1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II DIPARTIMENTO DI SCIENZE PENALISTICHE, PENITENZIARIE E CRIMINOLOGICHE COLLANA DI STUDI 2 Comitato Scientifico Nicola Carulli, Paolo De Lalla, Carlo Fiore, Dario Grosso, Sergio Moccia, Vincenzo Patalano, Guido Pierro, Giuseppe Riccio 3 4 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA ____ Copyright 2008 Wolters Kluwer Italia Srl ISBN 978-88-13-289959 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro. Stampato in Italia - Printed in Italy Napoli - “I Farella snc” 5 ...alle ragioni della mia vita V 6I VII7 INDICE SOMMARIO Presentazione ........................................................................................... p. 11 CAPITOLO I LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 1. Le implicazioni costituzionali e sistematiche del controllo sull’esecizio dell’azione ...................................................................... p. 19 2. L’abbandono dell’azione in senso astratto e l’approdo all’azione in senso concreto ............................................................................. p. 25 3. Dall’udienza di smistamento all’udienza preliminare come forma ordinaria del controllo sull’esercizio dell’azione ...................... p. 32 4. Segue: le forme del controllo negli altri riti .................................... p. 41 5. Fondamento e limiti delle novelle codicistiche del 1993... ........... p. 47 6. Segue: ...e del 1999. Le perplessità sulla natura meramente processuale della “nuova” udienza preliminare ................................... p. 61 7. Sull’assenza di un’alternativa procedimentale all’udienza preliminare ............................................................................................. p. 68 V 8 III CAPITOLO II PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 1. L’essenzialità dell’imputazione nella domanda di giudizio ............ p. 81 2. I difetti dell’imputazione ................................................................ p. 88 3. Il rimedio offerto dalla giurisprudenza di legittimità: considerazioni critiche ................................................................................... p. 99 4. Lo svolgimento dell’udienza tra profili descrittivi e approdi problematici.......................................................................................... p. 116 5. Sulle ragioni del rafforzamento delle garanzie di partecipazione dell’imputato. La contumacia dell’imputato ................................... p. 120 6. Segue: l’impedimento del difensore ............................................... p. 126 CAPITOLO III CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 1. I nuovi poteri del giudice. Il principio di completezza delle indagini ................................................................................................. p. 129 2. Segue: l’attività di integrazione probatoria ..................................... p. 153 3. La compatibilità funzionale dell’incidente probatorio in udienza preliminare ..........................................................................................p. 164 4. Novum probatorio e modifiche dell’imputazione............................ p. 170 5. Gli esiti dell’udienza preliminare ................................................... p. 176 6. La formazione dei fascicoli processuali.......................................... p. 200 IX9 CAPITOLO IV DALL’UDIENZA PRELIMINARE ALL’UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 1. Le prospettive sistematiche dell’art. 111 della Costituzione: la centralità della giurisdizione ........................................................... p. 205 3. Le ragioni abolitive dell’avviso di conclusione delle indagini in una struttura processuale organizzata sull’«immediata conoscenza dell’accusa» ......................................................................... p. 214 4. Dalla monofunzionalità alla polifunzionalità della nuova udienza: la struttura dell’udienza di conclusione delle indagini .............. p. 219 5. Segue: le implicazioni decisorie. Applicazione di pena concordata e condanna su richiesta............................................................ p. 237 XII 10 XIII 11 Presentazione Scrivere oggi sull’udienza preliminare può apparire arduo e superfluo: arduo, perché essa è uno degli istituti processuali maggiormente arati dalla dottrina contemporanea, per cui sembra impossibile raggiungere sponde di originalità; superfluo, perché – a leggere le opere in argomento – appare che tutto sia stato detto. Se si riflette più attentamente, però, si scopre che: non è un caso che solo da pochi anni il giudice dell’udienza preliminare talvolta applichi in udienza l’art. 129 c.p.p., avendo finalmente la Corte di cassazione riconosciuto di recente lo specifico rapporto tra volontà della parte e attribuzione di competenza funzionale (cfr. Cass., Sez. un., 25 gennaio 2005 n. 12283, De Rosa); non è un caso che ancora di recente la giurisprudenza appaia concorde sulla non abnormità del provvedimento di restituzione degli atti al giudice dell’udienza preliminare – non al pubblico ministero – da parte del giudice del dibattimento che rileva la nullità del decreto di rinvio a giudizio per sommarietà della imputazione (Cfr. Cass., Sez. un., 10 dicembre 1997 n. 17/98, Di Battista ed altro; ed ora, tra altre, Cass., sez. I, 21 marzo 2007 n. 14030, Fragnoli) – e noi sappiamo che restituire gli atti al giudice dell’udienza preliminare significa imporre la pratica dell’itinerario di cui all’art. 423 c.p.p. –; non è un caso che ancora nel 2008 la Cassazione intervenga per riconoscere allo stesso giudice il potere di condannare l’imputato alla provvisionale in favore della costituita parte civile (Cass., sez. IV, 18 dicembre 2007, Fondiaria ass., sentenza n. 8080/08), riaccendendo il mai sopito dibattito sui poteri di cognizione del merito del giudice chiamato soltanto al controllo sulla correttezza dell’accusa (così Corte cost., sentenza 6 luglio 2001, n. 224 e successive); non è un caso, infine – e per non andare oltre –, che ancora nel 2008 le Sezioni unite della Corte di cassazione XII 12 si siano dovute interessare di un palese e risalente contrasto giurisprudenziale in materia di potere sollecitatorio di quel giudice che rileva la “sommarietà” dell’imputazione (Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007 n. 5307/08, Battistella), decisione contesa tra estimatori e critici severi, che, quindi, non chiude la partita. Peraltro, proprio sul fronte dell’imputazione, la Corte Europea dei Diritti dell’uomo, da ultimo con sentenza resa a Strasburgo l’11 dicembre 2007 nel procedimento Drassich c. Italia, ha aperto un nuovo fronte, affermando il principio secondo cui all’imputato deve essere riconosciuto il diritto di poter interloquire sull’imputazione riqualificata dal giudice che, pertanto, può provvedere a correggere eventuali errori del pubblico ministero in tema di fattispecie solo assicurando l’effettività delle prerogative difensive anche sulla diversa qualificazione giuridica. Questa più profonda attenzione, mentre apre spazi di originalità a chi intenda osservare il fenomeno con metodo problematico, non descrittivo, e mentre rivela le ragioni legittimanti una prospettiva riformista, per altro aspetto evidenzia il travaglio a cui è sottoposta – ancora oggi – l’opera ermeneutica di chi deve applicare le disposizioni sull’udienza con il legittimo intento di farsi guidare dalla interpretazione – e, quindi dalla legge – non dalle prassi, mancando un “diritto vivente” reale, non apparente, sostenuto cioè da un precedente autorevole, non fittizio. Peraltro, il panorama minimo del “diritto giurisprudenziale” qui tracciato dimostra le delicate interconnessioni con le categorie dogmatiche fondamentali della Procedura penale, rispetto alle quali, evidentemente, gli sforzi di acculturamento non sono compiuti. In questa vicenda si assiste insomma alla continua erosione del principio di legalità attraverso forme di “anarchia interpretativa”, quando non delle prassi. Ed è questa la faccia più pericolosa dell’abuso nel processo. E tutto ciò a distanza di venti anni di applicazione del Codice “rivoluzionario” – in senso democratico – del 1988 e di venti anni di giurisprudenza, anche costituzionale, che ha trattato l’argomento con alterne vicende. Dunque, un impatto problematico con la disciplina dell’udienza preliminare, che l’Autrice affronta con compiutezza documentativa e argomentativa sullo sfondo della domanda: come è possibile tutto ciò? XIII 13 Ebbene, venti anni dopo tutto appare chiaro e, perciò, va portato a razionalità, soprattutto in epoca in cui si respirano venti riformistici, che la dottrina ha (= dovrebbe avere) l’onere ed il privilegio di indirizzare, se vuole liberarsi definitivamente della Scuola tecnico-giuridica, tanto cara al Positivismo giuridico che si alimentò a cavallo dell’800/‘900 e che la relegava a lettore neutro e neutrale delle vicende del diritto e dei diritti altrove compiute. E tutto appare chiaro se si va al fondo della situazione – 20 anni dopo è possibile e dovuto – per cogliere le ragioni di una incertezza originaria, testimoniata da un sintetico restyling sistematico. In questa direzione appare significativa la lettura dei passi in argomento contenuti nella Relazione al Progetto preliminare del 1988. Questa, riportando la sintesi dei lavori parlamentari, lascia apparire la preoccupazione politica che guidò la mano di quel legislatore. Si legge, infatti, a proposito dei poteri del giudice dell’udienza preliminare, che l’esclusione di ogni iniziativa nella raccolta della prova rispondeva la bisogno di porre rimedio ha inteso porre rimedio «al pericolo della rinascita di un’attività istruttoria». Dunque, il pericolo di una indesiderata reviviscenza di poteri inquisitori – fortemente indesiderata – generava un debole momento di controllo sull’esercizio dell’azione penale, aggravato dalla previsione della “evidenza” quale presupposto della sentenza di non luogo a procedere, pur nella convinzione che quell’aggettivo costituiva un connotato centrifugo, sul terreno politico, rispetto alla funzione dell’udienza e, sul terreno giuridico, rispetto all’oggetto della valutazione prognostica. Ma la preoccupazione era elevata perché l’abolizione del “significato” della figura del giudice istruttore costituiva il collante culturale delle diverse prospettive di riforma coltivate all’epoca e perché dieci anni prima, anche per questa ragione, falliva il Progetto del 1978, nonostante al “nuovo” giudice istruttore lì ipotizzato, che non assumeva prove, veniva conferito solo il potere di «incanalare il processo verso il proscioglimento, il giudizio immediato o gli atti di istruzione» ed eccezionalmente quello di assumere prove quando esse avessero condotto all’assoluzione dell’imputato. Insomma, la palese diversità di funzione tra le due figure non mitigò quella preoccupazione, per cui si generò un momento XIV 14 di controllo – monofunzionale – al cui protagonista, però, non venivano conferiti gli indispensabili strumenti per il controllo. La prima avvisaglia di questo “vizio genetico” la si ebbe, non tanto nella pur significativa denunzia prodotta da asfittiche prassi (l’“asfissia” dell’udienza fu slogan immediatamente proclamato dall’Avvocatura), quanto ad opera della Corte costituzionale, che quasi immediatamente – siamo nel 1991; la sentenza è la n. 88 – rilevò che la “regola pregiuridica” della “completezza” delle indagini rendeva impraticabile il ricorso alle sentenze allo stato degli atti, nel cui novero si collocava anche quella di non luogo a procedere; e tutto ciò proprio per i ridotti poteri di “informazione” conferiti al giudice dell’udienza preliminare dall’art. 422 c.p.p. originario, oltreché – sul piano dogmatico – a causa del mancato acculturamento circa il ruolo “collaborativo” dei poteri delle parti nel procedimento (cfr. artt. 358 c.p.p.; 367; 375-376 c.p.p.; la difesa reattiva per la prova era affidata all’art. 38 disp. att. c.p.p.). E furono quelle pronunce e questa situazione intellettuale ad indirizzare la lenta riforma del settore, che si realizzò nel 1999 con la legge n. 479, a cui seguirono quelle di inizio millennio, estranee al tema qui trattato. Ebbene, la “legge Carotti” ha risolto i problemi della conoscenza del processo (art. 415-bis c.p.p.) e della completabilità delle indagini (art. 421-bis c.p.p. e, ancora, art. 415-bis c.p.p.); ha arricchito i poteri – ora “probatori” – del giudice (art. 422 c.p.p.), anche in chiave di “spinta” ai riti alternativi premiali; ha ampliato le risorse definitorie dell’udienza (art. 425 c.p.p.), al punto che, proprio in ragione di tali ultimi poteri, la Corte costituzionale – ma anche parte della dottrina – inizialmente ha ritenuto che si fosse verificata una mutazione genetica dell’udienza, divenuta, così, “momento di giudizio”, perché produce – addirittura – «una valutazione del merito dell’accusa….non più distinguibile…da quella propria di altri momenti» (sic! in sentenza n. 335 del 2002). Insomma, si riaffermava la monofuzionalità dell’udienza ma si riteneva che essa avesse cambiato veste. Ebbene, se già qui non può non notarsi che quella novella ignorò i coevi dettati della legge costituzionale n. 2 del 1999 che ha rivoluzionato l’art. 111 Cost. con esplicito riferimento al “processo di parti” e alla connaturale centralità della giurisdizione; e se va XV 15 riconosciuto che essa ha tamponato la falla maggiore (conoscenza del procedimento e completabilità delle indagini), tuttavia non può ignorarsi che essa ha creato mille altri problemi – soprattutto sul fronte interpretativo – che l’Autrice esamina compitamente e con stringenti argomentazioni. Sul piano dogmatico, poi, si fa fronte a quella dottrina che ha visto nella legge un vulnus al sistema accusatorio – perché avrebbe intromesso il giudice nell’azione (sic! in relazione all’art. 421-bis c.p.p.) e perché avrebbe fatto rivivere, con i poteri conferiti dall’art. 422 c.p.p., il giudice istruttore – ; aggravato dalla dubbia appartenenza del nuovo microsistema alle regole del “giusto processo” e dalla ritenuta infedeltà al principio di imparzialità del giudice: errore culturale, prima che logico e sistematico, perché quel giudice è solo quello del 1930 (rectius: dei processi inquisitori), non il giudice che, anche d’ufficio, fa fronte alle esigenze del processo. Per questa parte, allora, è evidente che la legge ha creato nuovi problemi e garanzie asistematiche (es. art. 422 comma 4 c.p.p.; per non dire, addirittura, degli artt. 420-bis e ss. c.p.p.) per la congenita incapacità della legislazione di “emergenza” di distinguere gli eterogenei. Ma quella legge non ha risolto problemi già presenti e di eguale spessore, qui evocabili solo per titoli, perché di essi va colto, in questa sede, quel complesso intreccio tra premesse dogmatiche ed interpretazione che manca all’attuale “diritto giurisprudenziale”: la monofunzionalità dell’udienza impedisce di far chiarezza sull’ambito di applicazione dell’art. 129 c.p.p. in udienza preliminare per il permanente preconcetto di un conflitto tra norma speciale (quella dell’art. 425 c.p.p.) e norma generale (appunto: l’art. 129 c.p.p.); il delicato capitolo della vicenda dell’imputazione in cui si innesta, a monte, la mancata previsione di sanzione per la sua genericità (art. 417 c.p.p.) e, a valle, la specifica previsione di nullità nell’art. 429 c.p.p.; situazione in cui parte della dottrina intravede una lacuna legislativa e che, invece, risponde a logiche di sistema che vanno rivelate; l’ambito operativo dell’art. 423 c.p.p., per la dubbia interpretazione della formula “se durante l’udienza”; il delicato rapporto tra correttezza dell’imputazione e poteri XVI 16 del giudice, con l’implicazione del problematico ricorso analogico all’art. 521 c.p.p. Questi argomenti – si è detto – restano controversi anche dopo la richiamata sentenza delle Sezioni unite; perciò essi vanno ricondotti a razionalità sistematica, unica cifra per misurare l’uguaglianza di trattamento ed il rispetto del principio di legalità. E va notato che al fondo della vicenda – di qui il privilegio del punto di osservazione – si annida il dubbio che persista, nella cultura processual-penalistica, l’idea che il Codice del 1988 abbia innovato poco in materia sanzionatoria e, quindi, che nelle situazioni qui esaminate debba farsi ricorso alla nullità assoluta di ordine generale; ma il tema specifico sfugge ai bisogni dimostrativi delle scelte dell’Autrice, tutte operate con rigore metodologico e convincenti argomentazioni, a testimonianza della conoscenza dei profili di teoria generale e dei presupposti, anche sistematici, per la corretta interpretazione della complessa vicenda che esamina. Tuttavia, per chi scrive questa nota, il complesso percorso della ricerca dimostra che non ancora si è composto (rectius: che si è riproposto) il dissidio tra interpretazione dotta e interpretazione giurisprudenziale, sintesi che – viceversa – faceva dire ad Esmein, nel 1902, che anche la seconda appartiene alla Scienza giuridica. E dimostra, altresì, che l’epoca è caratterizzata da un preoccupante dominio della prassi. E dunque, rilevare i vizi dei ragionamenti giurisprudenziali ed i conflitti con la dottrina – come fa Vania Maffeo – significa partecipare – nel proprio “piccolo”, ovviamente, e nello specifico settore di ricerca – alla ricostruzione dei fondamenti della Scienza del processo penale. Perciò non deve meravigliare il fatto che l’ultima parte dell’opera si intrattenga sulle prospettive riformiste. Invero, la documentazione dell’opera compiuta in questa direzione, in più di una legislatura, se per un verso dimostra la condivisa necessità di por mano al Codice – salvo a stabilire il metodo con cui si intende compiere l’opera –, per il verso che qui interessa rappresenta l’osservazione su prodotti culturali la cui esistenza non può ignorare chi, dall’esame della disciplina legislativa, rileva crisi giurisprudenziale e debolezza sistematica, nonché la loro interna XVII 17 interconnessione, situazione che ha costituito il substrato su cui quell’opera si è avviata. Del resto, fare Scienza giuridica, oggi, significa anche – o: soprattutto – praticare la strada della individuazione delle premesse culturali e degli atteggiamenti intellettuali utili alla rimozione delle cause della crisi della giustizia seguendo le più rigorose metodiche del “dogmatismo politico”. GIUSEPPE RICCIO 18 19 CAPITOLO I LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA SOMMARIO: 1. Le implicazioni costituzionali e sistematiche del controllo sull’esercizio dell’azione. – 2. L’abbandono dell’azione in senso astratto e l’approdo all’azione in senso concreto. – 3. Dall’udienza di smistamento all’udienza preliminare come forma ordinaria del controllo sull’esercizio dell’azione. – 4. Segue: Le forme del controllo negli altri riti. 5 – Fondamento e limiti delle novelle codicistiche del 1993….. 6. Segue: … e del 1999. Le perplessità sulla natura meramente processuale della “nuova” udienza preliminare. – 7. Sull’assenza di un’alternativa procedimentale all’udienza preliminare. 1. Le implicazioni costituzionali e sistematiche del controllo sull’esercizio dell’azione. L’udienza preliminare, snodo nevralgico del processo, costituisce una novità del codice di procedura penale del 1988, anche se la sua ratio, di genesi giurisprudenziale, è risalente nel tempo. Invero, già la Corte costituzionale aveva affermato, in più occasioni, la necessità di un momento di controllo sulla consistenza dell’accusa, da realizzarsi mediante un momento dialettico nel quale le parti potessero confrontarsi davanti ad un giudice terzo1. Fu così che il 1 Cfr., tra le altre, Corte cost., n. 32 del 2 aprile 1964; n. 11 del 19 febbraio 1965 e n. 52 del 26 giugno 1965; n. 151 del 15 dicembre 1967; n. 117 del 28 novembre 1968. 20 CAPITOLO I legislatore del 1988 introdusse per la prima volta nella storia della procedura penale continentale un momento di controllo sull’esercizio dell’azione concepito in funzione di garanzia dell’imputato. La Corte costituzionale, in particolare, si era pronunciata in occasione dello scrutinio di costituzionalità dell’art. 389 comma 3 c.p.p. 1930 – norma che riconosceva al pubblico ministero, senza alcuna verifica giurisdizionale2, il potere di trattenere gli atti e di procedere con istruzione sommaria nelle ipotesi di evidenza della prova – dichiarando l’illegittimità di quella norma nei limiti in cui escludeva la sindacabilità, nel corso del processo, della valutazione compiuta dal pubblico ministero sulla evidenza della prova3. Nonostante il lungo tempo trascorso, l’approfondimento delle argomentazioni della Corte appare ora indispensabile, non tanto in Nel codice del 1930, invero, la delibazione dell’accusa avveniva al termine dell’istruzione formale, attraverso un meccanismo che sacrificava le esigenze di garanzia a favore di quelle di economia, ed il giudice istruttore era l’unico organo deputato a decidere sull’opportunità del passaggio al dibattimento al quale doveva far luogo quando riconoscesse che vi erano “sufficienti prove a carico dell’imputato” (art. 374 c.p.p.). L’art. 389 c.p.p. 1930 – disponendo che “per i reati di competenza della Corte d’Assise e del Tribunale il procuratore della Repubblica [doveva] procedere con istruzione sommaria quando l’imputato [fosse stato] sorpreso in flagranza o [avesse] commesso il reato mentre era arrestato, detenuto o internato per misura di sicurezza, e non si [poteva] procedere a giudizio direttissimo, ovvero quando l’imputato nell’interrogatorio [avesse] confessato di aver commesso il reato e non [apparivano] necessari ulteriori atti di istruzione nonché, per i reati di competenza della Corte d’Assise o del Tribunale punibili con pena detentiva temporanea o con pena meno grave, in ogni caso in un cui la prova [fosse apparsa] evidente” – escludeva, invece, qualunque forma di controllo nel caso di evidenza probatoria. Sul fondamento dell’istruzione nel codice del 1930 si veda G. LEONE, Trattato di procedura penale, Vol. II, Napoli, 1961; G. FOSCHINI, L’istruzione in generale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1960, p. 378; V. MANZINI, Trattato di Diritto Processuale Penale, Torino, 1982, Vol. IV, sesta ediz., p. 148. L’autentico fine della fase istruttoria è stato ben ricostruito di recente da F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, in Trattato di diritto processuale penale, diretto da G. Ubertis-P. Voena, Vol. XXX.1, Milano, 2007, p. 30 e ss. 3 Corte cost., sentenza n. 117 del 21 novembre 1969, cit. Per un approfondimento circa le argomentazioni della Corte nella sentenza in questione cfr. N. CARULLI, Agonia dell’istruzione sommaria, in Arch. pen., 1969, II, p. 97; nonché V. GREVI, In tema di scelta del rito istruttorio, prima e dopo l’intervento della Corte Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1968, p. 1356. 2 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 21 relazione alla specifica situazione, quanto per cogliere l’evoluzione nella determinazione dei parametri costituzionali della necessità di un controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione4. 4 Va riconosciuto, però, che attuali iniziative legislative sembrano muoversi in senso contrario. Così, ad esempio, nel decreto-legge n. 92 del 23 maggio 2008, conv. con modif. dalla l. n. 125 del 24 luglio 2008, si accentua il ricorso al giudizio immediato, prescrivendosi che, nelle ipotesi in cui si procede per un reato per il quale la persona sottoposta alle indagini sia in stato di custodia cautelare, debba essere richiesto il giudizio immediato anche fuori dal termine di novanta giorni a far data dall’iscrizione della notizia di reato, ma entro centottanta giorni dall’esecuzione della misura, salvo che la richiesta di giudizio immediato pregiudichi gravemente le indagini. La richiesta deve essere proposta dopo la definizione del procedimento di riesame ovvero dopo il decorso dei termini per la proposizione della richiesta di riesame; se la custodia cautelare è poi revocata o annullata per sopravvenuta insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, il giudice deve rigettare la richiesta di giudizio immediato. L’idea di fondo della riforma in parte qua è che la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e il conseguente stato detentivo del sottoposto ad indagine impongano lo svolgimento del giudizio in tempi particolarmente rapidi e rendano superfluo il controllo sulla fondatezza dell’azione, affidata ordinariamente all’udienza preliminare. Il giudizio di gravità indiziaria formulato sul terreno cautelare si proietta sul terreno del controllo del merito della vicenda processuale, non ovviamente nel senso di vincolare il giudice del processo principale alle valutazioni espresse in sede cautelare, ma in quello di affrancare l’accertamento dalla preliminare verifica sull’esistenza delle condizioni per chiedere il giudizio. Sulla scia della recente riforma – legge n. 46 del 2006 – che ha introdotto il comma 1-bis all’art. 405 c.p.p., il legislatore di questo decreto-legge sperimenta un percorso inedito, che lega il momento cautelare al giudizio di merito in una direzione inversa a quella tradizionalmente percorsa dal principio dell’assorbimento. Le connessioni tra cautelare e merito, infatti, sono sempre state strutturate nel senso che è il giudizio di merito, in cui si accertano compiutamente i fatti e le responsabilità, ad assorbire i giudizi cautelari, per loro natura fondati su un materiale informativo in evoluzione, che può esprimere una probabilità di colpevolezza e non può essere qualitativamente comparato con il giudizio di merito, con la pronuncia di condanna che implica l’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza (v., in tal senso, Sez. un., 30 maggio 2006, Spennato, in Cass. pen., 2007, p. 46). Con le riforme appena indicate si inverte il senso del collegamento, ed è il giudizio cautelare ad “interferire” con il procedimento principale; la superfluità dell’udienza preliminare in forza dell’esistenza di un giudicato cautelare è l’effetto di una rilevanza di quel decisum ben oltre l’ambito che è ad esso proprio, sicché non può più dirsi, con Sez. un., 24 aprile 2008, n. 18253, in C.E.D. Cass., n. 239397, che «il giudicato nel procedimento incidentale riguarda solo il vincolo imposto dal provvedimento e ordinariamente non produce alcun effetto diverso, esaurendo completamente il proprio ambito con la pronuncia su quel vincolo» e che «l’art. 405 comma 1-bis c.p.p. è l’unica eccezione prevista dalla legge a tale principio». Sennonché, come si vedrà nel § 4 di questo stesso Capitolo e se la struttura di tale giudizio rimarrà invariata, anche in tal caso non si sottrae quella forma di controllo giurisdizionale, potendo il giudice rigettare la richiesta in mancanza dei connotati essenziali del rito. Diversa 22 CAPITOLO I Si ricorderà che la scelta del tipo di istruttoria era, per ciascun processo, riservata al pubblico ministero che, come titolare dell’azione penale, vi provvedeva appena in possesso degli elementi acquisiti nella cosìddetta istruzione preliminare, diretta ad un primo vaglio ed alla messa a fuoco della notitia criminis. La scelta, però, era operata in base a criteri fissati dalla legge, essendo egli, di norma, tenuto a rimettere gli atti al giudice istruttore (cfr. artt. 295 e 296 c.p.p. 1930), tranne nei quattro casi espressamente previsti dall’art. 389 c.p.p., nei quali avrebbe potuto trattenerli e procedere con istruttoria sommaria (reato scoperto in flagranza, reato commesso in stato di detenzione, confessione dell’imputato, evidenza della prova) 5. Sennonché, non esistendo nel codice norme che sottoponessero a un qualche controllo la scelta in ordine al tipo di istruttoria, né essendo prevista alcuna sanzione per l’ipotesi in cui, superando i criteri previsti dall’art. 389 c.p.p., o mal valutando gli elementi della confessione e, soprattutto, della “evidenza” della prova – che spesso richiede una buona dose di discrezionalità – il pubblico ministero avesse trattenuto processi di “competenza” del giudice istruttore, l’eventuale abuso del ricorso all’istruzione sommaria non era censurabile, dal momento che, per interpretazione consolidata, si escludeva che il caso potesse inquadrarsi fra quelli determinanti una delle nullità d’ordine generale previste dall’art. 185 c.p.p. Contro tale assetto normativo si appuntarono le censure di incostituzionalità che spinsero la Corte ad affermarne l’illegitti- è l’ipotesi prospettata dalle Camere penali (Osservazioni sulla bozza di legge-delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale del 20 dicembre 2007), ove si paventa l’ipotesi di una udienza “a richiesta dell’imputato”, ipotesi che sarà commentata nell’ultimo Capitolo. Qui va sottolineato, però, che anche essa raccoglie l’idea della indispensabilità del controllo sul corretto esercizio dell’azione penale, solo che lo affida alla parte, in maggiore coerenza con la struttura di un processo di parti. 5 Cfr. art. 389 commi 4, 5 e 6 c.p.p. 1930. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 23 mità per violazione dell’art. 25 comma 1 della Costituzione6. Nell’occasione essa ritenne che il principio della non derogabilità del giudice naturale dovesse trovare applicazione anche nella fase istruttoria, sia perché era la legge a prescrivere che si dovesse procedere con istruttoria formale, sia in considerazione della non dubbia natura giurisdizionale di tale attività, svolta da un giudice e conclusa con un atto che aveva non solo forma ma anche contenuto di sentenza, specie quando, prosciogliendo l’imputato, si concludeva il giudizio nel merito (art. 387 c.p.p.)7. Insomma, la Corte riconobbe che in quel sistema – dato dal combinato disposto degli artt. 295 e 389 c.p.p. – la competenza del giudice istruttore fosse condizionata dalla scelta del pubblico ministero in base a criteri che, almeno nel caso dell’evidenza della prova (art. 389 terzo comma c.p.p.), potessero risultare incompatibili con il principio della precostituzione del giudice; a meno che – appunto – non si fosse consentito, nell’ulteriore corso del processo, un controllo giurisdizionale sulla scelta della forma dell’istruttoria. La Corte concluse, dunque, per l’inconciliabilità tra quel principio e l’insindacabilità della scelta adottata dal pubblico ministero, comportando, essa, il rischio del travalicamento dei limiti di legge e l’effetto di restringere la “competenza” del giudice istruttore al di sotto dei limiti stessi. Di qui l’indubbia violazione del principio 6 Cfr. le ordinanze dei Tribunali di Palermo e di Napoli, i quali, con riferimento al comma terzo dell’art. 389 c.p.p. 1930, osservarono che «se il giudizio del pubblico ministero, nello stabilire se e quando la prova appare evidente, fosse rimasto affidato esclusivamente alla sua insindacabile discrezionalità, la scelta del tipo di istruttoria sarebbe divenuta discrezionale, con la conseguenza che l’imputato avrebbe finito per essere distolto dal suo giudice naturale e, dunque, dal giudice istruttore, tutte le volte che, pur non ricorrendo le ipotesi previste dall’art. 389 c.p.p., l’istruttoria non fosse stata affidata a lui ma fosse stata invece trattenuta dal pubblico ministero». Con la conseguenza che la disposizione impugnata rendeva possibile una violazione dell’art. 25 primo comma della Costituzione. 7 Corte cost., sentenza n. 117 del 28 novembre 1968, cit. Del resto la Corte si era già pronunciata in tal senso nella sentenza n. 110 del 22 giugno 1963. 24 CAPITOLO I dell’inderogabilità del giudice naturale precostituito per legge. Di qui l’idea che il controllo sull’esercizio dell’azione non sia invenzione del legislatore del 1988. È invece certamente una novità il modo con cui lo stesso raggiunge lo scopo: un’apposita udienza finalizzata al vaglio delle imputazioni azzardate8. Epperò, quello che allora sembrava il sicuro parametro costituzionale ha lasciato il posto a più complesse argomentazioni, essendosi chiarito il significato dell’art. 25 comma 1 della Costituzione ed essendo venuta meno la possibilità di siffatta pratica, se si esclude quella – censurabile e censurata – della scelta del giudice in materia di giudizio direttissimo9. Sul fronte costituzionale, se la diade “precostituito-naturale” ha trovato progressivamente sicuro orientamento distintivo anche sul terreno processuale10, col tempo è apparso evidente che i referenti del controllo sull’esercizio dell’azione vadano ricercati in un più complesso quadro di riferimento, in cui confluiscono, per un verso, l’obbligo di azione del pubblico ministero ed i fondamenti del suo diritto alla giurisdizione e, per altro verso, la presunzione di non colpevolezza ed il diritto di difesa. In sintesi – anche perché il discorso risulterà più chiaro in prosieguo – la composizione dei significati connessi alla linea A tal proposito appare opportuno sottolineare come, sebbene il passaggio dall’esperienza rivoluzionaria a quella napoleonica avvenuta nel 1808 con l’emanazione del Code d’instruction criminelle non abbia determinato il superamento della presenza di una fase preliminare intesa a verificare la sussistenza delle condizioni per l’instaurazione del dibattimento, si sia registrata una progressiva perdita di autonomia della fase continuando la stessa ad esistere solo sulla carta. Per una compiuta ricostruzione del codice napoleonico del 1808 v., per tutti, A. ESMEIN, Historie de la procedure criminelle en France et specialement de la procedure inquisitoire, (1882), Frankfurt am Main, 1969. 9 Situazione, peraltro, oggi superata dal più rigido sistema tabellare, da tempo consolidato nella legislazione di ordinamento giudiziario. 10 Un esempio interno al processo, relativo al distinguo tra “precostituzione” e “naturalità”, può ritenersi quello che distingue le attribuzioni “in orizzontale” dei giudici dello stesso ufficio: così G. RICCIO, Competenza funzionale, in Enc. giur., Vol. VII, Roma, 2002. 8 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 25 normativa rappresentata dagli artt. 112, 24 comma 1, 27 comma 2 e 24 comma 2 della Costituzione rivela che l’obbligatorietà dell’azione non libera il pubblico ministero dall’onere probatorio capace di affievolire la presunzione di non colpevolezza quale presupposto del diritto dello stesso alla giurisdizione ed al processo. Si vuol dire che una più aggiornata lettura dei principi costituzionali nella prospettiva dei diritti procedurali, quali situazioni soggettive costituzionalmente protette, evidenzia che l’obbligo di agire e, quindi, il diritto del pubblico ministero alla giurisdizione sono generati dalla presenza di elementi qualificati in chiave di affievolimento della presunzione di non colpevolezza. 2. L’abbandono dell’azione in senso astratto e l’approdo all’azione in senso concreto. La premessa orienta verso l’azione, connotato di sistema, rispetto al quale la centenaria continuità dei modelli processuali con istruzione ha concentrato l’attenzione della dottrina sulla natura giuridica e sui caratteri, nonché sulla titolarità, solitamente connessa alla presenza nell’ordinamento di forme complementari di azione. Il complesso argomento sfugge all’economia di questo lavoro, al quale, però, non può risultare estranea una riflessione sul tipo e sul modo del controllo e, soprattutto, sulle regole di giudizio di cui si avvale. Sicché, comprendere la regola della “inutilità del dibattimento” (art. 125 disp. att. c.p.p. e, si vedrà, art. 425 c.p.p.) significa domandarsi, necessariamente, quale scelta abbia compiuto il legislatore in materia di azione, costituendo essa la filosofia e la legittimazione sistematica del modello processuale. Perciò è necessario porre attenzione al tema, per documentare 26 CAPITOLO I il concetto di azione11 su cui fonda la struttura del processo che oggi si pratica. In questa ottica si dirà che, nell’ “epoca d’oro” dello studio di questo concetto, mentre la teoria generale affrontava la situazione giuridica in ambito più complesso per la centralità dell’azione quale categoria di essenza del procedere autonoma rispetto alla giurisdizione; e mentre la processualistica civile concentrava l’attenzione sulle “variabili” delle teorie dell’azione – costituite dagli elementi di distinzione del rapporto fra diritto soggettivo e azione e fra azione in senso sostanziale e formale – pervenendo alla convinzione che l’azione fosse la proiezione processuale del diritto fatto valere, la dottrina processualpenalistica maggioritaria, anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione, concentrava l’attenzione sull’azione intesa come “postulazione del giudizio”. Invero, il distinguo concettuale, secondo il quale l’azione civile è “richiesta di una determinata decisione” mentre l’azione penale è soltanto “richiesta di una decisione”, si traeva dai suoi connotati di essenza, rappresentati dall’obbligatorietà, consacrata nell’art. 112 Cost. ma ritenuta già presente nel codice previgente negli art. 1, 74 e 75 c.p.p., e dal ne procedat iudex ex officio, quali principi generali dell’ordinamento processuale. Questa “scarnificazione” del concetto di azione penale veniva 11 Il tema ha costituito oggetto privilegiato della dottrina tradizionale, a cui si riportano anche i più recenti studi in argomento; ed è proprio la quantità di contributi – anche dei processualpenalisti – che ci esime da una sterile e formale elencazione dei riferimenti letterari che costituiscono la premessa di queste brevi considerazioni. Per una posizione critica circa l’utilità di una elaborazione della teoria generale dell’azione vedi M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, Padova, 1995, p. 17 e ss., che mette in evidenza come dalle dispute sulla definizione e sulla natura giuridica dell’azione penale si possa ricavare “l’impressione di un dispendio di energie non proporzionatamente fruttuoso”. In particolare l’Autore sottolinea come la trasposizione sul terreno del processo penale del concetto di azione ne comporti inevitabilmente la divaricazione dalla nozione civilistica, non potendosi ragionare in termini di diritto di azione, sia esso soggettivo o potestativo, o più in generale di potere, prevalendo la situazione soggettiva del dovere. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 27 ulteriormente ricavata dalla “nuova” disciplina dell’archiviazione12; che, capovolgendo il sistema, affidava al giudice anche il controllo sulla “inazione” del pubblico ministero (= archiviazione) come portato di una concezione dell’azione in senso del tutto processuale, senza alcun riferimento ai profili di sostanza della pretesa punitiva. Ulteriore argomento si incentrava sull’idea che l’astrattezza fosse conseguenza obbligata della non vincolatività dell’azione rispetto al giudizio se non per la impostazione del thema deciendum, potendo il giudice pronunziarsi in maniera difforme rispetto alla pretesa del pubblico ministero13. Si diceva, in sostanza, che, se il giudice penale non trovava limiti rispetto al petitum e, addirittura, se non trovava una domanda, ma solo una richiesta di decisione, l’azione non poteva che considerarsi effetto naturale della notitia criminis, rivelando il suo connotato di astrattezza. I tentativi opposti, diretti ad assegnare all’azione il contenuto di domanda di merito14, ritenevano viceversa che il suo esercizio non rispondesse solo ad un bisogno formale di distinguo tra attore e giudice come formale riconoscimento del ne procedat iudex ex officio, né che fosse leggibile quale mera esecuzione di obbligo costituzionalmente imposto. Perciò, sulla premessa di un suo fondamento nella tutela della pretesa punitiva dello Stato, si affermava che l’esercizio dell’azione, avendo a monte il riconoscimento di un diritto sostanziale, si proiettava nel processo quale richiesta di condanna15. Ci si riferisce al d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288. Per un’analitica ricostruzione delle diverse posizioni, con particolare riferimento all’azione come mera domanda, cfr. G. LEONE, Azione penale, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 851 e ss, 14 Secondo G. LEONE, Azione penale, cit., p. 853, coloro che sostenevano concettualmente tale posizione erano influenzati da un «inavvertito ricollegamento ad una concezione civilistica dell’azione». 15 Tra gli altri, e sempre per rimanere nell’ambito della dottrina tradizionale, si 12 13 28 CAPITOLO I In questa contrapposizione dialettica si inseriva la singolare posizione di quella dottrina che, sul presupposto dell’equazione: azione = attività, ne definiva – già sotto la vigenza della precedente legislazione – il concetto «come il promovimento da parte del pubblico ministero della repressione dei reati, promovimento che, come sappiamo, è un obbligo esclusivo del pubblico ministero, inderogabile per quanto riguarda il suo esercizio, derogabile per quanto riguarda il suo proseguimento, nei soli casi espressamente previsti dalla legge»16. Questa commistione di attività-promovimento-proseguimento attraeva il concetto legislativo di azione nell’ottica del procedimento, negando, così, che nell’istruzione sommaria e nell’archiviazione vi fosse il suo esercizio, inteso – appunto – quale complesso di attività compiute dal pubblico ministero ai fini delle determinazioni giudiziali. La dottrina dell’epoca evidenziava il vizio dogmatico della teoria. Per un verso, si diceva che essa non si impegnava a risolvere il problema della natura dell’azione, anche se – in verità – il connotato di sostanza poteva ricavarsi dalla funzione delle attività del pubblico ministero rispetto alla “repressione dei reati”17; per altro può fare riferimento a F. CARNELUTTI, Richiesta di archiviazione di denunzia penale e sospensione del processo civile, in Riv. dir. proc., 1953, II; G. FOSCHINI, L’archiviazione, in Riv. it. dir. pen., 1952; R. PANNAIN, Osservazione al d.l.lt. 14 settembre 1944, in Arch. pen., 1945. Come si intuisce il discorso è condotto sul filo dell’archiviazione a cui questa dottrina disconosce forma di esercizio dell’azione (contra. G. LEONE, Azione penale, cit.). Sulle peculiarità dell’alternativa tra azione astratta e azione concreta nel processo penale cfr. M. CHIAVARIO, L’azione penale tra diritto e politica, cit., p. 23, secondo cui «neppure nelle visuali volte a propugnar la massima concretizzazione…si è venuti a concepire che il titolare dell’azione stessa possa tendere ad un risultato qualificabile e quantizzabile secondo una scala di vantaggi a lui riferibile direttamente». Si è dunque dato risalto, come situazione di vantaggio, alla sentenza sfavorevole all’imputato senza poter fare riferimento ad un provvedimento propriamente favorevole al titolare dell’azione. 16 P. DE LALLA, Il concetto legislativo di azione penale, Napoli, 1966, p. 170 e ss. I prodromi di tale teoria si rinvengono in GIUS. SABATINI, Il pubblico ministero nel diritto processuale penale, II, Napoli, p. 1048. 17 Il riferimento alla “repressione dei reati” sembra qualificare in tal senso l’azione per P. DE LALLA, Il concetto legislativo di azione penale, cit., p. 170. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 29 verso evidenziava la crisi della giurisdizione nell’istruzione formale, ove il presunto suo esercizio innestava attività giurisdizionali prive delle garanzie della giurisdizione, pur essendo esse rivolte alla raccolta delle prove per il giudizio. La tesi va oggi ripresa. Infatti, se ancora non sono in discussione i caratteri – obbligatorietà, ufficialità, pubblicità18 – né la pretesa esclusività della 18 È bene ricordare, però, l’esistenza dell’attuale dibattito – non solo di natura politica – sull’opportunità di mantenere in vita la regola; dibattito oggi sintetizzato nella parte della Relazione di accompagnamento alla “bozza” del disegno di legge-delega per la riforma del codice di procedura penale elaborata dalla Commissione di Studio presieduta dal Prof. Giuseppe Riccio e nominata con D.M. 27 luglio 2006, di seguito appellata “bozza Riccio”, curata da F. CAPRIOLI. Si legge infatti che «il tentativo di riscrittura della disciplina dell’azione penale non poteva che prendere le mosse dalla constatazione delle gravi patologie che affliggono le attuali dinamiche di esercizio della potestas agendi da parte del pubblico ministero. Si allude, naturalmente, alla pratica impossibilità di dare attuazione al principio di obbligatorietà dell’azione penale, derivante dallo squilibrio esistente tra il numero delle notizie di reato che pervengono agli uffici di procura e le risorse umane e materiali di cui tali uffici dispongono: squilibrio che costringe i magistrati del pubblico ministero a compiere quotidianamente scelte di politica criminale delle quali non rispondono politicamente, con buona pace del principio di soggezione del pubblico ministero soltanto alla legge implicito nell’art. 112 Cost. e della sua funzione di irrinunciabile presidio dell’indipendenza esterna del rappresentante dell’accusa. Al riguardo si impone immediatamente un chiarimento. La regola dell’obbligatorietà è violata se il pubblico ministero non esercita l’azione penale quando sussistono le condizioni di legge che ne rendono doveroso l’esercizio (non infondatezza della notizia di reato), oppure se il pubblico ministero non compie le attività necessarie perché quelle condizioni si realizzino (vale a dire, se non vengono svolte tutte le indagini necessarie per sondare la fondatezza della notizia di reato)». Nella stessa sede, poi, si è notato che «l’idea che occuparsi di tutte le notizie di reato acquisite fosse un compito concretamente irrealizzabile dagli uffici di procura è stata accettata per molti anni con una certa rassegnazione dalla dottrina del processo penale (quella, s’intende, non disposta a mettere in discussione il principio di obbligatorietà, dal momento che i fautori del principio di opportunità ne hanno fatto uno degli argomenti-chiave per caldeggiare l’introduzione di tale principio nel nostro ordinamento). Molto spesso ci si è accontentati del generico auspicio che il legislatore contribuisse a riportare su livelli di normalità il carico giudiziario, attraverso un’opera di massiccia depenalizzazione o in altro modo (ad esempio, aumentando le fattispecie di reato perseguibili a querela di parte). S’intende che l’auspicio deve essere rinnovato, anche se finora il suo destinatario non ha inviato segnali confortanti: così come non può non essere rinnovato l’invito a eliminare o ridurre lo squilibrio tra mezzi e fini aumentando le risorse umane e materiali a disposizione dei magistrati». Da qualche tempo, tuttavia, si è diffusa la consapevolezza che l’art. 112 Cost. si presti a letture non rigide, coraggiosamente “aperte”, compatibili con istituti e soluzioni normative nuove che potrebbero 30 CAPITOLO I titolarità19, tuttavia non può ignorarsi la interferenza della scelta “politica” sull’azione riversata nel nuovo modello processuale. Perciò, se sotto la vigenza del codice abrogato poteva sembrare eccentrica l’idea dell’azione come procedimento, oggi – e non soltanto per la costruzione legislativa del “procedimento per l’azione” – quell’idea sembra aver avuto riconoscimento ed attuazione. Invero, se dal punto di vista dei rapporti costituzionali non può ignorarsi che il pubblico ministero, ai fini dell’esercizio dell’azione, è onerato alla realizzazione di un idoneo supporto “probatorio”; e se, quindi, da questo punto di vista, l’azione può atteggiarsi come procedimento ove si inglobino nel concetto le attività ad essa serventi, la scelta del legislatore risulta di tutta restituire vigore alla regola dell’obbligatorietà. Una prima soluzione al riguardo consiste nel permettere agli uffici del pubblico ministero di selezionare legittimamente le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di parametri normativi che andrebbero appositamente individuati in sede parlamentare (i c.d. “criteri di priorità”). Una simile soluzione permetterebbe di «convertire in vincolata la discrezionalità libera della quale gode attualmente il pubblico ministero nel fissare l’ordine dei procedimenti», conferendo «legittimazione democratica agli indirizzi di politica criminale, oggi affidati a soggetti irresponsabili sul piano politico». Una seconda soluzione – perfettamente in grado di coesistere con la prima – è rappresentata invece dall’ampliamento normativo dei presupposti di operatività dell’archiviazione: in particolare, dall’idea che si possa consentire al pubblico ministero di rinunciare legittimamente all’azione penale anche nei casi in cui il reato ipotizzato non superi in concreto una soglia minima di offensività. Infine, si va sempre più diffondendo tra gli studiosi del processo penale la convinzione che debbano essere attribuiti poteri di iniziativa penale a soggetti privati, se non, addirittura, a soggetti pubblici diversi dal pubblico ministero. 19 Si ricorda a tal proposito che la Corte costituzionale ha messo in discussione il monopolio del pubblico ministero sull’esercizio dell’azione penale (cfr., da ultimo, sentenza n. 361 dell’1 ottobre 2005, in Giur. cost., 2005, p. 5 e ss.), indirizzo recepito di recente in giurisprudenza (cfr. Cass., Sez. un., 24 giugno 2008, n. 25695, in C.E.D. Cass., n. 239701-02). Peraltro, sul punto, nonostante la previsione normativa con la quale l’attuale legislatore ha abolito le precedenti “azioni private” (art. 231 disp. att. c.p.p.), non manca dottrina secondo la quale il legislatore avrebbe introdotto forma di siffatta azione nella legge sul giudice di pace attraverso il “ricorso immediato al giudice”: così G. RICCIO, Lezione, riportata in sintesi da F. FALATO, Ricorso immediato della persona offesa innanzi al giudice di pace: una forma alternativa di azione penale?, in Quaderni di Scienze Penalistiche, Napoli, 2007, n. 2, p. 163 e ss. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 31 evidenza ove si allineino poteri e finalità dedotte dal combinato disposto degli artt. 50, 326 e 405 c.p.p., 1988, su cui appare superfluo, in questa sede, ogni ulteriore approfondimento. Allo stesso modo la difficile individuazione dell’atto propositivo dell’azione nel previgente codice si è dissolta a favore del connotato – appunto – di sostanza rappresentato dall’imputazione20, che raccoglie l’oggetto del processo, della prova, dei poteri decisori21. Si aggiunga che i poteri di valutazione sulla domanda sono orientati alla “utilità del dibattimento”, e quindi del processo, a testimonianza del contenuto concreto dell’azione quale domanda di merito, sostanzialmente rivolta alla richiesta di punizione22. Sicché, l’azione è oggi richiesta di domanda sul merito della vicenda che il pubblico ministero sottopone al giudice, domanda di merito relativa all’esistenza del fatto e al riconoscimento della responsabilità dell’accusato a tutela della pretesa punitiva dello Stato23, idea resa più forte dalla collocazione sistematica del procedimento di archiviazione24. Sul punto si veda O. DOMINIONI, Imputazione (diritto processuale penale), in Enc. dir., Vol. XX, Milano, 1970; V. PERCHINUNNO, Imputazione, in Enc. giur., Vol. V, Roma, 1989. 21 Per lo sviluppo argomentativo di tali connotati cfr. G. RICCIO, Fatto e imputazione, in Quaderni di Scienze Penalistiche, Napoli, 2005, n. 1, p. 13 ss. 22 Come si vedrà nel corso del lavoro, la regola di giudizio sottostante alle valutazioni “processuali” del giudice dell’udienza preliminare è quella dell’art. 125 disp. att. c.p.p., regola che, nonostante la collocazione, acquista pregnante valore sistematico, costituendo il punto di orientamento per il controllo giudiziale sull’esercizio dell’azione. 23 In questo senso non può stupire che il legislatore preveda sentenze processuali sia in ragione dell’esigenza di controllo sull’esercizio dell’azione penale, sia quando usa nella sentenza “definitiva” formule inerenti a vizi dell’azione o a mancanza dei presupposti dell’azione. 24 Si richiamano qui le ulteriori argomentazioni sul tema svolte, ultra, in § 5. 20 32 CAPITOLO I 3. Dall’udienza di smistamento all’udienza preliminare come forme ordinarie del controllo sull’esercizio dell’azione. Se, dunque, sul piano funzionale il controllo sull’accusa è connotato risalente della giurisdizione penale, sul piano strutturale esso è originale, costituendo lo sviluppo del modello dell’udienza ipotizzato nel 1978. Invero, la convinzione – più volte affermata – che quel controllo costituiva – e costituisce – un connotato di sistema non poteva lasciare indifferente il legislatore democratico, chiamato all’attuazione della Costituzione nel processo penale25. Per questa centralità funzionale, sia pur mutata nel tempo, e nonostante il tentativo di ampliare i casi di abolizione dell’udienza26, essa è momento ritenuto ancora indispensabile nella “bozza Riccio”27 che, però, e per le ragioni manifestate nella Relazione di accompagnamento – come si vedrà – la muta in un’udienza polifunzionale per far fronte alle pluralità di esigenze, anche premiali, indispensabili per la effettività della giurisdizione penale. L’anticipazione di tale osservazione giova a sottolineare che la evoluzione sistematica – al di là delle ragioni connesse alla “insopportabile crisi della giustizia” – è frutto, anche, del rilevamento della elevata problematicità della normativa ad essa inerente, soprattutto dopo le modifiche operate con la legge n. 479 del 16 dicembre 1999. Le complesse questioni interpretative che Art. 2 della legge-delega secondo cui il nuovo codice di procedura penale doveva «attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale. Esso inoltre deve attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio, secondo i principi ed i criteri in essa determinati». 26 Si veda il decreto-legge n. 92 del 23 maggio 2008, e, di esso, in particolare l’art. 2 lett c), f) e g), conv. con modif. dalla l. n. 125 del 2008. 27 Ci si riferisce alla “bozza” del disegno di legge-delega per la riforma del codice di procedura penale elaborata dalla Commissione di Studio presieduta dal Prof. Giuseppe Riccio e nominata con D.M. 27 luglio 2006. 25 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 33 essa ha introdotto – e di cui si dirà – hanno indotto la Commissione28 a trovare con metodo “scientifico” soluzioni di sistema proprio per restituire alla legge il dominio del segmento processuale, oggi appannaggio di un incerto “diritto giurisprudenziale”. Per di più essa non poteva sottrarsi all’attuazione del principio costituzionale della parità delle parti previsto dal secondo comma dell’art. 111 Cost. Se questa è la prospettiva di ricerca, non meraviglierà che essa si manifesti attraverso il rilevamento dei punti di crisi che la normativa sull’udienza preliminare ha palesato nel tempo. Peraltro, i segnali costituzionali e sistematici relativi al bisogno di un controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione non potevano non essere raccolti dalla cultura giuridica sin dalla prima proposta di riforma del Codice di procedura penale. Già con la legge-delega del 1974 si ebbe la previsione di una vera e propria “udienza” destinata al controllo delle richieste avanzate dal pubblico ministero29; e pur se la formula “udienza preliminare” ancora non appariva30, il legislatore delegante indicava Cfr. la nota immediatamente precedente. Prima di allora, sebbene il passaggio dall’istruzione al dibattimento costituisse un problema delicatissimo, non traspariva ancora una piena consapevolezza della necessità di introdurre una fase procedimentale deputata a controllare la sussistenza delle condizioni per instaurare il dibattimento. Per un’attenta analisi delle ragioni per le quali lo spazio occupato dal tema fosse assolutamente marginale cfr., da ultimo, F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 34 e ss. 30 Il legislatore del 1974 si limitava a dire che alla fine delle indagini preliminari doveva esserci un momento destinato all’incontro delle parti. La denominazione “udienza preliminare” fu utilizzata solo nel Progetto del 1978. Epperò in quel Progetto “udienza preliminare” era l’udienza per l’archiviazione (punto n. 50), l’udienza per la proroga delle indagini (punto n. 48) e l’udienza per stabilire se vi fossero elementi per il rinvio a giudizio. È stato merito della Commissione redigente – la quale si rese conto che il valore dell’udienza preliminare finiva per essere attenuato dal fatto che la “denominazione” veniva dispersa in attività che avevano poco in comune – la ridefinizione del concetto. Ecco quindi che, nel Progetto del nuovo codice di procedura penale del 1988, di “udienza preliminare” si parla soltanto con riferimento a questa vicenda. Per il testo del Progetto del 1978 v. G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale. Dalle leggi delega ai decreti delegati, Vol. I, La legge delega del 1974 e il progetto preliminare del 1978, Padova, 1988. 28 29 34 CAPITOLO I la necessità che, al termine delle indagini, vi fosse un momento destinato all’“incontro delle parti”31. Così fu previsto che il giudice decidesse sull’azione avvalendosi dei contributi forniti dalle parti, al fine di incanalare il processo verso il “proscioglimento”, il “giudizio immediato” o gli “atti di istruzione”32. Il vaglio dell’“udienza preliminare”, diveniva, perciò, inevitabile, salvo che il pubblico ministero non avesse presentato richiesta di archiviazione, e ciò pur se la previsione di un momento di controllo giurisdizionale sull’accusa non era imposta dall’adozione di un sistema processuale accusatorio33, modello appunto che si intendeva introdurre34, essendo dubbio che 31 Per un commento alla legge-delega del 1974 cfr. G.D. PISAPIA, Primi lineamenti del nuovo processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1975, p. 715. 32 Dunque, in luogo della formale istruzione, il progetto che scaturì dalla prima legge-delega disciplinava gli atti di istruzione che potevano essere svolti. Si prevedeva, invero, che il giudice istruttore, investito della richiesta, dovesse sentire immediatamente e contestualmente le parti costituite, per poter decidere, in base agli elementi addotti dalle stesse, se procedere agli atti di istruzione o se disporre il giudizio immediato o provvedere alla archiviazione. Qualora si fosse orientato per l’istruzione, il giudice poteva assumere d’ufficio “prove che per la loro complessità o urgenza non [erano] rinviabili al dibattimento” e compiere “gli accertamenti generici che [erano] necessari per precisare l’imputazione” (art. 413 comma 1 Progetto Preliminare 1978); nonché a richiesta dell’imputato gli era consentito “assumere prove il cui esito positivo [potesse] condurre all’immediato proscioglimento dell’imputato (art. 413 comma 2 Progetto Preliminare 1978). Ma al giudice istruttore si attribuiva anche il potere di compiere atti urgenti non rinviabili e non ripetibili nella fase compresa tra le richieste del pubblico ministero ex art. 377 c.p.p. conclusive delle indagini e la data dell’udienza preliminare (art. 403 Progetto Preliminare 1978). Per una compiuta ricostruzione circa la figura del giudice istruttore v. M. FERRAIOLI, Il ruolo di ‹‹garante›› del giudice per le indagini preliminari, seconda ediz., Padova, 2001. Sul punto si veda G. CONSO, Dall’udienza preliminare alla sentenza, in Dalle indagini preliminari alla sentenza di primo grado, Napoli, 1979, p. 35 ss. 33 Un sistema tipicamente accusatorio dovrebbe escludere una fase preliminare deputata alla delibazione dell’accusa, dovendo il dibattimento instaurarsi a seguito di una semplice richiesta dell’organo che esercita l’azione. 34 In realtà, come autorevolmente sostenuto dalla dottrina, oggi si hanno soltanto processi di tipo misto o coordinato, non adattandosi la linearità di fisionomia dei due sistemi tradizionali alle svariate esigenze della giustizia nella società moderna. I lineamenti del sistema accusatorio si identificano solo per contrapposizione a quelli del sistema inquisitorio, e viceversa: l’uno e l’altro, dunque, rappresentano tipi ideali, collocati agli estremi di un territorio all’interno del quale possono combinarsi secondo modalità LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 35 in un sistema processuale di tale natura sia necessario, in linea di principio, sottoporre la richiesta di giudizio ad un controllo, tant’è che autorevole dottrina ha definito addirittura un «errore tecnico»35 l’adozione di un provvedimento giurisdizionale per aprire anziché chiudere un processo. Sennonché, sulla scorta dell’indirizzo della Corte costituzionale, già all’epoca l’esigenza di garantire il soggetto sottoposto a processo penale era avvertita come meritevole di tutela; e ciò a prescindere dalla volontà di adottare un determinato modello processuale, rappresentando, il costo del giudizio, un prezzo troppo elevato per l’imputato da poter essere rimesso alla volontà unilaterale dell’organo dell’accusa. E giacché il controllo sull’accusa aveva storicamente dimostrato di essere lo strumento migliore per prevenire i rischi del processo, sin dagli anni ’70 il legislatore volle che un giudice fosse chiamato a verificare se si dovesse “far luogo” al dibattimento, in virtù degli elementi raccolti fino a quel momento dall’organo dell’accusa. Pur iniziando a farsi strada il dubbio che, per scongiurare l’eventualità di un dibattimento superfluo che si risolvesse in un’inutile vessazione, potesse bastare l’istituzione di un’“udienza” in cui concedere o meno ingresso alla domanda in base alle prove esibite, si seguirono istanze più innovative che sostenevano la necessità di un momento processuale volto al controllo circa la sussistenza delle condizioni per instaurare il dibattimento attuato attraverso l’adozione di un “modello debole” di delibazione dell’accusa, connotato dal potere del giudice differenti, in relazione a numerose variabili. Epperò, naturalmente anche i sistemi misti presentano graduazioni e classificazioni. In particolare è possibile distinguerli a seconda che siano a sfondo prevalentemente accusatorio o a sfondo prevalentemente inquisitorio, per quanto la relativa valutazione sia complicata dal fatto che nell’ambito di uno stesso ordinamento si ritrovino sovente più tipi di procedimento penale. In questi termini G. CONSO, Accusa e sistema accusatorio, in Enc. dir., Vol. I, Milano, 1958, p. 336-337; G. ILLUMINATI, Accusatorio ed inquisitorio (sistema), in Enc. giur., Roma, 1988, Vol I, p. 1. 35 Il giudizio è di F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 113. 36 CAPITOLO I di rigettare – con decreto motivato – la richiesta di giudizio, perché manifestamente infondata. Epperò, insieme ad altre ragioni di natura politica qui non evocabili36, il mantenimento di una fase di atti istruttori e la mancata previsione di qualsiasi altro rito alternativo – ritenuti invece necessari per il corretto funzionamento di un sistema accusatorio – fecero fallire il Progetto in generale e la disciplina dell’udienza preliminare in particolare, nel prosieguo oggetto di opportuni ripensamenti. Se si considera, poi, che nel 1979 l’allora Guardasigilli Morlino affermò che per il recupero di efficienza della giurisdizione fosse necessario praticare la strada dei “riti differenziati”, si comprende perché la Commissione ministeriale presieduta da Gian Domenico Pisapia37 si dedicò con particolare impegno al tema dell’udienza preliminare, nella consapevolezza che ad essa dovesse essere affidato un ruolo centrale: di garanzia del diritto di difesa dell’imputato e, al tempo stesso, di economia processuale; un’udienza, cioè, di “filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero” e “di decongestione del sistema”38. Di qui la scelta del legislatore del 1987 di portare il sistema processuale ad affrancarsi dall’eccessiva rigidità dei meccanismi È vero che l’art. 2 della legge-delega 3 aprile 1974, n. 108 imponeva di “attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio” secondo i principi ed i criteri ivi elencati, ma è altrettanto vero che dalla lettura degli stessi emergeva un modello che si discostava in modo anche assai marcato sia dal modello astratto del sistema accusatorio, sia dal modello vivente nei principali ordinamenti contemporanei di ispirazione accusatoria, essendo ben viva l’esperienza del garantismo inquisitorio (per questa locuzione si veda A. AMODIO, Un questionario sul nuovo processo penale, in Dem. dir., 1976, p. 67; ID., Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., Vol. XXVIII, Milano, 1977, p. 182). 37 Commissione ministeriale per la redazione del progetto preliminare del codice di procedura penale presieduta dal Prof. Gian Domenico Pisapia. 38 Nella Relazione al progetto preliminare si sottolineava, infatti, per l’udienza preliminare il ruolo di “filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero” (v. Relazione on. Coco al Senato, p. 12) e si metteva in evidenza la “funzione di decongestione del sistema” (v. anche Relazione on. Casini alla Camera, p. 16). 36 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 37 insiti nella delega del 1974 – che trovava nel dibattimento un passaggio imprescindibile – incidendo pesantemente sul ruolo dell’udienza preliminare. E così, in armonia con le direttive della legge-delega del 1987, il codice di procedura penale del 1988 ha assegnato in via definitiva all’udienza preliminare il ruolo di fase processuale che, ponendo un inedito diaframma tra la fase di ricerca della prova e quella del giudizio, è volta a delibare – nel contraddittorio tra le parti e sulla base delle indagini espletate – la correttezza dell’imputazione, anche in funzione di garanzia dell’esercizio del diritto alla prova e di incentivo alla definizione anticipata del “procedimento”, ove le parti facciano richiesta di giudizio abbreviato (art. 438 c.p.p.) o di applicazione della pena (art. 444 c.p.p.) 39. Evenienze, queste ultime, che, da un lato, arricchiscono la dimensione funzionale di tale fase; dall’altro non incidono in alcun modo sulla sua originaria e fisiologica configurazione quale momento di “filtro” 40. Dunque, l’udienza preliminare è novità strutturale del 1988, non novità funzionale, che dal punto di vista operativo era originariamente riservata ai procedimenti aventi ad oggetto i reati di competenza del Tribunale e della Corte d’Assise, laddove per quelli di competenza del Pretore era stato configurato un rito semplificato, che prevedeva la citazione diretta a giudizio da parte dell’organo titolare dell’azione, scelta giudicata legittima dalla Corte costitu- 39 Relazione al Progetto Preliminare del codice di procedura penale del 1988, in Spec. Doc. Giust., II. 1988, p. 110; in dottrina si veda G. RICCIO, Procedimenti speciali, in AA. VV., Profili del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, Padova, 1996, p. 474; G. LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1991, p. 1077; G. CONSO, Conclusioni di un dibattito, in Giust. pen., 1992, III, c. 67. 40 Dal processo con istruzione si è passati, dunque al processo con atti di istruzione predisposto dalla delega del 1974 ed al progetto preliminare del 1978; si giunge, infine, con la delega del 1987 ed il successivo articolato codicistica del 1988, al processo senza atti di istruzione. Così D. SIRACUSANO, Vecchi schemi e nuovi modelli per l’attuazione di un processo di parti, in Introduzione allo studio del nuovo processo penale, Milano, 1989. 38 CAPITOLO I zionale41. Solo successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 19 febbraio 199842, e delle modifiche apportate al codice di rito dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 – cd. “legge Carotti” – essa è diventata fase processuale destinata ai procedimenti per reati di competenza della Corte d’Assise, nonché per quelli aventi ad oggetto reati che ricadono nell’area di attribuzione tanto del Tribunale in composizione collegiale che monocratica, fatti salvi quelli per cui si procede, ai sensi degli artt. 552 e seguenti c.p.p., nelle forme della citazione diretta a giudizio. Nel profilo funzionale, invece, è evidente che il legislatore del 1988, anche sulla scorta di una cultura giuridica ormai consolidata, ha ritenuto che il passaggio dal “procedimento” al “processo” dovesse essere garantito dall’intervento del giudice, attingendo l’esercizio dell’azione al “diritto al non processo”, che è situazione costituzionalmente protetta43. Vi è da aggiungere che, proprio per la particolare funzione di garanzia che assume tale controllo, esso è previsto anche per le altre forme di azione proposte dal pubblico ministero, ovviamente sotto forma strutturalmente diversa da quella qui in esame (cfr. artt. 444, 449, 455 e 459 c.p.p.)44; ma il tema si approfondirà in seguito45. Se, dunque, sotto il profilo temporale l’udienza preliminare rappresenta il primo momento (successivo alla richiesta di rinvio 41 42 Corte cost., 19 gennaio 1995, n. 22. Il decreto contiene norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado. 43 Si vuol dire che è sul terreno delle norme costituzionali che disciplinano le garanzie individuali dell’imputato e di quelle rivolte più generalmente alla giurisdizione che affonda le sue radici anche il diritto al non processo. Cfr., supra, § 2. 44 La domanda di giudizio direttissimo o di giudizio immediato, invero, derogando alla garanzia di non essere sottoposti a giudizio per accuse insostenibili, deve essere verificata giurisdizionalmente nei presupposti legislativamente indicati. Di qui la connotazione di atto dovuto per il decreto di giudizio immediato (così A.A. DALIA-M. FERRAIOLI, Manuale di procedura penale, Padova, 2003, quinta ediz., p. 673). 45 Cfr. il paragrafo successivo. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 39 a giudizio) nel quale – dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale – accusa e difesa hanno la possibilità di confrontarsi sulla correttezza dell’imputazione, sotto il profilo finalistico essa è la fase deputata al controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale46. L’udienza preliminare, allora, non è solo lo spartiacque sistematico tra procedimento (per l’azione = indagini preliminari) e processo (per il giudizio = dibattimento), ma soprattutto il luogo “di trasparenza” dove accertare se l’imputazione sia sorretta dalla piattaforma “probatoria” necessaria a giustificare l’instaurazione del dibattimento. A tal fine – e come si vedrà – ciò che fino a quel momento ha esaurito la sua valenza sul piano dell’orientamento delle scelte del pubblico ministero (richiesta di rinvio a giudizio/richiesta di archiviazione) costituisce il complesso “probatorio” per verificare l’idoneità dell’“azione” all’attivazione del giudizio. Quanto alla natura di tale udienza, l’incentivazione ad un esame non particolarmente approfondito della pretesa accusatoria – che in tale sede camerale avveniva ad opera dell’organo giurisdizionale di fase – era stata da subito avallata da un univoco orientamento della Corte costituzionale, volto a riconoscerne la natura processuale e non di merito. Il giudice delle leggi, infatti, aveva esternato tale convincimento con l’affermazione dell’impraticabilità della ricognizione di circostanze o del giudizio di comparazione ex art. 69 ultimo comma c.p., non disponendo il giudice dell’udienza preliminare degli elementi necessari per poter compiere una valutazione di questo tipo ed essendo la formazione della prova e l’accertamento definitivo attività propriamen- 46 Quando si sintetizza questa nozione nell’espressione “udienza preliminare = momento di filtro” si fa riferimento proprio alla funzione di selezione che dinanzi al giudice si compie tra accuse meritevoli di uno sbocco dibattimentale e quelle invece che appaiono pretestuose o azzardate e che, quindi, necessariamente devono vedere interrotta in questa fase la progressione del procedimento verso il processo. 40 CAPITOLO I te dibattimentali, senza che in ciò si dovesse ravvisare violazione degli artt. 3 e 24 Cost.47. In particolare, la Corte affermò che «i diritti della difesa devono essere rapportati all’ambito proprio di ciascuna fase del procedimento»; posizione assunta già quando si era trattato di sancire l’impossibilità di adottare la sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità48; occasione nella quale la Corte, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 425 c.p.p. nella parte in cui prevedeva che il giudice dell’udienza preliminare pronunciasse sentenza di non luogo a procedere «quando l’imputato è persona non imputabile» per violazione dell’art. 24 Cost., statuì altresì che «l’udienza preliminare non è sede di acquisizione probatoria destinata all’accertamento della verità, volgendosi la verifica del giudice non alla positiva verifica dell’eventuale colpevolezza dell’imputato ma alla diversa prospettiva tesa ad evitare la celebrazione di un dibattimento superfluo». Ribadiva, così, che tale pronuncia poteva seguire solo ad una valutazione negativa sulla possibilità di proscioglimento nel merito, ed evidenziava come tale esito fosse precluso nella fase dell’udienza preliminare, in cui il compito del giudice non è Corte cost., sentenza n. 431 del 3 ottobre 1990. Posizione ribadita dalla stessa Corte con le sentenze n. 41 del 10 febbraio 1993 e n. 205 del 29 aprile 1993, nonché dalla Corte di Cassazione quando ha affermato che «è illegittima la sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 425 c.p.p. dal giudice dell’udienza preliminare quando l’operatività della causa estintiva (nella specie amnistia) dipenda dal riconoscimento di circostanze attenuanti o dall’eventuale giudizio di comparazione fra esse ed altre di segno opposto trattandosi, nell’uno come nell’altro caso, di valutazioni che presuppongono una giurisdizione piena di cui il giudice dell’udienza preliminare non può dirsi investito» (Cass., sez. I, 8 maggio 1998, n. 2110, in C.E.D. Cass., n. 210427) ed anche che «è precluso al giudice concedere all’imputato le circostanze attenuanti generiche quale premessa per dichiarare il non luogo a procedere per essere il reato estinto per prescrizione, anche nel diverso profilo per cui il giudice non può lecitamente rifiutare un provvedimento di riapertura delle indagini assumendo che, con la concessione di attenuanti, il reato da investigare sarebbe estinto proprio perché detta ricorrenza è oggetto di un’attività di ricognizione non consentita nelle indagini preliminari» (Cass., 21 gennaio 1993, in Cass. pen., 1994, p. 1745). 48 Corte cost., sentenza n. 41 del 10 febbraio 1993. 47 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 41 quello dell’accertamento della verità ma quello della valutazione prognostica dell’utilità del dibattimento49. Di qui la classificazione della natura. La verifica dell’ipotesi accusatoria praticata nell’udienza preliminare si riteneva, cioè, che operasse su un piano squisitamente processuale, essendo il giudice chiamato a decidere non sul merito della regiudicanda, quanto piuttosto – e più limitatamente – sulla dignità dibattimentale della domanda di giudizio rivolta dal pubblico ministero. Diversamente, l’eventuale decisione di rinvio a giudizio, prospettandosi come decisione di merito, avrebbe potuto pesare come pregiudizio sulla colpevolezza dell’imputato per il giudice del dibattimento, che, non conoscendo di norma gli atti di indagine, non sarebbe stato in grado di valutarla criticamente. 4. Segue: le forme del controllo negli altri riti. La ritenuta centralità del controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione non poteva lasciare indifferente il legislatore che affrontava, con i cosiddetti procedimenti speciali, il versante dell’efficienza della giurisdizione e del processo. Lo specifico argomento, in verità, fu inizialmente sottovalutato, anche a causa del non univoco linguaggio legislativo, che preferiva indicare il comportamento dovuto dal giudice in caso di carenza degli elementi di ogni specifico rito più che sanzionare tale carenza50. Ciò produsse, per un verso, la disattenzione circa il fatto che quel linguaggio si riferiva alla tipologia del rito, non all’esercizio dell’azione, e, per altro verso, l’equivoco opposto che, Si vedrà che la Corte costituzionale sembra cambiare idea dopo la legge Carotti. Sul punto si vedano le citazioni e le osservazioni di G. RICCIO, Cos’è l’udienza preliminare”. Guai a trasformarla da “filtro” in “giudizio”, in Dir. giust., 2004, n. 19, p. 8 e ss. 50 Cfr. gli artt. 452, 455, 459 c.p.p. 49 42 CAPITOLO I nella fattispecie, poteva farsi ricorso all’ipotesi dell’art. 178 lett. b) c.p.p.51. Rispetto a questi originari disorientamenti, ben presto gli approfondimenti monografici chiarirono le questioni, inquadrando il tema nell’ambito del controllo sull’esercizio dell’azione e dandosi carico – sia pure in modo non univoco – del tipo di sanzione “nascosta” sotto le formule “rigetta” e/o “restituisce gli atti al pubblico ministero”52. Ebbene, se non è questa la sede per ripercorrere le specifiche vicende dei singoli riti, un chiarimento va dato sia quanto alla natura del vizio ed alla sua collocazione categoriale, sia quanto alla reale funzione che quelle formule manifestano. Sul primo punto va ricordato che, secondo parte della dottrina, nel sistema sanzionatorio processuale penale i vizi della domanda attengono alla categoria dell’inammissibilità, lungo il filo rosso Con specifico riferimento al giudizio direttissimo, ad esempio, in un primo momento la Corte di cassazione ritenne che la scelta del rito al di fuori dei casi previsti dalla legge integrasse una nullità di ordine generale, non assoluta, ex art. 178 lett. b), relativa alla partecipazione del pubblico ministero (Cass., sez. VI, 29 ottobre 1992, n. 1091, in C.E.D. Cass., n. 192085). Successivamente ha sostenuto che si è di fronte ad una semplice irregolarità eliminabile d’ufficio con la restituzione degli atti al pubblico ministero (Cass., sez. V, 15 giugno 1992, n. 8419, in C.E.D. Cass., 191494, nonché Cass., sez. V, 2 ottobre 1992, Valentini, in Cass. pen., 1993, p. 1756), laddove, altra parte della giurisprudenza ha affermato che si tratta di una nullità assoluta per violazione della previsione concernente l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, destinata a travolgere ogni statuizione conseguente, ovvero una nullità incidente sulle facoltà difensive ovvero omologabile ad un vizio del decreto di citazione emesso dal pubblico ministero (Cass., sez. VI, 29 novembre 1994, Monaca, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 430; Cass., sez. V, 18 aprile 1995, Magrì, in Dir. pen. e proc., 1995, p. 1145; Cass., sez. V, 22 novembre 1994, Lo Bascio, in Cass. pen., 1995, p. 1311). 52 Ed invero, mentre parte della dottrina si pone nell’ottica della inammissibilità del rito richiesto ( A. DE CARO, Giudizio direttissimo, Napoli, 1995, p. 195; R. ORLANDI, Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale, Padova, p. 628), giungendo ad escludere la necessità di riconoscerle effetti preclusivi (A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2001, p. 470), per altro orientamento deve escludersi l’inammissibilità per stretta fedeltà al principio di tassatività e per coerenza alla mancanza di una prescrizione normativa sul punto (R. GIUSTOZZI, I procedimenti speciali, in AA.VV., Manuale pratico del processo penale, Padoca, 2007, p. 817 ss.). 51 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 43 che lega questa vicenda con la mancata previsione di nullità nell’art. 417 c.p.p.53. Vanno però chiarite le ragioni della diversità degli effetti, a seconda della parte che propone una domanda. Invero – com’è stato di recente affermato54 – secondo la teoria generale l’effetto della inammissibilità, solitamente legata alla tipicità della domanda e/o allo sforamento di un termine perentorio per essa predisposto, comporta la preclusione per il giudice di conoscere del merito della vicenda55, situazione chiaramente descritta nel codice, ad esempio, a proposito delle disposizioni generali sulle impugnazioni56. Questo indiscusso connotato della categoria è stato, forse, la causa dello sviamento di attenzione verso le nullità, necessariamente riportata, poi, verso quelle di ordine generale, dato il silenzio del legislatore; con l’effetto – in verità mai esaminato – che, se fosse questa la sanzione, il giudice delle impugnazioni dovrebbe dichiarare la nullità del giudizio celebrato in assenza di un elemento qualificante il rito57: effetto in verità devastante e asistematico, oltre che privo di supporto dogmatico. Ed invece, se si osserva la situazione soggettiva delle parti, risultano evidenti, contestualmente, la reticenza del legislatore a sancire il vizio “a pena di inammissibilità” e la non applicabilità degli effetti “classici” della sanzione al vizio di azione, che – va sottolineato – nel caso di specie riguarda il modus, non la pretesa. Così ragionando, risulta chiaro il rapporto di causa ad effetto tra dominio della pretesa e preclusione, quando la prima impone Sulle prospettazioni di teoria generale si rinvia a C. IASEVOLI, La nullità nel sistema processuale penale, Padova, 2008, p. 419 ss. 54 Cfr. G. RICCIO, Introduzione allo studio del sistema sanzionatorio nel processo penale, in Quaderni di Scienze Penalistiche, Napoli, 2007, n. 2, p. XXXXXXXXXX. 55 Nel tempo la situazione culturale relativa alla affermazione è rimasta immutata. 56 Cfr. artt. 568 e ss. c.p.p. 57 C. IASEVOLI, La nullità nel sistema processuale penale, cit., p. 423 ss. 53 44 CAPITOLO I l’esercizio di un onere per il suo soddisfacimento. Si vuol dire che in tanto opera la preclusione sul merito della domanda in quanto chi la propone agisca in virtù di un onere imposto con la tipizzazione del comportamento. Di conseguenza, se può affermarsi che la domanda d’azione del pubblico ministero è tipizzata e, quindi, che se egli intende praticare l’azione in forma alternativa deve rispettare la tipicità dell’atto di cui è onerato; e se, di conseguenza, può dirsi che quel tipo di azione, se viziata, è inammissibile e nei termini proposti è preclusa – di qui il rigetto e/o la restituzione degli atti –, certamente non può affermarsi che quel vizio di modo trascini con sé la pretesa punitiva che il pubblico ministero è obbligato ad azionare, non onerato. Insomma, il vizio dell’onere del modo non coinvolge l’obbligo di azione. Sull’altro versante, quello della riconoscibilità dei diversi segmenti normativi nella logica del controllo sull’esercizio dell’azione, va chiarito che esso non riguarda, ovviamente, i giudizi premiali (artt. 438, 444 ss. c.p.p.)58 né quello immediato chiesto dall’imputato (art. 419 commi 5 e 6 c.p.p.) 59, perché le situazioni presuppongono la rinunzia al controllo, almeno nella forma ordinaria. Su questo diverso terreno, però, senza indulgere sui profili descrittivi delle diverse vicende, è opportuno sottolineare le diversità procedimentali, dal momento che esse – proprio per le differenze strutturali – hanno suscitato perplessità, spesso manifestate con questioni di legittimità costituzionale. 58 …pur evocando la formula «se l’imputazione è corretta» di cui all’art. 444 c.p.p. il controllo sull’esercizio dell’azione. 59 La scelta da parte dell’imputato di richiedere il giudizio immediato ha carattere vincolante per il giudice perché l’udienza preliminare assolve ad una funzione di garanzia per l’imputato come vaglio d’insostenibilità dell’accusa, così che la rinuncia all’udienza rientra in una scelta libera ed insindacabile, non subordinata come tale al concorso di specifici presupposti e, quindi, non soggetta al controllo dell’avveramento dei medesimi da parte del giudice. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 45 Ebbene, se la situazione appare chiara per il giudizio direttissimo proprio in ragione della scansione tra convalida del presupposto e formulazione dell’imputazione, va chiarita l’apparente sovrapposizione tra la situazione descritta dall’art. 449 comma 2 e quella delineata dall’art. 452 comma 2 c.p.p.; osservazione che sottolinea il rapporto tra regola – la seconda – e specie – la prima –. Per cui, se per la “non convalida” dell’arresto vale la regola della proseguibilità del rito nel caso in cui, nonostante il vizio, le parti si accordino in tal senso, negli altri casi – e tra essi anche la confessione – tale ipotesi non sembra praticabile: la mancanza di questo requisito comporta la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 452 comma 2 c.p.p.). Più delicata la vicenda del giudizio immediato60. Invero, la denunzia di un’ingiustificata disparità di trattamento, quanto alla partecipazione della difesa nel “segmento procedimentale” per il controllo61, trova risposta nella Relazione al Progetto preliminare, a testimonianza che il legislatore lo predisponeva proprio per quella formalità e, contestualmente, perché – razionalmente – lo distingueva dall’udienza preliminare. In quel documento si legge infatti che all’esigenza di controllo sull’esercizio dell’azione – proprio perché lì fondato anche su valutazioni “discrezionali” del pubblico ministero (ad esempio in tema di “evidenza della prova”) – si è ritenuto di prevedere un controllo “molto rapido” senza contraddittorio62. Nonostante il chiarimento, è stata proposta la questione di le- 60 In argomento sia consentito il rinvio al nostro Il giudizio abbreviato, Napoli, 2004, ed, in particolare, al Capitolo IV. 61 La situazione per la verità, come si rileverà, attiene anche all’ambito di applicazione dell’art. 415-bis c.p.p. 62 Si legge nella Relazione, che riporta l’intervento dell’On. Casini del 12 luglio 1984, che esso si orienta sulla opportunità che “vi [siano] soltanto due occhi di più che giudicano se il rinvio a giudizio è o non è opportuno”. Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit., p. 245. 46 CAPITOLO I gittimità costituzionale dell’art. 455 c.p.p., in riferimento agli artt. 24 comma 2 e 111 comma 3 Cost., nella parte in cui non consente alla difesa di interloquire sulla richiesta di giudizio immediato del pubblico ministero né di prospettare una ipotesi alternativa a quella formulata dall’accusa, in quanto la decisione del giudice per le indagini preliminari ex art. 455 c.p.p. non sarebbe preceduta da alcun momento di ascolto dell’imputato, nonché per violazione dell’art. 3 Cost., nella doppia dimensione del principio di uguaglianza e dello statuto di razionalità legislativa63. Ma la Corte costituzionale nelle diverse occasioni ha sempre ritenuto che appartiene alla discrezionalità del legislatore la previsione organizzativa dei diversi segmenti processuali e che non è violato il principio di parità né il diritto all’ascolto nei momenti procedimentali introduttivi dei diversi riti alternativi64. Per la Corte, invero, il presupposto del previo interrogatorio, svolto con l’osservanza delle garanzie di cui agli art. 453 comma 1 e 375 comma 3 secondo periodo c.p.p., assicura alla persona sottoposta alle indagini la possibilità di esercitare le più opportune iniziative defensionali e di contrastare, quindi, l’eventuale emissione del decreto che dispone il giudizio immediato; in relazione all’art. 111 Cost., la Corte ha poi ritenuto che il principio per il quale il processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, non è evocabile in relazione alle forme introduttive del giudizio, le quali, per quanto concerne il giudizio immediato, trovano giustificazione nelle peculiari esigenze di celerità e di risparmio di risorse processuali. 63 In dottrina hanno espresso forti riserve sulla compatibilità con l’art. 24 Cost. della disciplina che attribuisce al giudice per le indagini preliminari il vaglio giurisdizionale sulla scelta del rito senza contraddittorio G. PAOLOZZI, Profili strutturali del giudizio immediato, in AA. VV., I giudizi semplificati, a cura di A. Gaito, Padova, 1989, p. 227 e P. TONINI, I procedimenti semplificati secondo il progetto preliminare, in Giust. pen., 1988, I, p. 449. 64 Corte cost., sentenze nn. 52 del 29 gennaio 2004, 127 del 16 aprile 2003, 256 del 18 luglio 2003 e 371 del 18 luglio 2002. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 47 5. Fondamento e limiti delle novelle codicistiche del 1993… Ebbene, spostando l’attenzione sulla struttura dell’udienza – in origine delineata in sole quattro norme (artt. 420-423 c.p.p.) e contestualmente organizzata, anche quale momento giurisdizionale di verifica dell’operato della pubblica accusa tale da rendere residuale la scelta del giudizio dibattimentale – si nota che la Commissione Pisapia era decisa ad evitare che il controllo giurisdizionale sulla correttezza dell’accusa si potesse tradurre in un «intervento così penetrante da assumere compiti di supplenza rispetto alle lacune dei risultati delle indagini svolte dal pubblico ministero o alle carenze nell’esercizio della attività difensiva»; perciò essa negò al giudice dell’udienza preliminare «qualsiasi potere di iniziativa nella raccolta della prova, anche quello suppletivo e residuale che viene riconosciuto al giudice del dibattimento»65; e dunque gli attribuì poteri probatori assai limitati. L’art. 422 c.p.p. 1988 stabiliva, invero, che il giudice dell’udienza preliminare poteva disporre le prove “a discarico” esclusivamente quando ne apparisse la evidente decisività ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. Lo standard di significatività del novum probatorio assurgeva, invece, al grado della “manifesta decisività” ai fini dell’accoglimento della richie- 65 V. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale ed, in particolare, l’intervento dell’ On. Casini alla Camera dei Deputati, Aula, 10 luglio 1984, p. 16, direttiva n. 73, ove era testualmente scritto: ‹‹il controllo giurisdizionale volto a delibare il fondamento dell’accusa non si traduce in un intervento così penetrante da assumere compiti di supplenza rispetto alle lacune nei risultati delle indagini svolte dal pubblico ministero o alle carenze nell’esercizio dell’attività difensiva. Al riguardo la scelta fissata dalla legge-delega è chiarissima: al giudice dell’udienza preliminare è negato qualsiasi potere d’iniziativa nella raccolta della prova, anche quello suppletivo e residuale che viene riconosciuto al giudice del dibattimento. Si è voluto porre rimedio al pericolo della rinascita di un’attività istruttoria accogliendo l’orientamento secondo cui, abolito il giudice istruttore, il giudice dell’udienza preliminare è privato di ogni potere o facoltà d’istruzione». 48 CAPITOLO I sta di rinvio a giudizio, quando si trattava di prove “a carico” richieste dal pubblico ministero o dal difensore della parte civile. Le nuove acquisizioni probatorie dovevano essere precedute, in ogni caso, dalla richiesta delle parti66. Le ragioni di simile scelta erano chiare e rispondevano alla filosofia innanzi delineata. Invero, l’esigenza di riconoscere al giudice la facoltà di procedere ad una sia pur limitata attività di accertamento e di acquisizione probatoria, nelle ipotesi in cui si trovasse nell’impossibilità di decidere, non poteva creare il rischio di riproporre la figura del giudice istruttore, in contrasto con il principio della terzietà del giudice; a maggior ragione quei limiti evitavano che l’udienza si trasformasse in una sorta di anticipazione del dibattimento, in contrasto con la sua funzione di mero strumento di filtro giurisdizionale sulla richiesta del pubblico ministero. Così strutturata, l’udienza preliminare avrebbe dovuto condurre, almeno negli intenti dei compilatori, ad una decongestione del sistema attraverso la stroncatura dei procedimenti non meritevoli di approdare al dibattimento che, conseguentemente, avrebbe dovuto assumere carattere “residuale” quantomeno sotto il profilo quantitativo dei processi destinati ad essere ivi definiti. In effetti, se nei commenti al nuovo codice di rito era ricorrente la valutazione di “centralità” del dibattimento quale filosofia di sistema e, perciò, sede naturale di formazione della prova, vi era, già allora, la consapevolezza che la praticabilità del nuovo processo era legata alla capacità dei riti alternativi di sottrarre più procedimenti possibili alla fase del giudizio dibattimentale, per giungere ad una conclusione anticipata della vicenda processuale67. 66 Sulla natura del potere che l’originaria formulazione dell’art. 422 c.p.p. attribuiva al giudice dell’udienza preliminare si rinvia alle osservazione di A. GALATI, Le “ulteriori informazioni” e i criteri decisori nell’udienza preliminare, in AA. VV., L’udienza preliminare, Milano, 1992, p. 105 e ss. 67 Nel corso dell’approvazione della legge-delega si era sostenuto, invero, che il LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 49 Epperò, la funzione di filtro era inibita dai limiti della delibazione affidata al giudice dell’udienza preliminare. Invero, nonostante la chiara matrice strutturale e funzionale, il dato normativo – come da taluno ricordato68 – ha dato luogo a consistenti problemi interpretativi che hanno posto in discussione, ora, la latitudine del controllo, ora, la sua utilità. E ciò perché in maniera sempre più palese si registrava una distonia tra la “definizione normativa” e la prassi applicativa. Le potenzialità perseguite dall’innovazione di sistema voluta dal legislatore finivano per svilirsi nei tempi e nei contenuti di un’udienza in cui la funzione di controllo sull’esercizio dell’azione era ridotta ad un mero simulacro, privo di qualsivoglia funzione deflattiva del dibattimento. Sembra così aver colto nel segno chi ha affermato che «il giudice per le indagini preliminari, pur essendo un giudice “concettualmente nuovo” e, anzi, “il vero nuovo giudice del nuovo processo”, è stato concepito dal legislatore non “in positivo” ma in negativo: si aveva la precisa consapevolezza di ciò che non doveva essere, id est un giudice istruttore redivivo; per garantire ciò, spingendosi fino agli estremi, si è finito però, per sottrargli strumenti che lo definissero in positivo»69. Peraltro, il meccanismo dettato dal legislatore del 1988 non si è rivelato idoneo allo scopo – oltre che per i limitati poteri del giudice – per la inadeguatezza dell’originaria formulazione dell’art. 425 c.p.p., del tutto incapace di soddisfare le aspettative nuovo processo avrebbe funzionato se si fosse riusciti a far pervenire al dibattimento soltanto una piccola parte di processi (v. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale. Intervento dell’On. Casini alla Camera dei Deputati, Aula, 10 luglio 1984). 68 A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, in Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge Carotti), Vol. I, a cura di L. Kalb, Milano, 2000, p. 387 e ss. 69 Così G. SPANGHER, Il giudice per le indagini preliminari ed i procedimenti speciali, in Il giudice per le indagini preliminari dopo cinque anni di sperimentazione. Atti del Convegno di Mattinata, Milano, 1996, p. 87. 50 CAPITOLO I garantiste70. Invero, nei casi di estinzione del reato e di improcedibilità dell’azione, il profilo della inutilità della verifica dibattimentale dell’accusa poteva manifestarsi in termini chiari e precisi; ma non poteva dirsi altrettanto con riguardo alle ipotesi di proscioglimento di merito per le quali era richiesto il requisito dell’evidenza. Perciò, il legislatore scelse di ancorare il proscioglimento al requisito dell’evidenza della insussistenza del fatto, per evitare che, in riferimento a queste ipotesi, potesse sussistere il rischio che le valutazioni del giudice si traducessero in un prematuro giudizio sulla colpevolezza71. Tuttavia, e quanto alla concreta utilità dell’udienza, la soluzione adottata palesava sin dall’inizio i propri limiti. È evidente che l’efficacia della funzione di filtro si collega alla capacità di “trattenere” le accuse destinate a non transitare verso il dibattimento; di conseguenza, tutto dipende dall’ampiezza del controllo. E se un “filtro” a maglie troppo strette profila il rischio di creare un pregiudizio sulle accuse sorrette da congrue potenzialità probatorie, un controllo a maglie troppo larghe rende possibili continue elusioni del dovere di verifica cui fa fronte questa fase del processo72. Una effettiva funzione di filtro, pertanto, sarebbe stata integralmente realizzata se l’art. 425 c.p.p. avesse riconosciuto al 70 Sul punto v. le osservazioni di G. CONSO, Conclusioni di un dibattito sull’udienza preliminare, in Giust. pen.,1992, III, c. 71, il quale sottolineò come «la legge-delega, una volta tanto meritasse apprezzamento dal momento che la direttiva n. 52 prevedeva “l’obbligo per il giudice in questa nuova udienza di disporre il rinvio a giudizio o di pronunciare sentenza di non luogo a procedere se non siano stati forniti elementi per il giudizio” dalla quale si evince non solo la possibilità, ma l’esigenza stessa di tener conto nell’interpretare l’art. 425 di una così importante indicazione, anche se non ripresa espressamente dal codice». 71 Sul punto si veda F. CORDERO, Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, p. 481. 72 Così G. LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, cit., p. 1082. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 51 giudice dell’udienza preliminare la possibilità di emettere sentenza di non luogo a procedere ogniqualvolta la situazione “probatoria” fosse risultata inidonea a sostenere un’accusa in giudizio. Non avendo operato in tali termini, si creava, evidentemente, il mancato collegamento con la regola dell’art. 125 disp. att. c.p.p. che, presidiando l’area dell’archiviazione, avrebbe dovuto presidiare anche le valutazioni in seno all’udienza di controllo sull’esercizio dell’azione; collegamento mancato perché l’aggettivo “evidente”, richiedendo sul piano probatorio un più pregnante giudizio, ne mortificava gli ambiti operativi. Ed, invero, il significato giuridico della originaria disposizione contenuta nell’art. 425 c.p.p. si perdeva in una locuzione normativa che sanciva la rilevanza processuale dell’insussistenza del fatto e della estraneità dell’imputato solo entro i ristretti confini dell’evidenza73. Ebbene, se la rigidità del criterio rispondeva al nobile intento di evitare che al giudice dell’udienza preliminare fosse affidato un controllo troppo penetrante – dal momento che l’emissione di un provvedimento che valutava la consistenza dell’accusa in tema di responsabilità dell’accusato avrebbe potuto influenzare negativamente l’esito del successivo iter processuale74 – tuttavia esso si traduceva in una struttura nor- 73 L’analisi complessiva dello schema “azione-non azione” evidenziava, dunque, una rilevante incoerenza del sistema, giacché, in tal modo, si finiva per far dipendere il transito alla fase del giudizio da una scelta del pubblico ministero che, nei termini ora detti, si rivelava di fatto non sindacabile. 74 Così, in dottrina, G. CONTI, La chiusura delle indagini preliminari, in AA. VV., Contributi allo studio del nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Canzio-D. Ferranti-A. Pascolini, Milano, 1989, p. 58; G. FRIGO, Commento all’art. 416 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. CHIAVARIO, Vol. IV, Torino, 1990, p. 579; A. MACCHIA, L’udienza preliminare, in AA. VV., Commentario del nuovo codice di procedura penale, a cura di E. Amodio-O. Dominioni, Milano, 1989, p. 40; A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 1996, p. 306; G. ZAGREBELSKY, Sul ruolo del giudice del nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1989, p. 915. 52 CAPITOLO I mativa che, in ultima analisi, faceva fallire proprio lo scopo dell’udienza75. Di qui la crisi. Se, infatti, può condividersi la proiezione di un criterio di giudizio così rigido sulla preoccupazione di evitare che l’udienza preliminare potesse trasformarsi in un anticipato dibattimento sul merito76 – in contrasto con il ruolo di mero filtro rispetto alle richie- 75 L’art. 125 disp. att. c.p.p. riferendosi all’archiviazione, ha introdotto l’importante regola della “inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio” come presupposto per il promovimento dell’azione e filtro selettivo dei processi “inutili”. L’idea che tale disposizione fosse utilizzabile solo nell’ambito dell’archiviazione era contestabile già quando vigeva la regola dell’“evidenza” che restringeva le potenzialità deflattive dell’udienza preliminare. Non vi erano, per il vero, ostacoli sistematici alla lettura dell’espressione “quando risulta evidente che”, contenuta nell’art. 425 c.p.p., in stretto raccordo alla regola della non supreluità del processo, espressa dal menzionato art. 125 disp. att. c.p.p., in modo da far carico, già allora, al giudice dell’udienza preliminare di verificare, prima ancora dell’evidenza della esistenza delle condizioni indicate dall’art. 425 c.p.p., la fondatezza della notizia sulla base della idoneità a sostenere l’accusa degli elementi acquisiti nelle indagini e portati dal pubblico ministero a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio. Ritenere che il giudice dell’udienza preliminare, condizionato dal requisito dell’“evidenza”, dovesse verificare solo se la notizia di reato non fosse palesemente infondata era conclusione inaccettabile anche per un’altra ragione. L’art. 129 comma 1 c.p.p. impone, infatti, al giudice l’immediata declaratoria di una causa di non punibilità negli stessi casi indicati dall’art. 425 c.p.p., senza subordinare la pronuncia liberatoria al requisito dell’evidenza. Non vi sarebbe stato dunque bisogno di ripetere una norma che comunque avrebbe dovuto essere applicata in ogni stato e grado del procedimento, quindi anche nell’udienza preliminare. L’attribuzione di un particolare significato al requisito dell’“evidenza”, a fronte di una norma generale e imperativa come l’art. 129 c.p.p., si sostanziava in una forzatura del sistema, al solo scopo di limitare l’intervento giurisdizionale di controllo e garanzia sull’azione esercitata dal pubblico ministero. La stessa Relazione al codice, del resto, precisa, in merito all’art 129 c.p.p., che le situazioni ivi previste assumono rilievo nel solo processo (quindi anche e dall’udienza preliminare in poi), risolvendosi tutte, per la fase delle indagini preliminari, nella nozione di infondatezza della notizia di reato. Sui rapporti tra la regola dell’art. 129 e quella dell’art. 425 c.p.p., prima della riforma del 1993, cfr. G. LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, cit., p. 1077 ss. 76 Nella filosofia della riforma si escludeva, invero, che l’udienza preliminare potesse dar luogo ad un giudizio di merito, tranne che – in quella sede – l’imputato avesse scelto la strada di una definizione anticipata del processo attraverso uno dei riti alternativi; ma, in tal caso, la funzione dell’udienza si modifica, così come si modifica la funzione di controllo del giudice per le indagini preliminari in presenza di una domanda di definizione anticipata sulla imputazione. Si vuol dire, cioè, che, nei casi in cui le parti attivano LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 53 ste di rinvio a giudizio azzardate – e se, contestualmente, eguale condivisione va accordata all’esigenza di scongiurare il riproporsi della sentenza di non doversi procedere conclusiva dell’istruzione formale77, tuttavia, proprio quella rigidità ha finito per restringere eccessivamente l’ambito del sindacato fino ad annullarlo, per l’impossibilità del giudice di rimediare ad un’imputazione fondata su elementi inidonei a sostenere l’accusa in giudizio. Si finiva, così, con l’imporre il rinvio a giudizio nei casi in cui il fondamento accusatorio non fosse connotato da carenze palesi78 e, quindi, anche poteri di richiesta di giudizio, l’“udienza” modifica la sua originaria funzione e, per certi versi, la sua struttura, diventando la sede naturale del giudizio di merito. 77 Sentenza con la quale il giudice istruttore adempiva all’obbligo dell’accertamento della verità. In argomento cfr. G. BONETTO, Art. 299 c.p.p., in AA.VV., Commentario breve al codice di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi, Padova, 1987, p. 884. Più in generale sul tema dei poteri del giudice istruttore v. D. SIRACUSANO, Istruzione del processo penale, in Enc. dir., Vol. XXIII, Milano, 1973, p. 166 e ss. 78 Nei primi anni di applicazione del nuovo codice, nel corso dei quali la giurisprudenza prevalente si orientò per l’interpretazione restrittiva della norma, l’incidenza statistica delle sentenze di non luogo a procedere fu largamente inferiore rispetto a quella dei decreti che disponevano il giudizio. In dottrina hanno sostenuto l’interpretazione restrittiva, tra gli altri, N. BARTONE, Aspetti patologici dell’udienza preliminare, in Giust. pen., 1990, III, c. 689; P. FERRUA, La revisione del codice 1988: correzioni e integrazioni nel quadro della legge-delega, in Studi sul processo penale, II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, p. 148; A. NAPPI, Profili dell’udienza preliminare nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 2989, p. 514; C. TAORMINA, L’udienza preliminare tra carenze normative e distorsioni applicative, in Giust. pen., 1992, III, c. 257. Non va peraltro dimenticato come siano state avanzate interpretazioni dell’art. 425 c.p.p. finalizzate ad una lettura meno rigoristica e più aderente all’esigenza di una corretta ripartizione dell’onere della prova. Così, se per G. LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, cit., p. 30, la «doverosità della completezza non può non comportare un controllo sulla carenza o insufficienza di elementi probatori giacché sarebbe assurdo imporre una indagine completa al pubblico ministero e, poi, non consentire un controllo sulla effettiva presenza di elementi probatori», per A. PRESUTTI, Presunzione d’innocenza e regole di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare, in Cass. pen., 1992, p. 1359 e ss., «è il collegamento tra l’art. 125 disp. att. c.p.p. e l’art. 425 c.p.p. a giustificare una interpretazione estensiva dei poteri decisori del giudice. Una interpretazione estensiva formulata da singoli giudici non basta tuttavia a far accantonare il problema di una più adeguata definizione legislativa dei compiti del giudice. In sede di controllo sull’imputazione la modifica dell’art. 425 era dunque necessaria per evitare di affidare all’interpretazione giurisprudenziale il delicato compito di allargare di volta in volta le maglie del proscioglimento in sede di udienza preliminare». 54 CAPITOLO I in presenza di indizi inconsistenti che mai avrebbero potuto resistere al vaglio dibattimentale. Insomma, se l’impianto del codice di procedura penale del 1988 prevedeva che solo un numero minimo di processi dovesse giungere al dibattimento, è anche vero che ciò, almeno fino al 1993 – ma a ben vedere anche oltre – non è accaduto, soprattutto a causa di una udienza preliminare mal costruita. L’inadeguatezza era tale da non poter essere contenuta neanche con l’utilizzo delle possibilità concesse dall’art. 422 c.p.p.: nella maggior parte dei casi, infatti, le indagini svolte dal pubblico ministero portavano a raccogliere almeno alcuni elementi a carico dell’imputato, la cui presenza era sufficiente per escludere l’evidenza probatoria a favore dell’imputato stesso, per escludere la necessità di approfondimenti istruttori da parte del giudice, e per imporre l’emissione del decreto dispositivo del giudizio. Qualora la difesa fosse riuscita ad apportare un contributo probatorio a discarico, questo sarebbe stato idoneo a provocare l’adozione di sentenza di non luogo a procedere solo nel caso in cui avesse posseduto una tale forza probante da relegare nel nulla gli elementi a carico ed integrare, così, l’evidenza assolutoria richiesta dall’art. 425 c.p.p. Non è difficile rendersi conto, però, di come gli elementi a favore dell’imputato apportati dalla difesa potessero, al più, determinare una situazione probatoria contraddittoria (contemporanea presenza di elementi a carico e a discarico), in presenza della quale era obbligatorio, per il giudice, disporre il rinvio a giudizio79. A chiarire in maniera evidente l’incoerenza di simile impianto fu il raffronto con le norme disciplinanti l’archiviazione80. Si os- 79 In tal senso cfr. A. M. BONAGURA, Nuovi esiti dell’udienza preliminare: frattura o continuità con il regime anteriore alla “Legge Carotti”?, in Cass. pen., 2001, p. 2571. 80 Situazione evidenziata con assoluta chiarezza da F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, p. 827, secondo il quale «sarebbe assurdo rinviare a giudizio i casi che lo stesso organo avrebbe archiviato se l’indagante glielo avesse chiesto». LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 55 servò che nella stessa situazione il giudizio di inconsistenza degli elementi raccolti imponeva al pubblico ministero la richiesta di archiviazione della notizia di reato a norma dell’art. 408 c.p.p.81 e, viceversa, che l’inconsistenza delle fonti di prova paradossalmente espropriava il giudice dell’udienza preliminare dei suoi poteri, impedendogli di prosciogliere l’imputato se non quando fosse risultato “evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso …”, pur nella consapevolezza che in dibattimento l’insufficienza o la contraddittorietà delle prove si sarebbe risolta in una sentenza di assoluzione82. In una situazione di prove insufficienti o contraddittorie, invero, se il pubblico ministero avesse presentato richiesta di archiviazione, il giudice non avrebbe potuto che aderire alla richiesta, essendo consapevole che, diversamente, sarebbe stata, poi, pronunciata una sentenza di assoluzione dibattimentale; se, invece, avesse presentato richiesta di rinvio a giudizio, il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto emettere il relativo decreto83. In questo Il pubblico ministero doveva chiedere l’archiviazione anche quando riteneva insufficienti gli elementi acquisiti. 82 Per C. TAORMINA, L’udienza preliminare tra carenze normative e distorsioni applicative, in Giust. pen., cit., c. 257, la più ampia regola decisoria prevista per l’archiviazione aveva lo scopo di impedire che giungessero alla fase dell’udienza preliminare le notizie di reato che presumibilmente avrebbero portato ad assoluzioni, pur in mancanza di evidenza probatoria. Per D. POTETTI, La l. n. 105/93: ovvero la triste sorte di una legge negata e di un giudice inutile?, in Cass. pen., 1998, p. 2433-2434, viceversa, la coincidenza dei due criteri era imposto anzitutto dalla logica giacché «ogni volta che i poteri di controllo del giudice dell’udienza preliminare rispetto alla imputazione siano meno estesi rispetto a quelli affidati al giudice per le indagini preliminari chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione si finisce per accettare l’inaccettabile; che cioè il pubblico ministero il quale, errando, abbia malamente esercitato l’azione penale, invece che trovare la pronta censura del giudice, trovi invece la strada spianata verso il giudizio, non disponendo più di quei medesimi poteri che invece avrebbe potuto esercitare in sede di archiviazione»; ragionamento ribadito dall’Autore anche in tempi più recenti (Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare e il nuovo art. 421-bis c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 2150-2151). 83 La dottrina era concorde nel ritenere che la situazione descritta costituisse l’effetto della scelta legislativa di eleggere il pubblico ministero a dominus della fase investiga81 56 CAPITOLO I modo il rinvio a giudizio era deciso sostanzialmente dall’organo dell’accusa, con inevitabile compressione del diritto di difesa strettamente connesso all’intensità del sindacato giurisdizionale. Insomma, in applicazione delle due disposizioni richiamate, il giudice doveva compiere una medesima valutazione di superfluità del dibattimento in forza di criteri normativi differenti, a seconda della circostanza – del tutto irrilevante – che il pubblico ministero avesse manifestato la volontà di agire o non agire84. Né la situazione derivante dalla formulazione dell’art. 425 c.p.p. poteva spiegarsi sulla base del rilievo che il legislatore, imponendo l’obbligatorietà, avesse privilegiato l’esercizio dell’azione. Sul punto, anzi, si ricorda che la Corte costituzionale ha precisato che l’obbligatorietà dell’azione penale concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Questa seconda evenienza, connessa al principio di legalità, è assicurata solo se è evitata, mediante il controllo giurisdizionale, oltre che la discriminazione conseguente all’errato esperimento dell’azione penale, anche la discriminazione conseguente all’errato esercizio dell’azione. Dunque, limite implicito alla stessa obbligatorietà, razionalmente intesa, è che il processo non debba essere instaurato quando si manifesti oggettivamente superfluo85. Limite che risulta- tiva. Sul presupposto che la pubblica accusa possa gestire modalità e tempi dell’azione, sembrava assurdo ricondurre la regola di giudizio prevista dall’art. 425 comma 1 c.p.p ad un errore legislativo piuttosto che al principio del favor actionis, in ragione del quale pareva maturare una specie di diritto ad ottenere il rinvio a giudizio, salvi i casi in cui l’ipotesi accusatoria risultasse manifestamente infondata. Così G. CONTI, La chiusura delle indagini preliminari, cit., p. 58; P. DELLA SALA-A. GARELLO, L’udienza preliminare. Verifica dell’accusa e procedimenti speciali, cit., p. 51; O. DOMINIONI, Chiusura delle indagini e udienza preliminare, in AA. VV., Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, p. 74; V. GREVI, Archiviazione per inidoneità probatoria, cit., 1315. 84 Così, testualmente, F. CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994, p. 365. 85 Corte cost., sentenza n. 88 del 15 febbraio 1991. Ne consegue, per O. DOMINIONI, Giudice e parti nell’udienza preliminare, in AA. VV., L’udienza preliminare, Milano, LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 57 va inequivocabilmente violato, dal momento che al giudice non era consentito un controllo sull’esercizio dell’azione penale conseguente ad un mero “sospetto”, proprio perché l’udienza preliminare non funzionava come reale filtro delle imputazioni azzardate. Il requisito dell’evidenza, peraltro, non solo connotava la condizione di fuoriuscita dal processo dell’imputato già nella fase dell’udienza preliminare ma delimitava anche il potere del giudice di ammissione delle prove a discarico richieste ai sensi dell’art. 422 comma 2, ultimo periodo, c.p.p. (ovviamente nella sua formulazione originaria). L’art. 422 comma 2 c.p.p. stabiliva che il giudice poteva disporre le prove a discarico quando ne apparisse evidente la decisività ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. E dunque, ancorché fosse diverso il contenuto dell’operazione valutativa, si rilevava l’ambiguità del sistema generata dalla coesistenza di una regola di giudizio, qual è quella dell’art. 530 commi 1 e 2 c.p.p., che impone una pronuncia ampiamente liberatoria in presenza di una prova insufficiente, dubbia o contraddittoria, e quella contenuta nell’art. 425 c.p.p. (originaria formulazione) che, in presenza di una situazione analogamente tipizzata, imponeva il passaggio al dibattimento pur quando nella convinzione che l’esito del processo sarebbe stato l’assoluzione dell’imputato86. 1992, p. 78, che il principio di obbligatorietà deve essere inteso non solo come spinta all’esercizio, come favor per l’azione penale, ma anche come capacità di self control da parte del pubblico ministero per i casi che non meritano di essere coltivati. Sul punto si veda anche G. CONSO, Conclusioni di un dibattito sull’udienza preliminare, cit., c. 71, il quale sottolinea come «il problema di una più equilibrata gestione dell’udienza preliminare si pone non tanto per favorire l’imputato, quanto per pervenire ad una meglio concepita obbligatorietà dell’azione penale». Ed invero, l’obbligatorietà, all’epoca in cui l’Autore scriveva, era davvero male intesa, con elusione del precetto costituzionale per una “seria” gestione dell’azione. 86 Il collegamento tra la sentenza di non luogo a procedere ed il criterio della evidenza sembrava in contrasto con l’intento del legislatore di ridurre al minimo il numero dei processi da concludere al dibattimento, vincolando di regola il giudice alla formulazione del rinvio a giudizio. Così P. DELLA SALA-A. GARELLO, L’udienza preliminare. Verifica 58 CAPITOLO I Di qui la legge 8 aprile 1993, n. 10587, che soppresse il termine “evidente” dal testo dell’art. 425 comma 1 c.p.p.88, estendendo la sfera del controllo giurisdizionale e l’area di operatività della sentenza di non luogo a procedere. Del resto, già prima della modifica legislativa, l’interpretazione di parte della dottrina tendeva a sanare l’apparente discrasia – segnalata gia nel corso dei lavori preparatori, ad esempio dal Consiglio Superiore della magistratura89 – esistente fra la regola di giudizio dell’udienza preliminare e quella, singolarmente relegata nell’art. 125 delle disposizioni di attuazione, relativa all’archiviazione per infondatezza della notizia di reato90. Si ristabiliva, così, la razionalità sistematica ed acquistava rea- dell’accusa e procedimenti speciali, cit., p. 214. In tal senso anche P. FERRUA, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini e nell’udienza preliminare, in Studi sul processo penale, I, Torino, 1990, p. 53; V. GREVI, Archiviazione per inidoneità probatoria ed obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, p. 1313; A. NAPPI, L’udienza preliminare, in Quad. C.S.M., 1992, (27), I, p. 322; nonché, più di recente, A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare , cit., p. 393 e ss. 87 La legge 8 aprile 1993, n. 105, è pervenuta ad espungere il termine “evidente”, nonostante la Corte costituzionale fosse intervenuta a sostegno della regola dell’evidenza, non appena caduto il limite della legge-delega. Con riferimento alla delega concessa dal Parlamento al Governo per apportare integrazioni e correzioni al testo entro tre anni dalla data della entrata in vigore – delega estremamente vincolante – v. G.CONSO, Il codice esce dalla minore età, in Il nuovo codice di procedura penale, in Italia oggi, 23 ottobre 1992, p. 2 e ss. 88 «...in modo repentino e senza un adeguato dibattito parlamentare» per R. BRICCHETTI, L’udienza preliminare e i riti alternativi nel nuovo processo penale, Firenze, 1993, p. 117. In argomento si veda anche A. GIARDA, Una norma al centro del sistema accusatorio. Commento alla l. 8 aprile 1993, n. 105, in Corr. giur., 1993, p. 514. 89 V. Parere sul progetto preliminare delle norme di attuazione del Codice di procedura penale (16 marzo 1989), in Consiglio Superiore della magistratura. Delibere, risoluzioni e pareri, Roma, 1990. 90 Sul punto cfr., per tutti, G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 1997, p. 338, secondo il quale la sentenza di non luogo a procedere doveva essere pronunciata non solo quando sussistesse l’evidente prova a discarico, ma anche in presenza di una situazione che convincesse il giudice dell’inutilità del dibattimento. Il rinvio a giudizio, pertanto, doveva essere disposto soltanto in presenza di un quadro probatorio che, offrendo elementi sufficienti a sostenere l’accusa e non prove evidenti di non colpevolezza, fosse tale da giustificare il dibattimento. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 59 le forza di regola di giudizio l’art. 125 disp. att. c.p.p. anche per l’udienza, data la identità funzionale del controllo sul non esercizio (= archiviazione) o sull’esercizio (= udienza preliminare) dell’azione. In tal modo risultava notevolmente potenziata la funzione di filtro dell’udienza preliminare, in quanto la possibilità di pronunciare sentenza di non luogo a procedere comprendeva non solo i casi di “prova” positiva di innocenza e di “prova” negativa di colpevolezza, bensì anche quelli in cui la prova sulla non sussistenza o sulla non commissione del fatto non si poneva in termini di evidenza, ma poteva essere argomentata e ritenuta nell’ambito di un quadro probatorio di incertezza, nel quale gli elementi a favore fossero prevalsi su quelli a carico dell’imputato, anche nella prospettiva di evitare dibattimenti inutili91. Insomma, il controllo del giudice, sia pure in forma progno- Così, tra gli altri, C. CARRERI, Il giudice dell’udienza preliminare. Giudice di rito o giudice di merito?, in Cass. pen., 1994, p. 2836; G. ILLUMINATI, Per il “non luogo a procedere” non è più richiesta l’evidenza, in Italia Oggi, 1993, n. 2, p. 14; G. LOZZI, Il diritto di difesa nell’udienza preliminare, Relazione presentata al XX Convegno “Enrico De Nicola” sul tema “Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi”, Cagliari, 29 settembre-1 ottobre 1995, p. 4; L. MARAFIOTI, Sui poteri decisori del giudice all’esito dell’udienza preliminare, in Giur. it., 1993, II, c. 712 e ss; M. NUNZIATA, Sul recente ampliamento dei poteri del giudice dell’udienza preliminare, in Critica penale, 1993, p. 59; G. NEPPI MODONA, Indagini preliminari e udienza preliminare, in G. CONSOV. GREVI, Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1993, p. 394; G. BIANCHI, I “committal proceedings” nel processo penale inglese e l’udienza preliminare in quello italiano: analogie e differenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, p. 759; A. CAMON, La motivazione del rinvio a giudizio, in Foro it., 2005, II, c. 174. Quanto al problema relativo al destino della richiesta di rinvio a giudizio suffragata da elementi di prova contraddittori o insufficienti – essendosi la novella del 1993 limitata ad eliminare la parola “evidente” dal contesto dell’art. 425 c.p.p., senza aggiungere nulla in ordine alla insufficienza probatoria espressamente richiamata dall’art. 530 c.p.p. – per la dottrina «la regola espressa dall’art. 425 c.p.p. nella versione successiva alla legge del 1993 dovrebbe indicare che la decisione di non luogo a procedere può conseguire solo ad una valutazione dalla quale risulti superfluo, in termini “chiari e precisi”, il giudizio, e non ad una situazione probatoria dubbia che, prestandosi a soluzioni “aperte”, lo impone» (così G. GARUTI, Nuove osservazioni sulla regola di giudizio ex art. 425 c.p.p. ai fini della sentenza di non luogo a procedere, in Cass. pen., 1996, p. 2715). 91 60 CAPITOLO I stica dell’esito del dibattimento – solo in questo senso possono considerarsi il termine “prova” usato anche per questa fase ed il conseguente giudizio che sfocia nella sentenza di non luogo a procedere –, divenne maggiormente penetrante, potendo egli verificare le possibilità per l’accusa di “stare in piedi” e, quindi, necessariamente, vagliare anche la potenzialità degli stessi elementi di svilupparsi o di integrarsi in giudizio. La riforma del 1993, dunque, ha fatto della sentenza di non luogo a procedere un’ipotesi non più semplicemente “residuale” rispetto al decreto che dispone il giudizio, e ciò per la doverosità della proiezione dibattimentale della valutazione degli elementi di accusa. Va però chiarito che, se la novella ha comportato lo sforzo di evidenziare la regola di valutazione degli elementi di prova compatibili con il decreto che dispone il giudizio, tuttavia non ha mutato il ruolo tipico dell’udienza preliminare; al contrario ne ha incentivato la funzione deflattiva. Certo, eliminato dall’art. 425 c.p.p. l’aggettivo “evidente” si ampliava la previsione che imponeva il non luogo a procedere; estesa – per volontà della Corte costituzionale – la possibilità di effettuare l’incidente probatorio durante la stessa udienza preliminare, indispensabile per l’acquisizione al processo di elementi necessari all’accertamento dei fatti e per garantire l’effettività del diritto delle parti alla prova quando essa non fosse risultata rinviabile, ed introdotte le forme di cui agli artt. 498 e 499 c.p.p. in vista dell’interrogatorio dell’imputato92, emergeva un più pregnante ruolo 92 Cfr. Corte cost., sentenza n. 77 del 10 marzo 1994, secondo cui «la preclusione all’esperimento dell’incidente probatorio nella fase dell’udienza preliminare si rivela priva di ogni ragionevole giustificazione e lesiva del diritto delle parti alla prova e, quindi, dei diritti di azione e di difesa». La Corte di conseguenza dichiarò costituzionalmente illegittimi gli artt. 392 e 393 c.p.p., nella parte in cui non consentivano che, nei casi previsti dalla prima di tali disposizioni, l’incidente probatorio potesse essere richiesto ed eseguito anche nella fase dell’udienza preliminare. E ciò perché, sotto il profilo sistematico, l’interruzione nell’acquisibilità di prove non rinviabili appariva contraddittoria con LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 61 della fase, anche se, sin dall’inizio, risultarono incompiuti i segnali che la Corte costituzionale aveva dato in materia di impraticabilità dell’udienza a causa della ritenuta incompletezza delle indagini93. 6. Segue: … e del 1999. Le perplessità sulla natura meramente processuale della “nuova” udienza. Il segnale fu colto dal legislatore solo molto tempo dopo. Così, abbandonata la strada dei timidi “ritocchi”, è intervenuto per consentire all’udienza preliminare di svolgere un più incisivo compito di verifica sulla correttezza nell’esercizio dell’azione94; intervento che non poteva non riguardare il presupposto di tale attività e cioè la “completabilità” – non la “completezza” – delle indagini, idonea a coniugare esigenze di economia e bisogni di efficienza della funzione originariamente prevista dal codice. L’irrobustimento del controllo giurisdizionale è stato attuato fornendo iniziative “probatorie” che si possono spingere al di là dello stato degli atti, essendo consentito al giudice di ordinare il compimento di ulteriori indagini quando esse risultino incomplete la continuità che il legislatore ha assicurato all’attività di indagine prevedendo che essa possa proseguire anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419 comma 3 c.p.p.) e dopo il decreto che dispone il giudizio (art. 430 c.p.p.), ben potendo darsi che per taluno degli elementi in tal modo acquisiti insorgano le situazioni di non differibilità della prova previste dall’art. 392. 93 Corte cost., sentenza n. 88 del 1991, cit. 94 Per un commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 479, v. tra gli altri, AA. VV., Il processo penale dopo la riforma sul giudice unico (l. 16 dicembre 1999, n. 479) a cura di F. Peroni, Padova, 2000; AA.VV., Il nuovo processo penale davanti al giudice unico. Legge 16 dicembre 1999, n. 479, Milano, 2000; AA. VV., Giudice unico e garanzie difensive, a cura di E. Amodio e N. Galantini, Milano, 2000; AA. VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge Carotti), Vol. I ( a cura di L. Kalb), Vol. II (a cura di G. Pierro), Vol. III (a cura di R. Normando), Milano 2000; P.P. RIVELLO, Giudice unico e legge “Carotti”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1321. 62 CAPITOLO I (art. 421-bis c.p.p.)95, ovvero di assumere, anche d’ufficio, le prove delle quali appaia evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 comma 1 c.p.p.) 96. Di questi nuovi istituti ci occuperemo in seguito, per sottolineare la loro perenne problematicità ed i contrastanti indirizzi giurisprudenziali e dottrinali97. Qui va ribadito che il legislatore del 1999 ha voluto attribuire al giudice un ruolo di accresciuta potenzialità operativa in un’udienza dai confini notevolmente più ampi rispetto al passato, come testimonia la nuova formulazione dell’art. 425 c.p.p. Esso prevede, da un lato, che il giudice debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (art. 425 comma 3 c.p.p.); dall’altro, che possa emettere una sentenza di non luogo a procedere applicando la prescrizione del reato, se ciò deriva dal bilanciamento tra circostanze attenuanti ed aggravanti (art. 425 comma 2 c.p.p.)98. Ebbene va ribadito che – nonostante dottrina contraria99 e talu- 95 È questa, insieme a quella introdotta dall’art. 422 c.p.p., una delle più significative novità introdotte dalla “legge Carotti” con riferimento alla disciplina dell’udienza preliminare. Sul significato e la portata della innovazione in questione v., ultra, Cap. II. 96 Sui nuovi poteri di integrazione probatoria del giudice dell’udienza preliminare si vedano le considerazioni di A. DE CARO, Poteri probatori del giudice e diritto alla prova, Napoli, 2003, p. 156 e ss., nonché quelle di G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000, p. 353 e ss.). 97 Cfr. Capitoli II e III. 98 Deve, invece, ritenersi abrogato per incompatibilità sopravvenuta il periodo finale del comma 2 dell’art. 425 c.p.p. con riferimento ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge n. 251 del 5 dicembre 2005. Infatti, il nuovo testo dell’art. 157 c.p., al terzo comma, esclude che ai fini della declaratoria di estinzione per prescrizione si possa applicare l’art. 69 c.p. 99 E. AMODIO, Giudice unico e garanzie difensive nella procedura penale riformata, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, Milano, 2000, p. 19; AA. DALIA, L’apparente ampliamento degli spazi difensivi nelle indaini e l’effettiva anticipazione della soglia di giudizio, in AA. VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. legge Carotti), Vol. I, a cura di L. Kalb, cit., p. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 63 ne pronunce della Corte costituzionale100 – si conferma la volontà legislativa di non tracimare dalla natura processuale della sentenza di non luogo a procedere; idea avvalorata dal fatto che tale sentenza è soggetta ad un “giudicato debole”, potendo essere revocata 10; M. FERRAIOLI, La separazione delle fasi: limiti e proiezioni di uno schema, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, cit., p. 276; N. GALANTINI, La nuova udienza preliminare, in AA. VV., Giudice unico e garanzie difensive, a cura di E. Amodio e N. Galantini, cit., p. 101 e 109; G. CASCONE, Articolo 34 c.p.p. e udienza preliminare. Revirement della Corte costituzionale, in Dir. giust., 2002, n. 33, p. 33 e ss.; G. FRIGO, Il tramonto della collegialità oscura le garanzie, in Guida dir., 2000. Non sono peraltro mancate voci secondo le quali l’udienza preliminare non avrebbe perso il suo carattere di fase destinata alla verifica circa la fondatezza dell’accusa pur dopo l’intervento riformatore del 1999. In tal senso cfr. A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, p. 401; F. CORDERO, Procedura penale, p. 969; G. LOZZI, p. 415; G. SPANGHER, Le ricostruzioni molto diverse della Corte costituzionale sul ruolo dell’udienza preliminare, in Giur. cost., 2001, p. 1963; G. RICCIO, Incompatibilità del giudice, ecco tutte le oscillazioni della Consulta, in Dir. gius., 2003, n. 1, p. 36; ID., Cos’è l’udienza preliminare”. Guai a trasformarla da “filtro” in “giudizio”, cit., p. 8 ss.; P.P. RIVELLO, La Corte costituzionale amplia l’area dell’incompatibilità in relazione alla fase dell’udienza preliminare, in Giur. cost., 2001, p. 1965. In particolare si è affermato che l’ampliamento dei poteri istruttori e decisori del giudice dell’udienza preliminare realizzato con la legge n. 479 del 1999 non ha influito sulla natura del provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, poiché la natura di rito o di merito di una dcecisione giurisdizionale non dipende dall’estensione dei poteri istruttori del giudice (A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, p. 401). Ancora in tal senso cfr. A.M. BONAGURA, Nuovi esiti dell’udienza preliminare: frattura o continuità con il regime anteriore alla “Legge-Carotti”?, cit., p. 2571, per il quale «al graduale sgretolamento normativo della visione dell’udienza preliminare quale momento di inadeguato filtro tra la fase delle indagini e quella dibattimentale non deve, tuttavia, subentrare una opposta visione dell’udienza stessa, quale momento di decisiva ed anticipata verifica nel merito dell’ipotesi accusatoria». Questo secondo orientamento è stato, peraltro, precedentemente sostenuto anche dalle Sezioni Unite della Cassazione (26 novembre 2002 n. 39915, in Cass. pen., 2003, p. 398 con nota di G. DIOTALLEVI; stessa sentenza in Guida al diritto, 2003, n. 5, p. 91, con nota di G. LEO) 100 Il riferimento è alle sentenze della Corte costituzionale n. 224 del 6 luglio 2001 e n. 335 del 12 luglio 2002, nonché all’ordinanza n. 367 del 18 luglio 2002. In particolare, con la prima delle decisioni citate la Consulta – pur dichiarando l’infondatezza della questione di legittimità dell’art. 34 c.p.p. sollevata con riferimento all’art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui non prevede come causa d’incompatibilità a celebrare nuovamente l’udienza preliminare del magistrato il cui decreto che dispone il giudizio sia stato annullato ai sensi dell’art. 429 comma 2 c.p.p. – ha ritenuto che, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge. n. 479 del 16 dicembre 1999, l’udienza preliminare ha perso il suo originario carattere esclusivamente processuale ed è divenuta un vero e proprio giudizio, come tale riconducibile alle ipotesi d’incompatibilità già considerate dall’art. 34 c.p.p. 64 CAPITOLO I (art. 434 c.p.p.). Peraltro, la stessa Consulta in occasione coeva alle pronunce richiamate ha affermato il principio secondo cui «ad una richiesta in rito non può non corrispondere, in capo al giudice, una decisione di uguale natura, proprio perché anch’essa calibrata sulla prognosi di non superfluità del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale»101. Dunque, nonostante le radicali innovazioni introdotte con la legge n. 479 del 1999, la funzione di controllo sulla correttezza dell’accusa resta ancora oggi funzione precipua dell’udienza preliminare. Tali innovazioni vanno lette, piuttosto, come meccanismi con ulteriore funzione deflattiva rispetto a dibattimenti che si concluderebbero, comunque, con una declaratoria di estinzione del reato. Del resto, l’opinione di quanti ritengono che l’ampliamento dei poteri istruttori e decisori del giudice abbia modificato la natura di questa decisione, assimilandola ad una decisione di merito102, è contraddetta, in radice, dalla osservazione secondo cui la natura, di rito o di merito, di una decisione non dipende dall’estensione dei poteri istruttori o cognitivi del giudice, bensì dall’oggetto e dalle regole del giudizio103. Corte cost., ordinanza n. 185 dell’8 giugno 2001. Con specifico riferimento all’art. 421-bis c.p.p. parte della dottrina ha ritenuto trattarsi di una proiezione inquisitoria in un sistema tendenzialmente accusatorio, ad effetti dirompenti, non condivisibile per svariati motivi. In primo luogo perché la valutazione che il giudice compie sulla completezza delle indagini, una volta che sia stata esercitata l’azione penale, dovrebbe sfociare in una decisione e non in un ordine d’integrazione. In secondo luogo, perché il giudice che ha ordinato di compiere ulteriori indagini non dovrebbe poter assumere la deliberazione conclusiva dell’udienza (sentenza di non luogo a procedere, decreto di rinvio a giudizio), essendo prevedibile che si orienti verso il giudizio, piuttosto che verso il non luogo a procedere, se le indagini ulteriori rispondono alle sue prescrizioni, tornando in tal modo a confondersi i ruoli di giudice per le indagini preliminari e giudice dell’udienza. Ed ancora perché – si afferma – una volta che l’azione sia stata promossa, non si vede come possa ricorrere all’avocazione per sindacare le determinazioni del magistrato titolare del potere-dovere di azione. Così M. FERRAIOLI-A.A. DALIA, Manuale di procedura penale, Padova, 2003, p. 624. 103 Al riguardo si è molto opportunamente osservato come i poteri di ammissione della prova ex officio iudicis siano residuali e, pertanto, attivabili solo allorché, a seguito 101 102 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 65 Allo stesso modo, la formula dubitativa di cui all’art. 425 comma 3 c.p.p., sebbene sembri evocare la formula dell’art. 530 comma 2 c.p.p., non si lega a valutazioni sul merito dell’accusa, bensì sempre ad una prognosi negativa sulla possibilità di colmare o di sanare in dibattimento la situazione d’incertezza. Ovviamente, la situazione si coordina con la previsione dell’art. 421-bis c.p.p., ponendosi come extrema ratio rispetto ad un’incompletezza del fondamento d’accusa che permanga pure all’esito del tentativo d’integrazione delle indagini indicate dal giudice. Sulla stessa linea va dissolto l’equivoco in cui cade chi ritenga che si possa assicurare la effettiva imparzialità del giudice dell’udienza preliminare solo limitandone i poteri di controllo, sul presupposto che un giudice dotato di poteri di approfondimento istruttorio sarebbe destinato inevitabilmente a sbilanciarsi a favore del pubblico ministero. L’equivoco fonda su una visione inquisitoria dei poteri istruttori del giudice, laddove si è in presenza di poteri funzionalmente collegati allo scopo cui tende l’udienza ed alla regola di giudizio che le è propria104. Ed è lo stesso legislatore a dimostrare piena della discussione, il giudice non reputi possibile decidere allo stato degli atti, siano limitati da una diagnosi di necessità di acquisizione al processo dell’elemento mancante, non siano esercitati allo scopo di convalidare ipotesi investigative solipsisticamente elaborate dal giudice, riversino, infine, i risultati ottenuti nel crogiolo del contraddittorio, consentendo alle parti di argomentare sui nuovi traguardi conoscitivi raggiunti. In tal senso si veda G. DI CHIARA, Linee di sistema della funzione giudiziale preliminare, in Riv. dir. proc., 2003, n. 1, 259, al quale tutto ciò pare abbastanza per concludere che non si tratta di inaccettabili cedimenti e spirali inquisitorie bandite dai nuovi equilibri. Né all’Autore pare di ostacolo, a tale approdo conclusivo, la garanzia del giudice “terzo e imparziale” scolpita nel nuovo art. 111 comma 2 Cost., «non coincidendo la imparzialità con la passività del giudicante, a sua volta intesa come assenza di iniziative probatorie d’ufficio». 104 Sul punto si vedano le osservazioni di G. DI CHIARA, Linee di sistema della funzione giudiziale preliminare, cit., p. 259., secondo cui le recenti linee di politica giudiziaria, con specifico riferimento alle dinamiche degli orizzonti conoscitivi nell’esercizio della giurisdizione preliminare, mostrano, come un ampliamento del patrimonio di conoscenza del giudice, purché si scongiurino personalistiche fughe in avanti lungo personali ipotesi investigative, siano di vantaggio e non di detrimento alle logiche della 66 CAPITOLO I consapevolezza della situazione, statuendo, al quarto comma dell’art. 425 c.p.p., il divieto per il giudice di pronunciare la sentenza di non luogo a procedere tutte le volte in cui “dal proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza”, perché questa, sì, comporta una valutazione sulla responsabilità del soggetto quale premessa della osservazione della pericolosità dello stesso. In considerazione dell’oggetto e delle regole di giudizio105, ancora, va respinta l’idea secondo cui a fondare la mutazione genetica della congenita caratterizzazione dell’udienza preliminare sia la disposizione di cui al secondo comma dell’art. 425 c.p.p., che autorizza il giudice a tener conto delle circostanze attenuanti. Invero, per un verso, va sottolineata la forza deflattiva del “meccanismo” di nuovo conio; per altro verso, e soprattutto, la nuova disposizione esaurisce la sua portata sistematica senza stravolgere la natura della sentenza di non luogo a procedere, dal momento che l’operazione è qui effettuata in forma prognostica, secondo la regola di utilità del dibattimento. Si tratta, cioè, di un accertamento assolutamente compatibile con la ricostruita udienza preliminare, perché non ne muta la regola di giudizio; è pertanto ragionevole pensare che l’innovazione sia stata introdotta esclusivamente per non scaricare sul dibattimento processi in cui, a tutto concedere e dopo un’istruttoria magari faticosa ed impegnativa, si sarebbe comunque giunti all’accertamento della causa estintiva dell’illecito penale. Né la modifica del comma 3 dell’art. 425 c.p.p. – che ricollega il non luogo a procedere ai casi di prova “insufficiente, contraddittoria o inidonea”, a cui va negata ogni omologazione rispetto alla decisione giusta. 105 Su cui si rinvia a G. RICCIO, Cos’è l’udienza preliminare”. Guai a trasformarla da “filtro” in “giudizio”, cit., p. 8 ss., per dimostrare l’assunto qui ripreso. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 67 disposizione di cui all’art. 530 c.p.p. – incide sulla natura processuale della decisione, dal momento che anche l’integrazione formalizza i risultati consolidati nell’interpretazione della regola di giudizio contenuta nell’art. 425 c.p.p. E, se il richiamo espresso ai parametri dell’insufficienza e della contraddittorietà può apparire ambiguo, risulta metodologicamente scorretto limitare l’esame della situazione ad un mero raffronto tra norme e/o tra formule, senza farsi carico della individuazione della ratio di una data disposizione e della regola che sottende al giudizio. E ratio e regola rappresentano lo sbarramento alle risultanze che appaiono inidonee a rendere prospettabile uno sviluppo tale da superare una situazione di carenza o solo di incertezza e, pertanto, a fondare un inutile rinvio a giudizio. In conclusione, le novità introdotte nel tessuto dell’udienza preliminare non ne hanno alterato la funzione e la struttura al punto da imporre al giudice la formulazione di un giudizio secondo le regole decisorie stabilite per il dibattimento, cioè in termini di colpevolezza o di innocenza; va detto, anzi, con chiarezza, che una valutazione compiuta in base a questi criteri provocherebbe, in caso di emissione del decreto a norma dell’art. 429 c.p.p., un pregiudizio assai marcato in capo al giudice di merito, simile a quello che produceva, col codice previgente, la sentenza/ordinanza di rinvio a giudizio. Se anche oggi il giudice dell’udienza è tenuto ad un giudizio di tipo prognostico, che coincide con quello dell’art. 125 disp. att. c.p.p.; se, cioè, egli deve valutare la idoneità del materiale posto alla sua attenzione a sostenere l’accusa in giudizio, significa che il giudice resta sul terreno della utilità del dibattimento, nucleo di essenza comune dell’azione in senso concreto e dell’esigenza del controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione. 68 CAPITOLO I 7. Sull’assenza di un’alternativa procedimentale all’udienza preliminare. L’essenzialità dell’udienza preliminare, approdo necessario dell’evoluzione processuale, trova ulteriore e pieno riconoscimento nel consolidamento dell’indirizzo interpretativo che nega al giudice il potere di pronuncia immediata della causa di non punibilità al di fuori dell’udienza e sul solo presupposto della proposizione della richiesta di rinvio a giudizio106. Il problema va affrontato alla radice; non solo per la presenza di tesi contrapposte, ma soprattutto ove si consideri che esigenze di speditezza avrebbero potuto consigliare la soluzione opposta. Ci si poteva chiedere, cioè, per quale ragione occorresse attendere lo svolgimento di un adempimento procedurale che risponde alla funzione propria di verifica della correttezza dell’accusa, una volta che risultassero le condizioni di un’immediata liberazione dell’imputato dal processo. Peraltro, si era sostenuto in giurisprudenza107 che l’applicazione della regola dell’art. 129 c.p.p. fuori e prima dell’udienza era ispirata al principio del favor rei ed animata da evidenti ragioni In verità l’indirizzo originario della giurisprudenza – confermato dalla dottrina maggioritaria – era quello di ritenere la impraticabilità nell’udienza preliminare della situazione descritta nell’art. 129 c.p.p. sul doppio presupposto che questa norma, essendo di carattere generale, non potesse competere con norma di eguale contenuto ma di carattere speciale, cioè con l’art. 425 c.p.p. che, quindi avrebbe dovuto prevalere e perché si riteneva che il giudizio di merito richiesto dalla prima disposizione, anche in ragione della sua stessa formulazione, non potesse avere riconoscimento in un momento processuale funzionalmente destinato ad altra evenienza. Fu il lento e continuo insistere della dottrina allora minoritaria e, soprattutto l’osservazione che quel giudice fosse chiamato in ragione della richiesta dell’imputato a compiti di merito ad indirizzare la Corte di Cassazione sulla sponda del rapporto tra competenza funzionale e richiesta dell’imputato anche quanto all’applicazione dell’art. 129 c.p.p., considerato l’effetto pregnante di tale disposizione, cioè quella del giudicato forte. 107 Cass, sez. V, 25 novembre 2003, P.M. in proc. Berlusconi ed altri, in Cass. pen., 2004, con nota di F. FALATO, Sull’applicabilità dell’art. 129 tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare, p. 2278. 106 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 69 di economia processuale, «per evitare ulteriori costi alla giustizia, nonché ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione, per assicurare la ragionevole durata del processo attraverso la sua più rapida definizione». Sulla stessa linea, parte della dottrina – per il vero minoritaria – aggiungeva che la compressione operativa dell’art. 129 c.p.p. nell’udienza preliminare collide con l’omologa situazione di cui all’art. 469 c.p.p. relativa alla fase degli atti preliminari al giudizio. Si riteneva, di conseguenza, che siffatta sinonimia fosse indice della sicura applicabilità della regola del proscioglimento immediato al di fuori dell’udienza108. Coglieva invece il nucleo forte di garanzia partecipativa dell’udienza quella dottrina che richiamava la necessità del contraddittorio come premessa – anche – della decisione più favorevole, ricordando che lo svolgimento dell’udienza preliminare costituisce il contenuto di un diritto dell’imputato109. Ed in virtù di questa ineludibile regola si reputava che lo stesso – nella evenienza – deve essere posto nelle condizioni di chiedere un esame nel merito della sua posizione processuale a fronte di cause estintive del reato rinunciabili, perché le uniche deroghe a questa regola generale sono oggetto di previsione espressa nella disposizione dell’art. 459 c.p.p. – relativa alla decidibilità de plano nel procedimento per decreto – e nella disposizione dell’art. 469 c.p.p. – che affida, nel predibattimento, al rito camerale l’applicazione della prima parte dell’art. 129 c.p.p. e al dibattimento l’applicazione della seconda parte dello stesso articolo –. Per altro verso, si criticava l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla pronuncia de plano delle cause di non punibilità, rilevando che l’inciso “immediata declaratoria” dell’art. 129 c.p.p. S. LORUSSO, Immediata declaratoria di causa di non punibilità e giudice per le indagini preliminari, in Cass. pen., 1995, p. 3478. 109 A. NAPPI, Guida al codice di procedura penale, Milano, 2004; G. SPANGHER-A. GIARDA, Codice di procedura penale commentato, Artt. 129 e 425, Milano, 2001. 108 70 CAPITOLO I esprime la prevalenza rispetto ad altri provvedimenti decisori, in particolare a quelli istruttori, senza per ciò consentire l’abbandono del percorso di udienza110. E, nella prospettiva del possibile completamento in udienza dei risultati investigativi, costitutivi di un patrimonio informativo strutturalmente fluido e instabile, si osservava che l’interruzione processuale conseguente alla pronuncia di non luogo a procedere adottata de plano rappresenta un irragionevole impedimento all’individuazione di altre fonti di prova davanti al giudice dell’udienza ai sensi di quanto disposto dall’art. 419 c.p.p.111 e, più in generale, all’introduzione nel processo di nuovi atti o documenti112 quali strumenti a disposizione del pubblico ministero per una migliore definizione dei termini dell’imputazione e per il rafforzamento della domanda di giudizio. Si concludeva perciò nel senso che l’art. 129 c.p.p., se fosse utilizzato come alternativa procedimentale all’udienza preliminare, si trasformerebbe in un meccanismo di inibizione dell’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, perdendo la funzione autentica di noma di chiusura importata al favor libertatis113. Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità finiva col concordare con queste posizioni, precisando che la richiesta di rinvio a giudizio apre ad una fase informata al principio del contraddittorio che non può fare a meno dell’udienza preliminare, essendo essa preordinata all’esame e alla discussione della correttezza dell’esercizio dell’azione. Ed aggiungeva che il requisito dell’immediatez- 110 F. FALATO, Sull’applicabilità dell’art. 129 tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare, cit., p. 2278. 111 M. VESSICHELLI, Sull’inapplicabilità de plano della declaratoria di cui all’art. 129 c.p.p. da parte del GIP investito della rciheista di rinvio a giudizio, in Cass. pen., 1997, p. 510. 112 G. SPANGHER- GIARDA, Codice di procedura penale commentato, Artt. 129 e 425, cit., p. 730. 113 G. BARBALINARDO, Sugli atti e provvedimenti del giudice in materia penale, in Giur. mer., 1992, p. 161. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 71 za – che connota le pronunce liberatorie per la sussistenza di una causa di non punibilità – opera solo nel contesto delle norme che regolano la fase processuale in cui si applica114. La stessa affermava, anche, che la particolare forza propulsiva della richiesta di rinvio a giudizio impedisce l’adozione de plano della pronuncia di non luogo a procedere, perché, con la richiesta il pubblico ministero esercita l’azione penale entro precise sequenze e perché la richiesta, prima ancora che di giudizio, è domanda di fissazione dell’udienza preliminare quale momento di garanzia per l’imputato, a cui soltanto spetta il potere di rinuncia. Risulta dunque evidente che l’udienza è introdotta proprio per consentire all’imputato di esplicare le proprie ragioni. Insomma, la giurisprudenza valorizzava l’esigenza del contraddittorio come ragione giustificatrice dell’udienza preliminare anche quando dovesse apparire ictu oculi la presenza dei presupposti per l’immediata declaratoria di non punibilità; avvertendo sugli inconvenienti della pronuncia de plano, che, in caso di annullamento avrebbe impedito all’imputato di richiedere il giudizio abbreviato e al pubblico ministero di compiere indagini integrative o di chiedere ed ottenere, in un momento successivo, la revoca della sentenza di non luogo a procedere. Una soluzione intermedia è stata prospettata da chi ha ritenuto che il non luogo a procedere possa essere deliberato al di fuori dell’udienza nei soli casi caratterizzati dall’evidenza delle ragioni di economia processuale, apprezzabili, ad esempio, nel caso in cui, dopo il deposito della richiesta di rinvio a giudizio, sopravvenga la morte dell’imputato o si accerti l’esistenza di un errore sulla sua identità115. Cass., sez. VI, 26 febbraio 1999, n. 783, in C.E.D. Cass., n. 214141; Cass., sez. IV, 31 maggio 2000, n. 3237, in C.E.D. Cass., n. 216843. 115 R. BRICCHETTI, L’udienza preliminare e i riti alternativi nel processo penale, Milano, 1993, p. 15. 114 72 CAPITOLO I In questo scenario di opposte interpretazioni – le une legate alla valorizzazione delle esigenze di speditezza, le altre ai bisogni di garanzia difensiva; e, queste, non scindibili dalla scrupolosa osservanza dei passaggi processuali qualificati dall’interevento in contraddittorio, nonché dalla considerazione dell’udienza preliminare come momento utilizzabile dal pubblico ministero per incrementare il materiale d’accusa – sono intervenute le Sezioni unite116, che hanno preferito la soluzione dell’indefettibilità dell’udienza preliminare. Esse hanno chiarito che l’art. 129 c.p.p. contiene una regola di condotta che si affianca a quelle proprie della fase o del grado in cui il processo è giunto e di cui il giudice deve fare prioritaria applicazione nell’esercizio dei poteri che gli spettano come giudice dell’udienza preliminare o del dibattimento di ogni grado. In sostanza l’obbligo del proscioglimento immediato si innesta nel sistema e non crea un’alternativa procedimentale rispetto alle altre previsioni di effetti simili. Le Sezioni unite hanno ritenuto, in particolare, che esso non entri in conflitto con la disposizione dell’art. 425 c.p.p. ma la completi, definendo meglio, per tempi e modalità, i poteri decisori del giudice. Peraltro, dal momento che l’art. 129 c.p.p. non indica il rito da seguire per la pronuncia della decisione liberatoria, esso si avvale dei tempi e dei modi disciplinati dalle disposizioni delle varie fasi e dei vari gradi. Perciò, l’inciso “immediata declaratoria” che compare nella sua rubrica non definisce una “tempestività temporale” e quindi non giustifica il rito de plano, indicando solo la priorità da accordare alla declaratoria delle cause di non punibilità su altri eventuali provvedimenti decisori o su possibili sviluppi istruttori, magari diretti all’accer- Cass., Sez. un., 25 gennaio 2005, P.G. in proc. De Rosa, in Cass. pen., 2005, p. 1835 con nota di G. VARRASO, Richiesta di rinvio a giudizio, proscioglimento immediato e “diritto delle parti all’ascolto”. 116 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 73 tamento di un’eventuale altra causa di proscioglimento addirittura più favorevole per l’imputato. Di qui l’affermazione che la richiesta di rinvio a giudizio, dando corso alla fase processuale informata al principio del contraddittorio, rende obbligata la fissazione dell’udienza preliminare, durante il cui svolgimento il giudice, ove rilevi una causa di non punibilità, non può avvalersi dei poteri istruttori di cui all’art. 422 c.p.p. né di quelli fondati sulla previsione dell’art. 421-bis c.p.p., dovendo arrestare ogni impegno cognitivo al momento della rilevazione della causa di non punibilità. La pronuncia ex art. 129 c.p.p. implica, cioè, la cristallizzazione dell’accertamento, secondo il modello proprio dei provvedimenti allo stato degli atti; ed è per questo aspetto che non può dirsi meramente ripetitivo delle forme e dei poteri delineati dalle disposizioni che attengono alla sede processuale specifica in cui pronunciare la decisione liberatoria. La ricostruzione operata dalle Sezioni unite non convince del tutto. È certo da condividere la premessa del ragionamento della Corte: l’esistenza di una causa di non punibilità, non appena rilevata, deve indurre all’interruzione di ogni attività processuale per l’immediata pronuncia di proscioglimento: in ciò risiede il significato di garanzia che la regola dell’art. 129 c.p.p. esprime, cioè quello che l’imputato ha diritto di essere liberato immediatamente dal processo una volta che risulti una causa che riveli l’inutilità della prosecuzione del processo. La Corte, però, non sembra considerareche l’udienza preliminare è in ogni caso un momento di verifica giurisdizionale dell’operato del pubblico ministero circa il rispetto del canone costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Può accadere, ad esempio, che la causa di non punibilità sia diretta conseguenza dell’inerzia investigativa del pubblico ministero, che si sia infine determinato alla richiesta di rinvio a giudizio nonostante la mancanza 74 CAPITOLO I di elementi su cui fondare un giudizio di insussistenza del fatto, dando luogo alla sostanziale elusione dell’obbligo costituzionale per mezzo di un esercizio meramente apparente dell’azione penale. Di contro, può ipotizzarsi che, rilevata una causa di non punibilità diversa da quella traducibile con la formula di proscioglimento più favorevole, la difesa intenda chiedere l’ammissione di una testimonianza che darebbe gli elementi per apprezzare pienamente l’insussistenza del fatto addebitato. Ebbene, secondo le Sezioni unite anche in tal caso il giudice dovrebbe arrestare il suo potere cognitivo per un ossequio – a tal punto formale – al precetto dell’immediata declaratoria di proscioglimento, con l’effetto di negare nei fatti la funzione di garanzia dei diritti difensivi. Sennonché la risposta negativa è stata ampiamente motivata dalla dottrina117, che, leggendo criticamente la sentenza delle Sezioni unite, ne ha rilevato l’incongruenza con l’implicito riconoscimento del potere delle parti di ottenere l’ammissione di atti e documenti prima che si dia luogo alla discussione; il che si desume dalla premessa circa il necessario svolgimento dell’udienza nella sua struttura essenziale, delineata anche dalla disposizione appena richiamata dell’art. 421 comma 3 c.p.p. Può tentarsi, però, almeno in parte, una diversa lettura dell’ordito normativo che riduca le distanze tra le statuizioni giurisprudenziali e gli appena riassunti rilievi dottrinali, muovendo dall’individuazione del significato della previsione dell’art. 421-bis c.p.p. in ordine al potere d’integrazione investigativa. La disposizione sarà oggetto di più approfondito esame nel prosieguo della ricerca; qui può anticiparsi che detto potere non ha come presupposto l’assoluta impossibilità di decidere allo stato 117 L. SCOMPARIN, Il proscioglimento immediato nel sistema processuale penale, Torino, 2008, p. 173 e ss. LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 75 degli atti, giacché l’impossibilità sarebbe assai raramente apprezzabile se è la legge a fornire la regola di giudizio anche per i casi di mancanza di elementi a carico o di insufficienza o contraddittorietà con altri elementi di segno contrario; situazioni mediane tra quelle connotate dalla prova negativa di responsabilità e, all’opposto, dalla prova positiva di responsabilità. L’impossibilità di decisione deve, infatti, essere intesa come determinazione giudiziale di non pervenire alla definizione della fase sulla base di un accertamento incompleto, che sia tale da non assicurare la giustizia del provvedimento, e che, anzi, ne lasci ragionevolmente prefigurare la sostanziale ingiustizia. In questo senso può dirsi che la causa di non punibilità determinata dall’assenza di elementi di una probabile futura affermazione di responsabilità per rilevate lacune investigative, non fa sorgere il dovere di dichiararla immediatamente, spettando al giudice l’adozione di quei provvedimenti che consentano il completamento delle indagini ad opera del pubblico ministero. Solo sul presupposto della completezza delle indagini le statuizioni delle Sezioni unite sono condivisibili ed in linea con il significato di garanzia della regola dell’art. 129 c.p.p. Sembra, allora, che la ragionevole critica dottrinale alla sentenza delle Sezioni unite abbia riguardo ad una situazione diversa da quella che la sentenza implicitamente ha assunto in premessa; e che muova dalla considerazione che la causa di non punibilità sia direttamente legata all’incompletezza investigativa. L’attivazione del meccanismo istruttorio dell’art. 422 c.p.p. dovrebbe, invece, essere in ogni caso precluso e quindi, per questa parte, la critica dottrinale non sembra aver colto nel segno. Il dato testuale della disposizione, che restringe il potere d’integrazione probatoria entro gli angusti confini della manifesta decisività ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, non può essere ignorato; nè sembra praticabile un’interpreta- 76 CAPITOLO I zione correttiva che si risolva, come peraltro ammesso da chi non la rifiuta118, in una sostanziale abrogazione dell’inciso. Deve allora convenirsi sull’affermazione che, in presenza di una causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p., il giudice non potrebbe apprezzare la manifesta decisività di un elemento di prova in funzione della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, perché dispone già delle conoscenze che giustificano la pronuncia liberatoria. Il punto merita qualche attenzione. Più avanti si cercherà di tracciare il confine applicativo delle disposizioni sui poteri probatori del giudice che guardano, l’una – art. 421-bis c.p.p. – all’incompletezza delle indagini condotte dal pubblico ministero, l’altra – art. 422 c.p.p. – alla mancanza di un dato di prova che, per valutazione ex ante, ha da sé la forza di imporre la pronuncia di non luogo a procedere. Ma già ora si può osservare che tale ultima disposizione non ha quale presupposto operativo l’incompletezza del materiale investigativo, di cui, anzi, postula la sufficienza. Non sembra allora che sia estensibile, per giustificare l’esercizio dei poteri di integrazione probatoria pur quando risulti agli atti una causa di non punibilità, il pur condivisibile rilievo che «la questione della completezza del materiale precede la questione del valore che deve essergli attribuito»119. In- L. SCOMPARIN, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 179 ss. e nota 113, secondo cui la limitazione della manifesta decisività ai poteri di integrazione probatoria del giudice dell’udienza preliminare sarebbe “più apparente che reale e l’attività integrativa in esame potrebbe di conseguenza ben intervenire in relazione a prove volte a disconoscere la sussistenza di una pretesa ragione proscioglitiva”. L’Autrice rileva peraltro che, a voler respingere la soluzione abrogatrice dell’inciso della manifesta decisività, l’ambiguo rapporto fra l’art. 421-bis e l’art. 422 c.p.p. può ridimensionare le complicazioni che si avrebbero nel ritenere che, di fronte ad una pretesa applicabilità dell’art 129 c.p.p., il giudice potesse fare ricorso ai soli poteri di integrazione investigativa e non a quelli di integrazione probatoria. Afferma, infatti, che nulla vieta al giudice di realizzare l’integrazione probatoria attraverso un ordine di integrazione delle indagini, “con l’unico limite dell’impossibilità di supplire ad eventuali inerzie attraverso il ricorso all’art. 422 c.p.p.”. 119 M. DANIELE, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, Torino, 118 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 77 vero, perché un elemento di prova possa dirsi manifestamente decisivo in funzione della sentenza di non luogo a procedere, occorre che tutti i profili descrittivi del fatto imputato siano stati indagati; eventuali carenze informative precludono il giudizio di manifesta decisività di un dato elemento di prova o quanto meno lo rendono talmente incerto, perché condizionato da lacune di indagini tali da far scolorire il carattere della decisività. Se il potere di integrazione delle carenze investigative si innesta nel contesto funzionale del controllo sull’esercizio dell’azione, per quanto poc’anzi ricordato, il potere di assunzione del dato probatorio manifestamente decisivo risponde alla diversa esigenza di deflazione processuale, evitando che proseguano in dibattimento processi che, pur qualificati da imputazioni investigativamente fondate, possono essere definiti in udienza preliminare in forza di dati probatori semplici perché capace di risolvere, almeno nella prospettazione prognostica, l’alternativa: giudizio/non luogo a procedere. Ebbene, nei casi in cui agli atti risulti una causa di non punibilità, la funzione deflattiva cui risponde il potere di integrazione probatoria sfuma decisamente o, meglio, trova già realizzazione nel meccanismo delineato dall’art. 129 c.p.p., senza che si abbia necessità di prolungare l’accertamento. All’obiezione secondo cui, così ragionando, si sacrifica il diritto dell’imputato di veder riconosciuta l’esistenza di una causa di non punibilità di maggior favore – le volte in cui il dato probatorio manifestamente decisivo sia in grado di farla emergere – si può replicare che la preoccupazione, nella sua radicalità, è tale da porre in dubbio la compatibilità del proscioglimento immediato con la fase dell’udienza preliminare, in cui l’inutilità del dibattimento – come luogo della certezza sulle deduzioni difensive di assenza di responsabilità per il fatto imputato – è sempre oggetto di una 2005, p. 118. 78 CAPITOLO I valutazione prognostica e dunque espressa in termini di mera attendibilità. Certo, si potrebbe affermare che il prosieguo dibattimentale sarebbe in grado di fare emergere le ragioni di un proscioglimento più favorevole di quello, già in atti, imposto dalla causa di non punibilità, specie quando non si disponga di quei dati di fatto su cui fondare il giudizio di manifesta decisività e quindi l’opportunità dell’anticipazione all’udienza preliminare del necessario apporto istruttorio. Epperò deve ricordarsi che la regola del proscioglimento immediato risponde anche ad un interesse oggettivo dell’ordinamento, l’interesse alla rapida definizione della vicenda processuale120, che resterebbe parzialmente compromesso ove per via interpretativa, e sia pure col fine di rafforzare le garanzie difensive pur esse sottese alla regola, si volesse allentare la prescrizione di immediatezza della pronuncia liberatoria. Come si è già detto in dottrina, «l’immediatezza deve far prevalere allo stato degli atti la causa di proscioglimento rispetto agli altri provvedimenti decisori o, comunque istruttori…»121; e non si può affermare il contrario rilevando che l’art. 129 comma 1 c.p.p. non considera l’ipotesi della «persona non punibile per qualsiasi causa» – che invece compare all’art. 425 c.p.p. – per dedurre che in tali ipotesi il proscioglimento immediato non potrebbe essere pronunciato con ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni122. L’osservazione rimanda ad un aspetto problematico che sarà affrontato nel prosieguo, quello dei rapporti tra l’art. 129 comma 120 M.T. STURLA, Commento all’art. 129 c.p.p., in Commentario del nuovo codice di procedura penale, diretto da E. Amodio e O. Dominioni, Vol II, Milano, 1989, p. 95 ss. 121 G. VARRASO, Le indagini «suppletive» ed «integrative» delle parti, Padova, 2004, p. 52, che però estende tale divieto anche ai provvedimenti di rimedio all’incompletezza delle indagini; in senso conforme v. F. FALATO, Sull’applicabilità dell’art. 129 tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare, cit., p. 2291 ss; M. MENNA, La motivazione del giudizio penale, Napoli, 2000, p. 181. 122 M. DANIELE, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 118 LE RADICI DEL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELL’ACCUSA 79 1 c.p.p. e la sentenza di non luogo a procedere; ad essa può opporsi da subito il rilievo che, riconosciuta l’operatività dell’art. 129 c.p.p. nella fase dell’udienza preliminare, occorre assegnare ad esso un autonomo spazio applicativo per non farlo interamente assorbire dalle regole che presiedono all’emissione della sentenza di non luogo a procedere. Nei termini appena precisati, l’udienza preliminare è allora il luogo in cui si dà effettività al «diritto delle parti all’ascolto», estrinsecazione soggettiva del principio del contraddittorio, in cui «trovano sfogo pretese di diverso tipo, non azionabili prima», il cui legittimo soddisfacimento impedisce l’articolazione di percorsi procedimentali diversi per dare applicazione alla regola del proscioglimento immediato. Il riferimento è all’esigenza dell’imputato, che, in presenza di cause estintive rinunciabili, voglia far prevalere l’accertamento nel merito della propria posizione processuale ovvero intenda esercitare il diritto di chiedere il giudizio abbreviato o il giudizio immediato, nonché la facoltà comune di tutte le parti di presentare memorie e produrre documenti. Aggiungono le Sezioni unite con la sentenza più volte richiamata – e sul punto qualche contraddizione con l’assunto precedente circa la preclusione per iniziative istruttorie appare difficilmente superabile123 – che l’udienza è anche il luogo ove le parti possono richiedere un incidente probatorio e sollecitare una sia pur limitata integrazione probatoria su temi nuovi o incompleti per meglio definire il tema decisorio. E, dunque, in un modello processuale di ispirazione accusatoria – questa la giusta conclusione del ragionamento delle Sezioni unite – il confronto tra le parti ha importanza centrale e deve essere garantito specie quando è in gioco l’emissione di un prov- 123 Cfr. L. SCOMPARIN, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, cit., p. 178. 80 vedimento definitorio, come la sentenza ex art. 129 c.p.p., «che non può prescindere dal necessario contributo dialettico delle parti nel processo». 81 CAPITOLO II PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO SOMMARIO: 1. L’essenzialità dell’imputazione nella domanda di giudizio. – 2. I difetti dell’imputazione. – 3. Il rimedio offerto dalla giurisprudenza di legittimità: considerazioni critiche. – 4. Lo svolgimento dell’udienza tra profili descrittivi e approdi problematici. – 5. Sulle ragioni del rafforzamento delle garanzie di partecipazione dell’imputato. La contumacia dell’imputato. – 6. Segue: l’impedimento del difensore. 1. L’essenzialità dell’imputazione nella domanda di giudizio. Chiarita la funzione, occorre conoscere la struttura dell’udienza preliminare muovendo dalla richiesta di rinvio a giudizio, forma “ordinaria” di esercizio dell’azione penale per i reati di competenza della Corte d’assise, di attribuzione del Tribunale in composizione collegiale e del Tribunale in composizione monocratica diversi da quelli perseguiti con citazione diretta a giudizio (art. 550 c.p.p.). La norma di riferimento è contenuta nell’art. 405 c.p.p., secondo la quale il pubblico ministero, ove lo ritenga, esercita l’azione penale formulando l’imputazione con la richiesta al giudice1. Rispetto alla disciplina prevista nel codice del 1930, l’iter formativo è oggi profondamente diverso. Vigente quel codice, il titolare dell’azione penale, ricevuta la notitia criminis, doveva verificare, per mezzo delle indagini preistruttorie, che essa non fosse 1 82 CAPITOLO II Secondo la stessa disposizione, peraltro, mentre la formulazione dell’imputazione costituisce il modo di esercizio dell’azione penale, plurime possono esserne le forme. Invero, seguendo la logica della “multischematicità” dell’azione, si coltiva un’articolata filo- manifestamente infondata, a meno che tale carattere non emergesse ictu oculi; appurata la manifesta infondatezza, doveva richiedere l’emissione di un decreto di non doversi promuovere l’azione penale (per una compiuta ricostruzione dei diversi profili connessi al tema dell’archiviazione cfr. F. CAPRIOLI, L’archiviazione, Napoli, 1994); in caso contrario era tenuto alla formulazione dell’imputazione con cui dava avvio all’istruzione. Sotto il profilo statico, l’imputazione segnava l’instaurazione del processo in coincidenza con la “fissazione sintetica e formale di un fatto, considerata in via provvisoria come reato”, delimitando il confine tra gli atti di istruzione preliminare (ossia un’attività che non poteva ancora dirsi propriamente processuale) e l’istruzione vera e propria; sotto il profilo dinamico, invece, essa si dispiegava diacronicamente, nel senso che “l’originario giudizio attributivo di un fatto costituente reato ad una persona, espresso in termini di mera possibilità (imputazione), si [anda]va progressivamente perfezionando nel corso del processo, fino ad esprimersi, alla sua conclusione, in termini di probabilità (accusa)” (V. PERCHINUNNO, Imputazione, in Enc. giur., cit, p. 2 ss.). In quel contesto i termini «imputazione» e «accusa» erano riservati rispettivamente al primo e al secondo atto della serie appena descritta. Si delineava, così, una distinzione concettuale tra l’una e l’altra, nonostante il legislatore usasse con disinvoltura ed indifferentemente i termini, anche con riferimento agli stessi atti: si pensi alla rubrica degli artt. 445 e 477 c.p.p. 1930, ove si parlava, rispettivamente, di «imputazione» e di «accusa», nonostante ambedue le norme si riferissero ad un momento processuale (quello della fase del giudizio), nel quale ormai l’originaria imputazione si era definitivamente cristallizzata nell’accusa contenuta in uno degli atti terminativi della fase istruttoria. La situazione è, ora, sensibilmente mutata, dal momento che il codice fornisce una nozione di esercizio dell’azione penale e la connota in termini di concretezza. La linea normativa di riferimento è ravvisabile negli artt. 50, 326 e 405 c.p.p., dove l’art. 50 c.p.p. stabilisce che il pubblico ministero esercita l’azione ove manchino i presupposti per richiedere l’archiviazione; l’art. 326 c.p.p. fissa la relazione finalistica tra le indagini preliminari e le determinazioni sull’azione, mentre non vi è più traccia dell’obbligo che l’art. 299 c.p.p. 1930 imponeva al giudice istruttore di compiere tutti gli atti «necessari per l’accertamento della verità»; l’art. 405 c.p.p. elenca la tipologia di atti che sostanziano l’esercizio dell’azione penale, doveroso in assenza delle condizioni per la richiesta di archiviazione in ragione della natura concreta dell’azione. In argomento cfr. V. GREVI, Archiviazione per «inidoneità probatoria» ed obbligatorietà dell’azione penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 1274. Quanto detto conferma la fisionomia di un’azione “concreta”, qualificata non come mera domanda di un intervento del giudice anche solo per attestare la manifesta infondatezza della notizia di reato, ma quale richiesta di giudizio intorno ad un’imputazione costruita sulla scorta dell’intero compendio delle risultanze della fase investigativa (G. DI CHIARA, Il pubblico ministero e l’esercizio dell’azione penale, in G. FIANDACA-G. DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale, Napoli, 2003, p. 243). PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 83 sofia per il suo esercizio, nel senso che il pubblico ministero può esercitare l’azione richiedendo il giudizio immediato, l’applicazione della pena (o prestando consenso alla richiesta dell’imputato), il giudizio direttissimo o l’emissione del decreto penale di condanna (art. 405 c.p.p. 1988)2. Ove richiesta, dunque, la celebrazione dell’udienza preliminare si configura come conseguenza necessaria dell’impulso della parte pubblica e si atteggia a momento di tutela del “diritto” dell’imputato al controllo3. Il fondamento di garanzia è evidenziato, in particolare, dalla facoltà concessa all’imputato di rinunciare all’udienza preliminare e di richiedere il giudizio immediato (art. 419 comma 5 c.p.p.)4, determinando, così, l’obbligo per il giudice per le indagini preliminari di «emettere decreto di giudizio immediato» (art. 419 comma 6 c.p.p.)5. Sicché, la “cristallizzazione”6 dell’imputazione nell’atto di G. INZERILLO, Imputato e imputazione, in Digesto delle discipline penalistiche, Aggiornamento, 2005, p. 736; V. MAFFEO, Imputazione, in Enc. giur., Roma, Aggiornamento, Vol. XIV, 2008. 3 Alla regola secondo cui l’udienza preliminare segue la richiesta di rinvio a giudizio corrispondono peraltro due eccezioni – l’art. 406 comma 5 e l’art. 409 comma 5 c.p.p. – in cui l’inizio dell’udienza preliminare non dipende dalla scelta del pubblico ministero, ma da una decisione del giudice per le indagini preliminari difforme dalla richiesta del pubblico ministero. 4 Le ragioni della scelta operata sono giuridicamente irrilevanti. Esse potrebbero annidarsi nell’assoluta convinzione di innocenza, giacché, in simili evenienze, converrebbe ottenere una sentenza dibattimentale evitando di essere prosciolti in esito all’udienza preliminare ex art. 425 c.p.p.; ovvero l’interesse per l’imputato potrebbe consistere nel desiderio di veder formare il giudicato ed impedire un’eventuale revoca della sentenza di non luogo a procedere o, più semplicemente, le ragioni di simile opzione potrebbero annidarsi nell’opportunità di scoprire le carte della difesa solo al dibattimento per utilizzare tutte le garanzie ad esso collegate. 5 Circostanza che mette in luce l’interconnessione tra le funzioni assegnate all’udienza preliminare, giacché alla garanzia dell’imputato segue naturalmente la possibilità che l’esercizio del diritto di difesa si traduca in un contributo probatorio utile a favorire la definizione anticipata del procedimento, incrementando, così, la vocazione deflattiva della fase. 6 Come si vedrà, il termine non rappresenta la “definitività” della stessa, essendo prevista la modifica dell’imputazione sia in udienza preliminare (art. 423 c.p.p.) che in 2 84 CAPITOLO II esercizio dell’azione è momento essenziale del processo perché, oltre a costituire la veste dell’azione, delimita l’oggetto del contraddittorio al fine, innanzitutto, di garantire l’effettivo e concreto esercizio del diritto di difesa dell’imputato7. In tale ottica l’imputazione ha una spiccata vocazione all’immutabilità, ancorché la legge ne consenta, in presenza di determinati presupposti, la modificazione e/o l’integrazione (artt. 423 e 516 e ss c.p.p.) anche in ragione della pluralità di compiti ad essa conferiti, che possono così riassumersi: a) preclude la proponibilità della richiesta di archiviazione. Invero, in forza del principio di irretrattabilità dell’azione, ricavabile dal combinato disposto degli artt. 50 comma 3 e 60 comma 2 c.p.p., la richiesta di rinvio a giudizio non può essere revocata. Anzi, come si specificherà in seguito, la giurisprudenza sin dall’inizio ha chiarito come un eventuale provvedimento di revoca della richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero, determinando una indebita regressione del procedimento, debba essere considerato atto abnorme8; b) attribuisce al giudice il potere-dovere di decidere sul merito della vicenda. Infatti, nel caso di richiesta di rinvio a giudizio, l’imputazione giustifica la domanda di emissione del decreto che dispone il giudizio, che vincola il giudice alla fissazione dell’udienza preliminare e all’assunzione di una decisione circa la necessità del giudizio. Sicché, proposta la richiesta di rinvio a giudizio, il processo non può regredire, se non nei casi tipizzati dal codice di rito ovvero quando il legislatore predisponga esplicita sanzione per i vizi dell’atto, come la nullità della richiesta di rinvio a giudizio per reato per cui deve procedersi a citazione diretta ex art. 550 dibattimento (art. 516 e ss c.p.p.). 7 D. GROSSO, L’udienza preliminare, Milano, 1991. 8 Così tra le altre Cass., sez. VI, 16 novembre 1990, Sica, in Cass. pen., 1991, p. 93. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 85 c.p.p., o si rilevi un difetto di giurisdizione o di competenza; c) conferisce al destinatario la qualità di imputato (art. 60 comma 1 c.p.p.), qualità che – secondo il dettato di cui all’art. 648 c.p.p. – si perde a seguito della pronuncia di una sentenza non più soggetta ad impugnazione; qualità che può riassumersi solo per effetto della revoca della sentenza di non luogo a procedere o a seguito dell’emissione del decreto di citazione per il giudizio di revisione ai sensi dell’art. 636 c.p.p.; d) costituisce il presupposto delle pronunce sulla competenza, per qualsiasi causa, con incidenza diretta sul procedimento in corso. Invero, prima dell’esercizio dell’azione le decisioni sulla competenza hanno efficacia limitata soltanto al provvedimento richiesto, perché il giudice per le indagini preliminari interviene episodicamente ed esplica, appunto, una iurisdictio ad acta in funzione di garanzia e di controllo sull’operato del pubblico ministero. Quest’ultimo conserva comunque la titolarità e la direzione della fase procedimentale e rimane libero, a fronte di una decisone di incompetenza, di proseguire nelle indagini. L’assenza di un effetto vincolante sull’intero procedimento si spiega in ragione del carattere parziale della cognizione del giudice, che esercita i suoi poteri sulla base dei soli atti prodotti con la domanda incidentale9. Con la formulazione dell’imputazione, invece, le decisioni di diniego della competenza hanno effetto sull’intero processo e devono essere adottate con sentenza, forma necessaria del provvedimento conclusivo del processo; e) pone, quale atto di esercizio dell’azione penale, la condizione per l’apprezzamento del fenomeno della litispendenza, anche non collegato a violazioni delle regole di competenza e che quindi si verifica per la duplicazione dei processi presso la stessa 9 F. RUGGIERI, La giurisdizione di garanzia nelle indagini preliminari, Milano, 1996, p. 13-15 e 209. 86 CAPITOLO II sede giudiziaria. Fuori dei casi di conflitti positivi, che postulano la diversità delle autorità giudiziarie che contemporaneamente prendano cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona; e fuori delle ipotesi in cui si abbia una sentenza irrevocabile che giustifichi il ricorso alla regola del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p., la giurisprudenza di legittimità ha individuato nella pronuncia di non doversi procedere per impromovibilità dell’azione penale lo strumento risolutivo della litispendenza, in attuazione di un principio di portata generale10. La figura evocata è quella della preclusione per consumazione, corollario dei connotati di razionalità e di ordine del processo, che si qualifica, per il pregresso esercizio, con la formulazione dell’imputazione, dello stesso potere e, cioè, del potere di azione. In buona sostanza l’esercizio dell’azione in relazione ad una determinata imputazione impedisce che sia instaurato un nuovo processo contro la stessa persona per il medesimo fatto, e ciò perché il potere di azione si è definitivamente consunto; f) orienta le attività probatorie (artt. 187, 190, 467, 495, 506 e 507 c.p.p.). Invero, l’art. 187 c.p.p., nel disporre che «possono costituire oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza», indica l’oggetto della prova11. Del contenuto di garanzia dell’art. 187 c.p.p. è conferma il fatto che, se nel corso dell’udienza preliminare emergono fatti diversi, circostanze aggravanti o reati connessi, il pubblico ministero ha l’obbligo di modificare l’imputazione – una diversa disciplina è invece dettata per il caso in cui si prospetti un “fatto nuovo” (cfr., ultra, § 6) – proprio perché essa è oggetto del diritto di “difendersi provando”12; 10 Da ultimo v. Cass., Sez. un., 28 giugno 2005, Donati ed altro, in Giust. pen., 2006, p. 336. 11 12 V. GREVI, Prove, in Compendio di procedura penale, Padova, 2006, p. 299 e ss. Così, ad esempio, la disciplina sui termini a difesa, nei casi di modifica dell’im- PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 87 g) infine, indirizza l’ammissione della prova (art. 190 c.p.p.) e limita il potere decisorio del giudice (art. 521 c.p.p.), condizionato dalla precisa e chiara esposizione del fatto imputato (art. 417 c.p.p.), caratteri che si legano allo sviluppo probatorio (artt. 423 e 516-518 c.p.p.) fino alla definitiva cristallizzazione in sentenza (art. 521 c.p.p.)13. La formulazione dell’imputazione ha invece perso la funzione di assicurare la completa discovery sugli atti di indagine che aveva prima della legge 16 dicembre 1999, n. 479. Oggi la discovery è anticipata, e si ha non più al momento del deposito della richiesta di rinvio a giudizio – per mezzo della trasmissione del fascicolo delle indagini preliminari alla cancelleria del giudice dell’udienza preliminare (art. 416 comma 2 c.p.p.)14 – ma sin dalla notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p., che pone la difesa dell’indagato nelle condizioni di conoscere il contenuto del fascicolo del pubblico ministero15. L’avviso ex art. 415-bis putazione – art. 519 c.p.p. –, risponde a questa ratio: punta sul tema di prova, risultante a seguito delle nuove contestazioni, e riconosce all’imputato il diritto di organizzare la propria difesa per una verifica che deve andare oltre l’originario tema di prova. 13 G. RICCIO, Fatto e imputazione, in Quaderni di Scienze Penalistiche, cit., p. 24. 14 In passato era questo il momento nel quale la difesa poteva conoscere gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. L’art. 416 comma 2 c.p.p. 1988 imponeva una discovery completa, tanto più dopo il chiarimento dato dalla sentenza costituzionale n. 195 del 2 maggio 1991. Nell’occasione la Corte aveva precisato che l’art. 416 comma 2 c.p.p. «non conferisce al pubblico ministero un potere di scelta degli atti da trasmettere al giudice (…) insieme con la richiesta di rinvio a giudizio, imponendo allo stesso pubblico ministero l’obbligo di trasmettere l’intera documentazione raccolta nel corso delle indagini in cancelleria ed aprirsi alla cognizione del giudice e dei difensori delle parti private». Sull’obbligo del pubblico ministero di «depositare tutti gli atti di indagine compiuti, anche se non necessari alla richiesta di rinvio a giudizio» si veda A. NAPPI, L’udienza preliminare, in Enc. dir., Milano, 1992, Vol. XLV, p. 521. 15 Con sentenza 11 dicembre 2000, n. 5403/01, la prima sezione della Corte di cassazione, muovendosi nella direzione di una ragionevole riduzione della forza espansiva dell’art. 415-bis c.p.p. – norma alla quale non si vuole attribuire un valore assoluto, attribuendo ad essa un ruolo da contemperarsi con altri valori di pari rango – ha affermato il principio secondo il quale non implica la necessità di una rinnovazione dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. la contestazione, da parte del pubblico ministero, in sede di udienza preliminare, ai sensi dell’art. 423 c.p.p., di un reato connesso a quello per il qua- 88 CAPITOLO II c.p.p. tende infatti a permettere il contatto fra l’organo dell’accusa e la difesa, con una chiara finalità deflattiva favorendo l’interlocuzione con il pubblico ministero, funzionale al non esercizio dell’azione penale16, con incisive implicazioni sull’approfondimento del quadro probatorio e sul grado di compiutezza nella descrizione dell’atto imputativo17. Rinviando al prosieguo della ricerca la specificazione della funzione, dei contenuti e dell’ambito di applicazione della richiamata disposizione, va qui ricordato che la norma si inserisce sul doppio fronte della conoscenza del procedimento e della completabilità delle indagini che – si è detto – è la filosofia che ha ispirato la cosiddetta “legge Carotti”. Proprio per questo doppio ruolo il mancato invio dell’avviso di conclusione delle indagini costituisce motivo di nullità, sia nel caso dell’art. 416 c.p.p. sia nel caso dell’art. 550 c.p.p. 2. I difetti dell’imputazione. In ossequio alla funzione centrale dell’imputazione, l’art. 417 comma 1 lett. a) e b) c.p.p. prevede che nella richiesta di rinvio a giudizio il fatto sia descritto, che sia giuridicamente qualifica- le era stata originariamente esercitata l’azione penale. Ed ha pertanto ritenuto abnorme l’ordinanza con la quale il giudice dell’udienza preliminare, nell’erroneo presupposto che a detta rinnovazione debba invece darsi luogo, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero (Cass., sez. I, 11 dicembre 2000, P.M. in proc. Ferraro ed altri, in Cass. pen., 2002, con nota adesiva di D. POTETTI, Sommaria enunciazione del fatto, imputazione, modifica dell’imputazione; interconnessioni tra artt. 415-bis comma 2, 417 lett. b) e 423 c.p.p.). 16 In argomento cfr., per tutti, F. CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimento contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000, p. 274, ed E. AMODIO, Lineamenti della riforma, in Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 26 e ss. 17 Su questo specifico aspetto si veda A. SCALFATI, La riforma dell’udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, in Cass. pen., 2000, p. 2812. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 89 to e che ne sia indicato l’autore. In questo senso l’imputazione conserva il ruolo già assunto – sia pure in termini diversi – nei precedenti sistemi, quale atto con cui il pubblico ministero provvede alla compiuta descrizione degli elementi che concorrono alla penale rilevanza e all’individuazione di tutte le componenti della fattispecie, oggettive e soggettive, nonché degli eventuali elementi accessori18. In particolare, a seguito della riforma dell’art. 417 comma 1 lett. b)19, il fatto deve essere espresso «in forma chiara e precisa» e deve essere accompagnato dall’enunciazione delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge20. L’indicazione delle disposizioni di legge violate, accompagnata dal nomen iuris, serve per la esatta qualificazione giuridica del fatto stesso. Ebbene, l’imputazione è «chiara» solo allorché il pubblico ministero non si sia limitato ad «esporre le circostanze di fatto, ma ne abbia esplicitato il loro rilievo accusatorio, le loro connessioni reciproche e il contesto nel quale si inseriscono»; l’imputazione è «precisa» quando vi siano esposti «tutti i dati di fatto essenziali alla descrizione della condotta, dei mezzi esecutivi, delle modalità di luogo e di tempo, dell’elemento soggettivo, dell’evento»21. I requisiti della «chiarezza» e della «precisione» valgono ad 18 F. CARNELUTTI, Principi del processo penale, Napoli, 1970; G. CONSO, Accusa e sistema accusatorio (diritto processuale penale), in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p. 127. 19 L’art. 417 comma 1 lett. b) c.p.p. è stato modificato dall’art. 18 della legge n. 479 del 1999. 20 «Adesso al pubblico ministero si richiedono opzioni limpide quando decide di dare impulso al processo; del resto egli – avendo effettuato una scelta nei termini di sostenibilità dell’accusa – possiede un panorama sufficientemente affinato che va riassunto con dovizia nell’atto imputativo». Così A. SCALFATI, La riforma dell’udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit., p. 2821. 21 Su tali aspetti si veda, da ultimo, F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 130-131 e bibliografia ivi citata. 90 CAPITOLO II imporre al pubblico ministero uno standard qualitativamente elevato della descrizione del fatto; ma rispondono ad esigenze diverse, il primo evitando l’ambiguità dell’imputazione, il secondo la genericità22. La novità è di non poco conto. Eppure, lo sforzo compiuto dal legislatore per orientare il pubblico ministero circa la corretta descrizione del fatto non ha impedito alla giurisprudenza di ritenere l’imputazione oggettiva generica un atto viziato da mera irregolarità. Ancora oggi, invero, quest’ultima ritiene che l’imputazione «generica» dia luogo ad una mera irregolarità, potendo il giudice dell’udienza preliminare invitare il pubblico ministero ad attivare il meccanismo previsto dall’art. 423 c.p.p. per rimediare al vizio23. Di diverso avviso la dottrina, secondo cui l’assenza o il difetto dei requisiti essenziali dell’imputazione, essendo ricollegabile all’iniziativa del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale, è causa di nullità assoluta24; laddove, la mancanza o 22 Così, testualmente, F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 130. 23 Cfr., tra le altre, Cass., sez. I, 20 marzo 1998, Barbaro, in Riv. pen., 1999, p. 89; Cass., sez. VI, 5 maggio 1992, P.M. in proc. Nichele ed altri, in C.E.D. Cass., n. 218088, per la quale «costituisce provvedimento abnorme, in quanto al di fuori dell’intero sistema processuale per la singolarità del suo contenuto, l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che dichiara la nullità della richiesta di rinvio a giudizio, ex art. 178 lett. b) e c), 179 e 180 c.p.p., e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero, ritenendo del tutto generica l’enunciazione del fatto». Per la mancanza di tale enunciazione, affermano i giudici, non è prevista alcuna nullità ed è consentito nel corso dell’udienza preliminare (art. 423 c.p.p.) procedere, anche oralmente, alle necessarie modifiche ed integrazioni dell’imputazione). 24 In questo senso è la dottrina prevalente: tra gli altri v. O DOMINIONI, sub art. 179 c.p.p., in AA. VV., Commentario al nuovo c.p.p., diretto da E. Amodio-O. Dominioni, vol. II, Milano, 1989; G. GARUTI, L’udienza preliminare: preparazione e svolgimento, cit., p. 492; D. GROSSO, L’udienza preliminare, cit., p. 90 e ss.; A. SCALFATI, L’udienza preliminare. Profili di una disciplina in trasformazione, Padova, 1999, p. 14. Contra L. CARLI, Le indagini preliminari nel sistema processuale penale, cit., p. 553; L. CUOMO, L’udienza preliminare, Padova, 2001, p. 28. Nella giurisprudenza costituzionale si veda Corte cost., ordinanza n. 131 dell’1 aprile 1995. Con tale decisione la Consulta ha dichiarato mani- PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 91 il difetto di altri elementi secondari provoca una situazione che, impedendo alle parti, ed in particolare all’imputato, di preparare una adeguata difesa, dà luogo ad una nullità intermedia25. Si ritiene, invero, che avendo l’atto che instaura l’udienza preliminare la funzione di identificare – proprio tramite l’enunciazione del fatto – l’oggetto del contraddittorio nella successiva udienza, ogni imprecisione nella sua individuazione si risolve in un pregiudizio per il diritto di difesa, perché impedisce l’esercizio di un contraddittorio effettivo. A sostegno della tesi si ricorda che, mentre l’imputato dispone di un lasso di tempo pari al termine per comparire per prepararsi adeguatamente all’udienza (art. 519 c.p.p.), se l’imputazione viene specificata nel corso dell’udienza stessa, la difesa risulta impreparata e versa nell’impossibilità di usufruire di un termine, riservando l’art. 519 c.p.p. tali garanzie alla fase dibattimentale. festamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 417 c.p.p. nella parte in cui non prevede alcuna sanzione per l’inosservanza del requisito disciplinato dalla lett. b) dello stesso articolo. L’inosservanza del dovere del pubblico ministero di descrivere con puntualità il fatto determina la nullità dell’atto imputativo per violazione dell’art. 417 comma 1 lett. b) c.p.p. per M. CAIANELLO, Alcune considerazioni in tema di imputazione formulata in modo alternativo, in Cass. pen., 1997, p. 2468 e ss.; C. CESARI, Modifica dell’imputazione e poteri del giudice dell’udienza preliminare, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 297; M.L. DI BITONTO, Richiesta di rinvio a giudizio con capi di imputazione generici, in Dir. proc. pen., 1999, p. 1024; O. DOMINIONI, Imputazione, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 279; D. GROSSO, L’udienza preliminare, cit., p. 90; M. PANZAVOLTA, L’imputazione difettosa nel decreto di rinvio a giudizio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006, p. 357; T. RAFARACI, L’accertamento tardivo degli addebiti contestati, in Dir. proc. pen., 1997, p. 329; A.M. ROMANO, Declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio, in Giur. it., 1993, II, p. 707; C. VALENTINI, Imputazione e giudice dell’udienza preliminare, in Giur. it., 2002, p. 438; G. VARRASO, Omessa o insufficiente descrizione dell’imputazione, nullità della vocatio in judicium e autorità competente alla rinnovazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 333. 25 Riteneva che fosse improprio l’invito ad utilizzare il meccanismo previsto dall’art. 423 c.p.p., dal momento che esso non serve a legittimare una perdurante perfettibilità del fatto insufficientemente definito all’origine, ma risponde soltanto alla precisa esigenza di adeguare i contenuti imputativi ad elementi prima non evidenziati. Così, sia pur dopo la modifica del 1999, A. SCALFATI, La riforma dell’udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit., p 2812 ss. Per l’autore, l’eventuale mancata coincidenza con il modello legale imposto lede i diritti partecipativi e comporta una nullità generale a regime intermedio della richiesta di giudizio. 92 CAPITOLO II Inoltre – si dice – l’esistenza del pregiudizio appare tanto più evidente se si considera che l’art. 419 c.p.p. individua – come termine ultimo per la rinuncia all’udienza – il terzo giorno anteriore all’udienza stessa, situazione impraticabile se non si conosce con compiutezza l’imputazione. Altra parte della dottrina afferma che, trattandosi di domanda, l’eventuale sanzione dovrebbe essere l’inammissibilità, reputando peraltro opportuno che il legislatore sia rimasto silente e abbia così indicato il rimedio nell’itinerario correttivo di cui all’art. 423 del codice di procedura penale26. Ancora, taluno ritiene non conforme a legge che il giudice inviti il pubblico ministero a fare uso del meccanismo previsto dall’art. 423 c.p.p., predisposto dalla legge al fine del necessario adeguamento dei contenuti imputativi ad elementi di fatto prima non emersi e non evocabile come implicita attestazione della legittimità di prassi dirette a perfezionare progressivamente imputazioni originariamente insufficienti27. In questo panorama sembra prevalere, a seguito della riforma del 1999, l’orientamento favorevole alla nullità. Ciò nonostante non può non rilevarsi la lacuna normativa, per cui si reputa che sarebbe stato opportuno accompagnare l’innovazione con l’inserimento di una previsione espressa di nullità nell’ambito dell’art. 417 c.p.p. Si vuol dire che, per reprimere prassi non allineate al dettato positivo, il legislatore avrebbe agito con maggiore ef- Così G. RICCIO, Cos’è l’udienza preliminare”. Guai a trasformarla da “filtro” in “giudizio”, cit., p. 11; C. IASEVOLI, L’apparente indeterminatezza della funzione di controllo del giudice dell’udienza preliminare, in Quaderni di Scienze Penalistiche, n. 2, Napoli, 2006, p. XXXXXXXXX. Su diversa posizione cfr., altresì, M. GRIFFO, I poteri del giudice dell’udienza preliminare in caso di richiesta di rinvio a giudizio non determinata quanto alla descrizione del fatto oggetto di imputazione, in Cass. pen., 2007, p. 3784 e G. LEO, Imputazione generica e poteri del giudice dell’udienza preliminare, in Dir. pen. e proc., 2004, p. 1495. 27 Sulla natura della nullità v. F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 134 ss. 26 PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 93 ficacia se avesse introdotto un’espressa sanzione per il caso di imputazione formulata in maniera generica28. «Solo così sarebbero state tacitate quelle voci che escludono la sussistenza di una causa di nullità della richiesta di rinvio a giudizio: anzi, la pretesa e perdurante lacuna normativa ha finito con fornire un implicito alibi per irrobustire l’orientamento giurisprudenziale in discorso»29. Solo così, insomma, si sarebbe potuto scongiurare il perseverare di interpretazioni tanto difformi. Ne è conferma l’ultima pronuncia in argomento delle Sezioni unite30, che hanno giustificato la carenza di sanzione nell’art. 417 28 Questione diversa è quella della imputazione alternativa. In argomento può ritenersi orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui è legittima la imputazione formulata in modo alternativo essendo l’imputato «messo in condizione di conoscere esattamente le linee direttrici sulle quali si svilupperà il dibattito». Addirittura la Corte di cassazione sostiene che, in presenza di una condotta dell’imputato tale da richiedere un approfondimento dell’attività dibattimentale per la definitiva qualificazione dei fatti contestati, sia possibile formulare “contestazioni alternative” anche col decreto di citazione a giudizio (particolarmente incisivo in merito è il ragionamento di Cass., sez. V, 23.1.1997, n. 6018, in C.E.D. Cass., n. 208084). Non così in dottrina, secondo la quale non sarebbe possibile neanche una contestazione alternativa di diverse modalità concernenti l’esecuzione dello stesso reato, data la prevalenza del favor rei (è questa la tesi di G. LOZZI, Favor rei e processo penale, 1978, p. 43). In senso sostanzialmente conforme, pur ricordando l’esistenza di opinioni divergenti, M. PISANI, In tema di imputazione “alternativa”, in Ind. pen., 1979, p. 505 ss. Per quanto ci riguarda, già in altra occasione abbiamo ritenuto problematico legittimare imputazioni generiche o, addirittura, alternative, sul presupposto funzionale della imputazione, quello cioè di garantire oggetto della prova e ambiti decisori: cfr., volendo, V. MAFFEO, La crisi dei principi della giurisdizione nella imputazione alternativa, in Politica del diritto, 1999, p. 157. La contestazione alternativa determina una nullità della richiesta di rinvio a giudizio poiché si risolve, a sua volta, in una violazione del diritto di difesa: per M. CAIANELLO, Alcune considerazioni in tema di imputazione formulata in modo alternativo, cit., p. 2468 e ss.; in particolare, circa la scelta dell’imputato in ordine ad una forma alternativa del procedimento cfr. V. CECCARONI, La contestazione alternativa tra vecchia giurisprudenza e nuovo codice, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, p. 1461 e ss.; in relazione ai canoni costituzionali del giusto processo per M. MERCONE, Ancora ammissibili le contestazioni alternative dopo il giusto processo?, in Cass. pen., 2000, p. 2083 ss. 29 Così F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 140, nota 109. In tal senso, già prima, G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Padova, 1996, p. 361 e G. SPANGHER, Il processo penale dopo la “legge Carotti”, in Dir. pen. proc., 2000, p. 188. 30 Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, Battistella, in Cass. pen., 2008, p. 2310 e ss., 94 CAPITOLO II c.p.p. pervenendo alla convinzione – peraltro condivisa da una parte della dottrina31 – che quella disposizione non può essere presidiata da sanzione di nullità. Riassumendo la complessa vicenda, le Sezioni unite hanno risolto la questione dell’imputazione generica affermando che il giudice, in forza di un potere generale di controllo sull’imputazione, può e deve invitare il pubblico ministero alla specificazione dei contenuti imputativi prima di ordinare la regressione del procedimento; qualificandosi altrimenti in termini di abnormità il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero32. Più specificamente, nel solco di un cospicuo indirizzo giurisprudenziale, hanno affermato «l’abnormità del provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dichiari la nullità delle richiesta di rinvio a giudizio per la genericità o l’indeterminatezza dell’imputazione e/o disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero perché eserciti nuovamente l’azione penale»33. Presupposto del ragionamento è la constatazione della diversità tra l’art. 417 lett. b) c.p.p., che non prevede la nullità o un’altra forma di invalidità nel caso in cui l’imputazione non risulti conforme al modello legale, e gli artt. 429 comma 2 e 552 comma 2 c.p.p., che sanzionano con la nullità, asseritamene relativa, l’analogo difetto di determinatezza dell’atto imputativo rilevato in dibattimento. Dal confronto fra le diverse discipline esse hanno dedotto – erroneamente, come si tenterà di dimostrare – una voluntas legis volta a lasciare con commenti di L. PISTORELLI, Imputazione generica o indeterminata e poteri del giudice dell’udienza preliminare nell’interpretazione delle Sezioni unite della Cassazione e di C. MARINELLI, La genericità o indeterminatezza dell’imputazione nella fase dell’udienza preliminare. 31 V., ultra, § 3. 32 Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, Battistella, cit. 33 La frase è tratta dalla motivazione. Nel dictum ufficiale, tuttavia, non compare il riferimento alla restituzione degli atti determinata dalla declaratoria di nullità. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 95 privo di conseguenze il vizio relativo alla richiesta di rinvio a giudizio34. Per pervenire a questa conclusione le Sezioni unite hanno ampliato l’analisi alla nuova fisionomia dell’udienza preliminare per effetto dello stratificarsi delle decisioni della Corte costituzionale e delle riforme legislative, non ultima, in ordine di importanza, la legge 16 dicembre 1999, n. 479. L’udienza preliminare sarebbe così un segmento connotato da una maggiore fluidità dell’addebito che si cristallizza solo con il decreto che dispone il giudizio, «luogo privilegiato di stabilizzazione dell’accusa»; con la conseguenza che «il progressivo consolidamento dell’imputazione deve essere realizzato, in primis, all’interno della fase, mediante il meccanismo d’integrazione e specificazione predisposto per la diversità del fatto dall’art. 423 comma 1 c.p.p., nella lettura estensiva che di tale disposizione normativa offre la giurisprudenza costituzionale»35. Il giudice dell’udienza preliminare avrebbe quindi il poteredovere di sollecitare il pubblico ministero ad avvalersi delle nuove contestazioni ex art. 423 c.p.p. per apportare le necessarie precisazioni all’imputazione. Solo nel caso di persistente inerzia del pubblico ministero, il giudice dovrebbe concludere l’udienza con un provvedimento di restituzione degli atti, senza peraltro poter pronunciare sentenza di non luogo a procedere proprio a causa della indeterminatezza degli addebiti36. 34 «È tanto forte la convinzione del Supremo collegio di poter applicare il canone interpretativo dell’argomento “a contrario” (ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit) che nella motivazione non viene spesa nemmeno una parola per confutare la riconducibilità del vizio alle nullità di ordine generale»: così O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, in corso di pubblicazione. 35 Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, Battistella, cit. In tal senso, in dottrina, già prima della sentenza Battisella, C. IASEVOLI, L’apparente indeterminatezza della funzione di controllo del giudice dell’udienza preliminare, cit., p. XXXXXXXXXXX 36 Per O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit., la sentenza in oggetto dimostra come il diritto processuale penale, inteso come 96 CAPITOLO II Ulteriore argomento utilizzato dalle Sezioni unite è il ricorso analogico all’art. 521 c.p.p., laddove affermano che il «provvedimento conclusivo di restituzione degli atti non necessita di una previa dichiarazione di nullità (non prevista dal legislatore) della richiesta di rinvio a giudizio e determina la retrocessione del procedimento, sulla falsariga di quanto disposto dall’art. 521 comma 2 c.p.p., onde consentire il nuovo esercizio dell’azione penale in modo aderente alle effettive risultanze di indagine»37. Insomma, i giudici di legittimità hanno riconosciuto che, in seguito a numerosi interventi della Corte costituzionale38, può corpus di disposizioni codificate, st[i]a progressivamente abdicando in favore di una procedura penale di matrice giurisprudenziale. 37 E a sostegno della necessità di seguire un simile itinerario processuale, la Corte ricorda come un analogo percorso sia stato previsto anche nel nuovo progetto di leggedelega per la riforma del codice di procedura penale. 38 Il riferimento è all’ordinanza della Corte costituzionale n. 88 del 15 marzo 1994, nella quale si afferma che l’esigenza di correlazione dell’imputazione alle risultanze degli atti sia presente in ogni fase processuale, dovendo essere garantita, in ossequio al diritto di difesa, anche nell’udienza preliminare. Secondo la Corte, infatti, la facoltà per il pubblico ministero di effettuare oralmente la nuova contestazione avente ad oggetto la modifica o l’integrazione dell’imputazione (e persino il fatto nuovo, laddove sussista il consenso dell’imputato, arg. ex art. 423 comma 2 c.p.p.), dipende fondamentalmente dal fatto che il legislatore ha inteso concludere già in udienza preliminare l’attività di controllo giurisdizionale; attività volta, da un lato, a delibare il fondamento dell’accusa e, dall’altro, a fissare il thema decidendum. Nel dirimere la questione avente ad oggetto la compatibilità costituzionale del dettato normativo di cui all’art. 424 c.p.p. con gli artt. 3, 97 e 102 Cost., la Corte aveva innanzitutto evidenziato il contrasto registratosi sul punto tra giudici di merito e Cassazione. Ed, invero, mentre i primi avevano ritenuto applicabile in via analogica, anche all’udienza preliminare, l’art. 521 comma 2 c.p.p., a mente del quale il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero laddove accerti che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518 comma 2 c.p.p., la Corte di cassazione aveva, invece, preferito una soluzione fondata su una interpretazione estensiva dell’art. 423 c.p.p., per giungere ad affermare che non fosse compito dei giudici costituzionali indicare opzioni nell’ambito delle varie soluzioni, ove queste [fossero] tutte egualmente legittime in raffronto al dettato costituzionale. Per questa via la Corte costituzionale affermò, nell’occasione, che la costante corrispondenza dell’imputazione alle risultanze degli atti discendesse direttamente dal diritto di difesa dell’imputato, nonché dalla garanzia del contraddittorio che di esso è irrinunciabile corollario, e dal necessario controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell’azione; conclusione che si riteneva corroborata non solo dal disposto di cui al citato art. 423 c.p.p. – nella parte in PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 97 ritenersi ormai indiscusso che di fronte ad una imputazione inidonea per genericità e indeterminatezza, il giudice dell’udienza preliminare possa rimediare, sia sollecitando il pubblico ministero a precisare l’imputazione, in applicazione estensiva dell’art. 423 c.p.p., sia rimettendo gli atti al pubblico ministero, in applicazione analogica dell’art. 521 comma 2 c.p.p. per un rinnovato esercizio dell’azione penale. Per seguire un “percorso virtuoso”, tuttavia, il giudice ‹‹deve sperimentare prima la sollecitazione prevista dall’art. 423 c.p.p. e provvedere a norma dell’art. 521 comma 2 c.p.p. solo in caso di mancata adesione del pubblico ministero alla precedente sollecitazione interlocutoria››. Soltanto la mancata adesione alla sollecitazione per l’aggiustamento dell’imputazione consente cui prevede che il pubblico ministro modifichi l’imputazione e la contesti all’imputato presente laddove, nel corso dell’udienza, dovesse emergere che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione stessa – ma anche da quello di cui al successivo art. 429 comma 1 lett. d) c.p.p., che impone al giudice l’obbligo di enunciare, nel decreto che dispone il giudizio, l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono. I giudici costituzionali evidenziarono, inoltre, come la novella legislativa di cui alla legge 8 aprile 1993, n. 105 – recante la soppressione dell’inciso evidente dal primo comma dell’originario art 425 c.p.p. – avesse rafforzato il potere valutativo del giudice dell’udienza preliminare, facendo sì che l’udienza preliminare funzionasse come filtro di maggior consistenza rispetto al dibattimento. Su queste basi la Corte costituzionale giunse ad affermare che il giudice dell’udienza preliminare può sollecitare il pubblico ministero ad operare le opportune modifiche, non precludendo l’art. 424 c.p.p. l’opportunità in capo a quel giudice di ordinare la trasmissione degli atti al rappresentante dell’accusa affinché descriva il fatto contestato. E perciò dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Verbania, in riferimento agli artt. 3, 97 e 101 della Cost., dell’art. 424 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari possa, all’esito dell’udienza preliminare, trasmettere gli atti al pubblico ministero per descrivere il fatto diversamente da come ipotizzato nella richiesta di rinvio a giudizio (Corte cost., ord. n. 88 del 15 marzo 1994). Per il commento alla sentenza in questione si rinvia A. BERNANRDI, Art. 125 disp. att., in AA.VV., Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, La normativa complementare, I, Torino, 1992, p. 478 e ss.; L. GIULIANI, La regola di giudizio in materia di archiviazione (art. 125 disp. att. c.p.p.) all’esame della Corte costituzionale, in Cass. pen., 1992, p. 249; G. PIZIALI, L’archiviazione nella giurisprudenza costituzionale, in Indice penale, 1993, p. 406; M. ROCA, Archiviazione, non luogo a procedere e dovere di completezza delle indagini nella sentenza della Corte costituzionale n. 88/91, in Giust. pen., 1992, I, c. 184. 98 CAPITOLO II al giudice di disporre la regressione del processo, perché soltanto quel comportamento non collaborativo del pubblico ministero determina l’impasse e costringe ad una soluzione non altrimenti evitabile. Ed in questa ottica le Sezioni unite hanno reputato che la regressione disposta prima di aver sollecitato il pubblico ministero sia atto “abnorme”, perché intempestivo e perchè non giustificato dall’inutile esperimento del rimedio endofasico39. L’argomento sarà approfondito. Val la pena, tuttavia, di sottolineare sin d’ora che la soluzione del conflitto tra pubblico ministero e giudice, con il rimedio previsto per ben altra eventualità dall’art. 521 comma 2 c.p.p., costituisce – secondo parte della dottrina – evidente forzatura interpretativa40. 39 G. SANTALUCIA, L’imputazione generica in udienza preliminare: le Sezioni unite rivendicano, in nome dell’efficienza, un ruolo “forte” della nomofilachia, in Giust. pen., 2008, in corso di pubblicazione, sottolinea come le Sezioni unite non esplicitino di qual tipo di abnormità si tratti, se di abnormità c.d. strutturale per esercizio di un potere in difetto di un presupposto, o se di abnormità funzionale per l’indebita regressione. Tuttavia, ad avviso dell’Autore, più utile dell’impegno definitorio sarebbe stato uno sforzo argomentativo per vincere l’obiezione secondo cui non può dirsi abnorme l’atto che dichiara una nullità di ordine generale rientrando il potere di dichiarare una nullità tra le attribuzioni del giudice, e non potendo essere il suo atto di esercizio conseguentemente qualificato in termini di abnormità per estraneità al sistema processuale. «L’ipotesi della regressione del procedimento in conseguenza di una pur erronea dichiarazione di nullità del decreto di citazione – si afferma – è ben altro da quella della regressione conseguente all’adozione di provvedimenti che si collocano al di fuori dell’ordinamento e non corrispondono alla struttura del sistema processuale. L’atto può anche essere illegittimo ma non per ciò deve dirsi abnorme, specie considerando che tale qualificazione patologica serve innanzitutto a rendere impugnabile un atto che altrimenti non sarebbe tale in ossequio al principio di tassatività delle impugnazioni». Secondo l’Autore, la costruzione interpretativa delle Sezioni Unite lambisce l’eterogenesi dei fini. L’abnormità è evocata per rispondere ad un bisogno di efficienza del sistema che deve relegare le regressioni nell’area dei rimedi ultimi, e però finisce con l’affidare al pubblico ministero, che ha formulato una imputazione generica e quindi ha emesso un atto illegittimo, il potere di impugnare il provvedimento di controllo e di censura della illegittimità ottenendo il risultato di un annullamento senza rinvio che lo restituisce alla fase dell’udienza preliminare. 40 Così è per O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit. e G. GIOSTRA, Relazione sul tema “Imputazione generica e diritto di difesa”. Incontro di studi organizzato dalle Camere Penali di Roma presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Roma, 2008. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 99 Sul punto, anche coloro che condividono l’iter argomentativo delle Sezioni unite rifiutano il ricorso alla richiamata disposizione, sia perché le norme attributive di poteri non possono essere applicate in via analogica, sia perché l’art. 521 c.p.p. riguarda situazione completamente diversa per la fase in cui opera (= il dibattimento) e per l’atto a cui si riferisce (la sentenza), laddove qui il problema è creato solo dal decreto di rinvio a giudizio41. 3. Il rimedio offerto dalla giurisprudenza di legittimità: considerazioni critiche. Il “percorso virtuoso” individuato dalla Corte non convince. Sebbene l’art. 417 c.p.p. non ricolleghi all’imperfezione della imputazione un’espressa sanzione, il vizio dell’atto imputativo è assolutamente riconducibile alle previsioni generali di nullità, quanto meno a quelle di cui all’art. 178 lett. c) c.p.p. 42. Come si è detto, la dottrina maggioritaria da tempo converge sull’idea secondo cui, quando l’addebito formulato dal pubblico ministero non presenta il necessario rigore descrittivo, la fattispecie concretamente realizzata risulta difforme da quella astratta43. È stato di recente affermato44 che la teoria generale delle invalidità postula che non si possa fare ricorso alle nullità di ordine generale quando una specifica disposizione preveda espressamente 41 G. RICCIO, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite, 20 dicembre 2007, in Giust. pen., 2008, in corso di pubblicazione; C. IASEVOLI, L’apparente indeterminatezza della funzione di controllo del giudice dell’udienza preliminare. Sul pensiero di tali Autori cfr. anche oltre. 42 In tal senso è pressoché unanimemente orientata la dottrina. 43 Per una compiuta ricostruzione delle diverse posizioni assunte in argomento in dottrina ed in giurisprudenza cfr. F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 128 e bibliografia ivi citata. 44 Il riferimento è a C. IASEVOLI, La nullità nel sistema processuale penale, cit., p. 432. 100 CAPITOLO II una diversa figura patologica; al contrario, quando il modello legale dell’atto non contempli la sanzione per la difformità della fattispecie concreta, è ben possibile, anzi doveroso, riferirsi a previsioni di carattere generale45. Nel caso specifico sembra difficilmente contestabile che il capo di imputazione generico o indeterminato integri precisamente un’ipotesi patologica incidente sul corretto esercizio dell’azione penale (art. 178 lett. b) c.p.p.) e sull’effettività dell’intervento difensivo (art. 178 lett. c) c.p.p.)46. Al più, qualcuno ha proposto di graduare e distinguere la nullità che colpisce la richiesta di rinvio a giudizio in base alla tipologia della carenza riscontrabile nell’imputazione47. Si ritiene, di conseguenza, che in assenza della compiuta descrizione degli elementi essenziali riferibili alla fattispecie di reato, ossia la condotta, l’oggetto materiale su cui la stessa incide, il nesso di causalità, l’evento naturalistico e l’elemento psicologico, l’iniziativa del pubblico ministero sia inidonea all’instaurazione del processo e dunque affetta da nullità assoluta 45 Basti considerare che a prevedere le nullità è l’art. 177 c.p.p. che sancisce il principio di tassatività. Sennonché, la previsione può essere fatta sia in modo specifico che in via generale per non correre il rischio di dimenticare che una tal previsione è a pena di nullità. Di qui, per le ipotesi più gravi, l’art. 178 c.p.p. prevede taluni casi di nullità in via generale. Se ne prevedono poi altre in via speciale. Accade spesso, anzi spessissimo, che il legislatore preveda in via speciale una nullità per l’inosservanza di una prescrizione che, anche se non fosse stata espressamente prevista, sarebbe stata riconducibile alla categoria di ordine generale. E così, se nell’art. 429 c.p.p. non fosse stata prevista la nullità speciale, l’enunciazione dell’imputazione non chiara o non precisa sarebbe stata certamente riconducibile quantomeno all’art. 178 c.p.p. 46 Denunzia l’abuso di queste asettiche equazioni C. IASEVOLI, La nullità nel sistema processuale penale, cit., p. 427, secondo la quale le situazioni specificamente tutelate da nullità speciali non sono (= non possono essere) ricondotte a quelle di ordine generale, dati i consapevoli contenuti semantici dei termini usati nell’art. 178 c.p.p.; solo la disattenzione su tale dato, nonché l’idea che il codice di procedura penale del 1988 sia stato poco innovativo su questo terreno, avrebbe determinato l’attuale abuso delle nullità di ordine generale. 47 Patrocinano questa soluzione, F. CASSIBBA, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni, cit., p. 136 ss.; D. GROSSO, L’udienza preliminare, cit., p. 96. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 101 ex art. 178 lett. b) e 179 comma 1 c.p.p.48, laddove l’imperfezione per incompleta enunciazione delle modalità spazio-temporali della condotta assume rilevanza non tanto sotto il profilo dell’iniziativa del pubblico ministero, quanto con riferimento alle facoltà difensive che ne risulterebbero direttamente e gravemente pregiudicate: l’esatta determinazione del contesto spaziale e temporale in cui collocare la condotta è, infatti, presupposto indefettibile per l’esercizio della difesa (si pensi, ad esempio, alla possibilità di fornire la prova d’alibi)49. La circostanza, quindi, che nell’art. 417 c.p.p. il legislatore abbia omesso di prevedere specificamente come causa di nullità l’enunciazione dell’imputazione in forma non chiara e precisa – come invece si è premurato di fare nell’art. 429 c.p.p. – non può certo significare che abbia inteso sanzionare il vizio esclusivamente nel secondo caso. Significa soltanto che nell’art. 429 c.p.p. il legislatore – pleonasticamente, e quindi poco rigorosamente – ha previsto una nullità speciale per un’inosservanza che, comunque, sarebbe stata riconducibile alla previsione di nullità di cui all’art. 178 c.p.p. Sulla base di questa considerazione si è decisamente criticata l’affermazione della Corte di cassazione secondo cui la nullità stabilita dall’art. 429 c.p.p. per indeterminatezza dell’imputazione nel decreto che dispone il giudizio sarebbe di carattere relativo. È pertanto da ritenere che la Corte – ricadendo in un tralatizio fraintendimento sul punto – abbia messo insieme la rubrica dell’art. 181 c.p.p. (“nullità relative”) ed il terzo comma dell’art. 181 c.p.p., deducendone che tutte le nullità concernenti il decreto che dispo- 48 ‹‹Non sarebbe nemmeno immaginabile un processo “kafkiano” ad oggetto indeterminato o non sufficientemente determinato››. Così O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit. 49 C. IASEVOLI, La nullità nel sistema processuale penale, cit., p. 419 ss; si domanda quale possa essere il dato normativo di supporto a siffatta arbitraria distinzione. 102 CAPITOLO II ne il giudizio sono relative. In realtà, l’art. 181 c.p.p., dopo aver inequivocabilmente chiarito (comma 1) che sono relative le nullità diverse da quelle previste dall’art. 178 c.p.p., si limita a disciplinare nei commi successivi – e quindi anche nel terzo comma che si occupa delle nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio – i termini di deducibilità delle nullità relative a seconda del momento in cui si sono verificate. Che questa sia la lettura corretta dell’art. 181 comma 3 c.p.p. si ricava dal fatto che, a voler intendere diversamente la norma, tutte le nullità del decreto che dispone il giudizio – anzi tutte quelle previste dall’art. 181 commi 2, 3 e 4 c.p.p. (vale a dire tutte le nullità del procedimento!) – sarebbero relative e l’assurdità della conclusione attesta di per sé l’insostenibilità della premessa50. Riconosciuta, così, la nullità ex art. 178 lett. b) e c) c.p.p. della richiesta di rinvio a giudizio fondata su un’imputazione ambigua o generica, i rimedi dovrebbero essere semplici: il giudice dell’udienza preliminare ha il dovere di dichiararla d’ufficio e l’art. 185 c.p.p. gli impone di trasmettere gli atti al pubblico ministero, affinché sia riformulata l’imputazione in modo conforme al modello legale51. Ebbene, al di là di chi reputa che la ricostruzione ora riferita contenga conclusioni incompatibili con il sistema sanzionatorio – di cui si dirà tra poco – si riaggancia al pensiero critico qui manifestato anche chi52 reputa che l’udienza preliminare costituisca Così G. GIOSTRA, Relazione sul tema “Imputazione generica e diritto di difesa”, cit. In considerazione di ciò si ritiene che nell’occasione in commento la Corte di cassazione si sia attribuita il compito di creare diritto (judge made law), sostituendo alle disposizioni di legge nuove norme, non riconducibili al dato codicistico. «La vocazione legislativa del giudice di legittimità è confermata dal compiacimento espresso nel prendere atto che la rielaborazione giurisprudenziale coincide con il progetto di riforma presentato dalla “Commissione Riccio”, ad onor del vero molto più attento a garantire le prerogative della difesa» (così O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit.). 52 G. SANTALUCIA, L’imputazione generica in udienza preliminare: le Sezioni unite 50 51 PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 103 la fase per la correzione dell’imputazione, come può desumersi, anche, dal fatto che la rilevazione in dibattimento delle nullità del decreto che dispone il giudizio comporta la regressione del procedimento proprio alla fase dell’udienza preliminare. Si ritiene, cioè, che sia lo stesso legislatore a privilegiare l’itinerario correttivo della imputazione generica, dal momento che, se essa compare nel decreto di citazione a giudizio, il giudice del dibattimento deve far fronte all’evenienza, non restituendo gli atti al pubblico ministero, ma inviandoli al giudice dell’udienza preliminare. In questo caso, insomma, l’originaria genericità e/o indeterminatezza del fatto desunto nella imputazione attiva proprio il meccanismo dell’art. 423 c.p.p. Su questa premessa si afferma, dunque, che la previsione della nullità del decreto starebbe a significare che il legislatore guarda all’udienza come al luogo fisiologicamente deputato alla correzione delle imputazioni originariamente difettose, al fine di scongiurare il rischio di regressioni che compromettano l’interesse alla ragionevole durata del processo53. rivendicano, in nome dell’efficienza, un ruolo “forte della nomofilachia, cit., reputa che «se il legislatore avesse inteso presidiare con una nullità la richiesta di invio a giudizio, non avrebbe avuto ragione alcuna per prevedere la nullità speciale, assoluta o relativa che sia, del decreto che dispone il giudizio. E ciò perché il decreto di rinvio a giudizio, in quanto atto casualmente e funzionalmente collegato alla imputazione, sarebbe stato comunque colpito da nullità derivata in presenza di una richiesta di rinvio a giudizio connotata da un’imputazione generica». 53 G. SANTALUCIA, L’imputazione generica in udienza preliminare: le Sezioni unite rivendicano, in nome dell’efficienza, un ruolo “forte” della nomofilachia, cit. L’autore cita la sentenza delle Sezioni unite Di Battista del 1998. Non deve quindi sorprendere che il legislatore abbia ritenuto di servirsi dello strumento apprestato per porre rimedio al definitivo atto imputativo del decreto che dispone il giudizio al fine di prevenire lo stesso tipo di vizio nello stesso atto. La nullità, sottolinea l’Autore, non è oggetto soltanto di una rilevazione successiva: può essere anche oggetto di un impegno, delle parti e del giudice, diretto ad evitarla. «Su quest’ultimo punto le Sezioni unite non si soffermano a sufficienza: sarebbe stato opportuno specificare che il controllo diretto a prevenire la nullità dell’eventuale decreto che dispone il giudizio deve collocarsi all’inizio dell’udienza preliminare, immediatamente dopo l’accertamento sulla regolare costituzione delle parti, in modo che non si consumi il tempo per articolare la strategia difensiva preferita». Risultato, questo, a cui, ad avviso dell’Autore, i giudici possono giungere pur in assenza di 104 CAPITOLO II L’osservazione raccoglie la linea di teoria generale secondo cui il fondamento del sistema sanzionatorio posto a tutela della legalità del processo e della tipicità degli atti sarebbe di tipo “rimediativo”, per cui sarebbe il legislatore a predisporre, in talune ipotesi, l’iter per la rimozione del vizio; e questo, secondo altro orientamento, si avrebbe nel caso dell’art. 423 c.p.p. per il vizio di imputazione: si giustifica così la mancanza della sanzione di nullità54 e, di conseguenza, la previsione di abnormità della restituzione degli atti al pubblico ministero prima della celebrazione dell’udienza55. L’ultima tesi si inquadra nella “revisione” dogmatica del sistema sanzionatorio, rispetto al quale – ed in linea generale – si denunzia il vizio di metodo compiuto da chi reputa che la ritenuta categoria sanzionatoria ne determini il regime e non – come è – l’inverso. Si è quindi rilevato che il substrato dommatico, su cui si sono mosse le Sezioni unite e che, quel che più importa, sorregge la lettura della vicenda in esame, è costituito dalla incompatibilità tra nullità speciali e generali con conseguente estraneità del vizio di imputazione alle previsioni di cui all’art. 178 c.p.p. e della previsione della nullità speciale per il vizio di imputazione del decreto che dispone il giudizio, essendo questo l’atto che contiene la vocatio in iudicium e che, quindi, definisce il tema probatorio. Per cui deriverebbe dalla naturale funzione di controllo del giudi- un’espressa prescrizione della suprema Corte, dal momento che risponde ad un ordine logico che il controllo sugli aspetti di forma della domanda del pubblico ministero preceda le attività dirette alla verifica della meritevolezza del suo contenuto. Non occorre allora richiamare, per applicazione analogica, la disposizione dell’art. 423 c.p.p.: la richiesta di rinvio a giudizio non è nulla semplicemente perché l’udienza preliminare, se accortamente utilizzata, è il luogo adatto per scongiurare il pericolo che quella imprecisa e poco chiara enunciazione del fatto sia trasfusa nel decreto che dispone il giudizio, dando causa, questa volta sì, ad una nullità. 54 Ammesso e non concesso che debba essere questa la sanzione per le domande. 55 Così C. IASEVOLI, Le ragioni di sistema a fondamento della inapplicabilità analogica dell’art. 521 c.p.p. all’interno dell’udienza preliminare, in Giust pen., 2008, in corso di pubblicazione; G. RICCIO, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite, 20 dicembre 2007, cit. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 105 ce dell’udienza preliminare il potere di sollecitare la correttezza – appunto – dell’imputazione56. Del resto – si dice – il meccanismo funziona anche nel caso in cui il pubblico ministero sia costretto a modificare l’imputazione a seguito di attività “integrativa” ordinata dal giudice ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p.57. Di qui l’idea che l’udienza preliminare «si configuri come il luogo privilegiato di stabilizzazione dell’accusa e che il progressivo consolidamento dell’imputazione debba essere realizzato, in primis, all’interno della fase»58; di qui la necessità di sperimentare, in prima battuta, il rimedio fornito dall’art. 423 c.p.p. Epperò non manca chi, anche su questo terreno, registra una grave distorsione interpretativa, sottolineando come il meccanismo delle nuove contestazioni nel corso dell’udienza preliminare sia stato pensato per consentire l’adeguamento dell’imputazione originariamente completa e precisa alle sopravvenute risultanze della fase59. Il legislatore, dunque, consentirebbe la modifica del capo di imputazione validamente formulato solo quando, nel corso dell’udienza preliminare, gli elementi raccolti facciano apparire il fatto diverso da come descritto, in forma chiara e precisa, nella stessa imputazione. La determinatezza e la completezza dell’addebito sarebbero così i presupposti indispensabili per poter operare le correzioni consentite dall’art. 423 c.p.p. Si afferma, in altri termini, che la modifica dell’imputazione ex art. 423 c.p.p. rientrerebbe nella fisiologia del procedimento solo partendo da un addebito espresso in forma chiara e precisa e solo a seguito di acquisizioni probatorie 56 G. RICCIO, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite, 20 dicembre 2007, cit.; C. IASEVOLI, Le ragioni di sistema a fondamento della inapplicabilità analogica dell’art. 521 c.p.p. all’interno dell’udienza preliminare, cit. 57 G. RICCIO, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite, 20 dicembre 2007, cit. 58 Cass., Sez. un., 20 dicembre 2007, Battistella, cit. 59 Non è possibile apprezzare la diversità del fatto rispetto a una descrizione generica o indeterminata per O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit. 106 CAPITOLO II ulteriori, essenziali per procedere alla correzione dell’imputazione in corso d’opera; e ciò al fine di evitare pregiudizi per i diritti della difesa e per le esigenze di economia processale. Sicché, se l’imputazione è viziata ab origine, si rientra nella patologia del processo che nasce invalido con la conseguenza che l’intervento richiesto non è affatto l’adeguamento alle risultanze sopravvenute, bensì una nuova proposizione del thema decidendum. Si contesta, così, che la risposta al problema possa essere rintracciata nell’art. 423 c.p.p. come affermato dalle Sezioni Unite e, già prima, dalla Corte costituzionale, secondo la quale basterebbe un’applicazione “estensiva” dell’art. 423 c.p.p. per legittimare il pubblico ministero a meglio circostanziare in udienza il fatto, rimediando alla precedente inadempienza60. Peraltro, anche la significativa diversità delle formule utilizzate negli artt. 423 e 507 c.p.p. motiva la giurisprudenza a ritenere che, non in via di interpretazione estensiva, ma per il suo contenuto e per la funzione che svolge, l’art. 423 c.p.p. assorba anche i vizi genetici dell’imputazione. Sul punto è opportuno ricordare che, per taluni, la norma di cui all’art. 423 c.p.p. ha già subito continue dilatazioni con la vanificazione dell’espressione “se nel corso dell’udienza preliminare il fatto risulta diverso”, avendo la giurisprudenza più volte affermato (con specifico riferimento all’art. 516 e seguenti c.p.p., ma anche a proposito dell’art. 423 c.p.p.), che l’elemento della sopravvenienza – ai fini della modifica dell’imputazione – non è indispensabile, per cui è consentito al pubblico ministero di porre mano alla imputazione anche per mero ripensamento. Opinione Del resto non mancano nella giurisprudenza della Corte di cassazione precedenti che negavano la legittimità di trasmissione degli atti al pubblico ministero per l’ulteriore corso in caso di emersione di un fatto diverso al pubblico ministero. Cfr. a tal proposito Cass., sez V, 8 febbraio 1993, Pala, in Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 143; Cass., sez. VI, 2 maggio 1992, Pellegrino, in Arch. nuova proc. pen., 1992, p. 594. Non si riscontra quel potere nell’art. 424 c.p.p. per A. VIRGILIO, Fatto diverso: trasmissibilità degli atti dal giudice dell’udienza preliminare al pubblico ministero?, in Giust. pen., 1994, I, c. 162. 60 PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 107 criticata da chi, ritenendo già svilito il requisito della diversità, reputa che – a voler seguire le indicazioni contenute nella recente decisione di legittimità – si finisce per svuotare di contenuto anche quello della determinatezza, non potendosi considerare “diversità” il passaggio da un fatto indeterminato ad uno determinato61. Si sostiene, anzi, che, per quanto le attività di udienza si siano arricchite nel corso degli anni attraverso interventi novellistici che hanno accresciuto la rilevanza di questo snodo processuale, esse non possono basarsi su un’imputazione soggetta a stabilizzazione e consolidamento progressivi. E, di conseguenza, che, la considerazione dell’imputazione nel corso dell’udienza preliminare come un work in progress si risolve nello stravolgimento delle funzioni della fase, riducendola ad una sorta di udienza di precisazione dell’accusa; significa, soprattutto, espropriare la difesa del primo momento utile per esercitare appieno il proprio ruolo dinanzi all’organo giurisdizionale62. 61 Del resto, che questa non sia una forzatura formalistica lo afferma la stessa Corte di cassazione a Sezioni unite, con termini perentori ed inequivocabili, quando afferma che «gli specifici mezzi processuali in essi previsti per stimolare l’iniziativa delle parti e superare eventuali situazioni di stallo senza far regredire il procedimento alla fase precedente, non possono trovare applicazione anche per un’ipotesi accusatoria asseritamene deficitaria. I casi che consentono al pubblico ministero di procedere alla modifica dell’imputazione sono nettamente distinti e per nulla assimilabili a quello che dà luogo alla nullità del decreto che dispone il giudizio per insufficiente individuazione del fatto oggetto dell’imputazione» (Cass., xxxxxxx, xx xxxxxxxxxxx xxxx, xxxxxxxx, cit.). In sostanza, ad avviso della Corte, non è questo lo strumento per porre mano alla genericità dell’imputazione in dibattimento, e – a nostro avviso – non lo è neanche in udienza preliminare. Quella dell’art. 423 c.p.p., dunque, non ci pare sia una strada percorribile. 62 Più specificamente per O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit., nello schema proposto dalla Cassazione, oltre alla già segnalata incompatibilità strutturale dell’art. 423 c.p.p. rispetto alla sanatoria dell’imputazione invalida, risulta seriamente compromesso anche il ruolo del giudice. E ciò perché un organo giurisdizionale che impone al pubblico ministero di precisare o completare l’imputazione – indicando magari anche i termini esatti dell’intervento da eseguire – partecipa attivamente alla costruzione dell’accusa e finisce per giocare un ruolo che non gli è proprio, perdendo inevitabilmente gli essenziali caratteri di imparzialità e terzietà che sono assicurati proprio dal rispetto del canone del ne procedat iudex ex officio. 108 CAPITOLO II La dottrina, come accennato, concorda invece nel rifiutare l’applicazione analogica dell’art. 521 c.p.p., presupponendo il ricorso all’analogia l’eadem ratio, che però manca nel caso che ci occupa. Invero, la restituzione degli atti al pubblico ministero disciplinata dall’art. 521 comma 2 c.p.p. riguarda il caso in cui il giudice, all’esito del dibattimento, si avveda della difformità fra il fatto contestato e quello ricostruito sulla base delle prove assunte. L’adozione del provvedimento restitutorio nella sede dibattimentale presuppone, pertanto, un’imputazione correttamente formulata ma diversa, per effetto delle acquisizioni probatorie dibattimentali, dal fatto su cui le parti si sono cimentate. Nel caso in esame, invece, la situazione radica un conflitto fra pubblico ministero e giudice in ordine alla necessità di riformulare nell’udienza preliminare un’imputazione geneticamente affetta dal vizio di genericità o indeterminatezza. L’assunto riceve conferma dal fatto che, in dibattimento, non può mai verificarsi un’ipotesi eguale a quella che si verifica in udienza preliminare in caso di imputazione formulata in maniera generica, dal momento che se l’imputazione generica risulta dal decreto che dispone il giudizio il giudice del dibattimento ne dichiara la nullità ed ordina la restituzione degli atti, non già al pubblico ministero, ma al giudice dell’udienza preliminare. E’ evidente, allora, che il giudice del dibattimento ricorre al meccanismo della trasmissione degli atti al pubblico ministero, non già quando c’è un vizio in itinere, ovvero quando il decreto è invalido, avendo in tal caso un rimedio ad hoc, ma quando tutto si è svolto regolarmente ovvero quando, pur avendo il pubblico ministero formulato una imputazione in modo assolutamente corretto ed avendo il giudice trasferito la stessa nel decreto di rinvio a giudizio, siano sopraggiunti elementi “nuovi” durante l’istruzione dibattimentale tali da modificare il fatto. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 109 Si sostiene, insomma, che ai sensi dell’art. 521 c.p.p. il giudice del dibattimento trasmette gli atti al pubblico ministero perché sono emersi elementi di diversità del fatto. Dunque, la trasmissione ai sensi dell’art. 521 comma 2 c.p.p. non fonda sulla genericità dell’imputazione63. Su altro punto vi è concordia: quello della non meno preoccupante attribuzione al giudice del potere di correggere direttamente l’imputazione da riportare nel decreto che dispone il giudizio. Secondo la Corte costituzionale, invero, a fronte di un’imputazione formulata in modo generico dal pubblico ministero, «nulla vieta al G.i.p. di descrivere con la completezza che egli ritiene necessaria il fatto storico oggetto dell’accusa». La risalente affermazione è stata approfondita anni dopo dalla Corte di cassazione64, che ha escluso l’esistenza di ostacoli a che il giudice, data l’inerzia del pubblico ministero, apporti al fatto, nei limiti della descrizione contenuta nella richiesta di rinvio a giudizio, le necessarie precisazioni, e ciò sulla premessa che il decreto che dispone il giudizio deve contenere l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti a cui si riferiscono. Per le due Corti la premessa sarebbe data dal fatto che, essendo quel decreto un atto proprio del giudice, questi potrebbe e dovrebbe provvedere a costruirlo in conformità alle previsioni di legge pur se una parte del suo contenuto, la formulazione dell’im- 63 Così G. GIOSTRA, Relazione sul tema “Imputazione generica e diritto di difesa”, cit., secondo cui il percorso virtuoso individuato dalla cassazione non può essere seguito. Il dovere di sollecitare il pubblico ministero non è previsto nel sistema, sarà certamente utile prevederne l’inserimento in sede di riforma del codice, ma «che dal discostamento da questa ricostruzione interpretativa la Corte faccia derivare l’abnormità del provvedimento appare davvero strano». Questa – ad avviso dell’autore – non è nomofilachia. 64 V., anche prima, Corte cost., n. 347 del 15 luglio 1991 che dichiarò l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 429 c.p.p., nella parte in cui, raccordato agli artt. 417 comma 1 lett. b) e 423 c.p.p., non avrebbe consentito al giudice dell’udienza preliminare di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione formulata dal pubblico ministero. Cass., Sez. un., 10 dicembre 1997, n. 17/98, in C.E.D. Cass., n. 209604. 110 CAPITOLO II putazione, è necessariamente recepito dalla domanda di giudizio del pubblico ministero che ne è titolare esclusivo. La discutibile affermazione, peraltro, non è suffragata né da parte della Corte costituzionale né da parte delle Sezioni unite da elementi chiarificatori utili all’interprete per operare la distinzione tra completamento di un’imputazione generica e costruzione di un’imputazione originariamente difettosa, tra controllo fisiologico e controllo sostitutivo – indebito – sull’esercizio dell’azione che finirebbe col darne al giudice la contitolarità in palese e irrimediabile violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento processuale e costituzionale. E che questi criteri di orientamento sarebbero risultati indispensabili lo si ricava dalla considerazione secondo cui la sottile distinzione non può essere tracciata in astratto, o meglio non può esserlo utilmente, necessitando di un paziente lavorìo interpretativo che deve misurarsi nella concretezza casistica, terreno d’elezione della giurisprudenza di merito. Un dato è però certo ed inconfutabile: in tal modo i poteri del giudice dell’udienza preliminare si espandono oltre misura, fino alla rottura sistematica della vicenda. Perciò, da diverse parti si reputa che quel giudice possa tutt’al più sollecitare un intervento correttivo del pubblico ministero e che possa restituirgli gli atti, non che possa intervenire direttamente sull’imputazione neanche per evitare di incorrere nella nullità prevista dall’art. 429 comma 2 c.p.p. Né, sul punto, possono tacersi i preoccupanti effetti determinati dall’eventuale rideterminazione dell’imputazione ad opera del giudice: l’evenienza non solo espone al rischio l’imparzialità, ma rappresenta una eventualità in grado di azzerare l’intervento difensivo e di vanificare tanto la realizzazione del contraddittorio quanto la possibilità di optare per forme alternative di giudizio. Per questi aspetti merita un ripensamento critico anche la regola, più volte ribadita in giurisprudenza, secondo cui il giudice del- PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 111 l’udienza preliminare, ove non incida sul nucleo fattuale dell’imputazione, ben può provvedere alla riqualificazione con il provvedimento conclusivo. Orientamento interpretativo consolidatosi con l’intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione65, che hanno chiarito come l’art. 423 c.p.p., nel disciplinare le modifiche dell’imputazione affidandole esclusivamente al pubblico ministero, si riferisca soltanto agli aggiustamenti del fatto, intendendo per fatto il «dato empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un episodio della vita umana…». Nella occasione, peraltro, si aggiunse che la norma fa del pubblico ministero l’esclusivo dominus del fatto come fattispecie concreta e che di conseguenza la modificazione della definizione giuridica non è modifica dell’imputazione, ma espressione del potere-dovere, proprio del giudice, di esatta applicazione della legge. Esse hanno ritenuto, così, di poter fare applicazione analogica della regola dell’art. 521 c.p.p., che prevede espressamente il potere in capo al giudice di riqualificazione del fatto imputato, ritenendo che essa «esprima un valore che non può non essere di portata generale». Ebbene, senza entrare in polemica con tale ultimo richiamo analogico (: il dominio del giudice sulla qualificazione giuridica del fatto è principio di sistema) e senza richiamare – ancora – qui la specificità ordinamentale della richiamata disposizione (: si riferisce alla sentenza non al decreto di rinvio a giudizio), non può tacersi che la questione è controversa, risultando evidente – ad esempio – che l’abolizione di una circostanza ad effetto speciale dall’imputazione modificherebbe il quadro probatorio; e ciò non sembra consentito al giudice del controllo sull’azione. A noi sembra, allora, che il richiamo all’art. 521 c.p.p. sia utile ed opportuno solo per la forza metodologica che la norma esprime: 65 Cass., Sez. un., 19 giugno 1996, Di Francesco, in Cass. pen., 1997, p. 360. 112 CAPITOLO II il principio di correlazione è obbligo del giudice che decide e solo suo. Di qui le conseguenze applicative del principio, indipendentemente dalla fase in cui si realizza la decisione. Piuttosto, sul punto, è opportuno il richiamo ad una novità dell’ultima ora. La regola riassumibile col brocardo iura novit curia – che sembra conferire un potere di intervento correttivo che non necessita di forme particolari di esercizio – è stata posta al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo per un giudizio di compatibilità con il parametro convenzionale del diritto dell’accusato di essere informato non soltanto dei motivi dell’accusa, e quindi dei fatti materiali addebitati, ma anche della qualificazione giuridica data a tali fatti (art. 6 comma 3 lett. a) della Convenzione), alla luce del generale diritto ad un equo processo. La Corte europea, di recente e proprio nell’esame di un ricorso contro l’Italia66, ha evidenziato che, fermo restando il potere del giudice di riqualificare il fatto, occorre che l’accusato abbia modo di interloquire sulla nuova imputazione anche se solo riqualificata in iure. Ciò significa che la garanzia del giusto processo, così come ritenuta da quella Corte, implica che l’imputato sia messo nelle condizioni di poter (= dovere) interloquire anche a seguito di un intervento del pubblico ministero o del giudice che riqualifichi il fatto contenuto nella imputazione. Di qui un consistente necessario ridimensionamento dell’affermazione della nostra giurisprudenza sulla piena libertà del giudice di correggere gli errori di qualificazione senza coinvolgere l’imputato e senza consentire che questi si possa esprimere prima e utilmente sulle nuove determinazioni in ordine al fatto addebitato. Certo, al di là della riflessione sui correttivi di procedura idonei a rendere effettivo il diritto di interlocuzione dell’imputato67, in tale evenienza, 66 67 Corte eur. dir. uomo, II sez., caso Drassich c. Italia, sentenza 11 dicembre 2007. Si interroga in merito L. DE MATTEIS, Diversa qualificazione giuridica dell’accu- PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 113 non resta che prendere atto che, se già la riqualificazione è un punto critico ove l’imputato non possa farne oggetto di discussione, il rimaneggiamento del fatto ad opera del giudice, anche solo per completarne la descrizione resa dal pubblico ministero, è soluzione assai rischiosa sul piano della tutela del diritto di difesa. Infine, a completamento dell’analisi della vicenda fin qui esaminata, occorre ricordare che a qualcuno non convince il richiamo all’abnormità68 operato dalle Sezioni unite a proposito del provvedimento de plano del giudice dell’udienza preliminare69. E in premessa va detto che proprio esse ricordano come possa essere ritenuto abnorme l’atto avulso dall’intero ordinamento processuale a causa della singolarità e/o della stranezza del suo contenuto, ovvero l’atto che, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo. Su questa stessa premessa dogmatica si dice che l’individuazione di una nullità di ordine generale nel mancato rispetto dell’art. 417 lett. b) c.p.p. non può essere considerata alla stregua di un atto extra ordinem, essendo comunque riconducibile all’interno di una impostazione ermeneutica, magari contestabile, ma pur sempre fondata su disposizioni legislative. Peraltro si fa notare che la declaratoria della nullità della richiesta di rinvio a giudizio non comporterebbe una paralisi del procedimento di tipo patologico, do- sa e diritto di difesa, in Cass. pen., 2006, p. 3832 e ss. 68 In argomento si rinvia agli scritti di U. ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, Milano, 1952, III, p. 44; G. CONSO, Questioni nuove di procedura penale, Milano, 1959, p. 220; F. CORDERO, Codice di procedura penale, Torino, 1992, p. 678; ID., Procedura penale, Milano, 1991, p. 889; G. FOSCHINI, La sentenza abnorme, in Riv. it. dir. proc. pen., 1959, p. 569; ID., Provvedimenti abnormi e loro impugnabilità, ivi, 1951, p. 744; G. LEONE, Trattato di diritto processuale penale, Napoli, 1961, I, p. 766; F. MENCARELLI, Il provvedimento abnorme nella teoria del processo penale, Napoli, 1984. 69 O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit.; L. MARAFIOTI, Imputazione e rapporti tra p.m. e g.i.p. secondo le Sezioni unite: un abuso di “disinvoltura”, in Giust. pen., 2008, in corso di pubbicazione; G. GIOSTRA, Relazione sul tema “Imputazione generica e diritto di difesa”, cit. 114 CAPITOLO II vendosi rimuovere l’atto nullo, espressamente disciplinata dall’art. 185 c.p.p.70; ed a questa esigenza sarebbe finalizzata la regressione del procedimento. Si dice – perciò – che nel caso in discussione mancano tutti i connotati dell’abnormità, sia perché non v’è alcuna norma che imponga al giudice il procedimento virtuoso delineato dalla Corte, sia perché la restituzione degli atti al pubblico ministero per l’indeterminatezza dell’accusa non è certamente estranea al sistema processuale essendo nel potere del giudice71 dell’udienza preliminare, come la stessa Corte riconosce. Ne consegue che il pur “prematuro” provvedimento di restituzione non comporta alcuno stallo del procedimento, perché è prevista la possibilità di un rinnovato esercizio dell’azione penale72. Ora, senza addentrarsi nel tema e indipendentemente dal fatto se l’idea della non regressione sia valida o meno (nel caso di specie vi è regressione), non c’è dubbio che il ragionamento della Corte ha quale presupposto del giudizio di abnormità il mancato riconoscimento in capo al giudice dell’udienza preliminare del potere di restituire ex officio la richiesta al pubblico ministero, nonché la 70 Per O. MAZZA, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice dell’udienza preliminare, cit., la scelta di ricondurre il vizio di indeterminatezza dell’imputazione alle previsioni generali dell’art. 178 lett. b) e c) c.p.p. potrà anche apparire agli occhi del supremo collegio come il frutto di una criticabile esegesi del dato normativo, ma il dissenso ermeneutico non dovrebbe essere risolto bollando con il marchio dell’abnormità l’attività di un giudice che comunque faccia applicazione di istituti codicistici, come le nullità di ordine generale, ai quali consegue ex lege la regressione del procedimento. «Più che da una meditata riflessione sull’ambito applicativo della categoria, il riferimento all’abnormità sembra dunque – afferma l’Autore – dettato da un sorta di inutile dogmatismo d’imperio con cui la Cassazione tenta di sradicare ogni forma di disaccordo esegetico e ciò a costo di stravolgere il concetto stesso di atto abnorme». 71 A. NAPPI, Un suicidio istituzionale, in Cass. pen., 2008, p. 1272; G. SANTALUCIA, L’imputazione generica in udienza preliminare: le Sezioni unite rivendicano, in nome dell’efficienza, un ruolo “forte” della nomofilachia, cit. 72 È evidente che non si versa in uno dei casi tradizionali di abnormità, ma che si è di fronte all’invenzione giurisprudenziale di una nuova categoria di abnormità, per “difetto di virtuosità” del procedimento, per A. NAPPI, Un suicidio istituzionale, cit., p. 1272. L’Autore definisce imbarazzante la conclusione della Corte secondo cui è abnorme il provvedimento che disponga senz’altro la restituzione degli atti al pubblico ministero. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 115 convinzione che la mancata previsione della nullità non possa essere riempita dall’interprete. Orbene, in via generale, va ricordato che, per alcuni, la categoria deroga eccezionalmente al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p.) ed è stata creata dalla giurisprudenza per far fronte a situazioni di stallo determinate dall’adozione di provvedimenti strutturalmente o funzionalmente estranei all’ordinamento. Per altri73, essa va ricondotta, anche, ad abuso e/o difetto di funzione. Rispetto a questa posizione appare evidente che la Corte ricorre all’abnormità proprio perché non riconosce al giudice quel potere in presenza del rimedio correttivo di cui all’art. 423 c.p.p.: il difetto di potere sarebbe la causa della abnormità, che legittima la ricorribilità contro il provvedimento, altrimenti non impugnabile per l’imprevedibile estraneità a qualsiasi categoria processuale; perciò, solo il riconoscimento della ricorribilità per cassazione permette di superare una situazione di stallo altrimenti non rimediabile. Non può non ricordarsi, comunque, che la sentenza in commento ha cura di precisare che la restituzione degli atti al pubblico ministero rappresenta l’extrema ratio e, soprattutto, «che non necessita di una previa dichiarazione di nullità (non prevista dal legislatore) della richiesta di rinvio a giudizio». E così il ragionamento torna al punto di partenza, ammettendo implicitamente che la rilevazione della nullità della richiesta di rinvio a giudizio per insufficiente determinazione dell’addebito avrebbe raggiunto il medesimo risultato, ossia la regressione del procedimento, rendendo inutile la complessa costruzione giurisprudenziale di istituti e poteri non previsti dalla legge74. G. RICCIO, Commento alla sentenza delle Sezioni Unite, 20 dicembre 2007, cit.; C. IASEVOLI, Le ragioni di sistema a fondamento della inapplicabilità analogica dell’art. 521 c.p.p. all’interno dell’udienza preliminare, cit. 74 La stessa Cassazione ritiene di aver individuato un «percorso virtuoso» in cui 73 116 CAPITOLO II 4. Lo svolgimento dell’udienza tra profili descrittivi e approdi problematici. Di qualche interesse sono, poi, gli adempimenti procedurali a cui la richiesta di rinvio a giudizio chiama il giudice, perché ad essi si collegano differenti valutazioni di dottrina e giurisprudenza. Invero, la disposizione codicistica che li prescrive (art. 418 c.p.p.) prevede che il giudice, ricevuta la richiesta del pubblico ministero, entro cinque giorni dal deposito della stessa, fissi con decreto l’udienza preliminare, facendo ‹‹notificare all’imputato ed alla persona offesa, della quale risulti agli atti l’identità ed il domicilio, l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza, con la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero e con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia››. Il giudice, dunque, non è più tenuto a fissare l’udienza entro due giorni dal deposito della richiesta, così come previsto dall’originaria formulazione dello stesso articolo. Ebbene, l’ampliamento del termine ha indotto a ritenere che il deposito della richiesta non debba avere come automatica conseguenza la fissazione dell’udienza, dovendo anzi provocare un previo approfondito controllo da parte del giudice. È, questo, l’orientamento di quanti ritengono che il giudice, investito della richiesta di rinvio a giudizio, possa legittimamente prosciogliere l’imputato senza nemmeno fissare l’udienza preliminare quando la regressione del procedimento rappresenta un’«evenienza marginale ed eccezionale». La regola sarebbe infatti la sanatoria dell’imputazione invalida attraverso le correzioni apportate nel corso dell’udienza ai sensi dell’art. 423 c.p.p. Il pregio di questa soluzione risiederebbe nella «perfetta coerenza con le esigenze di economia e di ‘ragionevole durata’ del processo, le quali, pur nel corretto contemperamento fra il valore dell’efficienza e le garanzie del ‘giusto processo’, entrambi presi in considerazione dal novellato art. 111 della Costituzione, pretendono comunque la razionalizzazione dei tempi e dell’organizzazione del processo». PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 117 sussistano le condizioni per applicare l’art. 129 comma 1 c.p.p.75; ma, come detto, l’osservazione non è condivisibile nella misura in cui, a nostro avviso, la sentenza ai sensi della citata disposizione, nell’attuale sistema, non può essere assunta unilateralmente dal giudice. La modifica dei termini non è comunque priva di significato, sol che si ritenga che il giudice abbia il potere di un controllo preventivo sulla sussistenza dei requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio e, quindi, di dichiararne immediatamente, al di fuori dell’udienza, l’inammissibilità, anche in ragione della nullità oggi prevista in seguito alla modifica dell’art. 416 comma 1 del codice di procedura penale. Sul punto si ricorda che la nullità speciale è ricondotta dalla dottrina alla previsione d’ordine generale di cui all’art. 178 comma 1 lett. c) c.p.p., perché compromette il diritto dell’imputato all’intervento nel giudizio. Del pari la giurisprudenza si è orientata nel senso che la nullità debba essere rilevata dal giudice anche prima e al di fuori dell’udienza preliminare ritenendola nullità a regime intermedio e, quindi, soggetta ai termini di rilevazione di cui all’art. 180 c.p.p. Sotto differente profilo va evidenziato che l’udienza preliminare può aprirsi ad iniziativa del giudice per le indagini preliminari, nel caso in cui questi, non accogliendo la richiesta di archiviazione, imponga al pubblico ministero di formulare l’imputazione, nel qual caso il termine per la fissazione dell’udienza è di due giorni. L’art. 409 comma 5 c.p.p., invero, ancora oggi dispone che il giudice, in caso di imputazione coatta, sia tenuto a fissare l’udienza preliminare entro due giorni dalla formulazione Il riferimento è a G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in AA. VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 2000, p. 366. 75 118 CAPITOLO II dell’imputazione da parte del pubblico ministero. Ebbene, taluno reputa che la diversità temporale sia dovuta al fatto che in tale ipotesi è già stato effettuato un controllo approfondito sull’accusa da parte del giudice per le indagini preliminari nel momento in cui ha rigettato la richiesta di archiviazione e, dunque, che il termine di cinque giorni potrebbe essere sembrato al legislatore eccessivo76. Epperò, a noi appare più probabile che la situazione sia dovuta ad una risalente abitudine del nostro legislatore, che solitamente orienta gli interventi novellistici con esclusiva attenzione allo specifico settore su cui li innesta, senza rivolgere attenzione ai coordinamenti sistematici e – cosa più grave – alle ricadute operative. Va poi sottolineato che – al di là della differenza dei cinque o dei due giorni entro cui il giudice deve fissare l’udienza preliminare – l’indicazione delle fonti di prova spetta al pubblico ministero nei casi di fissazione in seguito alla richiesta di rinvio a giudizio e al giudice dell’udienza preliminare in caso di fissazione a seguito di rigetto di una richiesta di archiviazione. In tale ultima ipotesi, l’udienza preliminare non deve essere preceduta dalle informazioni ex art. 415-bis c.p.p., essendosi l’imputato già giovato del “contraddittorio” dinanzi al giudice per le indagini preliminari investito della richiesta di archiviazione77. Di qui la conclusione dell’inesistenza di G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, cit., p. 368. Nella sequenza procedimentale regolata dall’art. 409 c.p.p., l’azione penale viene esercitata nei confronti di chi, citato a comparire all’udienza camerale destinata alla discussione sulla richiesta di archiviazione, ha avuto la possibilità di esercitare prerogative difensive equipollenti a quelle riconosciute dall’art. 415-bis c.p.p., seppur beneficiando di un termine dimezzato. In tal senso cfr. F. CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimento contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, cit., p. 274, nonché G. SPANGHER, Il processo penale dopo la “legge Carotti”, cit., p. 186. Non sono tuttavia mancate interpretazioni di segno contrario sul presupposto che la difesa «avrebbe, a tal punto, solo la possibilità di difendersi nell’udienza preliminare e non anteriormente all’esercizio dell’azione penale subendo il passaggio alla fase processuale 76 77 PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 119 una causa di nullità del decreto di citazione diretta a giudizio, emesso a seguito dell’ordine del giudice per le indagini preliminari di formulare l’imputazione, malgrado la mancata previa notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari78. In ogni caso tra la data di deposito della richiesta, o la data di formulazione dell’imputazione, e la data dell’udienza non può intercorrere un termine superiore a trenta giorni (art. 418 comma 2 c.p.p.). All’imputato ed alla persona offesa è notificato l’avviso della data di udienza unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, con l’avvertimento all’imputato che, non comparendo, sarà giudicato in contumacia (art. 419 comma 1 c.p.p., così come modificato dalla legge n. 144 del 2000). L’avviso è altresì comunicato al pubblico ministero e notificato al difensore dell’imputato con l’avvertimento della facoltà di prendere visione degli atti e delle cose depositate in cancelleria, di presentare memorie e produrre documenti (art. 419 comma 2 c.p.p.). Tra le funzioni dell’udienza preliminare vi è, infatti, anche quella di consentire all’imputato la piena conoscenza degli atti compiuti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, indipendentemente dal fatto che oggi, a seguito dell’innovazione contenuta nell’art. 415-bis c.p.p., l’indagato venga a conoscenza della documentazione relativa alle indagini preliminari al termine delle stesse. Rispetto alla discovery prevista oggi dall’art. 415-bis c.p.p., quella imposta dall’art. 416 comma 2 c.p.p. è più che, invece, l’art. 415-bis c.p.p. mira ad evitare ove non susssistano le condizioni per l’instaurazione del processo» (così D. MANZIONE, Quale processo dopo la “legge Carotti?”, in Leg. pen., p. 248). 78 Cfr., tra le altre, Cass., sez. III, 21 gennaio 2003, P.M. in proc. Garattoni, in Arch. nuova proc. pen., 2003, p. 258; Cass., sez. I, 15 febbraio 2002, n. 12551, in C.E.D. Cass., n. 221451; Cass., sez. VI, 5 dicembre 2002, n. 439/03, in C.E.D. Cass., n. 223331. 120 CAPITOLO II completa, sia perché comprende anche gli atti eventualmente compiuti dal pubblico ministero su richiesta dell’indagato informato della chiusura delle indagini preliminari, sia, ancora, perchè consente allo stesso pubblico ministero di conoscere integralmente gli atti delle eventuali investigazioni difensive, sia, infine, perché estende la conoscenza anche alle eventuali altre parti, a cui consente proprie scelte strategiche. A completamento dell’esegesi sulla richiesta di rinvio a giudizio non può essere tralasciato un cenno sulla sua natura. Ebbene, benché l’art. 419 comma 2 c.p.p. non parli di citazione, talvolta si reputa che la notifica all’imputato della richiesta di rinvio a giudizio e dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare equivalga ad una vocatio in iudicium, la cui mancanza determina nullità assoluta ai sensi dell’art. 179 comma 1 c.p.p.; ed è proprio tale convinzione a confermare che l’udienza preliminare assolve all’esercizio di un diritto dell’imputato, quello del controllo sull’esercizio dell’azione. Si tratta comunque di un diritto disponibile, prevedendosi ai commi 5 e 6 dell’art. 419 c.p.p., rispettivamente, che l’imputato possa rinunciare all’udienza preliminare e che, in tal caso, il giudice debba disporre con decreto il giudizio immediato. 5. Sulle ragioni del rafforzamento delle garanzie di partecipazione dell’imputato. La contumacia dell’imputato. L’apparente spostamento dell’udienza preliminare verso sponde di tipo “dibattimentale”, secondo l’originario progetto “Carotti”, non deriva solo dall’incisivo aumento del “tasso di istruttorietà” di questa udienza, già enfatizzato – lo si è detto – dai primi commentatori79, ma, secondo buona parte della dottrina, dal significativo 79 Così P. MOSCARINI, Verso una riforma degli istituti di garanzia e predibattimenta- PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 121 accostamento a talune regole che disciplinano lo svolgimento del dibattimento. L’osservazione sembrerebbe confermata dalla estensione, all’udienza preliminare, della disciplina della contumacia prima riservata esclusivamente al dibattimento – essendo questo il luogo del “contraddittorio” – e dalla acquisita rilevanza, sempre nella stessa udienza, dell’impedimento del difensore. Per altro aspetto, di cui si è detto, la maggiore ampiezza decisoria dell’art. 425 c.p.p. conferita dalla legge n. 479 del 1999 sembra aver modificato in radice l’udienza di cui si discute. L’art. 19 della legge n. 479 del 1999 ha riformato, invero, l’intera fase di verifica della costituzione delle parti, inserendo dopo l’art. 420 c.p.p. gli artt. 420-bis, ter, quater e quinquies, che replicano il contenuto delle norme che fino ad allora avevano regolato la medesima fase nel dibattimento, norme espressamente abrogate dall’art. 37 della legge di riforma, che ha contestualmente integrato l’art. 484 c.p.p. con una clausola di rinvio ai nuovi articoli. Ebbene, per cogliere la finalità della modifica è opportuno ricordare, come chiave di lettura critica di queste disposizioni, che la contumacia è la rilevazione di una situazione soggettiva di assenza dell’imputato, indispensabile ai fini del corretto (= legale) svolgimento della fase del giudizio. Secondo la disciplina ordinaria la contumacia dichiarata in dibattimento comporta effetti particolari ad essa conseguenti, come, ad esempio, la notifica dell’estratto della sentenza all’imputato intesa come momento di conoscenza del provvedimento e come inizio del termine per la impugnazione. Invece, la notifica del decreto di rinvio a giudizio è effetto naturale dell’udienza preliminare, indipendentemente dalla situazione soggettiva dell’imputato, perché è prevista in favore, oltre che dell’imputato contumace, anche le, in Dir. Pen. e Proc., 1999, p. 1439. 122 CAPITOLO II dell’imputato e della persona offesa, comunque non presenti alla lettura (art. 429 comma 4 c.p.p.). Sembra, allora, che la scelta del legislatore di anticipare la declaratoria della contumacia e la estensione della relativa disciplina alla fase dell’udienza preliminare si muova su terreno tutt’affatto diverso. In realtà questa operazione di ortopedia legislativa non corrisponde ad alcuna effettiva esigenza processuale, né è stata imposta dalle modifiche apportate alla disciplina dell’udienza preliminare, anche se – rispetto al passato – assumono più pregnante significato le disposizioni di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 421-quater c.p.p. Sembra allora plausibile ritenere che l’innovazione consegua alla iniziale, radicale modifica della funzione dell’udienza preliminare in udienza pre-dibattimentale. In quella proposta la modifica affidava, a questa, il compito di svolgere la verifica della costituzione delle parti per tutto il giudizio. Epperò, nonostante l’abbandono dell’originario progetto, è sopravvissuta la disciplina della contumacia in udienza, passivamente recepita nonostante le attività necessarie alla dichiarazione di contumacia e gli effetti a questa connessi non abbiano efficacia per il dibattimento80. Ontologicamente diverso, e per certi aspetti di discutibile utilità, il trapianto nell’udienza preliminare della disciplina complessiva sulla “assenza” dell’imputato, termine qui inteso come comprensivo di tutte le situazioni soggettive rilevanti ai fini della partecipazione dell’imputato all’udienza. Con l’introduzione degli artt. 420-bis e 420-ter c.p.p. il legislatore ha trasfuso, in tali disposizioni, la disciplina degli artt. 485 e 486 c.p.p.; laddove nella formulazione previgente il comma 4 Così L. PISTORELLI, L’udienza preliminare: una nuova cadenza valutativa tra indagine e processo, Relazione tenuta all’incontro di studi organizzato dal Consiglio Superiore della magistratura sul tema “Giudice unico e riforme processuali”, Frascati, 31 gennaio-1 febbraio 2000. 80 PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 123 dell’art. 420 c.p.p. si limitava a richiamare le norme ex artt. 485 comma 1 e 486 comma 2 c.p.p. La nuova disciplina ha dato risposta ad un bisogno di tutela delle ragioni difensive che restavano mortificate da quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui era irrilevante la eventuale giustificazione dell’assenza dell’imputato dall’udienza. Nella nuova disciplina resta comunque l’opzione a favore della non necessarietà della presenza dell’imputato in udienza; ma se questi non si presenta e ricorre una delle tre condizioni previste dall’art. 485 commi 1 e 2 (è sicuro o appare probabile che egli non ha avuto senza sua colpa effettiva conoscenza della citazione; la sua assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento; appare probabile che l’assenza sia dovuta ad impossibilità di comparire cagionata da uno dei primi due eventi) gli è riconosciuto il diritto alla fissazione di una nuova udienza. Da questo punto di vista la nuova disciplina dell’art. 420 c.p.p. si raccorda alla previsione generale dell’art. 127 comma 4 c.p.p. dal momento che anche l’udienza preliminare si svolge con il rito camerale. Al pari di quanto avviene in dibattimento, ove il contumace che compare in udienza può chiedere di essere sottoposto ad esame a norma dell’art. 503 c.p.p., l’imputato contumace in udienza preliminare, ove compaia prima della conclusione della stessa, può rendere dichiarazioni spontanee e chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio previa revoca dell’ordinanza contumaciale. Sul punto va osservato che, diversamente dall’abrogato art. 486 comma 3 c.p.p., secondo il quale l’imputato poteva chiedere di essere sottoposto all’esame solo se la comparizione avvenisse prima dell’inizio della discussione finale, uguale limite temporale non è previsto per l’udienza preliminare; sicché il diritto di essere interrogato sembra possa essere esercitato dall’imputato anche quando compaia al momento delle conclusioni delle parti. 124 CAPITOLO II Se è così, desta qualche perplessità la conclusione secondo cui restano comunque validi gli atti compiuti in precedenza; pur se la possibilità per il giudice di disporre l’assunzione o la rinnovazione degli atti rilevanti, ove l’imputato ne faccia richiesta e dimostri che la prova è sopravvenuta con ritardo senza sua colpa, assicura tutela del diritto al contraddittorio. L’art. 420-quinquies c.p.p. riproduce, infine, il testo dell’abrogato art. 488 c.p.p. avente ad oggetto la disciplina dell’assenza o dell’allontanamento volontario dell’imputato. In base alla nuova norma, anche nell’udienza preliminare il procedimento viene trattato pur in presenza delle condizioni previste dagli artt. 420-bis e 420-ter c.p.p., se è l’imputato a chiederlo o a consentirlo; analogamente l’udienza preliminare si svolge se l’imputato detenuto rifiuta di assistervi. Lo stesso articolo esplicita l’applicabilità degli istituti dell’assenza (qui intesa in senso stretto) e dell’allontanamento volontario dell’imputato all’udienza preliminare, delineando un modello analogo a quello che era previsto per il dibattimento dall’articolo 488 c.p.p. (ora abrogato dall’articolo 39 comma 2 della legge n. 479 del 1999). Invero, per il comma 1 dell’art. 420-quinques, le disposizioni degli articoli 420-bis e 420-ter c.p.p. non si applicano quando l’imputato, anche se impedito, chiede o consente che l’udienza avvenga in sua assenza o, se detenuto, rifiuti di assistervi. L’imputato in tali casi è rappresentato dal difensore; per quanto già detto la funzione di rappresentanza è meramente formale. Senza ampliare il discorso ai princípi generali della materia, sembra potersi affermare che nell’ipotesi di specie si è fuori dai casi di rappresentanza intesa nel senso della teoria generale del diritto, anche perché l’unico caso già espressamente regolato è quello dell’art. 423 comma 1 c.p.p. a proposito delle contestazioni suppletive. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 125 In queste situazioni, e pure a prescindere dal tipo e dal modo della investitura, gli effetti della rappresentanza – cioè il trasferimento in testa al rappresentante dei poteri del rappresentato – non si realizzano, facendo così venir meno il profilo funzionale e finalistico dell’istituto81. Sulla stessa linea appare priva di reale utilità anche la previsione del comma 2, secondo cui l’imputato che si allontani dall’udienza dopo essere comparso è considerato presente ed è rappresentato dal difensore. Quello che manca è la finalizzazione di queste situazioni soggettive alle conseguenze in ordine alla modalità di comunicazione degli atti all’imputato, a diverso titolo assente. Si prevede, infine, che l’ordinanza dichiarativa della contumacia debba essere allegata al decreto che dispone il giudizio: dei suoi naturali effetti sul giudizio nessuna traccia, però, dal momento che va in ogni caso rinnovata la verifica dei presupposti per la dichiarazione di contumacia in dibattimento (art. 420-quater comma 7 c.p.p.). In definitiva e in una visione complessiva della nuova disciplina, si ha l’impressione che il legislatore abbia voluto regolare più i poteri dell’imputato che compare dopo una iniziale assenza, che non le situazioni soggettive qui richiamate. Queste, insomma, sono qui usate secondo criteri naturalistici più che dogmatici e, quindi, secondo logiche funzionali diverse da quelle utilizzate dal legislatore per il dibattimento. In questa prospettiva è opportuno domandarsi se gli istituti qui evocati si avviano ad una nuova dimensione concettuale che sradica l’attuale stabilità dogmatica, dal momento che la enunciazione legislativa non recupera – contemporaneamente alla disciplina – gli effetti già predisposti per quegli istituti. 81 Per i profili di carattere generale e per le distinzioni semantiche cfr. G. RICCIO, Rappresentanza, in Enc. giur., Roma, 1988, Vol. XXV. 126 CAPITOLO II 6. Segue: l’impedimento del difensore. Il giudice dispone, altresì, il rinvio dell’udienza nel caso di assenza del difensore, ove risulti che l’assenza stessa sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, purché prontamente comunicato (art. 420-ter c.p.p.). La ragione è evidente. La nuova strumentalità di questa udienza ad una più complessa valutazione della utilità del processo (cfr. nuovo art. 425 c.p.p.) e – ancor di più – alla introduzione del rito abbreviato (cfr. i nuovi artt. 438 e seguenti c.p.p.) richiede la presenza del difensore, in questa dimensione reale ausilio alle scelte operative dell’imputato; e solo il difensore di fiducia può assumersi questa responsabilità. Per taluno la nuova disciplina risponderebbe all’esigenza di omologare l’udienza preliminare a quella del dibattimento, dal momento che l’udienza preliminare è divenuta momento centrale del procedimento penale. Pur se è così, ciò non giustifica le modifiche in esame. La nuova dimensione dell’udienza si misura sull’ampliamento dei poteri istruttori, esercitabili anche nella prospettiva dell’eventuale giudizio, sempre che non facciano confluire la vicenda verso conclusioni contestuali all’udienza. In questa chiave va letta la vicenda connessa alla rilevanza dell’impedimento del difensore. In un’udienza in cui si valuta la completezza delle indagini e dove il giudice può – d’ufficio o su istanza di parte – ammettere una serie rilevante di “prove” (termine nuovo dell’art. 422 comma 1 rispetto al previgente art. 422 c.p.p., ove si parlava di “informazioni”); in una udienza nella quale si “gioca”, in qualche modo, la sorte di tutto il processo, l’affermazione dell’irrilevanza dell’impedimento del difensore non accorderebbe adeguata tutela ai diritti della difesa82. 82 Cfr. R. ORLANDI, La prova nel dibattimento penale, Torino, 1999, p. 52. PRESUPPOSTI E FORME DEL CONTROLLO 127 Perciò la sistemazione di questa specifica vicenda nell’udienza preliminare ha risposto al bisogno di far fronte a più complessive esigenze di difesa, piuttosto che ad una paventata modifica strutturale e finalistica dell’udienza preliminare. In effetti, se mediante i nuovi strumenti si offrono al giudice (solitamente su sollecitazione della difesa) poteri genericamente definibili di “pre-istruzione” del fatto, anche al fine di una futura possibile anticipazione dei temi probatori del dibattimento, è indispensabile attivare quelle garanzie attraverso la presenza del difensore nell’udienza, anche in chiave di oggettiva “utilità” del contraddittorio ai fini delle decisioni possibili nell’udienza. E’ questa la logica privilegiata dal legislatore; sono queste le esigenze reali in risposta alle quali si può costruire, oggi, il profilo dogmatico del nuovo approccio legislativo ai bisogni della difesa anche nella udienza preliminare: alle modifiche di struttura dovevano seguire necessariamente più incisive garanzie. Del resto, proprio perché gli “accertamenti” operati nell’udienza hanno riconosciuto valore probatorio, la presenza del difensore diventa indispensabile in ragione della natura dell’atto; considerazione, questa, valida già per la precedente disciplina: anche le “informazioni” ex art. 422 c.p.p. avevano uguale valore. La vicenda, insomma, va letta in questa chiave. Va infine ricordato che non si dà luogo a rinvio se l’imputato è assistito da due difensori e l’impedimento riguarda uno soltanto, ovvero quando il difensore impedito ha designato un sostituto o quando l’imputato chiede che si proceda in assenza del difensore impedito (art. 420-ter c.p.p). Si tratta di un radicale cambiamento, essendosi consolidata in passato la giurisprudenza secondo cui “la disposizione dell’art. 486 comma 5 c.p.p., concernente il rinvio del dibattimento in caso di impedimento del difensore, si riferiva alla sola fase del dibattimento e non poteva essere estesa all’udienza preliminare, proprio perché essa ha contenuto e finalità del tutto 128 diversi: a tale udienza era applicabile l’art. 420 comma 3 c.p.p., il quale disponeva che se il difensore dell’imputato non fosse stato presente, il giudice avrebbe dovuto sostituirlo ai sensi dell’art. 97 comma 4 c.p.p., con la nomina di un difensore d’ufficio”. 129 CAPITOLO III CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO SOMMARIO: 1. I nuovi poteri del giudice. Il principio di completezza delle indagini. – 2. Segue: L’attività di integrazione probatoria. – 3. La compatibilità funzionale dell’incidente probatorio in udienza preliminare. – 4. Novum probatorio e modifiche dell’imputazione. – 5. Gli esiti dell’udienza preliminare. – 6. La formazione dei fascicoli processuali. 1. I nuovi poteri del giudice. Il principio di completezza delle indagini. Il ruolo del giudice è stato potenziato dalla “Legge Carotti” del 1999, intervenuta, da un lato, per ampliare e specificare i poteri di sollecitazione investigativa finalizzati ad adeguare il materiale d’indagine raccolto ai bisogni della regola di giudizio (nelle due alternative del rinvio a giudizio o della sentenza di non luogo a procedere); dall’altro, per rendere unidirezionale l’attivazione istruttoria di cui all’art. 422 c.p.p., il cui ambito operativo è stato conseguentemente ridotto. La novella ha inteso dare attuazione al principio di completezza delle indagini, funzionalmente collegato, a sua volta, al principio di obbligatorietà dell’azione penale e all’esigenza di rafforzare la funzione deflattiva dell’udienza1. 1 Il pubblico ministero, invero, pur avendo l’obbligo di esercitare l’azione penale, 130 CAPITOLO III Appare utile, perciò, recuperare la nozione di “completezza delle indagini”, i cui contenuti sono stati efficacemente enucleati dalla Corte costituzionale2. La Consulta ha preso le mosse dal principio di obbligatorietà dell’azione penale in virtù del quale nulla può essere sottratto al controllo di legalità. L’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione – ha precisato – è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; ed è la concreta realizzazione di questo principio cardine a sottrarre a tale organo ogni margine di discrezionalità. La Corte ha chiarito, in sostanza, come in un sistema fondato sul principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) la legalità sancita dall’art. 25 secondo comma della Costituzione rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale ed ha specificato che la concretizzazione nel procedere è salvaguardata attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale. Epperò, poiché “azione penale obbligatoria” non significa consequenzialità automatica tra notizia di reato e processo, né dovere del pubblico ministero di iniziare il processo per qualsiasi notitia criminis, l’obbligo di esercitare l’azione penale sorge solo laddove sia stata verificata la mancanza dei presupposti che rendono doverosa l’archiviazione, che è, appunto, il non esercizio dell’azione (art. 50 c.p.p.) 3. Ha indicato, così, le condizioni necessarie per l’esplicarsi ha il dovere di rispettare le condizioni previste dalla legge. Il numero di assoluzioni in dibattimento, di gran lunga superiore al limite fisiologico, aveva dimostrato, invece, che troppo spesso l’azione penale era esercitata o infondatamente o senza adeguato supporto di indagini. L’obiettivo principale che il legislatore del 1999 ha inteso perseguire è stato, pertanto, quello di ostacolare l’esercizio apparente dell’azione penale che si realizza tutte le volte in cui il pubblico ministero svolge indagini incomplete ed insufficienti. 2 Corte cost., sentenza n. 88 del 15 febbraio 1991 che richiama il precedente costituito dalla sentenza n. 84 del 26 luglio 1979. 3 Il pubblico ministero – a norma degli artt. 326 e 358 c.p.p. – ha, infatti, il dovere di compiere ogni attività necessaria ai fini delle determinazioni inerenti all’esercizio del- CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 131 di quella funzione ed i fini che qualificano il concetto di obbligatorietà; ed ha affrontato, chiarendolo in maniera ineccepibile, il tema del “rapporto servente” tra funzione di controllo ed attuazione del precetto costituzionale4. Invero, se il limite implicito alla obbligatorietà dell’azione, razionalmente intesa, vieta che il processo sia instaurato quando si manifesti oggettivamente superfluo, è necessario prevedere adeguati meccanismi di controllo delle valutazioni di oggettiva non superfluità della stessa, per scongiurare il pericolo di scelte arbitrarie del pubblico ministero. Il chiarimento è importante, dal momento che, solo se si recupera quest’impostazione e si valorizza la “dimensione collaborativa” della funzione di controllo del giudice rispetto all’esatta attuazione del dettato costituzionale dell’art. 112 Cost., si può individuare una linea di “corretta impostazione” dei rapporti tra azione e giurisdizione, che conduca ad assorbire senza contrasti anche i momenti d’intervento del giudice nelle scelte del pubblico ministero. Spesso, invece, il controllo esercitato dal giudice sulla comple- l’azione penale (cioè, delle richieste o di archiviazione o di rinvio a giudizio), ivi compresi gli accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Viene, con ciò, stabilito il principio di «completezza» (almeno tendenziale) delle indagini preliminari, che nella struttura del nuovo processo assolve una duplice, fondamentale funzione. La completa individuazione dei mezzi di prova è, invero, necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato, “saltando” l’udienza preliminare) e per indurre l’imputato ad accettare i riti alternativi: ciò che è essenziale ai fini della complessiva funzionalità del sistema, ma presuppone, appunto, una qualche solidità del quadro probatorio. Dall’altro lato, il dovere di completezza funge da argine contro eventuali prassi di esercizio «apparente» dell’azione penale che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale. 4 Il principio di obbligatorietà dell’azione esige che nulla venga sottratto al controllo di legalità effettuato dal giudice: ed in esso è insito, perciò, quello che in dottrina viene definito favor actionis. In questa prospettiva l’archiviazione risponde all’esigenza di evitare il processo superfluo, senza eludere il principio di obbligatorietà con il controllo sulla legalità dell’inazione. 132 CAPITOLO III tezza delle indagini (nel doppio versante azione/non azione), o sulla corrispondenza tra fatto e contestazione, viene interpretato come espressione di una sorta di ius corrigendi5 e, conseguentemente, viene mal vissuto dal pubblico ministero. Per converso, l’inerzia del pubblico ministero (contegno di per sé neutro) rispetto all’indicazione di temi d’indagine od alla sollecitazione per la modifica dell’imputazione viene, talora, erroneamente letta come negligenza (se non addirittura come dolosa inattività) del magistrato. Nulla di più sbagliato. L’intervento del giudice nella vicenda procedimentale ha la funzione di assicurare, attraverso la dimensione triadica dell’udienza6, un confronto tra la prospettiva di conoscenze (necessariamente solitaria) del pubblico ministero e quella delle altre parti (prima tra tutte la difesa dell’imputato), in modo che la sintesi condensata nel provvedimento giurisdizionale esprima, fortificando la funzione di controllo, la sua natura di strumento di assicurazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Correttamente intesa la nozione di “completezza”, appare anche più agevole comprendere in cosa consista la situazione di impasse che impedisce la decisione allo stato degli atti, assumendo quella nozione – come si vedrà – una connotazione diversa a seconda che la si proietti sulle differenti situazioni rispettivamente considerate dall’art. 421-bis o dall’art. 422 c.p.p. Infatti, nel primo caso, la necessità di arricchimento conoscitivo in cui si sostanzia l’ordine di supplemento istruttorio non è collegata in via specifica ad uno dei possibili epiloghi dell’udienza preliminare; nel secondo, invece, il punto di orientamento è offerto dalla nuova regola di 5 L’espressione è di N. RUSSO, La formazione anticipata della prova e le attività di integrazione investigativa e probatoria del giudice, in Quaderni di Scienze Penalistiche, Napoli, 2008, p. 399. 6 Per una approfondita riflessione sul tema si veda C. IASEVOLI, L’apparente indeterminatezza della funzione di controllo del giudice dell’udienza preliminare, cit., p. 121 ss. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 133 giudizio delineata dall’art. 425 del codice7. Ma sul punto si ritornerà. E, dunque, nel momento in cui è apparsa chiara la necessità di riconoscere dignità al principio di completezza delle indagini non solo nella prospettiva dell’archiviazione, bensì anche in quella dell’esercizio dell’azione, il legislatore ha elaborato un meccanismo di controllo e di rimedio alle indagini incomplete, inserendo la disposizione di cui all’art. 421-bis c.p.p.8. In tal modo il potere di controllo assegnato al giudice dell’udienza preliminare si arricchisce di un importante strumento teso a rendere concretamente efficiente la funzione di filtro dell’udienza. Invero, l’attività del giudice si esplica in funzione collaborativa e strumentale al conseguimento del livello di completezza della piattaforma d’accusa su cui si va ad esprimere la verifica della domanda di giudizio. Ed in ciò consiste l’azione in senso concreto, punto di orientamento costituzionale e dommatico del nuovo modello processuale di fine anni ’809. Presupposto logico-normativo dell’attivazione del potere d’in- 7 Così A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, in Le recenti modifiche al codice di procedura penale, cit., p. 409, «che costituisce l’ambito di riferimento della valutazione del giudice (...). Il contenuto della regola di giudizio indirizza ovviamente la valutazione del giudice e ne caratterizza la sua latitudine». 8 La finalità della modifica – chiaramente esplicitata nei lavori preparatori – è stata quella di rafforzare i poteri di intervento del giudice dell’udienza preliminare per consentirgli di giungere ad una integrazione del materiale probatorio qualora lo ritenga insufficiente per la decisione. In questo modo si è inteso evitare che il giudice, pur in presenza di carenze riferibili alla fase delle investigazioni, disponga il rinvio a giudizio nella convinzione che sarà il dibattimento a colmare le già riconosciute lacune probatorie. In argomento, in dottrina, L. SARACENI, Giudice dell’udienza preliminare e nuovi poteri istruttori, in Foro it., 2001, V, c. 304; A. SCALFATI, L’udienza preliminare. Profili di una disciplina in trasformazione, cit., p. 76; A. DE CARO, Poteri probatori del giudice e diritto alla prova, cit., p. 156; N. GALANTINI, La nuova udienza preliminare, in Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 110. 9 V. sul punto, diffusamente, Capitolo I, § 2, nonché G. RICCIO, Il controllo sull’esercizio dell’azione penale, in Il diritto processuale penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a cura di G. Conso, Napoli, 2006, p. 100 ss. 134 CAPITOLO III tegrazione investigativa, dunque, è la sussistenza di una situazione d’incompletezza delle indagini preliminari; presupposto per accedere al potere di integrazione delle indagini svolte dal pubblico ministero è, cioè, l’individuazione, da parte del giudice, di una o più lacune investigative che non rendono possibile la decisione allo stato degli atti, lacune rimovibili attraverso un supplemento istruttorio10. Il meccanismo è il seguente: terminata la discussione, se il giudice ritiene di poter decidere allo stato degli atti, la dichiara chiusa ed emana il decreto con cui dispone il giudizio accogliendo la richiesta del pubblico ministero, oppure, nel caso in cui disattenda la richiesta, pronunzia sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. Può accadere, tuttavia, che al termine della discussione il giudice non sia in grado di decidere allo stato degli atti perché la stessa ha evidenziato l’incompletezza delle indagini. In tale ipotesi gli è riconosciuto il potere di emettere un’ordinanza con la quale indica al pubblico ministero le ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza, con comunicazione al procuratore generale affinché possa disporne, qualora ne reputi l’opportunità, l’avocazione (art. 421-bis comma 2 c.p.p.)11. 10 Una diversa prospettiva, che tendesse a legittimare genericamente l’esercizio del potere tutte le volte in cui occorre “vederci più chiaro”, postulerebbe, da un lato, il rischio di un impulso svincolato dal perimetro evidenziabile dalle investigazioni – accentuando dubbi sulla neutralità del giudice in vista degli esiti della fase – e, dall’altro, si presenterebbe eccentrico rispetto al grado di “sufficienza” del materiale istruttorio richiesto per la pronuncia (A. SCALFATI, La riforma dell’udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit., 2828-2829). 11 Il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare, con cui vengono indicate al pubblico ministero le ulteriori indagini da compiere, ha – per espressa indicazione della rubrica normativa – la forma dell’ordinanza. La dottrina, non ha mancato di sottolineare, tuttavia, come “a prescindere dalla previsione della legge, la suindicata tipologia del provvedimento sarebbe stata comunque effetto della fase nella quale esso viene adottato, cioè quella della conclusione delle discussioni e, quindi, nel pieno contraddittorio delle parti”. Così, testualmente N. RUSSO, La formazione anticipata della prova e le attività di integrazione investigativa e probatoria del giudice, cit., p. 407. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 135 Oggi, dunque, per effetto dell’art. 421-bis c.p.p., ed in perfetto parallelismo con l’analogo controllo che spetta al giudice per le indagini preliminari ex art. 409 c.p.p. in caso di richiesta di archiviazione del pubblico ministero, al giudice dell’udienza preliminare è attribuito il potere di ordinare il completamento delle indagini. Tuttavia, secondo l’orientamento prevalente in dottrina12, una corretta lettura della disposizione impone di ritenere che la scelta del giudice di emettere l’ordinanza di integrazione delle indagini non fondi sull’assoluta impossibilità di decidere allo stato degli atti, bensì sulla opportunità di differire l’epilogo dell’udienza preliminare per evitare che la decisione possa essere condizionata dalla mancanza di elementi conoscitivi importanti. Si ritiene, cioè, che l’impossibilità del giudice di decidere allo stato degli atti possa derivare dalla volontà di emettere una pronuncia a seguito di un accertamento completo, relativo, cioè, a tutte le – e non solo ad alcune delle – ipotesi di ricostruzione del fatto suggerite dagli elementi già acquisiti. In sostanza, il giudice dell’udienza potrebbe disporre dei poteri di cui all’art. 421-bis c.p.p. ogniqualvolta voglia evitare di emanare una decisione motivata da una valutazione inficiata da lacune investigative. Ciò conferma quanto detto circa la volontà del legislatore del 1999 di dare centralità al momento “tridimensionale” del controllo sull’azione; ne è testimonianza – sul piano normativo – proprio la scelta di collocare all’esito della discussione il ricorso all’esercizio dei poteri d’integrazione investigativa e probatoria di cui agli artt. 421-bis e 422 c.p.p. Non a caso la stessa Corte di Cassazione, sia pur con motivazione stringata, ha qualificato come irrituale l’integrazione delle indagini disposta dal giudice ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p. pri- 12 Sul punto si veda, per tutti, A. SCALFATI, La riforma dell’udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit., p. 2828. 136 CAPITOLO III ma della discussione delle parti e della formulazione delle relative conclusioni, pur evidenziando che il provvedimento – senza conseguenze sul piano processuale – è da intendersi comunque emesso nella sede propria dell’udienza preliminare e previa conoscenza del contenuto del fascicolo del pubblico ministero13. Sul piano sistematico, poi, è importante evidenziare che l’ordinanza, con la quale il giudice dell’udienza preliminare indica al pubblico ministero le ulteriori indagini, non determina una regressione del procedimento; ciò si evince chiaramente dalla circostanza che il giudice fissa contestualmente la data per il prosieguo dell’udienza e che il pubblico ministero, all’esito delle indagini, non è tenuto a formulare una nuova richiesta di rinvio a giudizio, avendo già esercitato l’azione. Di conseguenza, le modifiche dell’imputazione, che dovessero ritenersi necessarie alla stregua delle indagini indicate dal giudice e compiute dallo stesso pubblico ministero, potranno essere effettuate soltanto ex art. 423 c.p.p., una volta ripresa l’udienza preliminare. Si tratta, dunque, di una sorta di parentesi che si apre nel corso dell’udienza preliminare e che non pregiudica le ulteriori determinazioni delle parti e del giudice. La conclusione appare obbligata, laddove si consideri che l’ordinanza in parola va adottata prima della chiusura della discussione, e non dopo (cfr. art. 421-bis c.p.p.: “quando non provvede a norma del comma 4 dell’art. 421...” e, cioè, quando non dichiara chiusa la discussione). 13 Cass., sez. I, 24 maggio 2002, n. 25546, in C.E.D. Cass., n. 222785. Con questa decisione (della quale si condivide l’esclusione del carattere di abnormità del provvedimento) la Corte non sembra aver apprezzato a pieno l’incongruità di una valutazione anticipata sul materiale prospettato dall’accusa senza il preventivo confronto delle parti e tale da avallare, forse, l’applicazione in questa fase di una soluzione giurisprudenziale simile a quella, affermatasi nel tempo, che ha ritenuto ammissibile il ricorso allo strumento dell’art. 507 c.p.p. prima della chiusura dell’istruttoria dibattimentale. Sembra così che la Corte abbia confuso i due momenti valutativi, non cogliendo la diversità delle rispettive regole di giudizio. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 137 Il punto è tuttavia controverso e la questione non è per nulla teorica, se si considera che essa involge la problematica della rilevanza endofasica di investigazioni svolte autonomamente dalle parti nel corso dell’udienza preliminare. Ebbene, a nostro avviso, con la fissazione della nuova udienza non si ha una rimessione in termini delle parti, perché non si è di fronte ad una nuova discussione; si ha solo una prosecuzione dell’originaria discussione, mai dichiarata chiusa e temporaneamente sospesa in attesa dell’esito delle indagini svolte dal pubblico ministero su indicazione del giudice14. 14 Per comprenderne appieno la rilevanza, occorre partire dalla premessa che, alla stregua di quanto desumibile dall’art. 421 comma 3 c.p.p., il materiale su cui si fonda il convincimento del giudice dell’udienza preliminare è rappresentato non solo dagli atti contenuti nel fascicolo trasmesso dal pubblico ministero congiuntamente alla richiesta di rinvio a giudizio (che dovrà contenere anche il fascicolo delle investigazioni difensive ai sensi di quanto previsto dall’art. 391-octies comma 3 c.p.p.), ma anche dagli atti d’indagine suppletiva compiuta dal pubblico ministero dopo detta richiesta e dalle investigazioni delle altre parti private. Si consideri, poi, che le parti, prima della discussione, potranno chiedere al giudice l’ammissione di atti e documenti (arg. ex art. 421 comma 3 c.p.p.). Se si ritenesse che con l’udienza di rinvio ha inizio una nuova fase di discussione, dovrebbe riconoscersi alle parti il potere di richiedere la valutazione del giudice anche sugli ulteriori elementi di indagine compiuti parallelamente all’attività d’integrazione istruttoria. A sostegno di questa tesi si invocano gli artt. 327-bis e 391-octies c.p.p., per dedurre l’inesistenza di un termine di conclusione. Ebbene, a nostro avviso, è inconferente il richiamo all’art. 327-bis c.p.p., trattandosi di disposizione che attiene al rapporto professionale tra difensore ed assistito. Quanto all’art. 391-octies c.p.p., e, dunque, in ordine alla facoltà del difensore di presentare direttamente “all’udienza preliminare” gli elementi di prova a favore del proprio assistito, si ritiene che vada inquadrata nel profilo strutturale dell’udienza preliminare, caratterizzato da due fasi (costituzione delle parti e discussione). Non si discute, invero, che in virtù della disciplina introdotta dalla legge n. 397 del 2000 i difensori di tutte le parti possano svolgere attività investigativa non solo durante le indagini preliminari ma anche prima dell’instaurazione di un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies c.p.p.); bensì, al pari del pubblico ministero, anche attività investigativa cd. “suppletiva” (cfr. art. 419 comma 3 c.p.p.) dopo la presentazione della richiesta di rinvio a giudizio, e attività investigativa cd. “integrativa” dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio (cfr. art. 430 c.p.p.). Epperò, dal combinato disposto degli artt. 419 comma 3 e 421 comma 3 c.p.p. si desume che la documentazione relativa alle indagini espletate da tutte le parti dopo la richiesta di rinvio a giudizio va ammessa dal giudice “prima dell’inizio della discussione”. Dunque, l’inizio della discussione segna il “limite” per l’ammissione della documentazione relativa alle indagini espletate dal pubblico ministero e dalle altre parti dopo la richiesta di rinvio a giudizio. 138 CAPITOLO III La possibilità, per una delle parti, di produrre, alla nuova udienza, gli esiti di nuove investigazioni, da un lato, significherebbe vanificare la funzione di controllo della completezza delle indagini (l’esercizio di siffatta funzione presuppone la tendenziale cristallizzazione del materiale oggetto del sindacato del giudice); dall’altro, provocherebbe una eccessiva dilatazione dei tempi di definizione del processo in quanto, per ovvie ragioni di garanzia, si dovrebbe consentire anche alle altre parti di svolgere ulteriori investigazioni; e ciò soprattutto nei casi in cui la documentazione relativa alle investigazioni svolte da una delle parti private fosse prodotta dopo il deposito da parte del pubblico ministero degli atti relativi all’integrazione istruttoria, richiesta dal giudice ai sensi dell’art. 131 disp. att. c.p.p. In particolare, ove le nuove investigazioni svolte dal difensore di una delle parti costituissero una sorta di “controprova” alla prova risultante dalle indagini svolte dal pubblico ministero su indicazione del giudice, potrebbe innescarsi (e ciò soprattutto allorquando sulla scena processuale vi fossero più parti, tutte legittimate a svolgere attività di investigazione difensiva) un meccanismo di eccessiva e abnorme dilazione della durata del processo, non potendo certo il giudice rifiutare i rinvii chiesti per svolgere indagini “in controdeduzione” agli esiti delle indagini di controparte. Non rappresenta un’insuperabile obiezione il fatto che la Corte Costituzionale abbia affermato che, ove le indagini suppletive del pubblico ministero avvengano in termini tali da non consentire un’adeguata difesa, spetti al giudice regolare le modalità di svolgimento dell’udienza preliminare anche attraverso congrui differimenti, sì da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio15; affermazione pronunciata in 15 Cfr. Corte Cost., sentenza n. 16 del 3 febbraio 1994. La questione di legittimità costituzionale fu sollevata dal Tribunale militare di Padova con ordinanza del 16 marzo CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 139 occasione del rigetto della questione di legittimità degli artt. 419 comma 3 e 421 comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevedono un termine (anteriore all’inizio della discussione) per l’adempimento, da parte del pubblico ministero, dell’obbligo di trasmettere al giudice per l’udienza preliminare la documentazione relativa agli atti di indagine compiuti dopo la richiesta di rinvio a giudizio Infatti, la soluzione offerta dalla Consulta non appare più coerente all’attuale sistema, nel quale ciascuna parte (non solo il pubblico ministero) può svolgere investigazioni suppletive per ricercare ed individuare elementi di prova in favore del proprio assistito. Consegue da quanto esposto che, anche sul piano meramente funzionale, non può ritenersi consentita l’ammissione dei verbali relativi alle indagini svolte dopo la pronuncia dell’ordinanza di cui all’art. 421-bis c.p.p.16. Va tuttavia precisato che, dopo l’inizio della discussione, vale a dire durante lo svolgimento dell’udienza preliminare e quindi 1993. Il giudice a quo aveva dedotto che il termine tutelava, mediante una tempestiva discovery, il diritto dell’imputato ad un effettivo contraddittorio, e aveva rilevato che il deposito degli atti d’indagine “susseguenti” – compiuti sia prima che dopo l’avviso ex art. 419 comma 3 c.p.p. – era avvenuto in modo da consentire a malapena alla difesa una mera lettura. Aveva quindi osservato che il deposito, nella stesura finale del codice, era stato trasformato da facoltà in obbligo proprio per consentire all’imputato di vagliare adeguatamente la linea difensiva alla stregua di tutti gli elementi gravanti a suo carico, e che nella stessa prospettiva di salvaguardia del contraddittorio si collocava la previsione (art. 419 comma 4 c.p.p.) di un intervallo di dieci giorni tra l’udienza preliminare e la notifica del relativo decreto di fissazione. 16 Del resto, anche con riferimento al giudizio abbreviato abbiamo ritenuto non soddisfacente il rimedio del rinvio dell’udienza, anche se esso appare utile all’espletamento di attività dell’accusa, necessarie a contrastare le allegazioni difensive attraverso il meccanismo delle investigazioni suppletive. Ed, invero, benché non sia espressamente prevista l’immediatezza della decisione, la presentazione della richiesta di giudizio abbreviato preclude la continuazione dell’udienza preliminare e delle attività proprie della stessa; sicché il giudice non potrebbe riservarsi di ammettere il giudizio speciale e disporre prima le integrazioni probatorie previste dagli artt. 421-bis e 422 c.p.p. (cfr. Corte cost., ordinanza n. 62 del 2 marzo 2007, in Giur cost., 2007, p. 588, con nota critica di V. MAFFEO, Investigazioni difensive e rito abbreviato. Un’occasione mancata della Corte costituzionale). 140 CAPITOLO III anche dopo la pronuncia dell’ordinanza per l’integrazione delle indagini, non è precluso al pubblico ministero e ai difensori delle altre parti lo svolgimento di ulteriori attività investigative, in virtù del principio di continuità delle indagini enucleato dalla Corte Costituzionale17. Tuttavia gli esiti delle stesse non potranno essere ammessi dal giudice dell’udienza preliminare, potendo solo essere utilizzati dalle parti o per sollecitare i poteri di integrazione probatoria del giudice di cui all’art. 422 c.p.p. ovvero ai fini di una eventuale richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere18. Per quanto riguarda la vincolatività dell’ordinanza, essa è confermata dalla norma che prevede per il pubblico ministero l’obbligo di uniformarsi all’indicazione del giudice, obbligo reso palese dall’avviso al procuratore generale della Repubblica. Del resto, se l’ordinanza in questione prevedesse per il pubblico ministero l’esercizio di una mera facoltà senza alcuna conseguenza, non si comprenderebbe il riferimento operato dall’art. 421-bis all’art. 412 comma c.p.p., e cioè al potere di avocazione del procuratore generale. Tuttavia il legislatore nulla ha previsto per l’ipotesi in cui il pubblico ministero non adempia a tale obbligo. Deve ritenersi, perciò, che il giudice, ove il pubblico ministero non compia le indagini indicategli, non disporrà di alcun rimedio processuale, tanto meno oggi, a seguito della nuova formulazione dell’art. 422 c.p.p. che circoscrive l’attività d’integrazione probatoria nell’ambito della prova decisiva a discarico. Il giudice dovrà, perciò, portare a conclusione l’udienza preliminare, traendo le dovute conseguenze dalla circostanza che il materiale investigativo non è stato integrato così come egli aveva richiesto. Cfr. la sentenza citata alla nota immediatamente precedente. Sul punto si è espresso così il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torre Annunziata nella sentenza 25 novembre 2004, imp. Cappiello, massimata in Guida al diritto, 2005, fasc. 8, p. 96, dalla cui motivazione sono tratte le argomentazioni riferite nel testo. 17 18 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 141 Non sembrano porsi dubbi, invece, sulla possibilità di proroga del termine stabilito per il compimento delle indagini indicate. Al riguardo si può richiamare quanto sostenuto dalla Corte di cassazione in plurime e successive sentenze in relazione all’analoga situazione verificabile all’esito delle indagini ordinate ai sensi dell’art. 409 c.p.p.19, nonché in ragione di quanto ritenuto dalla Corte costituzionale20. Questa ha precisato che la formulazione letterale dell’art. 409 quarto comma c.p.p. riserva al giudice ‹‹il potere di fissare “il termine indispensabile” per il compimento delle ulteriori indagini, che postula con evidenza che al rigoroso meccanismo legale che predetermina la durata delle indagini preliminari viene a sostituirsi una ‘flessibile’ delibazione giurisdizionale volta a calibrare il termine stesso in funzione della relativa indispensabilità al V. Cass., sez. I, 7 giugno 2000 n. 3191, in C.E.D. Cass., n. 216099; Cass., sez. III, 9 luglio 2002 n. 37565, in C.E.D. Cass., n. 223674; Cass., sez. V, 17 febbraio 2005 n. 11085, in C.E.D. Cass., n. 231222, nelle quali la Corte ha affermato che ‹‹la disciplina degli artt. 405, 406 e 407 c.p.p. riguarda l’esercizio dell’azione penale e l’espletamento delle indagini preliminari che competono per funzione propria e originaria al pubblico ministero, per i quali sono stabiliti rigorosi termini di durata sotto il controllo del giudice. Questa disciplina non si applica più quando il pubblico ministero ha formulato le sue richieste, aprendo così una ulteriore fase del procedimento durante la quale il giudice per le indagini preliminari controlla nel merito la fondatezza delle richieste del pubblico ministero, siano esse di archiviazione o di rinvio a giudizio. È in questa fase e nell’ambito di questa specifica funzione di controllo che il giudice può anche esercitare un potere di impulso investigativo ai sensi del quarto comma dell’art. 409 c.p.p., analogamente al potere di integrazione istruttoria ex officio che spetta al giudice del dibattimento ai sensi dell’art. 507 c.p.p. Una siffatta disciplina, che indubbiamente stempera la purezza del sistema accusatorio, è stata consapevolmente adottata dal legislatore al fine di apprestare un rimedio contro le inerzie o le negligenze del pubblico ministero. Alla luce di questa ratio ispiratrice non ha alcun senso che continuino a operare in questa fase i termini di durata delle indagini preliminari stabiliti dall’art. 407 c.p.p., che sono invece sostituiti dai termini appositamente fissati dal giudice ex art. 409 comma 4 c.p.p. analogamente al caso dell’avocazione, nel quale decorrono per le indagini i nuovi termini fissati dall’art. 412 c.p.p.››. 20 Una volta formulate le richieste (conseguenti alla chiusura delle indagini preliminari), la disciplina dei termini stabilita dagli artt. 405, 406 e 407 c.p.p. non ha più modo di operare, risultando tale disciplina in funzione dell’attività di indagine compiuta d’iniziativa del pubblico ministero, assoggettata al controllo del giudice quanto all’osservanza dei termini stabiliti dalla legge o prorogati. 19 142 CAPITOLO III compimento di quelle ulteriori indagini che il medesimo giudice è chiamato ad indicare››21. Alla stregua di quest’orientamento può concludersi che il termine per le indagini richiamato dall’art. 421-bis c.p.p. non ha natura perentoria, trattandosi non di un termine fissato con carattere di generalità dalla legge, bensì dal giudice sulla scorta di una delibazione di congruità compiuta ex ante e che, come tale, è rivisitabile. Un problema posto nella prassi riguarda la possibilità per il pubblico ministero, che non riesca a completare le indagini stabilite dal giudice dell’udienza preliminare, di avanzare la richiesta di proroga anche medio tempore: si tratta cioè di stabilire se, per chiedere detta proroga, sia tenuto ad attendere l’udienza di prosecuzione. Ebbene, se è da escludersi la prosecuzione autonoma delle indagini senza la presentazione di alcuna richiesta di proroga22, nulla vieta, a nostro avviso, che il pubblico ministero avanzi la richiesta di proroga prima della data di prosecuzione dell’udienza preliminare, dando conto delle ragioni per le quali non è stato possibile rispettare il termine assegnato, sempre che l’attività d’indagine residua riguardi i temi indicati nell’ordinanza ex art. 421-bis c.p.p. Peraltro, il controllo del giudice opera nei limiti appena indicati, dal momento che la delibazione della richiesta non richiede un nuovo “contraddittorio”: la necessità del compimento dell’attività d’indagine suppletiva è stata, infatti, ab origine ritenuta dal giudice, all’atto stesso in cui ha valutato carenti le indagini anteriori alla richiesta di rinvio a giudizio. Cfr. Corte cost., ordinanza n. 436 del 27 novembre 1991. Invero, la mancata conoscenza del termine, originario o prorogato, andrebbe a detrimento dell’esercizio del diritto delle altre parti di prendere visione ed estrarre copia degli atti, desumibile dal disposto dell’art. 131 disp. att. c.p.p., costringendo le stesse ad una continua verifica presso la cancelleria dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare. Sul punto si veda N. RUSSO, La formazione anticipata della prova e le attività di integrazione investigativa e probatoria del giudice, cit., p. 409. 21 22 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 143 Nel caso in cui il giudice ritenga di non autorizzare la proroga del termine – situazione a dire il vero difficilmente ipotizzabile, avendo già apprezzato la necessità del supplemento istruttorio – l’eventuale rigetto non precluderebbe nuove richieste all’udienza di prosecuzione. Questione più delicata attiene alla possibilità per il pubblico ministero di compiere indagini aggiuntive rispetto a quelle indicate dal giudice. È evidente che la risposta varia a seconda del significato che si attribuisca all’espressione “ulteriori indagini” utilizzata dall’art. 421-bis c.p.p. Risolve affermativamente la questione chi – anche sulla base di quanto affermato dalla Corte costituzionale a proposito dell’omologa nozione presente nella lettera dell’art. 409 c.p.p.23 – ritiene che il giudice debba limitarsi ad indicare in maniera generica “temi” d’indagine da sviluppare, lasciando il pubblico ministero libero di agire in autonomia quanto alla scelta in ordine al contenuto e ai modi di assunzione dei singoli atti d’indagine24. L’orientamen- Il riferimento è alla sentenza n. 253 del 6 giugno 1991. Secondo la Consulta, l’indicazione delle nuove indagini da parte del giudice per le indagini preliminari opera come mera “devoluzione di un tema d’indagine” e il giudice non può formulare una elencazione tassativa degli atti d’indagine in quanto, se così facesse, finirebbe per incidere sul potere-dovere del pubblico ministero di dirigere le indagini il quale, al contrario, deve rimanere libero anche quando si tratti di attività compiute su indicazione del giudice. 24 R. BRICHETTI-L. PISTORELLI, L’udienza preliminare, Milano, 2003, p. 202; nel medesimo senso, E. APRILE, L’udienza preliminare, Milano, 2005, p. 156; A. BARAZZETTA, Gli snodi processuali. La nuova udienza preliminare ed i riti speciali, cit., p. 536. G. VARRASO, Le indagini suppletive ed integrative delle parti, Padova, 2000, p. 55. D. POTETTI, Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare e il nuovo art. 421-bis c.p.p., in Cass. pen., 2000, p. 2156; A.A. SAMMARCO, La richiesta di archiviazione, Milano, 1993, p. 305; S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, cit., 721; D. GROSSO, Art. 20 l. 16.12.1999 n. 479, in Dir. pen. proc., 2000, p. 280. Per E. AMODIO, Lineamenti della riforma, in Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 30, «il giudice può ordinare al p.m. di compiere le sole investigazioni a carico dell’imputato, non essendo concepibile che in una sede giurisdizionale e dopo che l’indagato si è avvalso del potere di sollecitare l’organo dell’accusa ad acquisire elementi probatori pro reo a norma dell’art. 415-bis c.p.p., lo stesso giudice si sostituisca al difensore utilizzando il magistrato inquirente come investigatore a discarico». 23 144 CAPITOLO III to riconosce, tuttavia, la legittimità dell’ordinanza con cui il giudice dell’udienza preliminare provveda ad un’indicazione specifica degli stessi25. Non sembra però persuasivo il parallelismo tra il potere d’intervento del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta d’archiviazione attraverso le cd. “indagini coatte” e quello esercitato dal giudice dell’udienza preliminare mediante l’ordine d’integrazione della piattaforma accusatoria. Invero, nel caso delle indagini coatte di cui all’art. 409 c.p.p., il pubblico ministero non è vincolato alla determinazione originaria, alla non-azione, per cui può autonomamente rivedere la sua scelta ed orientarsi, all’esito delle ulteriori indagini, per una successiva richiesta di rinvio a giudizio; laddove, nel caso in cui, effettuato il supplemento istruttorio di cui all’art. 421-bis c.p.p., si convinca dell’inutilità di prosecuzione del processo, le sue determinazioni non potranno non orientarsi alla pronuncia del proscioglimento ai sensi dell’art. 425 c.p.p.26. A ciò si aggiunga la diversità di effetti dell’eventuale inerzia del pubblico ministero rispetto all’ordine di svolgimento delle indagini. Nel caso di cui all’art. 409 c.p.p., il giudice per le indagini preliminari – una volta indicati i temi d’indagine – non ha più la possibilità d’incidere sull’inattività del pubblico ministero, dal momento che, con la restituzione degli atti, Ritiene che il giudice possa spingersi tuttavia fino all’indicazione di atti di indagini specifici G. GIOSTRA, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, Torino, 1994, seconda ediz., p. 72 e 73. 26 Se è, infatti, vero che in entrambi i casi esso si esprime in modo neutro rispetto alla regiudicanda (potendo avere a contenuto atti d’indagine a favore o contrari all’indagato/imputato) è altrettanto vero che nell’udienza preliminare l’esercizio di tale potere non può non tener conto della strumentalità della valutazione di completezza delle indagini rispetto agli epiloghi dell’udienza preliminare e, quindi, della vocazione degli atti istruttori all’emissione del decreto di rinvio a giudizio od alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere. Dunque, fermo restando il potere autonomo del pubblico ministero e delle altre parti di compiere attività d’indagine suppletiva, è proprio la finalità dell’attività d’integrazione ad imporre necessariamente un perimetro all’espletamento delle indagini rimesse dal giudice al pubblico ministero. 25 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 145 si chiude la fase incidentale d’intervento nell’udienza camerale; nell’ipotesi dell’integrazione prevista dall’art. 421-bis c.p.p., invece, al giudice dell’udienza preliminare residua la possibilità di reiterare la sollecitazione al pubblico ministero nell’udienza già fissata per la prosecuzione27. Più convincente appare, dunque, l’orientamento di quella parte della dottrina secondo cui l’espressione usata nell’art. 421-bis c.p.p., secondo cui il giudice “indica le ulteriori indagini”, sarebbe significativa dell’attribuzione al giudice dell’udienza preliminare di un potere di elencazione specifica degli atti di indagine28; conclusione condivisa, peraltro, da chi ritiene che con il meccanismo descritto dall’art. 421-bis c.p.p. si apra, nella fase processuale, una «parentesi investigativa» del tutto simile a quella delineata dall’art. 430 c.p.p.29. Ma la ragione principale per cui si ritiene maggiormente corretta la soluzione che privilegia l’indicazione specifica degli atti d’indagine – pur non escludendo in via d’eccezione la possibilità di delimitazioni più generiche dei temi d’indagine – è da rinvenirsi nella considerazione secondo cui essa consente di fornire una risposta più adeguata all’obiezione che ha accompagnato sin dall’origine l’introduzione nel tessuto codicistico dell’art. 421bis c.p.p., quella secondo cui il meccanismo descritto dalla nor- 27 Un’ulteriore ma non marginale distinzione è data dal fatto che, a differenza di quanto previsto per le indagini coatte ex art. 409 c.p.p., il giudice che dispone l’integrazione istruttoria nell’udienza preliminare è anche quello che può decidere nel merito eventualmente la regiudicanda (in caso di giudizio abbreviato all’esito della discussione). La differenza in tal caso si spiega in ragione della diversità di fase in cui s’inserisce l’attività di controllo sulla richiesta di archiviazione rispetto a quella del giudizio. 28 P. TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2003, p. 456. 29 ‹‹…. anche se nel caso di cui discutiamo il pubblico ministero non sceglie un nuovo percorso investigativo ma esegue l’ordine del giudice dell’udienza preliminare; quest’ultimo finisce per divenire, e neppure tanto indirettamente, il vero dominus del contenuto probatorio degli atti: atti sui quali dovrà fondare la sua decisione››. A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, cit., p. 419. 146 CAPITOLO III ma avrebbe legittimato forme di esercizio apparente dell’azione penale, con l’aggiramento dei termini delle indagini preliminari30. La “limitazione del campo”, operata attraverso un’espressione tassativa degli atti d’indagine da compiere, impedisce, di fatto, tale eventuale degenerazione del sistema. Notevole contrasto si registra, ancora, in tema di individuazione dei destinatari dell’ordinanza del giudice. Secondo un primo orientamento, l’art. 421-bis c.p.p. – a differenza dell’art. 409 c.p.p.31 – non individuerebbe soltanto nel pubblico ministero il soggetto cui il giudice può demandare il compimento delle indagini; secondo questa tesi, anche le altre parti private potrebbero essere onerate – in tutto od in parte – dell’esecuzione degli atti d’integrazione istruttoria32. La soluzione troverebbe conferma negli articoli dedicati alle investigazioni difensive e, specificamente: a) nell’art. 391-octies c.p.p., il quale, stabilendo al primo comma che “nell’udienza preliminare, quando il giudice deve adottare una decisione con l’intervento della parte privata, il difensore può presentargli direttamente gli elementi di prova a proprio favore”, farebbe riferimento alla situazione considera- La questione, nei termini sopra riportati, è ampiamente trattata da A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, cit., p. 419. In tal modo, infatti, il pubblico ministero si sarebbe sentito autorizzato a non espletare indagini necessarie nei termini dovuti e, ciononostante, avrebbe comunque esercitato l’azione penale (in modo apparente) sapendo che, poi, sarà il giudice, nel corso dell’udienza preliminare, a «restituirlo sostanzialmente in termini» attraverso l’attività investigativa indispensabile a chiarire la questione ed orientare la decisione. 31 In dottrina ha evidenziato il parallelismo rispetto all’omologo potere in capo al giudice per le indagini preliminari a fronte di una richiesta di archiviazione L. SARACENI, Giudice dell’udienza preliminare e ‹‹nuovi›› poteri istruttori, cit., p. 306. 32 È questa l’opinioni di D. POTETTI, Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare e il nuovo testo dell’art. 421-bis c.p.p, cit., p. 2155, per il quale il confronto letterale delle due disposizioni rende palese che l’indicazione non è rivolta, nel caso dell’art. 421-bis c.p.p. come invece nel caso di cui all’art. 409 comma 4 c.p.p., ad un destinatario determinato, ed in particolare non è rivolta al solo pubblico ministero, disponendo l’art. 409 c.p.p. che “…il giudice, se ritiene necessarie ulteriori indagini, le indica con ordinanza al pubblico ministero”. 30 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 147 ta dall’art. 421-bis c.p.p.; b) nell’art. 391-octies comma 3 c.p.p., che prevede il deposito di tale documentazione nel fascicolo del difensore, formato e conservato presso l’ufficio del giudice per le indagini preliminari; c) nell’art. 391-decies c.p.p., che prescrive l’inserimento nel fascicolo del dibattimento della documentazione degli atti non ripetibili presentata nell’udienza preliminare33. La tesi non convince per una pluralità di ragioni34. La prima è di carattere letterale. L’art. 421-bis c.p.p. riferisce chiaramente alle indagini preliminari il connotato dell’incompletezza, stabilendo in relazione ad esse il compimento di “ulteriori indagini” (si perdoni la ripetizione); e nel lessico del codice le indagini sono solo quelle compiute dal pubblico ministero35, laddove l’attività di ricerca dei mezzi di prova affidata al difensore prende il nome di “investigazioni”: ciò è espresso chiaramente, non solo nell’art. 391-bis e seguenti c.p.p., ma anche nella disposizione generale dell’art. 327-bis c.p.p. La seconda riguarda l’erroneità del riferimento compiuto agli artt 391-octies e decies c.p.p. Infatti, oltre al rilievo che entrambe le disposizioni fanno riferimento indifferenziato alla fase delle indagini ed a quella dell’udienza preliminare, si osserva che altra funzione non hanno se non di attribuire alla difesa un potere di allegazione di elementi a proprio favore, simmetrico a quello attribuito al pubblico ministero. In questi termini va letto pure il sugge- 33 D. POTETTI, Il principio di completezza delle indagini nell’udienza preliminare e il nuovo art. 421-bis c.p.p., cit., p. 2155. 34 Nello stesso senso già L. SARACENI, Giudice dell’udienza preliminare e nuovi poteri istruttori, cit., c. 306; A. DE CARO, I poteri probatori del giudice, Napoli, 2005, p. 164; ID., L’integrazione investigative e probatoria nell’ udienza preliminare, cit., p. 417; G. VARRASO, Le indagini suppletive ed integrative delle parti, cit., p. 54 e ss. 35 Per G. VARRASO, Le indagini suppletive ed integrative delle parti, cit., p. 54, è solo il pubblico ministero «il titolare dell’investigazione funzionale alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale» e il potere di avocazione in capo al procuratore generale in caso di inerzia si giustifica solo a fronte di un supplemento istruttorio della stessa parte. 148 CAPITOLO III stivo richiamo al comma 1 dell’art. 391-octies c.p.p., quale norma espressiva del potere della difesa di intervenire sulla decisione del giudice mediante la produzione di elementi a discarico, espressione, in altri termini, di difendersi provando. La terza è che non avrebbe senso, nel caso di indagini “delegate” alla difesa od alle altre parti private, l’avviso al procuratore generale, adempimento stabilito dall’art. 421-bis c.p.p. L’ultima, infine, è che non si comprende come le parti private potrebbero svolgere le indagini indicate dal giudice dell’udienza preliminare senza poteri pubblici di coazione. Sicché, l’ordine del giudice ha senso solo se rivolto al pubblico ministero; che, seppur parte, ha natura pubblica ed è l’unico soggetto che può essere onerato del compimento d’indagini anche a favore dell’imputato. Si ritiene pertanto che, fermo restando il potere delle altre parti di svolgere investigazioni autonome sugli stessi temi dell’integrazione istruttoria, il destinatario del provvedimento del giudice sia soltanto il pubblico ministero. Ancora in tema di ordinanza emessa ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p., la Corte di cassazione36 ha di recente risolto negativamente Cass., sez. IV, 4 gennaio 2004 n. 702, in C.E.D. Cass., n. 227089. La questione proposta alla Corte atteneva alla censura di abnormità dell’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Busto Arsizio, con la quale era stata dichiarata l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese contra alios da alcuni imputati di procedimento connesso ed era stata ordinata la restituzione degli atti al pubblico ministero al fine di provvedere a completare le indagini mediante la rinnovazione dell’esame dei soggetti indicati e di quanti altri avessero reso dichiarazioni contro altri imputati. Il giudice dell’udienza preliminare aveva motivato il provvedimento rilevando che il pubblico ministero, pur avendo depositato la richiesta di rinvio a giudizio in data successiva all’entrata in vigore della legge n. 63 del 2001, non aveva osservato la disposizione di cui all’art. 26 della stessa, che impone al pubblico ministero, nella pendenza delle indagini preliminari, di rinnovare l’esame dei soggetti indicati negli artt. 64 e 197-bis c.p.p. al fine di avvisarli che le loro dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altre persone comporteranno l’assunzione dell’ufficio di testimone in ordine agli stessi. Il giudice dell’udienza preliminare aveva, quindi, ritenuto che le indagini risultavano incomplete ed aveva attivato il meccanismo processuale di cui all’art. 421-bis c.p.p. Nel caso di specie, invece, il giudice dell’udienza preliminare aveva inteso “sanare” un’irregolarità 36 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 149 il dubbio circa la possibilità per il giudice di far ricorso al potere di integrazione delle indagini al fine di consentire la sanatoria di atti affetti da nullità e da inutilizzabilità cd. patologica, escludendo la possibilità che l’integrazione di una lacuna istruttoria possa essere ravvisata anche nell’ipotesi di nullità, inutilizzabilità, o comunque vizio processuale di un atto di indagine37. La tesi della Corte di cassazione non fonda solo sulla base del dato letterale, bensì anche sulla scorta della ritenuta ratio legis38, e, cioè, quella di rendere il più complete possibile le indagini del pubblico ministero e anche di offrire alle parti ed al giudice un quadro degli accertamenti di fatto, tale da favorire l’accesso ad un rito alternativo o da tranquillizzare il giudice in ordine alla scelta tra proscioglimento o rinvio a giudizio. Invero, se la finalità del potere di integrazione istruttoria attiene alla completezza delle indagini preliminari – anche se al fine limitato dell’adozione dei provvedimenti di competenza del giudice dell’udienza preliminare –, è evidente che le espressioni usate dal che – come precisato dallo stesso giudice nell’ordinanza impugnata – avrebbe causato l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da alcune persone sottoposte ad indagini preliminari (art. 64 c.p.p.) ovvero imputate o giudicate in procedimento connesso o per reato collegato (art. 197-bis c.p.p.), 37 Si pensi all’ipotesi in cui il fondamento dell’ipotesi accusatoria sia rappresentato sostanzialmente da dichiarazioni rese dall’indagato che, pur qualificate come spontanee, appaiano invece sollecitate dalla polizia giudiziaria. È evidente che in tal caso si tratta di atti assunti in violazione delle regole poste dall’art. 350 c.p.p. ed inutilizzabili in dibattimento anche ai soli fini delle contestazioni. 38 Al riguardo Cass., sez. IV, 4 gennaio 2004. n. 702, cit., ha ricordato che «la norma di cui all’art. 421-bis c.p.p. si inquadra nell’evoluzione che ha subito la funzione dell’udienza preliminare rispetto all’originaria impostazione legislativa, che, lungi dal valorizzarla come udienza “di filtro”, aveva causato una rilevante prevalenza dei decreti di rinvio a giudizio rispetto ad ogni altro provvedimento (sentenza di proscioglimento; rito alternativo), stante anche i limiti istruttori, soprattutto in procedimenti semplici, con notevole inflazione del carico dibattimentale e rallentamento dei tempi di conclusione dei processi». «In tale ottica», soggiunge la Corte, «sono stati modificati gli artt. 422 e 425 c.p.p., con il primo ampliandosi i poteri di integrazione probatoria del giudice, e con il secondo escludendo “l’evidenza” della sussistenza di una causa di proscioglimento per poter pronunciare la sentenza di non luogo a procedere». 150 CAPITOLO III legislatore, di consentire la restituzione degli atti al pubblico ministero “se le indagini risultano incomplete” e di “indica[re] le ulteriori indagini”, non possono avere altro significato che quello di procedere ad un’integrazione istruttoria, con esclusivo riferimento al merito del procedimento”39. Infine, e ancora sullo stesso oggetto, è controverso in dottrina, ma il dubbio è sostanzialmente teorico, se, dall’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare, scaturisca in capo al pubblico ministero un obbligo, o più semplicemente un onere di esecuzione delle indagini integrative. Sul punto, taluno ritiene trattarsi di “obbligo”, sul presupposto dell’esigenza di completezza delle indagini, a sua volta espressione del principio di obbligatorietà dell’azione40. Per altri, si sarebbe di fronte ad un “onere” di svolgimento delle indagini da parte del pubblico ministero; e ciò in considerazione della mancata previsione di sanzioni nel caso di inerzia, essendo previsto soltanto, come unico rimedio diretto a superare gli effetti della stessa, l’avocazione del procedimento da parte del procuratore generale – a sua volta solo onerato dello svolgimento delle indagini –41. Perciò è evidente Il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Busto Arsizio, pur ritenuto illegittimo, non è stato dichiarato abnorme. Per comodità di lettura e di sintesi si riporta, di seguito, la massima della sentenza richiamata: «È illegittimo il provvedimento del giudice dell’udienza preliminare, il quale, a norma dell’art. 421-bis c.p.p., dichiari l’inutilizzabilità, o altro vizio meramente procedurale, di un atto compiuto dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, restituendogli gli atti “affinché provveda a completare le indagini mediante la rinnovazione dell’atto”, in quanto l’integrazione prevista dal citato art. 421-bis c.p.p. riguarda esclusivamente gli adempimenti istruttori, e non si estende alla sanatoria dei vizi procedurali. L’ordinanza relativa non è però “abnorme”, in quanto non si tratta di atto che, sotto il profilo strutturale, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, né che, sotto il profilo funzionale, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo». 40 G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 388. 41 Ritengono che l’unico rimedio praticabile, in caso di inerzia del pubblico ministero, sia quello espressamente previsto dell’avocazione delle indagini da parte del procurato generale L. SARACENI, Giudice dell’udienza preliminare e nuovi poteri istruttori, 39 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 151 che, laddove non vengano attivati i poteri di avocazione di fronte all’eventuale inerzia (totale o parziale) del pubblico ministero, al giudice non resti che reiterare l’ordine di esecuzione delle indagini non espletate. Per il caso in cui anche l’ulteriore sollecitazione non abbia effetto, il giudice – ove non si verta in una situazione integrabile ai sensi dell’art. 422 c.p.p.42 – dovrà emettere una decisione sulla base del materiale disponibile. Quanto all’esito di tale ulteriore attività, nessun dubbio che l’imputato possa determinarsi a rendere interrogatorio o dichiarazioni spontanee, a mente di quanto previsto dall’art. 421 comma 2 c.p.p. Può accadere altresì che, meglio delineatosi il quadro accusatorio, l’imputato chieda un rito alternativo, ma ciò rientra nelle strategie difensive connesse al caso concreto e, quindi, di difficile generalizzazione. In conclusione, e prima di passare all’analisi delle questioni connesse a quest’ultima disposizione, sembra indispensabile l’ulteriore riflessione sul tema – a dire il vero poco approfondito in dottrina – dell’incidenza in dibattimento dell’interrogatorio reso dall’imputato nelle forme della cd. cross examination. La previsione dell’interrogatorio con le modalità dell’esame incrociato è stata inserita nella lettera dell’art. 421 c.p.p. dalla legge n. 267 del 7 agosto 199743. La medesima legge ha sostituito la disciplina dell’art. 514 c.p.p., concernente il divieto delle letture in dibattimento, che, nel fissare la regola di esclusione generale secondo cui “fuori dei casi previsti dagli articoli 511, 512, 512-bis e 513 c.p.p. non può essere data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall’imputato … alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero o al giudice per le indagini preliminari o nell’udienza cit., p. 311 e P. TONINI, Manuale di procedura penale, cit., p. 456. 42 ….dell’utilizzo sussidiario dello strumento di cui all’art. 422 c.p.p., S. DRAGONE, Le indagini preliminari e l’udienza preliminare, cit., p. 721. 43 Sul punto si rinvia a D. GROSSO, Art. 20 l. 16.12.1999 n. 479, cit., p. 280. 152 CAPITOLO III preliminare”, fa salva l’ipotesi in cui nell’udienza preliminare le dichiarazioni siano state rese nelle forme previste dagli artt. 498 e 499 c.p.p., alla presenza dell’imputato o del suo difensore. Ebbene, se si collega l’ultima parte della previsione alle deroghe iniziali, si evince che la situazione cui intende riferirsi il legislatore non è una di quelle che legittima il ricorso alle letture nei casi di cui agli artt. 511, 512, 512-bis e 513 c.p.p. In particolar modo, se ci si sofferma sulla previsione dell’art. 513 c.p.p. (imputato assente o contumace o che rifiuta di rispondere e le cui originarie dichiarazioni possono essere utilizzate solo contra se in mancanza di consenso degli altri coimputati o in assenza di una situazione di subornazione), si comprende come l’ipotesi considerata in chiusura del primo comma dell’art. 514 c.p.p. abbia ad oggetto una situazione diversa. Ebbene, la lettera dell’art. 514 c.p.p. suggerisce due interpretazioni possibili. La prima, meno dirompente, è nel senso che dopo che sia stato richiesto l’esame in dibattimento dell’imputato, e questi non si sia ad esso sottoposto oppure sia rimasto contumace o assente, possa essere data lettura delle dichiarazioni rese nell’udienza preliminare e le stesse possano essere utilizzate non solo contra se, ma anche nei confronti di tutti quei coimputati i cui difensori abbiano concorso all’assunzione dell’interrogatorio nell’udienza preliminare. Questa interpretazione si lega alla previsione dell’art. 511 comma 2 c.p.p., che prevede la possibilità di procedere a lettura delle dichiarazioni solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia avuto luogo. Ben più invasiva è la seconda lettura possibile dell’art. 514 c.p.p. Se si ritiene che l’interrogatorio svolto nelle forme della cross examination abbia valore di vera e propria prova, può dirsi che il legislatore, col porre il caso considerato in chiusura del primo comma dell’art. 514 c.p.p al di fuori delle situazioni eccettuate dall’art. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 153 511 c.p.p. e seguenti, abbia inteso consentire l’ingresso di quelle dichiarazioni predibattimentali nel cognitum del giudice del merito, anche in assenza di una preventiva richiesta ex art. 493 c.p.p. di esame dell’imputato. In altri termini, si può ipotizzare – anche in ragione delle modalità dell’interrogatorio – che la parte interessata possa chiedere al giudice del dibattimento di acquisire direttamente, mediante lettura o semplice indicazione, le dichiarazioni rese dall’imputato all’udienza preliminare, con facoltà di utilizzazione nei confronti non solo dello stesso ma anche di altri coimputati. A prescindere dall’opzione interpretativa scelta, è coerente con la portata probatoria di tali dichiarazioni che si riconosca all’imputato, che abbia chiesto di essere sottoposto ad interrogatorio nell’udienza preliminare, di recedere dalla richiesta, ove una delle altre parti domandi che si proceda nelle forme della cross examination. 2. Segue: L’attività di integrazione probatoria. La legge n. 479 del 1999, riscrivendo l’art. 422 c.p.p., ha delineato un secondo ambito nel quale può inserirsi una fase di integrazione probatoria nel corso dell’udienza preliminare, che si differenzia profondamente dalla prima per modalità procedurali e per prospettive. Come si è già avuto modo di accennare, nel testo precedente l’art. 422 c.p.p. prevedeva esclusivamente la possibilità che il giudice, nel caso di assoluta impossibilità di decidere sulla base degli elementi raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, indicasse alle parti i temi nuovi o incompleti sui quali riteneva necessario acquisire «sommarie informazioni ai fini della decisione»44. Al giudice era però negato qualsiasi potere 44 Ora la nozione viene intesa in senso più ampio come opportunità di differimento 154 CAPITOLO III d’iniziativa nella raccolta delle prove, devoluto solo alle parti. In tal modo il legislatore era riuscito a creare un meccanismo piuttosto equilibrato45. Ed invero, da un lato, il giudice svolgeva un’attività di stimolo nei confronti delle parti, rispettando i principi del processo accusatorio in tema di prova; dall’altro, l’opportunità di acquisire unicamente precise tipologie di prove denotava l’eccezionalità dell’istituto, nel rispetto di un sistema che prevedeva il dibattimento come sede privilegiata per la formazione della prova46. Si rispondeva, così, alla preoccupazione che il giudice disponesse di strumenti acquisitivi ex officio e, contestualmente, che il supplemento istruttorio si realizzasse fuori udienza; e si offriva al giudice la possibilità di superare una situazione di stallo nel caso in cui avesse avvertito l’incompletezza delle cognizioni probatorie. L’art. 422 c.p.p. prevedeva, peraltro, una particolare regola di valutazione dell’ammissibilità della prova: essa doveva rivelare una “manifesta decisività” ai fini del rinvio a giudizio ovvero una “evidente decisività” in relazione alla sentenza di non luogo a procedere47. La previsione si spiegava in ragione dell’opportunità di dell’epilogo dell’udienza preliminare per evitare che la decisione possa essere condizionata dalla mancanza di elementi conoscitivi importanti. L’impossibilità di decidere allo stato degli atti deriva, quindi, dalla volontà del giudice di emettere una pronuncia a seguito di un accertamento che tenga conto di tutte le possibili ipotesi ricostruttive del fatto. 45 «Il vizio è nella legge-delega: la direttiva n. 52 fu modificata dalla II Commissione giustizia del Senato per porre rimedio al pericolo di rinascita di un’attività istruttoria e per evitare che una penetrante valutazione del merito potesse creare pregiudizio per il giudice del dibattimento». I legislatori probabilmente non considerarono che si sarebbe comunque trattato di un giudizio allo stato degli atti, laddove gli atti, per postulato, non cositutiscono valide prove per il giudizio con la sola eccezione degli eventuali incidenti probatori. Inoltre, non pervenendo al dibattimento nulla di quanto detto o scritto in udienza preliminare, si sarebbe comunque evitata qualsiasi interferenza sulla libertà e autonomia del giudizio. Così D. BIELLI, Natura e funzioni dell’udienza preliminare, in Giust. pen., 1991, III, c. 269. 46 Si privilegia, così, un sistema in cui il potere delle parti di chiedere l’ammissione di un mezzo probatorio seguiva l’indicazione del giudice sui temi probatori da introdurre o da completare. 47 È evidente che l’inerzia della parte destinataria della sollecitazione faceva ricadere sulla stessa gli effetti della mancata attivazione, essendo probabile che il mancato CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 155 affidare al giudice una forma di controllo sul rinvio a giudizio, che non invadesse eccessivamente il merito della regiudicanda48. Ne scaturiva un regime imperniato, da un lato, sulla facoltà attribuita al pubblico ministero ed ai difensori di produrre documenti, ovvero di chiedere l’audizione di testimoni e consulenti tecnici, nonché l’interrogatorio di persone imputate in un procedimento connesso; e, dall’altro, sul potere del giudice di ammettere le prove individuate in base al criterio della loro manifesta o evidente decisività ai fini, rispettivamente, della pronuncia del decreto che dispone il giudizio ovvero della sentenza di non luogo a procedere. Restava in ogni caso fermo il diritto dell’imputato di essere sottoposto ad interrogatorio, disciplina ritenuta dalla Corte costituzionale coerente col complessivo sistema dell’udienza preliminare, in ragione della finalità di «verifica della domanda di giudizio avanzata dal magistrato del pubblico ministero»49. completamento o aggiornamento della piattaforma d’accusa potesse indirizzare il giudice necessariamente ad un esito decisorio diverso da quello perseguito con l’indicazione ex art. 422 c.p.p. 48 L’art. 422 c.p.p. – diversamente dall’art. 421 c.p.p., nel quale il legislatore usa l’espressione “elementi di prova” – consente di ammettere prove nel corso dell’udienza preliminare solo ai fini propri di questa fase. Perciò, le relative risultanze non sono inserite nel fascicolo per il dibattimento, non potendo conservare lo stesso valore in caso di rinvio a giudizio, ma consentiranno una più adeguata conclusione dell’udienza preliminare, grazie alla loro piena utilizzabilità all’interno della stessa. Le prove così acquisite hanno una funzione meramente endoprocessuale, cioè limitata e finalizzata alla fase dell’udienza preliminare, anche se, come si vedrà, possono avere idoneità giudiziale, come tutti gli altri atti di indagine. 49 Cfr. Corte cost., sentenza n. 64 dell’8 febbraio 1991: «La regola di giudizio stabilita dall’art. 422 nuovo c. p. p., in base alla quale il giudice dell’istruzione preliminare, ove non sia in grado di decidere per il rinvio in giudizio o per il proscioglimento dell’imputato in base alla domanda del p. m., può indicare temi nuovi o incompleti, sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni, attiene al rito e non al merito, e non tende ad una valutazione approfondita, condizionante la successiva fase del giudizio; pertanto, l’art. 422 c. p. p. non è in contrasto con l’art. 24 cost., essendo erroneo il presupposto che esso, consentendo alle parti, nell’udienza preliminare, di presentare richieste istruttorie solo se vi sia stata da parte del giudice l’indicazione di nuovi o incompleti temi sui quali occorra acquisire ulteriori elementi, violi il diritto di difesa, precludendo alle parti stesse l’espletamento di prove autonomamente richieste». 156 CAPITOLO III La riscrittura dell’art. 422 c.p.p. ha eliminato l’originaria struttura speculare, avendo il legislatore conservato solo quella porzione collegata alla pronuncia ex art. 425 c.p.p.50 e avendo elevato a previsione normativa espressa la prassi che già contemplava la sollecitazione del giudice, ad opera delle parti, all’esercizio dei poteri d’integrazione probatoria. Insomma, l’art. 422 c.p.p., nello stabilire che il giudice può procedere anche d’ufficio all’assunzione delle prove, contiene evidentemente la previsione di un potere di sollecitazione in capo alle parti, opposto a quello previgente in cui il giudice dell’udienza preliminare si limitava ad ammettere le prove richieste dalle parti. Dunque, non è più previsto che il giudice indichi temi nuovi o incompleti sui quali le parti raccolgano prove decisive a carico o a discarico; il giudice può ora disporre, su richiesta o d’ufficio, soltanto l’ammissione di prove decisive a discarico, per i casi in cui non dichiari chiusa la discussione e non disponga ulteriori indagini ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p., sempre che ne ravvisi l’“evidente decisività” nella prospettiva di una sentenza di non luogo a procedere51. Nel senso, invece, della persistenza di un potere del giudice di acquisire anche ex officio prove decisive per il rinvio a giudizio si è espresso F. CORDERO, Guida alla procedura penale, Torino, 1989, p. 912. Per l’Autore sarebbe irragionevole una simile limitazione dal momento che, non ammessa la prova richiesta dal pubblico ministero o dalla parte civile, il giudice dovrebbe pronunciare una sentenza ex art. 425 c.p.p. per poi successivamente revocarla in ragione della previsione degli artt. 434 e seguenti c.p.p. In senso contrario, appare difficilmente superabile il dato normativo che è frutto di una chiara scelta del Legislatore di consentire un intervento officioso e diretto del giudice dell’udienza preliminare solo per l’acquisizione di elementi favorevoli all’imputato, atteso che proprio la disciplina degli artt. 434 e seguenti rappresenterebbe un meccanismo diretto a controbilanciare, sia pure in fase successiva, il rischio degli esiti paventati dall’illustre Autore. Del resto occorre ricordare che il ricorso al potere d’integrazione probatoria è possibile solo in presenza di un quadro investigativo completo, per cui non vi sarebbe ragione per l’introduzione di ulteriori prove (nel senso citato dalla norma in commento) a sostegno della scelta già operata dal pubblico ministero con la richiesta di rinvio a giudizio. 51 Come da taluno osservato, la regola insita nell’art. 422 c.p.p. «si risolve in una 50 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 157 Si è così passati da un semplice potere di impulso ad un potere autonomo di acquisizione, che prescinde dall’attività delle parti, e che però va esercitato nell’ambito delle ipotesi di ricostruzione del fatto già prospettate dal pubblico ministero. Appare, così, razionale e lineare il nuovo meccanismo in vista di un più penetrante controllo sull’esercizio dell’azione penale. Invero, se l’impossibilità di decidere allo stato degli atti deriva dalla incompletezza delle indagini preliminari, se si tratta, cioè, di una situazione in cui l’impossibilità di decidere è addebitabile al pubblico ministero, che è venuto meno al suo dovere di completezza nell’espletamento delle stesse, il giudice deve porvi rimedio con i poteri di cui all’art. 421-bis c.p.p. Qualora, invece, l’impossibilità di decidere allo stato degli atti non dipenda dall’incompletezza delle indagini preliminari, perché il tema investigativo da approfondire – e che peraltro deve avere connotati di evidente decisività per un epilogo favorevole – corrisponde, nasce o comunque è determinato da un’acquisizione probatoria successiva alla chiusura della fase investigativa, l’acquisizione può essere effettuata utilizzando il meccanismo previsto dall’art. 422 c.p.p.52. Si comprende, così, che l’ipotesi di integrazione probatoria di cui all’art 422 c.p.p. è alternativa e residuale a quella precedente, in quanto è previsto che sorta di presunzione d’irrilevanza di prove diverse da quelle che appaiono decisive per raggiungere il proscioglimento». Così G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 398. 52 In altre parole, se il giudice non ritiene di poter decidere allo stato degli atti («quando non provvede a norma del comma 4 dell’art. 421…»), e se le indagini non sono mancanti o ampiamente carenti, perché non lo sono ab origine o perché l’incompletezza è stata colmata dal pubblico ministero ex art. 421-bis c.p.p. («….ovvero a norma dell’art. 421-bis c.p.p.»), il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove di cui appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere. Come dire: se le indagini non sono (o non sono più) incomplete ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p., non esiste più la necessità di compiere approfondimenti ai fini del rinvio a giudizio (poiché gli elementi a carico saranno sufficienti per emettere il decreto dispositivo del giudizio), e si potrà adottare d’ufficio un’ordinanza di assunzione delle prove solo se decisive ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere. 158 CAPITOLO III il giudice si orienti in tal senso “quando non provvede a norma del comma 4 dell’art. 421 c.p.p.”, ed in quanto non abbia provveduto a norma dell’art. 421-bis c.p.p. E ciò perché l’esigenza probatoria ex art. 422 c.p.p. non dipende da una difettosa attività investigativa “preliminare”, ma è connessa ad elementi successivamente conosciuti, comunque non esaustivi. Dunque, anche l’attivazione del potere d’integrazione probatoria d’ufficio presuppone che il giudice ritenga non decidibile la causa allo stato degli atti, ma non per incompletezza delle indagini. Più specificamente, il duplice potere presenta un rapporto di sussidiarietà, non essendo indifferente che si scelga di attivare il meccanismo di cui all’art. 421-bis c.p.p. in luogo di quello di cui all’art. 422 c.p.p. Secondo questa tesi, sembra che prima di tutto il giudice debba invitare il pubblico ministero a completare le indagini, e che solo in un secondo momento possa dar corso all’acquisizione di prove d’ufficio: nel caso dell’art. 421-bis c.p.p. il giudice intravede l’impossibilità operativa per una palese carenza delle indagini – l’art. 421-bis c.p.p. è rivolto esclusivamente al corretto esercizio dell’azione penale –, laddove nel caso dell’art. 422 c.p.p. l’esigenza di ulteriore “istruzione” è avvertita direttamente ai fini della decisione. Volendo riassumere, si può dire che all’incompletezza delle indagini rimedia l’istituto dell’art. 421-bis c.p.p.; e che, se l’impostazione dell’accusa risulta sufficientemente supportata dagli elementi acquisiti, alle lacune conseguenti alla mancata acquisizione di elementi “favorevoli” pur individuabili risponde l’integrazione probatoria ex art. 422 c.p.p. In sostanza, il giudice deve valutare nel contraddittorio tra le parti: 1) se v’è la possibilità di emettere una decisione allo stato degli atti; 2) se l’esito negativo dipende da una lacuna investigativa, dovendo in tal caso attivare il pubblico ministero con indicazione delle ulteriori indagini e la fissazione del termine per la loro esecuzione; 3) se la non decidibilità non sia CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 159 effetto dell’incompletezza delle indagini, dovendo allora valutare – anche d’ufficio – la necessità d’acquisizione di elementi probatori di evidente decisività ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere53. Inoltre, trattandosi di uno strumento rivolto ad orientare definitivamente la valutazione del giudice verso l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, è da ritenersi che il contenuto dell’atto da assumere debba essere idoneo: 1) a dare piena contezza della ricorrenza di una delle ragioni di proscioglimento di cui al primo comma dell’art. 425 comma 1 c.p.p., oppure: 2) a depotenziare, nei termini di cui all’art. 425 comma 3 c.p.p., l’impianto accusatorio o, ancora: 3) a rivelare la ricorrenza di una ragione di riconoscimento di circostanze attenuanti o la ravvisabilità di una diversa qualificazione giuridica del fatto, capaci di incidere sul termine di prescrizione del reato. Ulteriore elemento di riflessione si lega alla presenza, nell’art. 422 c.p.p., dei termini “evidenza” e “decisività”: il legislatore continua a richiedere, secondo la formula originaria della disposizione, che la prova appaia, in termini di evidenza ex ante, decisiva ai fini della pronuncia di proscioglimento. Ebbene, sul primo fronte, si è sostenuto che l’approfondimento istruttorio a discarico – che il giudice compie quale garante della presunzione d’innocenza54 – si risolve “in una sorta di presunzione d’irrilevanza di prove diverse da quelle che appaiono decisive per raggiungere il proscioglimento”55. Quanto, invece, all’apprezzamento sulla decisività, si è ritenuto che non vada riferita necessariamente al “grado dimostrativo” Potrebbe darsi che il compendio accusatorio rimanga incerto anche dopo l’avvenuta integrazione probatoria ex art. 421-bis c.p.p. e che tale nebulosità sia diradabile con l’acquisizione di una prova solo in quel momento prospettata o ricavabile. 54 L’espressione è di E. AMODIO, Lineamenti della riforma, in Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 30. 55 G. GARUTI, La nuova fisionomia dell’udienza preliminare, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 398. 53 160 CAPITOLO III richiesto dal primo comma dell’art. 425 c.p.p., bensì a quello del terzo comma della stessa norma. Ne consegue la possibilità del ricorso all’integrazione probatoria anche al solo fine di neutralizzare un’acquisizione “a carico” per rendere “insufficiente” il dato probatorio che sorregge l’impianto accusatorio56. Nè la presenza di un quadro accusatorio già insufficiente o contraddittorio esime il giudice dall’assunzione della prova decisiva – sopratutto se sollecitato dalla difesa – tutte le volte in cui dall’acquisizione di quell’elemento dimostrativo si possa pervenire ad una pronuncia di proscioglimento più ampia (nei termini di cui al primo comma dell’art. 425 c.p.p.), tenuto conto della retrattabilità degli effetti liberatori della sentenza di non luogo a procedere attraverso una sua successiva revoca57. Quanto alle ragioni che hanno indotto il legislatore ad eliminare la possibilità di ammettere prove decisive a carico, non c’è dubbio che esse siano individuabili nell’opportunità di evitare che una situazione già sufficientemente compromessa al- Così A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, cit., p. 425. 57 Altra situazione possibile è che le indagini svolte abbiano rivelato (ab origine od a seguito dell’integrazione istruttoria) un quadro accusatorio insufficiente o contraddittorio. Come accennato il giudice potrà comunque ritenere – motu proprio o su sollecitazione di parte – necessario acquisire un elemento probatorio la cui decisività incida, non tanto sulla possibilità generica di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere, quanto sulla possibilità di emettere una tale decisione in termini non dubitativi. Riteniamo, invero, che ad un’interpretazione in questi termini del connotato della “decisività” di cui alla norma in commento non si pone nessun ostacolo normativo. Infine, è possibile che le indagini svolte dal pubblico ministero appaiano complete ed idonee a sostenere l’accusa in giudizio e, tuttavia, la prospettazione nell’udienza preliminare di una tesi difensiva o le emergenze dell’interrogatorio dell’imputato o degli atti e documenti acquisiti prima dell’apertura della discussione, oppure ancora gli esiti dell’incidente probatorio svolto nel corso dell’udienza preliminare possano rivelare con evidenza l’irrinunciabilità (così traducendosi il carattere della decisività) dell’acquisizione di una o più prove capaci di ribaltare l’esito del giudizio affidato al giudice dell’udienza preliminare. In tutti questi casi che trova il suo spazio applicativo la norma dell’art. 422 c.p.p. Così N. RUSSO, La formazione anticipata della prova e le attività di integrazione investigativa e probatoria del giudice, cit., p. 429-430. 56 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 161 l’esito delle indagini preliminari sia ulteriormente aggravata, sotto il profilo probatorio, dal giudice dell’udienza preliminare. Per cui, se egli ritenga di non emettere una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 425 comma 3 c.p.p., la raccolta di prove decisive a carico non potrebbe che creare ulteriore pregiudizio per l’imputato che si trovi a dover affrontare la verifica dibattimentale. In ordine all’oggetto dell’attività d’integrazione probatoria, poi, va sottolineato che in questa fase è possibile acquisire tutti i mezzi di prova ritenuti decisivi ai fini della sentenza di non luogo a procedere, senza nessuna limitazione, dato che è venuto meno l’elenco tassativo inserito nel testo originario dell’art. 422 c.p.p.58. Di qui l’opinione che il potere d’integrazione probatoria sia stato ampliato, oltre che con il riconoscimento dell’iniziativa ufficiosa, con l’esclusione di ogni limitazione dei mezzi di prova59. Sareb- In passato l’art. 422 comma 1 c.p.p. era così formulato: «il pubblico ministero e i difensori possono produrre documenti e chiedere l’audizione di testimoni e consulenti tecnici o linterrogatorio delle persone indicate nell’art. 210». Il testo originario del codice non permetteva di assumere atti diversi da qulli appena indicati. La tassatività della previsione dei mezzi di prova era stata superata, sia pur parzialmente, dalla Corte costituzionale, che aveva avuto il merito di rimediare al radicalismo del legislatore del 1988. In particolare nella sentenza n. 91 del 26 febbraio 1990 la Corte riconobbe al giudice il potere di ordinare il sequestro probatorio inutilmente richiesto dalla difesa al pubblico ministero. L’espressione “prova” utilizzata dal legislatore nella norma in commento è senza dubbio atecnica, essendo la formazione della prova riservata al dibattimento e soltanto eccezionalmente consentita in una fase antecedente con l’incidente probatorio. Tuttavia essa è fortemente evocativa della portata logico-dimostrativa attribuita all’elemento da acquisire. In altri termini, può dirsi che essa è prova rispetto alla dimostrazione richiesta per l’emissione della sentenza di non luogo a procedere. Che non si tratti di una prova in senso proprio lo si ricava anche dalla terminologia di specificazione cui ricorre il legislatore. Infatti l’uso delle espressioni “interrogatorio” ed “audizione”, in luogo di quello di “esame” e “testimonianza”, sottolinea che si tratta di un’attività finalizzata ad un accertamento di tipo diverso da quello dibattimentale. 59 Per A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, cit., p. 428, a fronte di un’elencazione apparentemente specifica contenuta nel capoverso dell’art. 422 c.p.p., deve ritenersi che il giudice possa disporre l’acquisizione di tutti i «mezzi di prova» che si ritengano decisivi per la sentenza di non luogo a procedere. 58 162 CAPITOLO III be, d’altronde, contraria alla ratio del meccanismo la restrizione a determinati mezzi di prova, quando, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, l’idoneità dimostrativa ben può provenire da altre acquisizioni non previste dal “catalogo” originario dell’art. 422 c.p.p.60. Ciò serve anche a chiarire il riferimento alla perizia compiuto nell’art. 422 c.p.p. Al riguardo appare più coerente ritenere che il legislatore, quando fa richiamo alla citazione del perito, intenda la possibilità che si disponga, ai sensi dell’art. 422 c.p.p., una perizia, e non solo che faccia riferimento alla possibilità che venga disposta l’audizione per chiarimenti di colui che, nel corso dell’incidente probatorio effettuato in fase d’indagini o nelle precedenti scansioni dell’udienza preliminare, abbia svolto il ruolo di perito61. Immutato, rispetto al passato, è invece il criterio di ammissione della prova, concretizzandosi, esso, nella “evidente decisività”. Ancora oggi, invero, il criterio prescelto è esattamente l’opposto di quello previsto dall’art. 190 c.p.p.62 per la fase dibattimentale, potendo il giudice ammettere solo le prove delle quali appaia evidente la decisività ai fini dell’emissione della sentenza di non luogo a procedere. Tale inversione si giustifica, evidentemente, con l’intempestività di una prospettazione probatoria che l’imputato avrebbe dovuto formu- Ad opinare diversamente – come rilevato – si stravolgerebbe con la disciplina dell’udienza preliminare un principio cardine del sistema accusatorio, quello secondo cui la prova si assume in dibattimento e solo in situazioni particolari e tassativamente elencate al di fuori di questo contesto, con le modalità dell’incidente probatorio: A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, cit., p. 430. 61 A. DE CARO, L’integrazione investigativa e probatoria nell’udienza preliminare, cit., p. 430. In giurisprudenza v. Cass., sez. VI, 19 dicembre 2006, n. 9033/07, Saletti, in C.E.D. Cass., n. 235913. 62 V. GREVI, Prove, in AA. VV., Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso e V. Grevi, Padova, 2006, p. 299. 60 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 163 lare prima della conclusione delle indagini preliminari, se avesse inteso avvalersene pienamente all’interno dell’udienza preliminare anziché riservarla al dibattimento. L’udienza preliminare, infatti, può, sì, essere destinata all’integrazione delle indagini, ma non può certamente sostituirsi ad esse. L’imputato che intende avvalersi nell’udienza preliminare di una determinata prova ha l’onere di prospettarne la necessità di acquisizione già nella fase procedimentale, non appena gli è comunicato l’avviso ex art. 415-bis; e conserva, comunque, il diritto di chiederne l’ammissione in dibattimento, sede propria dell’esercizio del diritto alla prova. Quando è possibile, il giudice deve provvedere immediatamente all’assunzione delle prove ammesse ai sensi dell’art. 422 comma 1 c.p.p. e, se ciò non è realizzabile, fissa la data della nuova udienza, disponendo la citazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. 63; nel corso dell’esame il pubblico ministero e i difensori possono porre domande solo a mezzo del giudice, secondo l’ordine previsto dall’art. 421 comma 2 c.p.p. L’assunzione delle prove in questa sede si sviluppa, dunque, secondo un sistema diverso da quello tipico della fase dibattimentale, e ciò in virtù del principio secondo cui, prima del giudizio, non si devono formare elementi probatori utilizzabili in dibattimento. Perciò è il giudice a provvedere direttamente all’esame del soggetto citato e solo attraverso le sue domande le parti hanno la possibilità di interrogarlo o controinterrogarlo64. Fintanto che non si procede all’assunzione della prova, opera per le parti il divieto di assumere informazioni dai soggetti citati a pena d’inutilizzabilità delle dichiarazioni eventualmente ricevute (art. 430-bis comma 1 c.p.p.). Detto divieto permane fino al momento dell’escussione del soggetto da parte del giudice ed in ogni caso cessa laddove l’audizione non venga ammessa o non abbia luogo (art. 430-bis comma 2 c.p.p.). 64 Questa modalità di assunzione delle dichiarazioni impedisce una loro utilizzabilità in dibattimento (eccettuati i casi di cui all’art. 512 c.p.p.). Tuttavia, secondo qualche 63 164 CAPITOLO III Dopo l’escussione delle prove richieste dalle parti e di quelle ammesse d’ufficio, l’imputato può comunque chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio, che va espletato pur quando non si connoti per l’evidente decisività ai fini dell’emissione della sentenza di non luogo a procedere65. Sebbene l’assunzione della prova sia finalizzata alla sentenza di non luogo a procedere, non può escludersi che il suo esito si riveli contrario a questo epilogo e che, quindi, finisca con il rafforzare l’ipotesi accusatoria. In tal caso il giudice potrà comunque pronunciare il decreto di rinvio a giudizio oppure, rivelatasi per effetto dell’integrazione una lacuna nei temi investigativi, potrà emettere un’ordinanza ai sensi dell’art. 421-bis c.p.p. 3. La compatibilità funzionale dell’incidente probatorio in udienza preliminare. Sganciata dai presupposti e dalla disciplina relativa all’integrazione delle indagini e delle ulteriori acquisizioni probatorie, è riconosciuta alle parti la facoltà – a seguito della sentenza costi- Autore (SOSIO), nulla vieterebbe al giudice di optare per l’assunzione della prova nelle forme dell’esame incrociato. In tal modo non vi sarebbero ostacoli per la piena utilizzabilità anche in dibattimento di una prova così formata. L’assunto non pare condivisibile. Innanzitutto, trattandosi di un’integrazione probatoria finalizzata all’emissione di una sentenza di non luogo a procedere, nell’ordinarietà dei casi non dovrebbe seguire una fase dibattimentale, fermandosi all’udienza preliminare il percorso della vicenda processuale. In secondo luogo, un tale meccanismo finirebbe per derogare al principio d’immediatezza (art. 525 c.p.p.) in situazioni non previste né consentite, trattandosi d’ipotesi al di fuori dei casi nei quali detta deroga è consentita nelle forme dell’incidente probatorio. 65 Una volta assunta la prova, l’imputato può chiedere di rendere dichiarazioni spontanee (circostanza non prevista dalla lettera dell’art. 422 c.p.p. ma comunque ricompresa dalla previsione generale dell’art. 421 c.p..) o di essere sottoposto ad interrogatorio, eventualmente nelle forme dell’esame incrociato. Valgano al riguardo le considerazioni svolte in precedenza. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 165 tuzionale n. 77 del 10 marzo 199466 –, di presentare richiesta di incidente probatorio67. 66 Si ricorderà che, a seguito della citata sentenza, è stata estesa la possibilità di esperire l’incidente probatorio anche nella fase dell’udienza preliminare. La ratio dell’intervento del Giudice delle leggi si spiega alla luce della funzione propria dell’incidente probatorio: evitare che – per una delle evenienze indicate dall’art. 392 c.p.p. – la prova che dovrebbe assumersi nel dibattimento venga irrimediabilmente perduta. Per i commenti alla sentenza v. A. CASELLI LAPESCHI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: un’opinione critica sull’apertura della corte costituzionale, in Leg. pen., 1995, p. 97; G. DEAN, Nuovi limiti cronologici dell’incidente probatorio, in Giur cost., 1994, p. 780; G. DI CHIARA, Processo penale e giurisprudenza costituzionale. Itinerari, Roma, 1996, p. 223; G. GARUTI, La verifica dell’accusa, cit., p. 213; A. GIARDA, L’incidente probatorio oltre i confini delle indagini preliminari, in Corriere giuridico, 1994, p. 554; G. PIERRO, Incidente probatorio e udienza preliminare, in Annali dell’Istituto di Diritto processuale Penale dell’università degli studi di Salerno, n. 1 e 2, 1995, p. 135; G. RICCIO, Tensioni garantistiche della Consulta e nuovi spazi probatori nel processo penale, in Ideologie e modelli del processo penale, Napoli, 1995, p. 207 ss.; S. SAU, L’incidente probatorio, in Problemi attuali della giustizia penale, a cura di A. Giarda-G. Spangher-P. Tonini, Padova, 2001, p. 62; P. TONINI, L’incidente probatorio nell’udienza preliminare: nuove prospettive per il diritto di difesa, in Cass. pen., 1994, p. 1995; A. VIRGILIO, Proponibilità dell’incidente probatorio nell’udienza preliminare: riflessioni, in Giust. pen., 1994, III, c. 129; M . VOGLIOTTI, Prime, brevi considerazioni sui rapporti tra incidente probatorio e udienza preliminare, in Leg. pen., 1994, p. 308. La disciplina contenuta negli artt. 392 e seguenti c.p.p. attua, infatti, un intervento di sovvertimento dell’ordinaria scansione temporale delle fasi procedurali limitata al singolo atto istruttorio e giustificata, come detto, dal pericolo di una sua non rinviabilità al dibattimento. Di fronte all’esigenza di garantire l’effettività del diritto alla prova tanto del pubblico ministero quanto dell’imputato, non è apparsa ragionevole alla Consulta la limitazione dell’esperibilità dell’incidente probatorio alla sola fase delle indagini preliminari, escludendola quindi dalla fase dell’udienza preliminare, sopratutto laddove le evenienze considerate nell’art. 392 c.p.p. insorgano solo all’indomani della chiusura della fase procedimentale stricto sensu intesa. Nonché, da ultimo, Corte cost., ordinanza 9 maggio 2001, n. 118, in Giur cost., 2001, p. 959 con nota di P. RENON, Limiti cronologici dell’incidente probatorio e diritto alla prova; ordinanza 18 luglio 2002, n. 368, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 499 con nota di G. LOZZI, L’ambito di operatività dell’art. 392 c.p.p.; ordinanza, 15 luglio 2003, n. 249. 67 Gli artt. 392 e 393 c.p.p., nonché l’art. 467 c.p.p., collocavano l’esperibilità dell’incidente probatorio all’interno della fase preliminare e predibattimentale, con l’esclusione dell’udienza preliminare. Pur aderendo alla filosofia secondo cui l’acquisizione delle prove è demandata ordinariamente al giudice del dibattimento, lo stesso legislatore delegante del 1987 non poteva eludere il problema, già in passato evidenziato, «della possibile dispersione durante le indagini preliminari di prove la cui acquisizione, per vari motivi, non sia rinviabile ai dibattimento». Il necessario apprezzamento di questo interesse portò a considerare nella direttiva n. 40 della legge-delega del 1987 l’istituto dell’incidente probatorio, costruito in termini di meccanismo eccezionale cui far ricorso 166 CAPITOLO III Pur non ignorando le posizioni contrarie, a nostro avviso la richiesta e la relativa ammissione all’incidente si fondano sull’esigenza di anticipare la formazione di una prova non rinviabile al dibattimento, e non già sull’impossibilità di pronunciare la decisione; si tratta, cioè, di attività alternativa, anche dal punto di vista funzionale, alle situazioni processuali sin qui trattate. In tal caso, trovano applicazione le regole dettate in via generale per l’assunzione dell’incidente probatorio. In questa sede si ritiene tuttavia sufficiente circoscrivere l’esame del tema ad alcune questioni e, precisamente: al rapporto tra l’incidente probatorio e l’art. 391-bis c.p.p. e all’utilizzabilità in dibattimento delle prove assunte ai sensi dell’art. 392 c.p.p. Quanto alla prima questione, si osserva che il richiamo contenuto nell’ultimo comma dell’art. 391-bis c.p.p. al modulo descritto dell’art. 392 c.p.p. ha soltanto la funzione d’indicare la forma procedimentale dell’assunzione della testimonianza in una fase – qual è quella delle indagini preliminari – in cui non v’è luogo (al di fuori delle situazioni considerate appunto dall’art. 392 c.p.p.) per la formazione della prova in contraddittorio. È assolutamente incontestabile che anche la testimonianza assunta secondo le modalità indicate dal comma 11 dell’art. 391-bis c.p.p. abbia pieno valore di prova, tuttavia la diversità di presupposto rispetto alla disciplina dell’art. 392 c.p.p. è indicativa in ordine per la necessità di acquisire mezzi di prova in un momento anticipato rispetto a quello dibattimentale. Per una efficace, sia pur sintetica ricostruzione del dibattito maturato in sede redigente sui connotati dell’udienza preliminare, v. G. LOZZI, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, in Riflessioni sul nuovo processo penale, Torino, 1992, p. 158. Per questa traccia genetica l’incidente probatorio rappresenta a tutt’oggi il punto di compromesso e di equilibrio tra il principio, oramai costituzionalizzato, della natura accusatoria del processo penale che si rivela anche attraverso la disomogeneità delle fasi ed il canone interpretativo – non costituzionale – della non dispersione dei mezzi di prova. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 167 ai limiti temporali del ricorso all’incidente probatorio previsto per le investigazioni difensive. Infatti, il ricorso all’incidente probatorio di cui all’art. 391-bis c.p.p. è consentito in presenza dell’unica condizione dell’esercizio, da parte della persona da cui si volevano assumere informazioni, della facoltà di non rispondere (cui va senza dubbio equiparato il rifiuto di rispondere espresso con atti concludenti). Ciò tanto è vero in quanto il comma 11 dell’art. 391-bis c.p.p. consente al difensore di optare per l’incidente probatorio pur in assenza delle condizioni di cui all’art. 392 comma 1 c.p.p. Quindi, il profilo della non ripetibilità della prova in dibattimento appare inconferente in sede di udienza preliminare. Invero, proprio perché si può prescindere dal presupposto “classico” dell’incidente, non v’è dubbio che l’intervento del giudice (inteso a sopperire alla mancanza dei poteri coercitivi del difensore) debba necessariamente esaurirsi nella fase delle indagini preliminari. Come già si è detto, il richiamo alla disciplina dell’incidente probatorio serve soltanto all’individuazione di un modulo procedimentale per il compimento dell’atto che il difensore non ha potuto autonomamente compiere. Perciò non può dubitarsi della valenza probatoria dell’atto assunto ai sensi dell’art. 391-bis comma 11 c.p.p., essendo illogico ipotizzare, a fronte di un atto compiuto nel pieno contraddittorio tra le parti, che si debba dare luogo ad un’ulteriore assunzione in dibattimento della medesima testimonianza. Dunque, non si tratta di un’attività diretta prioritariamente alla formazione anticipata di una prova altrimenti non più recuperabile. Di ciò si ha conferma, da un lato, dalla circostanza che il difensore potrebbe in via alternativa chiedere al pubblico ministero l’audizione della persona da sentire (e in tal caso l’atto non avrebbe valore di prova); dall’altro, da quanto previsto dall’art. 391-quater c.p.p. in tema di rifiuto di esibizione al difensore di documentazione da parte della pubblica amministrazione. Anche in tal caso, 168 CAPITOLO III infatti, il rinvio all’art. 368 c.p.p. (che concerne i provvedimenti del giudice sulla richiesta di sequestro probatorio) non comporta che esso debba intendersi riferito anche ai requisiti essenziali all’adozione del provvedimento di cui all’art. 253 c.p.p. Pertanto, se si ritenesse ammissibile in udienza preliminare il ricorso all’incidente probatorio di cui all’art. 391-bis comma 11 c.p.p., alla stregua di quanto statuito dalla Consulta con la sentenza n. 77 del 10 marzo 1994, si finirebbe per estendere la portata della pronuncia al di fuori della situazione valorizzata con il suo dictum, con l’effetto di utilizzare lo strumento dell’incidente probatorio non più in funzione preventiva rispetto al rischio di non ripetibilità della prova in dibattimento. E’, infatti, indubbio che la successiva assunzione in contraddittorio della prova non è preclusa dalla mancata assunzione della stessa nelle forme dell’incidente probatorio (laddove non sia stata dedotta alcuna delle situazioni di cui all’art. 392 comma 1 c.p.p.) ed altrettanto indubbio è che ben potrebbe la difesa innestare la procedura di cui all’art. 391-bis comma 11 c.p.p. prima della conclusione delle indagini preliminari. Peraltro, è evidente che l’integrazione del materiale investigativo può essere sollecitata al giudice – in presenza delle condizioni legittimanti – con la richiesta di un provvedimento – a seconda dei casi – nelle forme di cui agli artt. 421-bis o 422 c.p.p. Quanto all’utilizzabilità nel dibattimento delle prove assunte con incidente probatorio, l’art. 403 c.p.p. si occupa expressis verbis dei limiti di utilizzabilità sul piano soggettivo degli esiti dell’incidente probatorio. Al primo comma stabilisce che nel dibattimento le prove assunte con l’incidente probatorio sono utilizzabili nei confronti degli imputati i cui difensori hanno partecipato alla loro assunzione. La norma non crea particolari problemi interpretativi. È appena il caso di sottolineare come il riferimento al dibat- CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 169 timento escluda l’operatività dei limiti di utilizzazione nella prospettiva di altro provvedimento (misure cautelari, intercettazioni, ecc.) nelle fasi precedenti68. Più complessa è l’interpretazione del comma 1-bis, aggiunto dalla legge n. 267 del 7 agosto 199769, a norma del quale le prove di cui al comma 1 non sono utilizzabili nei confronti dell’imputato raggiunto, solo successivamente all’incidente probatorio, da indizi di colpevolezza, nel caso in cui il difensore non abbia preso parte alla loro assunzione, salvo che i suddetti indizi siano emersi dopo che la ripetizione dell’atto sia divenuta impossibile. La norma fissa innanzitutto una regola di esclusione probatoria, secondo cui non è possibile utilizzare (nelle fasi successive all’incidente probatorio) le prove così assunte nei confronti di quegli imputati che solo a seguito dell’incidente probatorio o per altra causa siano stati raggiunti successivamente da indizi di colpevolezza in ordine al fatto contestato; regola cui può derogarsi solo se il difensore abbia partecipato all’assunzione della prova o se, a prescindere da questa circostanza, gli indizi di colpevolezza siano emersi solo dopo che sia divenuto impossibile ripetere l’assunzione della prova. Ora, se appare chiara la ratio della deroga da ultimo indicata, non altrettanto può dirsi per la prima, quella che fa salva a contrario l’utilizzabilità della prova nei confronti di quegli imputati i quali, seppur raggiunti da indizi di colpevolezza solo successivamente all’incidente probatorio, possano aver visto assicurata la 68 In tal senso cfr., in giurisprudenza, Cass., sez. V, 27 gennaio 1993, in C.E.D. Cass., n. 194346; in dottrina, tra gli altri, S. SAU, L’incidente probatorio, cit., p. 311 e ss; M. BARGIS, Incidente probatorio, in Digesto penale, Torino, 1992, p. 1348. 69 Si rammenta che la lettera dell’art. 403 comma 1-bis c.p.p. fa seguito, ribaltandone i principi, alla sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 16 marzo 1994, che aveva ritenuto inoperante il divieto di utilizzabilità sancito dal primo comma dell’art. 403 c.p.p. nei confronti dei soggetti che fossero stati coinvolti nelle indagini dopo l’esaurimento della procedura incidentale. 170 CAPITOLO III loro difesa mediante la presenza del loro avvocato all’assunzione della prova. Ed invero, non si comprende perché mai avrebbe dovuto partecipare all’incidente probatorio il difensore di un soggetto non raggiunto da indizi di colpevolezza. Pur volendo ammettere che si tratti del difensore di altro coimputato, non si vede in che modo la sua presenza possa essere una garanzia per il soggetto non coinvolto dalla formazione della prova in via anticipata. Probabilmente, l’inserimento di questo inciso è stato frutto della trasposizione frettolosa e non coordinata dell’analoga previsione contenuta nella lettera del comma 2-bis dell’art. 238 c.p.p. nella versione (anch’essa introdotta dalla legge n. 267 del 1997) previgente alla modifica operata dall’art. 9 della legge n. 63 del 2001. Epperò, in quella sede la previsione in parola si presta ad un’interpretazione logica e razionale per la presenza delle garanzie del contraddittorio; interpretazione non ricostruibile invece nell’art. 403 comma 1-bis c.p.p. Ancora una volta sembra che il legislatore abbia avuto difficoltà nell’operazione, apparentemente semplice, di distinzione degli eterogenei. 4. Novum probatorio e modifiche dell’imputazione. La centralità dell’imputazione si rivela anche nella predisposizione legislativa di meccanismi correttivi per l’eventualità che lo sviluppo del processo, l’acquisizione progressiva di nuove conoscenze modifichino l’ipotesi ricostruttiva del fatto. Il meccanismo correttivo è stato previsto già in questa fase “preliminare” al giudizio, ben potendo ivi il fatto risultare “diverso”, ovvero emergere gli elementi per la contestazione di un reato connesso a quello per cui è stato richiesto il rinvio a giudizio o di una circostanza aggravante del reato contestato. Così come può CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 171 accadere che nel corso dell’udienza si configuri un fatto “nuovo”, non enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio. Ora, se non è qui possibile approfondire le nozioni di fatto “diverso” e di fatto “nuovo”70, va detto che il tema coinvolge, contestualmente, il corretto esercizio dell’azione penale, il diritto di difesa dell’imputato e la selezione degli strumenti operativi più idonei alla sua tutela (per es. ricorso al giudizio abbreviato). Il principio di correlazione tra accusa e decisione giurisdizionale, invero, non riguarda solo il dibattimento, bensì anche l’udienza preliminare, che si conclude con una statuizione sull’imputazione (sentenza di non luogo a procedere o decreto che dispone il giudizio), vincolata al principio dell’immutabilità della contestazione, posto a tutela del diritto dell’imputato di difendersi su quel fatto. In ragione di ciò, l’art. 423 c.p.p. dispone che nel caso in cui il fatto risulti diverso ovvero emergano o un reato in concorso formale o un reato in continuazione o, ancora, una circostanza aggravante, il pubblico ministero modifica l’imputazione e la contesta all’imputato presente o al difensore, qualora l’imputato sia assente o contumace71. In dette ipotesi il legislatore ha ritenuto sufficiente Tema complesso per i cui sviluppi si rinvia a F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 2006, p. 454 ss.; nonché alla problematica ma più recente ricostruzione di G. RICCIO, Fatti “nuovi” efatti “diversi” nel regime delle contestazioni suppletive, in Dir. giust., 2004, n. 13, p. 64 ss. 71 Sull’art. 423 c.p.p. cfr., C. ANCA, Udienza preliminare, in Dig. disc. pen., vol. XV, Torino, 1999, p. 43; R. BLAIOTTA, Art. 423 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da G. Lattanzi-E. Lupo, Vol. V, Milano, 2003, p. 1002; R. BRICCHETTI.-L. PISTORELLI, L’udienza preliminare, Milano, 2004, p. 174; F. CORDERO, Procedura penale, Milano, 1995, p. 921; G. FRIGO, Art. 423 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Vol. IV, Torino, 1990; G. GARUTI, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, cit, p. 251; V. RETICO- S. ASTARITA, Art. 423 c.p.p., in Codice di procedura penale ipertestuale, a cura di A. Gaito, Vol. I, Torino, 2006, p. 1940; T. RAFARACI, Le nuove contestazioninel processo penale, Milano, 1996; G. REYNAUD, I mutamenti dell’imputazione, in Giudizio ordinario. Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, diretta da M. Chiavario e E. Marzaduri, Torino, 2002, p. 309; C. VALENTINI, Imputazione e giudice dell’udienza preliminare, in Giur. it., 2002, p. 438. 70 172 CAPITOLO III che l’imputato o il suo difensore ricevano in udienza la contestazione delle nuove evenienze e siano messi in condizione di difendersi e di fare le scelte che l’udienza consente (ad es. richiesta di giudizio abbreviato o richiesta di applicazione della pena). Nel caso, invece, di ampliamento o di totale modifica dell’accusa per un fatto nuovo procedibile d’ufficio, il pubblico ministero può porre mano alla contestazione solo qualora vi sia il consenso dell’imputato e la successiva autorizzazione del giudice. La previsione della necessità del consenso dell’imputato risponde alla duplice esigenza di consentire l’azione per un fatto per il quale essa non era stata esercitata, e di evitare il pregiudizio al diritto di difesa per una contestazione inattesa; con la conseguenza che, in caso di assenza dell’imputato o di mancanza del consenso, gli atti devono essere restituiti al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione nelle forme ordinarie. A tal proposito è stata proposta eccezione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 24 comma 2 e 111 commi 2 e 3 Cost., degli artt. 415-bis, 416 e 423 c.p.p., proprio nella parte in cui non prevedono che, in caso di contestazione suppletiva all’udienza preliminare, la nuova imputazione, a pena di nullità, debba essere preceduta dalla notifica all’imputato e al suo difensore di un avviso dal contenuto analogo a quello contemplato dall’art. 415-bis c.p.p.72. Va sottolineato, ancora, che nell’udienza preliminare non è prevista la concessione di un termine a difesa in caso di modificazione dell’imputazione 73, diversamente da quanto Tribunale di Milano, 26 marzo 2001. La modificazione dell’imputazione nel corso dell’udienza preliminare non comporta necessariamente la concessione di un termine per la difesa, in quanto il giudice per l’udienza preliminare non esercita una piena jurisdictio, con possibilità di condannare o assolvere, ma verifica soltanto la fondatezza, almeno in chiave prognostica, della tesi accusatoria, disponendo il rinvio a giudizio, ovvero pronunciando sentenza di non luogo a procedere.. Per la motivazione v. Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, 24 giugno 72 73 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 173 previsto dall’art. 519 comma 1 c.p.p. per le contestazioni suppletive in dibattimento 74, e ciò perché nella stessa udienza, se l’imputato non è presente, la modifica dell’imputazione è comunicata al difensore 75, che rappresenta l’imputato 76, 1994, in Giur. merito, 1995, p. 574. In senso conforme cfr. Cass., sez. I, 28 aprile 1994, n. 1890, in C.E.D. Cass., n. 197875. Ritiene che un momento di possibile crisi del sistema sia rappresentato proprio dalla omessa previsione dell’obbligatoria concessione di un termine entro il quale la difesa possa controdedurre, configgendo questo aspetto della disciplina con la nozione di effettività del diritto di difesa voluta nell’art. 24 Cost. e con l’art. 111 comma 3 Cost., nella parte in cui riconosce il diritto a disporre del tempo e delle condizioni per preparare la difesa, DEL GAUDIO, Indagini e contestazioni suppletive: dall’art. 415-bis all’art. 423 c.p.p. La compatibilità del sistema con il nuovo assetto costituzionale (Relazione tenuta al corso organizzato dal Consiglio Superiore della magistratura sul tema La funzione giudiziale preliminare, Roma 9-11 luglio 2001, p. 28 e 29). 74 Dell’applicabilità, in tema di art. 423 c.p.p., dell’art. 520 c.p.p. (notifica del verbale di udienza, per estratto, all’imputato contumace) se ne è occupata la Corte costituzionale con ordinanza 185 dell’8 giugno 2001, ritenendo che il mutamento del quadro di accusa ben possa ricevere, quanto a modalità di contestazione, una disciplina difforme e più snella rispetto a quella dettata per il dibattimento, posto che in tale ultima fase lo sviluppo delle serie probatorie e l’oggetto del contraddittorio non si proiettano verso una statuizione destinata unicamente a regolare il futuro iter del processo – quale è la decisione che conclude l’udienza preliminare – bensì verso una sentenza chiamata a definire direttamente il merito della regiudicanda, e suscettibile di assumere i caratteri e la “forza” del giudicato. 75 In tema di modifica dell’imputazione in udienza preliminare e notifica al contumace si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 384 del 21 novembre 2006, con la quale è stata dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 423 comma 1 c.p.p. nella parte in cui non prevede l’obbligo del giudice dell’udienza preliminare di disporre la notificazione all’imputato contumace del verbale di udienza che recepisce la modifica dell’imputazione, mediante contestazione di una circostanza aggravante sulla base degli stessi atti posti a fondamento dell’esercizio dell’azione penale. Ciò perché l’eventuale preclusione ai riti alternativi trova causa nelle determinazioni dell’imputato di rimanere contumace e di non conferire al difensore una procura speciale per la richiesta del rito alternativo. In dottrina, critica l’interpretazione fornita dalla Corte, proponendo una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 423 c.p.p., C. GRILLI, Nuove contestazioni all’imputato contumace nell’udienza preliminare e diritto alla conoscenza dell’imputazione, in Cass. pen., 2007, p. 4515. 76 Una recente sentenza della Corte Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver il giudice modificato la qualificazione giuridica in sentenza, senza che la difesa avesse avuto la possibilità di interloquire sul fatto diversamente qualificato. Passo saliente della sentenza: i giudici di merito hanno facoltà, quando è riconosciuta loro dal diritto interno – ed è il nostro caso – di dare ai fatti di cui sono stati investiti una qualificazione giuridica diversa. Essi devono assicurare agli accusati l’opportunità di esercitare il loro 174 CAPITOLO III e poi contenuta eventualmente nel decreto che dispone il giudizio. Quanto all’ambito di applicazione dell’art. 423 c.p.p., ci si limita qui – avendone già ampiamente trattato – a ricordare come la giurisprudenza della Corte di Cassazione si sia ampiamente schierata a favore dell’interpretazione estensiva della norma, sostenendo che l’art. 423 c.p.p. – nel prevedere la modificabilità dell’imputazione mediante contestazione suppletiva, allorché “nel corso dell’udienza”, il fatto risulti diverso da come descritto nell’imputazione originaria, “ovvero emerga un reato connesso a norma dell’art. 12 comma 1 lett. b), o una circostanza aggravante” –, non postula affatto che l’elemento assunto a base della modifica sia venuto a conoscenza del pubblico ministero solo nel corso dell’udienza, dovendosi invece intendere l’espressione normativa nel senso più ampio, comprensivo, quindi, anche dell’eventualità che l’elemento sia stato già acquisito nel corso delle indagini preliminari, ma non sia stato ancora, per qualsivoglia ragione, valutato per l’incidenza sull’imputazione; e ciò anche alla luce della direttiva della quale l’art. 423 comma 1 c.p.p. costituisce attuazione77, prevedendo essa, nel punto che interessa, semplicemente il potere del pubblico ministero, “nell’udienza preliminare”, di modificare l’imputazione e procedere a nuove contestazioni78. Peraltro, la Corte di cassazione si è posta anche il problema della legittimità costituzionale di una tale scelta interpretativa; e lo ha risolto ritenendo la questione manifestamente infondata in riferimento all’art. 24 comma 2 Cost. Secondo la Corte, la possibilità del pubblico ministero di modifi- diritto di difesa in modo concreto ed effettivo, la difesa, cioè, deve potersi esprimere in ordine a questa diversa qualificazione. 77 Art. 2, punto n. 52 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81 78 Cass., sez. I, 14 novembre 1995, n. 11993, in C.E.D Cass., n. 203051; Cass., sez. III, 4 dicembre 1997, n. 1506/98, in C.E.D. Cass., n. 209791; Cass., sez. I, 28 aprile 1994, n. 1890, in C.E.D Cass., n. 197874; Cass. sez. VI, 4 giugno 1993, n. 9443, in C.E.D. Cass., n. 196008. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 175 care l’imputazione nell’udienza preliminare, non soltanto in base a quanto emerso nel corso dell’udienza ma anche sulla base degli atti dell’indagine preliminare, non viola il diritto di difesa per la mancata previsione di un termine a difesa. Invero, proprio per l’ipotesi di modifica dell’imputazione sulla base di elementi già acquisiti nel corso delle indagini, la difesa non risulta subire alcun pregiudizio, essendole già noti i suddetti elementi in forza del precedente deposito degli atti del procedimento. Non mancano tuttavia, sia nella giurisprudenza di merito che in dottrina – anche questo lo si è detto – voci dissonanti secondo le quali, affinché il pubblico ministero possa procedere alla modifica o alla integrazione della imputazione senza il consenso dell’imputato, è essenziale – oltre che si tratti di ipotesi di concorso formale di reati o di reato continuato – che il reato sia “emerso” esclusivamente nel corso dell’udienza79. Anche se la stessa dottrina – sul presupposto che il legislatore del 1999 avrebbe esteso il controllo del giudice dell’udienza preliminare alla corrispondenza tra fatto addebitato nell’avviso di conclusione di cui all’art. 415-bis c.p.p. e imputazione contestata nella richiesta di rinvio a giudizio – ha condiviso che la richiesta di rinvio a giudizio per un fatto diverso, aggravato, connesso o nuovo rispetto a quello enunciato nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari sia valida, a prescindere dal momento in cui, in corso di indagini, sia divenuta attuale la necessità di modificare il contenuto dell’art. 415-bis c.p.p.80. Cass. sez. VI, 4 giugno 1993, n. 9443, in C.E.D. Cass., n. 196009. F. CAPRIOLI, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimento contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, cit., p. 284; A. SCALFATI, La riforma dell’udienza preliminare tra garanzie nuove e scopi eterogenei, cit, p. 2828; F. VERDOLIVA, L’avviso all’indagato delle conclusioni delle indagini, in AA. VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale, Vol. I, Milano, 2000, p. 75. Contra D. POTETTI, Sommaria enunciazione del fatto, cit., p. 1478-1479, il quale segnala le gravi conseguenze che avrebbero sull’intero corso del procedimento l’eliminazione (per via interpretativa) di strumenti (come l’art. 423 c.p.p.) che consentano al pubblico ministero di rivedere, ed eventualmente correggere, errori di 79 80 176 CAPITOLO III Eppure non manca chi reputa che, qualora l’organo dell’accusa intenda contestare in udienza un reato già noto per il quale, però, non aveva formulato l’imputazione, si verserebbe in ipotesi di fatto nuovo in senso processuale, proprio perché lo stesso non era stato enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio, con la conseguente necessità, ai fini della contestazione, del consenso dell’imputato, ai sensi del comma 2 dell’art. 423 c.p.p.81. 5. Gli esiti dell’udienza preliminare. Dichiarata chiusa la discussione con l’intervento del pubblico ministero e dei difensori secondo le forme ordinarie, al giudice si pone l’alternativa tra la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere ( art. 425 c.p.p.) e del decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.). L’alternativa, è appena il caso di ricordare, non è secca, potendo il giudice definire la fase con un provvedimento interlocutorio di restituzione degli atti al pubblico ministero per la diversa descrizione del fatto imputato, secondo quanto ha statuito la Corte costituzionale con la sentenza n. 88 del 15 marzo 1994. Si è già detto sulle modifiche dell’imputazione e sui rimedi correttivi dei vizi genetici della sua articolazione; ora è sufficiente evidenziare che, per la Corte costituzionale, il principio di correlazione tra accusa e sentenza ha una valenza generale che lo proietta ben al di là del dibattimento, posto com’è a presidio del diritto di difesa, della garanzia del contraddittorio e dell’efficacia del controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell’azione. L’epilogo della restituzione degli atti per diversità del fatto è impostazione connessi nel momento della formulazione dell’imputazione originaria, sia pure rispetto ad elementi già acquisiti durante la fase delle indagini preliminari. 81 V. Corte di Appello Roma, 17 febbraio 1993, in Giur. it., 1995, c. 314. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 177 rimedio residuale, messo a disposizione del giudice per il caso in cui, nonostante le sopravvenienze probatorie, il pubblico ministero non abbia attivato i poteri di rimaneggiamento del fatto ex art. 423 c.p.p.; non sembra, invece, che conservi spazio come rimedio al difetto genetico di costruzione nella misura in cui le indicazioni procedimentali della sentenza Battistella delle Sezioni unite della Corte di cassazione, su cui prima ci si è a lungo soffermati, dovrebbero indurre nella gran parte dei casi all’adozione del provvedimento di restituzione degli atti, esperito inutilmente il cosiddetto “rimedio endofasico”, prima della fisiologica conclusione dell’udienza preliminare. Quanto ai contenuti della sentenza di non luogo a procedere, è già stato detto. In seguito alla riforma attuata dalla legge n. 479 del 1999, l’art. 425 c.p.p., prevede l’epilogo favorevole all’imputato anche laddove “gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”82, facendo sì che il giudice dell’udienza preliminare sia tenuto ad un giudizio di tipo prognostico, assimilabile a quello condotta secondo la regola di giudizio di cui all’art. 125 disp. att. c.p.p. Egli pertanto, qualora ritenga che l’insufficienza degli elementi acquisiti non possa essere colmata o che la loro contraddittorietà non possa essere sanata in giudizio, deve prosciogliere l’imputato. L’art. 425 comma 3 c.p.p. prevede, inoltre, l’emissione della sentenza di non luogo a procedere anche laddove gli elementi acquisiti siano “comunque non idonei a sostenere l’accusa in Sui nuovi criteri di valutazione sottesi alla sentenza di non luogo a procedere introdotti nell’art. 425 c.p.p. v., tra gli altri, E. AMODIO, Lineamenti della riforma, in Giudice unico e garanzie difensive, cit., p. 24 e 25; I. CALAMANDREI, Criteri di giudizio e provvedimenti conclusivi dell’udienza preliminare, in Giust. pen., 2002, III, c. 5 e ss.; A. GIARDA, Il decennium bug della procedura penale, in AA. VV., Il nuovo processo penale, Milano, 2000, p. 12. 82 178 CAPITOLO III giudizio”, consentendo la valutazione di tutte quelle ipotesi che si connotano per una prognosi infausta di percorribilità dibattimentale della pretesa punitiva, diverse da quelle caratterizzate da una situazione pacifica, quale la mancanza della prova della colpevolezza o l’esistenza della prova dell’innocenza, o da una situazione insufficiente o contraddittoria. La legge n. 479 del 1999 ha introdotto, altresì, il comma 2 dell’art. 425 c.p.p. che prevede la possibilità per il giudice dell’udienza preliminare di tener conto anche delle circostanze attenuanti, comparate eventualmente con le aggravanti ai sensi dell’art. 69 c.p., quando risultino rilevanti per la dichiarazione di estinzione del reato; ma pure in questo caso, come si è detto, la lettura della disposizione rende evidente che la valutazione delle circostanze è operata ai fini della sentenza di non luogo a procedere e non già ai fini della valutazione della responsabilità dell’imputato. Problema delicato è quello relativo al potere del giudice dell’udienza preliminare di emettere sentenza si proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. Si è già detto che la regola del proscioglimento immediato opera anche per la fase dell’udienza preliminare, perché l’inciso d’esordio dell’art. 129 c.p.p., “in ogni stato e grado del processo”, non lascia a tal proposito margine a dubbi. Il problema affrontato in dottrina e giurisprudenza è allora quello del raccordo tra la regola del proscioglimento immediato e la disciplina della sentenza di non luogo a procedere. Una distinzione, che però non pare possa avere significative ricadute operative, è stata colta83, anche dalla giurisprudenza84, nel fatto che l’art. 129 c.p.p. lega il proscioglimento al riconoscimento da parte del giudice della sussistenza di una causa di non punibilità, e quindi ne connota A. MARANDOLA, Declaratoria immediata di cause di non punibilità (obbligo di), in Enc. giur., Vol. X, Roma, 2002, p. 4. 84 Sez. VI, 15 giugno 1998, Amroun Belahcene, in Cass. pen., 1999, p. 946. 83 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 179 soggettivamente la rilevazione, mentre l’art. 425 c.p.p. pone l’accento sul dato oggettivo della sussistenza di una causa di non punibilità. La dichiarazione di non luogo a procedere sarebbe dunque fondata su un dato più schiettamente oggettivo, prescindendo dal profilo soggettivo del riconoscimento da parte del giudice. Il sottile distinguo, se può avere un qualche interesse teorico, non sembra in grado di tradursi in differenti modalità applicative delle due regole perché, data pure la rilevanza oggettiva della causa di non punibilità nella costruzione dell’art. 425 c.p.p., non si può fare a meno della mediazione cognitiva del giudice, che inevitabilmente riduce lo scarto con l’ipotesi di cui all’art. 129 c.p.p. Di maggiore interesse è piuttosto verificare se l’art. 129 c.p.p. possa avere un autonomo spazio applicativo nel corso dell’udienza preliminare, se ne possa anticipare la fisiologica conclusione o se, invece, sia l’art. 425 c.p.p. a porsi come norma di riferimento rispetto alla generale previsione sul proscioglimento immediato, traducendone il contenuto entro quel preciso schema procedurale e con quelle specifiche regole di giudizio. A voler ammettere una certa autonomia dell’art. 129 dovrebbe stabilirsi, compito arduo e incerto, quale sia il momento dell’udienza entro il quale possa intervenire una pronuncia liberatoria ex art. 129 c.p.p. e quale ne debba essere il regime giuridico, in particolare se sia suscettibile di passare in cosa giudicata a differenza della sentenza di non luogo a procedere sempre soggetta a revoca. A tal proposito v’è chi85 ha proposto di riservare il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. alle situazioni in cui l’accertamento è pieno ed irreversibile, come nel caso di estinzione del reato, facendo invece operare il proscioglimento ex art. 425 c.p.p. nel caso in cui assuma F. FALATO, Sull’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., cit., p. 2290; R. BLAIOTTA, Art. 425 c.p.p., in G. LATTANZI-E. LUPO, Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Milano, p. 1098. 85 180 CAPITOLO III rilievo la regola di giudizio di tipo prognostico, come ad esempio per il riconoscimento di una circostanza attenuante ritenuta prevalente rispetto ad una circostanza aggravante, con conseguente effetto estintivo del reato. Convince di più la tesi che nega la configurazione ex art. 129 c.p.p. di un atipico potere di definizione dell’udienza preliminare e che evidenzia come quel meccanismo esplichi principalmente la sua funzione nell’ambito della cognizione del giudice dell’impugnazione, consentendo un’importante deroga al principio della devoluzione parziale, ma sia privo di conseguenze quanto ai tempi e ai modi della pronuncia di proscioglimento, specie in udienza preliminare, nulla aggiungendo a quanto già disciplinato dal codice86. Prima di una migliore messa a fuoco delle ricostruzioni che conservano spazi autonomi di applicabilità nell’udienza preliminare all’art. 129 c.p.p., occorre sgombrare il campo da un possibile equivoco derivante da una certa lettura delle affermazioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione, sentenza De Rosa – già oggetto di nostra attenzione87 – che hanno escluso la legittimità di pronunce ex art. 129 c.p.p. fuori e prima dell’udienza preliminare. Si potrebbe infatti arguire dal dispositivo del supremo Collegio che con esso si sia inteso avallare la soluzione della concorrente applicabilità sia dell’art. 129 c.p.p. che dell’art. 425 c.p.p., aprendo all’ulteriore problema dell’individuazione degli spazi di rispettiva operatività sia pure all’interno dell’unica fase, quella cioè dell’udienza preliminare. Ora, se pure è vero che le Sezioni unite hanno negato all’art. 425 c.p.p. la natura di norma speciale rispetto a quella dell’art. 129 c.p.p., così escludendo che essa ne impedisca ogni possibile G. SPANGHER-A. GIARDA, Sub artt. 129 e 425, in Codice di procedura penale commentato, II, Milano, 2001, p. 729. Di recente, con ampia e convincente argomentazione, L. SCOMPARIN, Il proscioglimento immediato, cit., p. 181 ss. 87 Cfr., retro, Cap. I. 86 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 181 applicazione, hanno poi statuito che le due norme si integrano, o meglio che la norma dell’art. 129 c.p.p. è trasfusa in quella contenuta nell’art. 425 c.p.p. Di tanto si avrebbe una conferma testuale nella disposizione dell’art. 129 comma 2 c.p.p., che fa espresso richiamo alla sentenza di non luogo a procedere menzionandola unitamente alla sentenza di assoluzione, sì da far ritenere che la generica indicazione di «sentenza» di cui all’art. 129, comma 1, c.p.p. sia a sua volta comprensiva anche dell’epilogo decisorio proprio dell’udienza preliminare. Com’è stato a tal proposito già opportunamente chiarito in dottrina88, il richiamo alla sentenza di non luogo a procedere dovrebbe soltanto evidenziare che la gerarchia delle formule deve trovare applicazione anche all’esito dell’udienza preliminare; si è al contempo rilevato, peraltro, che il mancato approfondimento delle relazioni tra le più volte richiamate disposizioni codicistiche ha finito col sancirne «la possibile convivenza nell’ambito dell’udienza preliminare, creando, così, i presupposti per l’emanazione di due provvedimenti diversi e autonomi». Di qui la preoccupazione nel precisare che la sentenza ex art. 129 c.p.p., eventualmente emessa nel corso dell’udienza preliminare, «resta pur sempre una sentenza di non luogo a procedere, come tale sottoposta al peculiare regime ad efficacia preclusiva limitata delineato dagli artt. 434 e seg. c.p.p.». Non può sfuggire che una siffatta correzione di tiro, compatibile con le argomentazioni della sentenza De Rosa, è già in gran parte una risposta negativa al quesito circa l’ammissibilità di un autonomo spazio operativo dell’art. 129, comma 1, c.p.p. in udienza preliminare, e serve ad evitare che la pronuncia delle Sezioni unite, che a quanto consta non ha dato luogo a dissensi nella successiva giurisprudenza di legittimità, sia L. IAFISCO, Il no delle Sezioni unite alla declaratoria immediata di una causa di non punibilità nella fase che va dalla ricezione della richiesta di rinvio a giudizio allo svolgimento dell’udienza preliminare, in Giur. it., 2006, p. 366 ss. 88 182 CAPITOLO III utilizzata a sostegno dell’opposta tesi, fatta propria, tra gli altri, da chi ritiene che la diversità strutturale e funzionale delle previsioni di cui agli artt. 129 e 425 c.p.p., a fronte dell’apparente sinonimia terminologica delle varie formule di proscioglimento ivi elencate, giustifichi l’emissione in udienza preliminare di una pronuncia ex art. 129 c.p.p., sulla base di una «valutazione di merito che ben può inserirsi all’interno della fase deputata al controllo sull’azione penale»89. La previsione dell’art. 129 c.p.p., questo in breve l’assunto interpretativo, consentirebbe al giudice dell’udienza preliminare, altrimenti chiamato soltanto alla verifica della sostenibilità dell’accusa in giudizio, di esercitare poteri decisori sul merito dell’imputazione, trasformandosi da giudice dell’azione in giudice del merito. Il contraddittorio delle parti sarebbe allora il necessario presupposto per la «trasmutazione del momento di controllo in giudizio di merito». Questa posizione, dalla quale, si ribadisce, si dissente, ha un’indiscutibile forza di suggestione per la parte in cui prospetta una considerazione rafforzata delle esigenze di garanzia dell’imputato innocente90. L’idea da cui essa muove è che l’art. 129 c.p.p. attribuisca un potere cognitivo e decisorio che si sovrappone a quello che le diverse norme, nel regolare la progressività dell’accertamento, conferiscono al giudice per la definizione della vicenda processuale. Tanto, ancora, è affermato da chi ritiene che l’art. 129 c.p.p. e 89 Così M. GRIFFO, Immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e udienza preliminare, in Giur. it., 2005, p. 369 e ss. 90 T. BENE, La sentenza di non luogo a procedere, AA. VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 79 (c.d. legge Carotti), a cura di L. Kalb, Vol. I, Milano, 2000, p. 476, con la premessa che le regole stabilite nell’art. 129 e nell’art. 425 c.p.p. operano su piani diversi, sì da rendere possibile il proscioglimento ex art. 129 cp.p. in udienza preliminare per ogni ipotesi ivi contemplata, osserva che va riservata «una via preferenziale per l’art. 129 c.p.p., perché quella in esso prevista è sentenza di merito con effetti più favorevoli per l’imputato, dal momento che la sentenza ex art. 425 c.p.p. resta pronuncia a giudicato debole, perché comunque in rapporto ad essa è consentita la riapertura delle indagini (artt. 434 s. c.p.p.)». CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 183 l’art. 425 c.p.p. non condividano la regola di giudizio, dato che il potere conferito al giudice dell’udienza preliminare, e che giustifica l’emissione della sentenza di non luogo a procedere, è diretto all’accertamento del corretto esercizio dell’azione, da svolgersi per mezzo del parametro della (in)fondatezza dell’accusa, mentre il potere a cui fa riferimento la norma sull’immediata declaratoria di una causa di non punibilità consente un diretto accertamento del fatto, che è oggetto di valutazione più ampia di quella sottesa al controllo sulla correttezza dell’esercizio dell’azione91. Alla diversità dei poteri segue, secondo la ricostruzione che qui si riassume, la diversità delle regole di giudizio, sicché la disposizione dell’art. 129 c.p.p. conferirebbe anche al giudice dell’udienza preliminare, in forza dell’inciso generale “in ogni stato e grado del processo” – che segna l’ampiezza dell’ambito operativo della disposizione –, il potere «di sottrarre definitivamente l’imputato ad un processo ingiusto ogniqualvolta appare evidente la sua estraneità al fatto o l’inesistenza del fatto stesso». Il richiamo all’evidenza, per il vero, ingenera il dubbio che si intenda fare riferimento, nell’individuazione della regola di giudizio espressiva del più ampio potere di accertamento del fatto, alla disposizione del comma 2 dell’art. 129 c.p.p. e non già a quella contenuta nel comma 1. Se così fosse, non si potrebbe contestare l’assunto che individua una regola di giudizio nell’art. 129 c.p.p., giacché il comma 2 mira proprio alla disciplina dei poteri decisori del giudice, imponendogli la pronuncia più liberatoria, in facto o in iure, ove l’innocenza dell’imputato si riveli con evidenza, e ciò nonostante sussista una causa di estinzione del reato. Per questa parte la disposizione detta con certezza una regola di giudizio, ma dallo spettro operativo limitato al caso di concorrenza di più cause di non punibilità, una delle quali costi- 91 F. FALATO, Sull’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. tra la richiesta di rinvio a giudizio e l’udienza preliminare, cit., p. 2290. 184 CAPITOLO III tuita dalla ricorrenza di una causa estintiva del reato; essa prevede, per chiare ragioni di tutela della posizione dell’imputato innocente, che questi abbia diritto al riconoscimento dell’estraneità all’addebito. Peraltro, l’indicata regola di giudizio ben si combina con la previsione contenuta nell’art. 425 c.p.p., facendo carico anche al giudice dell’udienza preliminare di dare prevalenza alle formule di proscioglimento più favorevoli, ove ricorra una causa estintiva del reato ma altre cause di non punibilità emergano con evidenza. E ciò sembra ragionevolmente discendere dal suo carattere complementare, rivelato dal fatto che l’applicazione di questa regola presuppone logicamente che il giudice abbia già fatto ricorso alle ordinarie regole di giudizio che gli consentono di prospettare l’alternativa decisoria delle diverse formule di proscioglimento. La complementarietà, per esser chiari, consiste nel ruolo assegnato alla regola di giudizio del comma 2 dell’art. 129 c.p.p., di risoluzione del caso della concorrenza di più formule di proscioglimento, ciascuna delle quali si pone come risultato di un percorso (cognitivo e) decisorio regolato da altra regola di giudizio. Se, di contro, la tesi che qui si contesta intende scorgere una regola di giudizio nella disposizione del comma 1 dell’art. 129 c.p.p., posizione che per quanto criticabile appare coerente con l’affermazione della diversità dei poteri decisori sottesi alle disposizioni dell’art. 129 c.p.p. e dell’art. 425 c.p.p., le ragioni del dissenso si arricchiscono di altre considerazioni, che fondano sul dato testuale della norma. Esse non vengono meno alla luce dell’ulteriore elaborazione compiuta dalla dottrina in esame sul significato dell’art. 129 c.p.p.: di recente questa dottrina è giunta alla conclusione che l’art. 129 c.p.p. esprime una regola di condotta e non di giudizio, e che, per quanto concerne la regola di giudizio, non può che rimandare alla «presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27, comma 2, Cost., recepita dal legislatore ordinario negli artt. 529, 530, 531 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 185 e 533, comma 1, c.p.p., ovvero alle specifiche regole decisorie che determinano la pronuncia di merito e ciò, a prescindere dalla fase e dal grado del processo in cui interviene al declaratoria»92. La regola di condotta, questo l’approdo interpretativo, sarebbe completata, per quanto attiene alla portata dell’accertamento e alla sua efficacia preclusiva, dalla «regola di giudizio rappresentata dalla presunzione di non colpevolezza e realizzata dal legislatore ordinario attraverso gli artt. 529; 530; 531 e 533, comma 1, c.p.p.». Si è quindi negato che la regola di giudizio possa essere ricavata dalla fase e dal grado in cui il giudice, in ossequio alla regola di condotta espressa dall’art. 129 c.p.p., deve pronunciare il provvedimento liberatorio, sul presupposto che la sentenza ex art. 129 c.p.p. è sentenza di merito a cui fondamento non può non esserci un accertamento di non colpevolezza. E quando la regola di condotta dell’art. 129 c.p.p. deve trovare applicazione nell’udienza preliminare, la regola di giudizio da applicare non è quella dell’art. 425 c.p.p., ma quella espressamente dettata per la fase del giudizio dibattimentale e che, in forza della previsione dell’art. 129 c.p.p., governa i proscioglimenti immediati quale che sia la fase e/o il grado in cui intervengono. La differenza dei poteri decisori, del giudice che verifica la correttezza dell’esercizio dell’azione e del giudice che, invece, è tenuto al riconoscimento della sussistenza di una delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., si coglie nella diversità delle decisioni che dei rispettivi poteri sono esercizio: la sentenza di non luogo a procedere è pronuncia di natura processuale che si limita a statuire l’impossibilità, in presenza di determinate condizioni, di procedere al giudizio; la sentenza di proscioglimento implica invece una valutazione nel merito, ed è l’alternativa alla decisione di condanna. 92 F. FALATO, In tema di revisione della sentenza patteggiata, in Giust. pen., 2008, p. III, c. 161. 186 CAPITOLO III Essa pertanto, pur quando assunta in udienza preliminare, obbliga il giudice al ragionamento probatorio secondo le regole di giudizio proprie del dibattimento, da ultimo arricchite dalla regola dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”93. Ora, a prescindere dalle perplessità che una siffatta ricostruzione sollecita almeno in riguardo all’istituto del patteggiamento94, essa sembra tradire una contraddizione non agevolmente sanabile. La premessa da cui muove, e cioè che l’art. 129 c.p.p. contenga soltanto una regola di condotta e non anche una regola di giudizio, è infatti immediatamente dopo contrastata dall’affermazione che l’art. 129 c.p.p. non possa che fare richiamo alle regole di giudizio proprie della fase dibattimentale. La conclusione che l’art. 129 c.p.p., per il riferimento al canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, non possa che comportare l’applicazione delle regole di giudizio del dibattimento implica l’assunto che l’art. 129 c.p.p., e specificamente il suo primo comma, esprime una regola di giudizio, sia pure “per relationem”, che è quella codificata espressamente nella parte riservata al dibattimento e che, per il rinvio mediato che ad essa fa l’art. 129 c.p.p., opera in ogni stato e grado del processo. Sembra, quindi, che, al di là delle espressioni di premessa, l’approfondimento interpretativo sia ancora nel senso che l’art. 129, comma 1, c.p.p. contenga una regola di giudizio. L’art. 129, comma 1, c.p.p., invece, si limita a statuire che il giudice, d’ufficio, deve pronunciare il proscioglimento, quale che sia lo stato o il grado del giudizio, ove riconosca l’esistenza dei Questo il pensiero di F. FALATO, In tema di revisione della sentenza patteggiata, cit., c. 165. 94 Si dovrebbe infatti affermare, contrariamente a quanto sembra essere anche il “senso comune” in ordine alla sentenza che applica la pena su richiesta, che essa sia adottata secondo le regole proprie della sentenza di condanna dibattimentale, perdendosi così di vista il ruolo giocato dall’accordo delle parti come elemento di delimitazione dei poteri decisori del giudice 93 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 187 presupposti per l’adozione di una delle plurime forme di proscioglimento gerarchicamente ivi enumerate, ma non indica la regola a cui il giudice deve attenersi per poter affermare che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato e così ancora, secondo quanto ivi elencato. È una forzatura interpretativa l’asserzione che l’art. 129 c.p.p. contenga, nella sua prima parte, direttamente o per relationem una regola di giudizio, perché la previsione di un dovere di pronuncia del proscioglimento, riconosciuta la sussistenza dei presupposti che ne stanno a fondamento, nulla dice su quali siano i criteri di apprezzamento di detti presupposti95. Né può dirsi che la diversità delle regole di giudizio si desuma dalla connotazione soggettiva delle valutazioni ex art. 425 c.p.p. e dal carattere, per così dire, oggettivo di quelle svolte ex art. 129 c.p.p., che si sostanziano nella rilevazione di una «situazione di immediata percepibilità e accertabilità…, senza altra indagine»96. Se si collega la sentenza ex art. 129 c.p.p. da pronunciarsi in udienza preliminare alla «immediata percepibilità» della causa di non punibilità, che giustifica la contrazione degli spazi processuali di accertamento rendendo inutile ogni integrazione probatoria e la discussione delle parti su profili diversi, si introduce, più o meno consapevolmente, il requisito dell’evidenza nel corpo della disposizione dell’art. 129, comma 1, c.p.p. 95 Di una diversità di regole di giudizio poteva dirsi sino a quando il legislatore del codice condizionò l’emissione della sentenza di non luogo a procedere al requisito dell’evidenza, che fungeva da strumento di compressione dei poteri decisori del giudice dell’udienza preliminare, il quale poteva allora recuperare un più ampio spettro cognitivo e decisorio facendo leva proprio sull’art. 129, comma 1, c.p.p.,che l’evidenza della causa di non punibilità non ha mai preteso. Cfr., in tal senso, E. MARZADURI, Art. 129, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, Torino, 1990, p. 107, ss. 96 R. NORMANDO, Il decreto che dispone il giudizio, in Le recenti modifiche al codice di procedura penale – Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 79 (c.d. legge Carotti), a cura di L. Kalb, Vol. I, Milano, 2000, p. 520-521. 188 CAPITOLO III Il dovere di interruzione dell’accertamento per la pronuncia immediata della causa di non punibilità non significa che la causa di non punibilità debba essere oggetto di una «immediata percepibilità», nel senso che debba palesarsi con una tale forza da essere rilevata senza alcuno sforzo cognitivo. Il requisito dell’immediatezza giova ad evitare la prosecuzione del processo, magari giustificabile con la ricerca di altre e più favorevoli ragioni di proscioglimento, ma non fa riferimento ai caratteri con cui la causa di non punibilità si pone alla cognizione del giudice; se così non fosse, la distinzione con la previsione del comma 2 dell’art. 129 c.p.p. sfumerebbe a tal punto da rendere assai difficile l’applicazione della regola della soccombenza del proscioglimento per estinzione. Se, per definizione normativa, ogni causa di non punibilità dovesse rilevare immediatamente, e quindi dovesse essere di percezione evidente, quale sarebbe lo spazio applicativo, fuori dei casi di assenza di ogni altra causa di non punibilità, del proscioglimento per estinzione del reato? Eppure, il legislatore inequivocamente prende in considerazione la prevalenza del proscioglimento più favorevole limitandola casisticamente, perché implicitamente ammette che possano porsi dei casi di concorrenza di cause di proscioglimento in cui quella più favorevole non risulti con evidenza. Se avesse voluto ragionare in termini diversi, non avrebbe qualificato con l’evidenza la risultanza dagli atti della causa di proscioglimento destinata a prevalere sulla dichiarazione di estinzione del reato. Sembra, allora, che le regole di giudizio non possano che essere rinvenute in quelle disposizioni che disciplinano i differenti momenti processuali in cui il giudice può essere chiamato alla pronuncia di proscioglimento. La prima parte dell’art. 129 c.p.p., in buona sostanza, non detta una regola di giudizio97 ma una re- 97 A. FURGIUELE, L’applicazione di pena su richiesta delle parti, Napoli, 2000, p. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 189 gola di condotta, secondo quanto affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza De Rosa, nel senso, qui specificamente di interesse, che gli è fatto obbligo di non approfondire l’accertamento nel caso in cui, sulla base delle regole di giudizio che sono proprie della fase in cui opera, ha già modo di apprezzare l’esistenza dei presupposti per l’adozione di una delle formule di proscioglimento elencate dalla disposizione. Non si può allora dubitare dell’utilità e delle funzione di garanzia della disposizione dell’art. 129 c.p.p., pur se essa non sia attributiva di un autonomo potere decisorio, capace di colmare quegli spazi che eventualmente residuino dalla compressione, per ragioni legate alla fisionomia della progressione processuale, dei poteri decisori del giudice. Non si è però ancora risposto al rilievo della tesi avversata, secondo cui il giudice dell’udienza preliminare non ha poteri di cognizione diretta del fatto e detti poteri non sarebbero esercitabili, con conseguente nocumento per l’imputato innocente, ove non ne fosse individuata nell’art. 129 c.p.p. la fonte attributiva. L’osservazione, questa la replica, sembra consumare interamente la sua efficacia sul piano degli espedienti dialettici, perché il controllo sul corretto esercizio dell’azione non può prescindere dal controllo 143 ss., pone bene in evidenza come l’art. 129 comma 1 c.p.p. non fornisca alcuna precisazione in ordine alla regola di giudizio, aggiungendo che la regola di giudizio utile per il «riconoscimento» delle diverse cause di non punibilità è diversa a seconda dello stato del processo, come si desume dal collegamento del riferimento operato dalla norma ad «ogni stato e grado». Una regola di giudizio, prosegue l’Autore, è invece contenuta nel comma 2 dell’articolo, che eleva a requisito necessario per il proscioglimento nel merito l’«evidenza» quando già ricorrano le condizioni per la pronuncia della sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato. Dalla comparazione delle disposizioni contenute nei due commi si ha ulteriore conferma del fatto che al comma 1 l’art. 129 c.p.p. non individua alcuna regola di giudizio, e ciò si spiega col fatto che, in ragione della natura generale della previsione, «non può essere predeterminata una regola, ma deve essere applicata quella prevista in relazione alla tipologia di sentenza di proscioglimento da pronunciarsi, rispettivamente nella fase dell’udienza preliminare (art. 425 c.p.p.) ed in quella del giudizio (art. 530 e 521 c.p.p.)». 190 CAPITOLO III sul fatto come ricostruito nell’imputazione, che non è, e non potrebbe essere, un oggetto mediato dell’accertamento del giudice dell’udienza preliminare. Quel che, invece, è incontestabile, ma si colloca in una diversa prospettiva, è che la conoscenza del fatto, se la sede è quella del controllo sul corretto esercizio dell’azione, non è funzionale all’affermazione sulla responsabilità ma soltanto a quella dell’utilità del giudizio. Il fatto di reato, però, nella proiezione ipotetica che nel processo promana dall’imputazione, è l’oggetto esclusivo dell’accertamento, anche del giudice dell’udienza preliminare. Valga a tal proposito richiamare le affermazioni della Corte costituzionale98 che si è occupata della questione di costituzionalità dell’art. 425 c.p.p., per un denunciato ecco di delega, per la parte in cui prevede che il non luogo a procedere possa essere pronunciato anche «perché il fatto non costituisce reato», nonostante la direttiva n. 52), art. 2 della legge-delega n. 81 del 1987 sembri limitare l’emissione della sentenza di non luogo a procedere ai casi di estinzione del reato, di mancanza di una condizione di procedibilità, della non previsione del fatto come reato e di evidenza dell’insussistenza del fatto e della non commissione del fatto da parte dell’imputato. La Corte ha infatti risolto il formale contrasto tra previsioni di delega e di codice osservando che l’imputazione costituisce l’oggetto del contraddittorio e delle valutazioni del giudice, sicché si desume che il diritto dell’imputato di difendersi contestando la richiesta di rinvio a giudizio «deve necessariamente calibrarsi in funzione di tutto ciò che l’atto di imputazione enuncia a suo carico, senza potersi a tal fine parcellizzare o, peggio, dissolvere, prendendo a riferimento aspetti che solo parzialmente esauriscono il fatto ed i suoi connotati di antigiuridicità». Ne ha quindi tratto la conclusione che se la legge-delega dovesse essere interpretata nel senso della limitazione del controllo del giudice ai soli 98 Sentenza n. 82 dell’11 marzo 1993. CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 191 elementi materiali del reato, all’ascrivibilità del fatto all’imputato e alla riconducibilità del fatto alla fattispecie normativa, la difesa che intendesse contestare «l’esistenza dell’elemento psicologico del reato o dedurre la presenza di una causa di giustificazione» sarebbe priva di risposta giurisdizionale. Tanto sarebbe in contrasto con i più elementari principi di garanzia e con la stessa legge–delega che ha modellato l’udienza preliminare tenendo conto delle esigenze di parità tra accusa e difesa. Di qui l’ovvia conclusione, che ora può trarsi, circa l’identità dell’oggetto dell’accertamento tra giudice dell’udienza preliminare e giudice del merito, apprezzandosi ogni altra diversità sul piano dei poteri istruttori e quindi dello spettro cognitivo e, infine, su quello appunto delle regole di giudizio. Un elemento di diversità significativo è invece costituito dalla previsione nell’art. 425 c.p.p. del non luogo a procedere per la “non punibilità per qualsiasi causa”, inciso che non compare nell’art. 129 c.p.p. Sembra allora plausibile la conclusione secondo cui l’art. 425 c.p.. consente di addivenire ad una sentenza di non luogo a procedere per dichiarare, ad esempio, la non punibilità ex art. 384 c.p., l’esimente tipica di alcuni dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, che invece resta fuori dall’ambito applicativo del proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p.99. Altra novità introdotta dalla riforma del 1999 relativamente all’art. 425 c.p.p. attiene al divieto per il giudice di emettere sentenza di non luogo a procedere quando ritenga che dal proscioglimento possa conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza. La ratio della previsione è da ravvisare nella considerazione che in udienza preliminare l’accertamento è volto soltanto a verificare la possibilità di sostenere l’accusa in dibattimento, laddove l’adozione di una misura di sicurezza richiede un accertamento più appro- 99 L. SCOMPARIN, Il proscioglimento immediato, cit., p. 185. 192 CAPITOLO III fondito rispetto al quale l’udienza preliminare si presenta strutturalmente inadeguata. In tal modo il legislatore sembra aver condiviso l’orientamento della Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 41 del 1993, dichiarò l’illegittimità dell’art. 425 comma 1 c.p.p. nella parte in cui stabiliva che il giudice dell’udienza preliminare potesse pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando risultava evidente che l’imputato fosse persona non imputabile. La sentenza di non luogo a procedere deve essere sommariamente motivata, e qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata della motivazione, il giudice provvede entro in trentesimo giorno dalla pronuncia. Dalla scadenza del termine di trenta giorni decorre quello per l’impugnazione, pari a quindici giorni secondo quanto previsto dall’art. 585 c.p.p. per i provvedimenti messi all’esito del procedimento in camera di consiglio, senza che le parti presenti in udienza debbano ricevere avviso di deposito. L’avviso di deposito è invece necessario qualora il termine di trenta giorni non sia in concreto osservato. In questo senso si è espressa, anche di recente, la Corte di cassazione che ha chiarito come la previsione in sentenza di un più ampio termine di deposito, evenienza non prevista dalla legge per la sentenza di non luogo a procedere, non determina il mutamento del principio di diritto, sicché le parti, senza avviso di deposito, dovranno proporre impugnazione nei quindici giorni decorrenti dalla scadenza del termine più ampio programmato dal giudice per il deposito della motivazione100. Già le Sezioni unite della Corte si erano espresse in tal senso101, rilevando l’inapplicabilità alla sentenza di non luogo a procedere della previsione dell’art. 128 c.p.p. sul Così, Cass., sez. VI, 1 ottobre 2007, n. 40877, in C.E.D. Cass., n. 238037. V., anche, Cass., sez. VI, 28 giugno 2007, n. 30967, in C.E.D. Cass., n. 237087. 101 Sez. un., 26 giugno 2002, D’Alterio, in Cass. pen., 2002, p. 3682. 100 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 193 deposito dei provvedimenti camerali e sulla necessità dell’avviso di deposito per la decorrenza del termine di impugnazione, non solo per la deroga espressa contenuta nello stesso art. 128 c.p.p. ma anche per le modifiche normative (legge Carotti) successivamente intervenute alla formazione dell’orientamento interpretativo superato, e che attribuiscono alla sentenza di non luogo a procedere un apprezzamento del merito non più sommario, come quello che ordinariamente connota le decisioni allo stato degli atti. Nel caso in cui il giudice, al termine dell’udienza preliminare, non accerti la sussistenza di una situazione probatoria che consenta di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere, emette il decreto che dispone il giudizio a norma dell’art. 429 c.p.p. Esso deve contenere oltre alle generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo nonché le generalità delle altre parti private, con l’indicazione dei difensori (lett. a), l’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata (lett. b), l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge (lett. c), l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono(lett. d), il dispositivo, con l’indicazione del giudice competente per il giudizio (lett. e), l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia(lett. f), nonché la data e la sottoscrizione del giudice (lett. g). Il legislatore ha invece escluso, non facendone menzione nell’analitica elencazione delle componenti, che il decreto possa contenere una motivazione argomentata. Non si tratta di una dimenticanza ma di una scelta consapevole, con la quale il legislatore ha voluto sottolineare l’esigenza di evitare che il giudice del dibattimento possa essere influenzato dalla ricostruzione dei fatti 194 CAPITOLO III propostagli dal giudice dell’udienza preliminare: sarà il giudice del dibattimento a motivare la sentenza, senza che altri, prima di lui, supporti con un pre-giudizio di merito le sue decisioni102. Per la medesima ragione il legislatore ha previsto che la forma del provvedimento che segna il passaggio dall’udienza preliminare al dibattimento debba essere quella del decreto. In tal modo il legislatore ha espresso la chiara volontà di attribuire a tale provvedimento una natura meramente interlocutoria, tale da non pregiudicare in alcun modo il convincimento del giudice per il dibattimento a differenza dell’ordinanza che concludeva l’istruzione formale nel codice del 1930. Si è previsto, tuttavia, che il decreto contenga non solo l’elencazione delle prove di accusa, ma anche l’indicazione dei fatti cui esse si riferiscono, di modo che il giudice del dibattimento abbia quantomeno un quadro dei fatti rilevanti. Nonostante il silenzio legislativo sia significativo, per quanto appena detto, della volontà di escludere l’obbligo di motivazione, non è infrequente che i decreti che dispongano in giudizio siano motivati. Ciò ha posto, innanzitutto alla giurisprudenza di legittimità, il problema di quali siano le conseguenze ed i rimedi, per porre al riparo il giudice del dibattimento dalla conoscenza di questi indebiti apporti motivazionali del decreto. La Corte di cassazione ha da tempo e univocamente escluso che la motivazione del decreto ne determini la nullità o l’abnormità ed ha individuato nelle disposizioni degli artt. 431 e 491, comma 2, c.p.p., sulla formazione del fascicolo per il dibattimento e l’espunzione, previa richiesta Sulla esclusione della motivazione del decreto che dispone il giudizio è concorde la dottrina processual-penalistica. Cfr., oltre G.CONSO-V. GREVI, tra gli altri, E. AMODIO, Atti e provvedimenti del giudice, in E. AMODIO-O. DOMINIONI, Commentario del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989, Vol. II, p. 81; A. CRISTIANI, Manuale del nuovo processo penale, Torino, 1990, p. 324, il quale rileva che la formulazione dell’art. 429 c.p.p. non solo non richiede, ma “decisamente esclude” la motivazione del decreto. 102 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 195 delle parti, degli atti ivi erroneamente inseriti, gli strumenti per ovviare all’esuberanza motivazionale. La motivazione del decreto, per meglio dire la motivazione in eccesso, può quindi, secondo la Corte di cassazione, essere oggetto di un provvedimento di stralcio ad opera del giudice del dibattimento103. Sulla deduzione di abnormità, in particolare, la Corte di cassazione104 ha osservato che la motivazione non determina l’estraneità del decreto allo schema legale e non compromette la sua idoneità funzionale nella progressione processuale, aggiungendo che la parte eccedente, appunto la motivazione, vitiatur se non vitiat, perché dà luogo ad una irregolarità che non invalida il contenuto dispositivo dell’atto, spettando al giudice del dibattimento di ignorare ciò che nel decreto è irrituale ed improprio. In dottrina non si è mancato di replicare, osservando che l’accordo delle parti, per l’eliminazione o il mantenimento nel fascicolo per il dibattimento della motivazione in eccesso del decreto, è strumento inadeguato, perché l’acquisizione concordata può avere ad oggetto atti del fascicolo del pubblico ministero o atti investigativi di parte privata, e non può avere ad oggetto un atto del giudice: il principio di disponibilità della prova, sotteso all’istituto dell’acquisizione concordata, è del tutto incompatibile con un provvedimento del giudice, non potendosi «ricondurre alla volontà delle parti la correzione di un atto giudiziale…o affidarvi il mantenimento o l’esclusione delle argomentazioni utilizzate»105. Si è poi evidenziato che, mentre il meccanismo di acquisizione concordata 103 V., a tal proposito, Cass., sez. VI, 16 novembre 2001, Acampora ed altri, in Cass. pen., 2002, p. 1632; e più di recente Cass., sez. VI, 29 novembre 2007, n. 10357/08, in C.E.D. Cass., n. 238913. 104 Cass., sez. VI, 8 marzo 2006, n. 29361, in C.E.D. Cass., n. 235090. 105 N. GALANTINI, Eccesso di motivazione del decreto dispositivo del giudizio: vizi e rimedi, in Cass. pen., 2008, p. 2104 ss., che evidenzia come l’imparzialità del giudice sia un valore non disponibile, non potendosi dunque ammettere che la motivazione del rinvio a giudizio possa essere oggetto di accordo tra le parti. 196 CAPITOLO III di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero comporta che l’accordo delle parti sia diretto all’acquisizione al fascicolo per il dibattimento, l’adattamento dello strumento come rimedio alla motivazione in eccesso del decreto dispositivo del giudizio comporta che l’accordo delle parti sia funzionale al fine opposto, all’estromissione di parti del decreto dal fascicolo per il dibattimento, ove il decreto stesso deve essere ordinariamente contenuto. Di qui lo sviamento del principio dispositivo che, «da diritto della parte a disporre di elementi…, si trasforma in soggezione alle disposizioni della parte avversa»106. Si è dunque proposto, attesa la gravità del vizio consistente nell’eccesso di motivazione capace di porre in pericolo il bene dell’imparzialità del giudice, di riconsiderare, stante l’assenza di previsioni espresse di nullità, la possibilità di qualificazione dell’atto in termini di abnormità, alla luce di quelle indicazioni giurisprudenziali che riconducono tale stato patologico alla incompatibilità con i principi generali del sistema, tra cui va certo annoverato il principio dell’imparzialità del giudice. L’eccesso di motivazione, si è detto, determina una situazione di stallo procedimentale, perché «dovrebbe far arenare il procedimento per il fatto, da un lato, di non poter essere sottoposta a stralcio e, dall’altro, perché le regole dell’imparzialità non consentono che essa pervenga al giudice dibattimentale»107. Di contro, e con opposta prospettiva, a conferma di quanto siano complessi i problemi che la legge processuale oggi rimette all’interprete, si è avanzata la tesi secondo cui i profondi mutamenti che il decreto che dispone il giudizio ha subito, per effetto dei nuovi e più ampi poteri decisori del giudice dell’udienza preliminare e dei poteri dispositivi delle parti, si traducono nella doverosità di N. GALANTINI, Eccesso di motivazione del decreto dispositivo del giudizio: vizi e rimedi, cit., p. 2109. 107 N. GALANTINI, Eccesso di motivazione del decreto dispositivo del giudizio: vizi e rimedi, cit., p. 2111. 106 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 197 un’adeguata motivazione108. Si è a tal proposito argomentato che le garanzie del giusto processo non impediscono al giudice di illustrare le ragioni della decisione e che le maggiori garanzie previste per l’udienza preliminare si risolvono nel diritto di conoscere i motivi per i quali le tesi difensive sono state disattese e quelle dell’accusa accolte. Si è poi aggiunto che l’eliminazione dell’esposizione introduttiva del p.m. ad esordio di dibattimento rende necessario, per il giudice, un riferimento di conoscenze sulla vicenda oggetto del processo, che consenta un esercizio consapevole dei poteri di ammissione delle prove, e che detto riferimento ben può essere individuato nella motivazione del decreto dispositivo del giudizio. E si è ulteriormente osservato che il giudice del dibattimento è già esposto al preteso rischio di condizionamenti valutativi per effetto dell’inserimento concordato di atti di indagine e di investigazione nel fascicolo per il dibattimento e per effetto della necessaria motivazione che il giudice dell’udienza preliminare deve fornire a giustificazione dei contrasti insorti nella formulazione del fascicolo per il dibattimento e per la decisione sulle eccezioni di nullità e/o inutilizzabilità di atti probatori. Non si può inoltre ipotizzare, si è proseguito, che il giudice dell’udienza preliminare non debba adeguatamente motivare l’esercizio dei poteri di valutazione della ricorrenza di circostanze attenuanti, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere secondo quanto previsto dall’art. 425, comma 2, c.p.p., e l’esercizio dei poteri di verifica dell’applicabilità di misure di sicurezza, diverse dalla confisca, per giustificare la non emissione della sentenza di non luogo a procedere. Si è infine ricordato che il decreto che dispone il giudizio può (poteva, ante riforma l,. n. 46 del 2006) essere emesso, in sede di impugnazione Così R. NORMANDO, Il decreto che dispone il giudizio, in AA. VV., Le recenti modifiche al codice di procedura penale. Commento alla legge 16 dicembre 1999, n. 79 (c.d. legge Carotti), a cura di L. Kalb, cit., p. 477 e ss. 108 198 CAPITOLO III della sentenza di non luogo a procedere, dalla Corte di appello, che non potrebbe (meglio, non avrebbe potuto) non replicare ad ogni profilo rilevante preso in esame nella motivazione della sentenza impugnata. Delineato così il quadro della disciplina codicistica, chiaramente ispirata, in vista dell’accelerazione del dibattimento, al favor per la conoscenza preventiva da parte del giudice del dibattimento di molti aspetti della vicenda processuale, si è concluso che i dubbi di incostituzionalità del dovere di motivazione sono superati proprio in forza dell’art. 111 Cost., secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. L’ampiezza delle verifiche sull’imputazione, a cui è ora chiamato il giudice dell’udienza preliminare, implicano, si è concluso, che il decreto sia motivato e che debba esserlo con la stessa ampiezza della verifica operata. Ambedue le posizioni dottrinali, nella loro radicale contrapposizione, non persuadono, sol che si consideri, da un lato, che la legge processuale non presidia con il supposto rigore il presunto interesse alla “ignoranza” del giudice del dibattimento: valga, a completamento di quanto già evidenziato dalla dottrina da ultimo menzionata, che l’art. 432 c.p.p. impone la trasmissione al giudice del dibattimento, unitamente al decreto che dispone il giudizio e al fascicolo per il dibattimento, del provvedimento che abbia disposto misure cautelari in corso di esecuzione. Il fine è quello di consentire al giudice del dibattimento di assumere ogni necessaria decisione sulla vicenda cautelare che, com’è noto, ricade nella competenza funzionale del giudice che procede, ma non v’è dubbio che attraverso il provvedimento dispositivo di una misura cautelare il giudice del dibattimento ha modo di conoscere in maniera molto approfondita la gran parte del materiale di indagine raccolto, restando così esposto al concreto rischio di un pre-giudizio. Dall’altro, che, se pure è indubbio che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati, non è contestabile la scelta CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 199 ampiamente discrezionale del legislatore di indicare le modalità con le quali un determinato atto deve essere motivato. E questo il legislatore del codice fa a proposito del decreto che dispone il giudizio, prescrivendo che sia motivato soltanto “con l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono”. Con queste modalità si motiva più adeguatamente un atto che è inoppugnabile e che altra funzione non ha, in ragione soprattutto della sua inoppugnabilità, che di consentire il passaggio alla fase del giudizio dibattimentale. La maggiore ampiezza dei poteri cognitivi e decisori del giudice dell’udienza preliminare, rispetto alla originaria configurazione codicistica dell’udienza preliminare, non implica una motivazione più diffusa del decreto, se la scelta di rinviare a giudizio non può essere oggetto di censura in sede di impugnazione; il passaggio di fase è affidato dal legislatore ad un atto dalla struttura semplice, scarna, direttamente funzionale ai bisogni dell’incipiente dibattimento, tra i quali non può annoverarsi, data la connotazione accusatoria del rito, quello di informare, parti e giudice del dibattimento, sulle ragioni per le quali non è stato negato lo sviluppo dell’azione penale sino alla fase di una piena valutazione del merito dell’imputazione. La pronuncia del decreto di rinvio a giudizio non impedisce, comunque, né al pubblico ministero né alla difesa di continuare nelle indagini. Si tratterà, tuttavia, di indagini meramente integrative, che non potranno comprendere atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del suo difensore. L’art. 430 bis c.p.p. esclude, però, che il pubblico ministero o il difensore possano integrare le indagini acquisendo le dichiarazioni di persone ammesse a deporre a norma dell’art. 507 c.p.p. o indicata nella richiesta di incidente probatorio, nonché, in caso di integrazione probatoria, nel divieto di assumere informazioni dalla persona che deve essere sentita a norma dell’art. 422 comma 2 c.p.p., ovvero, 200 CAPITOLO III che siano state indicate nella lista presentata da altre parti a norma dell’art. 468 c.p.p. prevedendo l’inutilizzabilità degli atti assunti in violazione di tale divieto. 6. La formazione dei fascicoli processuali. Con la pronuncia del decreto che dispone il giudizio il giudice non si spoglia del processo ma ne rimane titolare fin quando, formato il fascicolo per il dibattimento a norma dell’art. 431 c.p.p. ed il fascicolo del pubblico ministero a norma dell’art. 433 c.p.p., non trasmette gli atti al giudice del dibattimento. La distinzione tra i due fascicoli costituisce una delle caratteristiche più rilevanti e significative del nuovo processo in quanto dà attuazione al principio della netta separazione tra la fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare e la fase del giudizio, sede “naturale” di formazione della prova nel contraddittorio delle parti, dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale, che è chiamato a pronunciarsi sul merito dell’imputazione. Nel codice del 1988, invero, la cesura netta tra la fase preliminare ed il dibattimento, oltre che essere proclamata in linea di principio nelle disposizioni di cui agli artt. 500 comma 3, 514 comma 2 e 526 c.p.p., si manifesta, sul piano più squisitamente pratico, nella disciplina del cosiddetto “doppio fascicolo”, che consente di separare gli atti compiuti durante le indagini preliminari, appunto, in due distinti fascicoli, in modo da evitare che il giudice del dibattimento possa venire in qualsiasi modo condizionato dalla conoscenza degli atti di indagine: così, nel fascicolo per il dibattimento vengono raccolti i soli atti suscettibili di lettura e, dunque, utilizzabili come prova ai fini della decisione di merito; mentre in quello del pubblico ministero confluiscono tutti gli altri atti, tenden- CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 201 zialmente privi di idoneità probatoria fuori dalla fase a cui appartengono109. Insomma, l’esigenza di garantire un effettivo rispetto del principio dell’oralità e del contraddittorio ha non solo imposto la necessità di stabilire precisi divieti probatori, escludendo così la possibilità di utilizzare come prova in giudizio il materiale raccolto nel corso delle indagini preliminari, ma ha determinato anche l’esigenza di individuare una disciplina capace di precludere al giudice del dibattimento la materiale disponibilità e, quindi, la conoscenza di tali atti. Sennonché, l’art. 431 c.p.p., nel testo originario, prevedeva che il fascicolo per il dibattimento fosse formato, dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, dalla cancelleria del giudice dell’udienza preliminare seguendo le prescrizioni da quest’ultimo impartite. In tal modo erano inseriti nel fascicolo per il dibattimento gli atti, i verbali, i documenti e gli altri oggetti elencati nello stesso articolo: l’elencazione degli atti inseribili in tale fascicolo contenuta nell’art. 431 c.p.p. era considerata tassativa ed era escluso che le parti potessero, in deroga a quelle previste indicazioni, consentire l’aggiunta di ulteriori atti; mentre ai sensi del successivo art. 433 c.p.p. i restanti atti, nonché quelli acquisiti nel corso dell’udienza preliminare ed il verbale di udienza, restavano nel fascicolo del pubblico ministero. Il legislatore, quindi, aveva affidato la formazione del fascicolo al giudice dell’udienza preliminare, concedendo alle parti la sola possibilità di contestarne il contenuto, formulando le relative Un «fascicolo grasso››, quello di parte che contiene tutti gli atti compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, e un ‹‹fascicolo magro››, quello che va al giudice: ciò al fine di garantire l’oralità del dibattimento ed evitare che il giudice affoghi nelle carte. Così E. AMODIO, L’udienza preliminare nel nuovo processo penale. Testo della relazione svolta al XVI Convegno di studio Enrico De Nicola, Verso una nuova giustizia penale, tenutosi a Lecce nei giorni 18-20 marzo 1988, in Cass. pen., 1988, p. 2176. 109 202 CAPITOLO III eccezioni nel corso del dibattimento (art. 491 comma 2 c.p.p.). Risulta di tutta evidenza, allora, che sebbene uno degli obiettivi perseguiti dal legislatore fosse quello di evitare che il giudice del dibattimento venisse a conoscenza degli atti d’indagine, gli strumenti attraverso i quali le parti avrebbero potuto rimediare ad eventuali errori o abusi non erano congegnati in modo tale da impedire al giudice di prenderne materialmente conoscenza. A norma dell’art. 491 comma 2 c.p.p., la verifica della regolare composizione del fascicolo poteva avvenire esclusivamente in sede di questioni preliminari al dibattimento, e, cioè, nell’ambito di un procedimento incidentale affidato proprio al giudice del dibattimento; che in tal modo non solo era messo in condizione di conoscere quanto avvenuto in fase anteriore al dibattimento, ma finiva inoltre per essere inevitabilmente condizionato dalle valutazioni di chi lo aveva preceduto110. Di qui l’intervento del legislatore del 1999, il quale ha modificato l’art. 431 c.p.p. stabilendo che alla formazione del fascicolo per il dibattimento deve provvedere, nel contraddittorio delle parti, il giudice dell’udienza preliminare subito dopo l’emissione del decreto di rinvio a giudizio, ovvero in apposita udienza, fissata entro quindici giorni, laddove a richiederlo sia anche una delle parti (comma 1). Garantendo ai contraddittori il diritto di far valere ab initio le proprie ragioni, si è creato uno strumento idoneo a tenere il giudice del dibattimento lontano dal materiale di indagine appartenente al fascicolo del pubblico ministero e, contestualmente, a tutelare il diritto delle parti ad intervenire in un momento pregiu- È evidente che. se un giudice poco rigoroso è portato a interpretazioni estensive del concetto di non ripetibilità dell’atto, ne consente la trasmissione, quindi la conoscenza, al giudice del dibattimento, che, anche ove dovesse disporne la successiva eliminazione dal fascicolo, non potrà non esserne influenzato. Analoghe considerazioni valgono per alcuni degli atti indicati nell’art. 236 c.p.p., essendo la loro acquisizione subordinata ad una valutazione discrezionale sulla condizione che il fatto per il quale si procede debba essere valutato in relazione al comportamento e alle qualità morali dell’Autore. 110 CONTENUTI ED ESITI DEL CONTROLLO 203 diziale al contraddittorio per la formazione della prova (art. 111 comma 4 Cost.). Contemporaneamente il legislatore del 1999 ha attribuito alle parti il potere di determinare l’inserimento nel fascicolo di atti e documenti abitualmente privi di efficacia probatoria. La nuova formulazione dell’art. 431 comma 2 c.p.p. prevede, infatti, la possibilità che le parti, di comune accordo, decidano «l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché dei documenti riguardanti l’attività investigativa difensiva». Quanto, poi, alle modifiche al catalogo degli atti da raccogliere nel fascicolo per il dibattimento, va sottolineato come la precedente versione della lett. d) faceva riferimento ai verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio e di quelli compiuti all’estero a seguito di rogatoria. La disposizione è stata sostituita da tre distinte previsioni, secondo le quali vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento, tra gli altri: «i documenti acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale ed i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse modalità» (lett. d); «i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio» (lett. e); «i verbali degli atti, diversi da quelli previsti dalla lett. d), assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana» (lett. f). 204 205 CAPITOLO IV DALL’UDIENZA PRELIMINARE ALL’UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI SOMMARIO: 1. Le prospettive sistematiche dell’art. 111 della Costituzione: la centralità della giurisdizione. – 2. Le ragioni abolitive dell’avviso di conclusione delle indagini in una struttura processuale organizzata sull’“immediata conoscenza dell’accusa”. 3. – Dalla monofunzionalità alla plurifunzionalità della nuova udienza: la struttura dell’udienza di conclusione delle indagini. – 4. Segue: le implicazioni decisorie: applicazione di pena concordata e condanna su richiesta. 1. Le prospettive sistematiche dell’art. 111 della Costituzione: la centralità della giurisdizione*. L’analisi fin qui condotta dimostra la fondatezza di quanto si è già accennato e, cioè, che l’udienza preliminare vive, oggi, su un incerto diritto giurisprudenziale che, per il superamento dei limiti * Le considerazioni qui svolte sono sostenute e si avvalgono delle argomentazioni prospettate nella Relazione di accompagnamento alla Bozza di disegno di legge-delega per la riforma del codice di procedura penale, presentata insieme all’articolato il il 19 luglio 2007 al Ministro della Giustizia, Senatore Clemente Mastella. E non potrebbe essere altrimenti per chi ha condiviso quell’opera, nonché per mancanza di letteratura su quel testo con cui confrontarsi criticamente. Perciò si vuole proiettare il lettore sui presupposti su cui si è costruita la nuova udienza di conclusione delle indagini quali premesse della sua funzione e della sua struttura, soluzione possibile per il futuro legislatore. 206 CAPITOLO IV fisiologici della mediazione interpretativa, pone ai margini la legge come fonte di regolazione del fenomeno processuale e svilisce la funzione di garanzia del principio di legalità, presidio dell’eguaglianza di trattamento. Si aggiunga che, nonostante leggi successive alla “Carotti” abbiano messo mano al tessuto codicistico – una di esse è appellata addirittura “sul giusto processo” – non sembra che esse abbiano colto in tutta la sua estensione il significato dell’art. 111 Cost. Perciò, non meraviglia che nelle ultime due Legislature – la XIV e la XV – si sia messo mano al tentativo di una “riforma organica” del codice di rito, anche se con metodiche completamente differenti: nel corso della prima si è pensato di riformare tout court il codice1; nel corso della seconda si è praticata una più radicale opera riformista attraverso la predisposizione di una legge-delega2. Ebbene, se non è questa la sede per l’esame e il confronto tra i due testi3, ai fini della ricerca che ci interessa va rilevato che entrambi i Progetti propongono di “conservare” l’udienza preliminare. Il primo, sulla spinta dei bisogni di semplificazione, la restituisce, nella sostanza, all’originario disegno del Codice Vassalli4; il secondo, sull’abbrivio di una più complessa opera di restyling Progetto del nuovo codice di procedura penale, redatto dalla Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale, presieduta dal Prof. A.A. Dalia ed approvato in seduta plenaria il 24 maggio 2005. 2 Progetto del disegno di legge-delega per la riforma del codice di procedura penale, redatto dalla Commissione di studio per la riforma del codice di procedura penale, presieduta dal Prof. G. Riccio ed approvato in via definitiva il 18 febbraio 2008. Per un primo commento sulla Bozza di disegno di legge-delega si veda G. RICCIO, Per un nuovo progetto di giustizia penale, in Dir. pen. proc., 2007, p. 1193 e ss.; ID., Il processo penale tra nuove emergenze e politica della riforma, in Quaderni di Scienze penalistiche, Napoli, 2008, n. 3; nonché G. CANZIO, Il progetto “Riccio” di legge delega per il nuovo codice di procedura penale, in Criminalia, 2007. 3 Per i quali si rinvia agli Atti del Convegno sul tema “Progetti di riforma a confronto”, svoltosi a Catania il 21 e 22 giugno 2008. 4 Relazione al progetto redatto dalla Commissione Dalia. 1 UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 207 del sistema – che tiene in dovuto conto gli indirizzi del Legislatore interno e della giurisprudenza delle Corti sovranazionali degli ultimi anni, oltre che le direttrici costituzionali espresse dell’art. 111 – attribuisce all’udienza compiti più complessi, nella prospettiva segnata dai contenuti politici del “processo di parti”5. Il secondo Progetto muove dalla convinzione che – sia pure solo per il procedimento – il Codice attualmente vigente non sia del tutto in linea con il modello del processo di parti, e che la crisi della sua tenuta applicativa sia riconducibile ad una pluralità di cause, anche estranee ai suoi contenuti di disciplina. Così, ad esempio, su questo terreno, si legge in Relazione che il codice di fine anni ’80 fu “tradito” su più piani: l’abbandono della direttiva di delega che ne prevedeva due anni di sperimentazione; la resistenza, non solo culturale, rispetto ad un prodotto che interrompeva una continuità “istruttoria” ultracentenaria; la giurisprudenza costituzionale soprattutto d’inizio anni ’906, che innestò reazioni a catena sul fronte legislativo – anche costituzionale –. Tutti questi fattori, seppure orientati al recupero di funzionalità dell’originaria struttura del processo, hanno finito con alterare il sistema7. Per lo specifico settore di ricerca, poi, si ricorda che la M. GRIFFO, Volontà delle parti e processo penale, Napoli, 2008. Le pronunce della Corte costituzionale 31 gennaio 1992, n. 24; 3 giugno 1992, n. 254; 3 giugno 1992, n. 255; 26 marzo 1993, n. 111, elevando a regola costituzionale il principio di non dispersione della prova, hanno prodotto l’effetto di mortificare la regola del contraddittorio, che costituiva il nucleo centrale ed originale del codice nel 1998. 7 La prima, sin dai primi passi del nuovo codice, richiamava l’attenzione del legislatore sul vulnus alla pratica deflattiva prodotto dalla regola della “completezza” delle indagini (cfr., ancora, la sentenza n. 88 del 1991, cit.) sia sul fronte deliberativo del giudice dell’udienza preliminare, sia sulle enfatizzate pronunce alla stato degli atti. Di conseguenza, il secondo, prima con timidi ma significativi “ritocchi” e poi con un più incisivo intervento (cfr. la “legge Carotti”), si pose sulla logica opposta affidando al giudice, proprio, il controllo sulle indagini (art. 421-bis c.p.p.) e più penetranti poteri probatori (art. 422 c.p.p.) per vincere le maglie strette dell’originaria udienza preliminare, fonti del contestuale fallimento della sua funzione deflattiva (nuovo art. 425 c.p.p.) e del non praticato ricorso ai riti. Perciò, all’inizio, si diceva che le novelle codicistiche hanno prodotto l’alterazione del sistema e la irrazionalità dei suoi gangli essenziali. 5 6 208 CAPITOLO IV filosofia della “completabilità” delle indagini preliminari – su cui fonda la “legge Carotti” –, se ha dato risposta all’esigenza di rafforzare il diritto di consapevole intervento dell’indagato nella fase procedimentale per una tempestiva interlocuzione sulle determinazioni del pubblico ministero in ordine all’esercizio dell’azione (art. 415-bis c.p.p.); se ha condivisibilmente incrementato l’apporto cognitivo di una fase comunque preposta al solo controllo dell’azione e se ha risolto le contraddizioni interne ad alcune scelte dell’originario sistema codicistico (es. giudizio abbreviato), non ha però favorito il recupero di efficienza del processo sul terreno dei tempi di definizione, e non ha risolto radicali problemi propri dell’attuale udienza preliminare. Si aggiunga, sul fronte dell’azione, che la chiara opzione per la sua connotazione “concreta” – rappresentata dalle disposizioni funzionali e strutturali sul procedimento (artt. 50; 326; 358; 405 c.p.p. 1988) –, che rimanda ad una moderna lettura dell’obbligo costituzionale di agire (art. 112 Cost.), è stata articolata in una varia tipologia di atti di esercizio a seconda della diversità dei presupposti oggettivi (artt. 405; 444; 449; 453; 459 c.p.p. 1988). La felice invenzione è risultata altamente problematica sul terreno dell’esercizio dei diritti difensivi, per l’omessa previsione di un meccanismo obbligatorio di coinvolgimento dell’indagato nel corso delle indagini preliminari, soprattutto in presenza di una prassi che mortificava le potenzialità dell’interrogatorio (art. 375 c.p.p. 1988) e dell’accompagnamento per l’interrogatorio (art. 376 c.p.p. 1988). Si vuol dire che il salto concettuale all’azione in senso concreto fu eluso alla radice perché cedeva, nella prassi, l’idea di un segmento procedimentale di tipo “collaborativo” e partecipato (artt. 358; 367; 375; 447 c.p.p. e 38 disp. att. c.p.p. 1988). Né rimedio efficace – su questo terreno – si è rivelato l’avviso di conclusione delle indagini (art. 415-bis c.p.p. ex UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 209 lege n. 479 del 1999) e la contestuale discovery, sia per la “naturale” diffidenza sul “rapporto a due”, sia per le negative conseguenze sui tempi del processo. Sul fronte del processo, poi, la crisi innestata nel 1992 dalla Corte costituzionale, se, nel tempo, ha portato alla felice opera costituente di fine millennio (art. 111 Cost.), ha prodotto una legislazione “tampone” (già richiamata) asistematica e per certi aspetti irrazionale, che ha allargato le maglie del progetto iniziale, alterando – soprattutto nella interpretazione – il senso autentico delle originarie previsioni. E ciò ha riguardato – come si è detto – anche l’udienza di controllo sull’esercizio dell’azione. Invero, se l’originaria disciplina mortificava le potenzialità operative del ruolo del giudice, la revisione normativa di fine anni ’90, rivolta soprattutto al recupero della funzione deflattiva dell’udienza, per un verso non ha conseguito i risultati sperati e, per altro verso, si è tradotta in previsioni normative a dir poco problematiche, anche perché non sostenute da poteri procedimentali delle parti, tali da costituire, congiuntamente, pari potenzialità – sul piano dei diritti dell’individuo – e indispensabile supporto per una più consapevole e condivisa scelta strategica dell’imputato, prima, e del giudice dopo. Come si nota, l’osservazione secondo cui quella legislazione non ha tenuto conto della coeva opera di riforma costituzionale ha serie radici e ne ha condizionato il progetto. Perciò, mettendo da canto la storia di tale riforma8 ed il ruolo 8 Sul punto ogni disquisizione appare oggi superflua, dal momento che, per attuare la Costituzione, il codice del 1988 organizzò il processo sulla linea della centralità del contraddittorio per la prova e del dibattimento. E – si legge nella Relazione – se l’iter parlamentare e la collocazione sistematica del nuovo art. 111 Cost. rassegnano alla Storia il progressivo passaggio del contraddittorio da diritto delle parti a regola per la giurisdizione, non va eluso il dato secondo cui “si approfittò dell’occasione” per rinforzare le regole della giurisdizione. Perciò il Costituente di fine millennio s’impegnò sul fronte del giudice (terzo ed imparziale); sul fronte del processo (la pari dignità di fronte alla 210 CAPITOLO IV di rinforzo del principio del contraddittorio e, contestualmente, la già ricca letteratura in argomento9, peraltro concorde sui significati delle diverse disposizioni, vengono in evidenza gli elementi di novità, costituiti dall’ampliamento delle garanzie e dall’individuazione di percorsi compatibili con la ragionevole durata del processo. Ebbene, il primo connotato – quello del comma 3 dell’art. 111 della Costituzione – si riversa nel procedimento per l’azione, ove non può non essere rinforzato il ruolo della giurisdizione nonché il bisogno che la “persona indagata” giurisdizione = art. 111, commi 2 e 3); sul fronte del metodo cognitivo (contraddittorio), contestualmente elevando a dignità costituzionale il consenso come strumento di rinuncia al metodo dialogico e/o come riconoscimento dell’oggetto della cognizione anche se ricostruito unilateralmente (“riti” e acquisizioni probatorie; processo di parti); infine, sul fronte del tempo del processo, come valore del “giusto processo”, sul confluente terreno del diritto dell’imputato e dell’attesa della comunità. 9 Sulla nozione di giusto processo i bisogni di chiarezza e le esigenze di acculturamento sono elevate, anche perché è veicolata l’idea che la norma costituzionale operi una graduazione dei valori e, quindi, la prevalenza del contraddittorio e dell’immediatezza rispetto all’inferiore valore della durata ragionevole del processo. Cfr., per tutti, P. FERRUA, Il giusto processo, Bologna, seconda ediz., 2007. Si legge ancora nella Relazione, nonostante l’autorevolezza della fonte, il metodo comparatista e il risultato della prevalenza sono errati e rispondono a logiche quantitative estranee al tessuto costituzionale. Invero, se sono incontestabili le premesse “storiche” della nuova vicenda costituzionale; se è vero che questa muove da una giurisprudenza costituzionale (quella del 1992) poco accorta – stranamente – ai connotati che produssero il capovolgimento del rapporto tra “contraddittorio” (= regola) e “non dispersione degli elementi di prova” (= eccezioni tipizzate); e se oggi possono risultare accorte le ragioni dell’epoca, non tanto in vista del “fine del processo”, quanto in ragione di prassi giudiziarie contraddittorie rispetto al “processo parlato”, egualmente non può contestarsi che il nuovo assetto costituzionale del processo muta in ragione della novità di fine millennio, appunto quella dell’appartenenza del “tempo del processo” all’ontologia del “giusto processo”, inteso nella duplice dimensione, soggettiva (è diritto dell’imputato) ed oggettiva (è connotato del processo). Può dirsi, perciò, che, se nell’operazione costituente il dato dialogico del processo era ben presente, altrettanto presente era la ragione politica che la motivava e che imponeva il salto di qualità della Costituzione sul fronte delle fonti disattese (la CEDU) e dei giudizi di illegittimità dei tempi del processo. Su questa ragione “politica” (rectius: di politica del diritto) si realizzò la novità “rivoluzionaria” di fine millennio: la costituzionalizzazione, nelle “norme sulla giurisdizione”, della ragionevole durata del processo (comma 2) e del diritto al giudice (comma 3); anzi, la loro collocazione sistematica ne rivela la natura di “regole di ordine pubblico della giurisdizione”. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 211 conosca tempestivamente del procedimento e dell’accusa 10. Per far fronte a questa esigenza deve constatarsi l’inadeguatezza – e la non conformità a Costituzione – della scelta di tenere la giurisdizione estranea rispetto ai diritti, alle pretese e alle facoltà della difesa nel procedimento. Da quella disposizione costituzionale nasce l’idea di una radicale revisione delle indagini preliminari, che postula la necessità – senza addentrarsi in descrizioni di dettaglio e volendo rappresentare solo il tema e le possibili soluzioni – della nuova informazione 10 Su questo terreno, ulteriore premessa dell’opera riformista è la scoperta del significato reale della disposizione del terzo comma dell’art. 111 Cost. che rappresenta nel “procedimento” – non nel “processo” – il “diritto al giudice”. Sul punto – come è stato affermato – l’infelice input della norma (= “nel processo penale”) fa i conti col contesto funzionale e strutturale che la lettera della disposizione manifesta, rendendo palese che il diritto al giudice è situazione che va assicurata prima dell’esercizio dell’azione e, quindi, nel “procedimento”, essendo questo il segmento che si pone a ridosso della notizia di reato: “essere informato….dell’accusa”; “interrogare o far interrogare dal giudice”; ecc. sono elementi normativi di assoluta novità che la legge processuale non può ignorare se vuole attuare la Costituzione. Razionalizzare i tempi del processo e aprire “finestre di giurisdizione” nel procedimento sono, dunque, indirizzi rigidi per il nuovo legislatore: il primo pone il tema centrale del tempo, attirando nell’ambito processuale esigenze “prescrittive” e quindi dichiarazioni di “improseguibilità dell’azione penale” in mancanza di tempi ragionevoli per il processo; il secondo richiede l’individuazione di situazioni e poteri – in equilibrio con situazioni e poteri del pubblico ministero – in cui e con i quali le parti private possano operare direttamente davanti al giudice. E se il primo indirizzo pone il delicato problema del rapporto tra prescrizione del reato e tempi del processo, il secondo apre la strada a compiti di difesa “reattiva” sin dal momento dell’accusa. Sul primo argomento, la norma costituzionale non elimina la funzione di garanzia della prescrizione del reato e, quindi, di una norma di diritto sostanziale che la preveda; tuttavia essa sposta sul terreno processuale il bisogno di contingentamento dei tempi del processo fino alla “improseguibilità dell’azione”. Perciò la nuova disposizione costituzionale, pur non avendo diretto riguardo all’istituto della prescrizione, ne attira la operatività nell’ambito della organizzazione del processo. Sul secondo, il richiamo alla conoscenza tempestiva dell’accusa impone la individuazione dei tempi e dei modi per la sua contestazione e dell’atto che la contenga ai fini dell’esercizio dei diritti tipizzati nella stessa norma costituzionale. E posto che “accusa” non è “imputazione” – che rappresenta l’atto di esercizio dell’azione penale, perciò posteriore all’esercizio di quei diritti – risulta evidente che il nuovo legislatore deve far fronte alla bisogna, non con una “informazione per l’atto”, così come nell’attuale sistema, ma con una “informazione di garanzia” di vecchio stampo, quale forma di conoscenza del procedimento finalizzata al corretto esercizio del diritto delle parti al giudice. 212 CAPITOLO IV di garanzia, premessa per realizzare il “diritto al giudice” sfruttando le “finestre di giurisdizione” nel procedimento11. Invero, il 11 Alla base della stessa idea di processo penale quale “procedimento” finalizzato all’accertamento di fatti specifici e delle conseguenti responsabilità penali, fondato sul contraddittorio (e sul metodo dialogico), risiede la indubbia necessità di realizzare, all’interno del sistema processuale, un primo momento (o una prima fase) che tenda alla elaborazione dell’ipotesi accusatoria da porre a base del successivo giudizio, con esplicita vocazione alla raccolta degli elementi sulla scorta dei quali effettuare la richiamata verifica. Questo percorso, essenziale per il successivo giudizio, costituisce il momento procedurale al quale si riferiscono le direttive da n. 52 a n. 65 della cd. “Bozza Riccio”. Esso, in via di prima approssimazione, costituisce un momento di raccolta di elementi e di selezione delle ipotesi da sottoporre al successivo vaglio giurisdizionale. In questa sede appare sufficiente ricordare come, inizialmente, la struttura delle indagini e la convinzione che vi fosse uno sbarramento netto tra dibattimento e indagini fossero frutto di un’idea di processo molto sbilanciata sulla prova orale (testimoni e dichiaranti), laddove oggi il progresso tecnologico e le fisionomie criminali hanno aumentato di molto la percentuale di utilizzo processuale di tipologie probatorie che si formano prevalentemente (o in gran parte) nelle indagini preliminari. Ciò nonostante, bisogna ribadire un dato ineludibile: l’art. 111 Cost. individua un modello processuale fondato sul contraddittorio, assegnando, inevitabilmente, alle indagini una funzione servente, proiettata sull’azione; in tal senso, esso si oppone decisamente ad ogni idea di indagini come luogo di formazione della prova. A ciò si aggiunga che il terzo comma dell’art. 111 Cost. impone, già in fase investigativa, l’anticipazione dell’attivazione di talune fondamentali garanzie difensive, con significative conseguenze in punto di costruzione del modello processuale, essenzialmente connesse al momento della conoscenza dell’esistenza del procedimento e dell’accusa e alla possibilità di rivolgersi direttamente al giudice per le necessità difensive: evitando, però, accuratamente di appesantire la fase investigativa e di trasformarla in una fase di raccolta delle prove (sarebbe un intollerabile ritorno al passato). Dunque, la fase delle indagini preliminari – che indiscutibilmente partecipa alla complessiva vocazione del sistema processuale di giungere al suo epilogo in tempi ragionevoli –, nell’intenzione posta a fondamento della legge-delega, resta una fase procedimentale che precede l’esercizio dell’azione penale, orientata a porre in essere tutte le attività necessarie all’assunzione delle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Novità rilevante, diretta conseguenza dell’art. 111 comma 3 Cost., è la individuazione nel giudice del soggetto di riferimento da adire per le necessità inerenti la fase investigativa ovvero il sistema delle c.d. finestre giurisdizionali: possibilità concrete di rivolgersi al giudice in tutti i casi in cui il compimento dell’atto di indagine richieda la collaborazione necessaria di un terzo. Il sistema – individuando nel giudice il soggetto cui rivolgersi – differisce notevolmente dall’attuale disciplina che stabilisce interlocuzioni differenziate con il pubblico ministero e con il giudice a seconda degli atti di indagine da compiere, superando l’asimmetria della disciplina vigente che vede una parte, la difesa, richiedere all’altra parte, l’accusa, la collaborazione per lo svolgimento di atti di indagine difensiva (cfr. Relazione). In termini speculari e coerenti con l’impianto del processo di parti, si è ritenuto, poi, che analoghe richieste di compimento di atti di indagine provenienti dal di- UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 213 riconoscimento del diritto al giudice per tutte le “parti” assicura l’effettività della relazione di garanzia per la persona sottoposta alle indagini e per la persona offesa, e al contempo rafforza, al di fuori dell’ambito di possibile preventivo intervento delle parti, la giurisdizione: così, ad esempio, per la proroga discrezionale dei termini per le indagini; così per i mezzi di ricerca della prova; così per le misure cautelari. Su questo terreno – come si vedrà – nasce l’atto di vocatio delle parti davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini, fornito di penetranti poteri fino alla richiesta di definizione con condanna della vicenda processuale. Quanto alla struttura del processo, la nuova centralità dell’udienza di conclusione delle indagini si coniuga con la drastica riduzione delle alternative nel processo, che furono felice invenzione del legislatore di fine anni ’80, ma che hanno creato non pochi problemi sul piano applicativo, venendo meno al ruolo che il legislatore affidava loro. Perciò, deflazione, premialità e consenso tracciano lo spazio dell’esercizio dei poteri del giudice prima del dibattimento, secondo quanto previsto dall’art. 111 della Costituzione. Le articolate disposizioni ivi contenute, se, per un verso, impongono maggiore attenzione alla giurisdizione già nella fase del procedimento, per altro verso, riconoscendo il “processo di parti” come modello democratico di riferimento, danno nuovo vigore al consenso della parte. Sul piano strutturale, poi, bisogna fare i conti con la costituzionalizzazione della ragionevole durata del processo. fensore della persona offesa debbano essere rivolte al pubblico ministero. Tale scelta non soltanto è apparsa congruente con le finalità di ricerca degli elementi di prova a sostegno dell’accusa che accomunano l’attività della parte pubblica e della parte offesa privata, ma anche corrispondente ad un obiettivo di migliore efficienza del sistema, considerato che le richieste della persona offesa sarebbero meglio e più prontamente valutate e soddisfatte dal soggetto titolare e autore dell’indagine. 214 CAPITOLO IV Sul punto può apparire sterile il profilo dogmatico della regola e la contrapposizione tra teoria oggettiva e/o teoria soggettiva, dal momento che, in ogni caso, essa si pone come regola di comportamento per il contemperamento di “efficienza” e “garanzie”, che pure il legislatore dell’88 tenne presente. Allo stesso tempo potrebbe apparire equivoca la definizione del canone della ragionevole durata in termini di regola pregiuridica dall’elevato valore sociale, se da tale connotazione si volessero trarre affrettate conclusioni circa i rapporti con le garanzie: in questi termini si è palesato l’impegno ad evitare il cedimento delle garanzie per l’enfatizzazione del profilo della riduzione dei tempi del processo. Emerge dalla lettura della “bozza” l’idea che la “ragionevole durata” debba orientare verso soluzioni coerenti con i significati di garanzia del “processo di parti”, idea che è stata tradotta nella previsione di decadenze (anche dell’azione) e di un più aggiornato regime sanzionatorio. La verità è che essa stabilisce un rapporto di mezzo a scopo, che indirizza l’opera del legislatore, aprendo allo stesso nuovi orizzonti, dal momento che la “storia” della norma, più che il suo reale contenuto, lo indirizza sulla imprescindibilità del contraddittorio (comma 4) e sulla tipizzazione delle sue deroghe (comma 5), sul diritto all’ascolto (comma 3), sul “processo di parti” e/o sulla “parità d’armi” (comma 2). 2. Le ragioni abolitive dell’avviso di conclusione delle indagini in una struttura processuale organizzata sull’“immediata conoscenza dell’accusa”. Su questi presupposti si pone il problema dell’eliminabilità dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. Introdotto dalla “legge Carotti” nella logica della “completezza” delle indagini quale regola virtuosa per le determinazioni del giudice dell’udienza prelimina- UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 215 re e per l’accesso ai riti “premiali”, esso assolve ad una pluralità di funzioni, da quelle ora dichiarate a quella della conoscenza del procedimento, a quella di momento procedimentale per l’esercizio del diritto di difesa. Perciò sembra superflua la disputa sulla sua natura, che pure ha visto protagonista la dottrina al suo apparire. Sul punto appare utile invece una brevissima ricognizione delle vicende che hanno prodotto la nuova disposizione e di quelle che l’hanno seguita. Invero, non può ignorarsi la scarsa – o nulla – pratica dell’obbligo posto a carico del pubblico ministero dall’ultima parte dell’art. 358 c.p.p. di “ricercare anche elementi a favore” della persona sottoposta alle indagini e l’eguale sorte toccata alla possibilità del “previo” interrogatorio12. Si aggiunga che quel sistema normativo sottovalutava il momento “collaborativo”, contestualmente addossando al pubblico ministero il dovere di azione e l’attenzione all’onere di resistenza della difesa, dal momento che convogliava su di lui le istanze e/o le richieste difensive (art. 367 c.p.p.), l’onere di interrogatorio supportato dal ricorso al giudice per l’autorizzazione ad accompagnare l’interrogando (artt. 375 e 376 c.p.p.). Questo congegno fungeva da meccanismo per la “completez- Non va taciuto che la previsione della doverosità di accertamenti favorevoli al sottoposto ad indagine si prestava ad un rilevante equivoco circa la stessa compatibilità con un processo autenticamente di parti. All’indomani della riforma in senso accusatorio del rito, che segnò una frattura culturale per gli operatori del processo, la norma si prestava ad essere letta, secondo schemi concettuali obsoleti ma ancora molto diffusi, nel senso di una paternalistica prevalenza del pubblico ministero, chiamato, in ossequio al suo ruolo pubblico di “organo di giustizia”, a farsi carico degli interessi di controparte, a svolgere compiti diversi ed opposti, di costruzione dell’accusa e di ricerca degli elementi per contrastarla, per la poliedricità della sua figura ordinamentale. Restò così in ombra il significato coerente al nuovo sistema, di un dovere di ricerca degli elementi informativi necessari che fosse calibrato esclusivamente sull’accertamento di fatti specifici – secondo quanto previsto dalla corrispondente direttiva della legge-delega –, a nulla rilevando che questi potessero essere utilizzati nell’articolazione e nel rafforzamento della posizione difensiva. Restò parimenti in ombra il substrato deontologico della norma, costituito dal principio di lealtà delle parti, e l’idea regolativa, poi enucleata dalla Corte costituzionale, della necessaria, seppure tendenziale, completezza delle indagini preliminari. 12 216 CAPITOLO IV za” delle indagini, che si accompagnava all’informazione di garanzia per l’evenienza del compimento di atti “istruttori”. Ebbene, se, sul piano dogmatico, va notata la scarsa somiglianza tra l’attuale art. 369 c.p.p. e l’art. 304 c.p.p. abrogato e se, sullo stesso terreno, va evidenziata la coerenza della disposizione ad un sistema accusatorio – senza istruzione –, tuttavia sul piano operativo va rimarcato che la disposizione oggi consente che si giunga all’udienza preliminare senza che l’“accusato” abbia conosciuto del procedimento, potendo il pubblico ministero evitare il compimento di atti d’indagine cosiddetti “garantiti” pur di conservare la segretezza della sua attività informativa. La funzione dell’informazione di garanzia è stata fortemente depressa, nel sistema del codice di rito dell’88, dalla novella del 95 – art. 19 della legge 8 agosto 1995, n. 332 – che ha sostituito l’inciso: “sin dal compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere…” con quello: “solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere…”. Come è stato efficacemente rilevato, la revisione della disciplina è stata determinata dall’esasperata attenzione per gli effetti distorsivi apprezzabili nella dimensione sociologica dell’informazione di garanzia, non potendosi negare che «in una cronaca giudiziaria sempre più sensazionalistica e corriva…venga spesso percepita dall’opinione pubblica come un’anticipazione di condanna»13. E così, se prima l’invio dell’informazione di garanzia era sempre possibile, divenendo doveroso al compimento di un atto garantito, con la riforma del 1995 esso è stato addirittura vietato, salvo che non si compiano atti garantiti. Per scongiurare il pericolo di distorte letture giornalistiche, si è finito per comprimere «indiscriminatamente il diritto di difesa e il diritto di informa- 13 Così G. GIOSTRA, Segreto – X) Segreto processuale – dir. proc. pen., in Enc. giur., 1998, p. 6. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 217 zione sul procedimento penale»14, secondo un inaccettabile ed ingenuo disegno legislativo che, per arginare alcuni indesiderati effetti secondari, ha progressivamente condotto alla sterilizzazione funzionale dell’informazione di garanzia. Di qui il pericolo dell’incompletezza delle indagini, di qui il bisogno di un momento procedimentale oltre il quale non sia possibile che la segretezza abbia la meglio sul diritto di partecipazione difensiva. Inizialmente il codice vigente affidava questo compito all’avviso a rendere interrogatorio; la novella del ’99 ha perfezionato il meccanismo con l’articolazione dell’avviso di conclusione delle indagini. Certo, sono annotazioni ben conosciute. Epperò esse servono qui, per un verso, a ricordarne la successiva problematicità e, per altro verso, a sottolineare che la sua abolizione dalla “Bozza Riccio” è resa possibile proprio dalla diversa struttura e organizzazione delle indagini preliminari e dell’udienza di conclusione delle stesse. Sul primo terreno, se può sembrare superfluo ripetere le tante questioni nate sull’interpretazione della norma, non sembra peregrino ricordare il disorientamento giurisprudenziale quanto all’ambito applicativo, fino al continuo ricorso alla Corte costituzionale, certo non per profili formali, se le questioni hanno riguardato l’ambito di applicazione della disposizione, i cui vulnera di sostanza sopravvivono alle pronunce della Corte costituzionale, che ha liquidato la pratica del diritto di difesa e del diritto all’ascolto con il formale ricorso alla “specificità procedimentale” dei riti differenziati, che la “Bozza Riccio” riduce, a beneficio del rafforzamento dei poteri cognitivi e decisori del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini. 14 Ancora G. GIOSTRA, Segreto – X) Segreto processuale – dir. proc. pen., op. cit., pag. 6. 218 CAPITOLO IV Si aggiunga che la sperimentazione di questi anni ha rivelato le scarse potenzialità deflattive dell’avviso di conclusione delle indagini, in gran parte dovute al “ritardo” con cui la difesa è ammessa all’interlocuzione critica sugli atti investigativi. Peraltro, la pratica processuale ha fatto assistere, proprio in relazione al nuovo incombente procedurale, all’elevato allungamento dei tempi di “passaggio” di fase, in particolare nello spazio tra la conclusione delle indagini e la fissazione dell’udienza preliminare15. Ci si rende conto, così, che l’avviso di conclusione non ha adempiuto al compito di rafforzare le reali garanzie della difesa e non è servito a soddisfare i bisogni “preventivi” (all’azione) di completabilità delle indagini. Sicché, il fallimento delle sue funzioni ha spinto la Commissione a seguire una diversa strada, nella prospettiva di una maggiore razionalità sistematica e dell’effettiva attuazione dei “principi” (= diritti) costituzionali (più volti richiamati), combinando “efficienza” e “garanzie” nell’ottica della giurisdizione e nel rispetto della “flessibile” parità delle parti16. In particolare, e quanto al tema che ci occupa, la Commissione ha costruito una soluzione opposta: ha organizzato i tempi e i modi del contatto delle parti con il giudice secondo la linea tracciata nel comma 3 dell’art. 111 Cost.; ha “procedimentalizzato” l’avviso di conclusione delle indagini, ha ritenuto necessario agire sul fronte dei poteri del giudice dell’“udienza di conclusione delle indagini”. Insomma, raccogliendo le fila di questa complessa vicenda la nuova “udienza di conclusione delle indagini” – che in parte raccoglie le inespresse potenzialità dell’udienza preliminare della legge 15 Secondo i responsabili del Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria e dell’Ispettorato generale del Ministero della Giustizia, auditi dal Comitato Scientifico della Commissione presieduta dal Prof. G. Riccio, l’art. 415-bis c.p.p. rappresenta il “buco nero” dei tempi del processo. 16 Corte cost., sentenza n. 20 del 26 gennaio 2007. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 219 sul processo minorile (art. 32) – mantiene le funzioni tipiche di controllo sull’esercizio dell’azione penale e di “luogo” per la scelta del rito abbreviato, aprendosi ad un nuovo epilogo decisorio, costituito dalla definizione anticipata del processo con la richiesta di condanna avanzata dall’imputato in cambio di una sostanziosa riduzione di pena, solo in (piccola) parte costruito sulla falsariga del cosiddetto patteggiamento, ricondotto ai più ristretti ambiti, propri dell’originaria previsione codicistica, del limite infrabiennale di pena. 3. Dalla monofunzionalità alla polifunzionalità della nuova udienza: la struttura dell’udienza di conclusione delle indagini. L’udienza di conclusione delle indagini, nell’architettura del nuovo disegno, assume pertanto una pluralità di funzioni: da filtro contro le azioni azzardate a momento di controllo sul corretto esercizio dell’azione penale, dal “concordato sulla pena” all’applicazione della pena richiesta dall’imputato, alla formazione del fascicolo del dibattimento. Come dimostrato, la crisi dell’udienza preliminare17 si è palesata, anche dopo la “legge Carotti”, sul terreno delle prassi in più occasioni e per diversi profili. Ebbene, la sintesi di quelle cause Sul punto specifico, quanto al Progetto della Commissione di studio, presieduta dal Prof. A. A. Dalia, per la riforma del codice di procedura penale approvato dalla stessa in seduta plenaria il 24 maggio 2005, va sottolineato che essa prevede due differenti udienze: la prima udienza, anteriore alla fase del dibattimento, è chiamata ad effettuare una effettiva verifica sulla necessità dello stesso; accanto ad essa “si è convenuto sulla modulazione dell’udienza preliminare come udienza di comparizione” per consentire al giudice di decidere “sui risultati probatori che il magistrato del pubblico ministero si prefigge di raggiungere nella sede dibattimentale (fatti e mezzi di prova), nonché sul contestuale esame delle investigazioni difensive, miranti al contrapposto obiettivo di dimostrare la insostenibilità dell’accusa”. E tuttavia “si è ritenuto di non attribuire al giudice dell’udienza di comparizione (= udienza preliminare) la competenza funzionale relativa a provvedimenti di ammissione di mezzi di prova, trattandosi di competenza che va riconosciuta al giudice del giudizio”. 17 220 CAPITOLO IV costituisce ora le linee presupposte per la sua modifica. I punti essenziali che vanno qui ripresi riguardano: › il tema dei poteri di restituzione della richiesta di rinvio a giudizio al pubblico ministero per vizi formali della domanda, perché è stata omessa l’imputazione ovvero perché l’imputazione è generica (risolvendosi, ad esempio, nella mera parafrasi della norma incriminatrice, senza l’identificazione di un fatto determinato), ovvero oscura o imprecisa; › la materia dell’imputazione, intorno alla quale si è discusso se il pubblico ministero possa adottare lo strumento modificatorio anche quando la “diversità” risulti già dagli atti; oppure se il giudice abbia poteri sollecitatori rispetto all’accusa, avendo il vuoto normativo sostenuto prassi contrastanti e spinto l’interpretazione sul fronte dell’analogia con l’art. 521 c.p.p. 1988, forma ermeneutica impraticabile in materia attributiva di poteri; › le modalità applicative, in udienza, della clausola generale dell’art. 129 c.p.p.; › la motivazione del decreto di rinvio a giudizio, prassi adottata da alcuni uffici giudiziari; ed infine › la corretta qualificazione giuridica del fatto in sede di decreto di rinvio a giudizio; argomenti su cui spesso si è pronunziata anche la Corte costituzionale. Su altro fronte, la moltiplicazione delle procedure per il giudizio ha prodotto situazioni critiche non solo sul piano delle interpretazioni giudiziarie e costituzionali e non ha giovato alla contrazione dei tempi del processo, essendo stata ritenuta irrinunciabile la logica della premialità “in ogni giudizio” ai fini della tenuta del principio di eguale trattamento degli imputati. Peraltro, il “fallimento” dei riti premiali – e segnatamente del “patteggiamento” – ha come presupposto critico la “lontananza” del giudice (l’accordo è tra le parti), oltre alla possibilità di farvi ricorso in altra sede. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 221 Queste le premesse di quanto dettagliatamente previsto nelle direttive di delega, i cui contenuti si riportano con breve commento tratto dalla Relazione a completamento della ricerca. Innanzitutto sono tratteggiate le linee di essenza e le rigide indicazioni di contenuto dell’atto di esercizio dell’azione penale, con specifico riferimento all’imputazione, alla indicazione delle norme di diritto sostanziale che si intendono violate e delle fonti di prova acquisite, al deposito degli atti compiuti dal pubblico ministero e all’invito a depositare quelli investigativi compiuti dalla difesa e di cui essa intenda far uso, agli avvertimenti relativi alle scelte, non solo procedimentali, che l’imputato può operare in udienza18. La previsione della sanzione della decadenza – espressamente indicata in delega – conferma la scelta dell’elezione di questa sede a luogo esclusivo per la pratica delle opportunità premiali e deflattive. Di particolare interesse è la disposizione secondo cui l’atto di esercizio dell’azione, e quindi la richiesta di rinvio a giudizio, contiene la convocazione davanti al giudice dell’imputato e della persona offesa. Il progetto riformatore supera così l’attuale scissione tra richiesta di rinvio, espressiva dell’esercizio dell’azione, e decreto giudiziale di fissazione dell’udienza, vero e proprio atto di citazione in giudizio. La modifica risponde al bisogno di accelerazione dei tempi processuali, evitando che la violazione dei termini, meramente ordinatori, oggi posti a garanzia di una tempestiva emissione del decreto, concorrano a rendere ancor più farraginoso l’avvio della fase processuale. Quanto alle modalità procedurali di realizzazione del nuovo meccanismo di citazione la bozza di legge-delega, per ovvie ragioni di struttura normativa, nulla dice, ma è probabile che il legislatore delegato potrà modellare l’isti- In particolare, l’imputato può chiedere fino alla formulazione delle conclusioni in udienza, a pena di decadenza, giudizio abbreviato o formulare richiesta di applicazione, anche concordata, della pena, di sanzioni sostitutive, di misure alternative alla detenzione o di sospensione del procedimento con messa alla prova. 18 222 CAPITOLO IV tuto sulla falsariga dell’attuale art. 132 disp. att. c.p.p. in ordine alle modalità con le quali il presidente del tribunale comunica al giudice dell’udienza preliminare, ai fini della formazione del decreto che dispone il giudizio, il giorno e l’ora della comparizione ed eventualmente la sezione a cui appartiene il giudice davanti al quale l’imputato dovrà comparire. Con l’atto di citazione davanti al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini, l’imputato e la persona offesa sono invitate al deposito delle attività investigative compiute. La previsione mira, tra l’altro, ad evitare situazioni che in passato hanno determinato una pluralità di interventi della Corte costituzionale senza peraltro avere ricevuto ancora definitiva e convincente soluzione19. Essa merita, poi, particolare attenzione per la parte in cui prescrive la necessità che intercorra un “congruo termine” tra la notifica dell’atto di esercizio dell’azione e lo svolgimento dell’udienza, perché così si fa carico delle esigenze difensive che non sono mortificate dall’assenza dell’avviso di conclusione delle indagini in vista dell’esercizio del diritto alle proprie investigazioni. Seppure il nuovo sistema imponga l’invio dell’informazione di garanzia – 60.11 –, qualificata da una sufficiente descrizione del fatto, dopo un cer- Il riferimento e alle decisioni in tema di contestualità tra richiesta di giudizio abbreviato semplice e deposito delle indagini difensive. Sul tema cfr., in particolare, Corte cost., ordinanza 24 giugno 2005, n. 245, in Giur. cost., 2005, p. 2126 ss. Hanno commentato l’ordinanza in questione L. CREMONESI, Giudizio abbreviato e diritto alla prova contraria, in Arch. nuova proc. pen., 2006, p. 262; G. VARRASO, Diritto alla prova “contraria” nell’ipotesi di indagini difensive depositate dall’imputato, in Cass. pen., 2006, p. 435; A. VELE, Per una lettura costituzionalmente orientata in ordine al rapporto tra investigazioni difensive e giudizio abbreviato, in Giust. pen., 2006, I, c. 176; nonché F. ZACCHÈ, Giudizio abbreviato e indagini difensive al vaglio della Corte costituzionale, in Giur. cost., 2006, p. 3382 (il problema affrontato dalla Corte riguardava la presunta violazione del principio del contraddittorio laddove il pubblico ministero non possa chiedere di risentire, nell’ottica della prova contraria, la persona ascoltata ai sensi dell’art. 391-ter c.p.p. dal difensore nell’esercizio della sua attività investigativa, quando vi è richiesta semplice di giudizio abbreviato); nonché Corte cost., sentenza n. 62 del 2007 in Giur. cost., 2007, p. 588, con nostra nota critica, Investigazioni difensive e rito abbreviato. Un’occasione mancata della Corte costituzionale. 19 UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 223 to termine dall’inizio delle indagini -dopo quindi che il pubblico ministero abbia avuto modo di verificare se quella notizia di reato meriti di essere ulteriormente approfondita20- con l’obbligo di riservare dalla spedizione dell’informazione un ulteriore congruo termine prima dell’eventuale atto di esercizio dell’azione, l’eliminazione dell’avviso di conclusione delle indagini non priva la difesa né della conoscibilità dei contenuti fattuali e giuridici dell’addebito, né della puntuale conoscibilità del materiale investigativo che dell’addebito è la necessaria base informativa, e che consente l’attivazione delle investigazioni difensive. Il timore di uno svilimento delle garanzie, ad una lettura approfondita delle direttive, si dissolve, perché la previsione del “congruo termine” tra la notifica della richiesta di rinvio a giudizio e lo svolgimento dell’udienza risponde proprio al bisogno di assicurare alla difesa un adeguato lasso temporale per l’eventuale attivazione delle proprie investigazioni, i cui risultati, ove essa intenda farne uso, devono essere depositati prima dell’inizio dell’udienza stessa. Non va trascurato che l’attività investigativa, nella fisiologia delle nuove indagini preliminari, può ben essere compiuta già prima dell’esercizio dell’azione, perché l’obbligatorietà dell’informazione di garanzia supera le attuali difficoltà circa la piena attivazione del diritto all’investigazione. Epperò, proprio per rispondere all’obiezione che informazione di garanzia obbligatoria e notifica della ri- 20 Non sembrano cogliere nel segno le critiche di G. FRIGO, La notificazione dell’accusa nel contesto del “Progetto Riccio” di riforma del Codice di procedura penale, in Giust. pen., 2008, c. 318, che sospetta della costituzionalità della previsione dell’invio ritardato dell’informazione di garanzia rispetto al momento di acquisizione della notizia di reato, perché la disposizione costituzionale circa una tempestiva informazione sulla natura e sui motivi dell’accusa (art. 111 comma 3) impone di chiarire la nozione di accusa, che solo per affermazione apodittica può essere fatta coincidere con quella di notizia di reato. L’accusa, invece, sembra dover qualificare il momento procedimentale in cui il pubblico ministero è posto nelle condizioni di trarre dalla notizia di reato gli elementi per la formulazione di un addebito che, per quanto sommario, sia tale da consentire e giustificare l’intervento difensivo. 224 CAPITOLO IV chiesta di rinvio a giudizio con vocatio in iudicium non riparano lo strappo alle garanzie difensive causato dall’eliminazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, potendo l’addebito comunicato con l’informazione di garanzia subire sostanziose evoluzioni mano a mano che l’indagine del pubblico ministero progredisce sino ad approdare all’imputazione21, le direttive della “Bozza Riccio” impongono al futuro legislatore delegato di assicurare alla difesa la possibilità di orientare fattivamente le investigazioni all’addebito che ormai si è cristallizzato nell’imputazione, avendo così modo di colmare quelle lacune informative determinate dagli aggiustamenti progressivi della descrizione del fatto originariamente conosciuta per mezzo dell’informazione di garanzia. Si trae allora che nel nuovo disegno l’istituto dell’avviso di conclusione delle indagini è stato, non già eliminato, quanto assorbito nella nuova costruzione procedurale dell’udienza di conclusione delle indagini che, unitamente alla riscrittura nei termini detti dell’informazione di garanzia, tenta di sfruttarne la funzione garantista senza la riproposizione di quei difetti che ne hanno segnato il sostanziale insuccesso. Come si è detto, esso è stato procedimentalizzato. Quanto allo svolgimento dell’udienza si prevede che l’imputato possa chiedere di essere interrogato: per questa parte il progetto di riforma riproduce l’attuale normativa e valorizza il significato difensivo dell’interrogatorio quale atto maggiormente espressivo dell’esplicazione della cosiddetta. difesa materiale22. 21 È questa l’opinione di G. FRIGO, La notificazione dell’accusa nel contesto del “Progetto Riccio” di riforma del Codice di procedura penale, cit., c. 317, che osserva come tra l’informazione di garanzia e l’imputazione contenuta nell’atto di esercizio dell’azione ci sia l’indagine «che per sua natura è idonea a portare modificazioni all’addebito inizialmente configurato…». 22 V., per quanto concerne la disciplina del vigente codice di rito, S. BUZZELLI, Il contributo dell’imputato alla ricostruzione del fatto, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano, 1992, p. 87 e ss. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 225 Un’innovazione attiene, invece, alla disciplina dei poteri probatori del giudice, che può “anche d’ufficio” assumere iniziative istruttorie, pur sempre vincolate al criterio della decisività del mezzo di prova, non necessariamente in vista della decisione di non luogo a procedere, come attualmente previsto dall’art. 422 c.p.p. Invero, la restrizione del potere probatorio all’esclusiva prospettiva della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere riguarda le iniziative officiose, venendo meno tale limite funzionale per l’esercizio del potere su richiesta delle parti. La diversificazione risponde all’esigenza di sfruttare, quanto più possibile, l’intervento della giurisdizione non mortificandone il ruolo oltre il confine tracciato dalla necessità di scongiurare il rischio di riproporre anacronistiche deviazioni inquisitorie. Se la sollecitazione proviene dalle parti, il potere istruttorio trova giustificazione nella loro volontà di conformare l’andamento dell’udienza alle strategie processuali che un sistema accusatorio consente ed incentiva. L’udienza di conclusione delle indagini rivela, così, l’inedito carattere della duttilità, offrendo alle parti un modello procedimentale adattabile ai concreti e contingenti bisogni di accertamento, senza che ciò si risolva, se non nello snaturamento, nell’appannamento dei connotati tipici della giurisdizione. Se, invece, il potere è attivato d’ufficio, la finalizzazione alla sentenza di non luogo a procedere pone al riparo dall’eventualità che il giudice avverta il rafforzamento del suo intervento istruttorio come dovere di supplire alle eventuali carenze investigative del pubblico ministero, finendo col condividere la responsabilità dell’azione che, per la necessaria concretezza, ne metterebbe in ombra il carattere della “terzietà”, connotato essenziale del “giusto processo”. Quanto ai poteri di indirizzo sulla scelta del rito e/o verso la definizione anticipata, va detto che essi sono previsti nell’ottica del 226 CAPITOLO IV ruolo “collaborativo” e “solidaristico” che il giudice naturalmente assume in questa fase. Sul punto, appare opportuno chiarire che gli aggettivi usati delineano la “figura” di un “nuovo” giudice, che – terzo rispetto all’avvenimento ed imparziale nel giudizio – non sia alieno – nella procedura in corso – da compiti attivi, non di incentivazione della soluzione a lui “gradita”, ma di suggerimento della molteplicità di percorsi operativi per la definizione della vicenda. Un giudice, insomma, che non si “comprometta” quanto al giudizio e che non invada l’ambito di selezione spettante al difensore; un giudice che semplicemente “ricordi” gli sbocchi definitori e la loro impraticabilità futura, che non è certo un giudice “incompatibile”, bensì un giudice che solidaristicamente propone all’imputato il ventaglio delle scelte che sono di fronte a lui. Certo, il pericolo di alterazioni non è difficile da scorgere nella costruzione di una figura di giudice che assuma uno spiccato ruolo di guida, seppure senza coinvolgimento valutativo apprezzabile in termini di contaminazione nella definizione ed apprezzamento degli interessi e delle convenienze processuali delle parti. L’antidoto è (meglio: dovrebbe essere), connaturato al sistema, che implica, per la sua accusatorietà, la presenza “forte” e consapevole delle parti. In linea teorica il disegno è nitido: la terzietà e l’imparzialità del giudice non degenerano nell’inaccettabile indifferenza verso le sorti del processo, nella misura in cui esse sono affidate alla “seria” gestione delle parti che ne hanno la disponibilità, nel senso che possono incidere sui modi di evoluzione dell’accertamento. Ne costituisce premessa insostituibile l’effettività dei meccanismi, soprattutto extracodicistici, volti ad assicurare ad ogni imputato, quali che siano le sue capacità economiche e finanziarie, una difesa tecnicamente attrezzata e deontologicamente qualificata. In assenza di queste condizioni, la neutralità del giudice potrebbe scivolare verso una concezione burocratica e deresponsabilizzante, estranea ai contenuti di garanzia del “giusto processo”. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 227 In merito alle modifiche dell’imputazione, l’articolato della “Bozza Riccio” mira a prevenire una delle manifestazioni di quel fenomeno generalmente indicato come “abuso del processo”. È noto che la giurisprudenza di legittimità, incline a far prevalere soluzioni maggiormente “percorribili” in considerazione dei bisogni delle prassi giudiziarie, ha da tempo riconosciuto, ben al di là del dato letterale delle disposizioni normative, la legittimità dei rimaneggiamenti imputativi non necessitati dalle sopravvenienze istruttorie ma dovuti a ripensamenti del pubblico ministero. In dottrina, invece, si è evidenziato che l’elusione del dovere del pubblico ministero di formulare una chiara e completa imputazione, corrispondente agli elementi emersi durante le indagini, svilisce la funzione dell’imputazione e piega a fini impropri, di correzione degli errori del pubblico ministero, gli strumenti normativi predisposti per le modifiche degli enunciati fattuali dell’accusa in coerenza con le evoluzioni istruttorie23. Nessun dubbio che questi comportamenti spiazzino l’imputato, che non ha modo di opporsi e contrastare l’arbitrario quanto repentino mutamento dei confini fattuali entro i quali è stato chiamato a difendersi. L’attenzione rivolta al bisogno di stabilità dell’accusa, per l’evidente correlazione con l’effettività della tutela dei diritti della difesa, ha quindi indotto la Commissione a predisporre le necessarie contromisure, consistenti nella previsione di un termine a difesa pari a quello di comparizione; non così quando le modifiche dell’imputazione siano effetto fisiologico dell’evoluzione istruttoria, perchè in tal caso si reputa sufficiente la garanzia di un “congruo” termine a difesa, che può bene essere inferiore a quello di comparizione. Le esigenze di speditezza del rito spiegano poi la scelta della di preve- 23 E. M. CATALANO, L’abuso del processo, Milano, 2004, p. 213, secondo cui «la fluidità dell’imputazione, che costituisce fenomeno fisiologico nella misura in cui dipende dalle evenienze del dibattimento, viene ad assumere un significato patologico ove sia invece riconducibile alla incompletezza originaria delle indagini ovvero alla genericità dell’addebito ab initio contestato». 228 CAPITOLO IV dere che l’imputato possa rinunciare ai termini difensivi o prestare acquiescenza a termini inferiori a quelli di legge, in ragione del ruolo che il sistema accusatorio riconosce alla volontà delle parti anche in funzione dispositiva dei diritti che non siano proiezione centrale del nucleo di interessi, la cui tutela risponde ad istanze di pubblico interesse. Di particolare rilievo, specie perché il tema è stato di recente riproposto all’attenzione della dottrina dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, è la disposizione secondo cui il meccanismo di attivazione delle garanzie difensive, apprestato dalla vigente disciplina per il caso di contestazione del fatto diverso, opera pur quando il pubblico ministero proceda soltanto alla riqualificazione dell’addebito, lasciando immutate le sue componenti fattuali. La giurisprudenza della Corte europea, come già si è detto, ha invero trattato il caso della riqualificazione dell’imputazione per atto del giudice, sollevando una questione che la “Bozza Riccio” non affronta espressamente 24. Se però si pone mente alla diversa e originale configurazione del ruolo del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini – che “dialoga” con le parti e che è tenuto ad alcuni avvertimenti in favore dell’imputato al momento delle conclusioni circa la possibilità di fare richiesta di pena concordata o di condanna a pena ridotta, o ancora di giudizio abbre- 24 M. CAIANIELLO, Mutamento del nomen iuris e diritto a conoscere la natura e i motivi dell’accusa ex art. 6 C.e.d.u.: le possibili ripercussioni sul sistema italiano, in Giust. Pen., 2008, c. 165 e ss., spiega bene le ragioni che sottendono la messa in crisi del brocardo iura novit curia, precipitato di una vetusta e superata concezione dell’attività giurisdizionale, che si risolverebbe in un’operazione «puramente meccanicistica avalutativa e meramente ricognitiva». «L’individuazione dell’esatta fattispecie giuridica sotto cui sussumere la vicenda descritta nell’addebito sarebbe una mera operazione tecnica, scevra da condizionamenti ideologici…sicché ciascun diligente giurista sarebbe sempre in grado di percepire ab initio la corretta connotazione in iure da attribuire al fatto oggetto del processo…, ragion per cui l’eventuale modifica operata di propria iniziativa dal giudicante…non potrebbe mai dirsi idonea a ledere la concreta capacità di ogni parte di tutelare adeguatamente le proprie posizioni…». UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 229 viato; che, dunque, è affrancato dal pericoloso equivoco che non sa distinguere terzietà e neutralità dall’esercizio non timoroso dei poteri di direzione dell’udienza – non si scorgono ostacoli a che il legislatore delegato possa apprestare rimedi, non individuati specificamente dalle direttive di delega, come quello della sollecitazione delle parti alla trattazione della questione della qualificazione del fatto con concessione di un termine a difesa. In buona sostanza, per il caso in cui il giudice si avveda per tempo della dubbia correttezza della qualificazione giuridica dell’imputazione, ne potrebbe dare comunicazione alle parti, sollecitandole all’interlocuzione; per il caso in cui, invece, prenda consapevolezza dei difetti di qualificazione quando già ha avuto inizio la discussione, ne potrebbe disporre l’interruzione, essendo obbligato alla regressione del procedimento con restituzione degli atti al pubblico ministero nel solo caso che di tali difetti si accorga in sede di deliberazione finale25. Si è poi stabilito che la “diversità” del fatto esclude la “unità” dei fatti compiuti in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Si è fatto cioè ricorso al criterio della “autonomia” del fatto, criterio peraltro acquisito dalla Corte costituzionale e che meglio distingue il “fatto processuale” dal “fatto-reato”. In virtù di tale “autonomia”, è apparso indispensabile differenziare il regime processuale del concorso formale di reato da quello materiale, per il quale, tuttavia, il recupero operativo dell’unità del contesto processuale può essere utilmente adottato sfruttando le modalità con- 25 M. CAIANELLO, Mutamento del nomen iuris e diritto a conoscere la natura e i motivi dell’accusa ex art. 6 C.e.d.u.: le possibili ripercussioni sul sistema italiano, cit., c. 171, ritiene che si debba dubitare della costituzionalità dell’art. 521 c.p.p., «nella parte in cui non impone all’autorità giudicante alcun dovere di previa comunicazione a favore dell’imputato, ove ritenga di dover cambiare la denominazione del fatto d’imputazione, né concede ad esso alcun termine per poter intervenire attivamente sul nuovo thema decidendum attraverso l’esercizio del contraddittorio». Prospetta allora la necessità di accorgimenti normativi di sostanziale equiparazione di trattamento con le ipotesi di mutamento del fatto storico. 230 CAPITOLO IV testative del “fatto nuovo”26. Un’articolata disciplina affronta il tema, di stringente attualità, dei difetti genetici dell’imputazione. Nella convinzione che il vizio di imputazione costituisca scorretto esercizio dell’azione penale, al giudice è accordato il potere di restituzione degli atti al pubblico ministero per il caso in cui questi non abbia recepito l’invito di udienza ad una migliore e puntuale ridescrizione del fatto. La sollecitazione giudiziale alla correzione dell’imputazione tiene conto delle esigenze di economia processuale, e non può essere letto come indebita interferenza nelle scelte discrezionali del pubblico ministero o come riduzione delle garanzie per l’imputato, a cui favore milita la identità di termini tra vocatio originaria e nuova udienza di discussione27. Peraltro, la soluzione appena indicata trova una singolare anticipazione nella giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, a cui si è già dedicato buona parte di questa ricerca. Restano fermi gli epiloghi tradizionali dell’udienza, costituiti dal decreto che dispone il giudizio e dalla sentenza di non luogo a procedere, da emettere in casi predeterminati e comunque quando il giudice ritenga che gli elementi acquisiti non siano idonei a so- La direttiva n. 66.5 della “bozza” di disegno di legge-delega prevede, testualmente, il “potere del pubblico ministero, nel corso dell’udienza, di qualificare diversamente il fatto e di contestare una circostanza aggravante o un reato in concorso formale, nonché di modificare l’imputazione per diversità del fatto; previsione che in tali casi il giudice conceda all’imputato un congruo termine a difesa; previsione che il termine a difesa non possa essere inferiore a quello di comparizione dinanzi al giudice, se la diversità del fatto risulta dagli atti di indagine già acquisiti al momento della formulazione dell’imputazione; potere dell’imputato di rinunciare ai termini a difesa o di consentire che abbiano una durata inferiore; notificazione al domicilio dichiarato o eletto, in caso di assenza dell’imputato, del verbale contenente la contestazione, con avviso della data della nuova udienza; contestazione del fatto non enunciato nell’imputazione, su autorizzazione del giudice previa richiesta del pubblico ministero e consenso dell’imputato. 27 Nel tentativo di trovare una soluzione in grado di superare gli irragionevoli limiti posti dalla normativa in esame, la Commissione Riccio si è orientata verso il riconoscimento di nuovi poteri di sollecitazione al giudice dell’udienza di conclusione delle indagini. 26 UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 231 stenere l’accusa in giudizio. Sul punto delle formule di proscioglimento, la “Bozza Riccio” sembra non porsi la questione dell’utilità di mantenerle o di sostituirne il ricorso con una clausola generale, del tipo “gli elementi acquisiti risultano non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”28, perché di quest’ultima formula fa menzione solo come clausola finale della previsione secondo cui la disciplina del codice dovrà prevedere l’adozione della sentenza di non luogo a procedere “in casi predeterminati e comunque quando il giudice ritiene che gli elementi acquisiti non siano idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Sembra, quindi, che la direttiva sia nel senso della riproduzione della gerarchia delle formule anche per l’adozione di una sentenza che, è noto, non esprimerà, sulla scia della sentenza attualmente prevista per l’udienza preliminare, un accertamento nel merito dell’imputazione ma una verifica delle condizioni per l’utile prosecuzione del giudizio. Epperò, nella Relazione si legge testualmente che «l’unità della regola di giudizio potrebbe consentire l’abolizione di formule di proscioglimento incompatibili con la funzione di controllo affidata al g.u.c.i. in via primaria, formule che, peraltro, sono state fonte di equivoci dato il loro contestuale uso in disposizioni di differente funzione e natura». La direttiva sopra trascritta non impedirebbe quindi l’innovazione, che servirebbe a rimarcare la natura meramente processuale dell’udienza preliminare e conterrebbe sapientemente le pur possibili enfatizzazioni del diritto delle parti alla prova, chiarendo che la decisività, a cui la prova deve rispondere, si apprezzerà unicamente nell’alternativa tra il rinvio a giudizio e il non luogo a procedere e non già tra le diverse formule che di quest’ultimo potrebbero essere una più ampia traduzione. L’eventualità dell’abolizione delle formule di proscioglimen- 28 Cfr. G. PECORELLA, Formule di proscioglimento e giusto processo, in Leg. pen., 2005, p. 650 e ss. 232 CAPITOLO IV to per la sentenza di non luogo a procedere darebbe, poi, ancor più peso al rapporto tra la clausola dell’immediata pronuncia delle cause di non punibilità, di cui all’attuale art. 129 c.p.p., e la regola di giudizio sottesa alla pronuncia di non luogo a procedere. Si potrebbe, infatti, affermare, con più robusti argomenti di quelli che oggi sono spesi per riconoscere l’autonoma operatività dell’art. 129 c.p.p. nella fase dell’udienza preliminare, che il giudice dovrebbe poter ricorrere alla clausola dell’immediata pronuncia liberatoria tutte le volte in cui il particolare grado di innocenza legittimi la pretesa dell’imputato ad una decisione, non solo garantita da un pieno effetto preclusivo verso altri giudizi sullo stesso fatto, ma anche qualificata da un’adeguata formula di proscioglimento che scolpisca le ragioni dell’estraneità all’addebito in modo più efficace, per la maggiore diffusività nel contesto pubblico della motivazione, destinata invece ad essere letta e conosciuta da pochi. Ma la “bozza” di legge-delega non sembra aprire con la necessaria chiarezza a questo percorso, che, de iure condito, è stato già tracciato suscitando le perplessità e le riserve illustrate nel capitolo che precede. Se a tanto la “Bozza Riccio” avesse voluto giungere, avrebbe dovuto farsi carico di prevedere, non soltanto il pur necessario contraddittorio delle parti in udienza di conclusione delle indagini, ma le forme e le modalità di espressione di una chiara volontà dell’imputato, non surrogabile con interventi del suo difensore, diretta a costituire il necessario presupposto per l’attivazione dei poteri decisori nel merito del giudice di quell’udienza29. L’esercizio dei poteri di decisione nel merito sarebbe, sì, funzionale soltanto alla pronuncia assolutoria, ma non va trascurato, per meglio comprendere come non possa escludersi, ad esempio, la compara- L’argomento legato all’assenza di previsione della necessità del consenso dell’imputato vale, come è ovvio, anche a rafforzare le ragioni del dissenso verso la tesi che già oggi legge i rapporti tra art. 129 c.p.p. e art. 425 c.p.p. nei termini anzidetti. 29 UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 233 zione con la disciplina sui presupposti del giudizio abbreviato, che l’interesse dell’imputato alla più ampia formula di proscioglimento assume un consistente rilievo, anche d’ordine costituzionale, sicché non è ipotizzabile che di esso possa disporsi senza che il suo titolare abbia prestato il consenso. E se il giudice, senza il consenso dell’imputato, fosse ammesso all’esercizio dei poteri di merito che si individuano nel disposto dell’attuale art. 129 c.p.p., dovrebbe arrestare, sempre in conformità a questa previsione normativa riprodotta sostanzialmente nella “Bozza Riccio”, il percorso cognitivo non appena risulti la causa di non punibilità, non potendosi curare dell’eventualità che la prosecuzione del processo potrebbe condurre alla rilevazione di una causa di non punibilità più favorevole, ferma restando, è ovvio, la regola della prevalenza, in forza del requisito dell’evidenza, sul proscioglimento per estinzione del reato delle formule, in facto e in iure, più favorevoli. È appena il caso di ricordare che la Corte costituzionale30, nel dichiarare l’illegittimità della novella – art. 1 legge n. 46 del 2006 – dell’art. 593 c.p.p. nella parte in cui esclude(va) che l’imputato potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento (relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa), fatta eccezione per le ipotesi di decisività della prova sopravvenuta, ha preso in esame proprio il tema della rilevanza della gerarchia delle formule in riferimento all’interesse dell’imputato alla pronuncia più ampiamente liberatoria. La Corte ha in premessa ricordato che l’originario assetto della disciplina codicistica conseguente alla novella del 2006 – che aveva precluso anche al pubblico ministero l’appello avverso le sentenze di proscioglimento con l’unica eccezione della sopravvenienza di una prova decisiva – conteneva due asimmetrie di segno contrapposto: da un lato, il pubblico ministero non poteva 30 Corte cost., sentenza n. 85 del 4 aprile 2008. 234 CAPITOLO IV appellare la sentenza a lui totalmente sfavorevole, la sentenza di proscioglimento appunto, mentre l’imputato era (ed è) ammesso a dolersi con l’appello della sentenza a lui totalmente sfavorevole, quella di condanna; dall’altro, con riguardo alla decisione solo parzialmente sfavorevole, le posizioni si invertivano e il pubblico ministero poteva e può appellare le sentenze di condanna di parziale accoglimento delle sue richieste, mentre l’imputato non fruiva dell’omologo potere in rapporto alle sentenze di proscioglimento non integralmente satisfattive. Su quest’ultimo aspetto si è quindi soffermata la Corte, per precisare che la categoria delle sentenze di proscioglimento «non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto». Ed infatti, si annoverano decisioni ampiamente liberatorie, che sono quelle pronunciate con le formule «il fatto non sussiste» e «l’imputato non lo ha commesso», e decisioni che, pur non applicando una pena, comportano, in diverse forme e gradazioni, un riconoscimento della responsabilità dell’imputato o comunque dell’attribuzione del fatto allo stesso. Ne sono un chiaro esempio le sentenze di dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione sulla base del riconoscimento di circostanze attenuanti; le sentenze di proscioglimento per cause di non punibilità legate a condotte o accadimenti post factum; le sentenze di proscioglimento per concessione del perdono giudiziale. Tutte queste categorie di sentenze sono idonee ad arrecare all’imputato «significativi pregiudizi, sia di ordine morale che di ordine giuridico». Quanto al pregiudizio d’ordine morale, la Corte ha sottolineato che può anche superare quello derivante da una sentenza di condanna, come nel caso del proscioglimento per totale infermità di mente o per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, seppure non sia applicata una misura di sicurezza. I pregiudizi d’ordine giuridico, poi, si collegano alla possibilità che l’accertamento di responsabilità o, quanto meno, l’attribuibilità del fatto all’imputato, UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 235 attestate nelle sentenze prima indicate, incidano in modo negativo, al di là dell’assenza di effetti vincolanti, nei giudizi civili, amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto31. Alla luce di queste considerazioni non può allora negarsi che la mera previsione della necessità della presenza del difensore all’udienza di conclusione delle indagini non può costituire lo spunto per una ricostruzione interpretativa del complesso delle direttive della “Bozza Riccio”, che possa giustificare una riscrittura dei rapporti con la regola dell’attuale art. 129 c.p.p. nei termini che pure parte della dottrina già prospetta a legislazione vigente. Nella prospettiva del modello dell’udienza predibattimentale che compare nella “Bozza Dalia”, la Commissione si era inizialmente Circa i pregiudizi connessi alla sentenza di proscioglimento pronunciata «perché il fatto non costituisce reato», la Corte ha rinviato alla sentenza n. 200 del 18 luglio 1986, con cui dichiarò l’illegittimità dell’art. 387 comma 3 codice di rito del 1930, nella parte in cui riconosceva all’imputato il diritto di proporre appello contro la sentenza di proscioglimento istruttorio, pronunciata con la formula «perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato» limitatamente alle ipotesi nelle quali fosse stata applicata o potesse essere applicata, con provvedimento successivo, una misura di sicurezza. Come precisò in esordio di motivazione la Corte di cassazione che aveva rimesso la questione, questa atteneva all’esclusione del diritto dell’imputato di appellare la sentenza di non doversi procedere «perché trattasi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato», qualora non fosse stata applicata né potesse essere applicata, con provvedimento successivo, una misura di sicurezza. Per una corretta impostazione della questione la Corte di cassazione puntualizzò significati e contenuti dell’indicata formula di proscioglimento, riscontrando come non fosse utilizzata in modo univoco dal legislatore. Precisò così che, mentre le formule «perché il fatto non sussiste» e «perché l’imputato non l’ha commesso» significano l’una l’insussistenza materiale del fatto storico e l’altra la totale estraneità dell’imputato, la formula «perché il fatto non costituisce reato» si caratterizza perché, pur riconoscendo la sussistenza della materialità del fatto storico e la sua riferibilità all’imputato, nega la punibilità per la mancanza dell’elemento soggettivo oppure per la presenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicità o di una causa di esclusione della punibilità. La Corte costituzionale ritenne fondata la questione ricordando che soltanto nei casi di proscioglimento con formula ampiamente liberatoria in fatto si può affermare l’assenza di ogni pregiudizio (attuale o potenziale) per il prosciolto. Quando, invece, il proscioglimento è deliberato con la formula «perché il fatto non costituisce reato» occorre riconoscere all’imputato il diritto di impugnazione per l’ottenimento di una formula più favorevole, tale da escludere la sussistenza materiale del fatto storico o la sua riferibilità all’imputato stesso. 31 236 CAPITOLO IV orientata ad attribuire al giudice dell’udienza il potere di selezionare gli atti di prova utilizzabili nella successiva fase del giudizio sul presupposto della loro inerenza a temi non controversi. L’innovazione, ispirata al bisogno di semplificazione, non ha però trovato il necessario consenso per il timore che potesse risolversi in una sostanziale e surrettizia espropriazione del diritto alla prova delle parti. A queste soltanto è, così, rimessa l’individuazione di eventuali temi non controversi, che possano essere oggetto non già di una semplificazione probatoria ma di un accordo su meccanismi dibattimentali di recupero del materiale informativo raccolto nelle fasi precedenti. Al giudice spetta, allora, il compito, immediatamente dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, di invitare le parti all’individuazione concordata degli atti di indagine da acquisire al fascicolo per il dibattimento anche su temi non controversi, e, in mancanza di accordo tra le parti, di formare il fascicolo per il dibattimento inserendovi il provvedimento che dispone il giudizio, gli atti relativi alla procedibilità e all’esercizio dell’azione civile, quelli non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero e dal difensore e quelli compiuti dal giudice negli incidenti probatori. Sempre nella prospettiva di semplificazione delle attività dibattimentali si prevede che il giudice, sentite le parti – e, dunque, mediante procedimento garantito –, ordini la trascrizione delle conversazioni e dei flussi telematici oggetto di captazione che appaiano rilevanti, per il caso in cui l’incombente non sia stato compiuto in precedenza; e ciò per evitare che si possa complicare o ritardare il corso del dibattimento; allo stesso modo è prevista la partecipazione dei difensori alle operazioni di trascrizione, anche con propri consulenti ed il deposito delle trascrizioni prima dell’inizio del dibattimento. Si è infine previsto, disposto il rinvio a giudizio, il potere delle parti, di compiere atti integrativi di indagine, ad eccezione, per il pubblico ministero e per la persona offesa, di quelli per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 237 Quanto ai poteri di definizione anticipata del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini, la diversa numerazione ne esalta la novità sistematica e la problematicità politica e perciò ne suggerisce una trattazione autonoma. In conclusione può dirsi che «l’udienza di conclusione delle indagini – eliminando prassi devianti che direttamente la riguardano ed i punti conflittuali delle disposizioni ora in vigore – propone la sua centralità su più fronti, dal controllo sull’esercizio dell’azione all’anticipazione della condanna alla scelta del rito abbreviato (….), alla predisposizione del programma per il dibattimento; e la successione delle direttive risponde a questa scansione…. Ma essa potrà assolvere a questa pluralità di funzioni solo a condizione che ad essa saranno riservate le risorse necessarie ed una appropriata organizzazione giudiziaria»32. 4. Segue: le implicazioni decisorie: applicazione di pena concordata e condanna su richiesta. L’udienza di conclusione delle indagini, in ragione della polifunzionalità già più volte messa in evidenza, è il luogo di attivazione di alcuni meccanismi definitori della vicenda processuale incentrati sulla valorizzazione della volontà dell’imputato e sull’efficacia incentivante delle riduzione di pena. Un primo riferimento è al tradizionale istituto del patteggiamento, che negli anni è stato oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali e di approfondite rifles- Così, testualmente, la Relazione. Sul punto è di singolare forza operativa il suggerimento, di natura ordinamentale, del capovolgimento dei rapporti tra normazione per il processo e organizzazione del processo, oggi coltivati secondo la regola che la prima segue la seconda (così G. LATTANZI, Manca un piano per la giustizia, in Cass. pen., 2007, p. 3559), regola che invece va invertita (G. RICCIO, La “nuova” progettualità per far fronte alla crisi della giustizia, in Cass. pen., 2007, p. 4407). 32 238 CAPITOLO IV sioni dottrinali per l’individuazione della natura e dell’ampiezza dell’accertamento che ne costituisce il substrato. Il maggior punto di crisi è stato raggiunto, com’è noto, dopo la novella codicistica del 2003, che ha introdotto il c.d. “patteggiamento allargato” e che ha acuito la contraddizione tra l’assenza di un accertamento pieno e completo di responsabilità e l’irrogazione di una pena detentiva, il più delle volte passibile di esecuzione. Segno inequivoco della sostanziale inconciliabilità dell’accertamento incompleto e della irrogazione di una pena, in riferimento ai parametri costituzionali di tutela della libertà personale – bene inviolabile e comprimibile solo in conseguenza di un completo accertamento di responsabilità – è stata da ultimo la decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione33. Queste, nel risolvere il contrasto circa l’idoneità della sentenza di patteggiamento a costituire titolo per la revoca obbligatoria della sospensione condizionale in precedenza concessa, hanno preferito accantonare il dibattuto tema del tipo e dell’ampiezza dell’accertamento sottostante all’applicazione concordata di pena, valorizzando la portata precettiva della regola normativa di equiparazione della sentenza di patteggiamento alla ordinaria sentenza di condanna. La scelta di riforma si è fatta carico delle difficoltà di coniugare l’applicazione di una pena detentiva con la consistente semplificazione dell’accertamento ed ha preferito atte- 33 Cass., Sez. un., 29 novembre 2005, Diop, con commento di L. CREMONESI, La successiva condanna può revocare la precedente sospensione condizionale contenuta nella sentenza di patteggiamento, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 1492; G. SANTALUCIA, Patteggiamento e revoca di diritto della sospensione condizionale: le sezioni unite mutano orientamento, in Cass. pen., 2006, p. 2769; A. SANNA, Le coordinate del patteggiamento allargato secondo le Sezioni Unite, in Giust. pen, 2007, c. 463; V. GORI, Sentenza di patteggiamento e revoca della sospensione condizionale della pena., in Giust. pen., 2007, c. 137; M. GIALUZ, La virata delle Sezioni Unite in tema di patteggiamento e revoca della sospensione condizionale: verso l’abbandono dell’orientamento anticognitivo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 353; V. BONINI, La riscoperta del modello cognitivo e la sua prevalenza sulla negozialità processuale: un significativo superamento di consolidati orientamenti della Corte di Cassazione, in Ind. pen., 2007, p. 167. UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 239 nuare i consistenti dubbi di compatibilità costituzionale riducendo il patteggiamento nell’originaria area della misura infrabiennale di pena, che assicura nella maggior parte dei casi la sostanziale ineseguibilità della misura repressiva per il contestuale operare della sospensione condizionale. L’esigenza di deflazionare il carico di lavoro degli uffici giudiziari non poteva certo essere ignorata, sicché la scelta si è orientata verso quella forma di patteggiamento che ha superato più volte, ed in modo convincente, il vaglio di costituzionalità. Accanto alla tradizionale forma di patteggiamento, la “Bozza Riccio” ha previsto una forma inedita di definizione del giudizio all’udienza di conclusione delle indagini; che, per quanto fondata sull’effetto premiale e sulla volontà dell’imputato, si connota per un pieno accertamento di responsabilità, del tutto sovrapponibile per qualità ed ampiezza a quello della condanna emessa all’esito di un dibattimento ordinario. Esclusa l’ipotesi di accertamenti semipieni la “Bozza Riccio” ha affidato la necessaria funzione deflattiva all’ampliamento dei poteri decisori del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini, che possono essere orientati, verso la delibazione del merito della vicenda processuale, dalla richiesta unilaterale, e quindi non concordata, dell’imputato di emissione di una sentenza di condanna, in cambio di una sostanziale riduzione di pena, la cui misura percentuale è stata calibrata a seconda dell’entità della pena edittale e comunque in misura tale da evitare la sovrapposizione operativa con il giudizio abbreviato. L’idea di fondo è semplice. Nei casi in cui il materiale informativo già presente agli atti dell’udienza di conclusione delle indagini sia tale da rendere altamente improbabile un epilogo dibattimentale favorevole all’imputato, questi ha il potere di chiedere al giudice di valutare se quel materiale sia idoneo a fondare una declaratoria di colpevolezza secondo gli ordinari criteri di valu- 240 CAPITOLO IV tazione e di giudizio. Nessuna semplificazione dell’accertamento, dunque: soltanto la richiesta di interrompere l’iter processuale, ove quel materiale informativo non necessiti di sviluppi istruttori e possa già giustificare l’emissione di una sentenza di condanna, che assicuri all’imputato il vantaggio di una sostanziale riduzione di pena e della determinazione certa della misura della stessa. La funzione deflattiva dell’incentivo premiale è resa, così, pienamente compatibile con la tenuta dei principi costituzionali, ben potendo la volontà dell’imputato costituire il presupposto per l’estensione al merito dei poteri cognitivi e decisori del giudice dell’udienza di conclusione delle indagini. L’assenza di limiti al potere cognitivo e decisorio del giudice, che è attivato nella sua pienezza dalla volontà dell’imputato, giustifica il mancato ricorso allo strumento dell’accordo delle parti. La condanna a richiesta dell’imputato non è un rito speciale, non trova un presupposto nel “negozio processuale”34 costituito dal- 34 Va precisato che la categoria “negoziale” è di problematica praticabilità dogmatica nel processo penale. In argomento, assai di recente, M. GRIFFO, La volontà delle parti nel processo penale, cit., p. 37. In passato ha mosso critiche nei confronti dell’adozione della categoria del negozio giuridico G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali – perfezione ed efficacia –, Milano, rist. inalt. 1982, il quale ha osservato che la risposta ai quesiti di quale sia il criterio di distinzione tra negozi ed atti giuridici in senso stretto e di quali siano i settori del diritto in cui il negozio possa trovare cittadinanza dipende dal concetto di negozio che si accoglie. Nello stesso ambito della concezione volontaristica del negozio si sono registrati diversi modi di configurazione dei rapporti tra volontà e manifestazione di volontà, tra volontà ed effetti, che hanno dato vita a diverse sistemazioni teoriche, e molte voci critiche si sono levate per proporne l’abbandono in favore di altre soluzioni dommatiche. Secondo l’impostazione tradizionale della concezione volontaristica, l’atto in senso stretto si connoterebbe soltanto per la volontarietà del comportamento, mentre il negozio richiederebbe anche la volontà dell’effetto. L’atto giuridico sarebbe, in buona sostanza, produttivo delle conseguenze predeterminate dalla legge, ed il negozio produrrebbe invece effetti in massima parte corrispondenti al contenuto della volontà. Altro orientamento, di contro, ha valorizzato il profilo funzionale dell’atto, ed ha ravvisato il negozio nell’atto diretto al regolamento degli interessi di chi lo pone in essere, quale espressione di autonomia privata, e l’atto in senso stretto in quello che sia previsto dal legislatore per l’attuazione di fini superindividuali. La pluralità di impostazioni non aiuta a chiarire quali siano le possibilità di estensione della categoria del negozio al di fuori dell’area del diritto privato e quali siano i margini di utilizzabilità nel diritto processuale. Ad aggravare il problema è la considerazione che sia all’interno della concezione volontaristica che al di UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 241 l’accordo tra pubblico ministero ed imputato perché altro non è se non il risultato dell’estensione massima dei poteri decisori del fuori la nozione tradizionale del negozio come manifestazione di volontà è stata incisivamente manipolata nei due elementi basilari, la volontà e la dichiarazione. Il negozio ha visto, così, dilatare il suo ambito al punto da mutare fisionomia adattandosi a forme tradizionalmente non negoziali (quali ad es. l’occupazione, la derelictio, la distruzione del testamento olografo, il ritiro del testamento segreto, ecc.). Ma il vero punto critico si riassume nel quesito se la trasposizione sul terreno del diritto processuale abbia riguardo ad una semplice etichetta, e cioè ad una categoria da utilizzare per fini meramente classificatori, oppure incida sui contenuti di disciplina di alcune materie. Anche i più convinti fautori della categoria del negozio processuale non si sono spinti ad affermare che esiste una disciplina valevole per il negozio in genere, sia nel diritto privato che nel diritto pubblico. Ed infatti, è sufficiente osservare che le tradizionali questioni relative al negozio inteso come dichiarazione di volontà, e quindi le tematiche dei vizi della volontà e della divergenza tra volontà e dichiarazione, ricevono in ambito processuale soluzioni proprie non mutuabili dalle norme civilistiche, la cui applicazione analogica è da escludere per la diversità delle esigenze da tutelare e degli scopi da raggiungere e del diverso atteggiarsi dei principi della responsabilità del soggetto e dell’affidamento dei destinatari. A titolo esemplificativo si è considerato che, in assenza di una disposizione in contrario, l’atto di citazione fondato sull’erronea valutazione di un fatto o sull’errata interpretazione di una norma è pur sempre un atto di citazione perfetto, seppure l’errore sia riconoscibile a prima vista; e del pari, la querela proposta in base ad un’informazione ingannevole o una remissione di querela simulata sono atti perfetti e validi, seppure, applicando le norme del codice civile, dovrebbe concludersi per la loro nullità o annullabilità. Ed ancora, non può essere trascurato che i problemi dell’errore-vizio, della violenza morale, del dolo, dell’errore ostativo, della riserva mentale, si pongono con altrettanta e maggiore importanza in riguardo a quegli atti processuali che non sono ricondotti alla categoria del negozio processuale, come le dichiarazioni di scienza ed i provvedimenti del giudice. Neppure per tali atti, però, i vizi indicati determinano la nullità, il che non significa che non sia superabile la manifestazione esteriore, perché, per le dichiarazioni di scienza, il magistrato, avvedutosi della riserva o dell’errore ostativo o della violenza morale o dell’inganno, ha il potere di valutare la dichiarazione in conseguenza e, per i provvedimenti del giudice, vi è la possibilità di riparare agli errori materiali attraverso il procedimento di correzione ed agli altri vizi mediante i mezzi di gravame azionabili dall’interessato. Se ne è desunto che l’adozione in campo processuale della categoria del negozio “non solo non giova ma può essere causa di equivoco, ostacolando, con il quasi inevitabile richiamo alle soluzioni proprie ai negozi del diritto privato, l’esatta individuazione delle soluzioni proprie agli atti di carattere processuale”. Preso atto di quanto sia scarsamente indicativa per gli atti processuali l’attribuzione della qualifica di mero atto o di negozio, si è detto che l’importante è, al di là della formale qualificazione, stabilire se l’atto implichi o prescinda dalla volontarietà del comportamento, se, nel primo caso, sia sufficiente la volontarietà o occorra un fattore psicologico aggiuntivo, se, quest’ultimo consista nella volontà degli effetti o nella volontà dello scopo empirico o nella volontà del contenuto della dichiarazione; ed ancora, quale sia il peso dei vizi della volontà e delle divergenze tra volontà e dichiarazione, ed altro ancora. “In una parola, occorre cogliere, attraverso la disciplina dettata dal legislatore, lo schema preciso e completo del fatto giuridico”. 242 CAPITOLO IV giudice, che ordinariamente gli competono, e che, in forza della volontà dell’imputato, sono svincolati dai limiti strutturali di fase. Ad essa si aggiunga che la mancanza di interlocuzione del pubblico ministero in punto di responsabilità trova giustificazione dommatica nell’esercizio dell’azione penale. Invero, nell’ottica dell’azione in senso concreto – già coltivata dal codice del 1988 e qui ribadita – la domanda di azione è richiesta di condanna ed ha radici nella regola di non superfluità del dibattimento; anche se – è ovvio – la “libera” valutazione del giudice non è ad essa vincolata: ma questa è la giurisdizione! Questa è la ragione per la quale il pubblico ministero è soltanto previamente interpellato per l’espressione di un parere non vincolante. L’assenza, poi, del potere di impugnazione dell’eventuale sentenza di condanna trova giustificazione nel fatto che la condanna ha dato riconoscimento alla pretesa punitiva fatta valere con l’esercizio dell’azione e il quantum di pena irrogata non può formare oggetti di gravame per esigenze di semplificazione che spiegano la stessa limitazione per le sentenze di condanna emesse in esito al dibattimento, sempre che la pena non esuli da bisogni di razionalità e costituisca vulnus…(ripeti la direttiva): in tal caso residua al pubblico ministero il potere di ricorso per cassazione. A dimostrazione del fatto che la richiesta di condanna non inscena un nuovo rito e non determina il mutamento di fase, opera la previsione per la quale il rigetto della richiesta comporta la prosecuzione dell’udienza verso i suoi ordinari epiloghi. Se l’esercizio dei poteri di valutazione del merito della vicenda non può condurre alla definizione del processo nei termini richiesti dall’imputato, l’udienza di conclusione delle indagini riprende il suo corso e il giudice è restituito all’esclusivo compito di controllo sulla correttezza dell’esercizio dell’azione. E dunque, la direttrice della riforma si individua nella massi- UDIENZA DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI 243 ma utilizzazione in funzione deflattiva dell’intervento del giudice, senza che tanto si risolva nella rinuncia alla modulazione dei poteri di cognizione e di decisione secondo l’ordine di progressione processuale che postula la necessità di un preventivo controllo sul corretto esercizio dell’azione. La chiave di lettura del nuovo sistema è offerta dalla più ampia valorizzazione della volontà dell’imputato, che può consentire l’esercizio dei poteri giudiziali di merito pur quando la fase preveda lo svolgimento di poteri meno intensi; e ciò perché la presenza di un giudice può costituire un’occasione “da non sprecare” in vista della rapida definizione del giudizio. 244