Scarica la bozza del capitolo su Wittgenstein per licei di Carlo Penco

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10.5.07
LW Bozza per manuale per licei Zanichelli (35.000 – 40.000 caratteri circa)
1. Biografia
Ludwig Wittgenstein (1989-1951) ha avuto una vita tormentata e difficile: figlio di uno dei più ricchi
imprenditori viennesi dei primi del '900 ha vissuto un'infanzia in mezzo al lusso e alla cultura, in una
famiglia numerosa con tre sorelle e cinque fratelli tutti dotati dal punto di vista artistico e intellettuale. La
sua famiglia era al centro della cultura della Grande Vienna: a casa veniva spesso Brahams a suonare uno
dei dieci piani a coda della casa, Klimt dipinse un ritratto per la sorella Gretl, un'altra sorella andava in
psicoanalisi da Freud, e Ravel scrisse il suo famoso Concerto per la mano sinistra per Paul Wittgenstein, il
fratello di Ludwig che aveva perso la mano destra in guerra. Anche Ludwig fu sempre molto sensibile alla
musica e, oltre a suonare il clarinetto, usava andare alleprove di orchestra dando consigli per l'esecuzione
dei pezzi. Ma, come racconta sua sorella Hermine in una breve biografia del fratello, Ludwig fin da piccolo
si differenziò dai fratelli per una particolare dedizione alle cose tecniche (Paul ad esempio era attratto più
dalla natura, dai fiori e dagli animali). Questa sua tendenza lo portò ad iscriversi alle superiori a una scuola
tecnica dove si studiava ingegneria meccanica, andando poi a perfezionarsi in Inghilterra all'Università di
Manchester. Qui lavorò a diversi progetti, tra cui un abbozzo del tipo di eliche che si svilupperanno in
seguito sui motoscafi; ma l'ingegneria lo portò ai problemi più generali della matematica e in particolare ai
problemi sui fondamenti della matematica che erano al centro del dibattito internazionale in Europa ai
primi del '900 (vedi il capitolo sul programma logicista in Frege e Russell). Su suggerimento di Frege andò
quindi a studiare con Bertrand Russell a Cambridge. Preso dalla passione per la nuova logica, e ricco delle
discussioni svolte nell'ambiente filosofico di Cambridge, si ritirò in Norvegia per scrivere il suo lavoro
fondamentale, che sarà noto come Tractatus logico-philosophicus (il nome lo ideò Moore).
Venne la guerra e Ludwig volle arruolarsi e fare il suo dovere di soldato. Venne fatto prigioniero e
restò lungo tempo a Montecassino in un campo di concetramento, da cui uscì nel 1919, l'anno in cui
l'analisi dell'eclisse solare confermava la teoria della relatività di Einstein, che avrebbe rivoluzionato la
fisica. La guerra lo aveva colpito profondamente; credeva di aver risolto i problemi della filosofia con il
suo libro (che verrà pubblicato nel 1921) e decise di abbandonare la filosofia e fare una vita normale. Si
disfò di ogni bene terreno rifiutando ogni forma di eredità, lasciando tutti i suoi averi a poeti e artisti. Pensò
per un certo periodo di fare il giardiniere presso un convento, ma alla fine decise di insegnare alle scuole
elementari in una zona rurale dell'Austria. Il suo insegnamento non era sempre gradito dai genitori, perché
Ludwig era molto severo e chiedeva molto dagli allievi. Dopo molte incomprensioni lasciò l'insegnamento
e si dedicò a progettare e realizzare una casa per una sua sorella, coerente con le idee del suo amico
architetto Loos, antresignano della Bauhaus. Ma era destino che Wittgenstein non abbandonasse la
filosofia: da una parte gli inglesi lo volevano ancora a Cambridge e diverse volte venne a visitarlo Frank P.
Ramsey, che aveva fatto una intelligente recensione del suo Tractatus; dall'altra lo cercava Moritz Schlick,
il fondatore del Circolo di Vienna, che dedicava le sue sedute alla lettura e al commento del Tractatus.
L'Europa del dopoguerra era piena di fermento filosofico e si era creata una rete di ricerca e
discussione sui problemi della logica e della matematica che attraversava tutta l'Europa continentale: la
Francia con Poincaré, l' Italia con Peano e la sua scuola, la Germania con la tradizione di Hilbert e il circolo
di Berlino con Reichenbach, la Polonia con la scuola di Lesniewski e Tarski, la Danimarca con il circolo
"Signific" ed infine l'Austria con il circolo di Vienna con Schlick e Carnap. In questo movimento culturale
Wittgenstein era rinomato come l'autore del Tractatus, allievo di Russell e inventore delle tavole di verità.
E Wittgenstein alla fine capì che il Tractatus non aveva risolto tutti i problemi della filosofia e che c'era
ancora molto lavoro da fare: diverse prospettive si aprivano al giovane filosofo, molto diverse da quelle cui
era abituato con il vecchio Frege e il giovane Russell, con il loro platonismo e logicismo (vedi ancora cap.
sul logicismo). In particolare Wittgenstein fu colpito da una conferenza del matematico Brouwer, che
sosteneva che la matematica non riguarda un insieme di entità ideali, ma è qualcosa che viene costruito
dalle nostre operazioni mentali. Cosa sono queste operazioni? Quale regole reggono il nostro ragionare, se
le regole della logica classica sono solo regole di un mondo ideale che non appartiene a noi?
Negli anni '20 e '30 Wittgentein lavora alacremente al problema di una nuova visione delle regole
della "grammatica" del linguaggio; nel 1929 rientra a Cambridge con una borsa di studio ottenuta dopo aver
presentato il suo Tractatus come tesi di dottorato. Continua ad avere incontri con Schlick e il suo amico
Waismann, cui affida il compito di presentare il suo punto di vista accanto alle tre scuole sui fondamenti
della matematica (logicismo, intuizionismo, formalismo) che discutevano a Könisberg nel 1930, mentre
Gödel presentava i suoi rivoluzionari risultati metamatematici. Ma questo intenso interscambio di idee
stava per finire: lo spettro del Nazismo e della seconda Guerra Mondiale si aggirava per l'Europa. Mentre
la ricca famiglia di Wittgenstein (il padre era ebreo) riusciva a salvarsi "pagando" ed emigrando in
Svizzera, quasi tutti i grandi intellettuali dell'Europa centrale furono costretti a fuggire per gli Stati Uniti, da
Einstein a Freud, da Carnap a Gödel, da Reichenbach a Tarski. La conseguenza fu che la cultura e la
filosofia americana vennero fecondate dalla cultura mitteleuropea, ma l'Europa centrale si svuotò non solo
di singoli genii, ma perse la struttura di rapporti e collaborazioni che rendono un ambiente vivo
intellettualmente. Ludwig, da parte sua, restò in Inghilterra, cercando in tutti i modi di contribuire alla lotta
contro il nazismo, aiutando nelle retrovie perché in quanto di origine austriaca non poteva far parte delle
attività belliche (cosa che fece il suo collega Austin scrivendo Invade Mecum, il libro di istruzioni per lo
sbarco degli alleati in Normandia e il suo allievo Turing che si dedicava a decrittare i codici segreti
tedeschi).
Nel dopoguerra Wittgenstein, ormai famoso, dedica gran parte del suo tempo all'insegnamento a
Cambridge, creando una schiera di allievi alcuni dei quali diverranno famosi. La sua continua autocritica
gli impedisce di pubblicare i suoi appunti, che circolano come dattiloscritti tra gli allievi, ma che vengono
continuamente rivisti da Wittgenstein, fino a una formulazione quasi soddisfaciente del libro che venne
pubblicato postumo con il nome di Ricerche filosofiche. Wittgenstein muore nel 1951 accudito dagli amici
inglesi, cui per colmo dell'ironia disse che avrebbe voluto scrivere come il logico tedesco Gottlob Frege, il
suo grande ispiratore. Ai suoi allievi rimase il compito di pubblicare a poco a poco parti dei suoi lavori
inediti che si rivelarono sempre più numerosi.
2. Il Tractatus Logico-Philosophicus: il problema del senso
Il Tractatus logico philosophicus (1921) è uno dei testi filosofici più noti del XX Secolo.
Un buon modo per inquadrare il Tractatus è guardare le sue proposizioni principali come i "titoli" dei
capitoli del libro:
1. Il mondo è tutto ciò che accade
2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose
3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero
4. Il pensiero è la proposizione munita di senso
5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari
6. La forma generale della funzione di verità è: [p, , N()].
7. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere
Dalla lettura delle 7 proposizioni principali del Tractatus si evince una semplice tripartizione: (12) Ontologia, (3-4); Teoria del pensiero-linguaggio (teoria dell'immagine); (5-6) Teoria logica (teoria delle
funzioni di verità). In effetti la organizzazione del testo non è così semplice come appare. A partire dalle
tesi fondamentali espresse dalle prime 6 proposizioni, il Tractatus, anche se in modo non tradizionale,
contiene diverse componenti tradizionali di un sistema filosofico: teoria logica, ontologia, teoria della
scienza, teoria delle probabilità, teoria del linguaggio, etica, estetica. Wittgentein sarebbe però inorridito a
questa presentazione del suo lavoro; infatti il filosofo viennese sostiene che la filosofia non è una dottrina,
ma un'attività: l'attività di chiarificazione dei pensieri. Il suo testo non è dunque pensato come una dottrina
o un insieme di dottrine, ma come un'attività seguendo la quale si arriva ad avere una corretta visione del
mondo. Non una visione scientifica, ma una visione mistica: non come è fatto il mondo, ma che c'è il
mondo. La scienza spiega come è fatto il mondo, ma non dire altro. Che c’è il mondo si mostra nel parlarne
e nel descriverlo, ma non può essere oggetto di descrizione scientifica. I riferimenti alla mistica hanno
affascinato molti lettori: finalmente un filosofo moderno che osa parlare in questi termini! Il "mistico" di
Wittgenstein è qualcosa che si raggiunge al termine di un percorso di ripulitura e riassestamento della
nostra pratica linguistica. Il Tractatus diviene così una specie di itinerarium mentis in Deo, dove il lettore è
condotto passo passo ad arrivare a un difficile rinuncia: la rinuncia a usare certe espressioni e certi discorsi
che vorrebbero dire quello che il linguaggio non può a dire, ma che si mostra nel linguaggio usato
correttamente.
Il metodo per far comprendere l'uso corretto del linguaggio è la attività filosofica di
chiarificazione che, un po' come in Alice nel Paese delle Meraviglie, aiuta a far capire il corretto
funzionamento del linguaggio mettendo in evidenza il nonsense. Si pensi alla risposta del re che dice "che
ottima vista!" ad Alice che sostiene di non veder nessuno per la strada". L'affermazione del re "suona"
strana agli occhi del lettore perché non si può "vedere" nessuno. Salta così agli occhi il fatto che la parola
"nessuno" non si comporta come un nome qualsiasi (come sapeva benissimo Ulisse quando ingannava
Polifemo). Diversamente dal libro di Lewis Carrol, il libro di Wittgenstein lavora in dettaglio nell'analisi
degli aspetti più difficili della logica come è stata presentata da Frege e Russell. Wittgenstein ritiene che sia
possibile - con gli strumenti inventati da Frege (vedi cap xxxx, p xxx) - individuare la struttura logica del
linguaggio, il che comporta individuare la struttura logica del pensiero. Nello stesso tempo Wittgenstein
cerca di risolvere i problemi di Russell, che aveva individuato il famoso "paradosso" e aveva cercato di
risolvere il paradosso attraverso la sua teoria dei tipi (vedi cap.xxxx pag. xxxx)
Frege aveva posto la frase o proposizione (Satz), come elemento centrale dell'analisi logica; un
linguaggio non è un insieme di nomi, ma un sistema di regole per costruire proposizioni. Non si ha
linguaggio se non si hanno proposizioni, e "una parola ha significato solo nel contesto di una proposizione"
(TLP…) dice Wittgenstein echeggiano il principio del contesto di Frege. (vedi cap xxx p xxx) Ma cosa è
una proposizione se non un'immagine di uno stato di cose? Partendo dalla centralità della proposizione
nella logica di Frege Wittgenstein ricostruisce una ontologia in cui "il mondo è la totalità dei fatti non delle
cose" (TLP 1), così come il linguaggio è la totalità delle proposizioni, non dei nomi. Avrete notato che ho
introdotto l'ontologia (o teoria di cosa vi è, o di come è fatto il mondo) sulla base delle idee sul linguaggio.
In un certo senso Wittgenstein vuol dire come dovrebbe essere fatto il mondo dato che abbiamo il
linguaggio che abbiamo (si potrebbe parlare di una deduzione trascendentale del mondo). L’unità centrale
del linguaggio è la proposizione, e questa è composta da nomi in relazione tra loro. Se è vero che il
linguaggio rispecchia la realtà, allora occorre guardare la struttura del linguaggio per vedere la struttura
della realtà: alle proposizioni vere corrisponderanno i fatti e ai nomi all’interno delle proposizioni gli
oggetti del mondo. Ma come il linguaggio non è un elenco di nomi, così il mondo non è un elenco di
oggetti, ma un insieme di fatti, dove gli oggetti si danno sempre in certe relazioni tra loro. [è una versione
linguistica dell’idea di Kant che non si dà oggetto senza giudizio]
Vediamo le due principali teorie che reggono la struttura del Tractatus, la teoria dell'immagine e la
teoria delle funzioni di verità. Abbiamo accennato all'importanza dell'idea per cui una proposizione è
un'immagine di stati di cose. La cosidddetta "teoria dell'immagine" di Wittgenstein è senz'altro influenzata
dalle teorie fisiche di Heinrich Hertz (1857-1894), un fisico tedesco attivo ai tempi di Wittgenstein. Da
Hertz Wittgenstein riprende l'idea che ci facciamo immagini che sono modelli della realtà, e che tali
modelli devono avere certe caratteristiche per essere buoni modelli (ad es. vi deve essere un isomorfismo
tra modello e realtà, cioé le relazioni tra gli elementi del modello devono avere la stessa forma delle
relazioni tra gli elementi della realtà, e vi deve essere corrispondenza tra gli elementi del modello e gli
elementi della realtà). Wittgenstein generalizza le idee di Hertz, considerando non solo i modelli della
fisica, ma i pensieri e le proposizioni in generale come immagini di stati di cose. In tal modo Wittgenstein
toccan uno dei problemi centrali della filosofia moderna, il problema del confine tra ciò che si può pensare
e ciò che non si può pensare, che era uno dei temi centrali della Critica della Ragion Pura di Kant. Ma
Wittgenstein riprende da Frege l'idea che la strada maestra per capire il pensiero è l'analisi del linguaggio
con cui si esprime il pensiero, e il problema kantiano si trasforma nel problema di definire i confini tra il
dicibile e l'indicibile. Questo problema assume un ruolo centrale nella teoria dell'immagine nei termini del
rapporto tra dire (sagen) e mostrare (zeigen). Vediamo in estrema sintesi come Wittgenstein affronta e
risolve questo problema.
Come fa una proposizione a essere un'immagine di uno stato di cose? Come ogni immagine, deve
aver qualcosa in comune con lo stato di cose; ma non vi sono relazioni di somiglianza (colore, rapporti di
dimensione o altro) come nelle immagini pittoriche o nelle riproduzioni tridimensionali di oggetti (come le
macchinine che venivano usate nei processi per simulare lo stato di cose di un incidente stradale e che
avevano tanto colpito Wittgenstein). Non è dunque una qualsiasi forma di raffigurazione (pittorica, grafica,
tridimensionale,..) che è in comune tra linguaggio e mondo, ma è quello che Wittgenstein chiama la "forma
logica". La forma logica è ciò che si mostra nella proposizione, quando la proposizione descrive uno stato
di cose; è la struttura profonda della proposizione che aiuta a capire come il linguaggio sia isomorfo (abbia
la stessa forma) della realtà descritta. La forma logica però non può essere "detta"; ciò che "si mostra" nel
linguaggio è indicibile. Certamente si potrebbe usare un altro linguaggio per descrivere la forma logica; ma
in questo altro linguaggio di livello superiore si ricadrebbe nello stesso problema. Per questo Wittgenstein
diffida della introduzione che Russell fece al suo Tractatus, ove Russell risolveva il problema con
l'introduzione della nozione di metalinguaggio (sulla nozione di metalinguaggio vedi cap xxx p xxx).
La conclusione che vi sono aspetti del linguaggio che si mostrano ma non possono essere detti si
perfeziona con lo sviluppo della teoria delle funzioni di verità. La teoria delle funzioni di verità è anche un
apporto originale alla logica del XX Secolo: Wittgenstein individua, con le tavole di verità, un metodo per
decidere il valore di verità delle proposizioni composte a partire dal valore di verità delle proposizioni
semplici. La distinzione tra proposizioni semplici o elementare e proposizioni composte è fondamentale.
Le proposizioni semplici sono quelle che non si possono analizzare ulteriormente, sono – potremmo dire –
gli “atomi” del linguaggio (non a caso Russell parlava di “atomismo logico”). Ma le proposizioni si
possono comporre tramite le costanti logiche o connettivi (cioé quelle espressioni che servono a connettere
tra loro le proposizioni, come ad es. “e”, “o”, “se..allora”, ecc.). L’idea di Wittgenstein è che i connettivi
logici non sono espressione di qualche “sostanza” o elemento della realtò, ma sono solo una abbreviazione
delle possibiltà di combinare le proposizioni. Ma non si limita a questo (il metodo è stato
contemporaneamente scoperto dal logico E. Post). Vuole anche dare una idea di cosa è il senso dei nostri
enunciati, e dare un criterio per discrimare gli enunciati sensati da quelli insensati, tema che diverrà nel
neopositivismo il problema della demarcazione tra scienza e non scienza (vedi cap xxx pag xxx). Per
Wittgenstein - e qui teoria dell'immagine e teoria delle funzioni di verità si fondono - il senso di un
enunciato è ciò che si mostra, cioé - per un enunciato semplice - lo stato di cose rappresentato, ovverossia
la condizione a cui l'enunciato è vero. E' vero se lo stato di cose rappresentato sussiste, falso se non
sussiste. Il senso di un enunciato complesso è ciò che si mostra nella tavola di verità dell'enunciato, cioé la
condizione a cui è vero, ed è funzione di verità delle proposizioni componenti. Per fare alcuni esempi, il
senso di “P e Q” e di “P o Q” (“o” nel senso di “aut-aut”) sono dati dalle tavole di verità:
PQ P&Q
------------VV
V
VF
F
FV
F
FF
F
PQ PoQ
------------VV
F
VF
V
FV
V
FV
F
La prima tavola mostra che "P e Q" è vero se e solo se sono veri sia P che Q. La seconda tavola mostra che
“P o Q” è vero se e solo se è vero P e falso Q, e viceversa, ma non se sono entrambi veri o entrambi falsi.
L'insieme degli enunciati del linguaggio è riducibile a enunciati che sono funzioni di verità di enunicati
semplici. Dobbiamo quindi distinguere tra enunciati semplici o "atomici" ed enunciati composti o
"molecolari".
In linea di principio il problema è chiaro: analizzare il linguaggio e mostrare che le proposizioni
sono funzioni di verità delle proposizioni atomiche. Ma il linguaggio naturale contiene un insieme di
accorgimenti pratici che ne nascondono la vera forma logica. Compito della filosofia è svelare questi
inganni e aiutare a individuare la vera forma logica soggiacente al linguaggio. Per questo Wittgenstein
ammira moltissimo la teoria delle descrizioni di Russell, (vedi cap xxx, p xxx) che per lui è un modello di
filosofia. Anche nel Tractatus, seguendo una tradizione che va da Aristotele a Frege, Wittgenstein mostra
quali ambiguità si trovano nel verbo "essere", la cui forma grammaticale (ad es. la terza persona "è")
nasconde diverse forme logiche o diversi significati, che il linguaggio logico inventato da Frege aiuta a
disambiguare (TLP 3.323). E’ famoso il detto di Aristotele per cui “l’essere si dice in molti modi”, e
Aristotele distingue l’essere come vero e falso, l’essere come potenza e atto, l’essere secondo i modi delle
categorie. Ma anche Aristotele non è sempre chiaro nell’uso del verbo essere. Con la notazione logica
diviene impossibile, ad es., confondere tra l’essere dell’identità (Wittgenstein è l’autore del Tractatus)
dall’essere della predicazione (Wittgenstein è un filosofo) e dall’essere come inclusione tra classi (il
filosofo è saggio), perché la loro forma è semplicemente diversa. Semplificando, rispettivamente sarebbero:
w = autore_di_T, F(w), x Fx => S(x).
Nel Tractatus si definisce dunque in maniera univoca il concetto di senso di un enunciato, come
condizioni di verità. Da questa definizione seguono importanti conseguenze per le proposizioni della logica
e per le proposizioni dell'etica e dell'estetica. Prima di tutto le proposizioni della logica sono prive di senso;
infatti le proposizioni della logica sono "sempre vere", cioé vere a ogni condizione (o, come si diceva un
tempo, incondizionatamente vere): esse sono tautologie, cioé enunciati la cui tavola di verità dà sempre il
valore vero. Ad esempio il principio del terzo escluso "p o non p": se accade che p allora "p o non p" è vero
perché è vero che p; se accade che non p, allora "p o non p" è vero perché è falso che p, cioé è vero che non
p. Provate a sostituire una qualsiasi proposizione a "p" (ad esempio "piove" e vedrete come è tutto ovvio).
Le proposizioni della logica non descrivono il mondo; per questo sono sempre vere; esse costituiscono
l'ossatura della nostra descrizione del mondo.
Diverso è il caso delle proposizioni dell'etica, dell'estetica e della filosofia: essere non descrivono
il mondo ma sono modi per migliorare il comportamento o per aiutare ad apprezzare un'opera d'arte. Ma se
considerate come proposizioni "scientifiche" diventano un inganno, così come per Kant le proposizioni
della metafisica intesa come scienza. Per Wittgenstein le proposizioni di etica ed estetica sono proposizioni
insensate, come le proposizioni della filosofia, e quindi come le proposizioni stesse del Tractatus che avendole capite - servono come una scala che si butta via dopo averla usata. Le proposizioni palesemente
insensate (come quelle di Alice nel Paese delle Meraviglie) infatti aiutano ad avere una retta visione del
mondo, e a utilizzare il linguaggio per quello che si può utilizzare: descrivere il mondo. Tutto il resto è
indicibile e il compito etico del Tractatus è insegnare a non cercare di dire l'indicibile. Coerentemente,
finita la stesura del suo primo libro, Wittgenstein abbandona la filosofia e si dedica a lavori "normali"
(giardiniere, insegnante elementare, architetto).
3. La Grammatica filosofica: l'analisi del gioco linguistico
Wittgenstein ha influenzato due scuole filosofiche, il neopositivismo (cap xxx) e la filosofia linguisitica
(cap xxx) ma non si è mai identificato in alcuna di esse. Di certo il neopositivismo prende molto dal
Tractatus di Wittgenstein; il Circolo di Vienna si riuniva a leggere e commentare il testo del libro del
filosofo tedesco, che ebbe una particolare relazione di amicizia intellettuale con Schlick e Waismann. Ma
non fu l'interesse per il Tractatus a spingere Wittgenstein al ritorno alla filosofia, bensì un insieme di
motivi, dall'insistenza del giovane logico di Cambridge F.P. Ramsey (…), a una lezione del matematico
Brouwer (…..) al riconoscimento che nel suo "sistema" c'era qualcosa che non andava e che vi era ancora
spazio per la filosofia. Di fatto, dalla fine degli anni '20, Wittgenstein riprende a lavorare assiduamente a un
nuovo libro e ne fa diverse stesure (così come aveva fatto diverse stesure del Tractatus). Il progetto è di fare
un volume dove accanto ai temi fondamentali dell'analisi del linguaggio si possano sviluppare osservazioni
sulla matematica e sulla psicologia. Wittgenstein non realizzò mai il progetto, anche se alcuni abbozzi,
come il Big Typescript del 1935, si avvicinano a darne una idea. Le Ricerche filosofiche vennero pubblicate
postume nel 1953 (Wittgenstein era morto di cancro due anni prima) e rappresentano la parte più generale
del lavoro di Wittgenstein, su cosa è la filosofia e sui temi che oggi si direbbero di filosofia del linguaggio e
della mente (la nominazione, gli indicali e i dimostrativi, il riferimento, il significato di parole e
proposizioni, il rapporto linguaggio-pensiero, la comprensione, ecc.). Questo libro è il frutto di diverse
stesure e riprese che durarono una ventina d'anni, in cui si fece strada una nuova visione della filosofia,
dove alcuni principi restavano simili a quelli del Tractatus, ma altri perdevano di importanza. Anche per
questo si parla solitamente di un "primo" e di un "secondo" Wittgenstein.
Il secondo Wittgenstein mantiene del Tractatus l'idea che la filosofia è critica del linguaggio, e il
compito della filosofia è liberare dalle confusioni e dai fraintendimenti dati da una cattiva comprensione del
funzionamento del linguaggio. Nel Tractatus Wittgenstein distingueva tra forma superficiale e forma
logica, mostrando che sotto una stessa forma grammaticale ("è") si nascondono diverse funzioni; nelle
Ricerche filosofiche Wittgenstein c'è un analogo richiamo alla confusione provocata dal fatto che le parole
appaiono tutte simili in quanto della stessa forma, mentre hanno funzioni del tutto differenti:
"Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c'è un martello, una tenaglia, una
sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. - Quanto differenti
sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono
somiglianze qui e là.)
Naturalmente, quello che ci confonde è l'uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci
vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo
altrettanto evidente." (RF § 11)
Questa diversità di impiego delle parole non può essere riportata a un ordine assoluto con il linguaggio
logico e il metodo delle tavole di verità; perché il linguaggio non si riduce a descrizioni del mondo, ma è un
insieme di attività dove il significato viene determinato dal tipo di attività che viene eseguita: si può
comandare, domandare, implorare, suggerire, imprecare, e così via.
Gran parte delle Ricerche filosofiche può essere vista come una radicalizzazione e
generalizzazione del principio del contesto di Frege, già accolto nel Tractatus. Mentre nel Tractatus si
sosteneva che un nome ha significato solo nel contesto di una proposizione, nelle Ricerche si specifica che
il significato di una parola è il suo uso nel contesto (RF § 43 cf.§..). Con questo Wittgenstein critica sia la
teoria per cui il significato è una immagine mentale, sia la teoria per cui il significato si identifica con ciò
cui una parola si riferisce. Il problema del significato non riguarda solo le singole parole, ma le
proposizioni, e la stessa applicazione del principio del contesto ricorda la centralità del concetto di
proposizione nel linguaggio. Il linguaggio non è una nomenclatura, come pare suggerire un passo di
Agostino citato nel primo paragrafo delle Ricerche, o come nella visione standard criticata negli anni '20
dal linguista ginevrino Ferdinand De Saussure (cfr. capxxxx,par-xxx). Ma una volta definita la cntralità
della proposizione, occorre definire cosa si intende per significato o senso della proposizione,
confrontandosi con quanto era stato detto nel Tractatus.
Se nel Tractatus capire il senso di una proposizione era capire le sue condizioni di verità, per le
Ricerche capire il significato di una proposizione comporta capire un linguaggio (RF §…). Notate, si parla
di "un" linguaggio e non del linguaggio: la visione di una unica forma logica socciacente al linguaggio
viene abbandonata. E' un ideale cui il linguaggio naturale non si confà. L'attività discorsiva degli umani si
presenta come un insieme di giochi in cui parole e azioni sono strettamente legati; non è possibile capire
una proposizione se non si ha chiaro il "gioco linguistico" in cui questa proposizione è proferita, gli scopi
del gioco, l'insieme delle attività ad esso connesse.
Il "gioco linguistico" è per Wittgenstein prima di tutto un metodo e uno strumento di analisi: non è
possibile avere una visione perspicua del linguaggio se non analizzando singoli casi, come se fossero
linguaggi completi. Prendiamo la sua critica al linguaggio come insieme di parole che corrispondono a
cose. Immaginiamo un dialogo tra due muratori che si scambiano mattoni, lastre, ecc. (§xxx) Il dialogo sarà
laconico e consisterà in una sucessione di proferimenti come "mattone!", "lastra!", ecc. Cosa ci fa capire
questo dialogo? Che il significato di una parola non si riduce all'oggetto cui la parola si riferisce, ma il
significato è l'uso della parola nel contesto (in un linguaggio più ricco la parola "lastra" si tradurrebbe in
"per favore passami una lastra", ma una frase del genere sarebbe ovviamente incongrua nel gioco
linguistico dei muratori). Ma il termine "gioco linguistico" è per Wittgenstein un modo per parlare del dato
da cui partire. Il linguaggio non è che un insieme di diversi giochi linguistici e il compito del filosofo è
mettere chiarezza e ordine tra tali giochi, evitando le confusioni che nascono dal passare inavvertitamente
da un gioco linguistico a un altro. Il compito del filosofo è cioé sviluppare una grammatica filosofica, il cui
compito è aiutare a orientarsi negli inganni e nei fraintendimenti in cui cadiamo quando facciamo un uso
poco accorto del linguaggio.
4. Una applicazione della grammatica filosofica
Il più famoso esempio di "analisi grammaticale" alla Wittgenstein è dato dall'analisi dei concetti come
somiglianze di famiglia . Vediamolo ora per dare un po' di sostanza al "metodo" filosofico proposto da
Wittgenstein.
Le teorie tradizionali del concetto sono solitamente di due tipi contrapposti: idealisti o platonisti contro
empiristi. I platonisti sostengono che il concetto è un'essenza, un'idea di cui le cose particolari partecipano
in qualche modo: tutte le cose buone partecipano della bontà. Gli empiristi sostengono invece che il
concetto è un'astrazione dalle proprietà particolari degli individui. Ma, platonisti o empiristi, da Platone a
Locke, da Frege ai neoempiristi, tutti concordano nel sostenere che un concetto specifica un insieme di
proprietà (necessarie e sufficienti) che determinano quali oggetti appartengono alla classe definita dal
concetto.
Il contrasto tra platonisti e empiristi riguarda come vengono definite queste condizioni o proprietà
necessarie e sufficienti, non che esse ci siano. Wittgenstein nega che esse ci siano; mentre nelle sue lezioni
a Cambridge nega che esista una essenza, "la bontà", comune a tutte le cose buone, nelle pagine delle
Ricerche filosofiche fa un esempio sul concetto di "gioco" e si domanda: qual'è l'essenza del gioco? Quali
sono le proprietà che caratterizzano tutti e soli i giochi? Una breve analisi, abbozzata da Wittgenstein al
par. 66 delle Ricerche, mostra che non è possibile definire un gruppo di proprietà che riescano a definire
tutti e soli i giochi. [SE ci fosse spazio si potrebbe mettere una citazione] Troviamo invece una rete
complicata di somiglianze e differenze tra diversi tipi di giochi. Non vi è una essenza comune a tutti e soli i
giochi, non vi è alcun insieme di proprietà necessarie e sufficienti a definire ogni caso di gioco. Eppure, pur
non avendo una definizione univoca di "gioco", usiamo normalmente il predicato "gioco" (o il concetto
corrispondente). Come è possibile?
La risposta è che le varie esemplificazioni di un concetto (ad es. i varii giochi che tutti conosciamo)
sono imparentate tra loro come i membri di una famiglia: qualcuno ha certi caratteri in comune con altri,
ma non è detto che vi sia un carattere comune a tutti i membri della famiglia. Eppure riconosciamo i
membri per una certa aria di famiglia. Wittgenstein parla così di "somiglianze di famiglia" per intendere
che espressioni come "gioco" e molte altre ancora esprimono concetti che padroneggiamo senza problemi,
ma che non possiamo ridurre a una "essenza" o a un un insieme di proprietà ben definite. La solidità con
cui comprendiamo questi concetti è la solidità di una corda, la cui robustezza non è data da un filo che la
percorre in tutta la lunghezza, ma dall'intrecciarsi e soovrapporsi di pezzi di filo. Questo intreccio, fuori di
metafora, può essere analizzato come studio del passaggio da un membro a un altro della stessa famiglia (il
gioco del pallone sarà più simile al gioco del rugby che al gioco delle bambole o al solitario). Il riferimento
a transizioni e membri intermedi di una famiglia di concetti richiama analoghe considerazioni fatte da
Goethe riguardo al "metodo morfologico" per la classificazione di animali e piante. Wittgenstein senz'altro
lesse Goethe (ne discusse anche la teoria dei colori) e ne fu influenzato profondamente.
Assieme alla discussione sulle somiglianze di famigli Wittgenstein sviluppa anche una sua versione
delle distinzioni tradizionali della filosofia prima di lui (come apriori e aposteriori, o analitico e sintetico).
Egli scegli però una nuova terminologia, coerente con il suo lavoro, e distingue tra usi empirici e
grammaticali di un enunciato. Gli usi empirici sono gli usi linguistici che riguardano soprattutto la
descrizione del mondo, che richiede una verifica empirica o una giustificazione. Gli usi grammaticali sono
invece gli usi linguistici che definiscono le regole della nostra grammatica. Ad esempio “solo io provo il
mio dolore” è un enunciato grammaticale che dice, in modo breve e sintetico, che una asserzione sul dolore
è diversa se fatta alla prima persona o alla terza persone. Alla prima persona (“io provo dolore”) si esprime
il proprio dolore; alla terza persona (“lui rova dolore”) si descrive sulla base di una certa evidenza il dolore
altrui.
Spesso un enunciato grammaticale viene presentato come se fosse soggetto a verifica empirica, mentre
non lo è. Qui l'analisi ricorda la critica del Tractatus agli enunciati insensati, che pretendono di essere
descrittivi, mentre non descrivono alcunché. Essi però, in questo caso, hanno una funzione - una volta che
venga chiarificata la loro funzione di enunciati grammaticali. Il lavoro del filosofo è mostrare il nonsenso
nascosto nell'idea di usare tali enunciati come empirici, rendendo evidente e palese il nonsenso e riportando
così l'enunciato al suo uso normale (ad esempio esprimere il proprio dolore). La posizione di Wittgenstein,
denominata da alcuni "quietismo", sostiene che non vi sono problemi filosofici, ma la filosofia consiste
solo nella chiarificazione e conseguente dissoluzione di problemi apparenti. La filosofia lascerebbe tutto
come sta, non tenderebbe a “trasformare il mondo” o operare come la scienza; analogamente al Tractatus la
filosofia è una attività Questa posizione è stata duramente criticata da alcuni filosofi, primo tra tutti Karl
Popper, come una inutile restrizione della concezione della filosofia.
4. Le Ricerche filosofiche e ilproblema delle regole Le Ricerche filosofiche hanno avuto diverse stesure, e la parte più rifinita riguarda i paragrafi fino al §
xxxx, dove terminava una stesura precedente a quella che è stata poi stampata. Che Wittgenstein non
volesse stampare la versione precedente è segno che non era soddisfatto della conclusione data al problema
finale, il problema di come si fa a essere certi di aver seguito correttamente una regola. Wittgenstein aveva
infatti presentato il gioco linguistico del seguire una regola e cercava una risposta. La discussione era molto
sentita tra i matematici, e in particolare le tre scuole dei fondamenti della matematica avevavo dato le loro
risposte
[RISCRIVERE: PRESA DAL MANUALE - ABBREVIARE]
Le proposte che Wittgenstein si trovava di fronte erano le seguenti: (i) Russell e Carnap, che tentavano di
dare una versione aggiornata del logicismo fregeano (ii) Hilbert e Bernays che fondavano la certezza
matematica su dimostrazioni finitiste di non contraddittorietà (iii) Brouwer e Heyting che basavano la
certezza matematica sull'intuizione. Wittgenstein critica tutte e tre le risposte e in particolare dedica
attenzione alla risposta degli intuizionisti. Per essi è l'intuizione - dunque uno stato mentale - a fondare la
certezza matematica. Ma, anche se alternativa al platonismo fregeano, questa risposta non è soddisfacente.
Infatti l'idea che vi possa essere uno stato mentale particolare che ci garantisce nella corretta esecuzione di
una regola sottende l'idea che il linguaggio sia un'attività essenzialmente privata, e la comprensione di una
regola sia data da una intenzione o da un processo mentale misterioso che anticipa magicamente lo
sviluppo futuro della formula.
E' possibile che la comprensione e la applicazione corretta di una regola si basi su processi mentali
interni, sull'intuizione? Ereditando la diffidenza fregeana dell'intuizione, Wittgenstein sostiene che nessuno
stato mentale mi può dare la garanzia di seguire correttamente la regola. L'espressione di una regola non è
l'espressione di una intenzione interiore, ma di una pratica pubblica. Se fosse solo l'espressione di una
intenzione interiore, ogni regola potrebbe sempre essere reinterpretata in modi diversi, e questa possibilità
rende la visione intuizionista fallace. Per mostrare questo Wittgenstein fa un esempio 1.
Se la regola "aggiungi 2" fosse l'espressione di una intenzione interiore, non è chiaro come potremmo
controllarla o basarci su di essa. Dato che la comprensione è oggettivamente verificabile, potremmo
verificare che un bambino ha imparato "aggiungi 2" se prosegue una successione con 2,4,6,8, ecc. Ma che
dire se arrivato a 1000 continuasse con 1004, 1008, 1012, ecc.? Noi diremmo che non ha compreso la
regola come la intendevamo noi, ma il bambino potrebbe sempre dire che aveva capito "aggiungi 2 fino a
1000, 4 fino a 2000, 6 fino a 3000 ecc.". Nulla nel suo comportamento passato, né nel nostro, escudeva
questa possibilità, finché non ve ne è stata l'occasione.
In conclusione ogni formulazione della regola può dare adito a diverse interpretazioni. Ogni persona
può ascoltare la formulazione di una regola, e interpretarla in modo che a noi suoni assolutamente standard
fino a verificare poi che divergiamo su alcune applicazioni di essa (è anche possibile che non ci rendiamo
mai conto di avere diverse interpretazioni perché non capita mai il caso controverso). La tesi che ogni
formulazione di una regola può dare adito a diverse interpretazioni è ancor più evidente se si pensa a ordini
su come comportarsi; volendo qualsiasi ordine può sempre essere interpretato in modi sempre nuovi e
imprevedibili, e non c'è un limite alle possibili interpretazioni che chiameremmo "bizzarre".
Ci si trova così di fronte a un apparente paradosso: " una regola sembra determinare un modo
d'agire, ma ogni modo d'agire può essere reso compatibile con la regola" (RF §201)
Questo paradosso nasconde un fraintendimento di fondo: il fraintendimento, sostiene
Wittgenstein, è cercare una garanzia di certezza in una interpretazione della regola. Ma se l'interpretazione
della regola (o l'intenzione di seguire la regola) non ci garantisce la certezza di seguirla correttamente, cosa
può garantircelo? Wittgenstein qui oppone all'interpretazione della regola la pratica del seguire una regola,
pratica sviluppata nel contesto di una comunità linguistica. Seguire una regola è un'abitudine, una prassi,
una convenzione. Occorre sempre distinguere dunque almeno tre diversi livelli in cui si parla di regole:
 la espressione o formulazione di una regola
 la interpretazione di una regola
 la pratica del seguire una regola
Tutte e tre questi livelli sono presenti nel nostro agire sociale; il risultato della discussione di Wittgenstein è
che la sola interpretazione non basta, e interpretare una regola non vuol dire necessariamente seguirla
correttamente (credere di seguire una regola non è seguire una regola!). Non si può seguire una regola
privatim, e - dato che il linguaggio o l'insieme dei giochi linguistici è un fenomeno governato da regole non vi è un linguaggio privato. Su questo punto Wittgenstein sviluppa un'analisi nella quale mostra che non
vi può essere in linea di principio un linguaggio privato delle proprie sensazioni che sia inaccessibile agli
altri. Se qualcosa è un linguaggio, questo è un fenomeno pubblico e costituito dall'accordo dei parlanti
sull'uso dei segni.
5. Della certezza: paradigmi e relativismo
La quantità di inediti di Wittgenstein ha fatto sì che venissero pubblicati nel tempo numerose raccolte di
appunti, molti dei quali sulla matematica e sulla psicologia. Ancora adesso molti studiosi stanno cercando
di riordinare le idee di Wittgenstein su questi argomenti. Tra le tante raccolte di appunti una ha avuto
particolare rilievo, e cioé la raccolta di appunti scritti negli ultimi anni di vita di Wittgenstein, raccolta che
gli esecutori testamentari chiamarono Della Certezza, e che presentano una visione della conoscenza che ha
molto in comune con alcune delle più recenti tendenze della filosofia della scienza contemporanea, in
particolare con le idee di Kuhn (vedi cap xxx).
In questi appunti Wittgenstein parte da una critica ad alcune idee del filosofo G.E. Moore (vedi
cap xxxx), conosciuto nei suoi anni di studio a Cambridge. Moore, in due saggi intitolati "Dimostrazione
del mondo esterno" e "Difesa del senso comune", considerava, come esempi di conoscenza certa,
1
Questo è l'esempio originale di Wittgenstein. Kripke ha sviluppato un esempio analogo in un suo famoso saggio su Wittgenstein.
Immaginiamo che non abbia mai eseguito l'addizione 57+68. Come faccio a essere sicuro che in base alla regola dell'addizione il
risultato sia 125? La formulazione della regola dell'addizione ammette diverse interpretazioni, ad esempio l'interpretazione per cui per
questa coppia particolare di numeri il risultato è 5. Chiamiamo questa interpretazione della regola "quaddizione". Dato che non ho mai
eseguito 57+68 cosa mi dimostra se in passato ho usato l'addizione o la quaddizione? Non vi è nulla (né fatti fisici, né fatti mentali) nel
mio comportamento passato, che mi permette di decidere. Il mio comportamento è infatti compatibile con l'addizione e la quaddizione.
L'unica garanzia della correttezza della regola sta nella pratica della comunità linguistica, e non nella mente o nelle disposizioni del
singolo parlante.
proposizioni come "so di avere due mani", "la terra esisteva già molti anni prima che io nascessi" o "non mi
sono mai allontanato dalla superficie della terra". Moore vuole criticare ogni forma di idealismo, e al
contempo sradicare uno dei suoi punti di partenza, la concezione delle "idee" come l'unica cosa certa di cui
abbiamo conoscenza. Da Descates a Locke infatti le idee erano la fonte primaria della certezza. Ciò che era
certo erano le idee nella mente, ciò che era incerto era se esse rappresentassero veramente il mondo esterno.
Moore al contrario vuole dare rilievo fondamentale alle proposizioni del senso comune - proposizioni sul
mondo esterno - che sembrano essere esenti da dubbio. La certezza riguarda non ciò che è depositato nella
mente, ma le certezze del senso comune.
Per Wittgenstein Moore ha individuato un problema, ma ha dato una risposta sbagliata. Secondo la
sua visione filosofica Wittgenstein svolge una analisi "grammaticale" del termine "conoscenza" e "sapere".
Non possiamo sensatamente dire di "sapere" le proposizioni del senso comune; infatti diciamo di sapere
qualcosa quando abbiamo giustificazioni e quando ciò che conosciamo può essere fonte di discussione. Ma
queste proposizioni sono esenti da dubbio, e quindi anche da conoscenza. Cosa rappresentano dunque, se
non possiamo chiamarle "conoscenza"? Esse sono esempi di qualcosa che forma il retroterra delle nostre
conoscenze, contribuiscono a costituire il paradigma entro cui ha senso porre domande sulle quali definire
ciò che si conosce o no. Esse sono assunzioni che formano "il fondamento dell'agire e dunque,
naturalmente, anche del pensare" (Sulla Certezza § 411). Esse costituiscono l'alveo entro cui scorre l'acqua
del fiume della conoscenza. Prendono il posto delle verità "a priori", che sono date prima di ogni
conoscenza, e che - come l'alveo del fiume - non sono fissate una volta per tutte ma subiscono lentissimi e
graduali mutamenti. Questi temi (il progressivo cambiare dell'apriori e la relatività della ricerca scienza a
paradigmi scientifici più generali), in parte trattati anche da alcuni neopositivisti, verrano sviluppati dalla
filosofia della scienza successiva a Wittgenstein. (vedi cap xxx)
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