LE RAGIONI CHE LA RAGIONE NON CONOSCE

LE RAGIONI CHE LA RAGIONE
NON CONOSCE
“qu’est-ce que l’homme dans la nature?
Un néant à l’égard de l’infini,
un tout à l’égard du néant” […]
également incapable de voir le néant d’oú il est tiré,
et l’infini oú il est englouti”
“che cos’è l’uomo nella natura?
un nulla rispetto all’infinito,
un tutto rispetto al nulla […]
egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto
e l’infinito che lo inghiotte”
(Blaise Pascal, Pensieri)
Una trappola
Cartesio è un vero e proprio mostro di razionalità.
Siamo di fronte a un pensatore che finalmente capisce che la filosofia, se vuole alzarsi al di sopra delle
opinioni, deve dotarsi di un metodo rigoroso, un metodo che non può essere dissimile da quello in uso nella
geometria euclidea.
Ma non puoi incasellare tutto nella logica deduttiva della geometria: così facendo, rischi di approdare alle
conclusioni sconcertanti di Cartesio.
Sconcertanti? Cartesio non esalta il pensiero umano? Che cosa vi è nell’universo che vale di più?
Ma Cartesio in questo modo rovescia letteralmente la realtà: il pensiero, la coscienza, sia nella storia del
cosmo che nella storia di ogni singolo uomo, vengono dopo, non sono mai il primum.
Però, se vuoi mettere in discussione tutto perché ti proponi di giungere a qualcosa di assolutamente
indubitabile, non puoi dare per scontato nulla, neppure la storia dell’universo precedente l’avvento
dell’uomo.
Un’esigenza legittima, anzi una ingegnosa lezione di carattere metodologico, ma che non conduce a nulla.
Non è nulla il primato della coscienza?
Cartesio, col suo “cogito, ergo sum”, non fa che chiudersi in una trappola da cui non può più liberarsi.
Quale trappola? Dal “cogito” esce, eccome!
Sì, ma è costretto a ricorrere a una acrobazia logica medievale (l’argomento ontologico di S. Anselmo) già
ampiamente confutata. Il “cogito” ti fa precipitare nel solipsismo: come potresti affermare l’esistenza di
altri soggetti se tutto ciò che appare è semplicemente “oggetto” del tuo pensiero?
Non esagerare: l’esistenza di un Dio perfettissimo che non può ingannarci mi pare un argomento solido.
Solido sì, ma tutt’altro che solida la dimostrazione dell’esistenza di Dio. E poi Cartesio, col suo dualismo,
dimostra una palese incomprensione della profonda interazione presente nell’uomo tra mente e corpo.
In filosofia più del risultato conta il rigore metodologico: non è così? Non è intellettualmente disonesto
scartare i risultati che non corrispondono alle nostre aspettative?
È vero, ma non puoi chiudere la straordinaria ricchezza umana in schemi logico-matematici.
Se esci dall’alveo razionale, precipiti nell’irrazionalismo, ti allontani da ciò che fa grande l’uomo e ne
caratterizza la natura: la razionalità.
Enfant prodige
Ma non vi è solo la razionalità matematica. Si può essere razionali senza per forza percorrere la strada
indicata da Cartesio: pensa a Blaise Pascal, contemporaneo di Descartes ed egli stesso francese.
Il fisico? Io ricordo il “principio di Pascal”.
Fisico e matematico. Un vero e proprio enfant prodige che sorprende gli adulti con la sua ridda di domande
sulla “natura delle cose”.
Una fase, quella dei “perché”, che attraversano tutti i bambini.
È vero, ma egli dimostra una curiosità - stando almeno alla testimonianza della sorella - di gran lunga
superiore alla media.
Un altro “Herr warum” (signor perché), come sarà chiamato da piccolo il più grande matematico del XX
secolo, Kurt Gödel.
Sì. E anche lui dimostra uno spiccato interesse per la matematica. Soltanto verso i 12-13 anni, però, dopo
avere insistito a lungo, ha il permesso dal padre di cimentarsi con la geometria, ma solo durante le ore di
ricreazione.
Che padre severo!
Pur essendo un cultore di matematica e di fisica, il padre ritiene prioritario insegnargli il latino e il greco e
solo dopo la matematica, ma a un certo momento, letteralmente “spaventato dalla grandezza e dalla
potenza” del “genio” del figlio, decide di accelerare i tempi.
E i risultati arrivano?
Sì: a 16 anni Blaise elabora un teorema che sarà chiamato “teorema di Pascal”.
Precoce, il ragazzo!
Quando viene pubblicato (si tratta di un teorema che ha come oggetto l’esagono iscritto in una conica), vi è
chi in Francia afferma che “dal tempo di Archimede non s’era più visto nulla di tale forza”.
E questo è solo l’inizio. A 19 anni inventa una macchina calcolatrice in grado di eseguire il riporto
automatico (la cosiddetta “pascaline”). Si occupa poi del vuoto confermando l’esperimento di Torricelli,
allievo di Galilei.
È un crescendo.
Sì. Giunge in seguito a formulare il “principio di Pascal” che tu hai ricordato: riguarda la trasmissione
uniforme della pressione in ogni direzione che si registra all’interno dei fluidi. Più tardi, infine, in una lettera
al celebre matematico Fermat, dà un contributo importante sul calcolo delle probabilità.
Si tratta dello stesso Fermat - immagino - che con un suo teorema ha tormentato generazioni di
matematici.
Sì, un teorema che è stato dimostrato solo pochi anni fa.
E un matematico geniale come Pascal prende le distanze dal rigore matematico di Cartesio?
In qualche misura, sì. La svolta avviene quando il nostro, ventitreenne, viene catturato dal giansenismo.
Una dottrina eretica.
No, siamo in presenza di una corrente religiosa interna al cattolicesimo. Il giovane Pascal, da questo
momento, inizia un’intensa esperienza religiosa che lo conduce gradualmente ad abbandonare le scienze
esatte per dedicarsi allo studio dell’uomo.
Una bestemmia
Che cos’ha di tanto attraente il giansenismo?
Il rigore: il movimento giansenista (da Jansen, vescovo di Ypres, una città dei Paesi Bassi) nasce in polemica
col lassismo morale dei gesuiti. I giansenisti si battono contro un Cristianesimo ridotto a riti religiosi, contro
la confessione trasformatasi di fatto in una sorta di mercato tra il peccatore e il confessore (tot peccati, tot
penitenze), contro la pratica delle indulgenze che rafforza l’idea che la salvezza dell’anima è un traguardo
tutto sommato facile.
Mi ricorda la polemica di S. Agostino contro i pelagiani del suo tempo.
I giansenisti si ispirano infatti a S. Agostino, il quale è lo stesso ispiratore di Martin Lutero, il padre della
Riforma protestante.
La tesi di fondo, dunque, è che non sono le opere a rendere l’uomo degno della salvezza.
Infatti. L’uomo, in conseguenza del peccato originale, è corrotto nella sua natura. Da qui la sua incapacità di
salvarsi con le sole sue forze: non bastano le opere buone, né le confessioni e le comunioni frequenti.
Affermare che l’uomo, grazie alle opere, è capace di influenzare le decisioni di Dio è una vera e propria
bestemmia.
Ma così i giansenisti scivolano di fatto nella Riforma protestante.
Su questo fronte sì, anche se sono sulla scia di S. Agostino, ma su altri sono in piena sintonia con
l’ortodossia cattolica.
Sulla stessa dottrina della transustanziazione?
Sì, accettano anche la gerarchia ecclesiastica, inclusa l’autorità del papa. A proposito di tale autorità, però,
rilanciano il principio della superiorità, in fatto di dottrina, del concilio sul pontefice (principio già di Erasmo
da Rotterdam e di Nicolò da Cusa).
Un pericolo
Diciamo che sono eretici a metà, ma pur sempre eretici.
È vero: non è un caso che Luigi XIV li consideri dei nemici in quanto potenziali scismatici.
Perché questa prospettiva dovrebbe preoccuparlo?
Perché egli teme che un eventuale scisma religioso possa generare uno scisma politico. Sono
preoccupazioni politiche, le sue, preoccupazioni che hanno alle spalle anche un’altra ragione.
Quale?
I giansenisti, sottolineando il primato della coscienza, diventano politicamente pericolosi.
E Pascal, naturalmente, si schiera a favore dei giansenisti.
Sì, scrive in loro difesa, le notissime Lettere provinciali che hanno come bersaglio la morale lassista dei
gesuiti e le sue radici filosofico-teologiche.
Scatenando reazioni dure, immagino.
Sì, i gesuiti, grazie alla loro potente influenza, riescono a farle inserire nell’Indice dei libri proibiti e a farle
bruciare pubblicamente.
Sono così pericolose queste Lettere?
Lo sono per i gesuiti e per i loro alleati domenicani. Lo sono perché smontano con grande efficacia le loro
accuse: il giansenismo, secondo Pascal, è tutt’altro che eretico, non essendo altro che una sintesi di istanze
agostiniane e tomistiche, in altre parole cattolicesimo puro.
Ma S. Tommaso difende, ai fini della salvezza, il ruolo delle opere.
È vero. Ecco perché, secondo Pascal, è giusto affermare - come S. Agostino - la profonda corruzione in
seguito al peccato originale della natura umana e, nello stesso tempo, sulla lunghezza d’onda di S.
Tommaso, la capacità dell’uomo di compiere il bene.
Ma si tratta di due tesi antitetiche che, quindi, si autoescludono.
Sono antitetiche, è vero, ma secondo il nostro le due posizioni sono false solo se l’una esclude l’altra,
mentre sono vere se tenute insieme.
Quant’è capzioso, questo Pascal.
Pascal non sposa tout court il giansenismo, ma lo considera la dottrina meno errata.
Un Cristianesimo radicale
In concreto, come vive la sua conversione al giansenismo?
Si propone di vivere il Cristianesimo in modo radicale. Ecco perché punta a mortificare la sensualità: è
talmente determinato che giunge a infliggersi sofferenze fisiche “con una cintura di ferro piena di punte”!
Un masochista!
No: Pascal prende semplicemente le distanze dal Cristianesimo in versione accomodante predicato dai
gesuiti. Una scelta che si rafforza ulteriormente dopo l’esperienza mistica della notte del 23 novembre
1654, un’esperienza che Pascal racconta su un foglietto che porterà sempre con sé, sotto la fodera della
giacca.
Siamo all’irrazionalità allo stato puro.
Comprensibile il tuo rifiuto del misticismo, ma Pascal racconta di avere vissuto questa esperienza: come
non credergli? Tieni presente che la fede non è di per sé irrazionale: il grande filosofo medievale S.
Tommaso ha dimostrato diffusamente la “ragionevolezza” del Cristianesimo. È la tesi che sostiene anche
Pascal, ma con un percorso che non ha nulla a che vedere con le classiche dimostrazioni logiche
dell’esistenza di Dio.
Butta via, dunque, tutta la strumentazione logica ereditata dalla sapienza greca.
Per certi versi sì: a lui interessa il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non il Dio astratto, freddo dei
filosofi.
Ma in questo modo rimane ingabbiato nella logica della fede: dove sarebbe, allora, la filosofia di Pascal?
In sintonia con lo scetticismo di Montaigne, egli è convinto dell’impotenza della ragione umana.
Misconoscendo del tutto l’avventura straordinaria della scienza del suo tempo.
Pascal non mette in dubbio i pregi della scienza, ma è dell’avviso che essa è assolutamente incapace di dare
una risposta al mistero dell’uomo.
Le ragioni del “cuore”
Secondo lui non vi è alcuna spiegazione scientifica in grado di dare una risposta agli interrogativi esistenziali
dell’uomo. È da qui - dall’esistenza - che parte la ricerca di Pascal: dal bisogno di senso di cui ha sete
l’uomo. Egli non ha dubbi: l’uomo si trova avvolto dal mistero e avverte forte l’esigenza di dare un senso a
tale mistero. Così scrive nel suo capolavoro incompiuto (un’opera tutt’altro che organica e sistematica),
Pensieri: “Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la
segue, il piccolo spazio che occupo e financo che vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che
ignoro e che m’ignorano, io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci nessuna
ragione perché sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani”.
L’uomo ignora molte cose, si sa, ma con la ricerca scientifica sarà in grado, poco alla volta, di soddisfare la
sua sete di sapere.
Pascal non è per nulla convinto. È crede, anzi, che ai “perché” esistenziali dell’uomo (che cosa sono? da
dove vengo? che cosa c’è dopo la morte?) la scienza non sarà mai in grado di rispondere, come è incapace
di rispondere la ragione cartesiana. Si tratta di interrogativi a cui si può rispondere non con un approccio
razionale (con l’esprit de géométrie), ma col “cuore” (con l’esprit de finesse). La scienza ha dei limiti
strutturali, tant’è che non riesce neppure a spiegare i concetti base di cui si serve quali lo spazio, il tempo, il
moto che non sono dedotti da nulla. Essa, inoltre, ha come limite l’esperienza e, dunque, non può, per sua
natura, illuminare quel mistero che è l’uomo stesso.
Ancora insisti sul mistero, ma io questo mistero non lo vedo.
Così scrive Pascal: “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa [ un
roseau pensant]. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua
bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di
quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne
sa nulla [l’univers n’en sait rien]”.
Ma qui vedo la rivincita di Cartesio, vale a dire il primato del pensiero: altro che il mistero!
Non vi è dubbio che qui troviamo l’impronta di Cartesio: è il pensiero che conferisce la “grandezza”
all’uomo; è il pensiero che lo eleva al di sopra di tutto. Ma l’uomo è nello stesso tempo fragile, impotente.
Ma “sa” di essere fragile.
È proprio quanto afferma Pascal: è la consapevolezza della propria miseria che fa grande l’uomo. È questo
ciò che ci rivela l’intuizione (il “cuore”, l’esprit de finesse), un’intuizione che non ha niente a che vedere con
un approccio di tipo deduttivo.
Ma anche per Cartesio il punto di partenza di ogni sapere è oggetto di un’intuizione.
Ma Pascal non si avventura in percorsi accademici. Egli scava nell’esistenza concreta dell’uomo. È questa
che viene illuminata dalla intuizione. L’uomo, secondo il nostro, è strutturalmente incapace di cogliere sia
l’infinitamente grande che l’infinitamente piccolo: come potrebbe conoscere il tutto considerato che è una
parte e come potrebbe conoscere le singole parti se non conosce il tutto, cioè tutte le concatenazioni che le
singole parti hanno con tutte le altre parti?
Un fondamento che scricchiola
Ma questo è scontato. Anche Galileo sottolinea la differenza che vi è tra il sapere rappresentato dalla
scienza e il sapere divino: solo Dio ha presente tutto e l’ha presente ora.
Galileo però rimarca pure la “certezza” che accomuna la scienza umana e la scienza divina. Pascal, invece,
afferma con chiarezza che l’uomo è incapace “ sia conoscere con piena certezza come di ignorare in
maniera assoluta”. “Noi - aggiunge - bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base
sicura per edificare una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si
apre sino agli abissi”. L’uomo, anzi - aggiunge - non è capace di comprendere appieno né le cose materiali,
né lo spirito perché è una realtà che ha una duplice natura (materia e spirito), mentre le cose e lo spirito
sono semplici.
Sempre più pessimista, questo Pascal.
Egli si propone semplicemente l’obiettivo di esplorare la natura umana, una natura che considera
“mediana”: l’uomo è un tutto rispetto al nulla e un nulla rispetto al tutto. L’uomo, inoltre, secondo lui, ha
una inquietudine di fondo: insegue incessantemente la felicità senza mai raggiungerla. Ecco perché
definisce l’uomo come un “mostro incomprensibile”, “un paradosso di fronte a se stesso”. Ed ecco perché
ritiene che sia sbagliato esaltarne solo la grandezza o solo la miseria. Sono stati gli stoici - prosegue - che
hanno esaltato la grandezza tant’è che “hanno voluto rinunciare alle passioni e diventare dei”.
In che senso?
Gli stoici, col loro obiettivo dell’indifferenza ad ogni emozione, hanno puntato a raggiungere
l’imperturbabilità degli dei. Gli epicurei, al contrario, sempre secondo Pascal, volendo “rinunciare alla
ragione”, sono diventati dei “bruti”.
Nel senso che hanno esaltato i piaceri dei sensi?
Così li presenta Pascal, ma in realtà l’obiettivo degli epicurei era un piacere molto raffinato e tutt’altro che
immediato. Secondo il nostro “è pericoloso mostrare troppo all’uomo quant’è simile ai bruti senza
mostrargli la sua grandezza” e viceversa. E aggiunge: “Più pericoloso ancora, lasciargli ignorare l’una e
l’altra”. La ragione è semplice: più l’uomo si sente grande, meno è disponibile ad aprirsi a Dio (e senza il
timore di Dio l’uomo può commettere dei misfatti); più l’uomo si sente misero, meno è disponibile ad
aprirsi alla salvezza.
La fuga
Tutto è sempre finalizzato a Dio: è questi, quindi, che conduce Pascal ad evidenziare la contraddittorietà
dell’uomo.
Il fine, certo, è sempre quello: sottolineare la ragionevolezza della fede. Ma questo non inficia la sua analisi
dell’esistenza umana. Come non inficia la sua acuta riflessione relativa al cosiddetto divertissement, al
tentativo dell’uomo cioè di fuggire da se stesso, di non pensare ai suoi interrogativi inquietanti. Così scrive:
“Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di
non pensarci”. Da qui il loro tuffarsi in mille occupazioni che vengono ricercate non perché sono in grado di
regalare felicità o, comunque, qualche vantaggio, ma perché li distraggono, li fanno in altre parole fuggire
da loro stessi.
Un comportamento ragionevole: perché l’uomo dovrebbe continuamente crogiolarsi nella sua miseria, nella
sua disperazione, nei suoi interrogativi esistenziali?
Ma in questo modo egli rinuncia a riflettere sul proprio destino, a cercare il senso dell’esistere e del morire.
Rinuncia così ad aprirsi a Dio.
Ma come accedere a Dio se Pascal rifiuta le classiche dimostrazioni dell’esistenza di Dio?
Lo ripeto. Il Dio di cui l’uomo avverte il bisogno (parliamo sempre del punto di vista di Pascal) non è il Dio
dei filosofi, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: solo questi è in grado di dare una risposta alle
aspirazioni profonde dell’uomo. Non è un caso che il nostro ironizzi sul Dio di Cartesio, un Dio che si limita a
dare un colpetto alla macchina del mondo per poi disinteressarsene.
Ma non sono le stesse leggi della natura a reclamare l’esistenza di un Dio Progettista?
Pascal non ne è convinto: egli ritiene che solo colui che già crede in Dio vede nell’ordine della natura la
prova della sua esistenza.
Ma se fa riferimento alla fede, non può pretendere di convincere chi questa fede non ce l’ha.
Pascal è dell’avviso che Dio nella natura è nascosto, o meglio, è nascosto e manifesto insieme: non si svela a
chi non lo cerca, mentre si svela a chi lo cerca. Del resto, se fosse del tutto palese, che merito avrebbe chi
ha fede? E, inoltre, dove andrebbe a finire la nostra libertà di scelta?
Un abisso
Ma Dio (seguo la logica pascaliana), in quanto spirito puro, è comunque inaccessibile, data la natura
duplice dell’uomo.
È vero. Dio è inaccessibile anche perché è infinito: come può comprenderlo un ente – come l’uomo – finito?
Ma l’infinito in matematica è comprensibile.
Sì: secondo Pascal noi conosciamo l’esistenza di tale infinito, ma non la natura. La nostra ignoranza di Dio,
però, è più profonda: di Dio non conosciamo né l’esistenza né la natura.
Dio, dunque, è irraggiungibile.
È così: tra l’uomo e Dio vi è un abisso che la ragione umana non può colmare. Non vi è, di conseguenza,
alcuna prova razionale in grado di dimostrare l’esistenza di Dio.
Ma anche la non esistenza.
Infatti. Ecco, allora, che Pascal, a chi non è né credente, né ateo, ma dubbioso, propone l’argomento della
scommessa.
Un argomento di carattere utilitaristico!
Non vi è dubbio. Secondo lui conviene scommettere che Dio esiste: se si vince, se cioè si punta
sull’esistenza di Dio e poi questi esiste davvero, si guadagna tutto, vale a dire la felicità eterna, se invece si
perde, non si perde nulla [si vous gagnez, vous gagnez tout; si vous perdez, ne perdez rien].
Perché non si perde nulla se si perde la scommessa? Non si perderebbero i piaceri condannati dalla Chiesa?
Secondo Pascal, se ci si comporta come se Dio esistesse, quand’anche questi non esistesse, si
guadagnerebbe comunque: vivere in modo onesto, essere altruisti, riconoscenti, sinceri non può che
rendere bella la vita e gratificare l’uomo.
Non sono del tutto convinto. E poi perché si dovrebbe scommettere in un senso o in un altro? Considerato
che non vi sono prove certe né a favore né contro l’esistenza di Dio, l’unica scelta ragionevole è quella di
non scommettere.
Una terza via, secondo il nostro, è impraticabile perché o si vive come se Dio esistesse o viceversa. Quindi
“occorre scommettere” [il faut parier]. L’interlocutore del dialogo di Pascal, tuttavia, è tutt’altro che
convinto.
Come non lo sono io: la prova palese della praticabilità della terza via è data dal fatto che gli agnostici
esistono.
Non hai torto. Pascal, rivolgendosi al suo interlocutore, gli fa una proposta che può sembrare paradossale:
lo invita ad andare in chiesa, a prendere l’acqua benedetta, a pregare.
Ma non è un contro-senso chiedere a un non credente di pregare?
Beffarsi della filosofia
Secondo Pascal no: mettersi in ginocchio significa umiliarsi, mortificare il proprio orgoglio e quindi
predisporsi alla fede.
È l’orgoglio, quindi, secondo Pascal, che impedisce a un individuo di aprirsi a Dio, non la mancanza di indizi.
Infatti: laddove non c’è umiltà, la fede non può germogliare. Sono in ultima analisi le passioni che
trattengono l’uomo in basso e gli tolgono la possibilità di guardare il cielo.
Dio, di conseguenza, non è un affare di ragione.
Già, è un affare di “cuore”. Il cuore, secondo Pascal, ha delle ragioni che la ragione (astratta, matematica)
non conosce. È questo che ci fa percepire i segni della presenza di Dio nella natura ed è questo che ci fa
capire come solo il Cristianesimo sia in grado di dipanare il mistero dell’uomo.
Perché?
Perché ci fa comprendere la sua natura contraddittoria, vale a dire la sua grandezza e la sua miseria
insieme: l’uomo, in quanto figlio di Dio, è nato re, ma a causa del peccato originale, è un re decaduto, un re
decaduto che tuttavia, grazie alla salvezza offerta da Gesù Cristo, può ritrovare la sua originaria grandezza.
Si tratta però di una lettura fatta con gli occhi della fede, fede che è un salto nel buio.
Un salto nel buio che però può illuminare il senso della tua esistenza. Che addirittura ti può aiutare ad
affrontare con maggiore serenità le difficoltà, talvolta pesantissime, della vita.
Ma io mi rifiuto di accettare un argomento così poco nobile come quello della scommessa.
Non c’è un’altra via: quale potrebbe essere se tra l’uomo e Dio vi è un abisso infinito? Pascal arriva ad
affermare che beffarsi della filosofia è il modo migliore di fare filosofia.
Ma questo è un affronto alla filosofia.
È di sicuro una presa di distanza dal tipo di filosofia di chi, come Cartesio, pretende di incasellare tutto
dentro “idee chiare e distinte”. Ma l’uomo non ha solo a che vedere con tali idee, ma anche col mistero da
cui non può liberarsi. La scienza esplorerà molte cose, sia dell’universo sia di quella meraviglia che è il
cervello umano, ma non potrà mai dare “un senso alla vita”.
Vedo che sei un pascaliano.
Mentre tu sei molto diffidente nei confronti di un pensatore contro-corrente come Pascal
Hai detto bene: un pensatore contro-corrente, un filosofo ben poco filosofico.
Ma la filosofia non è solo quella “razionalista” di Cartesio e di Spinoza. Ti piaccia o no, non puoi non fare i
conti col mistero. Pascal ti indica una possibile opzione.