Quelle strane creature innamorate della notte - Fulvio Baglivi, PALERMO,08.03.2016 Intervista. Claudia Uzzo racconta «Tre di coppie». Messo in scena da Franco Maresco, è un omaggio al mondo di Scaldati, alla sua nostalgia, ai suoi «pozzi dei pazzi» A due anni di distanza dalla messa in scena di Lucio e dopo il film Gli uomini di questa città io non li conosco, Franco Maresco continua il suo dialogo a distanza con Franco Scaldati, l’amico poeta, drammaturgo e attore scomparso nel giugno del 2013. Il nuovo capitolo delle corrispondenze di amorosi sensi tra Franco e Franco è lo spettacolo Tre di coppie, andato in scena lo scorso febbraio nella Sala Strehler, il ridotto del teatro Biondo di Palermo. Il rapporto tra i due Franco è chiaramente un pendolare tra i vivi e i morti, con un trapasso continuo di entrambi da una dimensione a un’altra come in un testo di Scaldati; perché come quest’ultimo rivive attraverso i versi sublimi delle sue opere, l’altro è costretto ogni volta a una discesa nell’Ade per trovare suoni e segni di una vita che non ha più posto sulla Terra. Questa volta Maresco ha scelto di rappresentare il lato comico di Scaldati, sconosciuto o trascurato anche dai pochi amanti del teatro del Sarto, ma dal suo punto di vista fondamentale come dichiarava in conversazione sulla rivista filmparlato.com): «Mi affascinava molto il suo umorismo, anche nel suo teatro non tralasciava mai la comicità, genere che amava molto e da cui prendeva il senso del ’tempo’; ho sempre detto che Scaldati era un attore anche comico». Se l’attore comico Scaldati era già emerso con Maresco al cinema con Il ritorno di Cagliostro e a teatro in Viva Palermo e Santa Rosalia, questa volta scopriamo l’autore comico Scaldati attraverso tre coppie che provengono da testi diversi, in gran parte inediti. Tra Totò e Vicè e Santo e Saporito appare la coppia formata dal superdotato Corto, con la sua minchia chilometrica che può servire da tavolo, passaggio a livello o palo della luce, e il povero Muto a cui non è dato neanche il dono della parola. È una comicità popolare, letteralmente volgare, che viene dal teatro di strada e grazie alla magia di Scaldati arriva fino al Paradiso. Maresco costruisce la scena come il fondo di un pozzo (dei pazzi, ovviamente), tutto nero, con un tondo che diventa luna, sole, oblò da cui si intravedono i cieli cupi di Ciprì e Maresco. Alle creature di Scaldati danno corpo e voce Melino Imparato, che incarna eredità e memoria del teatro del Sarto, Gino Carista e Giacomo Civiletti; i loro dialoghi strampalati, i loro passaggi picareschi tra stelle e stalle avvengono in una scenografia semplice ma piena di suggestioni cinematografiche (da Arancia meccanica a Miracolo a Milano) che dialoga con la musica suonata dal vivo da Salvatore Bonafede. Tre di coppie è uno spettacolo molto complesso, per realizzarlo Maresco ha avuto da un lato il sostegno della profonda amicizia e conoscenza del drammaturgo, dati dall’altro la complicità e l’intelligenza di Claudia Uzzo, sua storica collaboratrice che ci racconta qualcosa in più su questo lavoro. A differenza di «Lucio», «Tre di coppie» è un adattamento inedito tuo e di Maresco da più testi. Il più noto è Totò e Vicè che è stato anche pubblicato. Ma grazie a Melino per lo spettacolo abbiamo avuto delle parti inedite, che non erano state rappresentate da Scaldati, e che abbiamo mescolato con brani già conosciuti. Un’altra coppia, quella di Santo e Saporito, proviene da La notte di Agostino il topo, un testo già rappresentato da Scaldati, insieme a Melino Imparato. Completamente inedita, invece, è la coppia formata da il Corto e il Muto, che è protagonista di uno scritto che Scaldati stesso aveva portato a Franco e Daniele Ciprì intorno al 2005. Io conoscevo Scaldati dagli anni ’80 perché avevo fatto delle foto a una rappresentazione del Pozzo dei pazzi, lessi il testo e subito me ne innamorai, per la sua comicità iperbolica e perché rendeva bene l’idea dell’uomo palermitano vanitoso dei suoi attributi, che qui diventano oggetti come in un fumetto e creano situazioni surreali. Allora non riuscimmo a farci niente, era come al solito un periodo incasinato, conservai lo scritto e me ne sono ricordata soltanto dopo la morte di Scaldati, quando avevamo deciso di accettare l’invito del teatro Biondo di mettere in scena un’opera di Franco. Due anni fa abbiamo scelto Lucio perché più volte Scaldati aveva chiesto a Maresco di farci qualcosa, al cinema o a teatro, ma già allora le tre battute che si sentono all’inizio, prima ancora dell’apertura del sipario provengono da Il Corto e il Muto. Questa volta invece Franco ha scelto di partire da questo testo perché corrispondeva al le sue intenzioni di mettere in scena il lato comico dell’opera di Scaldati. Questi tre testi credo che ben racchiudano i temi della poetica di Scaldati, dalle fogne alle visioni, il lato atavico della fame e la trasmutazione continua. Come avete lavorato per mettere insieme i diversi testi? Innanzitutto abbiamo dovuto adattarci al ridotto del Biondo, uno spazio stretto e scuro che divenuto un elemento fondamentale. L’idea di partenza è il buio assoluto, che è un po’ la notte tanto amata da Scaldati ma anche un ventre da cui entrano e escono i personaggi. Attraverso i tagli delle luci volevamo dare la sensazione di un venire al mondo e sparire, un movimento elastico che spingendo fuori e risucchiando gli attori potesse far sentire la mutazione di questi esseri. È un aspetto molto importante: le creature di Scaldati vivono, spesso inconsciamente, la loro mutazione in animali o piante o altre cose ma questo processo è una sorta di percorso verso la propria natura. In questo senso la coppia Santo e Saporito è esemplare, con quest’ultimo che solo attraverso la morte può finalmente scoprirsi topo e godersi l’amata notte. La scenografia appare più di un elemento scenico, è quasi parte della drammaturgia. Per far si che questo continuo trapasso prendesse forma abbiamo scelto una scenografia non fisica; sono le luci, la musica e le immagini che danno l’universo, ora carnale ora etereo, in cui arrivano e spariscono i personaggi. Il mondo di Scaldati non offre punti cardinali, nei suoi testi la scena è men che tratteggiata, molti elementi hanno nomi semplici e vaghi come «voce» o «ombra», lascia grande libertà all’immaginazione. La coppia è un elemento molto presente nelle opere di Scaldati. I suoi lavori si fondano su dicotomie molto marcate: notte e giorno, vita e morte, materia e visione, sonno e veglia… Quindi la coppia è un elemento cardine per far uscire i contrasti e creare rapporti dinamici tra questi opposti. Tutte le sue creature hanno bisogno dell’altro per trasmutare, per riconoscersi, per esistere. Lui considerava Totò e Vicè la coppia «madre» di tutte le altre che popolano i suoi versi. Questi due strampalati personaggi provengono dai suoi ricordi, sono esistiti davvero, abitavano le strade del quartiere Borgo vecchio, dove Scaldati è cresciuto e da bambino si imbatteva nelle loro tragicomiche litigate finalizzate a racimolare qualche spicciolo. Perché avete scelto di utilizzare tre attori? Il tre dà immediatamente l’idea di una coppia scoppiata, inserisce un elemento di rottura all’interno del discorso del doppio, uno spiazzamento che ci ha aiutato nel dare un’immagine diversa del teatro di Scaldati e avere una maggiore dinamicità. Il terzo crea una cesura, è un’irruzione all’interno delle dinamiche dialogiche delle coppie, spesso è portatore di un’altra realtà che irrompe sulla scena. In più, la presenza del terzo attore, ci ha permesso di mostrare meglio le dinamiche tra i personaggi che trapassano l’uno nell’altro o diventano qualcos’altro. Cosa ha prodotto nella vostra ricerca artistica, tua e di Franco Maresco, l’opera di Scaldati? Sia io che Franco abbiamo seguito il lavoro di Scaldati quando era in vita e abbiamo fatto con lui diverse cose, da Cagliostro allo spettacolo teatrale Viva Palermo e Santa Rosalia. Questo per dire che Franco si porta dietro da sempre delle cose di Scaldati attore e drammaturgo, sono due artisti che hanno in comune la provenienza, la lingua e un certo sentimento di nostalgia per un mondo perduto. Personalmente credo che, dopo essersi separato da Ciprì, Franco ha iniziato a fare dei ritratti di personaggi in cui lui in qualche modo si rivede. In questo senso Io sono Tony Scott è esemplare. Poi è arrivato Belluscone in cui lui entra in scena, fa un ritratto della sua condizione, e in seguito il film su Scaldati, che è un ulteriore passo in un percorso a ritroso dentro di sé. Credo che Franco trovi ora una fonte d’ispirazione solo in se stesso. E non per narcisismo ma perché con la scomparsa di un mondo riesce a ritrovare delle cose che gli parlano soltanto nella sua memoria o in opere di artisti «puri» come era Scaldati. © 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE