Esami di Stato – a.s. 2013-2014
TESINA
Il teatro come squarcio
sull’animo umano
Teatro significa vivere sul serio
quello che gli altri nella vita recitano male
EDUARDO DE FILIPPO
Leonardo Monico
Classe III B – Liceo Classico Tito Livio
Διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶ σπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν·
ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰ καθόλου, ἡ δ᾽ ἱστορία τὰ καθ᾽ ἕκαστον λέγει.
Perciò la poesia è materia più filosofica ed elevata della storia:
la poesia, infatti, tratta specialmente l’universale, la storia il particolare1.
Premessa
Una delle esperienze più belle che ho vissuto nei cinque anni di Liceo è stata la
partecipazione al corso di teatro moderno2. Cominciata quasi per gioco, quest’avventura mi ha
coinvolto profondamente e mi ha dato l’occasione di interrogarmi sul senso del teatro e su
quanto esso avesse da dire sulla mia vita e sulla condizione umana in generale.
In questo lavoro vorrei perciò sostenere la tesi che il teatro, lungi dall’essere un passatempo
leggero, è una forma privilegiata di indagine sulla condizione umana, una sorta di squarcio
sulla nostra interiorità3. Per dirla con le parole di Jean-Pierre Vernant: “la vera materia della
tragedia è il pensiero sociale proprio della città, […] città che si fa teatro”; “essa prende a
oggetto l’uomo […] costretto a fare una scelta, ad orientare la sua azione in un universo di
valori ambigui dove nulla è mai stabile o univoco”; “la sfera propria della tragedia si colloca
in una zona di confine, ove gli atti umani […] rivelano il loro vero senso”4.
La mia sarà una tesina interdisciplinare, perché per dimostrare la tesi su esposta mi rifarò
alla filosofia (Aristotele e Schopenhauer), alla letteratura greca (Sofocle), alla musica (Rossini)
e alla letteratura italiana (Pirandello). Grazie a questo percorso vorrei mettere alla prova la
capacità delle discipline studiate nel corso del triennio conclusivo di illuminare e rendere
comprensibili alcuni aspetti della vita umana.
1
ARISTOTELE, Poetica, 1451b 5-8 (tr. it. a cura di A. Barabino, Mondadori, Milano 1999, p. 23).
2
Durante il quinquennio (2009-2014) ho partecipato alle seguenti rappresentazioni:
I anno: GEORGES FEYDEAU, Sarto per signora (ruolo ricoperto: Stefano);
II anno: ROMANO PASCUTTO, Il passo di un popolo (ruolo ricoperto: Monsignor Orlando);
III anno: MOLIÈRE, L’avaro (ruolo ricoperto: Arpagone);
IV anno: JEAN ANOUILH, Antigone (ruolo ricoperto: Creonte);
V anno: GEORGES FEYDEAU, Ortensia ha detto me ne frego (ruolo ricoperto: Follbraguet).
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È significativo che la parola θέατρον (thèatron), dal verbo θεάομαι (theàomai, guardare) faccia riferimento a
all’azione umana dell’osservare, nel duplice senso di guardare qualcosa e di riflettere su quanto si sta guardando. La
parola “teatro” fu coniata dai Greci per designare la gradinata dalla quale si osservavano le rappresentazioni
drammatiche all’interno del santuario dedicato a Dioniso Eleutereo, sulle pendici dell’Acropoli.
3
4
J-P. VERNANT, P.V. NAQUET, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1976, pp. 8-15.
2
Sommario
1.
Filosofia: la funzione conoscitiva del teatro
1.1. Aristotele: la tragedia come accesso all’universale
1.2. Schopenhauer: il teatro come rivelazione dell’essenza dell’uomo
EXCURSUS – Il melodramma: la conoscenza dell’uomo e del mondo nella sua totalità
2.
Letteratura greca: interrogativi antichi e sempre nuovi
2.1. Il dramma esistenziale di Creonte
2.2. “ἦθος o νόμοι”? L’eterno interrogativo dell’Antigone
3
3.
Letteratura italiana: Pirandello e il teatro moderno come metafora della vita
3.1. Il teatro come comunicazione dell’incomunicabilità tra gli esseri umani
3.2. L’inconfutabilità del teatro: la rappresentazione scenica dell’autonegazione della
drammaturgia
3.3. La persona come maschera: il teatro come risposta al γνῶθι σεαυτόν
4. Conclusioni
5. Bibliografia e sitografia
4
1. Filosofia: la funzione conoscitiva del teatro
1.1. Aristotele: la tragedia come accesso all’universale
La tesi secondo cui il teatro non è un semplice divertissement, ma un formidabile strumento
di conoscenza dell’animo umano può essere rintracciata fin dal pensiero di Aristotele.
Questi, nella Poetica, sostiene innanzitutto che la tragedia è μίμησις (mìmesis), ossia
imitazione, e che “nell’uomo, fin dall’infanzia, è innato l’imitare: in questo differisce dagli
altri animali, perché è il più imitativo e mediante l'imitazione opera le prime conoscenze”5.
La forza peculiare dell’arte poetica e il piacere che essa procura derivano dal fatto che essa è in
grado di attivare “sia la sfera razionale che quella emotiva, a causa della coesistenza di una
funzione conoscitiva e di una emozionale”6. Perciò, vedendo rappresentata una vicenda
esemplare, imitazione di un aspetto della condizione umana che trascende il caso singolo, lo
spettatore vede aprirsi davanti a sé uno squarcio sull’universale: “La tragedia infatti è
imitazione non di uomini, ma di azione e vita”7.
Per Aristotele, dunque, nel teatro non si rappresenta semplicemente la vicenda di una
persona specifica, ma un aspetto della condizione umana in cui ogni spettatore può
rispecchiarsi e con ciò conoscersi.
1.2. Schopenhauer: il teatro come rivelazione dell’essenza dell’uomo
Nella filosofia schopenhaueriana è possibile rintracciare una delle affermazioni più nette
della funzione conoscitiva e rivelatrice svolta dal teatro.
Come noto, ne Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer sostiene una
concezione radicalmente pessimista della condizione umana, descritta come un pendolo in
costante oscillazione tra dolore e noia. Nell’indicazione delle tre vie di liberazione dalla
“voluntas”, ossia da quella cieca volontà di vivere che caratterizza l’uomo e che ne causa la
miseria, un ruolo unico e positivo viene assegnato al teatro. Quest’ultimo viene collocato in un
sistema delle arti che trova il proprio principio unificatore nella rappresentazione e conoscenza
delle varie idee, consistenti in un grado più o meno superiore di oggettivazione della volontà.
Ogni singola arte si differenzia dunque in base all’idea che in ciascuna si rappresenta.
5
ARISTOTELE, Poetica, 1448b 5-8 e 1450a 16-17 (tr. it. a cura di A. Barabino, Mondadori, Milano 1999, p. 9).
6
F. MONTANARI, Introduzione, in ARISTOTELE, Poetica (tr. it. a cura di A. Barabino, cit.), p XVII.
7
ARISTOTELE, Poetica, 1448b 5-8 e 1450a 16-17 (tr. it. a cura di A. Barabino, cit., p. 17).
5
Per Schopenhauer la poesia, e con essa la rappresentazione teatrale, esprime “l’idea che
costituisce il grado supremo di oggettità della volontà” in quanto rappresenta “l’uomo nella
serie continua delle sue aspirazioni e delle sue azioni”8 (chiaro è il rimando, mutatis mutandis,
ad Aristotele). Al vertice della piramide di arti che si viene in tal modo a creare, il filosofo
colloca la tragedia, che rappresenta “la lotta della volontà con se stessa”9, una volontà che si
auto-contraddice. Il teatro, e in modo particolare la tragedia, portano il conflitto tra volontà e
rappresentazione al suo grado risolutivo. Si è già ricordato come Schopenhauer creda che ogni
essere umano sia mosso nelle sue scelte da una sola e identica volontà che si palesa in
manifestazioni egoistiche in perpetua lotta tra loro. Proprio attraverso la rappresentazione di
tale conflitto, tuttavia, viene per contrasto indicata anche la via di uscita dallo stesso. “Il
conflitto genera quel dolore che è la materia della rappresentazione tragica e che essa
spiritualizza. Una volta spiritualizzato, il dolore solleva il velo della maya del mondo
fenomenico. Il dolore, ossia l’urto della volontà con le proprie rappresentazioni, consente di
vedere chiaro attraverso la forma del fenomeno. Svanito quest’ultimo, svanisce anche
l’egoismo che vi si fondava. La tragedia dissolve la conoscenza egoistica e individuale e apre
alla perfetta conoscenza dell’essere del mondo”10. Scopo del dramma è dunque quello di
mostrare “con un esempio che cosa sia l’essenza e l’esistenza dell’uomo”.
EXCURSUS – Il melodramma: la conoscenza dell’uomo e del mondo nella sua totalità
Vorrei a questo punto inserire una digressione sull’opera lirica, visto che contro il
melodramma Schopenhauer scaglia la sua nota condanna. Il drastico giudizio del filosofo,
tuttavia, non è affatto univoco e indiscriminato come comunemente si crede. Schopenhauer
ama infatti quei compositori che sappiano “ergere la musica a espressione prima dell’essenza
drammatica del libretto, le cui parole si muovano in dipendenza dalla melodia”11, ma ne
ravvisa ben pochi nel panorama operistico a lui contemporaneo. Egli critica la musica scritta in
funzione delle parole, ossia la musica abbassata a mero mezzo: “Quando viene eseguita la
musica operistica, che è così eccessivamente complicata, si penetra nello spirito anche
8
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989, p. 354.
9
Ivi, p. 370.
10
C. GENTILI, G. GARELLI, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, p. 150.
6
attraverso l’occhio, mediante lo sfarzo più sgargiante”12; proprio per questo “l’opera lirica è
diventata la rovina della musica”12, capace invece di parlare al cuore senza mediazione di
immagini.
Unica eccezione in tal senso è costituita dal grande e inimitabile musicista pesarese,
Gioacchino Rossini, di cui Schopenhauer tesse le lodi a più riprese. La particolarità della
musica rossiniana risiede nel suo carattere esplosivo e frizzante, a tal punto da costituire una
realtà a parte, distinta dalla vicenda rappresentata in scena e proprio per questo apprezzabile.
Essa “parla il proprio linguaggio in modo così puro da non aver bisogno di parole”13 e
proprio per questo l’opera di Rossini “risponde appieno alla missione salvifica della musica
poiché essa è totalmente proiettata alla creazione di un mondo musicale dove il concetto
espresso dalla parola del libretto è talmente trasfigurato dal canto da risultare libero dalla
falsificante illusione astratta del razionale principio di ragion sufficiente”14.
Ne risulta una forte passione del filosofo “per l’opera nella sua forma più idealmente
musicale, che giunge a fornire addirittura un esempio di massimo splendore come tragedia
teatrale”. Lo spettatore seduto a teatro è posto di fronte a un mondo che “si presenta in tutta la
sua ideale totalità grazie proprio al fattore unificante-cosmologico della musica”14, sottofondo
essenziale della vita. Ciò che contraddistingue il grande musicista pesarese è la sua
straordinaria abilità nel cogliere la musicalità delle parole in sé, capaci di costituire musica di
per se stesse. “L’opera di Rossini è una perfetta idealizzazione del mondo, che risuona in
essa per quello che ontologicamente è e produce come effetto una temporanea liberazione dai
lacci del principium individuationis”14. E in effetti è impossibile nascondere un senso di
eccitazione e contentezza nell’udire i settimini finali degli atti rossiniani, fatti di pura
musicalità e di parole che si susseguono senza filo logico. Ecco che dunque proprio l’opera
lirica, fusione di teatro e musica, diventa autentico mezzo di comprensione di se stessi e di
analisi dei propri moti interiori.
A. CAMPARSI, Musica e Verità nella filosofia di Arthur Schopenhauer (disponibile online all’indirizzo
http://users.unimi.it/~gpiana/dm13/camparsi_schopenhauer/camparsi-schopenhauer.pdf. Citazione a p. 10 del file
pdf).
11
12
A. SCHOPENHAUER, Parerga e Paralipomena, tr. it. di M. Montinari, E. Amendola Khun, Adelphi, Milano 1983,
pp. 571-574.
13
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989, p. 304.
14
A. CAMPARSI, Musica e Verità nella filosofia di Arthur Schopenhauer, cit., pp. 11 e 14.
7
Letteratura greca: interrogativi antichi e sempre nuovi
2.1. Il dramma esistenziale di Creonte
La lettura per intero e la traduzione di buona parte dell’Antigone di Sofocle, nonché la
trasposizione scenica dell’Antigone di Jean Anouilh effettuata nel IV anno di liceo, mi hanno
permesso di comprendere quanto diverse possano essere le risonanze emotive e conoscitive di
uno stesso stimolo culturale. Infatti, se da un lato Sofocle pone l’accento sul personaggio di
Antigone, facendo ruotare attorno a essa l’intera vicenda, dall’altro vi è da sottolineare che,
nella lunga storia delle rielaborazioni letterarie, è proprio Anouilh ad aver meglio evidenziato
come il dramma sia parimenti di Creonte. L’autore dipinge un tiranno molto più “moderno” e
umano rispetto a quello sofocleo, un tiranno combattuto tra gli affetti, la pena e il dovere.
Proprio per tale motivo la resa scenica del personaggio, pur rivelandosi la più complessa tra i
ruoli da me interpretati, mi ha permesso di entrare in parte nell’anima stessa di Creonte,
comprenderne gli atroci dubbi esistenziali e viverli in prima persona. Chi almeno una volta
non si è posto il problema se sia più giusto rimanere “puri” e fedeli all’ideale,
indipendentemente dalle conseguenze, o “sporcarsi le mani” per ottenere un bene possibile, per
quanto frutto di compromessi? Chi non si è mai interrogato sull’opportunità di perseguire lo
ius quando esso si scontra con determinate leges, emanate per preservare il cittadino e la polis
da mali più grandi?
2.2. “ἦθος o νόμοι”? L’eterno interrogativo dell’Antigone
Non è un caso che l’Antigone di Sofocle sia stata considerata da numerosi critici e filosofi –
basti citare Hegel – il più tragico dei drammi dell’età classica, esemplificativo dei caratteri
distintivi di tutte le altre tragedie proprio in quanto in esso il contrasto fra ἦθος e νόμοι si
polarizza in due personaggi in carne ed ossa (non a caso di genere diverso), con opposte e
inconciliabili visioni del mondo. Osservando in scena i due elementi del contrasto, che
collidono sia ideologicamente sia fisicamente, lo spettatore ha la possibilità di immedesimarsi
e rispecchiarsi nei protagonisti. Ciò che determina il valore imperituro di Sofocle nella
letteratura mondiale sono infatti i suoi personaggi: “Se ci chiediamo quali tra le creature dei
poeti tragici greci vivano nella fantasia degli uomini, Sofocle tiene di gran lunga il primo
posto. I pregi (dell’uomo tragico delineato nelle tragedie sofoclee) hanno radice in uno strato
più profondo dell’umano, dove l’elemento estetico, l’etico, il religioso si compenetrano e si
8
condizionano reciprocamente”15. Il contrasto che permea la tragedia in questione è il contrasto
per eccellenza tra leggi scritte e leggi non scritte, tra ἦθος e νόμοι, tra costume e leggi:
contrasto antico quanto l’uomo stesso e le prime forme di civiltà, che ha caratterizzato,
caratterizza e caratterizzerà sempre la nostra essenza. Sofocle “per la prima volta fa
coscientemente della psychè il punto di partenza d’ogni cultura dell’uomo. (…) Nell’‘anima’ si
riconosce ora oggettivamente il centro dell’uomo”16.
Nota è la vicenda di Antigone, una donna assurta a modello di ribellione individuale in
nome del diritto del sangue, del diritto familiare, parentale e sociale contro la sopraffazione
dello Stato. Dovunque vi siano discriminazioni razziali, conflitti, intolleranze religiose,
Antigone torna ad assumere il ruolo dell’eroina che sfida i regimi totalitari in nome di una
pietas universale che si estende a tutti gli uomini sentiti come fratelli. Emblematici questi
versi, tratti dal primo stasimo: “Ora al male ora al bene si volge. Se da sé non disgiunge le
leggi della terra e la giustizia giurata sugli dèi, innalza la sua città”17. Versi che
preannunciano l’imminente e fulmineo scontro tra le due ideologie, tra Antigone e Creonte.
La prova della portata universale, e con ciò sempre attuale, dell’Antigone è data dalle
innumerevoli riprese del conflitto fra ἦθος e νόμοs. Per quanto riguarda il Novecento, è
significativo che varie riprese letterarie della vicenda narrata da Sofocle siano ambientate nella
Germania nazista (si pensi a tal proposito all’Antigone di Bertolt Brecht). La lettura de “La
banalità del male” (che pure è un’opera non letteraria) della filosofa ebrea tedesca Hannah
Arendt offre in tal senso una preziosa contestualizzazione del contrasto che permea la tragedia
greca: ciò che l’allieva di Heidegger sottolinea a più riprese è infatti il totale ribaltamento dei
valori operato da Adolf Hitler. Il famigerato Fürherprinzip, in base a cui tutti obbedivano “per
ordine superiore”, assimilabile in tale paragone al nomos creonteo, si sostituì totalmente alle
esigenze dettate dall’ethos, dalla morale insita in ogni uomo, dando luogo a un codice di
“disvalori” assurti a veri comandamenti durante il regime. “Poiché nel Terzo Reich tutta la
società rispettabile aveva in un modo o nell’altro ceduto a Hitler, virtualmente erano svanite
le massime morali che determinano il comportamento sociale, e assieme ad esse erano svaniti
i comandamenti religiosi (“non ammazzare”) che guidano la coscienza”18.
15
W. JAEGER, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, Milano 2003, p. 472.
16
Ivi, p. 483.
17
SOFOCLE, Antigone, vv. 368-370 (tr. it. a cura di F. Ferrari, Bur, Milano 201328, p. 67).
18
H. ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. it. Feltrinelli, Milano 201320, p. 296.
9
È stupefacente come un testo teatrale di epoca classica possa fornire una chiave di lettura di
vicende a noi quasi contemporanee. Lo Stato realmente equilibrato è quello che sa conciliare le
esigenze dello ius con quelle delle leges: solo così esso verrà innalzato (chiaramente si tratta di
un innalzamento in termini di rettitudine, non di potere).
Desidero ora proporre alcuni versi, tratti dal secondo episodio della tragedia, che bene
esprimono lo scontro tra quelle che Pietro Calamandrei definì le “leggi di Antigone” e le leggi
stabilite dall’autorità politica. Vediamo in questo passo come il teatro possa diventare lume
sulle ombre e sull’oscurità della nostra anima, rappresentandone in poche pennellate i
dissidi.
Κρέων
Creonte
καὶ δῆτ᾽ ἐτόλμας τούσδ᾽ ὑπερβαίνειν νόμους;
Eppure hai osato violare queste leggi?
Ἀντιγόνη
Antigone
οὐ γάρ τί μοι Ζεὺς ἦν ὁ κηρύξας τάδε,
450
Infatti per me non era affatto Zeus che mi vietava
οὐδ᾽ ἡ ξύνοικος τῶν κάτω θεῶν Δίκη
queste cose, né la Giustizia che dimora con gli dei
τοιούσδ᾽ ἐν ἀνθρώποισιν ὥρισεν νόμους.
Inferi fissò tali leggi tra gli uomini, né io pensavo
οὐδὲ σθένειν τοσοῦτον ᾠόμην τὰ σὰ
che i tuoi decreti avessero tanto potere che un
κηρύγμαθ᾽, ὥστ᾽ ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν
mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e
νόμιμα δύνασθαι θνητὸν ὄνθ᾽ ὑπερδραμεῖν. 455
immutabili degli dei. Infatti queste (leggi) non
οὐ γάρ τι νῦν γε κἀχθές, ἀλλ᾽ ἀεί ποτε
sono affatto di oggi né di ieri ma di sempre e
ζῇ ταῦτα, κοὐδεὶς οἶδεν ἐξ ὅτου ᾽φάνη.
nessuno sa da quando apparvero. Io non dovevo,
τούτων ἐγὼ οὐκ ἔμελλον, ἀνδρὸς οὐδενὸς
temendo la volontà di nessun uomo, scontare la
φρόνημα δείσασ᾽, ἐν θεοῖσι τὴν δίκην
pena al cospetto degli dei di queste (leggi). Infatti
δώσειν· θανουμένη γὰρ ἐξῄδη, τί δ᾽ οὔ;
460
sapevo che sarei morta, perché no? Anche se tu
κεἰ μὴ σὺ προὐκήρυξας. εἰ δὲ τοῦ χρόνου
non lo avessi bandito. E se morirò prima del
πρόσθεν θανοῦμαι, κέρδος αὔτ᾽ ἐγὼ λέγω.
tempo, questo lo chiamo un guadagno. Chi infatti
ὅστις γὰρ ἐν πολλοῖσιν ἐς ἐγὼ κακοῖς
come me vive in molte sventure, come non riporta
ζῇ, πῶς ὅδ᾽ Οὐχὶ κατθανὼν κέρδος φέρει;
un guadagno se muore? Così per me avere questa
οὕτως ἔμοιγε τοῦδε τοῦ μόρου τυχεῖν
465
sorte non è dolore per nulla, ma se io avessi
παρ᾽ οὐδὲν ἄλγος· ἀλλ᾽ ἄν, εἰ τὸν ἐξ ἐμῆς
lasciato il figlio di mia madre cadavere insepolto,
μητρὸς θανόντ᾽ ἄθαπτον ἠνσχόμην νέκυν,
di tale cosa avrei sofferto; di questo invece non
κείνοις ἂν ἤλγουν· τοῖσδε δ᾽ οὐκ ἀλγύνομαι.
soffro. E se ti sembra che io ora per caso agisca da
σοὶ δ᾽ εἰ δοκῶ νῦν μῶρα δρῶσα τυγχάνειν,
folle forse devo a un folle la mia follia.
σχεδόν τι μώρῳ μωρίαν ὀφλισκάνω.
470
10
Χορός
Coro
δηλοῖ τὸ γέννημ᾽ ὠμὸν ἐξ ὠμοῦ πατρὸς
L´indole
τῆς παιδός. εἴκειν δ᾽ οὐκ ἐπίσταται κακοῖς.
discendere) da fiero padre; e non sa cedere ai mali.
Κρέων
Creonte
ἀλλ᾽ ἴσθι τοι τὰ σκλήρ᾽ ἄγαν φρονήματα
Ma sappi che i caratteri troppo duri il più delle
πίπτειν μάλιστα, καὶ τὸν ἐγκρατέστατον
volte cadono, e il ferro più forte temprato dal
σίδηρον ὀπτὸν ἐκ πυρὸς περισκελῆ
475
fiera
della
fanciulla
dimostra
(di
fuoco, indurito potresti vederlo il più delle volte
θραυσθέντα καὶ ῥαγέντα πλεῖστ᾽ ἂν εἰσίδοις·
spezzato e infranto. Io so che i cavalli imbizzarriti
σμικρῷ χαλινῷ δ᾽ οἶδα τοὺς θυμουμένους
sono domati con un piccolo morso; infatti non è
ἵππους καταρτυθέντας· οὐ γὰρ ἐκπέλει
possibile che insuperbisca chi è servo di altri.
φρονεῖν μέγ᾽ ὅστις δοῦλός ἐστι τῶν πέλας.
Costei sapeva allora di sbagliare trasgredendo le
αὕτη δ᾽ ὑβρίζειν μὲν τότ᾽ ἐξηπίστατο,
480
leggi vigenti; e dopo averlo fatto, questa è una
νόμους ὑπερβαίνουσα τοὺς προκειμένους·
seconda colpa, vantarsi di queste cose e gioire di
ὕβρις δ᾽, ἐπεὶ δέδρακεν, ἥδε δευτέρα,
averle fatte. Davvero ora io non sono un uomo, ma
τούτοις ἐπαυχεῖν καὶ δεδρακυῖαν γελᾶν.
costei è uomo, se questa audacia rimarrà per lei
ἦ νῦν ἐγὼ μὲν οὐκ ἀνήρ, αὕτη δ᾽ ἀνήρ,
impunita. Ma se lei si trova ad essere figlia di mia
εἰ ταῦτ᾽ ἀνατὶ τῇδε κείσεται κράτη.
485
sorella o si trovasse ad essere più consanguinea di
ἀλλ᾽ εἴτ᾽ ἀδελφῆς εἴθ᾽ ὁμαιμονεστέρα
tutto il nostro Zeus protettore del focolare
τοῦ παντὸς ἡμῖν Ζηνὸς ἑρκείου κυρεῖ,
domestico, lei e la sorella non sfuggiranno a una
αὐτή τε χἠ ξύναιμος οὐκ ἀλύξετον
terribile sorte; infatti dunque accuso anche lei di
μόρου κακίστου· καὶ γὰρ οὖν κείνην ἴσον
aver tramato parimenti questa sepoltura. Chiamate
ἐπαιτιῶμαι τοῦδε βουλεῦσαι τάφου.
490
anche lei: infatti poco fa l´ho vista in casa folle e
καί νιν καλεῖτ᾽· ἔσω γὰρ εἶδον ἀρτίως
fuori di senno. L´animo furtivo di coloro che non
λυσσῶσαν αὐτὴν οὐδ᾽ ἐπήβολον φρενῶν.
tramano niente di buono nell´ombra di solito viene
φιλεῖ δ᾽ ὁ θυμὸς πρόσθεν, ᾑρῆσθαι κλοπεὺς
sorpreso prima. Di certo detesto anche quando
τῶν μηδὲν ὀρθῶς ἐν σκότῳ τεχνωμένων·
uno, sorpreso a commettere il male, poi voglia
μισῶ γε μέντοι χὤταν ἐν κακοῖσί τις
495
vantarsi di ciò.
ἁλοὺς ἔπειτα τοῦτο καλλύνειν θέλῃ.
Ἀντιγόνη
Antigone
θέλεις τι μεῖζον ἢ κατακτεῖναί μ᾽ ἑλών;
Vuoi qualcosa di più grande che uccidermi dopo
avermi presa?
Κρέων
Creonte
ἐγὼ μὲν οὐδέν· τοῦτ᾽ ἔχων ἅπαντ᾽ ἔχω.
Io non voglio niente (altro): avendo questo io ho
tutto.
Ἀντιγόνη
Antigone
τί δῆτα μέλλεις; ὡς ἐμοὶ τῶν σῶν λόγων
Perché dunque indugi? Come nelle tue parole nulla
11
ἀρεστὸν οὐδὲν μηδ᾽ ἀρεσθείη ποτέ·
500
mi è gradito, né mai possa piacermi, così anche le
οὕτω δὲ καὶ σοὶ τἄμ᾽ ἀφανδάνοντ᾽ ἔφυ.
mie parole sono per natura sgradite a te. E poi da
καίτοι πόθεν κλέος γ᾽ ἂν εὐκλεέστερον
dove avrei potuto avere una gloria più gloriosa che
κατέσχον ἢ τὸν αὐτάδελφον ἐν τάφῳ
ponendo nel sepolcro mio fratello? Da tutti costoro
τιθεῖσα; τούτοις τοῦτο πᾶσιν ἁνδάνειν
sarebbe detto che ciò è gradito, se la paura non
λέγοιτ᾽ ἄν, εἰ μὴ γλῶσσαν ἐγκλῄοι φόβος. 505
bloccasse loro la lingua. Ma la tirannide gode di
ἀλλ᾽ ἡ τυραννὶς πολλά τ᾽ ἄλλ᾽ εὐδαιμονεῖ
molte cose e le è lecito fare e dire ciò che vuole.
κἄξεστιν αὐτῇ δρᾶν λέγειν θ᾽ ἃ βούλεται.
Κρέων
Creonte
σὺ τοῦτο μούνη τῶνδε Καδμείων ὁρᾷς.
Tu sola vedi questo fra i Cadmei?
Ἀντιγόνη
Antigone
ὁρῶσι χοὖτοι, σοὶ δ᾽ ὑπίλλουσιν στόμα.
Lo vedono anche costoro; ma per te chiudono la
bocca.
Κρέων
Creonte
σὺ δ᾽ οὐκ ἐπαιδεῖ, τῶνδε χωρὶς εἰ φρονεῖς; 510
E tu non ti vergogni di pensare diversamente da
costoro?
Ἀντιγόνη
Antigone
οὐδὲν γὰρ αἰσχρὸν τοὺς ὁμοσπλάγχνους σέβειν.
Non è per nulla turpe onorare i consanguinei.
Κρέων
Creonte
οὔκουν ὅμαιμος χὠ καταντίον θανών;
Dunque non era dello stesso sangue anche colui
che è morto combattendo contro (di lui).
Ἀντιγόνη
Antigone
ὅμαιμος ἐκ μιᾶς τε καὶ ταὐτοῦ πατρός.
Dello stesso sangue da una sola madre e dallo
stesso padre.
Κρέων
Creonte
πῶς δῆτ᾽ ἐκείνῳ δυσσεβῆ τιμᾷς χάριν;
Come dunque rendi un onore empio per lui?
Ἀντιγόνη
Antigone
οὐ μαρτυρήσει ταῦθ᾽ ὁ κατθανὼν νέκυς. 515
Non dirà la stessa cosa colui che è morto.
Κρέων
Creonte
εἴ τοί σφε τιμᾷς ἐξ ἴσου τῷ δυσσεβεῖ.
Certamente se lo onori alla pari con l´empio.
Ἀντιγόνη
Antigone
οὐ γάρ τι δοῦλος, ἀλλ᾽ ἀδελφὸς ὤλετο.
Non è affatto morto uno schiavo ma mio fratello.
Κρέων
Creonte
πορθῶν δὲ τήνδε γῆν· ὁ δ᾽ ἀντιστὰς ὕπερ.
Ma devastando questa terra, mentre l´altro si
opponeva a suo favore.
12
Ἀντιγόνη
Antigone
ὁμῶς ὅ γ᾽ Ἅιδης τοὺς νόμους τούτους ποθεῖ.
Tuttavia l´Ade ama questi riti.
Κρέων
Creonte
ἀλλ᾽ οὐχ ὁ χρηστὸς τῷ κακῷ λαχεῖν ἴσος. 520
Ma il buono non è pari al malvagio nell´ottenerli.
Ἀντιγόνη
Antigone
τίς οἶδεν εἰ κάτωθεν εὐαγῆ τάδε;
Chi sa se sottoterra queste cose sono sacre?
Κρέων
Creonte
οὔτοι ποθ᾽ οὑχθρός, οὐδ᾽ ὅταν θάνῃ, φίλος.
Di certo il nemico non è mai caro neppure quando sia
morto.
Ἀντιγόνη
Antigone
οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.
Di certo non sono nata per condividere l´odio ma
l´amore.
Κρέων
Creonte
κάτω νυν ἐλθοῦσ᾽, εἰ φιλητέον, φίλει
Ora, se devi amare, essendo andata sottoterra ama
κείνους· ἐμοῦ δὲ ζῶντος οὐκ ἄρξει γυνή. 525
quelli (di là); finché io vivo non comanderà una
donna.
In meno di cento versi i due si sono confrontati dialetticamente sul piano dei loro opposti
sistemi ideologici. Ha dominato un senso fortissimo d’incomunicabilità fra i due protagonisti:
atteggiamenti estremi, destinati a sortire estreme conseguenze.
13
Letteratura italiana: teatro moderno, metafora della vita in Pirandello
3.1. Il teatro come comunicazione dell’incomunicabilità tra gli esseri umani
Mi è parso interessante, a questo punto, concentrare l’attenzione sul problematico e
contraddittorio rapporto di Luigi Pirandello con la drammaturgia, rapporto che desidero
analizzare brevemente in quanto rivelatore di una profonda inquietudine che percorre l’uomo
novecentesco.
“Oh il teatro drammatico! Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza
provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene”(…) spesso mi
accade di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente”19, così scrive in una delle
lettere private risalenti al 1887. Successivamente però, nel suo saggio Illustratori, attori e
traduttori, Pirandello affronta teoricamente il problema derivante dal rapporto tra il testo
drammatico, ideato e creato dall’autore, e la sua trasposizione scenica a opera degli attori.
Dalla lettura del saggio traspare una forte diffidenza nei confronti del teatro: la concezione
originaria del drammaturgo è infatti destinata inesorabilmente a essere tradita e travisata da
parte dell’attore che “l’ha ricreato in sé, e sua è la voce, suo il corpo, suo il gesto”. Per quanto
l’attore si sforzi di interpretare correttamente i voleri dell’autore, non potrà mai “vedere come
questi ha veduto, sentire il personaggio come l’autore l’ha sentito, renderlo sulla scena come
l’autore ha voluto”20: tematiche che peraltro saranno espresse da Pirandello nella maggior
parte della sua ultima produzione, basti pensare a Sei personaggi in cerca d’autore.
Interessante e curioso è parso pertanto il giudizio pirandelliano sul teatro, alla luce delle teorie
filosofiche da lui avanzate. Nel palcoscenico infatti si ripropone proprio quel relativismo
gnoseologico, ossessivamente presente nella sua opera, in virtù del quale ogni essere umano
vede la realtà in base alle proprie concezioni e idee e non può intenderla altrimenti. “È infatti
dalla natura stessa dell’uomo – osserva Pirandello – che dipende la nostra incapacità di
affidarci a norme e principi assoluti. La relatività di ogni conoscenza e opinione, e insieme il
disperato insopprimibile desiderio di certezze che ci costringe a rifugiarci negli autoinganni e
nelle illusioni, sono elementi originari della nostra vita”21.
19
L. PIRANDELLO, Epistolario familiare giovanile (a cura di E. Providenti), in Quaderni della Nuova Antologia,
Firenze 1984, p. 22.
20
L. PIRANDELLO, Illustratori, autori e traduttori, fonte:
http://www.classicitaliani.it/pirandel/saggi/pirandello_arte_scienza.htm
XXVI,
21
C. VICENTINI, Pirandello. Il disagio del teatro, Marsilio, Venezia 1993, p. 44.
14
Tuttavia, se il giudizio teorico di Pirandello nei confronti del teatro risulta radicalmente
negativo, nella pratica egli tradisce i suoi dettami. Assume infatti verso il teatro un
atteggiamento schizofrenico: “è travolto da una sorta di irresistibile fascinazione che orienta
le sue capacità creative verso la scena”22. Perché dunque un tale comportamento? Proprio
negli anni in cui cominciano a prendere piede le nuove teorie filosofiche freudiane
sull’inconscio, più o meno inconsapevolmente l’autore resta morbosamente attaccato al teatro,
tradendo una particolare passione altrimenti incomprensibile. Per Pirandello infatti “solo
un’arte che riuscisse a esprimere nella costruzione stessa delle sue forme il tormento
dell’uomo nell’orizzonte della disgregazione poteva essere un’arte autentica, radicata nella
realtà”22, e tale arte è senza ombra di dubbio il teatro.
3.2. L’inconfutabilità del teatro: la rappresentazione scenica dell’autonegazione della
drammaturgia
Con la pubblicazione di Sei personaggi in cerca d’autore Pirandello dichiara di voler
definitivamente chiudere la sua parentesi teatrale. Tale opera viene inserita dall’autore nella
trilogia metateatrale in cui si discute del teatro stesso, ed è considerata dallo stesso autore
come la sua opera più esemplificativa, sintesi dei temi cari alla sua filosofia. Il teatro diviene
metafora delle tesi filosofiche pirandelliane; anzi, il teatro diviene vera filosofia e proprio
per questo inconfutabile (e in effetti tra teatro e filosofia vi è una fitta trama di
corrispondenze, come ha osservato Gilles Deleuze). Pirandello è colui che dimostra in sommo
grado la validità della tesi che voglio sostenere: con la sua operazione la drammaturgia si
esplicita in quello che potenzialmente è. Il teatro non rimane mero espediente che invita alla
riflessione e che permette di analizzare il proprio animo, ma diventa esso stesso metafora
della vita e della condizione umana.
Il carattere rivoluzionario di Sei personaggi in cerca d’autore risiede proprio nella sua
stessa genesi: nata inizialmente come romanzo, l’opera diventa poi una commedia che illustra
l’impossibilità e nello stesso tempo la necessità di fare teatro, nel tentativo di esorcizzare i
tormenti dello scrittore. Pirandello dimostra l’impossibilità della confutazione del teatro,
capace di far vivere in sé la sua stessa negazione. Vi è inoltre un altro carattere che rende
peculiare il testo con cui l’agrigentino desidera chiudere la sua esperienza di drammaturgo: in
22
Ivi, p. 60 e 46.
15
essa vi compare l’espediente del teatro nel teatro che sul piano della struttura drammaturgica
lavora in senso opposto all’intento teorico. Se la commedia non è altro che la trasposizione
dell’impossibilità del teatro, l’espediente cui si è accennato fa sì che l’attore si sovrapponga
perfettamente al personaggio, che è un attore. Il confine tra la vita reale e il mondo
immaginario dell’opera sembra dissolversi in una zona liminale, in cui gli attori vivono la
propria vita e recitano nello stesso tempo le parti di una commedia. Tale situazione di
compromesso si allarga di conseguenza anche a tutti gli esseri umani in quanto tali.
3.3. La persona come maschera: il teatro come risposta al γνῶθι σεαυτόν
Numerose analogie si scorgono nel paragone della filosofia pirandelliana con le tesi
avanzate dal sociologo canadese Erving Goffman nella sua opera “La vita quotidiana come
rappresentazione”. In tale saggio, Goffman paragona la vita odierna dell’essere umano a un
attore che recita la sua parte, sottolineando una sostanziale identità di struttura tra palcoscenico
e vita reale (“All the world is a stage…”). Egli utilizza il teatro come metafora per illustrare
come noi mettiamo in scena immagini (di noi stessi) che cerchiamo di offrire alle persone
attorno a noi, atteggiamenti per indicare i quali egli usa il termine “drammaturgia”.
Gesticolando, parlando, accentuando varie parole, si vuole veicolare una propria idea, una
propria concezione e la si vuole esporre all’uditorio. Nella vita sociale che è incentrata
sull’interazione, l’attore è sempre intento a porre se stesso in scena sul palco della società. E
così nell’impianto teorico di Goffman veniamo a trovare attori, palcoscenici, pubblico.
Sottolinea il sociologo canadese: “non è un caso che la parola persona, nel suo significato
originale, volesse dire maschera (…) noi impersoniamo vari ruoli e in questi ruoli
conosciamo noi stessi”23.
Maschere nude è non a caso il titolo della raccolta delle opere teatrali di Pirandello. Chiaro
è l’apparente e voluto paradosso che l’autore vuole veicolare mediante tale titolo. La
“maschera” è quell’espediente che permette di celare allo sguardo estraneo – ma anche al
proprio – la propria natura più intima e profonda. Pertanto l’individuo può essere Uno,
nessuno e centomila. Indossare la maschera, tuttavia, tocca l’essere umano nel profondo, lo
denuda, perché riguarda il suo essere persona. L’individuo “impersona” infatti un ruolo
richiestogli dalla società: questo processo gli è funzionale per adattarsi alla realtà. Il genio di
Pirandello risiede in tal senso nella capacità di svelare, al di sotto della maschera, innumerevoli
23
E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1997, p. 31.
16
mondi in cui la fantasia e la realtà coesistono, in cui le regole della vita vengono di continuo
sovvertite. Perseguendo l’obiettivo di rivelare ciò che sta dietro alla maschera, egli è disposto a
sconvolgere e sovvertire le fondamenta stesse del teatro: il palcoscenico diventa il luogo in
cui assistere allo smascheramento e in cui conoscere se stessi, la propria individualità, la
propria anima, confrontandosi con la propria maschera e scoprendo il proprio volto. “La
creazione fantastica presentata sulla scena riesce effettivamente a ‘toccare’ il mondo della
vita materiale, a penetrarlo e a modellarlo su di sé”24. In tutte le sue opere, infatti, i
personaggi sono dibattuti dal conflitto tra vita e forma: l’originario e insopprimibile slancio
vitale insito in ogni uomo viene ostacolato dalla forma, dalla maschera che indossiamo e di cui
vorremmo e non vorremmo liberarci. Vissuta dall’interno, dunque, la finzione dei sei
personaggi è realtà: “Ma che finzione! Realtà, realtà, signori, realtà!”25. Paradossalmente,
dunque, il teatro, attraverso l’utilizzo di specifiche maschere o ruoli, consente all’uomo di
poter sperimentare se stesso in tutte le sfaccettature del proprio essere, senza difese o filtri, e
ciò gli consente di sentirsi maggiormente integro, vivo, autentico. Il teatro è dunque il luogo
della possibilità: nell’atto stesso in cui un attore interpreta un personaggio, abita attraverso
quel ruolo parti di sé che nella vita di tutti i giorni esplora raramente.
Quello di Pirandello è senza dubbio un teatro che fa riflettere e che suscita scandalo, ma
più di ogni altro riflette quella simbiosi tra vita reale e palcoscenico che ogni attore sperimenta
quando mette piede in scena. Nel tentativo di riscattare il teatro da una condanna che
confliggeva con l’intensità con cui egli si dedica al palcoscenico, nell’ultima parte della sua
vita Pirandello approda a soluzioni diverse: individua l’insospettata capacità del teatro di
accogliere e rivelare le forme profonde della nostra immaginazione: “Il palcoscenico si
trasformava allora in un’area identica allo spazio mentale dove emergono, si impongono e si
muovono le figure della nostra immaginazione interiore”26. Pirandello vuole forse lasciare a
noi la possibilità di comprendere il segreto e l’attrazione misteriosa verso il teatro, che lui non
riuscì mai a giustificare razionalmente. Proprio in virtù del suo rapporto contradditorio con il
teatro, Pirandello dimostra a se stesso in primis, e a ogni uomo in secundis, l’irresistibile
fascino esercitato dall’arte teatrale e l’impossibilità di condannarlo quale mera e sterile μίμησις
τῆς μιμήσεως, in quanto insostituibile strumento di comprensione della condizione umana.
24
C. VICENTINI, Pirandello. Il disagio del teatro, cit., p. 98.
25
L. PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, Mondadori, Milano 200520, p. 125.
26
C. VICENTINI, Pirandello. Il disagio del teatro, cit., p. 116.
17
4. Conclusioni
Il percorso che ho proposto mi ha consentito di riflettere sull’esperienza di teatro vissuta nei
cinque anni liceali, durante i quali ho provato la bellezza e il fascino di condividere il
palcoscenico con altri coetanei, con cui ho stretto bellissime amicizie. Nel teatro ciò sembra
avvenire spontaneamente: recitando si entra in relazione profonda con l’altro, oltre che con se
stessi. Si discute, si condivide, ma soprattutto si freme insieme.
Il desiderio di rendere ragione del fascino che ha esercitato su di me il teatro e del brivido
che si prova prima di pronunciare la battuta, mi ha spinto a svolgere questa ricerca. Spero di
aver trasmesso come questo fascino e questo brivido siano giustificati: a teatro – sia che si
reciti, sia che si assista – non è in gioco un’emozione passeggera, ma la possibilità di
scorgere qualcosa di chi siamo, come singoli e come comunità politica.
Considero perciò l’esperienza vissuta sul palcoscenico come uno κτῆμα ἐς αἰεί, un acquisto
per sempre, un possesso che mi porterò dentro indipendentemente dal peso che la recitazione
potrà continuare ad avere nella mia vita.
Vorrei concludere questo lavoro con due citazioni che sintetizzano la tesi che ho voluto
difendere, ossia che il teatro è uno squarcio sull’animo umano e che perciò è una via
privilegiata di conoscenza del nostro ego e del nostro mondo.
Il teatro, nelle sue espressioni più degne, nelle sue parole più alte, è grande rito laico che aduna il
popolo intorno a un palcoscenico, nuovo altare in cui si celebrano i pensieri dei Poeti, le nostre
passioni, la nostra società, le nostre crisi di uomini, di popoli, i nostri eroismi, in cui si condannano e
si giudicano le nostre abiezioni, i nostri peccati 27
[il teatro è lo] sforzo disperato che l’uomo fa nel tentativo di dare un senso alla propria vita. Se a
un giovane dovessi indicare un programma, suggerirei la pratica, perché il teatro porta alla vita e la
vita porta al teatro. Non si possono scindere le due cose. Cerca la vita e troverai la forma, cerca la
forma e troverai la morte. [...] Una volta io ho detto che fino a che ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce
ne sarà uno finto sul palcoscenico. Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita
recitano male 28
P. GRASSI, Documento inedito proveniente dall’Archivio del Piccolo Teatro di Milano, 1945. fonte:
www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/repository/notizie/2014/20140327_giornata_teatro_testi.
pdf
27
28
E. BIAGI, Intervista ad Eduardo de Filippo, Corriere della Sera, 6 marzo 1977.
18
5. Bibliografia e sitografia
BIBLIOGRAFIA
ARENDT H., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 201320.
ARISTOTELE, Poetica (a cura di A. Barabino), Mondadori, Milano 1999.
BIAGI E., Intervista ad Eduardo de Filippo, Corriere della Sera, 6 marzo 1977.
D’AMICO S., Teatro in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, vol. XXXIII, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1937, pp. 353-371.
GENTILI C., GARELLI G., Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010.
GOFFMAN E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1997.
JAEGER W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, Milano 2003.
PIRANDELLO L., Sei personaggi in cerca d’autore, Mondadori, Milano 200520.
PIRANDELLO L., Epistolario familiare giovanile, a cura di E. Providenti, in Quaderni della Nuova
Antologia, XXVI, Firenze 1984.
SCHOPENHAUER A., Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989.
VICENTINI C., Pirandello. Il disagio del teatro, Marsilio, Venezia 1993.
VERNANT J-P., NAQUET P.V., Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino 1976.
SITOGRAFIA
(link consultati l’ultima volta il 21 giugno 2014)
https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg17/file/repository/notizie/2014/20140327
_giornata_teatro_testi.pdf
http://users.unimi.it/~gpiana/dm13/camparsi_schopenhauer/camparsi-schopenhauer.pdf
http://www.holdenmagazine.it/2014/04/16/maschere-nude-identita-e-mito-in-pirandello/
http://www.classicitaliani.it/pirandel/saggi/pirandello_arte_scienza.htm
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