Usi delle tecniche di ingegneria genetica

Usi delle tecniche di ingegneria genetica
L’essenza delle tecniche di ingegneria genetica consiste nella possibilità di isolare, manipolare e far
esprimere materiale genetico in una cellula o in un organismo ospite. Attraverso le metodiche del
DNA ricombinante possiamo sviluppare colture microbiche capaci di produrre sostanze di grande
valore come l’insulina, l’interferon, l’ormone della crescita, vaccini, reagenti immunologici, enzimi
industriali ecc. È possibile inoltre creare nuovi prodotti biologici utili che non sono ottenibili da
fonti naturali. Si possono creare cellule microbiche, vegetali e animali per far acquisire loro nuove
proprietà. In questo modo si possono creare microrganismi capaci di degradare inquinanti
ambientali, oppure varietà di piante e animali capaci di resistere a diversi agenti in grado di mettere
in pericolo la loro crescita o, ancora, produrre alimenti in maggior quantità e di miglior qualità.
Produzione di proteine ricombinanti
Le tappe fondamentali per l’ingegnerizzazione di microrganismi sono: isolamento o sintesi del
gene interessato; inserimento in un plasmide vettore e trasmissione in un idoneo ospite batterico;
selezione dei batteri ricombinanti e la loro coltura in massa per la produzione del prodotto finale;
recupero e purificazione della sostanza in questione. Nel momento in cui il sistema di produzione
funziona e i batteri producono la proteina desiderata si attuano metodiche per la produzione
industriale. Spesso queste tecniche vengono usate per la produzione di proteine esistenti in natura in
quantità ridotte, altre volte le proteine esistenti in natura non rispondono completamente alle
esigenze di applicazione industriale o altre necessità. Con la tecnica del DNA ricombinante si
possono provocare mutazioni mirate per ottenere proteine con le caratteristiche desiderate.
Cambiando un nucleotide si può ottenere un aminoacido nuovo e ciò può cambiare le caratteristiche
della proteina. Le caratteristiche su cui si può agire con piccole mutazioni sono: la termolabilità, la
tolleranza al pH, la specificità, la regolazione allosterica, la necessità di cofattori per l’utilizzo
industriale. Un altro modo per produrre proteine nuove è quello di legare frammenti di DNA
appartenenti a geni diversi con la produzione di proteine ibride. Un esempio di proteina ibrida è
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rappresentato dall’attivatore tissutale del plasminogeno che è stato fuso con il sito combinatorio di
un anticorpo che ha affinità per i siti antigenici dei coaguli. Questa nuova molecola oltre a svolgere
le funzioni di fibrino litico potrebbe essere usato come antitrombotico.
Vaccini ricombinanti
La vaccinazione consiste nell’inoculazione per via orale o parenterale di uan preparazione
antigenica costituita o dal microrganismo, da frazioni glicoproteiche o tossine del microrganismo
stesso. Il prodotto somministrato provocherà una reazione immunitaria che proteggerà l’individuo
dal patogeno per cui è stato vaccinato. Le normali tecniche di vaccinazione presentano numerosi
inconvenienti: presenza di virus contaminanti nel terreno di coltura, possibile presenza nel prodotto
finale di virus virulento, presenza di acidi nucleici virali che possono provocare inconvenienti, il
pericolo della coltivazione di virus ad elevata patogenicità. Ma se noi identifichiamo la struttura
antigenica più importante dell’agente infettivo, si può in seguito passare all’identificazione del gene
coinvolto nella produzione dell’antigene, isolarlo e procedere alla sua codificazione. I primi vaccini
ad essere prodotti con questa tecnica sono stati: il vaccino per l’epatite B e i vaccini contro la
colibacillosi del vitello e la leucemia del gatto. Sono stati prodotti vaccini ingegnerizzando cellule
vegetali. In questo modo sono stati prodotte sostanze tipo soia, patate, banane, contenenti alte
concentrazioni di proteine virali e batteriche.
Abbiamo detto che il vaccino per l’epatite B è stato il primo vaccino ricombinate . Esso ha una
grande importanza in quanto i portatori di virus per l’epatite rischiano di ammalare di cirrosi e di
cancro del fegato che è secondo solo al cancro polmonare. L’antigene di superficie chiamato anche
antigene Australia è quello più adatto per sviluppare immunità. Il gene virale è stato clonato e
trasferito ed espresso in un lievito e dopo opportuni trattamenti viene usato come vaccino. Esso si è
dimostrato del tutto sicuro e molto efficace e, perciò, applicabile su larga scala per la vaccinazione.
Un altro vaccino importante è stato quello contro la meningite batterica. Il maggior responsabile era
rappresentato dall’Haemophilus influenzae di tipo b. Dopo la comparsa del vaccino ricombinante
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l’incidenza della malattia si è ridotta del 90%. Un’altra tecnica è stata quella usata per il vaccino
della pertosse. È stato prodotto un ceppo di Bordetella pertussis capace di produrre una tossina della
pertosse identica da un punto di vista antigenico all’originale ma senza tossicità (pag. 77). Esiste
ancora la possibilità di modificare geneticamente microrganismi per essere impiegati come vaccini
vivi ricombinanti. Con questa metodica vengono incorporati geni di alcuni microrganismi patogeni
(Herpes simplex, virus influenzale) in altri microrganismi che fungono da vettori (vaccinia virus). I
geni incorporati hanno naturalmente la capacità di esprimere proteine immunogene. In altri casi
vengono usati microrganismi omologhi ai quali vengono modificati o meleti geni in relazione con la
virulenza. La produzione di vaccini può essere fatta ingegnerizzando cellule vegetali. In questo
modo sono state create patate, tabacco, soia, pomodori e banane transgeniche con alte
concentrazioni di proteine virali (per es. antigeni di superficie del virus epatite B dell’uomo.
Oggettodi aatenzione sono anche i batteri che provocano diarrea, come l’escherichia coli. I
ricercatori hanno introdotto nella patata il gene per l’enterotossina resa non patogena. Nei volontari
che hanno mangiato la patata essa ha stimolato la produzione di anticorpi. L’ulteriore passo sarà
quello di verificare se l’immunità acquisita è in grado di prevenire gli effetti. In alcuni laboratori si
sta cercando di produrre latte caprino da capre ingegnerizzate in grado di produrre proteine del
plasmodio della malaria. Se verrà dimostrato che il latte è in grado di proteggere gli animali da
esperimento (scimmie) si inizierà la sperimentazione sull’uomo. Se pensiamo che ogni anno 500
milioni di persone contraggono la malaria e circa 3 milioni muoiono non è difficile rendersi conto
dell’utilità di questo tipo di ricerca.
Diagnosi molecolare delle malattie infettive
Finora la diagnosi di malattie infettive si basava sull’esame al microscopio, isolamento e studio
delle caratteristiche biochimiche e immunologiche del microrganismo. La reazione classica, per
quanto riguarda lo studio immunologici, è quella dell’agglutinazione. Recentemente gli anticorpi
monoclonali permettono di ottenere diagnosi altamente specifiche. La vera rivoluzione tecnologica
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consiste nell’identificazione degli acidi nucleici che identificano con precisione assoluta il
microrganismo in questione. Lo studio dell’RNA ribosomiale oltre permetterci lo studio dei geni
che ci interessano può essere analizzato come un documento storico dell’evoluzione del batterio.
L’identificazione del DNA può essere ottenuta attraverso l’uso di geni usati come sonde che si
legano solo a quei tratti di DNA che hanno una struttura complementare alla loro. I filamenti di
DNA vengono marcati radioattivamente oppure con enzimi cromogeni e in seguito viene testata la
radioattività o l’attività enzimatica cromogena. Entro poche ore (4 – 6 ore) si possono ottenere
informazioni precise sull’eziologia dell’infezione.
Diagnosi molecolare e immunoterapia dei tumori
Il cancro dal punto di vista biologico può essere inquadrato in una serie di alterazioni genetiche che
si risolvono in una proliferazione incontrollata delle cellule. Le metodiche per riconoscere geni
modificati in senso tumorale sono diverse: sonde molecolari e PCR, anticorpi monoclinali. Si
stanno sviluppando metodiche di terapia tumorale con anticorpi monoclinali coniugati a sostanze
citotossiche facendo agire miratamene le sostanze chemioterapiche. Le tecniche del DNA
ricombinante possono essere usate per la diagnosi di patologie genetiche legate a mutazioni
puntiformi. In commercio esistono dei sistemi già pronti per la diagnosi di alcune disfunzioni legate
ai fattori della coagulazione. Un’altra importante applicazione delle tecniche del DNA ricombinante
è la diagnosi prenatale. L’anemia falciforme, la talassemia, le emofilie, la distrofia muscolare, la
fibrosi cistica e la fenilchetonuria sono alcune delle 500 malattie genetiche conosciute che
compaiono a causa di una mutazione puntiforme. Lo studio del DNA viene fatto su cellule presenti
nel liquido amniotico. Il gene che si vuole esaminare viene prima amplificato con la tecnica PCR e
in seguito viene studiato e fatta la diagnosi.
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Terapia genica
Secondo le statistiche 1 bambino su 1000 nasce con una malattia genetica grave. Per la maggior
parte delle 4000 malattie ereditarie non si conoscono terapie adeguate. In questo senso la terapia
genica può offrire la possibilità di sostituire i geni cattivi con geni buoni che possano correggere il
difetto ereditario. Esistono molte difficoltà nell’acquisizione di terapie con la tecnica del DNA
ricombinante. Attualmente non è possibile manipolare le cellule germinali ma solo cellule
somatiche. IL trasferimento di geni è ristretto alle cellule di midollo osseo, sangue e cute che hanno
la possibilità di vivere più facilmente in terreno di coltura. I problemi sono diversi: acquisizione di
notizie per capire come viene regolata l’espressione del gene in questione; messa a punto di
metodiche efficienti per introdurre i geni desiderati nei cromosomi perché la loro espressione sia
sotto il controllo cellulare; disponibilità di vettori che introducano il gene solo nella cellula che ne
ha bisogno; introduzione del gene in proporzioni significative; gli interventi devono essere eseguiti
in utero o ai primissimi mesi dopo la nascita, prima che si abbiano danni irreparabili. Il primo
esperimento di terapia genica è stato autorizzato nel 1990 per il trattamento di una grave malattia
ereditaria chiamata immunodeficienza combinata grave o SCID. Si tratta di un’alterazione del gene
che controlla il metabolismo delle purine e si manifesta con una deficienza dell’enzima adenosindeaminasi (ADA). Essa provoca un grave danno del sistema immunitario, in particolare dei linfociti
T con un susseguirsi di infezioni batteriche, virali e i pazienti devono essere protetti vivendo in
“bolle sterili”. Come vettore è stato usato un retro virus e il gene viene introdotto nei linfociti T .
Poiché i linfociti T hanno un periodo di vita limitato la terapia deve essere eseguita ogni due mesi.
Si sta mettendo appunto un sistema per introdurre il gene buono nelle cellule staminali del sangue.
Un'altra possibilità per la cura delle malattie potrebbe essere l’uso delle cellule staminali. Esse sono
totipotenti, hanno cioè la possibilità di svilupparsi secondo linee diverse ed esse messe in terreni di
coltura appropriati potrebbero evolvere verso la linea cellulare voluta. Le cellule staminali
potrebbero essere utili per trattare organi con tessuti in parte danneggiati come per esempio un
cuore infartuato, le cellule pancreatiche nel diabete, in alcune patologie cerebrali, nelle epatiti, nella
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cirrosi etc. Esse possono provenire da diversi tessuti nell’adulto; da alcuni tessuti fetali; dal sangue
del cordone ombelicale; da embrioni allo stato precoce; cellule adulte riprogrammabili. Il problema
etico nasce sull’uso dell’embrione. In America e in Inghilterra è stato consentito l’uso
dell’embrione come fonte di cellule totipotenti fino al 14 giorno di gestazione.
Animali transgenici come donatori per i trapianti d’organo
La notevole carenza di organi a fronte della enorme richiesta ha posto il problema della possibilità
di produrre organi animali adatti ad essere trapiantati su umani. Sono molti gli episodi i quali
documentano che quest’ipotesi non è nuova. Già nel 1200 i Santi Cosma e Damiano asportarono
una gamba ad un africano morto e la trapiantarono ad un infermo bianco. Nel 1682 un lembo di
cranio umano venne sostituito con un lembo prelevato dal cranio di un cane. Alla fine dell’800
numerosi trapianti di cute di rana furono usati per curare le ustioni. Nel 1920 un medico
probabilmente russo, Serge Voronoff, a Parigi eseguì numerosi trapianti di testicoli di scimmia su
anziani per farli ringiovanire. Tra il 1963 – 65 numerosi pazienti hanno ricevuto un rene di
scimmia: uno solo di questi visse per 9 mesi. Gli interventi vennero praticati in Louisiana. Nel 1964
venne realizzato un trapianto di cuore da scimmia. Il paziente sopravisse per due ore a causa delle
dimensioni troppo piccole del cuore. L’intervento fu eseguito nel Mississipi. Nel 1977 Christian
Barnard tento il trapianto di cuore di scimmia in un paziente sottoposto senza successo ad altre
terapie. Il paziente mori a causa delle dimensioni troppo piccole del cuore e per la reazione di
rigetto. Nel 1984 viene trapiantato un cuore di scimmia in una bimba nata prematura con gravi
malformazioni cardiache. La bimba sopravisse solo venti giorni nonostante l’uso della ciclosporina.
Nel 1992 all’università di Pittsburgh venne eseguiti numerosi trapianti di fegato di scimmia. Un
paziente è sopravissuto oltre due mesi. Nel 1995 venne eseguito un trapianto di cellule del sistema
immunitario di un babbuini in un bambino colpito da una forma grave di AIDS e nel 1997 vennero
inoculate cellule nervose di suino in un paziente affetto da morbo di Parkinson con un netto
miglioramento della sintomatologia. Molta parte della stampa e diversi personaggi famosi si sono
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schierati contro gli xenotrapianti e d’altra parte il traffico illegale dei trapianti è una realtà
drammatica. In Italia ci sono 12000 persone in attesa di trapianto e le disponibilità sono nettamente
inferiori. Esiste una cospicua documentazione di questo traffico in cui gli organi vengono spesso
asportati da bambini o da persone povere che vendono uno dei loro reni. Dario Fo, uno strenuo
oppositore degli xeno trapianti, si domanda: quanti geni di uomo trasferiti al suino rendono il suino
uomo? E quanti organi di suino trapiantati nell’uomo rendono l’uomo suino? La domanda di Dario
Fo tradisce una concezione dell’uomo in cui la biologia e, in particolare, l’assetto genetico,
costituiscono l’uomo nella sua totalità. Affermazioni di questo tipo oltre a tradire una scarsa
conoscenza dei meccanismi biologici che sottendono il funzionamento dell’organismo mettono in
evidenza una frettolosa semplificazione di quella che è la natura umana che, difficilmente, si lascia
ridurre ai suoi antecedenti biologici o ai suoi costituenti genetici.
Applicazione delle biotecnologie innovative: Agricoltura
Da almeno 10.000 anni le piante coltivate vengono selezionate per ottenere le caratteristiche
desiderate e negli ultimi 100 anni, dopo la definizione delle leggi fondamentali della genetica messe
a punto da Mendel, i procedimenti sono diventati sempre più rigorosi. In questi ultimi anni si è
riusciti a incrociare specie diverse tra loro. Una tecnica è quella della ibridazione somatica che
consiste nella fusione di cellule private della parete (protoplasti). Questa tecnica ha permesso di
incrociare, per esempio, cellule di patata con cellule di pomodoro. L’ostacolo in questo caso,
consiste nell’impossibilità di prevedere come i due diversi patrimoni genetici si esprimeranno. La
nuova pianta potrebbe avere caratteristiche desiderate o qualità non volute. Con la tecnica del DNA
ricombinante possiamo conferire nuove caratteristiche miratamente, in una pianta che per il resto
rimane identica. Normalmente gli esperimenti conferiscono ai prodotti agricoli caratteristiche nuove
quali: miglioramento in quantità e qualità nutrizionali del prodotto, resistenza agli stress ambientali,
ai parassiti e altri patogeni, tolleranza alla siccità e alla salinità dell’acqua, resistenza alle basse
temperature. Se prendiamo in considerazione le ultime caratteristiche ci possiamo rendere conto che
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la produzione agricola in paesi come l’Africa, la Russia o la Cina verrebbe trasformata. A tutt’oggi
sono state prodotte numerose piante transgeniche, tra cui: mais, frumento, riso, pomodoro, patata,
lattuga, cotone, soia, piselli, carote, verze, cocomeri, fragole, girasoli, barbabietole, papaie, kiwi,
melanzane, pere, uva, asparagi e altre. La tecnica è sempre la stessa:
1 – isolamento del gene che si vuole trasferire separandola dal DNA mediante un enzima di
restrizione;
2 – inserimento del gene isolato in un vettore molecolare (es. un plasmide batterico);
3 – replicazione del plasmide nel batterio in modo da amplificare il gene da trasferire;
4 – trasferimento del plasmide in una cellula vegetale, ottenendo così una nuova pianta con le
caratteristiche volute.
Una caratteristica facilitante per gli interventi di ingegneria genetica nelle cellule vegetali è la loro
totipotenza, per cui da una cellula di può ottenere un organismo intero. Il primo vettore usato per il
trasferimento di geni nelle cellule vegetali è stato il plasmide “Ti” di Agrobacterium tumefaciens
che ha la caratteristica di integrarsi efficacemente nel DNA della pianta. Il termine Ti significa
Tumor inducine. I biologi sono riusciti ad eliminare i geni responsabili dell’oncogenicità. Un altro
plasmide usato è quello dell’Agrobacterium rhizogenes che viene chiamato Ri (Root indicing) che
facilita la formazione di radici rendendo più semplice la rigenerazione di piante geneticamente
modificate. Il metodo di elezione per trasformare riso e mais è quello basato su A. tumefaciens.
Anche se sono diversi i nuovi approcci per il trasferimento dei geni. Un metodo che sta dando
risultati interessanti è quello basato sul bombardamento di cellule vegetali con materiale genetico.
Con questa metodica il DNA viene sparato sulle cellule vegetali attraverso piccole particelle di
metallo sparate sulla cellula ad alta velocità. Oggi nella maggior parte dei labotatori si usa il Particle
gun, un acceleratore di particelle funzionante ad elio compresso.
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Piante transgeniche
Tra le piante transgeniche assumono una particolare importanza quelle resistenti all’attacco degli
insetti:
questa caratteristica è desiderabile per diversi motivi:
1 – elimina la necessità di usare insetticidi che sono costosi e richiedono impegno per
l’applicazione;
2 – gli insetticidi non sono selettivi e uccidono insetti utili al biosistema;
3 – la maggior parte degli insetticidi non è biodegradabile e si accumula nell’ambiente con effetti
nocivi sull’ambiente e sull’uomo.
Questa caratteristica viene ottenuta attraverso l’inserimento del gene Bt, del Bacillus thuringiensis
che codifica per una proteina insetticida. Ogni gene è specifico per un particolare tipo di insetto.
Esso è stato introdotto in numerose specie vegetali: mais, pomodori, cotone e pioppo con risultati
veramente impressionanti. Uno dei primi prodotti con queste caratteristiche è stato il mais
transgenico chiamato, appunto, Mais Bt. Il mais così modificato risulta particolarmente resistente ad
un insetto devastatore chiamato piramide che provoca una perdita annua del 40% del raccolto di
mais annuale.
I risultati più interessanti sono stati ottenuti introducendo resistenza per alcune malattie virali.
Normalmente l’approccio consiste nel far esprimere il gene virale che codifica per l’espressione di
una proteina del guscio del virus che interferisce con la replicazione stessa del virus nella cellula
vegetale. In questo modo sono state prodotte piante transgeniche di pomodoro, patata, melone, riso
e tabacco che sono esposte alle infezioni da parte di specifici virus. Altri esperimenti sono stati
condotti per produrre piante transgeniche resistenti a batteri e funghi patogeni. Un esempio è quello
del tabacco in cui è stato introdotto un gene che codifica per un enzima che conferisce resistenza
all’infezione da Pseudomonas syringae.
Un altro tipo di piante transgeniche sono quelle resistenti agli erbicidi. Le erbe infestanti sono
capaci di ridurre il raccolto oltre il 10% e d’altra parte gli erbicidi usati non sono selettivi e agiscono
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alterando i processi fisiologici delle piante normali come fotosintesi e biosintesi degli aminoacidi.
Per ogni pianta è necessario selezionare l’erbicida che elimina quella particolare erba infestante
procurando il minor danno possibile alla pianta stessa. Esistono degli erbicidi definiti erbicidi totali,
che uccidono indiscriminatamente tutte le piante e, alcuni di questi, sono biodegradabili e hanno
una bassissima tossicità per uomini e animali. In alcuni batteri sono stati scoperti, isolati e poi
clonati alcuni geni che codificano per enzimi capaci di inattivare gli erbicidi totali. A partire da ciò
sono state prodotte piante resistenti a erbicidi quali, glifosato, glifosinato bromoxilolo. Tra queste
piante abbiamo: cotone, mais, riso, soia e barbabietole.
Attraverso l’introduzione di un gene che esprime un RNA messaggero antisenso che blocca l’RNA
messaggero per la produzione di un ormone gassoso, l’etilene, responsabile della maturazione del
pomodoro, si è riusciti a prolungarne la conservazione. Quando c’è bisogno di conservare per lungo
tempo i pomodori che devono essere trasportati in zone lontane, come il terzo mondo, allora
l’introduzione del gene permette la lunga conservazione conservando il contenuto e il sapore del
prodotto maturo. Quando poi si desidera farli maturare si può pompare gas etilene nelle celle in cui
sono conservati i pomodori ed essi diventano rossi e saporiti.
Sono in corso numerosi studi, alcuni coronati da successo, per la produzione di piante transgeniche
resistenti ai diversi stress ambientali (tolleranti la siccità, la salinità dell’acqua, le basse
temperature). In questo modo la coltivazione verrebbe estesa a quelle zone chiamate marginali che
attualmente non sono coltivabili o perché le acque sono troppo ricche di sali oppure sono ad alto
rischio di siccità e altre avversità ambientali. Sono stati già prodotte piante resistenti alla salinità
dell’acqua di mare quali cotone, meloni o verdure che possono essere coltivate nel deserto.
Un altro traguardo da raggiungere è quello di inserire geni implicanti la fissazione dell’azoto in
piante che non hanno questa caratteristica come alcuni tipi di cereali che devono usare grandi
quantità di fertilizzanti azotati. Già gli antichi romani avevano notato che seminando il grano in
terreni in cui l’anno prima erano stati coltivati con fagioli, piselli o, semplicemente trifoglio, il
raccolto sarebbe stato notevolmente incrementato. Il fatto era dovuto alla particolare capacità delle
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leguminose di legare l’azoto grazie ad alcuni batteri (Rhizobium) che vivevano in simbiosi con le
loro radici. Naturalmente la capacità di fissare l’azoto è legata alla presenza nei batteri di geni che
trasmettono questa capacità e che vengono chiamati geni nif (nitrogen fixing). Gli scienziati stanno
lavorando in diverse direzioni per ottenere il risultato: 1 – modificando i batteri rendendoli capaci di
colonizzare e vivere in simbiosi con ogni tipo di pianta; 2 – trasferendo i geni responsabili in altri
batteri più adatti per vivere in simbiosi con i cereali; 3 – trasferendo direttamente i geni nelle piante.
L’ultimo intervento sarebbe certamente quello più spettacolare in quanto i geni impegnati nella
fissazione dell’azoto sono circa trenta.
Le applicazioni delle biotecnologie innovative sono innumerevoli ma ciò che più è interessante è la
possibilità di risolvere i problemi dei paesi meno sviluppati, in particolare quello della fame. Da
almeno due decenni si sta discutendo della questione. Il problema, come si può intuire, è molto
complesso in quanto la tematica deve essere inserita in un contesto più ampio di crescita economica,
di progresso della giustizia sociale e di sostenibilità ambientale. A questo punto si inserisce il
dibattito sulle piante geneticamente modificate. Alcuni ritengono che il problema si esclusivamente
politico, in quanto i paesi poveri non hanno soldi per comprare il cibo e gli OGM li renderebbero
ancora più dipendenti dai paesi ricchi. L’unica soluzione sarebbe di ordine politico: aiuti umanitari
e remissione del debito. La FAO calcola che oggi c’è cibo sufficiente per 6.000.000.000 di persone
e nel mondo siamo 6.300.000.000. Questo vuol dire che il cibo oggi è sufficiente per sfamare tutti.
Purtroppo in occidente abbiamo il problema dell’obesità, mentre nei paesi del terzo mondo la gente
muore di fame. La soluzione dovrebbe essere una equa distribuzione delle risorse, ma la questione
diventa, a questo punto, la praticabilità di una soluzione di questo tipo. Secondo alcune stime la
popolazione mondiale sta aumentando e la terra coltivabile sta diminuendo. Le cause sono diverse:
urbanizzazione, siccità, salinità. Anche se nel 2030 il cibo verrà distribuito equamente non ce ne
sarà, comunque, abbastanza. Gli esperti dicono che per evitare il tracollo il terreno coltivabile
attuale dovrebbe produrre il doppio di quanto faccia oggi. Ma questo dovrebbe essere fatto nel
rispetto dell’ambiente, con minor ausilio della chimica (insetticidi, diserbanti, fungicidi,
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fertilizzanti, fitofarmaci). Dovremmo perciò dotarci di piante capaci di crescere in suoli aridi,
freddi, salini, che resistono agli insetti, ai funghi, ai virus patogeni, più efficaci nello sfruttare i
fertilizzanti etc. L’uso delle tecniche tradizionali di coltivazione non sono più in grado di rispondere
a queste sfide, mentre gli OGM potrebbero essere una soluzione soprattutto in paesi come l’Africa e
l’Asia. Nel 1999 la FAO in un meeting tenuto a IL Cairo ha lanciato l’allarme riso: nei prossimi
decenni l’Asia non sarà più autosufficiente per la produzione del suo alimento di base. Oggi l’Asia
produce il 95% del riso mondiale,circa 500 milioni di tonnellate. Entro il 2025 dovrà produrne 770
milioni. Ma il terreno in Asia sta diminuendo. Le cause sono diverse. In Cina, dove si produce il
40% del riso totale, l’estensione di terreno coltivabile sta diminuendo progressivamente. Gli
interventi in questo senso dovranno essere messi in atto impiegando meno terra, meno acqua, meno
sostanze chimiche. Gli approcci per risolvere la situazione sono diverse, non necessariamente
alternativi.
1 – produzione di riso attraverso la genetica tradizionale. Con incroci si sta tentando di produrre il
20 – 30% in più del riso prodotto attualmente;
2 – produzione di ibridi F1. Anche questa metodica può portare ad un incremento del 20%. In Cina
abbiamo già il 50% di riso F1.
In base a queste considerazioni è necessario ricorrere alle biotecnologie innovative. Oggi abbiamo
geni che conferiscono resistenza ai funghi, insetti, virus parassiti del riso. I paesi ricchi possono
permettersi di combattere contro queste infezioni con composti chimici. I paesi poveri non possono
permetterselo, perdendo così il 20 – 30% del raccolto. Un gruppo di studiosi di Zurigo ha
comunicato su Science di aver prodotto un riso arricchito con vitamina A. Questo risultato è stato
possibile grazie all’introduzione di tre geni per la sintesi di questa vitamina. La vitamina A potrebbe
prevenire la morte di 1 – 2 milioni di bambini da 1 a 4 anni. Sono dati UNICEF (vedi internet:
www.unicef.org/vitamina/). Questo gruppo sta lavorando alla produzione di un riso transgenico
ricco di ferro e una proteina che favorisce l’assorbimento intestinale del ferro stesso. Questo
porterebbe beneficio a circa 3,7 miliardi di persone carenti di ferro. Da ultimo bisogna aggiungere
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che l’istituto di cui si parla è un’organizzazione “non profit” e i suoi risultati sono disponibili
gratuitamente per tutti i paesi che vogliono sfruttarli.
Perché e come sviluppare la riflessione bioetica sugli OGM
Culturalmente ci viene dato un quadro poliedrico del biotecnologo: manipolatore di esseri viventi,
attentatore della biodiversità e della salubrità degli alimenti, stabilizzatore del divario economico fra
i paesi industrializzati e quelli non industrializzati o, ancora, artefici del miglioramento della qualità
della vita.
L’immagine negativa è spesso ascrivibile a logiche ambientalistiche, legate a filosofie di tipo
ecologista che vedono le biotecnologie in antitesi alla biodiversità che viene vista come valore. A
questo si aggiunge una logica precauzionista che ritiene accettabili le biotecnologie accettabili solo
se a rischio zero. Da ultimo bisogna riferirsi ad una logica anticapitalista che vede nelle
biotecnologie uno strumento del potere occidentale.
L’immagine positiva che vede il biotecnologo come colui che risolve o, contribuisce a risolvere, il
problema della fame nel mondo può essere riconducibile a tre concezioni che possiamo definire:m
prudenziale, economicista, scientista.
Il paradigma economicista considera la produttività il valore assoluto e il biotecnologo è un
manipolatore del mondo vivente per acquisire nuove risorse. Il punto cardinale di un approccio di
questi tipo e la valutazione e la gestioni del rapporto costo/benefico. Secondo il modello scientista il
biotecnologo è un ingegnere e il mondo vivente è una macchina. Secondo questo schema la scienza
non può essere imbrigliata da nulla e l’unico problema è il buon funzionamento della macchina. Un
terzo paradigma potremmo chiamarlo personalista e considera il mondo un giardino e il
biotecnologo un giardiniere. Per i personalisti i rischi delle biotecnologie sono i seguenti:
1 – pericolo di una catastrofe ecologica;
2 – necessità di porre dei limiti al delirio di onnipotenza in cui l’economia e la scienza sono
anteposte all’etica;
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3 – pericolo di meccanizzazione della vita e di riduzionismo antropologico.
In ultima analisi il rischio è quello di porre una frattura tra essere, conoscere e fare. Secondo la
logica personalista la riflessione sugli OGM deve essere condotta secondo un primo passo che è
quello della conoscenza. Secondo questo livello bisogna sapere che cosa sono gli OGM, l’analisi
scientifica del rischio e la valutazione dell’impatto che gli OGM hanno sul rapporto sviluppo
economico – ambiente. Il secondo passo consiste nel considerare le interpretazioni filosofiche del
rapporto uomo – ambiente, del rapporto scienza – etica e del rapporto sviluppo economico – etica.
In riferimento al rapporto scienza etica, ingenerale si può dire che il rapporto tra loro e biunivoco in
quanto una good science genera una good ethics mentre una bad science genera una bad ethics e
naturalmente il discorso vale al contrario: una buona etica genera una buona scienza e una cattiva
etica genera una cattiva scienza. Io ritengo che il discorso ontologico, che riguarda l’essere della
realtà, la realtà così come è abbia il primato sul discorso etico. La regola potrebbe essere questa:
non si può sapere come comportarsi nei confronti di qualcosa se prima non sappiamo cosa è la cosa
in questione. Rispondere al cosa è riguarda il discorso ontologico, che letteralmente significa studio
dell’essere così come è. Solo a questo punto noi possiamo introdurre il discorso sul come deve
essere. Questo ragionamento ha come punto di partenza la fiducia sul fatto che la realtà così come è
ci suggerisce qualcosa sul come deve essere. Il punto da non dimenticare mai è lo scopo ultimo che
fa da sfondo a qualsiasi nostra discussione sulle biotecnologie: il bene dell’uomo e dell’ambiente
che lo circonda. Naturalmente in questo caso il bene dell’uomo di cui si parla è quello della sua
salute e per quanto riguarda l’ambiente si parla della sua salvaguardia a seguito dell’immissione di
organismi geneticamente modificati. All’inizio il problema degli OGM riguardava le tecniche usate
e il loro uso in ambiente confinato (il laboratorio). Oggi c’è consenso sul fatto che l’accento vada
posto sul prodotto finale e non sui metodi usati. In questi decenni la ricerca ha dimostrato che non
vi è nessun rischio specifico connesso alle tecnologie usate e quindi bisogna guardare alla natura
dell’organismo rilasciato e non al metodo utilizzato. Questo principio viene adottato dal National
Research Council. Nella riflessione bioetica sugli OGM vanno distinti due momenti di riflessioni: il
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momento del Risk assessment cioè la valutazione del rischio e quello del risk management, osssai la
gestione del rischio.
Il risk assesment prende in considerazione due punti: il rischio per la sicurezza del consumatore e il
rischio ecologico. I rischi dovuti all’uso degli ogm possono essere tossicologici, nutrizionali ed
allergenici.
I rischi tossicologici principiali sono rappresentati dal possibile contenuto di tossine endogene in
dosi maggiori rispetto ai prodotti tradizionali; la presenza di nuove tossine; l’accumulo di tossine
presenti nell’ambiente; i cambiamenti della disponibilità di tossine dopo il processamento
dell’alimento; la presenza di allergeni prodotti dal gene esogeno.
Il principio chiave per la valutazione di un ogm è il principio di sostanziale equivalenza.
L’organizzazione economica per lo sviluppo e la cooperazione lo definisce così: “qualora si constati
che un nuovo alimento o una nuova componente alimentare sia sostanzialmente equivalente ad un
alimento o ad una componente alimentare già esistenti, il nuovo alimento o la nuova componente
alimentare possono essere trattati nello stesso modo in merito alla sicurezza”. L’esito della
valutazione può essere:
1 – l’alimento è sostanzialmente equivalente alla sua controparte, per questa ragione è ritenuto
sicuro;
2 - l’alimento è sostanzialmente equivalente alla sua controparte, eccetto che per determinate e
specifiche proteine codificate dal nuovo gene, che vengono, pertanto, sottoposte ai test di tossicità e
allergenicità;
3 – l’alimento è del tutto non equivalente a quello tradizionale e va effettuato uno studio caso per
caso per evidenziare le caratteristiche dl nuovo prodotto.
L’intervento di ingegneria genetica può provocare effetti non previsti come la perdita di alcune
caratteristiche o l’acquisto di nuove, fenomeno che si può verificare anche con le tecniche
tradizionali. Questi effetti possono verificarsi soprattutto quando vengono inseriti più geni esogeni.
Un modello che è stato messo in discussione è il cosiddetto modello lineare. Esso prevede: l’analisi
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genomica, la trascrizione dell’Rna messaggero, le sintesi proteiche, il metabolismo cellulare. Se
esso non presenta variazioni rispetto all’alimento tradizionale allora si può parlare di sostanziale
equivalenza. L’evidenza empirica dimostra che il modello lineare per la valutazione di rischi non è
un metodo predittivo valido in quanto anche la sostituzione di un solo gene può causare molti effetti
all’interno dell’organismo mutato. Si può parlare perciò di equivalenza solo quando si sia
dimostrata l’equivalenza nell’assetto genomico, proteico e metabolico con il prodotto tradizionale.
Tossicità
La valutazione del rischio tossicologico è fatta di quattro momenti: a – identificazione del fattore di
tossicità; b – valutazione del rapporto dose/ risposta; c – valutazione dell’esposizione; d definizione del rischio.
L’identificazione della tossicità viene fatta verificando se essa sia in grado di provocare effetti
negativi sulla salute. Lo studio viene condotto mediante l’uso della dose massima tollerata in
animali da laboratorio. In seguito si verifica l’entità dell’esposizione e la probabilità che si
verifichino eventi negativi. Le sostanze che causano effetti negativi solo a dosi elevate vengono
considerate come poco pericolose. È chiaro che minore è la dose che provoca effetto tossico
maggiori saranno gli ulteriori studi e maggiore sarà la pericolosità della sostanza. La valutazione
dell’esposizione si fa in base all’intensità, alla frequenza e durata dell’esposizione. A partire dai dati
raccolti si può effettuare la caratterizzazione del rischio. L’effetto tossicologico è legato non solo
alla sostanza ma anche alla dose di esposizione. La dose minima letale normalmente è centinaia di
volte più grande di quella in cui normalmente potrebbe essere esposta una persona.
Spesso il costituente nuovo non appartiene al vegetale ma è presente in natura. Questo fenomeno si
verifica nel mais transgenico che esprime l’endotossina del Bacillus thuringensis che è un
organismo ubiquitario. In questo caso però l’esposizione a cui andrebbe incontro l’uomo con il mais
transgenico sarebbe molto superiore al normale. In questo caso la proteina è stata ampiamente
testata e non si sono evidenziati effetti negativi. La valutazione dell’endotossina viene fatta anche in
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rapporto alla degradazione intestinale della proteina a componenti di basso valore tossicologico. Un
rapporto della FAO propone 90 giorni di tempo come durata minima per valutare la sicurezza di
ripetute assunzioni di cibi geneticamente modificati nella dieta del ratto e consiglia di prolungare il
tempo qualora si verifichino fenomeni che richiedono ulteriori indagini. Il punto più controverso
risulta essere lo studio a distanza nel caso si verifichino fenomeni che fanno sospettare un’eventuale
oncogenicità della sostanza. In questo caso la FAO consiglia ci attuare studi di tossicità cronica.
Allergenicità
Per valutare l’allergenicità si usano due criteri. Il primo riguarda la provenienza del gene: se il gene
proviene da un alimento notoriamente allergenico (crostacei, uova, latte, pesce etc) si assume che
l’alimento modificato può essere allergenico. Il secondo si basa sul confronto tra le caratteristiche
della proteina esogena con quelle di proteine già note come allergeniche: peso molecolare, sequenza
aminoacidica, stabilità dei trattamenti preparatori degli alimenti o alla cottura, resistenza all’acidità
gastrica e proteasi intestinali. Secondo il primo criterio si cerca di evitare l’utilizzo di geni
provenienti dagli alimenti noti come allergeni. Per il secondo criterio le proteine estranee vengono
sottoposte a test in ambienti acidi che mimano le condizioni dello stomaco. L’industria Pioner
aveva introdotto una soia modificata destinata all’alimentazione animale. Durante la
sperimentazione emerse che il potenziale allergenico della noce, da cui era stato trasferito un gene,
poteva essere acquisito dalla soia interrupe la produzione per paura che l’allergene potesse entrare
nella catena alimentare umana. Nel settembre 2000 negli stati uniti il mais Starlink, un alimento
geneticamente modificato usato come alimento animale venne utilizzato erroneamente nella
produzione di alcuni alimenti per l’uomo. Dopo che i mass media resero pubblica la notizia 28
consumatori lamentarono la presenza di sintomi compatibili con una reazione allergica. Il sangue
dei 28 soggetti non presentava però la presenza di IgE per la proteina in questione, anche se il fatto
non esclude la possibilità di allergia senza aumento delle IgE specifiche. Anna Meldolesi commenta
la notizia in questo modo: lo scandalo che è scoppiato nel settembre del 2000 negli Stati Uniti
quando questo mais è finito accidentalmente in alcuni prodotti destinati al consumo umano non ha
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nulla a che vedere con l’affidabilità dello scrutinio a cui sono sottoposti gli alimenti geneticamente
modificati e comunque l’allarme che ne è derivato è del tutto ingiustificato se si considerano i rischi
reali…una dozzina di reclami è davvero poca cosa se si considera che l’1 – 2% degli adulti e il 5%
dei bambini soffrono di allergie e il caso del mai transgenico ha avuto un enorme risalto sulla
stampa americana e mondiale. Per quanto riguarda l’allergenicità si può ribadire il concetto che il
pericolo non dipende dal procedimento adottato ma dalla proteina codificata che è il prodotto della
tecnica di DNA ricombinante.
Antibiotico resistenza
Un altro problema che riguarda i cibi geneticamente modificati è la possibile induzione di
antibiotico resistenza. Il gene trasferito infatti può essere marcato con un gene che trasmette la
resistenza agli antibiotici. L’ipotesi è che la caratteristica potrebbe essere trasferita alla flora
intestinale compresi i batteri patogeni che potrebbero acquistare la nuova proprietà moltiplicandosi
patologicamente provocando malattia. Secondo gli studi la probabilità che un batterio possa
integrare il DNA dell’alimento è virtualmente uguale a zero. Intanto risulta improbabile che il DNA
rimanga integro dopo passaggio nell’intestino e allo stresso tempo esso verrebbe sottoposto a
degradazione una volta penetrato. Queste ed altre ragioni fanno di questa possibilità una possibilità
meramente teorica.
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