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L’autore di reati sessuali, tra criminalità e psicopatologia.
Modelli di trattamento
Sex offender, crime and psychopathology. Models of
treatment
Loretta Fallica1
Riassunto
L’autore di reato a sfondo sessuale è stato oggetto di attenzione sempre maggiore da
parte di studiosi di differenti discipline. La causa è da attribuirsi all’efferatezza del
crimine, nonché alle ripercussioni di natura psicologica, fisica e sociale che ha sulla
vittima. Tra le argomentazioni sull’eziologia della condotta spicca la dicotomia tra la
visione giuridica e quella psicologica Infatti, mentre la prima tende a considerare il reo
un criminale, ed il reato il frutto del libero arbitrio, la seconda considera la possibilità
di un deficit cognitivo, emotivo e comportamentale alla base dell’atto criminoso, con
una conseguente alterazione della capacità di intendere e di volere. Le differenze
concettuali alla base delle due discipline non permettono di pervenire ad una
conclusione valevole per entrambe, ma un punto di incontro si trova sulla modalità di
gestione degli autori di reato sessuale. Si riconosce, infatti, l’importanza di un percorso
trattamentale che agisca sulle possibili cause alla base del comportamento deviante.
Segue, dunque, una trattazione volta ad analizzare alcuni modelli di trattamento
elaborati nel panorama internazionale grazie alle numerose ricerche sul tema. In
conclusione, tutti appaiono tanto validi quanto criticabili su alcuni aspetti, per cui, alla
fine, l’approccio integrato si palesa come il migliore.
Parole chiave
Reato sessuale, psicopatologia, parafilie, trattamento psicologico, recidiva.
Abstract
The author of sexual offense has been the subject of increasing attention by scholars of
different disciplines. The reason being the brutality of the crime, as well as the
psychological, physical and social consequences that it has on the victim. Concerning
behavioral etiologies, a dichotomy between the juridical and the psychological concept
stands out. In fact, while the first tends to consider the offender as a criminal, and his
action the result of free will, the second considers the possibility of a cognitive,
emotional and behavioral deficit at the base of the criminal act, with consequent
alteration of the ability to intend and to wish. The conceptual differences at the base
of the two disciplines do not allow to reach a conclusion for both, but a meeting point is
found on the modality of management of the authors of such sexual crime. In fact, the
importance of a treatment modality acting on the possible causes at the base of deviant
behavior is explained. Therefore follows an analysis of some models of treatment
developed in the international community thanks to numerous searches on the topic. In
conclusion, all appear as criticizable on some aspects, for which, in the end, the
integrated approach manifests itself as the best.
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Keywords
Sex offence, psychopathology, paraphilia, psychological treatment, recidivism.
Introduzione
Il fenomeno della violenza sessuale ha assunto, negli ultimi decenni, una rilevanza
sempre maggiore a causa delle ripercussioni che si generano sia sul piano personale che
su quello sociale: tracce indelebili nella mente della vittima, anche quando lesioni o
ferite non permangono sul corpo.
Le molteplici ricerche in ambito neurobiologico, evolutivo, comportamentale e sociale
non sono riuscite, però, ad attribuire la causa di tale comportamento ad un unico fattore
eziologico. Invero, ci si chiede ancora se tale comportamento sia da imputarsi a
psicopatologia o, piuttosto, deve essere considerato un vero e proprio reato. Nel primo
caso, infatti, la condotta è riconducibile ad un’alterazione del funzionamento psichico
del soggetto, il quale agisce secondo dinamiche interne, al di fuori delle proprie capacità
di controllo comportamentale. Nel secondo caso, invece, l’azione posta in essere assume
la configurazione di un atto antigiuridico e volontario, frutto del libero arbitrio.
Le divergenze tra i due ambiti sono da attribuirsi alle diverse concezioni di base, sulle
quali le due discipline fondano i propri parametri di valutazione e risposta all’azione
criminosa. Sebbene sia la psicologia che il diritto si interessino all’essere umano, ed al
suo comportamento in particolare, le funzioni alle quali esse assolvono, descrittivoriabilitativa per la prima e prescrittivo-sanzionatoria per la seconda, causano quegli
inevitabili conflitti che rispecchiano la complessità umana.
Ne consegue, dunque, che la scienza psicologica, considerando la violenza sessuale
quale comportamento deviante, compiuto da un soggetto incapace di comprenderne
appieno cause e conseguenze, ha cercato di mettere a punto dei programmi di
trattamento specifici per gli autori di questa tipologia di reato, nel tentativo di
modificare quei modelli operativi interni disfunzionali considerati i precursori dell’atto
criminoso. Sull’altro fronte, i sistemi legislativi di molti Stati hanno approvato delle
norme sanzionatorie per questi crimini, con l’obiettivo di ridurne il numero e, al
contempo, aumentare la sensazione comune di protezione e salvaguardia della propria
incolumità.
Rimane, dunque, ancora aperta la diatriba scientifica, mentre la cronaca si nutre di
episodi delittuosi di questo genere, inondando televisioni e giornali con foto di vittime e
Sex Offenders (SO): questo è l’appellativo per coloro che sono accusati e/o condannati
per reati a sfondo sessuale contro qualsiasi essere umano, si tratti di uomini, donne o
bambini.
Il reato
Il termine reato indica un atto o comportamento antigiuridico, libero e volontario, che
infrange una norma di legge e, per questo, prevede l’applicazione di una sanzione
penale. La condotta, dunque, affinché assuma la connotazione di illecito, non deve
solamente essere contraria alla Legge, ma presuppone che il soggetto sia in possesso dei
requisiti psicologici tali da lasciar presumere che sussista l’intenzionalità nel
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compimento dell’atto, nonché la consapevolezza del danno che potrebbe scaturire dal
proprio comportamento. Si evince da ciò che solo le persone fisiche, quali soggetti attivi
nel compimento di reati, posso andare incontro a sanzione, sebbene la pena prevista
possa subire variazioni nella sua applicabilità, in relazione alle condizioni psico-fisiche
del reo.
In merito ai reati a sfondo sessuale, l’excursus legislativo italiano si è sviluppato più
lentamente rispetto a quello degli altri Paesi.
Volendo risalire agli anni in cui il reato sessuale cominciava a connotarsi quale crimine
giuridico, è utile ricordare che nel XVIII° secolo la violenza sessuale era associata a
qualunque atto di tale natura che non avesse la procreazione come fine ultimo. Nel
frattempo, si accendevano i primi dibattiti che mettevano in discussione la visione della
donna quale soggetto destinato alla procreazione. Si arriva, così, nel secolo successivo,
a riconoscere la violenza sessuale come un fatto degno di attenzione giuridica.
Lungi dalla concezione di preservare l’individuo, e la donna nello specifico, quale
portatore del diritto dell’inviolabilità del proprio corpo, il codice Zanardelli, in vigore
dal gennaio 1890, focalizza l’attenzione sulla ripercussione sociale che l’abuso sessuale
determina. Il reato, infatti, viene inserito nel titolo VIII, recante la dicitura “Dei delitti
contro il buon costume e l’ordine delle famiglie”, ad indicare che l’oggetto del diritto è
la pubblica opinione, secondo quelle leggi etiche e morali di stampo patriarcale che, per
anni, sono state alla base dei rapporti tra le famiglie e tra quest’ultime e la società intera.
Più precisamente, l’art. 331 condannava “chiunque con violenza o minaccia avesse
costretto una persona dell’uno o dell’altro sesso a congiunzione carnale”, mentre l’art.
333 puniva “chi con violenza e minaccia avesse commesso su una persona dell’uno o
dell’altro sesso atti di libidine non diretti a commettere il delitto di violenza carnale”.
Oltre che distinguere le due fattispecie, ovvero gli atti sessuali di violenza carnale da
quelli libidinosi, il codice si esprimeva anche per i casi in cui la vittima si trovasse in
condizioni psico-fisiche alterate, considerando ugualmente reato l’atto sessuale posto in
essere anche senza violenza o minaccia.
Il codice Rocco, in vigore dal 1931, segna l’inizio di un mutamento nel modo di
percepire il reato sessuale, riconoscendo l’autodeterminazione sessuale soggettiva. Per
tale motivo, la normativa citata disciplina i crimini sessuali nel Capo I del Titolo IX
sotto la dicitura “Delitti contro la libertà sessuale”. Qui, gli articoli dal 509 al 526
disciplinano i reati enunciati nel codice Zanardelli, ma anche gli atti di libidine violenti,
il ratto a fine di libidine o di matrimonio e la seduzione con promessa di matrimonio.
La svolta è segnata dell’approvazione della legge n. 66/96, avvenuta a seguito di un
lungo scontro tra diverse idee di violenza sessuale. Di fondamentale importanza si rivela
il trasferimento dei crimini sessuali dalla sezione “Dei delitti contro il buon costume e
l’ordine delle famiglie” (Titolo IX) a quella “Dei delitti contro la persona” (Titolo XII).
E’ questo il momento in cui, almeno sul piano normativo, si modifica l’oggettività
giuridica dei reati di abuso sessuale; dapprima a salvaguardia della morale, la legge si
evolve a favore della persona, della sua libertà, nonché della capacità e possibilità di
autodeterminarsi, nello specifico, nell’ambito della propria sessualità. Oltre a quanto
detto, si deve alla norma succitata l’unificazione dei due reati preesistenti di violenza
carnale ed atti di libidine sotto un’unica categoria, titolata “violenza sessuale”.
Attraverso l’introduzione degli articoli 609-bis e seguenti, il legislatore mira alla tutela e
protezione della vittima. In quest’ottica, viene posta particolare attenzione ai crimini
sessuali che interessano i minori, abusati ed abusanti, sebbene sia necessario attendere
l’approvazione della legge n. 269/98 perché la normativa italiana possa considerarsi al
pari di quella internazionale in materia di tutela dei fanciulli contro ogni forma di
sfruttamento e violenza sessuale.
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Ulteriori regolamenti sono stati approvati di recente, sia per sanzionare le nuove
tipologie di violenza sessuale sviluppatesi attraverso l’uso dei sistemi informatici, ancor
più in risposta alla crescente attenzione dei media al fenomeno ed alla sensazione di
insicurezza sociale che ne è scaturita. Si fa riferimento, in particolare, alla Convezione
di Lanzarote, ratificata in Italia nel 2012, che disciplina lo sfruttamento e l’abuso
sessuale verso i minori; alla Legge n. 25/2008 recante “Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica”, ed a quella n. 38/2009 recante “Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori”; ed infine, alla Legge 94/2009 recante “Disposizioni in materia di sicurezza
pubblica”. Le normative succitate sono parte del c.d. “Pacchetto di sicurezza”
contenente disposizioni di carattere eterogeneo. In particolare, per quanto concerne i
reati sessuali, i nuovi ordinamenti dispongono l’impossibilità di concedere i domiciliari,
l’arresto obbligatorio in flagranza di reato, la limitazione dei benefici penitenziari e
l’ergastolo nel caso in cui al reato di violenza sessuale si aggiunga quello di omicidio. A
tutela delle vittime viene stabilito che lo Stato deve, in ogni caso, farsi carico delle spese
per la loro assistenza. Inoltre, prescrive una reclusione da sei a dodici anni allorquando
la violenza sessuale sia stata perpetrata all’interno o nelle immediate vicinanze
dell’istituto scolastico frequentato dalla vittima. Infine, di particolare importanza è
l’introduzione delle misure di prevenzione di quel fenomeno conosciuto come
“stalking”, ovvero viene sanzionato l’individuo che minaccia o molesta, in maniera
ripetitiva, la sua vittima, tanto da crearle un perdurante e grave stato d’ansia o di paura,
oppure da temere per la propria incolumità o quella di qualcuno vicino a sé, o ancora,
tale da provocare un cambiamento non desiderato delle proprie abitudini.
In merito, poi, all’esecuzione della pena, anche per i reati a sfondo sessuale si fa
riferimento alla Legge n. 354/75, altresì conosciuta come Legge Gozzini. In conformità
all’ideale di giustizia ripartiva, alla quale il sistema sanzionatorio italiano propende, le
norme attinenti prevedono l’attuazione di un percorso trattamentale rieducativo, allo
scopo di facilitare il reinserimento sociale. Purtroppo, a causa di problematiche
differenti, non è sempre possibile avviare attività utili alla rieducazione e reintegrazione
del reo, quali un’osservazione scientifica costante, corsi professionalizzanti ed iniziative
culturali, religiose, ricreative e sportive. In aggiunta alle difficoltà esistenti in seno alla
gestione degli istituti penitenziari, “l’isolamento” dei sex offenders in sezioni protette
rende la gestione di questi soggetti maggiormente problematica. Tale collocazione
risulta necessaria, dal momento che la subcultura carceraria giudica tali atti aberranti e,
non di rado, si è assistito a comportamenti discriminatori, spesso violenti, da parte dei
c.d. detenuti “comuni”.
Devianze del comportamento sessuale
La linea di demarcazione tra un comportamento sessuale deviante ed uno considerato
normale è assai sottile, motivo per cui il sistema di classificazione internazionale dei
disturbi mentali si rivela, a volte, insufficiente ad inquadrare in modo definito una
perversione.
L’abuso sessuale non rientra tra le patologie contemplate nel Manuale Diagnostico e
Statistico dei Disturbi Mentali, ormai giunto alla sua quinta edizione, a differenza della
pedofilia, considerata un disturbo. Ne consegue che il comportamento del sex offender
può essere inquadrato clinicamente se rientra tra i disturbi elencati nel capitolo Disturbi
parafilici della Sezione II del DSM-V. I disturbi riportati, ai quali sono stati attribuiti
determinati criteri diagnostici per la valutazione del comportamento indagato, non sono,
tuttavia, i soli individuati. Tra le tante condotte ritenute sessualmente devianti, sono
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state scelte quelle più comuni e che, spesso, sono punite legalmente, riservando la
possibilità di includere altri comportamenti parafilici all’interno della categoria dei
disturbi parafilici con altra specificazione o senza specificazione.
Lo stesso manuale definisce parafilia “qualsiasi intenso e persistente interesse sessuale
diverso dall’interesse sessuale per la stimolazione genitale o i preliminari sessuali con
partner umani fenotipicamente normali, fisicamente maturi e consenzienti” (APA,
2014). Il manuale diagnostico sopra citato riporta diverse tipologie di perversioni
sessuali, comportamenti ed impulsi, spesso violenti e/o umilianti, che possono
interessare tanto oggetti inanimati quanto sé stessi o altri, ivi compresi bambini
prepuberi e soggetti non consenzienti. Quest’ultimo è il caso della pedofilia, che
presume la manifestazione di eccitazione sessuale, che può sfociare in vere e proprie
attività sessuali, con fanciulli di età non superiore ai 13 anni. In particolare, è specificato
che non può essere diagnosticato un disturbo pedofilico laddove gli impulsi sessuali
siano egosintonici e non siano mai stati agiti; si parlerà, in questo caso, di interesse
sessuale pedofilico. Il pedofilo può focalizzarsi solo su bambini, maschi, femmine o di
entrambi i sessi (Tipo Esclusivo), o essere attratto anche da adulti (Tipo Non Esclusivo).
L’abusante può limitarsi a spogliare, osservare o farsi osservare dal minore, o preferire
il contatto con lo stesso mediante leggeri toccamenti, costringendolo a fellatio,
cunnilingus, o alla penetrazione. La violenza può, dunque, essere presente in misura
variabile nel soggetto pedofilo, al contrario del masochista e del sadico. In questi ultimi,
l’atto sessuale è caratterizzato dall’aggressività verso se stessi, nel primo caso, o verso
l’altro, nel secondo. Non di rado, la manifestazione delle fantasie masochiste e/o
sadiche ha portato a tragici epiloghi, sebbene la violenza non sia sempre di tipo fisico,
ma anche psichico, caratterizzata da minacce e umiliazioni. Può capitare che il sadico
metta in atto le sue perversioni con un soggetto consenziente, in genere masochista, e
viceversa, dando vita ad attività sessuali imperniate sulla violenza fisica.
Sul versante opposto, si possono, invece, collocare il voyeurismo e l’esibizionismo,
disturbi sessuali che non prevedono il contatto con la propria vittima. Questi due,
assieme al frotteurismo, costituiscono i c.d disturbi del corteggiamento, poiché
ricordano azioni tipiche del corteggiamento, sebbene poste in essere in maniera
anomala. Il voyeur è colui che si eccita sessualmente mediante l’osservazione furtiva di
soggetti, spesso nudi, non di rado impegnati in attività sessuali. La masturbazione può
essere contemporanea all’attività visiva, o seguire a quest’ultima, sempre veicolata dal
ricordo di quanto osservato. L’esibizionismo, invece, si caratterizza proprio per
l’esibizione dei propri genitali ad una o più persone a loro insaputa. L’eccitazione
dell’esibizionista è conseguenza della sensazione di sorpresa o di paura provocata
nell’altro, oppure dell’idea che lo spettatore possa eccitarsi alla vista dei genitali
mostrati. Il disturbo esibizionistico, inoltre, viene ulteriormente classificato in diversi
sottotipi, a seconda dell’età o della maturità fisica della/e vittima/e. Ultimo del
sottogruppo è il disturbo frotteuristico, che si caratterizza per l’eccitazione data dal
toccare o dallo strofinarsi con una persona non consenziente. Non di rado, il
comportamento in questione non è facilmente individuabile poiché perpetrato in
ambienti i cui spazi, ridotti, facilitano la vicinanza fisica dei soggetti (es. sale affollate e
mezzi pubblici).
Il Feticismo si caratterizza per l’attenzione sessuale verso un oggetto inanimato o una
parte specifica del corpo. Il “feticcio”, perlopiù consistente in capi d’abbigliamento
femminile, meno spesso quelli maschili, è fonte di estrema eccitazione, e può essere
utilizzato durante la masturbazione o insieme al partner, nel corso del rapporto sessuale.
Come detto, capita non di rado che il feticista erotizzi una parte del corpo, spesso piedi,
dita e capelli, motivo per cui la definizione del disturbo feticistico include adesso anche
il parzialismo. Il disturbo feticistico può presentarsi in associazione al disturbo da
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travestitismo, diagnosticato in coloro che provano eccitazione sessuale mediante il
cross-dressing, ovvero l’azione di indossare indumenti del sesso opposto. E’ degna di
nota la specificazione che viene indicata nel manuale, che attenziona la possibilità di
associare questo disturbo a quello del feticismo, o ancora se è presente una componente
autoginefilica. Quest’ultima, che designa la presenza di immagini o pensieri di sé come
donna, potrebbe indicare la presenza di una disforia di genere negli uomini con disturbo
da travestitismo. Troviamo, infine, le categorie di disturbo parafilico con altra
specificazione e quella del disturbo parafilico senza specificazione. La prima permette
di effettuare una diagnosi di disturbo parafilico laddove vi siano evidenti e chiari criteri
comportamento sessuale deviante che, però, non rientrano tra quelli elencati in altri
disturbi, e le cui motivazioni il clinico decide di rendere manifeste. Vi rientrano
parafilie quali la scatologia telefonica, dove l’eccitazione sessuale scaturisce da
telefonate oscene, la necrofilia, consistente nel piacere derivato dall’atto sessuale con
cadaveri, la zoofilia, ossia la preferenza per atti sessuali con animali, la coprofilia, ove il
piacere è dato dal contatto con escrementi, la clismafilia, nella quale il soggetto trae
eccitazione sessuale dall’inserimento nel retto di clisteri o altri oggetti, ed infine la
urofilia, dove la soddisfazione sessuale è legata al contatto con l’urina, propria o del
partner. Il disturbo parafilico senza specificazione non riporta, al contrario, le
motivazioni del clinico per cui ritiene di non poter iscrivere gli agiti osservati nelle altre
categorie esistenti.
Affinché si possa diagnosticare una parafilia, è necessario che il comportamento
sessuale deviante sia ricorrente e procuri disagio clinicamente significativo e/o
comprometta in maniera rilevante la sfera sociale, affettiva, lavorativa del soggetto
(Criterio B). Il disturbo, inoltre, deve manifestarsi per un periodo di almeno 6 mesi
(Criterio A).
A tal proposito, alcuni studiosi hanno messo in discussione i criteri sopracitati, in
quanto ritenuti di confusa interpretazione a fini diagnostici. In particolare, per ciò che
riguarda la pedofilia, il limite di età, ovvero 13 anni, pare sia opinabile, in quanto ci si
trova spesso di fronte a vittime aventi un’età maggiore di quella indicata, ma comunque
troppo giovani per esprimere un consenso cosciente. Infine, c’è chi discute la scelta di
ritenere non anomalo un rapporto tra un bambino ed un tardo-adolescente, anche alla
luce della possibilità che questi episodi evolvano nel tempo e nella gravità.
Trattamento psicologico
Le differenti concezioni del comportamento sessuale deviante sopra esposte, una
giuridico-criminale e l’altra psicologica, trovano un punto d’incontro allorquando
ritengono necessarie misure finalizzate al sostegno del sex offender. L’obiettivo è quello
di ridurre la recidiva, intesa come il compimento di un reato da parte di un soggetto
precedentemente condannato, e favorire una maggiore sicurezza sociale. Ciò sarebbe
possibile mediante l’attivazione di programmi di trattamento specifici, volti a
modificare quei pattern di comportamento devianti che sembrerebbero sottostare alla
reiterazione della condotta criminale. Diversi studi confermano un abbassamento dei
livelli di recidiva nei soggetti che abbiano aderito a percorsi terapeutici, anche grazie ad
un migliore reinserimento sociale alla fine delle detenzione. In alcuni Paesi, i soggetti
considerati sessualmente patologici, nonché più facili al rischio di recidiva, sono
sottoposti ad un trattamento psicoterapico sia durante che dopo la detenzione.
I successi dei programmi specifici per questi soggetti sono, oramai, ampiamente
condivisi dalla comunità scientifica, sebbene, in alcuni casi, è possibile che il
miglioramento del soggetto sia lieve o, addirittura, nullo. La causa è da ricercare in una
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molteplicità di fattori, non tutte controllabili dai supervisori clinici, come la presenza di
disturbi di varia entità, la negazione del reato, la mancanza di motivazione al
trattamento.
Il trattamento per questa tipologia di soggetti può essere di tipo farmacologico o
comportamentale, sebbene è consigliabile associare sempre alla prima un trattamento
psicoterapeutico. La teoria cognitivo-comportamentale sembra quella preferita, dati i
buoni risultati nella prevenzione della recidiva, sebbene anche gli approcci psicanalitici,
la terapia di gruppo e l’approccio strategico abbiano avuto un riscontro positivo.
Basandosi sulle teorie cognitive, comportamentali e sociali elaborate da diversi studiosi,
il trattamento cognitivo-comportamentale mira a ridurre la recidiva dei sex offenders
agendo sulle distorsioni cognitive, sugli atteggiamenti, e sull’autoregolamentazione
sessuale, affettiva, relazionale e cognitiva. Le distorsioni cognitive, ovvero pensieri,
idee, convinzioni errate sul mondo e su sé stessi, che sottostanno alle azioni poste in
essere, sono state da sempre al centro dei programmi di trattamento. Il diritto al sesso, la
visione di un mondo ostile o la convinzione che i bambini non siano turbati da
un’attività sessuale sono le convinzioni più frequenti che veicolano la violenza sessuale.
Rilevante risulta lo sviluppo delle capacità empatiche, in particolare verso la vittima,
nonché il riconoscimento del reato commesso. Spesso, però, l’aspetto teorico di questo
programma occupa un tempo maggiore di quello pratico, importantissimo per il
cambiamento comportamentale, poiché offre ai soggetti l’opportunità di attuare quanto
appreso.
Tra i primi modelli di trattamento del rischio di ricaduta emerge, negli ultimi decenni
del secolo scorso, quello denominato Relapse Prevention (RP), che si focalizza su quei
passaggi che conducono al compimento dell’azione deviante. Partendo dai protocolli
elaborati per i soggetti tossicodipendenti, l’approccio terapeutico del RP presuppone che
l’abuso sia la fase ultima di diversi processi cognitivi, i quali progrediscono in
un’escalation che culmina nell’azione sessuale deviante. Obiettivo del trattamento è,
dunque, quello di aiutare il soggetto a riconoscere i vari stadi che precedono l’abuso, per
interrompere quella catena formata da pensieri, emozioni, ed operazioni prima ancora
che l’atto criminale possa essere compiuto.
L’avanzare degli studi sul comportamento agito dai sex offenders ha mostrato come il
modello RP fosse carente ed incompleto. Sostenendo che l’azione abusante sia
solamente dovuta ad un’incapacità di controllo comportamentale, il modello non riesce
a spiegare dinamiche come la ricerca attiva della vittima, la pianificazione dell’abuso,
ed altri svolgimenti tipici del reato. Inoltre, il modello non riesce a rispondere alle
diverse esigenze di trattamento necessarie per contrastare la recidiva nei rei sessuali, né
è capace di individuare fasi specifiche e ricorrenti per tutte le tipologie di violenze di
questo tipo, con conseguente fallimento dell’obiettivo stesso del programma
riabilitativo.
I successivi modelli di intervento, specifici per questa tipologia di rei, sono stati
sviluppati tenendo conto di alcuni principi ritenuti essere essenziali per ridurre la
recidiva. Nello specifico, il RNR Model pone al centro del programma il rischio (risk), il
bisogno (need) e la sensibilità (responsivity). Il primo, il principio del rischio, stabilisce
che il trattamento deve essere adeguato al livello di recidiva emerso durante la fase di
valutazione del soggetto. Dunque, maggiore è il rischio di ripetizione del reato, più il
trattamento, e la supervisione alla fine dello stesso, sarà specifico ed intensivo. Il
principio della necessità, invece, pone l’accento sull’esigenza di impostare un percorso
di trattamento in base alle necessità criminogene del soggetto, ovvero dei fattori di
rischio rilevati, quali pensieri sessuali devianti e stile di vita tendente all’antisocialità. É
importante, inoltre, che il percorso goda di una certa flessibilità, tanto da poterlo
modificare in itinere, adattandolo alle necessità del soggetto che si modificano nel corso
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della riabilitazione. In più, focalizzandosi sui fattori-chiave della recidiva, il secondo
principio si concentra sull’importanza di adeguare il programma ai c.d. bisogni
criminogeni dei condannati. Le ricerche hanno, infatti, dimostrato che elementi come le
perversioni sessuali, i problemi di intimità, l’autoregolamentazione sessuale, ma anche
lo stile di vita antisociale, la personalità psicopatica e la capacità di gestione del proprio
comportamento sono strettamente correlati alle azioni criminali, sia a sfondo sessuale
che non. É, dunque, la valutazione iniziale che permette una corretta programmazione
del trattamento, rilevando anche quegli elementi c.d. non-criminogeni, quali l’autostima,
il distress personale, l’aumento dell’empatia verso la vittima e, ancor di più, la
negazione del reato, che costituirebbero un inutile dispendio di risorse. Il terzo ed
ultimo principio, quello della sensibilità, interviene sul rapporto tra il trattamento ed il
soggetto a cui questo è indirizzato. Nello specifico, il trattamento, oltre ad avere un
indirizzo di tipo cognitivo-comportamentale, deve essere adattato ad alcune
caratteristiche specifiche del soggetto, quali lingua, cultura, abilità cognitive, stile di
personalità, ed altre, in modo da incrementare la motivazione nel sex offender,
incentivare la partecipazione ai vari incontri ed ottenerne risultati più efficaci nel minor
tempo possibile.
Un elemento rivelatosi basilare per un buon esito della terapia è il terapeuta stesso,
nonché la relazione che si istaura tra quest’ultimo e il sex offender. Elementi come
l’empatia, il rispetto, il calore, la simpatia e la sincerità, la confidenza e l’interesse verso
il soggetto si sono dimostrati fondamentali per una buona riuscita del trattamento.
Inoltre, comportamenti autorevoli, ma anche l’ascolto, l’incoraggiamento e la capacità
di contenere la frustrazione e l’aggressività del sex offender durante gli incontri
permettono una relazione terapeuta-paziente proficua. Quest’ultima incide grandemente
sull’esito del programma e ne previene l’abbandono del percorso trattamentale.
Un altro approccio trattamentale è quello denominato Self-Regulation Model (SRM), il
quale si focalizza sull’autoregolamentazione comportamentale. Gli autori
presuppongono che alcuni soggetti mettano in atto comportamenti devianti a causa di
uno scarso controllo sulle proprie azioni; altri falliscono nel tentativo di controllare i
propri impulsi perché mettono in atto strategie inefficaci e spesso controproducenti.
Dunque, il SRM si propone l’obiettivo di modificare il comportamento deviante a
piccoli passi, fissando piccole tappe da raggiungere. Rispetto al Relapse Prevention,
questo modello individua quattro pattern che condurrebbero all’offesa sessuale, per
ognuno dei quali è prevista una differente modalità di contrasto. Il SRM appare,
dunque, più completo rispetto ai precedenti, più focalizzato sui fattori dinamici di
rischio e sulle motivazioni sottostanti l’abuso. La validità di questo modello si fonda,
ancora, sulla possibilità di individualizzazione del percorso secondo i bisogni
dell’offender, sia prima che durante il trattamento stesso. Inoltre, i temi affrontati nei
quattro percorsi, che possono coesistere e mutare nelle caratteristiche, sembrano
riprendere i fattori di rischio statici e dinamici emersi nelle ultime ricerche, motivo per
il quale le quattro tipologie di azioni devianti risultano essere associabili alle diverse
modalità di recidiva. La correlazione positiva tra le misurazioni dei fattori di rischio
statico e dinamico, la recidiva, nonché la possibile presenza di tratti psicopatici e le
specifiche caratteristiche delle diverse tipologie di offenders, rendono il SRM una
risposta considerevole al trattamento di questa tipologia di rei.
Il Good Lives Model (GLM) è stato creato per rimediare alle critiche sorte in relazione
al modello RNR, accusato di non tener conto della motivazione che sottostà alla
partecipazione del reo al trattamento, e, senza la quale, ogni approccio risulta vano. È da
considerare, infatti, che l’offender, spesso, non sente la necessità di modificare i suoi
pattern comportamentali, poiché quest’ultimi sono considerati devianti da parte della
società, ma risultano egosintonici per il soggetto che li ha sviluppati. Per questo, il GLM
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fa leva su alcuni bisogni fondamentali dell’essere umano, quali le relazioni
interpersonali, l’intimità, l’amicizia e la felicità, e li pone come obiettivi, al fine di
coinvolgere i soggetti individuati nel programma specifico. Alla base di questo modello
vi è, dunque, l’idea che il SO metta in atto dei comportamenti disadattavi per giungere a
soddisfare i suoi bisogni. Ne consegue che il percorso riabilitativo deve avere come fine
ultimo la rieducazione dei partecipanti, attraverso la trasmissione di strumenti adeguati
per l’appagamento delle proprie necessità. Configurandosi come un approccio pratico,
oltre che teorico, il GLM dedica parte del suo programma alla simulazione di situazioni
quotidiane, ad esempio il contatto non aggressivo con altri, l’avvicinamento intimo
verso una donna piuttosto che verso un bambino, la possibilità di esprimersi in modi
non violenti. Affinché non si tralascino i fattori di rischio ritenuti importanti per la
recidiva, il Good Lives Model viene spesso integrato col Self-Regulation Model, creando
un intervento correttivo efficace, composto da pratiche e tecniche dimostratesi efficaci
in diversi percorsi trattamentali. Le ricerche, in un confronto tra diversi modelli, hanno
riscontrato, infatti, una buona trattazione dei rischi connessi alla recidiva, ma anche una
maggiore motivazione e partecipazione al programma, che si riflette nel numero
sostenuto di soggetti che completano il percorso trattamentale. Anche sul fronte dei
miglioramenti, pre e post trattamentali, si registra un tasso significativo in coloro che
seguono il GLM, rispetto al RP, ed una conseguente diminuzione di recidiva.
Conclusioni
Il presente lavoro ha voluto osservare più da vicino il soggetto autore di reato a sfondo
sessuale, sebbene la vastità e la complessità dell’argomento non abbiano permesso una
trattazione esauriente del tema affrontato. Si potrebbe paragonare il sex offender ad una
moneta: due facce, diverse ed opposte tra loro, quella del carnefice e quella dell’essere
umano, entrambe esistenti in uno stesso individuo. Ma è risaputo che la realtà è
appannaggio di chi la guarda, e se gli occhi sono quelli di un giudice, costui non può
che vedere un criminale, da processare e condannare, laddove uno psichiatra vedrebbe
un uomo affetto da qualche disturbo psichico grave. Ma forse la visione peggiore è
quella della società, nella quale il sex offender, farabutto o malato che sia, è considerato
un essere mostruoso, privo di ogni caratteristica che lo possa avvicinare ad un essere
umano, e per tale motivo non c’è possibilità di remissione di colpa; ci rimane da
rinchiuderlo e “tornargli il favore”. Sarà per questo che il sistema giudiziario fatica ad
attivare programmi di trattamento psicoterapeutico per i rei delle sezioni protette. Se la
giustizia è fatta dalla collettività, e per la collettività, i sex offender non fanno più parte
di essa. O almeno, non fino a quando la società sia disposta a reintegrarli, a dare loro un
ruolo, a riconoscerli come individui, oltre che criminali, forse pazzi. Ciò permetterebbe
la realizzazione di quanto scritto nell’Ordinamento penitenziario, ovvero la possibilità
di rieducare il condannato al fine di consentirgli la reintegrazione nella società dopo la
reclusione. Nella realtà, purtroppo, il reinserimento del detenuto è assai difficile, e
spesso quest’ultimo si ritrova, volente o nolente, di nuovo “alla sbarra”, imputato di un
altro crimine, si tratti di quello già compiuto o, magari, di uno imparato dai vecchi
compagni di cella.
Quanto detto vuole condurre il lettore a riflettere sulla necessità di un cambiamento
radicale di idee, dove il detenuto abbia la possibilità di acquisire lo status di individuo
che, sebbene colpevole di un reato più o meno grave, ha diritto di riscattarsi. E se il
reato, oltre che contro la vittima, è compiuto anche nei confronti della società, in tal
modo il detenuto può restituire quanto ad essa tolto. In quest’ottica, i trattamenti
rieducativi messi in atto all’interno degli istituti di detenzione avrebbero un continuum
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dopo la reclusione, costituirebbero il filo conduttore tra un prima ed un dopo, dando
costanza ad uno sforzo comunitario volto non soltanto al riscatto del reo, alla sua
rieducazione ed al suo reinserimento, ma anche all’incremento del senso di giustizia
nella sua pienezza e dell’osservanza delle norme nell’intera società. E sulla base di un
maggiore rispetto per l’individuo, anche i programmi trattamentali intercarcerari
conoscerebbero un positivo sviluppo.
Nella consapevolezza del ridotto contenuto di questo lavoro rispetto alla vastità delle
informazioni presenti in letteratura, ed augurandomi che quanto qui affermato possa
spingere ad una riflessione proficua rispetto al problema trattato, concludo con alcune
parole che il magistrato francese Denis Salas riporta nel testo “La justice et le mal” :
«Né totalmente pazzo né totalmente responsabile, il delinquente sessuale deve essere al
contempo giudicato e curato. […] Dovendo subire una doppia costrizione, quella della
cura e quella della pena, egli neutralizza la classica distribuzione di ruoli tra
psichiatria e giustizia […] Riuniti uno sull’altro, i valori del diritto e della cura sono
messi al servizio di un valore più alto che comanda la loro unione, quello che una
società accorda alla propria sicurezza».
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Sitografia
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Istituto per lo Studio delle Psicoterapie
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