Progetto RAR – Risate Anti Razziste Gruppo di ricerca RIMEDIA Università degli Studi di Firenze - COSPE Introduzione Perché studiare la pubblicità? Il discorso pubblicitario “tesse” la trama della vita di tutti i giorni coinvolgendoci in rappresentazioni, interpretazioni e immagini della realtà. La pubblicità, come ci insegnano i semiologi e i sociologi, fa parte della realtà sociale, è una delle sue componenti costitutive e contribuisce attivamente a determinare le dinamiche sociali, le azioni e le interazioni tra individui. Superata quindi l’idea che i messaggi pubblicitari siano finalizzati esclusivamente ad una persuasione subdola e occulta delle audience per fini commerciali, le scienze umane e sociali riconoscono alla pubblicità un ruolo determinante sia come motore economico che come strumento di produzione culturale. Quando parliamo di cultura, aderiamo ad una concezione antropologica del termine, che presenta la cultura come l’insieme dei costumi, delle credenze, degli atteggiamenti, dei valori, degli ideali e delle abitudini di un determinato gruppo sociale. Il nostro modo di conoscere il mondo ci permette di identificare e interpretare fenomeni anche molto complessi attraverso un meccanismo di sintesi e semplificazione. Questi processi cognitivi non sono però soltanto il risultato di una rielaborazione individuale, bensì hanno una natura sociale, infatti sentiamo spesso parlare di rappresentazioni sociali. La pubblicità contribuisce, assieme a molti altri prodotti culturali, a creare, rafforzare, modificare le rappresentazioni sociali. Queste rappresentazioni, sempre costituite da due facce interdipendenti – una iconica e l'altra di tipo concettuale – hanno una posizione del tutto peculiare, poiché si collocano tra i concetti, permettendo di astrarre i significati del mondo, e le immagini, che riproducono la realtà in modo immediato e facilmente riconoscibile. Le rappresentazioni sociali permettono di “leggere” la realtà, pertanto, chi comunica attraverso di esse – come il sistema pubblicitario – deve ricorrere a dei significati condivisi, e molto spesso anche a degli stereotipi. Cosa sono gli stereotipi? Quotidianamente, ciascun individuo fa esperienza di innumerevoli immagini: oggetti, strumenti, persone, luoghi, comportamenti, azioni, ecc. che, seppur visti per la prima volta, appaiono ai nostro occhi sensati. Ogni cosa è dunque “etichettata” perché porta con sé le “istruzioni per l’uso”, ovvero “ci” dice qualcosa, anche se nuova e mai sperimentata in precedenza. Questo meccanismo, che noi tutti, in ogni attimo di vita, diamo per scontato, in realtà avviene sia perché ogni immagine nuova verrà da noi interpretata sulla base delle conoscenze preesistenti e dunque perché saremo in grado di ricondurla ad immagini per noi già familiari; sia perché sapremo “oggettivarla”, ovvero renderla concreta, “materiale”, disegnabile, quasi tangibile, attraverso immagini in grado di descriverla e di renderla accessibile, anche nel caso in cui ci si riferisca a concetti astratti o a categorie concettuali. Ad esempio, è grazie a questi meccanismi che ciascuno di noi, quando pronuncia la parole “pace”, avrà in mente degli “oggetti”, delle rappresentazioni: una bandiera con i colori dell’arcobaleno, una colomba, due mani che si incontrano, un gesto religioso, una foto storica di un trattato internazionale, una poesia, un’opera d’arte, un gruppo di giovani multietnici e via dicendo. Ora, se tutti questi rimandi e queste associazioni sono per la maggior parte individuali e soggettivi, perché strettamente dipendenti dalle esperienze personali, legati al tempo, al luogo, alla cultura in cui si vive, si ha bisogno, per il vivere quotidiano, di poter condividere con gli altri individui le “immagini mentali” su cui si basano le nostre relazioni. Queste rappresentazioni particolari sono proprio gli STEREOTIPI, ovvero delle “scorciatoie mentali” che, seppur in modo sbrigativo e superficiale, ci consentono di comunicare con gli altri e di comprendersi, perché ancorati a riferimenti e rappresentazioni simili. Dunque, ad esempio, potremo parlare con amici della Svezia pur non essendoci mai stati, basandoci sulle immagini stereotipate che potremmo condividere con loro e che ci potrebbero derivare da racconti, foto di viaggi di altri conoscenti, cataloghi dell’agenzia di viaggi, da film o dalle pubblicità. In ogni caso, ciò che ci accomunerà sarà l’immagine (o lo stereotipo) di un Paese freddo, con bei uomini e belle donne dai capelli biondi, dalle case curate, ma essenziali. Se tutto ciò corrisponda alla realtà o meno, lo potremo sapere solo dopo l’esperienza diretta o uno studio più approfondito di quel Paese; ma ciò che importa è che tali immagini mentali accompagneranno, prima dell’esperienza, i nostri discorsi sulla Svezia, le nostre interazioni e, probabilmente, i nostri comportamenti e che, nella loro essenzialità e immediatezza, consentiranno di farci comprendere dagli altri. La ricerca Il presente studio sulla comunicazione pubblicitaria televisiva e a mezzo stampa si è concentrato prevalentemente sulla rilevazione e l’analisi di quelle immagini che abbiamo definito stereotipi, proprio perché in grado di rappresentare, in estrema sintesi, concetti importanti e ben più complessi. L’approccio adottato è di tipo socio-semiologico, ovvero fondato sulla consapevolezza che le immagini, così come le parole, hanno due livelli di lettura: uno denotativo e uno connotativo. In altre parole, un’immagine pubblicitaria descrive, indica e rappresenta qualcosa (denotazione), ma allo stesso tempo condensa una serie di significati e sfumature di tipo emotivo (connotazione): a livello linguistico, ad esempio, il termine “gatto è denotativo perché rinvia solo al concetto, mentre “micio” è conntato. Il nostro obiettivo è dunque capire come l’etnicità viene rappresentata nelle pubblicità: quando si avvale di stereotipi e – nel caso – quali siano i temi principali che si possono individuare nelle pubblicità esaminate. Le immagini sui periodici Nei mesi di aprile e maggio 2010 sono state rilevate su alcune riviste periodiche, prevalentemente pensate per un pubblico giovanile (Glamour, Sette, XL) e su due quotidiani (La Repubblica e La Gazzetta dello Sport) 18 inserzioni pubblicitarie, nelle quali erano presenti riferimenti “etnici”, ovvero immagini di persone che, in qualsiasi modo, richiamassero un’idea di etnicità. Non sono dunque state selezionate immagini con evidenti significati razzisti, bensì pubblicità che si rifacevano al tema della differenza culturale o che impiegavano personaggi “evidentemente” stranieri. Attraverso un’opportuna griglia di rilevazione, che tenesse in considerazione, ad esempio, l’ambientazione, il numero dei personaggi e le eventuali relazioni tra questi, la presenza di testo scritto, i comportamenti e gli atteggiamenti rappresentati, ecc., si sono potuti individuare alcuni temi dominanti ed avanzare alcune considerazioni. Il colore. Tra i principali “portatori” di differenza, il colore della pelle è senza dubbio il più utilizzato e ricorrente: uomini e donne bianche in compagnia o poste in relazione – d’amicizia o d’amore – con uomini e donne di colore, con atteggiamenti complici o di evidente intesa. Spesso impiegato in modo strategico rispetto agli abiti indossati – donne nere che indossano abiti bianchi e viceversa – il colore della pelle è ciò che richiama con estrema immediatezza l’idea di contrasto oppure di complementarietà. Nelle due pubblicità in cui un uomo e una donna sono in atteggiamenti maggiormente intimi, la donna, mulatta o di colore, è posta in secondo piano rispetto all’uomo bianco. Ciò pare richiamarsi, prima ancora che alla tematica razzista, all’uso del corpo femminile come “accessorio”; la donna, con atteggiamenti particolarmente femminili e dolci, si appoggia alle spalle dell’uomo che mostra ancor più forza, virilità, sicurezza. La parziale nudità dei corpi, oltre che funzionale all’oggetto pubblicizzato – in un caso orologi, nell’altro biancheria maschile – amplifica l’idea di contatto, di vicinanza, ma qui, a differenza degli altri testi sopra menzionati, i due colori – bianco e nero - delle carnagioni sembrano farsi più simili, fondersi, attenuarsi. Non si ha dunque un uso del colore della pelle come contrasto. Lo sport e il dinamismo. La relazione che sembra ricorrere soprattutto nelle pubblicità rilevate su giornali sportivi - e che va ad alimentare uno stereotipo abusato - è quello tra “uomini di colore–prestanza fisica–rendimento sportivo”. È quando viene ribadito in due immagini che pubblicizzano, per due aziende diverse, scarpe sportive e da calcio: in un caso ricorrendo ad un ragazzo, dai tratti somatici sudamericani, nell’altro coinvolgendo un calciatore come testimonial (Felipe Melo, calciatore brasiliano). I temi dominanti sono la forza, il vigore, il dinamismo, la velocità, suggeriti dalla posa in cui vengono ritratti i protagonisti, dal testo scritto o dalla mimica facciale che evidenzia questo tipo di atteggiamento. Non si ha la sensazione che il messaggio possa essere considerato razzista: si tratta prevalentemente di uno “stratagemma narrativo” che tende ad enfatizzare un tema di senso comune: le persone di colore hanno prestazioni sportive superiori alle altre etnie. Lo slogan riportato nella prima pubblicità, sembra quasi voler dare un’accezione positiva a tale presupposto: “write the future”. Potremmo commentare in modo analogo lo spot “Powerade”, nel quale il calciatore di colore, oltre a mostrare il suo dinamismo e l’esemplarità del gesto atletico, è impiegato per promuovere i Mondiali di calcio che si sarebbero svolti, dopo poche settimane, in Sud Africa. In questo caso l’intento è dunque duplice, anche se dobbiamo notare che il setting in cui è inserito il calciatore sembra contrastare con una rappresentazione realistica del Paese: sullo sfondo, infatti, vediamo che un paesaggio povero, avvolto da nubi di caldo e il terreno, su cui si muove il giocatore, diviene un’onda, una cascata che lo abbraccia. Le tribune e il campo da calcio, più che adatti ad uno stadio dei Mondiali di calcio, somigliano ad un campo dilettantistico. In questo forse possiamo vedere l’impiego di uno stereotipo, ovvero di una semplificazione che tuttavia, ricalcando idee di senso comune – Sud Africa povero, giocatori di calcio africani in strutture poco curate – allontana lo spettatore dalla realtà. Un altro tema dominante ricorrente in più inserzioni pubblicitarie che coinvolgono sportivi (tifosi, squadre, giocatori, ecc.) è quello “cameratesco”: gli uomini fotografati, fotomodelli o testimonial, assumono atteggiamenti di complicità maschile. Seduti sullo stesso divano, bevendo birra oppure abbracciati come in una tipica foto di squadra, sorridono guardando l’osservatore e si scherniscono vicendevolmente. L’etnicità è qui rappresentata da singoli individui di origini non italiane: un giovane di colore nella prima immagine, un calciatore brasiliano nella seconda. Se tuttavia nella prima non ci sono particolari elementi connotanti che lo differenzino dal gruppo, nella seconda il calciatore si distingue dai compagni di squadra perché è l’unico ad indossare la tenuta da gioco, mentre gli altri sono in giacca e cravatta. Se la descrizione potrebbe indurre a considerazioni negative, la visione della pubblicità ridimensiona questo aspetto, perché, trattandosi di un prodotto sponsor ufficiale di quella squadra, è come se chi vestisse la maglia da gioco fosse ancor più “integrato” nel gruppo e fosse il portatore visibile di un’appartenenza che in questa caso viene premiata (tra l’altro, chi compra quel prodotto può vincere un biglietto per una partita allo stadio). Un’ultima osservazione riguarda invece la pubblicità di un’altra birra, in cui si ricorre ad un ulteriore stereotipo abusato: il binomio “belle donne–motori”. In questo caso la protagonista che domina l’immagine, nonostante sia posta in secondo piano rispetto al motociclista, è una modella dai tratti e colori tipici dell’Europa dell’Est. Ancora una volta, più che il tema razzista, ricorre quello di matrice “sessista”, della donna che “aspetta al traguardo” l’uomo, tifoso o sportivo che sia, con aria ammiccante, seducente. Analogamente potremmo interpretare l’immagine in cui la protagonista è Belen Rodriguez, come vedremo quando parleremo del medesimo spot televisivo. I mondi possibili. Talvolta le narrazioni pubblicitarie, ossia le storie, i racconti che percepiamo dietro ad un’immagine apparentemente statica e immobile, si servono di quelli che definiamo “mondi possibili”. Essi emergono quando nel testo o nell’immagine si ha una rappresentazione del mondo diversa da quella che noi viviamo nella realtà; lo scarto che si crea tra immagine reale e immagine rappresentata è un “mondo possibile” che può essere più o meno verosimile, più o meno desiderabile. Ad esempio, se vedessimo raffigurato un uomo assolutamente realistico che per strada, invece di camminare normalmente, rimbalzasse come un canguro, saremmo davanti ad un mondo possibile, poiché nella nostra realtà quotidiana gli uomini camminano e non saltano. L’importanza di queste rappresentazioni non consiste, tuttavia, nello stupore suscitato – dunque non è importante l’ampiezza di questo scarto tra reale e rappresentato - quanto nella capacità di stimolare una riflessione individuale. Pur ammettendo che gli uomini camminano, siamo invitati a prendere in considerazione l’idea che un giorno potrebbero avanzare saltellando. Un mondo possibile si ha dunque quando, seppur nella sua stranezza, un’immagine ci appare comunque dotata di una certa logica. Questo tema è impiegato con elevata frequenza nel linguaggio pubblicitario e spesso in modo estremo – ad esempio, ricordando alcuni spot recenti, uomini che diventano pesci dopo aver indossato un costume da bagno, automobili che con determinati pneumatici aggrediscono letteralmente la strada o si trasformano in robot giganti, bambini che possono preparare la cena ai genitori grazie alla facilità di alcuni alimenti precotti, ecc. – per far sì che lo spettatore indugi su quel messaggio e tenti di decifrarlo, confrontandolo con la propria esperienza. Infatti, il messaggio risulta più efficace se ha un qualche “appiglio” di verità, perché in tal caso condurrà ad una riflessione e ad una interpretazione, mentre nel caso di un messaggio evidentemente irreale o scioccante si potrà avere la rimozione del messaggio stesso. Nelle immagini rilevate, i “mondi possibili” sono quelli in cui vi è il ricorso al tema multiculturale. In 3 pubblicità, in cui si propongono abiti o birra, si ha la rappresentazione di un mondo che per la maggior parte degli spettatori non è reale, ma che potrebbe essere ammissibile in futuro. Cosa vediamo in queste immagini? Gruppi di giovani, spesso amici, molto eterogenei dal punto di vista delle appartenenze etniche, ma che vivono un momento di incontro e di condivisione in piena unione e amicizia. Seduti sullo stesso divano, bevono la stessa birra; comprano gli abiti in un Outlet che soddisfa le loro molteplici esigenze; fanno parte della stessa compagnia metropolitana; vestono gli stessi jeans. Indipendentemente dallo spazio in cui sono ambientati gli spot – 18 immagini sono poche per poter trarre delle conclusioni – è importante considerare quello spazio visivo che viene definito dello sguardo dei suoi protagonisti. L’attenzione dell’osservatore si sofferma sui loro volti, sugli occhi e sulle espressioni facciali che tendono ad includere, accogliere, come se si fosse invitati a sedere su quel divano, a far parte di quella compagnia o a servirsi allo stesso outlet. Se quindi nei precedenti spot si utilizzavano stereotipi per decifrare più facilmente i messaggi, qui sembra quasi che lo stereotipo sia stato superato, in quanto, pur tematizzando la differenza, si propone una rappresentazione alternativa della convivenza multietnica e multiculturale, maggiormente corale e quotidiana, in cui gli stili di consumo e i comportamenti tendono a rendere più simili. Come messo in luce qualche anno fa da una ricerca del Censis, nella pubblicità si parla spesso di una “integrazione risolta”, in cui persone di provenienze etniche diverse convivono in amicizia, scherzano, ridono, vestono alla moda, hanno i medesimi gusti e interessi. Gli spot televisivi Per quanto riguarda la pubblicità televisiva, sono stati esaminati alcuni spot andati in onda lo scorso anno ed altri più recenti, per un totale di 13 spot, di cui riportiamo una breve descrizione: -Tim 1/2/3 – Protagonista Belen Rodriguez Nei tre spot, Belen impersona rispettivamente una poliziotta, un meccanico e una professoressa di latino. Negli spot si ripropone sempre lo schema dell'uomo (Christian De Sica) che, incontrando la ragazza, tenta un approccio. Il personaggio di Belen è ogni volta vestito in maniera provocante. -Muller – yogurt con cereali al cioccolato Lo spot mostra due uomini che avvolgono la donna protagonista che mangia il prodotto: uno bianco (reso quasi trasparente), rappresenta lo yogurt, mentre quello di colore nero rappresenta i cereali al cioccolato. -Kinder Bueno – protagonista Andrew Howe Il testimonial del prodotto è l'atleta Howe, di cittadinanza italiana ma di origini statunitensi (riconoscibile come 'straniero' per le caratteristiche fisiche e il nome). Durante lo spot il protagonista accoglie in casa la sua vicina (una ragazza già conosciuta in uno spot precedente) e alla fine è costretto ad offrirle il suo ultimo Kinder Bueno. -Profumo One di Calvin Klein Quello trasmesso in Italia è in realtà solo una parte dello spot intero. La scena riprende vari giovani che camminano in un paesaggio quasi desertico verso lo spettatore, abbracciandosi, correndo, e scherzando. Alcuni primi piani di coppie miste (bianchi/di colore; asiatica/bianco) che si baciano. La colonna sonora, cantata da uno dei protagonisti dello spot dice “We're one”, che è anche lo slogan del prodotto. -Nokia Ovi Maps Lo spot pubblicizza il fatto di potersi orientare ovunque tramite il cellulare. Gli esempi sono 3, ma quello interessante è quello del ragazzo indiano in groppa a un elefante, che è verosimilmente il suo mezzo di trasporto abituale, il quale alla fine si incontra con altri ragazzi su elefanti, tutti vestiti eleganti in stile 'indiano'. Lo slogan recita: le strade del mondo finalmente per tutti. -Rum Malibu – Shake it I protagonisti sono 2 ragazzi di colore che lavorano in una radio in un'isola caraibica e parlano di cocktail a base di rum Malibu. Il lato interessante è il doppiaggio italiano che li fa parlare secondo lo stereotipo dell'accento africano. -Caramelle Ricola – versione cinesi Ambientato in una antica bottega di erboristeria, un anziano cinese racconta come hanno inventato le caramelle per la gola. All'improvviso sbuca un signore bianco in giacca e cravatta che smentisce la cosa e spiega che a inventarle è stata Ricola, quindi gli svizzeri. C'è anche la versione con gli eschimesi ambientata al polo nord, ma con la stessa dinamica. In entrambe, cinesi ed eschimesi parlano un italiano scorretto (in particolare i cinesi non riescono a dire 'Ricola' e il fatto viene sottolineato alla fine dello spot). -Caffè Lavazza qualità oro episodio della serie con Bonolis e Laurenti ambientata in paradiso: qui c'è un personaggio cinese (riconoscibile per tratti somatici, abbigliamento e difficoltà a pronunciare la 'r') che offre loro il caffè qualità oro, che si rivela in realtà caffè normale con una spruzzata di vernice dorata. Bonolis si inalbera e offre il 'vero' caffè di qualità. -Ringo – testimonial Kakà Un bambino gioca a calcio sul prato e arriva a Kakà a giocare con lui: sul pulmino che guida il calciatore ci sono altri bambini tra cui uno di colore che dà il famoso 'cinque' al bambino bianco. -Bonduelle – Famiglia Bonduelle Due episodi della serie di spot della Bonduelle: protagonisti una famiglia con 3 figli, di cui un ragazzino di colore (adottato?). I due spot selezionati contengono improbabili battute politicamente (s)corrette sul colore della pelle del ragazzino. Relazione tra le componenti della pubblicità e coerenza del messaggio L’analisi degli spot televisivi, come per le immagini, si è basata sull’individuazione di una doppia corrispondenza: - Tra prodotto e ambientazione: a seconda di ciò che viene pubblicizzato si possono avere de rapporti logici e naturali (ad es.: scarponi da sci su una pista innevata), oppure rapporti impropri, contraddittori e figurati (ad es.: scarponi da sci su un prato in fiore). - Tra prodotto e personaggi: la pubblicità può evidenziare dei rapporti logici tra prodotto e personaggi ( ad es. un utensile da cucina che viene usato per preparare il pranzo) oppure rapporti figurati, in cui il personaggio è semplicemente accostato al prodotto, diventando anch’esso un elemento simbolico. Una galleria di stereotipi Dall’analisi è emerso che non sempre il prodotto è inserito in un contesto coerente e che spesso i personaggi hanno un “valore simbolico”: a volte perché trattandosi di vip svolgono semplicemente una funzione di testimonial, altre perché servono a proiettarci in quelli che abbiamo definito “mondi possibili”. E’ il caso dello spot del profumo One di Calvin Klein, in cui giovani ragazzi di varie etnie si abbracciano e scherzano, in perfetta coerenza con il ritornello della colonna sonora, che canta “We’re one”, come per intendere “siamo tutti uguali” (e One è il nome del profumo). L’intento è quello di immaginare un mondo dove non esistono differenze, dove regna l’armonia e il reciproco rispetto. Più controversi i casi Nokia e Bonduelle: entrambi proiettano lo spettatore in un mondo “ideale” in cui distanze e differenze si annullano, ma il messaggio sfrutta stereotipi non propriamente “lusinghieri” per le culture cui rimandano. Vediamo nel dettaglio: -nello spot Nokia centauri ipertecnologici e una giovane donna occidentale sono accostati a un gruppo di indiani in groppa ad elefanti: il messaggio è che tutti potranno usufruire dei navigatori satellitari Nokia, ma l’idea che anche chi cavalca un elefante possa averne realmente bisogno è chiaramente ironica, e sembra evocare un contrasto tra culture “ricche ed evolute” e culture arretrate. -gli spot della Bonduelle si presentano come brevi episodi di una fiction dal titolo “Casa Bonduelle”, in cui una famiglia composta da genitori e tre figli consuma insalate già preparate e condite. L’elemento che ci interessa è la presenza di uno dei tre figli: di colore, probabilmente adottato, chiude ogni spot con una battuta sul colore della sua pelle (“il nero va su tutto”, “chi se ne frega (dei punti neri, ndr) tanto a me non si vedono”). L’intento è probabilmente quello di rappresentare una nuova realtà italiana, costituita sempre più da “famiglie multietniche”, tuttavia, il ricorso alla battuta su colore della pelle non assicura una ricezione “neutra” da parte del telespettatore, anche se a pronunciarla è il ragazzino stesso. Come per le immagini pubblicitarie, quindi, anche negli spot sono riscontrabili numerosi stereotipi, che come abbiamo detto sono parte del linguaggio pubblicitario. In molti casi, lo stereotipo è di tipo sessista, cioè sfrutta immagini di uomini e (più spesso) donne per evocare il mondo dell’eros e sensualità. E’ il caso degli spot della Tim, dove Belen Rodriguez – soubrette di grido, nonché compagna di un noto personaggio al centro di vicende giudiziarie - fa coppia con un altro personaggio molto popolare (Christian De Sica). In questi casi lo stereotipo non si basa sull’origine etnica della protagonista, quanto sulla bellezza e la sensualità femminili: le inquadrature si soffermano sul corpo perfetto della donna, vestita in modo da evidenziare silhouette e curve. Non mancano doppi sensi e richiami al sesso. Un altro tipo di stereotipo presente è quello linguistico: gli spot della Ricola vogliono rivendicare la paternità svizzera delle caramelle attraverso l’incapacità – da parte di cinesi ed eschimesi – di pronunciare il nome del prodotto. Lo stereotipo di questo tipo è molto abusato, probabilmente poco efficace a livello comunicativo, in quanto la diversità è ridotta a distanza linguistica. Allo stereotipo linguistico lo spot della Lavazza sovrappone anche quello culturale, mutuato dall’informazione: il cinese rappresentato non soltanto non parla bene l’italiano, ma è dedito alla pratica della contraffazione (ha porto delle aureole spacciandole per dorate e ha offerto del caffè – marca Lavazza Oro – spruzzandolo con dello spray color oro). Come per le immagini sulle riviste, anche in tv compaiono persone di etnie diverse raffigurate per evidenziare un contrasto cromatico: è il caso dello yogurt Muller e dei biscotti Ringo: nel primo caso i corpi si intrecciano in una sorta di danza, ricordando il bianco dello yogurt e il nero dei cereali di cioccolato; nel secondo un bambino bianco e uno di colore si danno il famoso “cinque”, simbolo ormai storico del brand. In questi due spot il riferimento alle diverse etnie ha una funzione strumentale: così come l’abusato stereotipo linguistico, anche l’uso del colore è una “modalità narrativa” poco originale utilizzata per marcare “una differenza” (due diversi sapori e colori). Sebbene semplice e rudimentale, è molto probabile che tale linguaggio visivo non sia recepito dal pubblico in chiave razzista, ma semplicemente come una banalizzazione del multiculturalismo. Lo spot dei biscotti Ringo ricorre a due strategie: la prima, che abbiamo appena descritto, consiste nell’utilizzare le differenze etniche per il contrasto cromatico; la seconda nella scelta del testimonial, cioè uno sportivo (nel caso specifico: Kakà). Sono molti i prodotti alimentari - in particolare snack - sponsorizzati da sportivi: i personaggi di questi spot sono scelti perché giovani e in salute, simbolo della vita sana e della corretta alimentazione. Esempio calzante è la pubblicità di Kinder Bueno, in cui il protagonista è Andrew Howe (e Kinder Fetta al Latte con Fiona May, altro testimonial della Kinder recentemente in onda). In questi casi non è l’origine etnica a determinare la scelta del personaggio, ma il fatto che si tratti di sportivi, cioè figure simbolicamente associate al concetto di benessere. Come spesso accade, lo sport aiuta a veicolare messaggi positivi, e nel caso della rappresentazione mediatica dell’etnicità, personaggi di etnie diverse sono rappresentati come “membri della comunità” a tutti gli effetti (Howe e May hanno cittadinanza italiana, mentre Kakà no). Certamente, si tratta di “cittadini particolari” in quanto campioni, ma l’origine etnica dei protagonisti di questi spot non è in alcun modo evidenziata. Se vogliamo individuare uno stereotipo, quindi, dovremmo dire che queste pubblicità sfruttano un’associazione di idee piuttosto abusata, così schematizzabile: sport → alimentazione sana → benessere Osservazioni conclusive L’ambivalenza del messaggio pubblicitario Concludiamo il presente contributo con una riflessione, stimolata sia dalle immagini pubblicitarie, sia dalla letteratura sui temi delle rappresentazioni e degli stereotipi. L’interpretazione dei messaggi pubblicitari non è mai a senso unico. Anzi, come ci avvertono gli studiosi, chi legge un testo è sempre chiamato ad avanzare delle “ipotesi di senso” che potranno variare non solo da lettore a lettore, ma anche nel corso delle nostre esperienze e dunque in tempi e luoghi differenti. Ciò che abbiamo qui proposto, pertanto, non è vero in qualsiasi circostanza, ma è strettamente collegato alle immagini mentali di cui ciascuno, dunque anche i ricercatori, è portatore: sensibilità, vissuti, storie personali, esperienze, credenze, ecc.. In più è bene tenere presente che in ogni testo, c’è un intento perseguito dall’autore che non sempre coincide con l’interpretazione attribuita dal lettore e che dietro a questa ambivalenza talvolta soggiace il significato “storico” del testo, ovvero ciò che esso vuol dire in un determinato contesto sociale. Per richiamarsi alla pubblicità della birra, ad esempio, potremmo distinguere tra: Intento dell’autore: la birra come bevanda conviviale degli sportivi (Slogan “Chi mastica calcio, beve birra Moretti”). Interpretazione dell’osservatore: tra i giocatori c’è amicizia, goliardia e condivisione. Significato “storico”: tra i tifosi c’è amicizia indipendentemente dalle proprie origini etniche, richiamando gli episodi di razzismo contro un calciatore di colore. Tali precisazioni potrebbero a questo punto del discorso invalidare quanto detto finora. Non è proprio così. Infatti, pur ammettendo la soggettività interpretativa, ciò che dobbiamo tenere presente quando ci serviamo di un linguaggio visivo per rappresentare un determinato concetto, non è quanto si aderisca a stereotipi condivisi o quanto si tenti di superarli o, addirittura, di contrastarli. Sono importanti i significati a cui rimanda l’adesione o l’abbandono di uno stereotipo e dunque è importante chiedersi quale delle strade possa rendere il messaggio più efficace, perché più condivisibile. Concludiamo allora mostrando una delle immagini rilevate nel periodo d’osservazione, dove il nostro oggetto di studio è quanto mai evidente e protagonista, per sollecitare qualche riflessione aggiuntiva. Osserviamo la fotografia che segue: Come potremmo interpretare questa immagine? Gli intenti interpretativi potrebbero essere molteplici e da ciascuno di questi deriverebbero significati diversi. Ad esempio, potremmo dire che è una pubblicità in cui si esaltano le reciproche bellezze e dunque il messaggio è antirazzista: la donna bianca veste un abito scuro che esalta la sua pelle e la sua capigliatura e in modo analogo, la donna di colore è in abito bianco. Potremmo addirittura avanzare l’ipotesi che le differenti appartenenza etniche siano semplicemente impiegate per un discorso cromatico, di estetica dell’immagine – così come la borsa è bianca e marrone – e che in realtà predomini il tema dell’orizzonte comune tra le due, la visione condivisa, una mèta da raggiungere insieme. Oppure potremmo dire, secondo un’altra sensibilità, che nell’immagine ci sono i segni, negativi, della globalizzazione che omogeneizza, poiché entrambe le donne hanno la stessa borsa, ma anche gli stessi monili che sono sviliti del loro significato originario. Ma ancora, quante altre interpretazioni potremmo avanzare? La donna bianca è in primo piano e l’abito lungo, mentre quella di colore è più sullo sfondo ed una veste meno elegante; sono nel deserto, con le mani rivolte in alto, in atteggiamento servile; sono immobili e tengono la borsa in avanti, come una sorta di bussola che orienta i loro passi, eccetera, eccetera. Concludendo, quando si parla di stereotipi e di immagini pubblicitarie, dobbiamo prestare particolare attenzione ai significati voluti dall’autore e a quelli attribuiti dall’osservatore, affinché l’interpretazione non avvenga in modo distorcente o riduttivo. Dobbiamo, in estrema sintesi, distinguere tra messaggi esplicitamente razzisti, perché tali sia negli intenti che nelle interpretazioni, messaggi implicitamente razzisti, perché di più lenta decodifica da parte dell’osservatore e messaggi non razzisti, in cui la tematica etnica è impiegata a supporto o a favore di altri significati e dunque non offensiva nei confronti delle differenze rappresentate.