IL PIÙ RADICALE DEI DUBBI “[…] sebbene le cose che sento ed immagino non siano forse nulla fuori di me ed in se stesse, io sono tuttavia sicuro che quelle maniere di pensare, che chiamo sensazioni ed immaginazioni, per il solo fatto che sono modi di pensare, risiedono e si trovano certamente in me” (Cartesio, Meditazioni metafisiche, Terza meditazione) Il colpo d’ala della matematica La matematica, in seguito alla riscoperta della cultura classica e, soprattutto, con l’avvento della scienza moderna, torna prepotentemente sulla scena del sapere. Ma si tratta pur sempre di un linguaggio. Galileo, il padre della scienza - come sai - è convinto che non sia per nulla un linguaggio umano, ma il linguaggio stesso della natura, dell’universo. In sintonia - l’abbiamo detto più volte - con Pitagora e l’ultimo Platone. Sì, una concezione che influenza addirittura l’immagine di Dio: non è questi, secondo Keplero, il Grande Geometra? Con Cartesio, poi, la matematica assume un ruolo ancora più rilevante diventando il “modello” del sapere. Un modello? Com’è pensabile ingabbiare in formule astratte non soltanto la ricchezza del reale, ma pure la straordinaria complessità delle discipline umane? Eppure Cartesio ci prova: egli è convinto che solo seguendo il modello matematico sia possibile giungere, appunto come nelle scienze matematiche, a un sapere condiviso. Un sapere condiviso che non c’è mai stato in filosofia. Già. In matematica non ci sono punti di vista, ma verità che non sono passibili di dubbio. Proviamo a esaminare la geometria euclidea: i teoremi vengono dedotti da postulati che si ritengono evidenti. È quindi l’evidenza il criterio. Certamente: ciò che - secondo la definizione data da Cartesio – è “chiaro” in sé e “distinto” da altro. Ora, se le premesse sono evidenti, anche la conclusione che si deduce da esse, è evidente. Ma è un metodo inapplicabile alla filosofia. Nella geometria euclidea è agevole individuare l’evidenza in una proposizione. Penso al celebre quinto postulato: per un punto esterno a una retta passa una sola retta parallela alla retta data. Si tratta di una semplificazione del postulato di Euclide. Va bene, ma lasciamo i tecnicismi ai matematici. In che cosa consisterebbe, secondo te, l’indubitabilità di tale postulato? È indubitabile perché pensare che per un punto geometrico – che non ha estensione – passino due rette parallele a una retta data è assurdo. Assurdo, forse, no: le geometrie non euclidee non hanno messo in discussione ciò che è apparso “evidente” per circa due millenni? Ma qui non possiamo cimentarci con tali geometrie: volano troppo alto per i non addetti ai lavori come noi. Hai ragione, anche perché Cartesio, filosofo-matematico francese del ‘600 (il suo nome è Descartes), ha di fronte soltanto la geometria di Euclide: è questa che incarna, secondo lui, il modello metodologico del sapere. Il metodo deduttivo. La filosofia in cerca di un metodo Sì. È questo il metodo che, sulla base di proposizioni evidenti, giunge a conclusioni necessarie e, di conseguenza, condivise. Conclusioni a cui non arriva la filosofia perché questa non ha alcun metodo. Non a caso questa è il regno dell’anarchia. Non è proprio così perché – come abbiamo notato più volte – nella storia della filosofia si registra sì, tra un filosofo e un altro, una discontinuità, ma anche una continuità. Lo stiamo verificando in questo momento a proposito del ruolo della matematica. Ma dove trovare in filosofia le proposizioni chiare e distinte? Descartes ci sfida invitandoci a mettere in discussione tutto. Una provocazione? Sì, una provocazione più radicale di quella di Socrate: si tratta del cosiddetto “dubbio metodologico”, del dubbio cioè inteso come metodo. Un dubbio distruttivo. No: Cartesio, grazie al metodo del dubbio, si propone proprio l’obiettivo opposto, quello di giungere a delle proposizioni assolutamente indubitabili. Seguiamolo in questo percorso. Iniziamo a mettere in discussione i sensi: questi, infatti, ci ingannano. Alludi al classico bastone spezzato nell’acqua? Anche. Noi sappiamo che la percezione del bastone spezzato non corrisponde alla realtà. Ma fenomeni come questo non sono rarissimi: vediamo più grande la luna quando è bassa all’orizzonte; ci capita d’estate, quando ci muoviamo in automobile, di vedere in lontananza dell’acqua sull’asfalto, acqua di cui poi verifichiamo l’inesistenza. La conseguenza è chiara: non possiamo utilizzare i sensi come il criterio per giungere a proposizioni evidenti. Ma non si possono generalizzare dei casi-limite. Io ho davanti un libro: come potrei dubitare della sua esistenza? Sei proprio sicuro che il libro che vedi esista anche al di fuori del vedere? Ma io lo tocco: non è questa una prova che esiste a prescindere dai miei occhi? Lo tocchi, è vero, ma il toccare è sempre una sensazione: non puoi avere la certezza che il libro esista al di là della percezione sensoriale. Questo vale per qualsiasi cosa: non sei per nulla certo che il suono che percepisci col tuo apparato uditivo esista al di là della percezione uditiva. Ti ricordi gli atomisti? Sostenevano che il suono è solo una qualità “soggettiva”, che i suoni cioè non appartengono al mondo della natura. Così anche i colori, i sapori, gli odori. Prova a pensare al solletico: non ti sembra ridicolo attribuirlo, ad esempio, alla piuma? Un conto, però, è il mondo variopinto, ricco di suoni, di profumi che io percepisco con i sensi e un conto il mondo reale, il mondo cioè di quelle qualità che gli atomisti chiamavano “oggettive”. Siamo tutti convinti che esista il mondo reale, ma in questo momento stiamo applicando il metodo del dubbio perché intendiamo giungere a qualcosa di assolutamente incontrovertibile: non possiamo dunque permetterci di prendere per attendibili le nostre convinzioni. Il nostro unico criterio è l’evidenza. Un gioco che rasenta la follia Ma quel muro esiste: prova a sferrargli un calcio e vedrai. Saremmo sempre all’interno delle percezioni sensoriali. Ma sulla luna l’uomo c’è stato. In questa fase non puoi dare per certo che gli uomini esistano: vale per gli uomini ciò che vale per questo libro, per quel muro, per le stelle. Neppure il mio corpo è certo? Come potrebbe esserlo? Il mio corpo lo percepisco, ma non posso essere certo che esso esista al di là della mia percezione. Mi pare questo un gioco che rasenta la follia: come potrei dubitare dell’esistenza dei miei sensi se è attraverso di essi che percepisco quello che percepisco? Se non stai al gioco, non hai alcuna speranza di arrivare a qualcosa di “roccioso”, di totalmente indubitabile. Ciò che percepiamo potrebbe benissimo essere una serie di immagini come quelle che ci appaiono in sogno. Ma nei sogni le immagini sono spesso incoerenti tra loro, mentre quelle che riguardano il nostro mondo quotidiano che percepiamo da svegli hanno – eccome! – una loro coerenza e una loro stabilità. Nel sogno le immagini sono il prodotto della fantasia, mentre quelle che percepiamo da svegli hanno tutta l’aria di provenire dal mondo reale. Le differenze, certo, ci sono, ma non puoi escludere categoricamente che il mondo che ci appare sia una sorta di mondo onirico. Siamo sempre sull’orlo della pazzia. Ma si tratta di una pazzia… benefica. È grazie a questa finzione che noi possiamo dire qualcosa di assolutamente certo. Che cosa? Che questo libro, quel muro, la luna, le stelle appaiono: di questo non abbiamo alcun dubbio. Il dubbio, quindi, riguarda solo la loro esistenza al di là del percepire. Infatti, ma è certa l’immagine di questo libro, come è certa l’immagine che mi appare nel sogno. Ma perché parli di “immagine” riferendoti a questo libro? Perché noi non percepiamo le “cose”, ma solo le “immagini” delle cose. Ma se dici così, dai per scontato che le cose, di cui le immagini sono rappresentazioni, esistono. Hai ragione: non sapendo che le cose esistono al di fuori dell’orizzonte del percepire, dovrei solo parlare di “immagini”. Si tratta, nel linguaggio cartesiano, di “idee” o, meglio ancora, di “idee avventizie”, idee cioè che riteniamo provengano da fuori di noi. Il fondamento roccioso Non mi è ancora chiara, però, la conclusione: dove sarebbe la roccia su cui costruire la casa del sapere? La tua metafora è corretta: si tratta proprio delle fondamenta del sapere. Ma è tutto qui? Ciò che è certo è solo che mi “appare” questo mondo di immagini? Sì, siamo in presenza di un qualcosa che non può essere oggetto di dubbio. Anzi, è esso stesso che consente il dubbio metodico: come potrei dubitare dell’esistenza esterna del sole se il sole non apparisse? Se non apparisse l’immagine del sole. Vedo che hai un linguaggio più rigoroso del mio. Si tratta di un mondo – quello delle immagini che appaiono – che non potrebbe essere messo in discussione neppure nell’ipotesi di uno scienziato pazzo che si divertisse a stimolare nel mio cervello le più diverse esperienze sensoriali (creando in me anche l’illusione di compiere delle azioni): saremmo sempre di fronte a delle immagini, percezioni, in altre parole “esperienze” non passibili di dubbio. La conclusione, allora? Posso dubitare di tutto, ma non posso dubitare che io che dubito esista. Si tratta di una formula che probabilmente hai già sentito: “cogito, ergo sum”, vale a dire “penso, dunque esisto”. Ma che cosa sarebbe questo “pensiero”? Non ne abbiamo mai parlato. Descartes usa il termine “pensare” per riferirsi a tutto ciò che è “presente”, a ciò che “appare”: immagini sensoriali, immagini oniriche… In altre parole secondo lui “pensare” è sinonimo di “percepire”. Di conseguenza “penso, dunque esisto” vuol dire semplicemente “percepisco, dunque esisto”. Ma “cogito” nel nostro percorso non significa anche “dubito”? Mi pare che il nostro faccia una grande confusione! Mettere in dubbio tutto non è un’attività del pensare? Ma anche con tale precisazione la confusione rimane: da un lato il cogito significa “avere presente”, “apparire”, dall’altra è considerato come un’attività. “Cogito” significa percepire, dubitare, pensare, immaginare, sognare, tutto ciò che ha a che vedere con qualcosa che “appare”. E l’io? Non è un presupposto? Se consideriamo per “io” il mio corpo, non ho alcuna certezza della sua esistenza al di fuori del pensiero. L’io si riduce ai miei sentimenti, alle mie emozioni, ai miei ricordi…? Ma questi sono degli oggetti del pensiero, non il loro soggetto! Non hai torto: saranno dei pensatori inglesi che sottolineeranno questi limiti di Cartesio. Vedo che il gioco ti prende a tal punto da procedere oltre lo stesso filosofo francese. Se questi fosse stato coerente fino in fondo, avrebbe dovuto concludere: il mondo del pensiero esiste e basta. Ma anche con questa correzione un dato è certo: abbiamo trovato, proprio grazie al dubbio metodico, una quid di certissimo, assolutamente indubitabile. È questo il fondamento roccioso della conoscenza: posso dubitare dell’esistenza del mondo reale, dello stesso mio corpo, ma non posso dubitare che io (che dubito della corrispondenza esterna di ciò che appare) esista. Un dubbio inquietante Mi pare che ci troviamo di fronte a ben poca cosa. Ma se allarghi l’orizzonte, scivoli in ciò che è dubitabile: meglio poco, ma certo, che molto e incerto. Cartesio - l’abbiamo puntualizzato - utilizza il criterio dell’“evidenza”: la percezione di questa penna è evidente, ma non è altrettanto evidente l’esistenza della penna al di là del pensiero. Evidente è anche “2+3=5”. Ma… se noi in matematica fossimo ingannati a percepire come evidente ciò che evidente non è? È l’ipotesi che fa lo stesso Descartes: non si può escludere - afferma - l’esistenza di un dio (un genio) maligno che si diverta a farci percepire come evidente ciò che non è per nulla evidente. Allora continuiamo a rimanere nel dubbio? Cartesio è chiaro: quand’anche io fossi ingannato, sarebbe comunque certo che io, proprio perché sono ingannato, esisto. Ma il filosofo francese così non fonda l’evidenza delle proposizioni matematiche. Non ora. Vedrai che egli in un secondo momento ci proverà. La certezza del “cogito”, comunque, è la pietra miliare. Di che natura è questo cogito? Il nostro così conclude: “cogito, ergo sum… res cogitans”, io che dubito (penso) sono cioè qualcosa che pensa. Una gabbia dorata Ma ritorno sulla domanda: che natura ha questa “cosa che pensa”? Considerato che nel pensiero non vi è nulla di materiale (che esista qualcosa di corporeo – lo sappiamo – è oggetto di dubbio), la natura del pensare non può che essere immateriale. Ma questa non è una conseguenza necessaria: perché il pensare non potrebbe essere un’attività del nostro cervello? Ma io in questa fase della ricerca non so se il mio cervello esista: come potrei dirlo se non so di avere un corpo? Non potrei neppure dire di avere il pensiero. Infatti: Cartesio precisa che l’io che pensa “è” una sostanza pensante. Cade quindi la definizione tradizionale dell’uomo come “animale che pensa”. Certo che cade. Ma cade solo – lo ripeto – a questo livello della ricerca. Non è escluso che in una fase successiva si possa recuperare il nesso che vi è tra il “corpo” e il “pensiero”. Ma se si parte dal pensiero, ci si chiude in una gabbia da cui è impossibile uscire: come si potrebbe uscire dal pensiero se non pensando? Eppure Descartes prova ad uscire e ci prova adottando il metodo della geometria: posto come fondamento il “cogito, ergo sum”, egli altro non fa che “dedurre” da esso ciò che è rigorosamente deducibile, così come nella geometria euclidea i teoremi vengono dedotti dai postulati, vale a dire da proposizioni chiare e distinte. Non vedo proprio come Cartesio possa dedurre qualcosa che non sia pensiero. Proviamo a seguire il suo tentativo. Quali sono i contenuti indubitabili (gli oggetti) di quell’orizzonte che è il pensiero? Sono le immagini del bastone spezzato, di questo libro, di quel muro, della luna… Si tratta – riprendo il linguaggio cartesiano, di “idee”. Le idee però che sono oggetto del pensiero non sono tutte uguali: ve ne sono che a noi sembrano provenire dall’esterno del pensiero (le idee cosiddette “avventizie”); altre che ci sembrano essere il frutto della nostra fantasia (l’idea di ippogrifo, ad esempio); vi sono infine idee che non paiono né provenire dal di fuori né essere una nostra creazione. Spero che il filosofo francese non torni all’innatismo di Platone. In qualche misura, sì. Il quadro è diverso, ma anche secondo Cartesio nel pensiero vi sono delle idee innate. Quali sarebbero queste idee? L’idea di Dio, ad esempio. Innata l’idea di Dio? Come si spiegherebbero, allora, gli atei? Secondo Descartes noi abbiamo l’idea di una sostanza infinita, onnipotente, onnisciente, perfetta, creatrice. Non si tratta di un’idea che ci sembra derivare dall’esterno, né un’idea che avremmo potuto costruire noi. E perché mai? Perché l’idea di Dio non potrebbe essere una costruzione concettuale umana? La fine di un incubo Proprio perché noi siamo imperfetti - egli scrive -, non possiamo avere creato l’idea di un Essere perfetto. Perché dovremmo essere imperfetti se i contenuti del cogito vanno considerati come il Tutto? Ci sentiamo imperfetti perché dubitiamo: come potrebbe essere il dubbio una caratteristica della perfezione? A questo punto Cartesio non fa che applicare dei principi della filosofia classica e medievale. Ma in questo modo esce dal pensiero. Per nulla. Il principio di non contraddizione ci appare come evidente. Così il principio secondo cui “dal niente non può derivare alcunché”. E così pure il principio secondo cui “ciò che contiene maggior realtà non può essere effetto di ciò che contiene minor realtà”. Sarebbero tutte, quindi, idee chiare e distinte. Certo. Ma si tratta pur sempre di idee: come è pensabile applicarle all’idea della sostanza perfettissima al fine di dedurne l’esistenza reale? Cartesio ritiene assurdo che “ciò che contiene maggior realtà” (Dio, l’Essere perfettissimo) sia “effetto di ciò che contiene minor realtà” (il mio io dubitante). Si tratta dell’unica via che ha a disposizione per uscire dal cerchio del pensiero e dimostrare che vi è una realtà esterna. Vale a dire Dio. Sì: è la stessa idea di Essere perfettissimo che implica l’esistenza di tale Essere perché se non esistesse, gli mancherebbe una perfezione che è l’esistenza. È lo stesso nesso che vi è tra la definizione di triangolo e la somma dei suoi angoli interni che equivale sempre a un angolo piatto: un nesso necessario. Cartesio non fa altro che riprendere la cosiddetta prova ontologica di Anselmo. In qualche misura sì. In questo modo rompe le pareti di quella gabbia privilegiata che è il pensiero. Ma Dio è una realtà che ha la stessa natura del pensiero: una realtà immateriale. Si tratta però di una realtà esterna al cogito. E poi Dio nella “deduzione” cartesiana gioca un ruolo centrale. Proprio perché è certo che Dio esiste e che Dio è l’essere perfettissimo, viene negata l’ipotesi di un Dio (genio) ingannatore: ciò che appare chiaro e distinto (ad esempio le proposizioni matematiche), è così perché non esiste un Dio che ci inganna. Ma l’esistenza del mondo non è un’idea chiara e distinta. È vero, ma noi tutti abbiamo l’inclinazione a credere che alle idee avventizie corrisponda un mondo reale. Ora, se tale mondo non esistesse, noi saremmo ingannati. Il mondo materiale, quindi, deve esistere. Ma questo mondo non è dedotto, come è dedotta l’esistenza di Dio dall’idea di Dio. Hai colto bene: non si tratta di un nesso necessario come necessari sono i nessi che troviamo nella geometria. Quello che possiamo dire è solo questo: se l’universo fisico non esistesse, noi saremmo ingannati da Dio, ma Dio, in quanto Essere perfettissimo, non può ingannarci. Ho la netta sensazione che il ruolo che Descartes affida a Dio è radicalmente diverso rispetto a quello assegnatogli dalla tradizione. Dio, infatti, non è la soluzione dell’enigma-mondo, ma il garante della nostra convinzione che il mondo reale esiste. E non solo: Dio è il garante della stessa evidenza. Ma in questo modo quello di Cartesio è un circolo vizioso. È proprio questa la critica che gli viene mossa nel suo tempo da Gassendi e Hobbes: Cartesio dimostra l’esistenza di Dio partendo dall’evidenza dell’idea di Dio e poi utilizza Dio come il garante di tale evidenza. “Crepe” Il sistema cartesiano, dunque, ha ben poco a che vedere con la solidità della geometria euclidea. Qualche crepa non manca, ma noi dobbiamo vedere l’impresa nel suo insieme: non puoi negare l’istanza di fondo, quella cioè di dare un metodo rigoroso alla filosofia. Un’istanza legittima, certo, ma poi è il filosofo francese stesso che non è all’altezza del compito che si è assunto. Una cosa è certa: nessun filosofo aveva mai formulato un dubbio così radicale. Ti riferisci al fatto che ha messo in discussione la stessa evidenza. Certo, giungendo, quindi, a mettere in dubbio le stesse fondamenta delle scienze matematiche. Un’impresa audace, ma il suo “cogito, ergo sum” è di sicuro meno roccioso dei postulati di Euclide. Sarà meno roccioso, ma è tutt’altro che fragile: quand’anche fossimo ingannati, non potremmo negare che noi che siamo ingannati, esistiamo! Cartesio, però, si limita a recuperare il “si fallor, sum” di Agostino. Non vi è dubbio che tra Agostino e Cartesio, su questo punto, vi sia una profonda sintonia e che ambedue puntino a confutare lo scetticismo, ma in Agostino non troviamo per nulla il percorso metodologico di Descartes e non troviamo il dubbio radicale con cui il filosofo francese mette in discussione la stessa evidenza. Incoerente, comunque, è la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio. Cartesio non si sente per nulla imbarazzato di fronte all’accusa di essere caduto in un circolo vizioso: secondo lui Dio non è il garante dell’evidenza (l’evidenza si fonda da sé), ma il garante della permanenza delle verità matematiche e dei principi logici anche quando non sono percepiti. Ma è tutto il sistema che non regge. Il “cogito, ergo sum” fa saltare in aria la corporeità dell’uomo facendo di questi un angelo. È indubbio che l’immagine tradizionale di uomo venga demolita perché ciò di cui si ha la certezza, nella fase del dubbio metodico, è solo il pensiero. Ma anche dopo la dimostrazione sui generis dell’esistenza dei corpi, l’uomo rimane uno spirito: il nesso tra corpo e pensiero, infatti, è tutt’altro che evidente. Il “mind-body problem” È vero. Con Cartesio esplode quello che verrà chiamato il “mind-body problem” che impegnerà a lungo le migliori intelligenze dell’Europa: la cosiddetta “res cogitans” (sostanza pensante), infatti, è del tutto eterogenea rispetto alla “res extensa” (sostanza fisica). Si tratta, quindi, di due realtà incomunicabili: né il corpo può comunicare col pensiero, né viceversa. Esatto. Come possono comunicare tra loro il pensiero che per sua natura è indivisibile (non si può certo tagliare in due il pensiero!) e la materia che, in quanto “res extensa”, è divisibile? Come possono comunicare tra loro il pensiero che è consapevole di sé e la materia che, viceversa, è inconsapevole? Come possono infine comunicare tra loro il pensiero che, in quanto spirito, è libero, e la materia che, in quanto tale, è soggetta al determinismo delle leggi della natura? Ma questo rigido dualismo è clamorosamente smentito dall’esperienza: quando io decido (la decisione non può che appartenere alla “res cogitans”) di muovere il braccio, questo si muove! Un’interazione tra mente e corpo sembra proprio che ci sia, ma il problema è questo: come può avvenire se siamo in presenza di due realtà che sono per loro natura tra loro incomunicabili? È proprio questo l’errore di Descartes: una volta ha separato la mente dal corpo e viceversa, egli non può pretendere di trovare un canale di comunicazione tra i due. Ma la separazione non è una scelta arbitraria: è la conclusione di un percorso che ha messo in discussione tutto. Il dualismo cartesiano, quindi, non è un “presupposto”. Va bene, ma qualche buco ci deve essere nel sistema cartesiano se egli non riesce a spiegare la comunicazione nell’uomo tra mente e corpo. A dire il vero, egli un’ipotesi la formula: il punto di contatto tra il corpo e la mente è la ghiandola pineale (ipofisi) che si trova alla base del cervello: sono gli “spiriti animali”, secondo Cartesio, ad essere in grado di trasmettere gli stimoli provenienti dai sensi all’ipofisi e viceversa dall’ipofisi ai sensi. Ma questa è un’arrampicata sugli specchi: o gli “spiriti” animali fanno parte del corpo o fanno parte dello spirito. Da un dualismo così netto come lo presenta Cartesio, certamente, non si può dedurre una terza via. L’approccio del filosofo francese è di tipo biologico: la ghiandola pineale è individuata come canale di connessione per la sua originalità, per il fatto cioè che è l’unica parte del cervello che non è doppia e, di conseguenza, secondo lui, l’unica parte che può svolgere la funzione di collegare le sensazioni che provengono dai sensi che sono tutti doppi. Sarà pure, quello cartesiano, un approccio biologico, ma filosoficamente fa acqua. Se si vuole evitare la trappola del filosofo francese non vedo una terza soluzione: o l’uomo è in toto corpo o è in toto spirito. Si tratta di soluzioni radicali a cui qualche filosofo giungerà: ne parleremo. La stessa concezione cartesiana della materia è troppo astratta per essere adeguata: come si può ridurla a pura estensione? Contro gli “atomi” e il “vuoto” Cartesio, è vero, concepisce la materia come spazio geometrico. Ma un corpo occupa uno spazio, non è uno spazio! Un corpo, poi, ha una sua individualità che lo caratterizza e lo distingue dagli altri corpi! È vero, ma la stessa figura altro non è che una modalità di estensione. Così tutte le proprietà oggettive dei corpi quali la solidità, la grandezza, l’impenetrabilità. Ecco perché il filosofo francese prende le distanze dall’atomismo: la materia, in quanto spazio, non può che essere divisibile all’infinito. In questo modo Cartesio torna al paradosso di Zenone per risolvere il quale gli atomisti hanno introdotto il concetto di atomo. Egli non fa che portare alle estreme conseguenze l’operazione già iniziata da Democrito e poi sviluppata dalla scienza, quella cioè di liberare la materia da tutto ciò che è “soggettivo”: se tu togli tutto ciò che ha a che vedere con i sensi, alla fine non puoi non ridurre la materia a estensione. Ma Galileo non è arrivato a tanto: secondo lui il peso è una proprietà intrinseca dei corpi. È vero, ma, come sai, l’intuizione di Cartesio sarà confermata da Newton: il peso non è per nulla una proprietà dei corpi. Il filosofo francese pensa ai corpi come sono nel momento dell’atto creativo di Dio, cioè del tutto liberi dalle qualità sensibili. Se noi dovessimo togliere ai corpi anche l’estensione, di questi non rimarrebbe nulla. Una volta Cartesio ha rifiutato l’idea di atomo, non può che rifiutare, di conseguenza, anche l’idea di vuoto. È così: proprio perché lo spazio euclideo è continuo, non può avere dei buchi, dei vuoti. Ma un bicchiere quando è vuoto è vuoto! Non è così: sarà vuoto di acqua, di vino, ma non si può considerare del tutto vuoto perché è pieno di aria. Ma se non ci fosse il vuoto, non ci sarebbe neppure il movimento nel mondo, movimento che invece è sotto gli occhi di tutti. Descartes nega che senza il vuoto sia impossibile il movimento: i pesci nuotano - eccome! - nell’acqua. Sì, ma non vedo come il filosofo francese possa dedurre il movimento dalla materia se questa è concepita in modo statico come puro spazio. Infatti Cartesio non deduce il movimento dalla materia. Da dove viene allora tale movimento? Solo lo spirito è dinamico e, quindi, il movimento non può che derivare dallo spirito. Non può certo derivare dalla “res cogitans”. Infatti: Cartesio lo fa derivare da Dio. Ma questa è tutt’altro che una soluzione scientifica. Il principio di inerzia Il nostro concepisce la fisica come strutturalmente fondata sulla metafisica: è Dio il garante dell’esistenza di quel mondo reale (spogliato dalle sue qualità sensibili) che è oggetto della scienza. Siamo lontanissimi dalla nostra concezione “laica” della scienza. Certamente, ma noi dobbiamo fare uno sforzo per immergerci nella cultura del tempo. Non dimentichiamo, tra l’altro, che Descartes si è formato in un collegio dei Gesuiti. Riprendiamo il discorso. L’universo fisico, al di là delle nostre percezioni sensibili, è estensione, vale a dire spazio geometrico e, in quanto tale, è infinito. Mi pare un passo avanti rispetto a Bruno che giunge ad affermare l’infinità dell’universo ricorrendo a una dimostrazione di carattere teologico. È vero. È in questo contesto che Cartesio introduce il principio di inerzia. Si tratta di un principio già intuito da Galileo. Sì, ma è Cartesio che lo formula come legge fondamentale del moto. Questo perché, a differenza del fondatore del metodo scientifico, non solo geometrizza i corpi, togliendo loro anche la caratteristica del “peso”, ma concepisce l’universo come infinito: ecco perché i corpi possono muoversi all’infinito senza cadere. Oltre al principio di inerzia il filosofo francese introduce il principio della conservazione della quantità complessiva del moto: quando un corpo in movimento ne incontra un altro, non perde nulla del suo movimento se non la direzione. Da dove deriverebbe questa quantità complessiva di moto? È la quantità originaria che Dio ha assegnato alla materia, quantità che si distribuisce tra i corpi mediante gli “urti”. Descartes, dunque, rifiuta l’idea di “forza” di cui parla Newton. È così: in sintonia con Galileo, rifiuta l’idea di un’azione a distanza, di una forza quindi attrattiva. Ma in questo modo come può spiegare il moto dei pianeti che rettilineo non è? Non lo può spiegare o, meglio, lo spiega con una teoria che a noi appare fantasiosa: la teoria dei vortici. Cioè? Proprio perché il vuoto non esiste, un corpo che si muove in quella materia sottile che è l’aria da una parte spinge detta aria, dall’altra l’aria stessa scivola dietro la scia e forma un vortice. Tra i vortici uno è il sistema solare, un altro ha come oggetto Giove e i suoi satelliti. È una teoria campata per aria. Ma lo possiamo dire noi che abbiamo alle spalle secoli di scienza. Senz’anima La visione dell’universo cartesiano è di tipo meccanicistico: non ci sono forze, ma tutti i corpi si muovono grazie a “urti” esercitati da altri corpi. E questo vale anche per gli animali che altro non sono che macchine, automi. Cartesio cade in quell’errore che oggi viene chiamato “riduzionismo”: egli riduce la complessità di un vivente come un animale alle sue componenti, vale a dire alle sue parti meccaniche. Tieni presente che tale discorso riguarda anche il corpo umano. Una ragione in più per rifiutarlo. Una cosa è certa: in questo modo il filosofo francese dà un contributo significativo alla scienza perché libera la biologia dalle “anime” aristoteliche. Non vi è nessuna “anima vegetativa”, come non vi è nessuna “anima sensitiva” perché tutto si riduce, in ultima analisi, a parti meccaniche. Cartesio giunge a tale dottrina spinto dalla scoperta della circolazione del sangue ad opera di Harvey: il principio di vita non è un’“anima”, ma una sorta di fuoco che dilata il sangue, provoca i movimenti del cuore e la conseguente circolazione del sangue. Una concezione meccanicistica all’interno della quale non vi è alcuno spazio per un intervento di Dio (Dio agisce solo nell’atto creativo), come non vi è alcuno spazio per qualsiasi forma di animismo. Non vi è spazio, dunque, neppure per dei fini. Descartes non esclude una finalità dell’universo (considerato che Dio l’ha creato, una finalità ci deve pur essere), ma si tratta di una finalità che non è accessibile all’uomo: questi deve limitarsi a cercare le cause efficienti. Quindi non possiamo neppure sapere se Dio abbia creato l’universo per l’uomo. Infatti. In sintonia, questo, col metodo scientifico elaborato da Galileo: la ricerca degli scopi esula dall’ambito della scienza. L’ostruzionismo di cattolici e protestanti Al di là di tanti limiti, dunque, i contributi di Cartesio alla formazione della scienza moderna sono indubbi: il principio di inerzia, il principio della conservazione della quantità complessiva del moto, l’esclusione dei fini dall’ambito della scienza, la non attribuzione ai corpi della proprietà del peso. Il principio della conservazione della quantità di movimento, però, sarà contestata: non è la quantità di movimento che viene conservata, ma l’energia cinetica (la massa per la velocità al quadrato). Anche la concezione laica del sapere - che si sviluppa nell’età moderna – con Cartesio viene rafforzata. Senz’altro. Egli si pone con autorevolezza sulla scia di chi vede l’autonomia della ragione. Un’autonomia fondata sul criterio dell’evidenza e sul metodo tipicamente deduttivo della geometria euclidea. Certo, un’autonomia su cui costruisce anche un ruolo nuovo di Dio (il Dio garante e il Dio che non opera nella natura con il suo disegno provvidenziale). Immagino che la sua filosofia sia vista, a quel tempo, con diffidenza da parte della Chiesa cattolica. Non solo da parte di cattolici, ma anche di protestanti: non è un caso che il cartesianesimo venga bandito prima dalle università di Utrecht e di Leida e poi da tutti gli Stati d’Olanda, come non è un caso che un decreto romano del 1663 ponga all’indice gli scritti di Descartes. Nel 1671, infine, toccherà alla Francia: con un’ordinanza regia di Luigi XIV del 1671 verrà vietato l’insegnamento della dottrina cartesiana nelle università. Le ragioni di questo ostracismo non mancano. Certamente. Un cartesiano (un certo Meyer), ad esempio, si propone di applicare alla teologia il dubbio metodico usato da Cartesio in filosofia, un metodo destinato a demolire l’intera teologia. Ma in questa filosofia vi sono pure aspetti che sia i cattolici che i protestanti avrebbero dovuto vedere come positivi: pensa alla separazione ben chiara dell’anima dal corpo. Una separazione che costituisce un argomento forte a favore dell’immortalità dell’anima. Vi sono quindi sia motivi che giustificano la diffidenza sia nuovi argomenti apologetici. Non mancano infatti intellettuali cattolici che accolgono la dottrina cartesiana. Ma vi è chi, nello stesso tempo, vede nella concezione geometrica dei corpi un pericolo per la fede: la dottrina della “transustanziazione” (relativa all’eucaristia), infatti, ha a che vedere con le categorie aristoteliche di sostanza e accidente. Vi è, inoltre, chi avverte un’altra forte preoccupazione: se si inizia a negare l’anima degli animali, prima o poi si finisce per negare anche l’anima dell’uomo! Tutte reazioni che dimostrano ancora di più l’audacia di Cartesio, il suo coraggio di mettere in discussione dottrine consolidate da secoli. Già. È questa la sua grandezza: l’avere aperto nuovi orizzonti, l’avere inaugurato strade nuove per la ricerca umana.