dalla legittimità dell’atto, se gli competa, infine, una
verifica di legittimità sostanziale o formale» 16.
11
Sulla genesi del tribunale della libertà, v. P. Spagnolo, Il tribunale della libertà. Tra normativa nazionale e normativa internazionale, Milano, p. 1 ss.
12
E. Marzaduri, Linee di riforma delle impugnazioni de libertate, in www.penalecontemporaneo.it, p. 5.
13
Ancora E. Marzaduri, Linee di riforma, cit., p. 5.
14
Per tutti, F. Cordero, Procedura Penale, Milano, 2006, p. 541.
15
M. Ferraioli, Il riesame “anche nel merito”. Origine e natura di un rimedio, Torino, 2012, p. 97.
16
Ancora M. Ferraioli, Il riesame “anche nel merito”, cit., p. 124.
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Venendo alle peculiarità del riesame, esse sono da ricondurre all’ampiezza del potere cognitivo e
decisorio del tribunale della libertà: ai sensi dell’art. 309, comma 9, c.p.p. il collegio potrà annullare o
riformare il provvedimento impugnato anche “per motivi diversi da quelli eventualmente enunciati”
ovvero potrà confermarlo “per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione” 17. E sono proprio
tali formule, utilizzate nel testo dell’art. 309, comma 9, c.p.p., ad avere indotto la giurisprudenza a interpretare il dettato normativo in modo da riconoscere al tribunale del riesame quel potere, dai confini
assai discutibili e discussi, di integrazione della motivazione del provvedimento originario, di cui si è
fatto cenno, in base al presupposto che i due provvedimenti, ossia la decisione impugnata e quella
emessa dal tribunale del riesame, costituiscono una fattispecie unitaria a formazione progressiva 18, i cui
discorsi giustificativi possono integrarsi vicendevolmente. Una evidente anomalia che venne presto
contrastata sia dalla dottrina sia da quella parte di giurisprudenza che, come si vedrà, ha ritenuto opportunamente di arginare i confini di tale potere, invocando la necessità di presidiare il bene della libertà personale attraverso il diritto a che la legalità della misura cautelare applicata sia sottoposta a un
controllo immediato ed effettivo, e non a una ‘messa a punto’, da parte di un giudice diverso e collegiale, il quale, piuttosto che ‘salvare’ il provvedimento viziato, deve dichiararne la nullità.
Le insidie che si celavano nel coordinare il gravame e le nullità dell’ordinanza che dispone la misura
coercitiva rendevano la definizione di tale rapporto di non facile soluzione. Il sistema dei controlli dei
provvedimenti de libertate è, infatti, strettamente correlato alla disciplina ex art. 292 c.p.p. sui requisiti e
sul contenuto richiesti a pena di nullità per la legittimità dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari, atteso il forte condizionamento che la regolamentazione dei parametri contenutistici della misura
esercita sull’impugnabilità delle misure cautelari. Anche nel sistema precedente il peso dei requisiti
aveva una incidenza non indifferente sul profilo dei relativi controlli. L’art. 264, comma 2, c.p.p. 1930
prevedeva che «l’istruttore disponesse di arresti e catture secondo sua scienza spesso segreta, imponendo l’indicazione degli indizi solo fin dove l’enunciato fosse compatibile con il segreto istruttorio» 19.
Come è stato efficacemente affermato 20, quanto ai contenuti del mandato di cattura, ci si era accontentati, all’inizio, di una semplice “sommaria enunciazione, compatibile con il segreto istruttorio, dei motivi che ne determinavano l’emissione”, col risultato che, proprio in forza del limite della necessaria
compatibilità con il segreto istruttorio, la giurisprudenza aveva escluso che il provvedimento coercitivo
dovesse contenere anche l’esplicitazione delle ragioni per cui un determinato evento era stato ritenuto
in concreto dotato di efficacia indiziante e gli specifici elementi emersi a carico dell’imputato 21. In seguito, l’obbligo di motivazione venne rafforzato simultaneamente alla introduzione del rimedio del riesame. Con la legge n. 532/1982, infatti, si intervenne anche sul testo dell’art. 264, comma 2, c.p.p. 1930,
imponendo, in luogo della debole “sommaria enunciazione”, la “specifica enunciazione degli indizi di
colpevolezza e dei motivi che avevano determinato l’emissione del provvedimento di cattura”.
La norma equivalente al vecchio art. 264 c.p.p. 1930 è l’attuale art. 292 c.p.p., il cui testo, dopo tre interpolazioni 22, e prima dell’odierna riforma, così prescriveva: a pena di nullità rilevabile anche
d’ufficio, il contenuto dell’ordinanza de libertate, deve indicare “le specifiche esigenze cautelari e gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono
desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla
commissione del reato” (comma 2, lett. c)), l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art.
274 non possono essere soddisfatte con altre misure (comma 2, lett. c-bis)), e infine la nullità dell’or17
A. Gaito, Sul devolutum della richiesta di riesame, in Giur. it., 1992, p. 265.
18
Cass., sez. un., 17 aprile 1996, in Cass. pen., 1996, p. 3276; di recente Cass., 4 dicembre 2006, in CED Cass., n. 235622.
19
F. Cordero, Procedura Penale, cit., p. 516, dove l’A. aggiunge come questa riserva generasse partite diseguali tra inquirente
e difesa.
20
E. Marzaduri, Linee di riforma, cit., p. 3 s.
21
Cass., 18 novembre 1969, in Cass. pen., mass., 1971, p. 391 e Cass., 2 luglio 1962, in Riv. it. dir. proc. pen., 1963, p. 332.
22
In diversi momenti il legislatore è intervenuto sull’art. 292 c.p.p.: una prima volta con legge n. 203 del 1991, poi con legge
n. 332 del 1995, infine con legge n. 397 del 2000. Come noto, la riforma più consistente in tema di motivazione cautelare è stata
quella del 1995, in merito alla quale si rinvia alle considerazioni fiduciose di A. Cristiani, Misure cautelari e diritto di difesa (L. 8
agosto 1995 n. 332), Torino, 1995, p. 1 ss., e alle opposte riflessioni critiche di G. Giostra, Sul vizio di motivazione dell’ordinanza cautelare ovvero sul degrado della tecnica legislativa, in Cass. pen., 1995, p. 2428 ss.
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dinanza se priva della valutazione degli elementi a carico e a favore dell’imputato, di cui agli artt. 358 e
327 bis c.p.p. (comma 2-ter)).
Con l’intenzione di assicurare in termini effettivi e sostanziali l’esercizio della difesa, i codificatori,
prima, e il legislatore a più riprese, hanno così sagomato l’obbligo di motivazione del giudice della cautela, imponendogli di dare contezza sia degli elementi informativi (elementi di fatto), sia delle ragioni
giustificatrici che, in relazione ai primi, lo hanno condotto a ritenere sussistenti gli indizi di colpevolezza e le specifiche esigenze cautelari. Ciò che si richiedeva al giudice, in altri termini, era di argomentare
sulla base di informazioni complete 23. Purtroppo, però, le derive applicative hanno preso il sopravvento: l’appiattimento del giudice della cautela sulle richieste del pubblico ministero, nonostante le prescrizioni legislative, era una prassi tollerata dalla giurisprudenza nella misura in cui ex post il tribunale del
riesame intercedesse sul provvedimento genetico colmandone i difetti di motivazione 24. Diverse infatti
le pronunce con le quali il giudice di legittimità, atteso l’effetto interamente devolutivo che caratterizza
il riesame, ha ritenuto che il tribunale della libertà, cui è conferito il potere di annullare, riformare o
confermare il provvedimento impugnato anche per ragioni diverse da quelle in esso indicate, poteva
sanare, con la propria motivazione, le carenze argomentative di detto provvedimento, pur quando esse
fossero tali da dar luogo alle nullità, rilevabili d’ufficio, previste dall’art. 292, comma 2, lett. c) e c-bis),
c.p.p. 25. Secondo tale indirizzo, infatti, l’ordinanza applicativa della misura e quella che decide sulla richiesta di riesame sono tra loro strettamente collegate e complementari, con la conseguenza che la motivazione del tribunale del riesame integra e completa l’eventuale carenza di motivazione del primo
giudice 26. Da qui la facoltà riconosciuta al giudice del controllo di sopperire con le necessarie integrazioni e non annullare il provvedimento genetico, essendo, il potere di annullamento per difetto di motivazione, riservato solo al giudice di legittimità 27.
Ma allora, come far valere i vizi della motivazione davanti al giudice del riesame se a questi è riconosciuto un potere sostitutivo col quale, colmando le insufficienze valutative del primo provvedimento,
finisce per rendere valida un’ordinanza altrimenti da annullare in quanto inadeguatamente motivata?
È intuibile il contrasto con il preteso rigore del legislatore nel dettare le regole in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare. Il provvedimento genetico deve contenere a pena di nullità rilevabile anche
d’ufficio una motivazione adeguata, tuttavia se la motivazione non risponde a tale requisito, il tribunale
del riesame, a cui si è rivolto l’interessato proprio per farne valere i vizi che lo connotano, supplisce a
tale carenza correggendo proprio i vizi denunciati! Un effetto, a ragione, definito «paradossale», laddove il soggetto ristretto, lungi dall’ottenere una dichiarazione di nullità ex art. 292, comma 2, lett. c) e cbis), «finisce per fare un ‘favore’ al giudice che ha emesso la misura in soccorso del quale interviene,
proprio grazie al riesame, il tribunale che consolida così l’azione cautelare» 28. Non solo. Per tale via si
finisce con il comprimere il diritto di difesa, posticipando di fatto la conoscenza dei motivi della restrizione, in prima battuta incompleti o non chiari: al fine di averne contezza il detenuto presenta il riesame, essendo l’unico strumento per conoscere le ragioni della cautela 29.
Frenare tali derive applicative diveniva pertanto una necessità, e a provvedere in tal senso iniziava a
farsi avanti un filone giurisprudenziale con l’intento di potenziare il potere di annullamento sanzio23
Cfr. al riguardo, F.M. Iacoviello, voce Motivazione della sentenza penale (Controllo della), in Enc. dir., Milano, 2000, p. 788, dove l’A. prende ad esempio proprio l’art. 292 c.p.p. a conferma della tesi secondo cui nella motivazione vanno distinti un contenuto informativo e un contenuto argomentativo, entrambi da sottoporre a controllo in caso di vizio di motivazione, presupponendo, il controllo sulla razionalità della motivazione, il controllo sulla completezza ed esattezza dei dati informativi forniti dal
processo.
24
In proposito parla di «derive acritiche del tribunale de libertate, ridotto a ‘stampella’ del giudice a quo», D. Chinnici, I nuovi
parametri in tema di motivazione del provvedimento di restrizione cautelare della libertà personale e dell’ordinanza del tribunale de libertate, in Chinnici (a cura di), Le misure cautelari personali nella strategia del «minimo sacrificio necessario», cit., p. 83.
25
Cass., sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 8590, in CED Cass., n. 233499; Cass., sez. II, 4 dicembre 2006, in CED Cass., n. 235622.
26
Cass., sez. V, 7 dicembre 2006, n. 3255, in CED Cass., n. 236036.
27
Cass., sez. III, 2 febbraio 2011, n. 15416, in CED Cass., n. 250306; nonché Cass., sez. II, 30 novembre 2011, n. 7967, in CED
Cass., n. 252222.
28
M. Ceresa Gastaldo, Riformare il riesame dei provvedimenti di coercizione cautelare, in Riv. dir. proc., 2011, p. 1180.
29
In tali evenienze, lo stravolgimento della funzione del mezzo, è incontestabile per D. Chinnici, I nuovi parametri in tema di
motivazione del provvedimento di restrizione cautelare della libertà, cit., p. 85, la quale sostiene che, «da strumento di doglianza, e
quindi di controllo, del provvedimento de libertate, il riesame è assurto a passaggio in un certo senso necessario per il detenuto al
fine di avere contezza delle ragioni della compressione della libertà personale, spesso subita ‘al buio’».
ANALISI E PROSPETTIVE | IL CONTROLLO SUL POTERE CAUTELARE DOPO LA LEGGE N. 47 DEL 2015
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nando l’adozione di una misura restrittiva della libertà personale priva di autonoma motivazione. È
stato così affermato come il tribunale del riesame sia tenuto a rilevare la nullità per violazione di legge
del provvedimento impugnato nel caso in cui la motivazione sia radicalmente assente o meramente apparente, non essendo esercitabile, in tali ipotesi, il potere-dovere di cui all’art. 309, comma 9, ultima
parte, c.p.p., di confermare le ordinanza coercitive impugnate per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso 30. Potere integrativo che non è stato ritenuto esercitabile sia
nel caso di carenza grafica, sia quando l’apparato argomentativo, nel recepire integralmente il contenuto di altro atto del procedimento, o nel rinviare a questo, si sia limitato all’impiego di mere clausole di
stile o all’uso di frasi apodittiche, senza dare contezza alcuna delle ragioni per le quali abbia fatto proprio il contenuto dell’atto recepito o richiamato, o comunque dei motivi per i quali lo abbia considerato
coerente rispetto alla sua decisione 31. La circostanza che l’indagato conosca gli elementi dedotti dall’accusa è stata ritenuta del tutto irrilevante, dovendo semmai essere messo in grado di conoscere quali, fra
quegli elementi, sono stati reputati dal giudice significativi e dirimenti ai fini dell’adozione del provvedimento coercitivo, conoscenza che può essere soddisfatta solo con la motivazione, ovvero la “base di
conoscenza” che permette appieno l’esercizio del diritto di difesa, consentendo al tempo stesso al giudice dell’impugnazione di valutare la legittimità della decisione 32. Sulla base di tali principi, pertanto,
si è giunti ad affermare che va dichiarata la nullità del provvedimento cautelare in cui il giudice si limiti
a una sterile rassegna di fonti di prova, a proposito delle quali manca totalmente qualsiasi riferimento
contenutistico e di enucleazione degli elementi reputati indizianti 33; o ancora dell’ordinanza che, nel
motivare sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, si limiti a rinviare alle schede personali redatte dalla polizia giudiziaria e allegate alla richiesta del pubblico ministero, senza alcuna delibazione
valutativa degli elementi di prova raccolti 34. Tutti casi in cui il giudice assolve il suo onere di motivazione utilizzando una particolare tecnica di redazione delle ragioni giustificatrici, nota come motivazione per relationem. Una tecnica, tuttavia, tollerata in giurisprudenza nella misura in cui siano rispettati
i principi elaborati dalle sezioni unite e in seguito integralmente richiamati dalla giurisprudenza in materia cautelare. In particolare, quando una motivazione si riporta al contenuto di altro atto, come un
provvedimento giudiziale o un atto a contenuto probatorio o un protocollo di parte, per essere legittima occorre che il giudice faccia riferimento a un atto, altrettanto legittimo, del procedimento, dotato di
motivazione congrua, che dia dimostrazione di avere preso cognizione del contenuto sostanziale delle
ragioni del provvedimento di riferimento e di averle meditate e ritenute coerenti con la sua decisione, e
infine che l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato 35.
In definitiva, davanti a tale contromossa ermeneutica con cui la cassazione più recente, con ripetute
pronunce, ha voluto porre un freno all’esercizio disinvolto del potere integrativo da parte del giudice
del riesame, non sembra del tutto peregrino pensare che il nuovo intervento normativo fosse atteso: il
quadro giurisprudenziale tracciato sembrava, invero, preannunciarlo.
LE INTERPOLAZIONI LEGISLATIVE DEL 2015
Ebbene, su tale assetto come interviene il legislatore del 2015? Includendo tra i parametri indicati nell’art.
292, comma 2, lett. c) e c-bis) c.p.p. l’obbligo di un’«autonoma valutazione» degli indizi, delle esigenze
cautelari, degli elementi forniti dalla difesa, nonché dell’inadeguatezza di misure meno afflittive nel caso
venga disposta la custodia cautelare in carcere. Alla stregua degli altri, il nuovo requisito è previsto a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Sanzione che dovrà applicare il tribunale del riesame laddove ne
riscontri il difetto: anche l’art. 309, comma 9, c.p.p., infatti, è stato arricchito, prevedendosi l’annullamento
30
Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, in CED Cass., n. 259554.
31
Cass., sez. VI, 4 aprile 2014, n. 12032, in CED Cass., n. 259462. Nello stesso senso, Cass., sez. VI, 24 maggio 2012, n. 22327, in
Arch. n. proc. pen., 2012, p. 655, con nota di A. Nuzzo, Appunti sul potere di integrare la motivazione dell’ordinanza cautelare in sede di
riesame. Cfr. altresì N. La Rocca, In tema di requisiti minimi per la motivazione delle decisioni cautelari, in Giur. it., 2013, p. 169.
32
Cass., sez. II, 14 giugno 2012, n. 25513, in CED Cass., n. 253247.
33
Cass., 24 maggio 2012, n. 25631, in CED Cass., n. 254161. In senso analogo, Cass., sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, cit.;
Cass., sez. VI, 6, 4 marzo 2014, n. 12032, in CED Cass., n. 259462.
34
Cass., sez. VI, 1° febbraio 2007, n. 35823, in CED Cass., n. 237841.
35
Cass. sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in CED Cass., n. 216664.
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del provvedimento impugnato “se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”.
Grazie a tali innesti sembrerebbe che il coordinamento – necessario e inevitabile – tra la sanzione di
nullità che dovrebbe colpire l’ordinanza difettosa dei requisiti imposti dall’art. 292 c.p.p. e il potere del
tribunale del riesame di integrare il provvedimento viziato è adesso regolato con un minore margine di
flessibilità. Gli spazi di integrazione riconosciuti sino ad oggi al tribunale del riesame dovrebbero subire ora un forte ridimensionamento, essendo ammessi esclusivamente per le sole ipotesi di motivazione
per relationem, purché redatta secondo i criteri elaborati dalla Suprema Corte, e di motivazione insufficiente; per contro, sembra escluso che il tribunale possa supplire alle ‘negligenze’ del primo giudice nei
casi di motivazione mancante, apparente o priva di una autonoma valutazione, in presenza dei quali,
invece, sembra d’ora in poi obbligato a dichiarare la nullità del provvedimento. Il potere di integrazione dovrebbe presupporre, infatti, che una motivazione ci sia e, nelle prime due ipotesi, la motivazione o
manca del tutto o è apparente, vale a dire ridotta a “giustificare” attraverso l’uso di mere clausole di stile o di inutili frasi apodittiche, o ancora mediante il sistema del “copia e incolla” informatico 36; nella
terza, la motivazione c’è, ma non contiene un ragionamento autonomo che mette in relazione gli elementi di fatto considerati rilevanti con le ragioni che hanno indotto il giudice a ritenere sussistenti i
presupposti della misura adottata 37. Ne deriva che, in caso di motivazione per relationem, il provvedimento sarà legittimo solo se il giudice dimostra di avere preso cognizione dell’atto richiamato e di avere effettivamente soppesato la coerenza di questo con la decisione assunta, mediante una valutazione
esplicita e autonoma delle ragioni per cui egli ritiene di potere attribuire al compendio indiziario (quello contenuto nell’atto di riferimento) un significato coerente rispetto alla sua decisione.
AFFIEVOLIMENTO DELLE GARANZIE O ESTENSIONE DEL POTERE DI ANNULLAMENTO IN SEDE DI RIESAME?
Prima di provare a tirare le somme, dovremmo a questo punto chiederci quale sia la funzione del tribunale del riesame. Sicuramente non è quella di riscrivere il provvedimento cautelare che si presenti
non conforme alle prescrizioni di legge, bensì quella di controllarne i passaggi argomentativi in punto
di giustificazione del sacrificio della libertà personale. Chi dovrà attenersi ai comandi contenutistici ex
art. 292 c.p.p., corredando il provvedimento di un impianto motivazionale coerente, logico, completo, e
ora anche «autonomo» rispetto alle «suggestioni che, inevitabilmente provengono dalla parte pubblica» 38, è il giudice che lo ha emesso, onde garantire in termini di effettività il diritto di difesa. L’obbligo
costituzionale di disporre limitazioni della libertà personale con provvedimento motivato, infatti, è riferito dagli artt. 2 e 13 Cost. al momento genetico dell’atto coercitivo, proprio in ragione della sua immediata esecutività, da cui deriva la restrizione della libertà prima del controllo in contraddittorio 39.
In quanto rimedio proposto per risolvere una questione cautelare con le garanzie del contraddittorio, il riesame innesca un tempestivo procedimento incidentale nel procedimento principale che, grazie
a una dialettica tendenzialmente piena, sia idoneo a riequilibrare una situazione determinata da un “actu duarum personarum” 40. Il giudice della cautela, di norma il giudice per le indagini preliminari, deve,
infatti, decidere della libertà personale «senza accertamento dei fatti, in tempi ragionevolmente ristretti
e, soprattutto, avendo dei fatti una conoscenza solo unilaterale e filtrata», in quanto gli atti che deve valutare «autonomamente» si sono formati in un ufficio diverso 41. La sua decisione, su impulso dell’inte-
36
Il collage informatico, molto usato dal giudice della cautela, integra una motivazione apparente se il decidente non dimostri di avere valutato criticamente gli specifici elementi indiziari emersi nel corso delle indagini: Cass, sez. VI, 24 maggio 2012, n.
22327, in Proc. pen. giust., 2012, 6.
37
«Motivare non significa elencare gli elementi a carico dell’indagato, ma valutare detti elementi in modo critico, spiegandone il rilievo indiziario»: testualmente, L. Giordano, Sull’annullamento dell’ordinanza cautelare priva dell’autonoma valutazione degli
indizi e delle esigenze, in www.penalecontemporaneo.it.
38
M. Perrotti, La riforma del sistema cautelare vive nelle procedure camerali incidentali, cit., p. 4.
39
In tal senso M. Ceresa Gastaldo, Una singolare antifrasi, cit., p. 3, per il quale la formazione in itinere del provvedimento, se
è ammessa perché fisiologica nel giudizio di appello contro la sentenza penale, è del tutto bandita in tema di misure cautelari,
nel cui ambito non può ammettersi una formazione progressiva della fattispecie.
40
F. Cordero, Procedura Penale, cit. p. 516.
41
Insomma: «un solista che ascolta in monotonia e si esprime in polifonia […] primo garante del merito […] e vittima sacrifi-
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ressato, è pertanto sottoposta al controllo da parte del giudice del riesame, i cui confini cognitivi possono anche non coincidere con quelli del primo decidente. Il giudizio del tribunale del riesame, innescando per la prima volta il contraddittorio, potrà invero basarsi anche sui nuovi elementi prodotti dall’interessato o dal pubblico ministero; elementi che potrebbero dar luogo alle tanto discusse “ragioni diverse” con le quali il giudice del controllo può confermare il provvedimento impugnato, discendendo
tale facoltà dall’art. 309, comma 9, ultima parte, c.p.p., che non è stata ritoccata dal riformatore del
2015 42.
Orbene, la scelta del legislatore di lasciare integra la discussa formula contenuta in tale disposizione
è stata assai criticata da una parte della dottrina, che vi ha attribuito, addirittura, le ragioni del probabile insuccesso della riforma sulla motivazione cautelare 43. Tuttavia, che l’unica strada per azzerare il potere integrativo attribuito al giudice del controllo sia quella di privarlo del potere di confermare il
provvedimento impugnato anche per ragioni diverse da quelle in esso contenute non sembra del tutto
condivisibile.
Vero è che, lasciando inalterato il comma 9 dell’art. 309 c.p.p., si rischia che se ne perpetui l’uso eterodosso, di cui la Suprema Corte, come si è visto, si è resa non di rado complice. Al contempo, però,
non può ignorarsi la posizione di resistenza assunta da parte di quel filone giurisprudenziale in contrasto con l’indirizzo che, ammettendo una dilatazione oltre misura dei poteri integrativi del giudice del
riesame, aveva operato una vera e propria «mutazione genetica» del tribunale della libertà in giudice
del rimedio delle lacune dell’attività del primo giudice 44. La più recente giurisprudenza ha, infatti, il
merito di avere messo in luce ed emendato la distorsione interpretativa applicata al dettato di cui
all’art. 309, comma 9, ultima parte, c.p.p., tanto da spronare il legislatore a fissare regole certe in tema di
relazione tra gravame e nullità. La scelta del riformatore si è, quindi, focalizzata sul rafforzamento
dell’onere della motivazione e sulla correlata previsione di un’esplicita sanzione di nullità nelle ipotesi
di motivazione mancante e di motivazione priva di «autonoma valutazione» dei presupposti applicativi
della misura rispetto alle “ragioni” del pubblico ministero.
Del resto, accanto a un potere cognitivo potenzialmente più ampio di quello del primo giudice non
poteva non rinforzarsi il potere di decisione del giudice del controllo, assoggettandolo, tuttavia, a precise regole di giudizio: l’annullamento colpirà i provvedimenti inficiati da vizi di legittimità attinenti ai
presupposti e alla forma, tra cui anche i vizi di motivazione, salvo che si tratta di vizi modesti, rettificabili (rectius: consolidabili) anche alla luce dei nuovi elementi di prova introdotti nel corso del procedimento. Nessuna sanatoria quindi potrà operarsi, potendo il tribunale del riesame al più “consolidare”
l’azione cautelare legittimamente esercitata, aderendo al ragionamento del primo giudice, giudicato
adeguato rispetto alle prescrizioni di legge, anche mediante “motivazioni diverse”, che tengano conto
dei nova emersi dal contraddittorio.
Da qui, forse, l’opportunità di rimodulare i rapporti tra requisiti della motivazione cautelare e potere
di annullamento mantenendo integro il potere di confermare il provvedimento cautelare “per ragioni
diverse” ex art. 309, comma 9, c.p.p. Del resto, l’essenza della funzione di garanzia e di controllo immediato affidata al riesame sta proprio nel fatto che, «se legalità, in tema di libertà personale, è sinonimo
di rispetto di regole poste dalla legge per orientare le scelte del giudice, l’intervento in funzione di controllo non può non vertere sui parametri e sulle prescrizioni legislative che circoscrivono la discrezionalità concessa all’organo chiamato ad adottare atti che incidono sulle libertà dell’indagato o dell’impucale del sistema cautelare, stretto tra legittime istanze di speditezza prospettate dal p.m., la necessità di verificare la fondatezza
della domanda, oltre che assicurare il rispetto massimo delle garanzie per il destinatario della afflizione ante iudicium», così M.
Perrotti, La riforma del sistema cautelare vive nelle procedure camerali incidentali, cit., p. 4.
42
Diversamente, il “progetto Canzio”, di cui è tributaria la riforma in esame, prevedeva la sua elisione per dare massima
espansione al potere di annullamento del tribunale della libertà.
43
M. Ceresa Gastaldo, Una singolare antifrasi, p. 7, secondo cui alla mancata eliminazione del comma 9, ultima parte, dell’art.
309 c.p.p. corrisponderà «la pedissequa traduzione normativa della tesi giurisprudenziale più lassista in tema di garanzie, che
concepisce il tribunale della libertà come organo vassallo della funzione cautelare»; D. Chinnici, I nuovi parametri in tema di motivazione del provvedimento di restrizione cautelare, cit., p. 89, per la quale la scelta dei conditores di un intervento non tranchant induce a dubitare della riperimetrazione in senso delimitativo dell’area di azione del giudice ad quem»; E. Marzaduri, Linee di riforma,
cit., p. 11, che afferma come «solo se si riterrà di eliminare questa facoltà, potrà assumere piena rilevanza in sede di riesame la
gamma dei vizi di motivazione».
44
Si esprime in questi termini, D. Chinnici, I nuovi parametri in tema di motivazione del provvedimento di restrizione cautelare della
libertà personale e dell’ordinanza del tribunale de libertate, cit. p. 82.
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tato» 45. Il controllo, pertanto, non può non avere ad oggetto il rispetto delle regole normative prescritte
per un corretto uso del potere cautelare: parametri precisi da cui trarre le effettive condizioni giustificative della restrizione della libertà personale e previsione di sanzioni contro le generiche e immotivate
discrezionalità giudiziali 46. Il requisito dell’«autonoma valutazione» rispetto alla domanda cautelare si
aggiunge, quindi, al compendio di presupposti contenutistici cui deve uniformarsi l’atto coercitivo,
senza per ciò tradursi, tuttavia, in originale esposizione degli atti a contenuto probatorio sottoposti al
vaglio del giudice della cautela 47.
In definitiva, la novella sembra emendare la deplorevole prassi che, attribuendo un ‘potere supplementare’ al giudice del riesame, finiva col limitare fortemente il diritto di difesa. Al rafforzamento della
motivazione del primo giudice fa da pendant il rafforzamento del potere di annullamento in sede di
controllo della validità della misura adottata e il conseguente affievolimento del potere di supplire a
eventuali inadeguatezze della motivazione, attraverso la ritessitura delle trame difettose 48.
45
M. Ferraioli, Il riesame “anche nel merito”, cit., p. 125. Cfr., altresì, P. Spagnolo, Il tribunale della libertà. Tra normativa nazionale
e normativa internazionale, cit., p. 147 ss.
46
Ancora M. Ferraioli, Il riesame “anche nel merito”, cit., p. 127, per la quale, quando il tribunale della libertà è chiamato a controllare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, «tale controllo non può prescindere dal convincimento espresso
dall’organo giurisdizionale e dunque dall’apparato motivazionale del provvedimento impositivo della misura». Il controllo poi
si estende alla verifica dell’esistenza in concreto delle esigenze cautelari, verificando anche le scelte in tema di maggiore o minore afflittività. L’A. conclude che «il collegio deve, quindi, accertare che, nella spiegazione delle ragioni della privazione della
libertà, si sia dato conto dei passaggi argomentativi che, muovendo dal preliminare giudizio di necessità della misura (proporzionalità), si snodano attraverso gli ulteriori giudizi di adeguatezza e di minor sacrificio» (p. 129).
47
Di questo avviso R. Bricchetti-L. Pistorelli, Valutazione autonoma del quadro indiziario da parte del giudice, cit., p. 49.
48
Sul piano applicativo si registra una delle prime decisioni di annullamento di un’ordinanza cautelare per difetto di autonoma valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, nella quale si afferma come oramai sia precluso al
giudice del controllo cautelare «il potere di integrare, argomentare o valutare ex novo elementi fondanti il titolo custodiale», essendo stata prevista espressamente per tali fattispecie la sanzione processuale dell’annullamento del provvedimento (Trib. Napoli, sez. XII – riesame, ord. 19 maggio 2015, in www.penalecontemporaneo.it.).
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ANTONELLA MARANDOLA
Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi L.U.M. Jean Monnet
Ricorso (tardivo) inammissibile e (ir)reversibilità
dell’illegalità della pena
Inadmissibility of the appeal out of time and (ir)irreversibility of the
legality of the sanction
Prosegue il percorso giurisprudenziale della Cassazione a Sezioni Riunite nel dirimere le questioni inerenti all’illegalità della pena. Ancora una volta, il Supremo Collegio ha affrontato il tema del rapporto tra l’inammissibilità del ricorso (tardivo) e l’illegalità del trattamento sanzionatorio irrogato. Com’è noto, queste tematiche non sono nuove
nello scenario giurisprudenziale e le relative scelte hanno condizionato anche la sua più recente decisione. Collocandosi entro quel cono, la nuova decisione delle Sezioni Unite offre lo spunto per una lettura più ampia di tale innovativa fenomenologia.
Continues the path of the Supreme Court case law in the United Chambers in resolving issues related to illegality
of the sentence. In the most recent decision the Supreme Board addressed the issue of the relationship between
the ‘inadmissibility of the (late) appeal and the illegality of the sanctions imposed treatment. As it is known, these
issues are not new in the jurisprudential scenario and the last decisions have also affected the judgment examined here. Placing within that cone, the new decision of the United Sections offers the starting point for a broader
reading of this innovative phenomenology.
LA QUESTIONE
Ancora una volta, con la recente decisione n. 47766 del 2015, le Sezioni Unite tornano ad affrontare il nodo
interpretativo relativo alla rilevabilità d’ufficio da parte del giudice dell’impugnazione, nel caso del gravame tardivamente presentato, dell’illegalità della pena determinata, in questo caso, dall’applicazione di
una sanzione ab origine contraria a quella irrogabile al momento della consumazione del reato 1. Nel caso
di specie la Cassazione fornisce una risposta negativa al quesito relativo alla rimozione e relativo adeguamento dell’applicazione erronea da parte del tribunale delle pene ordinarie ai reati che, rientrando
nella competenza del giudice di pace, sottostanno al regime stabilito dagli artt. 52 e ss. d.lgs. n. 274 del
2000.
IL “CONCORDATO GIURISPRUDENZIALE” SULLA PRECLUSIONE AL VAGLIO DI MERITO IN CASO DI INAMMISSIBILITÀ DEL GRAVAME
Temi noti e generali quelli in discussione: da un lato quello relativo agli effetti e ai riflessi derivanti
dall’inammissibilità dell’impugnazione e dall’altro quello della rilevabilità d’ufficio, nonostante l’inammissibilità, della illegalità della sanzione penale.
Sotto il primo aspetto, la decisione si colloca all’interno di quel filone per cui, dopo alcune iniziali
aperture giurisprudenziali volte al recupero della classica distinzione tra cause di inammissibilità origi-
1
V., già, Cass., sez. un., 7 luglio 1984, n. 7232, in Giur. it., 1985, II, p. 178.
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narie e sopravvenute 2, la Cassazione è progressivamente approdata ad un suo graduale superamento.
Muovendo tendenzialmente dalla nuova disciplina processuale dell’impugnazione – stabilita all’art.
581 c.p.p. – che, in coerenza con la logica della razionalizzazione e semplificazione, prevede che sia
avanzata con un unico atto scritto contenente i due elementi la dichiarazione e i motivi, i quali integrano, rispettivamente, la volontà di non prestare acquiescenza al provvedimento impugnato e il substrato
argomentativo che esplicita le ragioni per le quali si ritiene ingiusta o contra legem la decisione impugnata, ma anche dall’avvertita necessità di un “contenimento” dei ricorsi, ogni iniziale spazio di cognizione da parte del giudice di legittimità, a fronte di un atto ab origine affetto da inammissibilità è stato
“progressivamente” eroso, in ragione della sua inidoneità ad instaurare un rapporto di impugnazione,
inibendo o quantomeno riducendo, l’ambito del possibile esercizio dei poteri officiosi del giudice 3.
La mancanza, nell’atto d’impugnazione, dei requisiti prescritti dall’art. 581 c.p.p., compreso quello
della specificità dei motivi, rende l’atto medesimo inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio e a
produrre gli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione
d’inammissibilità.
Per quanto lenta e graduale, tale impostazione 4 – appena confermata – sviluppatasi attorno all’applicazione dell’art. 129 c.p.p., riposa su una visione sostanzialistica della dinamica delle impugnazioni e
delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali: essa ha unificato gli effetti dell’inammissibilità, riducendo la distinzione, fra presupposti formali e condizioni successive, a cui consegue,
pur nella diversità – originariamente valorizzata – dei differenti presupposti, l’interdizione alla trattazione del “merito”. Chiaro il percorso logico-giuridico seguito, nel tempo, dalle Sezioni Unite.
L’autorevole Collegio ha inizialmente affermato che la sola mancanza dei requisiti previsti dall’art. 581
c.p.p. impedisce di rilevare e dichiarare eventuali cause di non punibilità, in quanto l’atto privo dei requisiti formali, compreso quello della specificità dei motivi, non costituisce una valida impugnazione e quindi
non produce gli effetti introduttivi del giudizio di impugnazione, cui si collega la possibilità di emettere
una pronuncia diversa dalla “dichiarazione di inaccessibilità”. Tali considerazioni sono state successivamente sviluppate 5 valorizzando la centralità dell’art. 591 c.p.p., anche per le ipotesi riguardanti l’infondatezza dei motivi, i motivi non consentiti e le violazioni di legge non dedotte in appello 6. Anche tali ipotesi
attualmente sono annoverate fra le condizioni incapaci di consentire l’accesso al giudizio di gravame. Si è
sostento che l’inammissibilità integra una invalidità del ricorso che non consente l’integrazione di un valido rapporto processuale: l’atto non possiederebbe quella necessaria “forza propulsiva” per instaurare l’ulteriore grado del processo. E, si badi, tale conclusione vale tanto più nel caso della tardività dell’atto d’impugnazione, in quanto si tratta dell’ipotesi nella quale –più delle altre – il giudicato sostanziale si trasforma
ictu oculi in giudicato formale che il giudice dell’impugnazione deve solo attestare. Tale conclusione esce
rafforzata con la più recente sent. n. 47766 del 2015. La decisione conferma che la presentazione del grava-
2
Trattasi della teoria avanzata da V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, IV, Torino, 1932, p. 523, secondo cui
l’art. 152 c.p.p. 1930 (ora 129 c.p.p.) non può trovare applicazione e l’inammissibilità deve essere dichiarata senz’altro ed in via
pregiudiziale in presenza delle cause d’inammissibilità «che ne viziano l’origine, cioè la dichiarazione, in quanto questa riguardi
un provvedimento inoppugnabile, o non impugnabile col gravame proposto, o sia stata proposta da chi non ne aveva il diritto,
od oltre il termine legale»; diversamente l’art. 152 c.p.p. «deve essere applicato anche d’ufficio senza prendere in considerazione
la questione riguardante l’ammissibilità della impugnazione» nelle ipotesi in cui «la dichiarazione d’impugnazione risulta validamente proposta, mentre il gravame apparisce inammissibile per una causa sopravvenuta (omessa o irrituale presentazione
dei motivi; mancata costituzione in carcere; rinuncia al gravame), essendo tuttora in corso il procedimento per effetto della
regolare dichiarazione». Va ricordato che la conclusione basata sulla distinzione tra cause di inammissibilità originarie e cause
di inammissibilità sopravvenute – alla quale in alcuni casi si associava anche quella tra cause di inammissibilità rilevabili dal
giudice a quo e cause di inammissibilità rilevabili solo dal giudice ad quem (v. U. Aloisi, Manuale pratico di procedura penale,
Milano, 1932, pp. 452-453) – si conformava ad un sistema qual’era quello abrogato imperniato sulla bipartizione dell’impugnazione nell’atto di impugnazione e nella presentazione dei motivi, nonché sul potere ripartito tra giudice a quo e giudice ad
quem nella verifica dell’inammissibilità.
3
Per più ampie considerazioni, v., per tutti, R. Fonti, L’inammissibilità degli atti processuali, Padova, 2008, passim.
4
In sequenza, Cass., sez. un., 11 novembre 1994, n. 21, in Giur. it., 1996, II, p. 481; Cass., sez. un., 30 giugno 1999, n. 15, in
Cass. pen., 2000, p. 30; Cass., sez. un., 27 giugno 2001, n. 33542, ivi, 2002, p. 81; Cass., sez. un, 22 marzo 2005, n. 23428, in Dir. e
giustizia, 2005, 30, p. 79; Cass., sez. un., 2 novembre 2009, n. 32, ivi, 2001, p. 1760; Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 12602.
5
Cass., sez. un., 30 giugno 1999, n. 15.
6
In progressione Cass., sez. un., 27 giugno 2001, n. 33542; Cass., sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428, cit., e Cass., sez. un., 2
novembre 2009, n. 32, cit.
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me oltre il termine di legge concretizza un simulacro di gravame incapace di instaurare un rapporto d’impugnazione, inibendo al giudice di esercitare (anche) i suoi poteri officiosi.
Se la categoria dell’“inammissibilità” è effetto e reazione del sistema alla riscontrata presenza di un
vizio che impedisce al giudice di entrare media res a vagliare il gravame, tanto più essa opera nel caso
dell’avvenuta decorrenza temporale: la riscontrata perenzione dei termini importa che il giudice non
possa procedere alla trattazione dell’oggetto della richiesta, ma deve unicamente pronunciare un provvedimento di rito attestante l’inidoneità della domanda a far sorgere il dovere di pronunciarsi 7, anche
quando si prospetti l’illegalità del trattamento sanzionatorio. Non v’è dubbio che il percorso logicoargomentativo seguito dalle Sezioni Unite è stato segnato dal dictum della recentissima sentenza Jazouli 8, in cui, dopo aver confermato l’obbligo di eliminazione dell’illegalità della pena 9, da parte del giudice, a prescindere dalle ragioni dell’impugnazione, il Collegio Riunito puntualizza come una deroga alla
«prevalenza della illegalità della pena sul giudicato sostanziale è rappresentata dal ricorso inammissibile perché tardivamente proposto. In questo caso, infatti, si è in presenza di un gravame sin dall’origine
inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla
mancata proposizione del gravame ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale 10,
sicché il giudice dell’impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto».
Collocata nel delineato cono prospettico, la tardività dell’impugnazione è ipotesi che più delle altre
manifesta la natura dirimente della inammissibilità, destinata comunque a prevalere anche in un caso,
come quello in esame, di illegalità ab origine della pena che meriterebbe, come si vedrà, altro trattamento. In conclusione, per la più autorevole parte della Cassazione nulla può il giudice di legittimità a fronte dell’illegittima irrogazione da parte del giudice ordinario di pene estranee alle fattispecie criminose
giudicate ex art. 63 d.lgs. n. 274 del 2000, se la condanna è contenuta in una sentenza non tempestivamente impugnata, come hanno, di recente, confermato taluni esponenti della magistratura nell’interpretare la disciplina transitoria della depenalizzazione recentemente varata (v. art. 12, d.lgs. n. 7 del
2016 e artt. 8 e 9, d.lgs. n. 8 del 2016) 11.
Nel formulare tale soluzione, le Sezioni Unite rigettano, inoltre, la teoria che, muovendo dal tenore
degli artt. 591, comma 2, e 648, comma 2, c.p.p., ammette l’esistenza di uno “scarto temporale”, entro il
quale sarebbe consentito al giudice di constatare i vizi rilevabili e dichiarabili d’ufficio 12, fra il momento
dell’accertamento della tardività dell’impugnazione e l’acquisizione della qualità della irrevocabilità,
prima, ed esecutività, poi, della sentenza.
Se l’irrevocabilità è fenomeno che si realizza dal momento della pronuncia in giudizio per le sentenze contro cui non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione (a cui oggi si aggiungono il ricorso
straordinario per cassazione ex art. 625 bis c.p.p. o la rescissione del giudicato ex art. 625 ter c.p.p.) 13 o
quando è inutilmente decorso il termine per proporla (se l’impugnazione è ammessa), quello per impugnare l’ordinanza (ricorribile per cassazione) che ne dichiara l’inammissibilità, o alla scadenza del termine perentorio nel caso di mancata impugnazione, è altrettanto certo – per il Collegio – che se l’impugnazione – pur ammessa – non è presentata o sia inutilmente decorso il termine per proporla, il giudicato si forma automaticamente all’atto della scadenza dei termini legali. Ne discende che, se nel primo
caso il richiamo a quell’esegesi potrebbe avere qualche senso, nel caso della tardività del gravame,
quell’impostazione si rivela inconferente e – come confermano le Sezioni Unite – mostra tutti i suoi limiti. Tale ipotesi non consentirebbe di valutare nel giudizio di legittimità il tema della “illegalità della
pena” attesa la sovrapposizione fra il giudicato formale e sostanziale 14. Certamente non si dubita che
nel caso del ricorso per cassazione la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza
7
Sul punto v., per tutti, O. Dominioni, Improcedibilità e proscioglimento nel sistema processuale penale, Milano, 1974, p. 142 ss.
8
Cass., sez. un., 26 febbraio 2015, n. 33040, in Foro it., 2015, 12, p. 694, con nota di Lo Forte Amato.
9
Nel caso di specie trattasi di una sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.
10
Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, in Cass. pen., 2001, p. 1760.
11
V. Linee-guida elaborate della Procura di Trento per l’applicazione dei d.lgs. 15 gennaio 2016, nn. 7 e 8, in www. Dirittopenale
contemporaneo.it., 28 gennaio 2016.
12
V., G. Romeo, Alle Sezioni unite la questione della rilevabilità di ufficio dell’illegalità della pena in presenza di ricorso per cassazione
inammissibile, in www.dirittopenalecontemporaneo.it., 4 maggio 2015.
13
Cfr., D. Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale: confini normativi e frontiere giurisprudenziali, In questa Rivista, 2015, p. 4 ss.
14
Cass., sez. V, 3 dicembre 2003, n. 24926, in CED Cass. n. 229812; Cass., sez. V, 9 luglio 2004, n. 36293, in CED Cass. n. 230636.
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o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso, ma se, come si è detto, la scadenza del termine per impugnare si iscrive quale condizione per la formazione del giudicato, essendosi già integrata
l’irrevocabilità della decisione, deve ritenersi già estinto ogni potere del giudice della cognizione 15. Non
sembra così sostenibile che al giudice di legittimità sia consentita un’escursione in punto d’illegalità
della pena fino a quando non venga dichiarata l’inammissibilità del gravame 16: la sentenza, come hanno sostenuto, in altra occasione, le Sezioni Unite, deve solo essere eseguita a cura del pubblico ministero, poiché, altrimenti, la presentazione di un atto di impugnazione fuori termine sarebbe sempre sufficiente ad impedire la formazione del giudicato formale, con intuibili riverberi sulla fase esecutiva 17:
sotto tale aspetto non sembrano, dunque, esserci diversi margini interpretativi.
Il consolidato principio di diritto che assegna all’inammissibilità il ruolo preclusivo all’esercizio giudiziale di poteri ex officio e ritiene coincidente la formazione fra giudicato sostanziale e formale esce ulteriormente rafforzato dalla recente decisione delle Sezioni Unite 18 che nega alla Cassazione, adita con
ricorso inammissibile, il potere di dichiarare la prescrizione del reato intervenuta prima della sentenza
di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede o nei motivi di ricorso e, al contrario, ammette che
il ricorso non possa considerarsi inammissibile se con esso viene dedotta – anche come unico motivo –
l’intervenuta prescrizione del reato maturata prima della sentenza di appello.
Anche sotto tale peculiare aspetto le Sezioni Unite hanno confermato la linea interpretativa già tracciata in plurime occasioni dal Collegio Riunito, rafforzando la corretta impostazione sistematica e la rigorosa
consequenzialità logica su cui essa riposa. Essa ribadisce, invero, come la ritenuta priorità logica e cronologica dell’accertata inammissibilità del ricorso per cassazione origina la preclusione all’esame del merito
e interdice la rilevabilità della estinzione del reato per prescrizione, verificatasi prima della pronuncia della sentenza d’appello, ma non rilevata dal giudice di seconde cure e neppure dedotta dalla difesa
dell’imputato, né in sede di merito, né con il ricorso per cassazione. Per la Corte l’assunto resiste tanto rispetto ai compiti specificatamente assegnati alla Corte di Cassazione nelle ipotesi di questioni rilevabili
d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, quanto rispetto a quanto prevede l’art. 609, comma 2, c.p.p.
Ricostruita definitivamente l’inammissibilità come categoria unitaria, ponendosi l’atto viziato al di
fuori della cornice normativa di riferimento, esso risulta inidoneo ad investire il giudice del grado successivo della piena cognizione del processo, stante il principio dispositivo su cui il sistema si fonda: in
altri termini, laddove l’impugnazione è inammissibile non può il giudice ex officio dichiarare l’esistenza
di una causa di non punibilità. Indipendentemente dall’art. 609, comma 2, c.p.p., che amplia lo spazio
di cognizione del giudice di legittimità al di là dei motivi proposti – consentendo l’esame delle questioni rilevabili d’ufficio – la verifica negativa circa l’ammissibilità dell’impugnazione – come si è più volte
detto – ha natura prioritaria, autonoma e valore assorbente e preclusivo rispetto a qualsiasi, altra, indagine di merito 19, salve le eccezioni di seguito indicate 20.
In coerenza con le argomentazioni sin qui svolte, ad una conclusione differente deve giungersi, invece,
quando il ricorso per cassazione venga avanzato (anche) al solo fine di far valere la maturata prescrizione.
In tal caso, è chiaro, infatti, che l’impugnazione mira ad emendare la violazione di legge: il ricorso è certamente ammissibile perché volto a fare valere l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale (ex
art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p.); né l’ammissibilità del ricorso è pregiudicata dal fatto che il ricorrente,
nelle conclusioni rassegnate in appello non abbia eccepito la prescrizione già maturata; né all’ammissibilità del ricorso osta – nel caso della maturazione della prescrizione addirittura prima dell’appello – la man15
È chiaro che la conclusione sarebbe di segno differente ogniqualvolta il ricorso consenta alla Cassazione di accedere –
negandola anche parzialmente – al tema della responsabilità del condannato, non potendo quella decisione non incidere anche
sul trattamento sanzionatorio.
16
Cfr., sempre, G. Romeo, Alle Sezioni unite la questione della rilevabilità di ufficio dell’illegalità della pena, cit.
17
V., anche, Cass., sez. un., 25 febbraio 2004, n. 24246, in Cass. pen., 2004, p. 3141, con nota critica di G. Leo, Ricorso
inammissibile e sopravvenuta remissione della querela: un passo indietro delle Sezioni unite.
18
Il rinvio va a Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 12602. V., già, Cass., sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428.
19
Cfr., ancora, Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 12602 nella quale si fa presente che la ricostruzione de qua «non si pone in
contrasto neppure con i diritti garantiti dagli artt. 6, § 1 e 2, e 7, § 1 Cedu posto che è onere della parte interessata attivare
correttamente il rapporto processuale d’impugnazione, con l’effetto che, ove ciò non avvenga, il giudice del grado successivo
deve limitarsi a dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione e non ha poteri cognitivi sul merito del processo, il cui esito
rimane definito dalla pronuncia invalidamente impugnata, che non può più, quindi, essere emendata».
20
V. infra, § 4.
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cata precedente deduzione (arg. ex art. 606, comma 3, c.p.p.). Vertendosi attorno ad una sentenza di condanna emessa in violazione della legge l’intercorso error in iudicando, regolarmente prospettato, è indubbiamente idoneo ad attivare il rapporto processuale di grado superiore che, precludendo la formazione del cd.
giudicato sostanziale, impone al giudice di pronunciarsi ai sensi dell’art. 129 c.p.p. 21
L’ECCEZIONALE INTERVENTO DEL GIUDICE DELL’IMPUGNAZIONE ANCHE IN CASO D’INAMMISSIBILITÀ DEL
RICORSO (SE NON TARDIVO)
Al di là dell’aspetto appena trattato, deve rilevarsi come la menzionata corrente giurisprudenziale che,
in fasi successive, ha sviluppato una visione sostanzialistica della dinamica delle impugnazioni ha, in
verità, nel tempo manifestato qualche cedimento su piani diversi.
Muovendo ora dai poteri assegnati alla Corte di Cassazione (art. 609, comma 2, c.p.p.) 22, ora dal fatto
che le questioni dedotte rileverebbero anche nella fase esecutiva e, quindi, pure dopo la formazione del
giudicato – si è ritenuto – prevalentemente per ragioni di economia processuale – di superare il rigido
assetto giurisprudenziale prospettato, per ammettere anche in sede di legittimità, pur a fronte di un ricorso inammissibile, la dichiarazione ufficiosa della non punibilità nelle ipotesi di morte del reo, di remissione della querela intervenuta in pendenza del ricorso 23 o a fronte dell’abolitio criminis o dell’intervenuta statuizione d’incostituzionalità della norma penale incriminatrice 24 (o di una norma diversa che
incide sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio) 25 o in caso di mancata previsione del fatto
come reato (in conseguenza delle norme nazionali incompatibili con la normativa comunitaria) 26. In tali
casi, si è affermato, nulla osta all’“anticipata” (e ufficiosa) constatazione della illegalità della pena. Unico limite a tali dichiarazioni è l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza, nel qual caso – e solo
allora – provvederà il giudice dell’esecuzione ex art. 673 c.p.p. 27.
Per quanto attiene all’illegalità della pena, a confortare una tale eccezionale possibilità soccorrerebbe
ora l’applicazione analogica dell’art. 129 c.p.p. 28, ora il principio di legalità ex art. 1 c. p. e, più in generale, il ruolo e la funzione della pena, come concepita dall’art. 27 Cost. Pertanto, non vi è ragione per
escludere che le differenti modalità in cui si manifesta la contrarietà della pena all’ordinamento giuridico debba essere rilevata d’ufficio anche in presenza di un ricorso inammissibile, soprattutto in presenza
di una giurisprudenza di legittimità che, recependo i principi della Cedu, riconosce che si debba comunque intervenire, anche successivamente al giudicato, su una sanzione penale convenzionalmente e
costituzionalmente illegittima 29. Resta fermo il ruolo e lo spazio operativo che le differenti cause e i dif21
Sempre, Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 12602.
22
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 46653, in questa Rivista, 2015.
23
Cass., sez. un., 25 febbraio 2004, n. 24246, cit., stante la peculiarità di tale causa di non punibilità; nello stesso senso v., tra
le altre, Cass., sez. II, 28 aprile 2010, in CED Cass. n. 247088.
24
Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, in Cass. pen., 2001, p. 1760 e, ancora, Cass., sez. un., 25 febbraio 2004, n. 24246, sul
rilievo che l’eccezionale possibilità di incidere in executivis sul giudicato «parrebbe comportare che a tanto possa provvedere il
giudice dell’impugnazione inammissibile», a meno che non si tratti di impugnazione tardiva. Sempre nel senso che «l’inammissibilità del ricorso per cassazione in ragione della manifesta infondatezza dei motivi, o per altra causa, non impedisce di
rilevare, a norma dell’art. 129 c.p.p., la mancata previsione del fatto come reato in conseguenza della sopravvenuta “abolitio
criminis”» v., anche, Cass., sez. VII, 16 novembre 2011, in CED Cass. n. 251588; analogamente, tra le altre, Id., sez. IV, 6 maggio
2011, in CED Cass. n. 251096.
25
Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, in Dir. pen. e proc., 2015, p. 173, con commento di C. Pecorella, La rideterminazione
della pena in sede di esecuzione: le Sezioni Unite danno un altro colpo all’intangibilità del giudicato.
26
In tal senso v. Cass., sez. I, 5 ottobre 2011, in CED Cass. n. 251176; Cass., sez. III, 3 luglio 2008, in CED Cass. n. 241280; Id.,
sez. VII, 6 marzo 2008, in CED Cass. n. 239960; contra, Id., sez. III, 8 giugno 2011, in CED Cass., n. 251080; Id., sez. III, 12
settembre 2008, ivi, n. 240751.
27
Cass. sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858. V., amplius, M. Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la
bilancia pende tutta da una parte, in Cass. pen., 2015, p. 65; F. Palombino, Sulla idoneità del giudicato di Strasburgo a rendere inefficace il
contrastante giudicato nazionale, in Giur. it., 2007, p. 2283; R. Romboli, Nota a Cass., sez. un. pen., 29 maggio 2014, in Foro it., 2015, III,
p. 403; G. Sorrenti, La retroattività delle sentenze di accoglimento sul regime sanzionatorio penale si spinge fino a travolgere il verdetto
definitivo di condanna, in Foro it., 2015, p. 405.
28
Cass., sez. IV, 24 settembre 2002, n. 39631, in CED Cass. n. 225693.
29
Così, Cass., sez. V, 13 giugno 2014, n. 46122 che richiama Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, in CED Cass. nn. 25864951. Per la questione relativa alle istanze di revoca della sentenza definitiva di condanna promosse dai condannati che si
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ferenti parametri con i quali, di volta in volta, le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere la questione
inerente la contrarietà alla legge – qui genericamente intesa – del trattamento sanzionatorio che possono incidere in sede d’esecuzione e, dunque, anche innanzi alla Corte di Cassazione.
Così, senza pretesa di completezza, si ricorda come, di recente, le Sezioni Unite hanno annullato la
sentenza d’appello (pur in caso di inammissibilità del ricorso), per intervenuta modifica del trattamento
sanzionatorio, con conseguente riduzione dei termini di prescrizione, dopo la pronuncia della sentenza
impugnata 30 o ammesso (nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e indipendentemente
dalla proposizione dello specifico motivo riguardante il trattamento sanzionatorio) la possibilità di rilevare d’ufficio l’intervenuto mutamento del trattamento sanzionatorio – conseguente all’abolitio criminis
– intervenuto dopo l’emissione della sentenza e ignorato dal giudice della cognizione 31, anche nel caso
in cui la pena inflitta rientri, comunque, nella cornice edittale sopravvenuta, consentendo, così, una
nuova valutazione.
Ad ogni buon conto, anche i manifestati eccezionali poteri sono, in ogni caso, esclusi proprio nel caso del ricorso tardivo.
LO “STIGMA” DELL’INGIUSTIZIA NELLA PENA ILLEGALE
Una volta esclusa la rilevabilità della questione inerente all’erroneo trattamento sanzionatorio da parte
della Cassazione le Sezioni Unite devolvono la questione al giudice dell’esecuzione. La tematica in
esame si pone, allora, nell’ambito del più ampio dibattito avente ad oggetto il contenuto e l’ambito di
applicazione del principio di legalità della pena in ambito esecutivo. Com’è noto, sotto tale aspetto, è
oramai incontestata la possibilità, ergo, la necessità, che il giudice dell’esecuzione, attraverso il rimedio
dell’incidente d’esecuzione, possa correggere, eliminare o rideterminare la pena principale (e quelle accessorie) irrogata in violazione dei diversi parametri (europei, costituzionali o ordinari) normativamente fissati.
Puntualizzazioni dirimenti sono state fornite e continuano ad essere fornite, sul punto, dalla Cassazione, anche a Sezioni Unite. L’orizzonte interpretativo si apre lungo due direttrici: da un lato, quello riguardante il superamento dello storico formalismo che, per lungo tempo, ha circondato l’idea del “rapporto esaurito”, preclusivo di interventi sul giudicato, non più suscettibile di rimozione e, dall’altro,
quello concernente l’individuazione del potere correttivo spettante al giudice dell’esecuzione e, in caso
di esito positivo, la sua ampiezza.
Sotto il primo aspetto occorre distinguere, invero, il versante della responsabilità giudizialmente accertata, da quello del trattamento sanzionatorio. Pur stabiliti entrambi nella sentenza irrevocabile di
condanna è dato certo che solo il secondo può subire le modificazioni necessarie imposte dal sistema a
tutela dei diritti primari della persona. All’intangibilità dei profili relativi alla sussistenza del fatto, alla
sua attribuibilità soggettiva e alla sua qualificazione giuridica che costituiscono il giudicato (art. 651
c.p.p.), si contrappone, come si è ben affermato nella sentenza Gatto 32, l’aggredibilità, invece, della specie e della misura della pena inflitta.
Superata quell’impostazione che, in ragione dell’art. 2, comma 4, c.p.p., identificava nel giudicato il
limite temporale oltre il quale la legge penale più favorevole non può più essere applicata, è da tempo
che si ammette l’intervento sul trattamento punitivo fino al momento in cui la sanzione non sia stata interamente scontata 33. Un tale potere si giustifica in quanto l’esecuzione della pena implica un rapporto
trovavano in una situazione analoga o identica a quella esaminata nel cd. caso Scoppola, v. Cass., sez. un., 19 aprile 2012, n.
34472, in CED Cass. n. 252933, su cui, fra gli altri, L. Cantarini, Lealtà dell’esecuzione e composizioni sulla pena: la sorte dei “fratelli
minori” di Scoppola?, in Arch. pen. web, 2013; G. Romeo, L’orizzonte dei giuristi e i figli di un dio minore. Ancora sui “fratelli minori” di
Scoppola, aspettando le Sezioni Unite, in www.penalecontemporaneo.it; F. Viganò, Una prima pronuncia delle Sezioni Unite sui “fratelli
minori” di Scoppola: resta fermo l’ergastolo per chi abbia chiesto il rito abbreviato dopo il 24 novembre 2000, in www.penalecontempo
raneo.it.
30
Cass., sez. III, 6 novembre 2014, in CED Cass. n. 271709.
31
Cass., sez. un., 29 ottobre 2015, non ancora depositata.
32
Ancora, Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, cit.
33
Cfr., amplius, F. Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle sezioni unite che chiude la saga dei
“fratelli minori” di Scoppola, in Diritto penale contemporaneo, 2014, 1, p. 254.
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esecutivo che nasce dal giudicato e si esaurisce “solo” con la consumazione o l’estinzione della pena 34.
Pertanto, non «può essere escluso che il giudice ricavi […] un’ulteriore facoltà di incidere sulla pena
quando […] deve tener conto di tutte le norme che disciplinano e incidono sulla (sua) determinazione
ed esecuzione e trovare una soluzione che escluda un conflitto tra norme nel rispetto della volontà delle
legge, di principi di civiltà giuridica – riaffermati in considerazione del favor rei – e della giustizia sostanziale altrimenti vulnerata da eventi accidentali e indipendenti dal fatto del reo» 35.
A condurre nel senso anzidetto soccorre il (constatato) divario tra giudizio di cognizione e giudizio
di esecuzione, stante le peculiarità “di accertamento giudiziale a contenuto limitato” di quest’ultimo, le
quali ostano ad una trasposizione tout court di concetti e istituti propri del processo penale di cognizione, contraddistinto dall’accertamento del fatto oggettivo e della sua riferibilità all’imputato. Si è ben
sottolineato, invece, che «la circostanza che nel procedimento di esecuzione non si ha mai un giudizio
di merito sul fatto comporta necessariamente una diversa regolamentazione dell’efficacia preclusiva
della decisione»: si colloca in questa prospettiva la nozione di “giudicato esecutivo”, impiegata non in
senso tecnico, ma in senso convenzionale, per certificare il limitato effetto “autoconservativo” di un accertamento rebus sic stantibus, insito nel trattamento “penale” oggetto di semplice preclusione soggetta a
rimozione quando l’operazione ermeneutica si renda necessaria per garantire il rispetto dei diritti fondamentali, riconosciuti dalle norme comunitarie o sopranazionali a carattere imperativo 36. Se, dunque,
l’esecuzione della pena importa degli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, sino a quando l’esecuzione della pena è in atto, i suoi effetti illegali (per errore di diritto o norma dichiarata costituzionalmente illegittima o sua abrogazione) possono, rectius, devono, essere rimossi, riconducendo la
pena ad equitatem 37.
Se è vero che il titolo esecutivo della pena è integrato dalla sentenza irrevocabile della condanna, che
è espressione della «norma del caso concreto e rende doverosa l’attuazione del comando sanzionatorio
penale, non può, tuttavia, ignorarsi la base giuridica su cui riposano la sentenza di condanna ed assieme ad essa, la specie e l’entità della pena da eseguire». È, dunque, inaccettabile che se la norma generale ed astratta sulla quale il giudice delle cognizione ha fatto leva per giustificare il trattamento sanzionatorio si riveli (anche ex post) incompatibile con il principio di legalità, ad esso non si debba necessariamente porsi fine. L’assunto ben si conforma proprio alla questione affrontata nella sentenza n. 47766.
IL VALORE “RELATIVO” DELL’ACCERTAMENTO SULLA PENA
Differenziate appaiono le situazioni che la giurisprudenza di legittimità è stata chiamata ad affrontare e
che hanno rappresentato l’occasione per un progressivo ampliamento degli spazi che accreditano un
“valore relativo” del giudicato sul trattamento sanzionatorio, rivelatosi «sensibile alle esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali della persona, permeabile alle istanze di giustizia sostanziale processuale, recessivo rispetto ai tradizionali obiettivi di certezza e stabilità del decisum» e capace, infine, di
delineare, per diritto vivente, una fase esecutiva del tutto innovativa protesa alla tutela dei diritti fondamentali della persona rispetto alla concezione autoritaria dello Stato 38. L’ingiustizia processuale o sostanziale integra un errore che importa una violazione degli artt. 27, comma 2, e 24, comma 2 e comma
4, Cost. 39 e si riflette sull’esito del giudizio 40. È dato naturale che la restrizione della libertà personale
del condannato debba essere conforme alla Costituzione per l’intero arco della sua durata, non potendosi tollerare che uno Stato di diritto assista inerte all’esecuzione di pene non conformi al principio di
34
Per tutti, G. Ranaldi, Un ulteriore passo verso il “giudicato aperto”: i dilatati poteri del giudice dell’esecuzione in tema di sospensione
condizionale della pena ad abolitio criminis”, in Giur. it., 2007, p. 732; D. Vigoni, Giudicato ed esecuzione penale, cit., p. 1 ss.
35
Così, Cass., sez. un., 21 giugno 1986, in CED Cass. n. 173419.
36
In tal senso Cass., sez. un., 21 gennaio 2010, n. 18288, in Cass. pen., 2010, p. 70, con nota di R. Russo, Il ruolo della law in
action e la lezione della Corte Europea di diritti umani al vaglio delle Sezioni Unite. Un tema ancora aperto.
37
In dottrina, D. Vicoli, L’illegittimità costituzionale della norma penale sanzionatoria travolge il giudicato: le nuove frontiere della
fase esecutiva nei percorsi argomentativi delle Sezioni Unite, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, p. 1006 ss.
38
V., A. Franceschini, Libertà personale versus intangibilità del giudicato, in Gazz. for., 2015, p. 63.
39
Per una tale valorizzazione E. M. Mancuso, Il giudicato nel processo penale, Milano, 2012.
40
Cfr., P. Troisi, Flessibilità del giudicato penale e tutela dei diritti fondamentali, in www.penalecontemporaneo.it, 2 aprile 2015.
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legalità che permea di sé l’intero impianto della Cedu ed è fondamento di ogni società democratica e
patrimonio comune degli Stati membri.
Tuttavia, si badi che quello in discussione non è solo un problema che coinvolge il tema della formazione del giudicato, ma ciò che conta è verificare, se nel caso specifico, si sia realizzata una lesione di un
diritto o di una garanzia fondamentale della persona che giustifichi una limitazione di quella intangibilità della pena, pur formalmente prevista. È questo terreno d’elezione di quella tutela dei diritti della
persona di cui la giurisprudenza si è fatta promotrice, posto che «a fronte di una lesione o di una violazione dei diritti o delle garanzie fondamentali delle persone, di natura sia processuale sia sostanziale, il
principio dell’intangibilità del giudicato deve trovare una serie di limitazioni, non tutte ipotizzabili
preventivamente, che impongono all’ordinamento di eliminare la violazione o di attenuarne gli effetti,
quando l’eliminazione sia divenuta impossibile, e al giudice di individuare lo strumento più idoneo a
questo fine quando l’ordinamento sia silente sul punto» 41.
L’INCONTROVERSO POTERE DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE DI CORREGGERE O MUTARE LA PENA IN ESECUZIONE
È ormai diritto vivente il potere del giudice dell’esecuzione di emendare quelle situazioni che portano
con sé lo “stigma dell’ingiustizia” 42. Ad memoriam un tale percorso muove, innanzitutto, dall’avvenuto
riconoscimento dell’incidenza del mutamento giurisprudenziale, in melius, prospettata in ragione della
necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona 43 in linea con i principi della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, segnatamente, del concetto di legalità 44.
Del resto, risulterebbe, oltremodo irragionevole che la “pretesa punitiva dello Stato” si fondi sull’antigiuridicità della pena frutto dell’errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione. Una
diversa impostazione sconfesserebbe quella stessa funzione e ruolo che l’ordinamento ai sensi dell’art. 27
Cost. gli assegna, tanto da imporre la sua rettifica o correzione da parte del giudice dell’esecuzione, adito
ai sensi dell’art. 666 c.p.p., nel rispetto dei principi contenuti nell’art. 25, comma 2, Cost. e nell’art. 7 Cedu 45. Un tale assetto è stato confermato dall’approdo raggiunto dalle Sezioni Unite, con la nota sentenza
Ercolano 46. Chiamate a stabilire se il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte
e.d.u. con la sentenza Scoppola c. Italia, possa sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio
abbreviato, con la pena di trent’anni di reclusione – in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole – all’esito di un com41
Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 46653, cit.
42
In progressione, Cass., sez. I, 6 luglio 2000, n. 4869, in CED Cass. n. 216746; Cass., sez. I, 3 marzo 2009, n. 12453, in CED
Cass. n. 243742; Cass., sez. IV, 16 maggio 2012, n. 26117, in CED Cass. n. 253562; Cass., sez. I, 23 gennaio 2013, n. 38712, in CED
Cass. n. 256879; Cass., sez. I, 20 gennaio 2014, n. 14677, in CED Cass. n. 259733. Diversamente, Cass., sez. I, 20 gennaio 2014, n.
14677, in Arch. nuova proc. pen., 2014, p. 358 afferma che l’illegittima applicazione, con provvedimento non più soggetto ad
impugnazione, della pena detentiva congiuntamente a quella pecuniaria siano invece previste come alternative, non può essere
eliminata in sede esecutiva, non dando essa luogo ad abnormità o inesistenza giuridica di detto provvedimento.
43
In tema di overruling giurisprudenziale e intangibilità della res iudicata, v. Corte cost., 12 ottobre 2012 n. 230, in Giur. cost.
2012, p. 3440, con osservazioni di O. Mazza, Il principio di legalità nel nuovo sistema penale liquido, ivi, p. 344; V. Manes, Prometeo
alla Consulta: una lettura dei limiti costituzionali all’equiparazione tra «diritto giurisprudenza» e «legge», che ha dichiarato infondata la
questione di legittimità costituzionale della disciplina della revoca della sentenza di condanna di cui all’art. 673 .c.p.p. in
relazione agli artt. 117, comma 1 Cost. in riferimento all’art. 7 Cedu, in caso di mutamento giurisprudenziale intervenuto con
decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Per un commento, anche, V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in
bonam partem e revoca del giudicato di condanna; altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta,
in Dir. pen. contemporaneo, 2012, 3-4, pp. 164 ss.; F. Romoli, Prime annotazioni a Corte cost. n. 230 del 2012, La legalità penale:
Strasburgo e il “vallo italico”, in Arch. pen. on-line.
44
V., ancor prima, Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, in CED Cass. n. 252062 che riconosce il potere del giudice dell’esecuzione di
intervenire sul giudicato per rimuovere gli effetti negativi derivanti dalla applicazione della circostanza aggravante della c.d.
clandestinità. In dottrina, S. Zirulaia, Quale sorte per le sentenze che hanno applicato l’aggravante della clandestinità, in www.penale
contemporaneo.it, 9 dicembre 2010. V., successivamente, sul punto, Corte cost., n. 249 del 2010, in Foro it., 2010, p. 2929.
45
V., per il ricorso nel passato, alla categoria della inesistenza della pena illegittima, Cass., sez. I, 25 giugno 1982, in CED
Cass. n. 156173.
46
Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, in CED Cass. n. 252933-34. Per più ampie riflessioni, M. Bignami, Il giudicato e le
libertà fondamentali: le Sezioni Unite concludono la vicenda Scoppola-Ercolano, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 7 maggio 2014.
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plesso iter giudiziario che ha visto l’interazione tra giudice di legittimità 47 e Corte costituzionale 48, le Sezioni Unite hanno dato risposta affermativa, ritenendo che, di fronte a violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, stigmatizzate in sede europea, è doveroso, attraverso la giurisdizione, un intervento dell’ordinamento giuridico italiano che elimini una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando il valore della intangibilità del giudicato. È stato, così, affrontato il problema di fondo costituito
dal bilanciamento tra il valore dell’intangibilità del giudicato e l’intollerabilità dell’esecuzione «di una
sanzione penale rivelatasi, successivamente al giudicato, convenzionalmente e costituzionalmente illegittima», affermando il potere e dovere del giudice dell’esecuzione di incidere sul giudicato, e, nella specie,
di sostituire, nei confronti del condannato, la pena dell’ergastolo con quella della reclusione a trent’anni.
Come si comprende, la statuizione offre in maniera netta e limpida l’indicazione per cui «la restrizione
della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da
una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, e 25, comma secondo, Cost.) e deve assolvere alla funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma terzo, Cost., profili che vengono sicuramente
vanificati dalla declaratoria d’incostituzionalità della normativa nazionale di riferimento, perché ritenuta
in contrasto con la previsione convenzionale, quale parametro interposto dell’art. 117, primo comma,
Cost.». Tale decisione è dirimente nella parte in cui afferma che il trattamento punitivo «in fase esecutiva
deve ritenersi costantemente sub iudice [...] non potendosi tollerare che uno Stato democratico di diritto
assista inerte all’esecuzione di pene non conformi alla Cedu e, quindi, alla Carta fondamentale». Se
all’efficacia del giudicato penale sono sottese la certezza e la stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, e il suo scopo è superare l’incertezza giuridica dell’ipotesi d’accusa formulata a carico
dell’imputato, per cui, secondo le regole del giusto processo, occorre pervenire ad un risultato che trasformi la res iudicanda in res iudicata, ma, soprattutto, porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera
individuale (divieto di bis in idem), una siffatta concezione della res iudicata, ergo, della immodificabilità
del giudicato ricade sulla sola affermazione della responsabilità che, divenuta definitiva, non tollera un
nuovo esame 49; diversamente, nel bilanciamento tra il valore costituzionale della intangibilità del giudicato e altri valori e diritti fondamentali della persona, qualunque sia la fonte di riconoscimento 50 e il diritto
inviolabile alla libertà personale, va data prevalenza a quest’ultimi, giacché «il divieto di dare esecuzione
ad una pena prevista da una norma (dichiarata) illegittima (dal Giudice delle leggi) è esso stesso un principio di rango sovraordinato – sotto il profilo della gerarchia delle fonti – rispetto agli interessi sottesi
all’intangibilità del giudicato». Analogo lo strumento individuato nell’incidente di esecuzione – attivato
dalle parti (il condannato), ma anche dal pubblico ministero, quale garante della corretta applicazione della legge – per il superamento del principio dell’intangibilità del giudicato anche quando si debba fare applicazione in sede esecutiva di una norma, diversa da quella incriminatrice, ma avente comunque effetti
sulla disciplina sanzionatoria, dichiarata nel frattempo incostituzionale 51.
47
Le Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 34472 del 19 aprile 2012 hanno sottoposto la questione di costituzionalità alla Consulta
partendo dal presupposto della praticabilità dell’incidente di esecuzione per rimuovere quella situazione illegittima, avevano
ritenuto che l’ostacolo a rendere direttamente operativa la lex mitior di cui all’art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999 era
costituito dall’etichetta nominale di norma di interpretazione autentica che il legislatore aveva attribuito all’art. 7, comma 1, del
d.l. 24 novembre 2000, n. 341, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 19 gennaio 2001, n. 4, per determinarne un effetto
retroattivo altrimenti non consentito, e che obbligava l’interprete ad adeguarvisi.
48
Ancora, Corte cost., 18 luglio 2013, n. 210, in Giur. cost., 2013, 2015, con commento di A. Pugiotto, Scoppola e i suoi fratelli.
(L’ergastolo all’incrocio tra giudizio abbreviato, Cedu e Costituzione) e, volendo, A. Marandola, Scoppola e altri: lex mitior e crisi del
giudicato, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art. 7, comma 1, per contrasto con l’art. 117, comma primo,
Cost., in relazione all’art. 7 Cedu. Nella motivazione della sentenza il Giudice delle leggi ha riaffermato il valore del giudicato, ma
ha, nel contempo, ribadito che, «nell’ambito del diritto penale sostanziale, è proprio l’ordinamento interno a reputare recessivo il
valore del giudicato, in presenza di alcune sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo del condannato».
L’ordinamento nazionale, infatti, «conosce ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul
valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali
il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale,
laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo».
49
Così, nel senso che non può essere dichiarata l’estinzione dei reati per i quali è intervenuta condanna malgrado sia ormai
decorso il termine di prescrizione previsto dalla legge v. Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 46653, cit.
50
V., S. Ruggeri, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona. Una breve riflessione su norma, giudicato e ordinamento a margine di Cass. pen. sez. un., sent. 29 maggio 2014, in www. dirittopenalecontemporaneo.it, 22 dicembre 2014.
51
Sempre, Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, cit.
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Successivamente lo scomputo per il ripristino del quantum sanzionatorio legale è stato giustificato,
da parte del giudice dell’esecuzione, nel caso della pena concordata 52.
LA FASE DELL’ESECUZIONE QUALE SEDE DI GARANZIA E CONTROLLO COSTANTE DELLA “CONFORMITÀ”
DELLA PENA AI DIRITTI FONDAMENTALI DELLA PERSONA
Alla luce delle considerazioni svolte, si può affermare che il nostro ordinamento processuale si è rivelato capace di accogliere questo giudicato “aperto” e di assicurare la conformità della pena alla legge, anche nella fase esecutiva 53. Si è ben affermato che è anche in tale prospettiva che, in sede esecutiva, la
legge contempla una tutela integrativa e correttiva del giudicato a vantaggio del condannato che consente una modificazione “anche” sostanziale della pena inflitta al condannato. Essa si realizza attraverso dei provvedimenti “correttivi” di differente natura, definiti dalla dottrina 54, come selettivi (art. 699
c.p.p.), risolutivi (art. 673 c.p.p.), di conversione (art. 2, comma 3, c.p.), modificativi (artt. 672 e 676
c.p.p.), ricostruttivi (art. 671 c.p.p. e art. 188 disp. att. c.p.p.), complementari o supplenti (art. 674 c.p.p.).
Come ha ben riconosciuto, seppur sotto un diverso versante, la Corte costituzionale 55 la legge assegna,
dunque, al giudice dell’esecuzione penetranti poteri di accertamento e di valutazione 56, anche complessi. La sede esecutiva si conferma così – con la fase di cognizione – luogo di completamento “funzionale”
del sistema processuale, fermi restando i già segnalati limiti inerenti al giudizio sulla responsabilità, fissati dalla pronuncia di merito 57.
Sotto tale aspetto, in particolare, si è affermato che al giudice dell’esecuzione non spetta solo conoscere le questioni riguardanti la validità e l’efficacia del titolo esecutivo, ma – anche dopo aver esaminato gli atti processuali ai sensi dell’art. 666 c.p.p. – intervenire sul debito punitivo illegittimo, sia quando
l’intervento si risolva in una mera operazione matematica di tipo automatico, sia quando si tratti di
operare la rimozione dei perduranti effetti derivanti da una pena – lato sensu – illegale, fermi restando i
limiti di quanto già accertato dal giudice di cognizione per ragioni di merito, le cui determinazioni risultano dal testo della sentenza irrevocabile. Invero, la “permeabilità” della determinazione della pena,
purché in bonam partem, essendo espressione di un interesse collettivo, si è già manifestata, in caso di
sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma incriminatrice. Sulla scorta di questa premessa si
è dichiarata illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione
che si sia basato sui limiti edittali dell’art. 73 d.p.r. n. 309 del 1990 come modificato dalla legge n. 49 del
2006, in vigore al momento del fatto, ma successivamente oggetto d’incostituzionalità con sentenza n.
32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo (prima della novella del 2006), rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità. In particolare, si è affermato che in caso di decisione
emessa a seguito di patteggiamento l’illegalità, ergo incostituzionalità, sopraggiunta, della pena determina la nullità dell’accordo, che giustifica l’annullamento senza rinvio della sentenza, relativamente al
trattamento sanzionatorio 58. Ancora, si è dichiarato che è consentito al giudice dell’esecuzione revoca-
52
Cass., sez. I, 13 gennaio 2016, n. 982, in Dir. pen. e proc., 2016; Cass., sez. un., 26 febbraio 2015, n. 37107, in Cass. pen., 2015,
p. 4337.
53
V., C. cost., 18 luglio 2013, n. 210, cit., 2015 che sottolinea come è proprio l’ordinamento giuridico a reputare recessivo il
valore del giudicato in presenza di sopravvenienze relative alla punibilità ovvero al trattamento punitivo.
54
Ancora, Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, cit.
55
C. cost., 18 luglio 2013, n. 210, cit., 2915; v., anche, C. cost., 5 novembre 2012, n. 251, in Giur. cost., 2012, p. 4043.
56
Così, anche Cass., sez. un., 20 dicembre 2005, n. 4687, in CED Cass. n. 232610 quando in applicazione ex art. 673 c.p.p. per
intervenuta abolitio criminis pronunci ordinanza di revoca di precedenti condanne con le quali era stata concessa la sospensione
condizionale della pena, può, nell’ambito dei provvedimenti conseguenti alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa
formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art. 164, comma 1, c.p., sulla base non solo della situazione
esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti.
57
Per maggiori riflessioni, v. G. Canzio, La giurisdizione e la esecuzione della pena, in www.Dirittopenalecontemporaneo.it, 26
aprile 2016.
58
Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858, cit. nella quale si è precisato che il giudice della esecuzione, ferme le vincolanti
valutazioni di merito espresse dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, ove ritenga prevalente
sulla recidiva la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, ai fini della rideterminazione della pena
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re, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., una decisione di applicazione della pena pronunciata dopo l’entrata in
vigore della legge che ha abrogato la fattispecie incriminatrice, allorché l’“abolitio criminis” non sia stata
presa in esame dal giudice della cognizione (anche se, nel caso considerato, il giudice della cognizione
ha preso in esame tale evenienza) 59. Infine, il medesimo Collegio ha ammesso, in ragione di quanto ricavabile dagli art. 676 c.p.p. e art. 183 att. e coord. c.p.p., che il giudice può intervenire sulla pena accessoria (extra o contra legem) applicata dal giudice della cognizione purché essa sia legalmente determinata, per specie e nella durata (non implicando, dunque, alcuna discrezionalità) 60 e non derivi da un errore valutativo del giudice 61, posto che, diversamente si renderebbe il giudice della esecuzione assegnatario di una cognizione non dissimile da quella che caratterizzerebbe il munus del giudice del rinvio a seguito di annullamento, da parte del giudice della legittimità, della pena illegalmente applicata nei gradi
di merito. Ad ogni modo, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento “correttivo” da adottare non è a contenuto predeterminato, in quanto, come
si è detto, egli può avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione 62. Proprio le difficoltà di individuare espliciti strumenti normativi, per interventi successivi al giudicato, hanno condotto a identificare nella dinamica prevista nell’art.
666 c.p.p. il mezzo applicabile per ogni questione che non trova altra ed espressa disciplina.
IL “VARIABILE” CRITERIO PER LA DETERMINAZIONE DEL QUANTUM PUNITIVO
Riconosciuti i poteri di emenda nelle diversificate ipotesi prospettatesi, un incerto atteggiamento si riscontra sul piano dei parametri che, pur nell’ambito delineato dall’art. 133 c.p. 63 (gravità del reato e sulla capacità a delinquere del reo), lasciano aperta la possibilità di incidere discrezionalmente sulle precedenti valutazioni di merito.
Sotto tale aspetto, deve sottolinearsi che gli iniziali “meccanismi automatici di tipo matematico” 64
hanno ceduto il passo ad indici che assegnano al decidente maggiori margini di manovra: è forse questo aspetto che meriterebbe una peculiare attenzione da parte del legislatore in conformità con quanto
preteso dagli artt. 3 e 25 Cost.
Deve dirsi, infatti, che stante la complessità e la rilevanza della questione, nelle prime pronunce la
giurisprudenza di legittimità ha legittimato l’intervento del giudice dell’esecuzione consentendogli
l’applicazione “automatica” della pregressa cornice sanzionatoria. Peraltro duplici appaiono le metodologie utilizzabili: per un verso, muovendo dalla pena massima il giudice potrebbe ricondurre le pene
illegali – vale a dire quelle superiori ai nuovi massimi edittali per il fatto di reato corrispondente – entro
il “nuovo” massimo edittale; per un altro, stabilire la nuova pena in maniera “proporzionale” a quella
dovrà tenere conto del testo di tale disposizione come ripristinato a seguito della sentenza Corte cost. n. 32 del 2014, senza
tenere conto di successive modifiche legislative.
59
Cass., sez. un., 29 ottobre 2015. Per un commento, cfr., G. Romeo, La resistibile stabilità del giudicato: revocabile in executivis
la sentenza di applicazione della pena per reato abrogato con legge anteriore al fatto e non considerata dal giudice della cognizione?, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it, 16 luglio 2015.
60
Recentemente le Sezioni Unite, dirimendo il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità, hanno ribadito tali
principi anche in riferimento alla pena accessoria, affermando che l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da
parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione, purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata,
e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione (Cass., sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240, in questa Rivista, 2015,
con nota di T. Alesci, I poteri del giudice dell’esecuzione sulla determinazione della pena accessoria illegale: presupposti e limiti., anche, in
Cass. pen., 2015, p. 2564, con nota di F. Costantini, L’intervento in executivis per erronea applicazione di una pena accessoria tra
principio di legalità e intangibilità del giudicato: la decisione delle Sezioni Unite; I. Manca, Le Sezioni Unite ammettono l’intervento in
executivis sulla pena accessoria extra o contra legem, purché determinata per legge nella specie e nella durata, in www.dirittopenale
contemporaneo.it).
61
Sempre, Cass., sez. un., 27 novembre 2015, n. 6240, cit.
62
Nella specie la questione riguardava gli effetti della menzionata sentenza della C. cost. n. 251 del 2012 che ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui vietava di valutare come prevalente la circostanza attenuante di
cui all’art. 73, comma 5, del d.p.r. n. 309 del 1990 sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p.
63
Ancora, Cass., sez. un., 26 febbraio 2015, n. 37107, cit.
64
Cass., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, in CED Cass. n. 252933-34.
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precedentemente inflitta e non più conforme alla legge. È chiaro, peraltro, che se quest’ultima impostazione è preferibile in quanto la pena risulterebbe proporzionata al fatto come giudizialmente accertato
e, come tale, compatibile con la finalità rieducativa (art. 27 Cost.) 65, è chiaro però che la riconduzione
della pena ad equitatem assegna al giudice rilevanti poteri decisori esercitabili (solo) sulla base degli
elementi evincibili dalla sentenza di condanna, restando le “vincolanti valutazioni di merito espresse
dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta” 66.
Tale direttrice si conforma appieno alle connotazioni attuali della giurisdizione esecutiva, da esercitarsi nel rispetto del contraddittorio, ove ritenuto necessario ai fini della decisione (cfr. art. 665, 5 comma, c.p.p.) e al potere del giudice di compiere una valutazione “ora per allora alla luce della trasposizione in concreto degli indici di cui all’art. 133 c.p. cristallizzati nelle statuizioni sostanziali del giudice
della cognizione”.
Ad ogni buon conto, anche riprendendo le linee guida offerte sul punto dalla Cassazione, si può affermare che al giudice dell’esecuzione sono riconosciuti poteri piuttosto elastici nel rimodulare il trattamento sanzionatorio, certo esercitabili secondo i parametri dell’art. 133 c.p. e nell’ambito delle attribuzioni previste dagli artt. 665-670 c.p.p. 67, ma, anche al fine di evitare uno stravolgimento dei ruoli e
delle funzioni processuali assegnate ai diversi organi decidenti, è, quanto mai, necessario che i passaggi
motivazionali e argomentativi delle (anteriori) decisioni in tema di calcolo di pena non appaiano generici o vengano espressi attraverso scarne formule di stile 68. Più di recente, invece, nell’individuare la
procedura da seguire nel caso in cui si tratti di emendare la pena stabilita a seguito di applicazione di
pena ex art. 444 c.p.p. (sulla quale è intervenuta la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una
norma penale non incriminatrice, comunque, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio), si è identificato nell’art. 188 disp. att. c.p.p. – che già consente al giudice di ricalcolare la pena irrogata nella decisione di patteggiamento quando debba riconoscere la continuazione o il concorso formale – lo strumento attraverso il quale rimediare alla pena (concordata) illegale. In questo caso, recisa
la pena originaria, si assegna alle parti l’impegno a sottoporre al giudice dell’esecuzione un nuovo concordato che, ove ritenuto incongruo, abilita il giudice a provvedere autonomamente ai sensi degli artt.
132 e 133 c.p. Tale linea prospettica, pur conforme al dato normativo, è censurata dalla dottrina che
ravvisa nella tempistica del sopravvenire del potere officioso del giudice un limite capace, esso stesso,
di violare la volontà della parte (condannato) e i precetti costituzionali. Si ritiene, infatti, che – ferma restando la sindacabilità del diniego dell’accusa, analogamente a quanto avviene in sede di cognizione –
nel caso in cui la nuova pena concordata si riveli incongrua, il giudice dell’esecuzione possa fissare
l’udienza camerale nell’ambito della quale il rappresentate dell’accusa e il condannato potranno convenire il differente trattamento sanzionatorio 69.
L’AUSPICATO INTERVENTO LEGISLATIVO E LA PECULIARITÀ DELL’ERRORE GIURIDICO
Come si comprende, anche alla luce di quest’ultima vicenda, l’incertezza e l’imprevedibilità nonché le
differenti metodologie che convergono sul tema de quo sembrano richiedere una decisa e sollecita presa
di posizione da parte del legislatore. Non può sottacersi, invero, come la settorialità e l’eterogeneità dei
casi prospettabili renda – attualmente – ardua l’identificazione di un meccanismo generale che sia in
grado di rimediare a tutte le ipotesi di “illegalità” della pena, posto che, nel tempo, si è verificato come
il vizio in esame possa dipendere tanto da vicende “interne”, quanto “esterne” al sistema, vale a dire
anche da veri e propri errori giudiziari come dimostra l’ipotesi affrontata, seppur incidenter tantum, nella più recente decisione dalle Sezioni Unite. Scartata la possibilità di emenda in sede di legittimità, non
v’è dubbio che il carattere e la qualità del vizio, che inficia la sentenza tardivamente impugnata impon-
65
Così, P.P. Dell’Anno, L’intervento della giurisdizione esecutiva, in Impugnazioni. Esecuzione penale e rapporti giurisdizionali con
autorità straniere, vol. IV, a cura di L Kalb, Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G.
Garuti-L. Kalb, Torino, 2015, p. 625.
66
Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 42858.
67
Ancora, D. Vigoni, op. cit., p. 7.
68
V., sempre, P.P. Dell’Anno, op. cit., p. 626.
69
Così, B. Nacar, I “nuovi” poteri del giudice dell’esecuzione di rideterminazione della pena illegittima, in Dir. pen. e proc., 2016, 189.
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gono al giudice dell’esecuzione di rettificare l’errore nel quale è incorso il Tribunale. Si è già autorevolmente riconosciuto, benché sotto altro versante, che «applicare una pena di misura diversa e con criteri diversi da quelli contemplati dalla legge, in via analogica, non può, infatti, essere ritenuto conforme
al principio di legalità» 70, per cui non è difficile individuare, in via analogica, nell’art. 58, comma 2,
d.lgs. n. 274 del 2000 un (uniforme) congegno valutativo e un (differenziato) parametro contabile che
consenta di rielaborare il conforme modello sanzionatorio applicabile alla fattispecie criminosa, rientrante nella competenza del giudice di pace, ma giudicata in sede ordinaria. Il criterio pare, infatti, adattarsi alla pena “determinata in concreto”. Nel caso di specie, infatti, non si tratta, diversamente dalle
ipotesi già contemplate dalle Sezioni Unite, di operare una rideterminazione della pena o di scomputare quella parte della stessa rivelatasi illegale a causa del sopravvenuto mutamento normativo o per incostituzionalità della previsione sostanziale, quanto piuttosto di affidare al giudice dell’esecuzione, anche interloquendo con il condannato, il potere di irrogare la pena “naturale” secondo i connotati e qualità assegnatale per i reati rientranti nella sfera applicativa del d.lgs. n. 274 del 2000.
È chiaro, per concludere, che l’ipotesi de qua rientra nell’ambito dell’illegittimità della pena, che può
essere rilevata quando la sanzione inflitta non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando,
per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale e non già nell’ambito dell’errore – anche macroscopico – di calcolo 71, censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza.
Condivisibile appare, in conclusione, la soluzione prospettata dalle Sezioni Unite che rinvia l’emenda del vizio in cui è incorso il Tribunale alla sede esecutiva. Anche in questo caso è il principio di legalità della pena, enunciato dall’art. 1 c.p., e dall’art. 25, comma 2, Cost. e art. 7 Cedu che informano il sistema penale ad imporre la rettifica della pena definitiva erroneamente irrogata e capace d’integrare la
violazione dell’art. 24, comma 4, Cost. in cui si fa carico allo Stato di “riparare” agli errori giudiziari.
Nel caso di specie l’illegalità consiste d’infliggere una pena non prevista dall’ordinamento giuridico,
qui inteso in senso stretto e declinato quale sfera di appartenenza, ergo, di competenza di ciascun organo per il proprio procedimento (ordinario, minorile, onorario, militare) e delle conseguenti sanzioni
penali irrogabili all’esito di quello specifico rito di riferimento. In ragione di quanto si è fin qui affermato, non v’è dubbio che il giudice possa incidere sul contenuto della sentenza irrevocabile laddove lo richiedono imprescindibili esigenze di giustizia che sottostanno anche all’inosservanza dell’art. 63 d.lgs.
n. 274 del 2000. Per quanto non siano più recuperabili istituti particolari che il rito onorario assicura a
colui che deve rispondere dei reati assegnati a quel rito e che il menzionato testo rende applicabili anche da parte del Tribunale che giudichi di reati di competenza del giudice di pace, come l’esclusione
della procedibilità per particolare tenuità del fatto (art. 34) e la declaratoria di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35), ed esclude l’applicazione della sospensione condizionale della
pena, invece, concesso – erroneamente – nel caso di specie dal Tribunale, è palese che alla situazione de
qua, la quale potrebbe integrare un illecito disciplinare, occorre porre rimedio.
70
Così, testualmente, C. cost., 27 marzo 1987, n. 115, in www.Consultaonline
71
Cass., sez. un., 27 novembre 2014, n. 6240, cit.
ANALISI E PROSPETTIVE | RICORSO (TARDIVO) INAMMISSIBILE E (IR)REVERSIBILITÀ DELL’ILLEGALITÀ DELLA PENA
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
158
Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Laura Capraro
Corte costituzionale
35
Danila Certosino
De jure condendo
26
Maria Francesca Cortesi
Esecuzione penale: questioni aperte e dubbi interpretativi / Criminal enforcement: open iusses and
interpretation doubts
118
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
49
Paola Maggio
Sezioni Unite
39
Francesca Manfredini
Novità sovranazionali / Supranational news
6
Antonella Marandola
Ricorso (tardivo) inammissibile e (ir)reversibilità dell’illegalità della pena / Inammissibility of
the (late) appeal and the (ir)reversible illegality penalty
145
Rossella Mastrototaro
La veste legale della pena: una questione non differibile / The legal form of penalty: a matter can
not be postponed
56
Francesca Romana Mittica
La partecipazione all’udienza di riesame dopo la legge n. 47 del 2015 / Participation in the hearing of the riesame after the law no. 47 of 2015
94
Roberto Puglisi
Novità legislative interne / National legislative news
9
Adolfo Scalfati
L’ombra inquisitoria sul sequestro preventivo in funzione di confisca / Inquisorial aspects of
preventive seizure
1
Caterina Schiaccianoce
Il controllo cautelare dopo la legge n. 47 del 2015 / The control on the power of pre-trial detention
after the reform of 2015
136
Adriano Spinelli
Prescrizione e lieve entità del fatto: i limiti ai poteri cognitivi nel giudizio di rinvio / Limitation
of action and slight crimes: judge’s limited power of cognizance after the rescission of a sentence
84
Marcello Stellin
Corti europee / European Courts
29
INDICI
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
159
Ludovica Tavassi
Lo statuto italiano della “vittima” del reato: nuovi diritti in un sistema invariato / The italian
victim’s statute: new rights in an unchanged criminal system
107
Mauro Trogu
Come si intercettano le chat pin to pin tra dispositivi Blackberry? / How is it possible to intercept
chat pin to pin between Blackberry mobiles?
73
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4
C. cost., sent. 29 gennaio 2015, n. 12
C. cost., ord. 9 marzo 2016, n. 50
C. cost., sent. 23 marzo 2016, n. 57
35
35
36
37
Corte di Cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 16 marzo 2016, n. 10959
sentenza 25 marzo 2016, n. 12602
sentenza 25 marzo 2016, n. 12603
39
41
46
Corte di Cassazione – Sezioni semplici
Sezione V, sentenza 9 novembre 2015, n. 44897
Sezione III, 10 novembre 2015, n. 50452
Sezione I, sentenza 17 dicembre 2015, n. 49882
Sezione III, 22 dicembre 2015, n. 50215
53
64
89
78
Decisioni in contrasto
Sezione I, sentenza 11 febbraio 2016, n. 5774
Sezione VI, sentenza 11 marzo 2016, n. 10168
49
50
Corte europea dei diritti dell’uomo
Corte e.d.u., 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia
Corte e.d.u., 23 febbraio 2016, Nasr e Ghali c. Italia
Corte e.d.u., 25 febbraio 2016, Zyakun c. Ucraina
32
29
34
Atti sovranazionali
L’accordo tra Italia e Francia in materia di cooperazione bilaterale per l’esecuzione di operazioni congiunte di polizia
L’accordo tra Italia e Kazakhstan per la cooperazione nel contrasto alla criminalità organizzata, al traffico illecito di sostanze stupefacenti, al terrorismo e ad altre forme di criminalità
22
23
Norme interne
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 29
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 31
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 34
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 35
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 36
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 37
Decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38
Legge 23 marzo 2016, n. 41
INDICI
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20
Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
160
Disegno di legge C. 3523 «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di protezione dei minori i cui genitori siano tratti in arresto o sottoposti a pene detentive o
a misure cautelari restrittive della libertà personale»
Disegno di legge C. 3473 «Modifiche agli articoli 274 e 275 del codice di procedura penale, in materia di requisiti per l’applicazione e di criteri di scelta delle misure cautelari»
26
De jure condendo
27
MATERIE / TOPICS
Applicazione della pena su richiesta delle parti
 Resta ferma la mancata previsione del patteggiamento nel giudizio penale di pace (C. cost.,
ord. 9 marzo 2016, n. 50)
36
Archiviazione
 La notifica alla persona offesa della richiesta di archiviazione è obbligatoria anche nei procedimenti per “stalking” (Cass., sez. un., 16 marzo 2016, n. 10959)
39
Cooperazione giudiziaria internazionale
 L’accordo tra Italia e Francia in materia di cooperazione bilaterale per l’esecuzione di operazioni congiunte di polizia (L. 1° dicembre 2015, n. 215 «Legge di ratifica ed esecuzione
dell’accordo tra il Ministro dell’Interno della Repubblica italiana e il Ministro dell’Interno della Repubblica francese in materia di cooperazione bilaterale per l’esecuzione di operazioni congiunte di polizia»)
 L’accordo tra Italia e Kazakhstan per la cooperazione nel contrasto alla criminalità organizzata, al traffico illecito di sostanze stupefacenti, al terrorismo e ad altre forme di criminalità,
Roma, 5 novembre 2009 (L. 7 dicembre 2015, n. 2016 «Accordo fra il Governo della Repubblica
italiana ed il Governo della Repubblica del Kazakhstan di cooperazione nel contrasto alla criminalità
organizzata, al traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope, di precursori e sostanze chimiche
impiegate per la loro produzione, al terrorismo ed altre forme di criminalità»)
 Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2009/829/GAI del
Consiglio sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle
misure alternative alla detenzione cautelare (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36)
 Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2005/214/GAI in materia del reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37)
 Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2008/947/GAI del
Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 38)
 Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2009/948/GAI del
Consiglio, del 30 novembre 2009, sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi
all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 29)
Difesa e difensori
 Per effettuare la rinuncia totale o parziale all’impugnazione è necessaria la procura speciale
del difensore (Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 12603)
Diritti fondamentali (tutela dei)
 Divieto di tortura-libertà morale-equo processo (Corte e.d.u., 25 febbraio 2016, Zyakun c.
Ucraina)
 Divieto di tortura-libertà personale-rispetto della vita privata e familiare (Corte e.d.u., 23
febbraio 2016, Nasr e Ghali c. Italia)
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
161
 Tutela della vittima di tratta d’esseri umani-effettività delle indagini-ragionevole durata
(Corte e.d.u., 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia)
32
Esecuzione penale
 Esecuzione penale: questioni aperte e dubbi interpretativi / Criminal enforcement: open iusses
and interpretation doubts, di Maria Francesca Cortesi
 Giudice dell’esecuzione e sentenza Scoppola: alt al trattamento sanzionatorio in melius per i
casi “non identici” a quello esaminato dalla corte e.d.u. (C. cost., sent. 23 marzo 2016, n. 57)
118
37
Giudice
– Giudice di pace
 Resta ferma la mancata previsione del patteggiamento nel giudizio penale di pace (C. cost.,
ord. 9 marzo 2016, n. 50)
36
Impugnazioni
 Per effettuare la rinuncia totale o parziale all’impugnazione è necessaria la procura speciale
del difensore (Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 12603)
46
Imputato
 Incapacità irreversibile dell’imputato e assenza di prescrizione del reato: inammissibilità
(anche) per errata formulazione del petitum (C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4)
 Attuazione della decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, che
modifica le decisioni quadro 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI
e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza
dell’interessato al processo (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 31)
35
11
Indagini preliminari
 Tutela della vittima di tratta d’esseri umani-effettività delle indagini-ragionevole durata
(Corte e.d.u., 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia)
 Norme di attuazione della decisione quadro 2002/465/GAI del Consiglio del 13 giugno
2002 relativa alle squadre investigative comuni (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 34)
12
Intercettazioni di comunicazioni
 Blackberry ed intercettazioni di comunicazioni trasmesse tramite tecnologia pin to pin (Cass.,
sez. III, 10 novembre 2015, n. 50452), con nota di Mauro Trogu
64
Lesioni personali stradali
 Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto
2000, n. 274 (L. 23 marzo 2016, n. 41)
20
32
Mezzi di ricerca della prova
– sequestro probatorio
 Attuazione della decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003, relativa
all’esecuzione nell’unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro
probatorio (D.lgs. 15 febbraio 2016, n. 35)
Minori
 La tutela del figlio minorenne di genitori sottoposti a misure limitative della libertà personale (D.d.l. C. 3523 «Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale e altre disposizioni
INDICI
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
162
in materia di protezione dei minori i cui genitori siano tratti in arresto o sottoposti a pene detentive o
a misure cautelari restrittive della libertà personale»)
26
Misure cautelari personali
– condizioni
 Requisiti per l’applicazione delle misure cautelari personali (D.d.l. C. 3473 «Modifiche agli
articoli 274 e 275 del codice di procedura penale, in materia di requisiti per l’applicazione e di criteri
di scelta delle misure cautelari»)
27
– impugnazioni
– riesame
 I termini, stabiliti dalla legge n. 47 del 2015, per il deposito dell’ordinanza che ha deciso il
riesame sono applicabili alle decisioni emesse prima dell’entrata in vigore della legge?
(Cass., sez. I, 11 febbraio 2016, n. 5774)
 Il soggetto in vinculis che intenda comparire all’udienza di riesame deve averne fatto richiesta nell’istanza ex art. 309 c.p.p. (Cass., sez. I, 17 dicembre 2015, n. 49882), con nota di Francesca Romana Mittica
 Il controllo cautelare dopo la legge n. 47 del 2015/The control on the power of pre-trial detention after the reform of 2015, di Caterina Scaccianoce
49
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Misure cautelari reali
– sequestro preventivo
 L’ombra inquisitoria sul sequestro preventivo in funzione di confisca / Inquisorial aspects of
preventive seizure, di Adolfo Scalfati
1
Omicidio stradale
 Introduzione del reato di omicidio stradale e del reato di lesioni personali stradali, nonché
disposizioni di coordinamento al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (L. 23 marzo 2016, n. 41)
20
Parte civile
 Ribadito il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale (C. cost., sent. 29
gennaio 2015, n. 12)
35
Particolare tenuità del fatto
 L’esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p. nel giudizio di rinvio (Cass., sez. III, 22 dicembre 2015, n. 50215), con nota di Adriano Spinelli
 L’applicabilità in sede di legittimità dell’art. 131 bis c.p. (Cass., sez. VI, 11 marzo 2016, n.
10168)
Pena
 L’illegalità della pena per violazione dell’art. 7 Cedu tra le questioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di Cassazione (Cass., sez. V, 9 novembre 2015, n. 44897), con nota di Rossella Mastrototaro
 Ricorso (tardivo) inammissibile e (ir)reversibilità dell’illegalità della pena / Inammissibility
of the (late) appeal and the (ir)reversible illegality penalty, di Antonella Marandola
Persona offesa
 La notifica alla persona offesa della richiesta di archiviazione è obbligatoria anche nei procedimenti per “stalking” (Cass., sez. un., 16 marzo 2016, n. 10959)
 Lo statuto italiano della “vittima” del reato: nuovi diritti in un sistema invariato / The italian victim’s statute: new rights in an unchanged criminal system, di Ludovica Tavassi
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Processo penale e giustizia n. 3 | 2016
163
 Tutela della vittima di tratta d’esseri umani-effettività delle indagini-ragionevole durata
(Corte e.d.u., 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia)
32
Prescrizione
 Incapacità irreversibile dell’imputato e assenza di prescrizione del reato: inammissibilità
(anche) per errata formulazione del petitum (C. cost., ord. 14 gennaio 2016, n. 4)
35
Processo penale
– equo processo
 Divieto di tortura-libertà morale-equo processo (Corte e.d.u., 25 febbraio 2016, Zyakun c.
Ucraina)
– ragionevole durata
 Tutela della vittima di tratta d’esseri umani-effettività delle indagini-ragionevole durata
(Corte e.d.u., 21 gennaio 2016, L.E. c. Grecia)
 Ribadito il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale (C. cost., sent. 29
gennaio 2015, n. 12)
Ricorso per cassazione
 L’inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la declaratoria d’ufficio della prescrizione del reato (Cass., sez. un., 25 marzo 2016, n. 12602)
 L’illegalità della pena per violazione dell’art. 7 Cedu tra le questioni rilevabili d’ufficio dalla Corte di Cassazione (Cass., sez. V, 9 novembre 2015, n. 44897), con nota di Rossella Mastrototaro
 Ricorso (tardivo) inammissibile e (ir)reversibilità dell’illegalità della pena / Inammissibility
of the (late) appeal and the (ir)reversible illegality penalty, di Antonella Marandola
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