GIURISPRUDENZA Senza commento, senza annotazioni TESTI DELLE PRONUNCE DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE Selezionate da R. Garofoli e G. Buffone Ammesse in sede di esame scritto. R.D. 22 gennaio 1934, n. 37. Norme integrative e di attuazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, sull'ordinamento della professione di avvocato e di procuratore; Ministero della Giustizia, Circolare 10 luglio 2000 della Direzione Generale degli Affari Civili e delle Libere Professioni - Ufficio VII Esame di Avvocato 2006 G.U. N. 53 DEL 14 LUGLIO 2006 MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, D.M. 26 giugno 2006 CONCORSO 13 novembre 2006 Sessione di esami di abilitazione all'esercizio della professione di avvocato - sessione 2006 1 RACCOLTA DI GIURISPRUDENZA DIRITTO CIVILE Indice 1. RIDUZIONE DELLA CLAUSOLA PENALE: Cassazione Sezione seconda civile sentenza 28 settembre 2006, n. 21066 - Corte di cassazione Sezioni unite civili Sentenza 13 settembre 2005, n. 18128 2. PRELIMINARE DI VENDITA DI COSA ALTRUI: Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 18 maggio 2006, n. 11624 3. GIURISDIZIONE - DIRITTO ALLA SALUTE: Cassazione, Sezioni Unite civili, Sentenza n. 17461 del 1° agosto 2006 4. INCARICHI SENZA COPERTURA: Corte di cassazione, sezioni unite civili, 10 giugno 2005, n. 12195 5. QUOTA DI RISERVA DEI LEGITTIMARI: Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, Sentenza 12 giugno 2006 n. 13524 6. CONDOMINIO MINIMO: Cass. Civ. Sezioni Unite, sentenza 31 gennaio 2006 n. 2046 7. GIURISDIZIONE E CONTROVERSIE RISARCITORIE: Cass. Civ. SS.UU., ordinanze giugno 2006 nn. 13659, 13660, 13911 (Occupazioni illegittime) 8. REVOCATORIA FALLIMENTARE: vendita bene per estinguere debito privilegiato, Cass. Civ. SS.UU., sentenza 20 marzo 2006 n. 7028 9. DANNO NON PATRIMONIALE: danno esistenziale, demansionamento, Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 24.03.2006 n° 6572 10. ANNO DA ABUSIVA CONCESSIONE DEL CREDITO: Cass. Civ., Sezioni Unite, sentenze 20 marzo 2006 nn. 7029, 7030, 7031 11. ESPONSABILITA’ DELLA P.A. PER OMESSA MANUTENZIONE DELLE STRADE, ART. 2051 C.C. : Cass. Civ., sentenza 6 luglio 2006 n. 15383 12. DIRITTO A NON NASCERE SE NON SANI: Cass civ. sentenza 14 luglio 2006 n. 16123 (responsabilità del medico per nascita indesiderata) 13. ATTO COMMISSORIO E CONTRATTO CD. DI SALE & LEASE BACK: Cass civ. sentenza 14 marzo 2006 n. 5438 14. TUTELA CONSUMATORE, INVESTIMENTO MOBILIARE, apparenza del 4 18 22 30 36 43 48 57 60 D 66 R 70 79 P 86 2 diritto, concorso colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c. : Cass. Civ. sentenza 7 aprile 2006 n. 8229 15. ACCORDI DEI CONIUGI IN SEDE DI SEPARAZIONE; REVOCATORIA: Cass. civ. sentenza 12 aprile 2006 n. 8516 16. RESPONSABILITA’ DELLA BANCA PER ERRONEO PAGAMENTO DELL’ASSEGNO: Corte di cassazione Sezione I civile Sentenza 6 ottobre 2005, n. 19512 (contra: sentenza 26210/2005) 17. SINISTRI STRADALI – EFFICACIA CID – assicuratore, assicurato, danneggiato: Cassazione – Sezioni unite civili – sentenza 5 maggio 2006, n. 10311 18. OBBLIGO DEL VENDITORE DI RIMUOVERE IL VIZIO DELLA COSA – Compravendita, azioni edilizie: Corte di cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza 21 giugno 2005 n. 13294 19. ISARCIMENTO DANNI – CONVIVENTE MORE UXORIO: Cassazione , sez. III civile, sentenza 29.04.2005 n° 8976 20. RRAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 23.12.2005 n° 28507 21. CCEZIONE DI INTERRUZIONE DELLA PRESCRIZIONE: Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 27.07.2005 n° 15661 22. ELIBERE ASSEMBLEARI – CONDOMINIO: - CASSAZIONE CIVILE, Sezioni Unite, Sentenza n. 4806 del 07/03/2005 23. MMISSIONI – SALUTE: Cass. Civ. sentenza 11 aprile 2006 n. 8420 24. PPALTO PA: Cass. Civ. sentenza 29 aprile 2006, n. 10052 25. SPESE CONDOMINIALI: Cass. Pen. Sentenza 27.12.2004 n. 23994 26. NATOCISMO BANCARIO: Cass. Civ. SS.UU. 4.11.2004 n. 21095 27. ONCORRENZA – ANTITRUST: Cass. Civ. SS.UU. sent. 4 febbraio 2005, n. 2207 93 97 100 105 113 R 122 I 125 E 128 D 131 I 139 A 141 148 A 151 C 156 3 4 CASSAZIONE – SEZIONE SECONDA CIVILE – SENTENZA 28 SETTEMBRE 2006, N. 21066 Presidente Spadone – Relatore Ebner Svolgimento del processo 1. Con atto di citazione notificato il 19 dicembre 1994, Fucile Matteo conveniva la Tre Monti Residence Spa innanzi al Tribunale di Messina per sentirla dichiarare inadempiente all’obbligazione di consegna dell’unità immobiliare (un appartamento ed accessori) promessa in vendita ad esso Fucile con contratto preliminare in data 23 giugno 1992; e per sentirla quindi condannare alla restituzione della complessiva somma di lire 130.000.000 -ricevuta a titolo di acconto sul prezzo pattuito in lire 100.000.000 - con la rivalutazione monetaria e gli interessi di legge; nonché al pagamento della ulteriore somma di lire 51.000.000, comprensiva del doppio della caparra versata, dell’indennizzo per la ritardata consegna dell’immobile, e del risarcimento di ogni altro danno subito da esso attore per tale inadempimento. La società convenuta costituitasi, contestava il fondamento di ogni avversa domanda e ne chiedeva il rigetto, instando comunque per la riduzione della penale. In via riconvenzionale, poi, chiedeva: in primo luogo, la pronuncia di sentenza costitutiva ex articolo 2932 Cc, che tenesse luogo del contratto definitivo di vendita non concluso: previo, pagamento della somma di lire 48.375.831, oltre le rate di mutuo a partire dal 31 dicembre 1993 e gli interessi;ed autorizzando, in difetto, l’iscrizione, dell’ipoteca legale; inoltre la condanna dell’attore al risarcimento del danno per il ritardato pagamento. In corso di causa la convenuta mutava la domanda di adempimento del contratto preliminare in quella di risoluzione, per inadempimento del promissario acquirente, e chiedeva altresì la condanna del Fucile al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede. Con sentenza 1580/01, l’adito Tribunale dichiarava risolto il contratto preliminare per inadempimento della convenuta società e condannava la stessa a restituire all’attore la somma di lire 130.000.000, nonché al pagamento della penale peraltro nella ridotta misura di lire 10.000.000: con gli interessi di legge sulle anzidette somme dal 9 dicembre 1993 al soddisfo;dichiarava non dovuta la rivalutazione monetaria. Infine, rigettava la domanda riconvenzionale della Tre Monti Residence Spa. 2. Avverso tale sentenza proponeva appello la società, chiedendone la, integrale riforma:con la declaratoria che la promittente venditrice non era tenuta alla consegna dell’immobile, stante l’inadempimento del promissario acquirente all’obbligazione di pagamento del prezzo dell’immobile, pattuito in sede di preliminare. L’appellante chiedeva inoltre, l’accoglimento della domanda riconvenzionale di 5 risoluzione del contratto preliminare e la condanna del Fucile al risarcimento dei danni, da liquidarsi separatamente; previa declaratoria del diritto di essa appellante a trattenere la somma di lire 77.000.000 - pari all’importo effettivamente versato dal Fucile - a compensazione dei danni patiti da essa società. Costituitosi, l’appellato chiedeva dichiararsi l’inammissibilità dell’impugnazione ed il conseguente rigetto della stessa; in via di appello incidentale, poi, la condanna della promittente venditrice al pagamento, a titolo di penale, della somma di lire 41.000.000, oltre rivalutazione ed interessi. All’esito del giudizio, la Corte di appello di Messina, con sentenza 399/02, depositata il 23 luglio 2002, rigettava l’appello della Tre Monti Residence Spa-, inoltre, in parziale accoglimento dell’appello incidentale del Fucile, condannava la predetta società al pagamento della penale nella misura contrattualmente prevista di lire 5 1.000.000, con gli interessi legali dal 9 dicembre 1993 al soddisfo; confermava, nel resto, l’impugnata sentenza. 3. Avverso tale sentenza, notificata il 4 dicembre 2002, ha proposto ricorso per cassazione la società Tre Monti Residence, con atto notificato il 28 gennaio 2003, sostenuto da sei mezzi di doglianza. Resiste con controricorso l’intimato Fucile. Motivi della decisione 4. Preliminarmente, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal controricorrente sotto due distinti profili, e cioè per la mancanza di un’autonoma esposizione dei fatti della causa, essendosi la società Tre Monti limitata a riprodurre il testo della sentenza impugnata; ed inoltre per la genericità dei motivi posti a base del ricorso stesso. L’eccezione è priva di fondamento. Invero, per quanto attiene al requisito di cui all’articolo 366 comma 1 n. 3 Cpc, questa Corte (Cassazione, Su, 2602/03) ha definitivamente chiarito che la necessità della esposizione sommaria dei fatti di causa risponde non ad un esigenza di mero formalismo, essendo invece preordinata a garantire la conoscenza dei fatti di causa al fine di intendere, senza il ricorso ad altre fonti, il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato; sicché, la relativa prescrizione deve ritenersi osservata quando nel ricorso sia riportata l’esposizione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata, allorché tale esposizione fornisca gli elementi per la precisa ricostruzione delle vicende processuali. Orbene, poiché nella specie dal ricorso - seppure attraverso la riproduzione della sentenza impugnata - è dato ricavare, con dovizia di particolari, lo svolgersi di tali vicende, deve conseguentemente ritenersi osservato il disposto del menzionato articolo 366 n. 3 Cpc. Del pari, risulta osservato il requisito di cui all’articolo 366 comma 1 n. 4 Cpc, 6 posto che ciascuno dei sei motivi del ricorso in esame non si risolve in generici rilievi circa l’erroneità della sentenza impugnata per cessazione, ma esplicita specifiche censure alla sentenza stessa, con puntuale indicazione anche delle norme di legge asseritamente violate così da consentire, senza il sussidio di altre fonti, l’immediata individuazione delle questioni da risolvere. 5. Ciò posto devono essere esaminati i motivi del ricorso. 5.1 Con un primo motivo la ricorrente società deduce violazione degli articoli 1218, 1362, 1453 e 1455 Cc nonché dell’articolo 132 Cpc, e correlato difetto di motivazione. I Giudici di appello non avrebbero valutato comparativamente, ai fini della pronuncia di risoluzione del preliminare, anche il comportamento inadempiente del Fucili. In particolare non avrebbero tenuto conto che dalla documentazione prodotta dalla società Tre Monti Residence in primo grado emergeva in modo inequivoco che soltanto il promissario acquirente si era reso inadempiente alle proprie obbligazioni regolate convenzionalmente da termini perentori; non certo la promittente venditrice che aveva fatto ripetutamente offerta della propria prestazione, afferente la consegna dell’immobile promesso in vendita. 5.2 Con un secondo motivo la ricorrente deduce violazione degli articoli 1184, 1362, 1457 Cc; 132 Cpc nonché carenza di motivazione. I Giudici di appello, quanto all’addebito alla Tre Monti Residence Spa del ritardo nella messa a disposizione dell’immobile, non avrebbero considerato che la società non era affatto vincolata al rispetto di un termine essenziale;e che, comunque, la società aveva fatto - ripetutamente - offerta di consegna dell’immobile, mentre il Fucile non solo non aveva provveduto a regolare l’aspetto economico del rapporto contrattuale, benché più volte sollecitato al rispetto dei termini pattiziamente previsti, al riguardo, con carattere di essenzialità; ed anzi aveva rifiutato espressamente, con lettera dell’1 dicembre 1994, di dare esecuzione al preliminare stesso. In ogni caso, la Corte territoriale non avrebbe svolto alcuna indagine, invece necessaria, sulla gravità dell’inadempimento della società in relazione alla mancanza di interesse del Fucile all’adempimento, resa manifesta dal carteggio intercorso fra le parti ed acquisito in causa. 5.3 Con un terzo motivo la ricorrente deduce violazione degli articoli 1218, 1362, 1453, 1460 Cc e 132 Cpc, per avere i Giudici di appello omesso di esaminare la domanda di risoluzione contrattuale e quella connessa, di condanna generica al risarcimento dei danni, proposte dalla Tre Monti Residence Spa e fondate sul comportamento inadempiente del Fucile, che non aveva pagato l’intero prezzo convenuto e neppure mai aderito ai ripetuti inviti alla presa in consegna dell’immobile. 5.4 Con un quarto motivo la ricorrente deduce violazione degli articoli 2697 Cc e 115, 13 2 Cpc nonché difetto assoluto di motivazione. La Corte di merito avrebbe omesso di rilevare che la condanna della società alla restituzione dell’importo di lire 130.000.000 non aveva fondamento, in quanto l’effettivo acconti sul prezzo, versato alla società, era pari alla minor somma di lire 77.000.000, come documentalmente dimostrato dalla società stessa: la quale, del resto, fin dal Patto di costituzione in giudizio aveva dedotto che il Fucile era debitore della residua somma di lire 123.000.000 - a 7 fronte del prezzo dell’immobile, determinato in complessive lire 200.000.000. In ogni caso, i Giudici di appello non avrebbero tenuto conto che, in base alla documentazione versata in atti dal Fucile, non risultava alcuna prova certa dell’avvenuto versamento di acconti in misura superiore a quella lire 77.000.000 - effettivamente percepita dalla società. 5.5 Con un quinto motivo si deduce violazione degli articoli 1384, 1453 e 1460 Cc. La Corte territoriale erroneamente avrebbe riconosciuto al promissario acquirente il diritto alla penale contrattuale, nonostante che lo stesso fosse inadempiente al contratto preliminare - in particolare all’obbligo di pagare l’intero prezzo pattuito per la vendita - ed il contratto non fosse comunque risolvibile per colpa della società, adempiente o comunque non responsabile di alcun inadempimento grave. 6. Le doglianze formulate con i primi cinque motivi del ricorso - che investono la sentenza pur sotto diversi profili, sul punto della affermata risoluzione del contratto preliminare per (solo) fatto e colpa della promittente venditrice ed al conseguente riconoscimento a favore del Fucile del diritto al pagamento della penale contrattuale - debbono essere congiuntamente esaminate, stante la loro stretta connessione. Ritiene la Corte che esse siano prive di fondamento, avendo la Corte territoriale offerto del raggiunto convincimento circa l’esclusiva addebitabilità alla società Tre Monti Residence dell’inadempimento al preliminare de quo ampia articolata e non contraddittoria motivazione, senza altresì incorrere in errori di diritto. I Giudici di appello hanno accertato, in primo luogo, che il termine per la consegna dell’immobile finito, fissato nel preliminare al 28 febbraio 1993, non fu rispettato dalla società la quale del resto neppure effettuò la consegna nell’ulteriore termine di mesi sei da tale data; ed hanno argomentato che a tale ulteriore termine doveva riconoscersi natura perentoria nonostante ogni formale contraria previsione contrattuale, essendo stato riconosciuto - con lo stesso preliminare - al promissario acquirente il diritto di ritenere risolto il contratto e di ottenere il rimborso di quanto versato nonché la corresponsione della penale di lire 51.000.000, appunto in caso di mancata consegna dell’immobile finito entro sei mesi dalla data iniziale . Gli stessi Giudici hanno altresì accertato - richiamandosi sul punto anche alla motivazione della sentenza di primo grado (riprodotta a pagg 10 ed 11 della sentenza ora in esame: ndr) - che la società Tre Monti non aveva dato prova che, alla data del 28 agosto 1993, l’immobile era in effetti del tutto terminato ed abitabile (onde non assumeva rilievo che la soc. Tre Monti avesse comunicato al Fucile, in data 5 aprile 1993, che i lavori erano quasi ultimati) ; con la conseguenza che nessun inadempimento - circa il versamento del residuo prezzo - poteva essere addebitato al promissario acquirente, facultato a ritenere risolto il contratto. La Corte territoriale ha poi accertato con puntuali riferimenti alle risultanze documentali di causa (pagg. 24-25 sentenza impugnata) , che il Fucile ebbe a versare, a titolo di acconto sul prezzo non la somma di lire 77.000.000 - come 8 assunto dalla società ricorrente - bensì la maggior somma di lire 130.000.000: ritenendo, di conseguenza che di tale somma correttamente il Fucile aveva chiesto il rimborso. Infine, la Corte di appello di Messina ha ritenuto dovuta la penale in considerazione dell’accertato (esclusivo) inadempimento della società promittente venditrice alle sue obbligazioni. Orbene, si tratta di accertamento in fatto, incensurabile (salvo ciò che si dirà oltre, a § 7, circa la misura della penale, che la Corte di merito ha ritenuto dovuta nella misura contrattualmente prevista) in questa sede, in quanto basato sull’apprezzamento delle risultanze processuali, che, come del tutto pacifico, è demandato in via esclusiva al Giudice del merito: il quale nel caso in esame ha dato - come si è in precedenza rilevato - adeguata e non illogica spiegazione del convincimento circa il carattere assorbente dell’inadempimento della società valutato di entità tale (e perciò stesso di non scarsa importanza, ai sensi dell’articolo 1455 Cc) da giustificare la risoluzione del contratto per fatto e colpa della società medesima. D’altro canto, a questa Corte non è consentito un nuovo esame delle risultanze processuali sulla base della diversa interpretazione e valutazione che la parte interessata ne proponga ma soltanto di verificare l’adeguatezza e la coerenza delle ragioni che sostengono la decisione, oltre che, ovviamente, di accertare che la decisione stessa sia conforme a diritto. Orbene nella specie, le conclusioni raggiunte, oltre che indiscutibili sul piano della adeguatezza e coerenza motivazionale, neppure evidenziano errori di diritto: posto che la Corte territoriale una volta accertato e valutato come di non scarsa importanza l’inadempimento della società ad un termine di accertata natura essenziale, correttamente (arg. ex articolo 1460 Cc) ha ritenuto giustificato il rifiuto del promissario acquirente di versare il residuo prezzo ed ha conseguentemente pronunciato la risoluzione del contratto preliminare de quo per esclusiva colpa della promittente venditrice. 7. Con un sesto motivo la ricorrente deduce violazione dell’articolo 1384 Cc e degli articoli 342 e 343 Cpc nonché vizio di motivazione. La Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto tempestivo l’appello incidentale del Fucile nonostante fosse stato proposto in epoca (23.11.2001) successiva a quella (31.7.2001) di effettiva prima udienza di trattazione dalla causa, nella quale il Fucile si era costituito con comparsa, svolgendo anche difese nel merito. Inoltre, del pari erroneamente avrebbe ritenuto dovuta la penale nella misura contrattualmente fissata senza considerare che l’ammontare della stessa poteva essere in ogni caso ridotta dal Giudice, nonostante la contraria pattuizione delle parti. La doglianza, laddove investe la sentenza sotto il profilo dell’error in procedendo non è fondata; mentre è da condividere in relazione al potere del Giudice di ridurre la misura della penale. In proposito va rilevato quanto segue. Vero è per un verso, che - ai fini dell’ammissibilità dell’appello incidentale per prima udienza deve ritenersi, secondo il previgente testo dell’articolo 343 comma 1 Cpc (applicabile nella specie, in quanto ai sensi dell’articolo 90 legge 9 353/90 per giudizi pendenti alla data del 30 aprile 1995 devono intendersi quelli iniziati in primo grado prima della suddetta data:Cassazione 13147/03) , quell’udienza in cui vi sia stato lo svolgimento di attività processuale ai sensi dell’articolo 350 Cpc. Senonché, nella specie, l’udienza del 31 luglio 2001 risulta essere stata tenuta, su istanza di parte, al fine di decidere, ex articolo 351 Cpc, sulla sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza appellata: sicché ogni attività processuale ed ogni difesa svolta in tale udienza non può essere presa in considerazione ad altri fini. La proposizione dell’appello incidentale deve ritenersi pertanto essere tempestivamente avvenuta all’udienza del 23 novembre 2001, la prima effettivamente tenuta ai sensi degli articoli 343 e 350 Cpc. In ordine poi alla questione della penale contrattuale, va osservato quanto segue. Dalla impugnata sentenza risulta che nel contratto preliminare, alla clausola n. 8, le parti inserirono una penale, a carico della società, per tutti i casi di risoluzione del preliminare per fatto e colpa alla stessa addebitabile, di lire 51.000.000, “irriducibile, anche in deroga all’articolo 13 84 Cc”. I Giudici di appello - in diverso avviso dal Tribunale di Messina - hanno ritenuto irriducibile tale penale, stante la espressa previsione delle parti in tal senso. Ritiene la Corte che tale soluzione non sia condivisibile. Invero, occorre tenere conto che il potere di riduzione della penale ad equità è stato riconosciuto al Giudice dall’articolo 1384 Cc a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento (Cassazione, Su 18128/05), sicché trattandosi di un c.d. potere-dovere, lo stesso può essere esercitato anche d’ufficio, al fine di ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare effettivamente meritevole di tutela. In tale quadro interpretativo - che il Collegio pienamente condivide - è evidente la non correttezza giuridica della conclusione cui è giunta sul punto la Corte di merito, ritenendo che la previsione contrattuale della irriducibilità non consentisse perciò stesso la riduzione della penale:in tal modo essendosi riconosciuto all’autonomia privata di paralizzare l’esercizio di un potere invece riconosciuto al Giudice nel superiore interesse dell’ordinamento. 6. Conclusivamente, i primi cinque motivi debbono essere rigettati; va invece accolto, per quanto di ragione, il sesto. La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione al motivo accolto: con rinvio - occorrendo ai fini del decidere ulteriori accertamenti di fatto, e comunque essendo l’eventuale riduzione della penale, correlata all’esercizio di poteri tipicamente discrezionali (Cassazione 6380/01;Cassazione 7528/02) non attribuiti al Giudice di legittimità - alla Corte di appello di Reggio Calabria, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio. PQM 10 La Corte accoglie per quanto di ragione, il sesto motivo del ricorso;rigetta i restanti;cassa l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Reggio Calabria. Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio del 24.03. 2006 CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA 13 SETTEMBRE 2005, N. 18128 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il condominio di Via Ischia di Castro, in Roma, convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace, il condomino G.S. e ne chiese la condanna al pagamento della somma di lire 3.562.355, a titolo di sanzione pecuniaria, dovuta, in base agli artt. 18 e 23 del regolamento condominiale, per il mancato pagamento di lire 1.045.281, dovute per spese di condominio. Il S. chiese il rigetto della domanda, sostenendo che le clausole del regolamento comportavano l'obbligo di corrispondere un interesse usurario per il ritardato pagamento dei ratei relativi alle spese condominiali e, in via riconvenzionale, chiese che dette clausole fossero dichiarate nulle. Il Giudice di pace accolse la domanda, osservando che le norme del regolamento erano legittime ed erano state liberamente accettate dal S. Questi propose appello insistendo perché fossero dichiarate nulle le norme del regolamento ai sensi dell'art. 1815, secondo comma, c.c., applicabile in tutte «le convenzioni di interessi» e «quindi anche in quelle contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale». Chiese anche che le suddette clausole fossero dichiarate nulle, perché prevedevano che la sanzione fosse applicata per il mancato pagamento dei ratei entro venti giorni dall'approvazione del bilancio preventivo senza una formale messa in mora. Il condominio non si costituì in giudizio. Il Tribunale di Roma respinse l'appello, osservando: - che alla fattispecie in esame non era applicabile il disposto del secondo comma dell'art. 1815 c.c. perché le somme dovute dal condomino, per il caso di ritardo nell'adempimento dell'obbligo di corrispondere i ratei condominiali, non erano interessi pattuiti per la ritardata restituzione di un prestito di denaro, ma erano oggetto di una penale, contenuta nel regolamento di natura 11 contrattuale debitamente trascritto, con la quale era pattiziamente determinato il risarcimento dovuto in caso di inadempimento o ritardo nell'adempimento; - che la penale sarebbe potuta essere diminuita dal giudice ove il condomino ne avesse fatto richiesta, non potendo il giudice provvedere d'ufficio; - che non era necessaria, al fine della decorrenza dell'obbligo del pagamento della somme dovute a titolo di penale, la messa in mora dei condomino, poiché era lo stesso regolamento di condominio a prevedere la mora ex re e che tale previsione era conforme al disposto dell'art. 1219, secondo comma, c.c. G.S. Il ha proposto condominio ricorso intimato per la non cassazione ha della svolto suddetta sentenza. attività difensiva. La causa è stata assegnata alla seconda sezione civile di questa Corte, che, con ordinanza del 30 marzo 2004, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alla sezioni unite, avendo ravvisato l'esistenza di un contrasto, all'interno delle sezioni semplici, in ordine al potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale ai sensi dell'art. 1384 c.c. (questione dedotta con il primo motivo del ricorso). Il Primo Presidente ha assegnato la causa alle sezioni unite per la risoluzione del contrasto. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. All'esame dei motivi occorre premettere che il Tribunale ha qualificato come clausola penale la sanzione prevista, negli artt. 18 e 23 nel regolamento di natura contrattuale, a carico dei condomini inadempienti nel pagamento dei contributi dovuti. Tale qualificazione non è posta in discussione dalle parti ed anzi il ricorrente su detta qualificazione poggia il motivo di ricorso, con il quale denuncia come erronea la decisione del giudice di merito nella parte in cui ha negato che il giudice possa ridurre d'ufficio la penale. Pertanto, il ricorso deve essere esaminato da questa Corte sulla base di tale avvenuta qualificazione. 2. È preliminare l'esame del secondo motivo, perché con esso si deduce la nullità della clausola penale, cosicché se la censura fosse fondata cadrebbe la necessità di esaminare il primo motivo, con il quale la sentenza impugnata è censurata, invece, per avere negato il potere del giudice di ridurre la penale in assenza di una richiesta di parte. 3. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione ed erronEa applicazione dell'art. 1815, secondo comma, c.c. e difetto di motivazione in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. 12 Si deduce che - non contestata l'usurarietà del tasso di interesse previsto nella penale - «la c.d. funzione calmieratrice prevista dall'art. 1815 c.c., come modificato dalla l. 7 marzo 1996, n. 108, trova applicazione sempre, allorquando ricorra nel contratto un vantaggio usurario, quale che sia il rapporto obbligatorio sottostante, creandosi in caso contrario una indebita sperequazione nel trattamento delle clausole penali e delle clausole fissanti tassi di interessi moratori, che altro non sono che una sanzione per il mancato pagamento nei tempi stabiliti della obbligazione pecuniaria». 4. La censura è infondata. Il ricorrente, sostanzialmente, invoca l'applicazione dei criteri fissati dalla l. 7 marzo 1996, n. 108 per attribuire carattere usurario alla somma dovuta in forza della penale pattuita. Senonché - a prescindere da ogni altro rilievo in ordine alla esattezza o meno della tesi prospettata - il ricorrente non considera che i criteri fissati dalla l. n. 108 dei 1996, per la determinazione del carattere usurario degli interessi, non trovano applicazione con riguardo alle pattuizioni anteriori all'entrata in vigore della stessa legge, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell'art. 1, primo comma, d.l. 29 dicembre 2000, n. 394 (convertito, con modificazioni, nella l. 28 febbraio 2001, n. 24), norma riconosciuta non in contrasto con la Costituzione con sentenza n. 29 del 2002 Corte cost. (principio ripetutamente affermato da questa Corte: v., tra le più recenti, Cass. 25 marzo 2003, n. 4380; Cass. 13 dicembre 2002, n. 17813; Cass. 24 settembre 2002, n. 13868). Ora poiché, come è pacifico, la convenzione alla quale il ricorrente attribuisce natura usuraria, è anteriore alla entrata in vigore della l. 7 marzo 1996 n. 108, già per questa sola ragione la sua disciplina non le si può applicare e pertanto appare superfluo l'esame del problema relativo alla trasponibilità della disciplina dell'art. 1815 c.c. ad una clausola, come quella oggetto della presente controversia, che trae origine da un rapporto in cui non è identificabile una causa di finanziamento. 5. Con il primo motivo del ricorso si denuncia: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 1382 e 1384 c.c. - Difetto di motivazione. Il tutto in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. Si deduce l'erroneità dell'assunto del Tribunale in ordine alla ritenuta non riducibilità d'ufficio della penale e si richiama a sostegno della censura la sentenza n. 10511/1999 di questa Corte. 13 6. La censura pone il problema se il potere di ridurre la penale, conferito al giudice dall'art. 1384 c.c., possa essere esercitato d'ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della parte tenuta al pagamento. 6.1. Il dato normativo, come detto, è costituito dall'art. 1384 c.c. secondo cui «La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l'ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento». 6.2. Fin dall'entrata in vigore del codice civile del 1942, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è stata concorde nell'affermare che il potere del giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d'ufficio, pur manifestando nell'ambito di questo orIentamento, notevoli oscillazioni in ordine al modo ed ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto esercitare il loro riconosciuto dovere di sollecitare la pronuncia del giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazione poi superata dalla successiva prevalente giurisprudenza, a ritenere che la richiesta di riduzione della penale dovesse ritenersi implicita nell'affermazione di nulla dovere a tale titolo. Tale orientamento è stato, tuttavia, posto in discussione dalla sentenza n. 10511/1999 di questa Corte, la quale ha, invece, ritenuto che la penale possa essere ridotta dal giudice anche d'ufficio. Questo nuovo orientamento non ha però trovato seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta eccezione per la sentenza n. 8188/2003 che ad esso si è adeguata) ha ribadito l'orientamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/2003, n. 8813/2003, n. 5691/2002, n. 14172/2000. 6.3. Queste sezioni unite, chiamate a risolvere il richiamato contrasto, ritengono di dover confermare il principio affermato dalla sentenza n. 10511/1999, cui si è adeguata la sentenza n. 8188/2003. 6.4. Non vi è dubbio che la svolta operata dalla sentenza n. 10511/1999 è stata influenzata da due concorrenti elementi. Il primo relativo al riscontro nella giurisprudenza, che fino ad allora aveva negato il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale, di taluni cedimenti, individuati nel fatto che, in alcune delle pronunzie, l'ossequio al principio tradizionale appariva solo formale, poiché si giungeva talvolta a ritenere la domanda di riduzione implicita nell'assunto della parte di nulla dovere a titolo di penale ovvero l'eccezione relativa proponibile in appello. Il secondo fondato sull'osservazione che l'esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell'esistenza di un principio di 14 inesigibilità come limite alle pretese creditorie (Corte cost. n. 19/1994), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 c.c.). 6.5. Quanto al primo elemento sopra ricordato, non v'è dubbio che le variegate posizioni assunte dalla giurisprudenza, in ordine ai tempi ed ai modi in cui la richiesta di riduzione della penale debba avvenire ed alle ragioni per le quali la stessa possa essere richiesta, denotano quanto meno una debolezza dei fondamenti giuridici sui quali si basa la tesi della non riducibilità d'ufficio della penale, nonché una implicita contraddittorietà, individuabile specie in quelle pronunce le quali affermano che la norma dell'art 1384 c.c. - che attribuisce al giudice il potere di diminuire equamente la penale - non ha la funzione di proteggere il contraente economicamente più debole dallo strapotere del più forte, bensì mira alla tutela e ricostitUzione dell'equilibrio contrattuale, evitando che da un inadempimento parziale o, comunque, di importanza non enorme, possano derivare conseguenze troppo gravi per l'inadempiente (v. Cass. 6 aprile 1978, n. 1574), ovvero ritengono che la riduzione della penale, per effetto di parziale adempimento dell'obbligazione, a norma dell'art. 1384 c.c., non integra un diritto del debitore, ma è rimessa all'equa valutazione del giudice, in relazione all'interesse dei creditore al tempestivo ed integrale adempimento (v. Cass. 7 luglio 1981, n. 4425). 6.6. Quanto al secondo elemento non può che condividersi la necessità di una lettura della norma di cui all'art. 1384 c.c. che meglio rispecchi l'esigenza di tutela di un interesse oggettivo dell'ordinamento alla luce dei principi costituzionali richiamati. 6.7. Naturalmente una lettura di questo tipo, consentita dal fatto che l'art. 1384 c.c. non contiene alcun riferimento ad un'iniziativa della parte rivolta a sollecitare l'esercizio del potere di riduzione da parte del giudice, non può prescindere dalla necessità di sottoporre a vaglio le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza che ritiene necessaria quella iniziativa e di verificare nel contempo se sussistano altre ragioni, che consentano quella lettura della norma adeguata ai principi costituzionali posti bene in luce dalla sentenza n. 10511/1999. 6.8. Gli argomenti addotti dalla giurisprudenza che nega il potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale sono principalmente tre. 6.8.1. Il primo argomento si fonda sul principio generale, al quale l'art. 1384 c.c. non derogherebbe, secondo cui il giudice non può pronunciare se non nei limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti. Senonché questo argomento non appare decisivo e sembra fondarsi sull'assunto della esistenza di un fatto che è, invece, da dimostrare. Occorre partire dal testo dell'art. 112 c.p.c., secondo cui «Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può 15 pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti». Ora, il giudice che riduca l'ammontare della penale, al cui pagamento il creditore ha chiesto che il debitore sia condannato, non viola in alcun modo la prima proposizione del richiamato art. 112 c.p.c., atteso che il limite postogli dalla norma è, in linea generale, che egli non può condannare il debitore ad una somma superiore a quella richiesta, mentre può condannarlo al pagamento di una somma inferiore. Ma l'art. 112 c.p.c. dispone anche che il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti. La norma lascia intendere che vi sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili d'ufficio. Se così è, allora, il problema della riducibilità della penale non è risolto dall'art. 112 c.p.c., ma dalla risposta al quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una eccezione che può essere proposta soltanto dalla parte. Nel codice civile sono espressamente individuate varie ipotesi di eccezioni proponibili soltanto dalla parte; in via esemplificativa: art. 1242, primo comma. c.c. - eccezione di compensazione; art. 1442, comma quarto, c.c. eccezione di annullabilità del contratto, quando è prescritta l'azione; art. 1449, secondo comma, c.c. - eccezione di rescindibilità del contratto, quando l'azione è prescritta; art. 1460, primo comma, c.c. - eccezione di inadempimento; art. 1495, terzo comma, c.c. - eccezione di garanzia, nella vendita, anche se è prescritta l'azione; art. 1667, terzo comma, c.c. - eccezione di garanzia, nell'appalto - anche se l'azione è prescritta; art. 1944, secondo comma, c.c. eccezione di escussione da parte del fideiussore; art. 1947, primo comma, c.c. - beneficio della divisione nella fideiussione; art. 2938 c.c. - eccezione di preScrizione; art. 2969 c.c. - eccezione di decadenza, «salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d'improponibilità dell'azione». L'art. 1384 c.c., al contrario delle ipotesi sopra indicate, non fa alcuna menzione della necessità della eccezione della parte o, quantomeno, della necessità che il giudice debba essere sollecitato ad esercitare il potere di riduzione della penale conferitogli dalla legge. Il silenzio della norma sul punto non depone certamente a favore della tesi secondo cui la riduzione della penale debba essere chiesta dalla parte, ma fa propendere, se mai, a favore della tesi contraria, specie se si guardi ad altre previsioni del codice civile nelle quali l'intervento del giudice è visto in funzione correttiva della volontà manifestata dalle parti (v. Cass. sez. un. 17 maggio 1996, n. 4570, che espressamente parla di «funzione correttiva» del giudice, non solo nell'ipotesi della riduzione della penale manifestamente eccessiva (art. 1384 c.c.), ma anche nei casi di riduzione dell'indennità dovuta per la 16 risoluzione della vendita con riserva di proprietà (art. 1526 c.c.) e di riduzione della posta di giuoco eccessiva (art. 1934 c.c.). 6.8.2. Il secondo argomento addotto è che la riduzione della penale fissata dalle parti è prevista dalla legge come istituto a tutela degli specifici interessi del debitore, al quale quindi deve essere rimessa, nell'esercizio della difesa dei propri diritti, ogni iniziativa al riguardo ed ogni consequenziale valutazione della eccessività della penale ovvero della sua sopravvenuta onerosità, in relazione alla parte di esecuzione che il contratto ha avuto. Anche questo argomento si fonda su un dato non dimostrato e cioè che l'istituto della riduzione della penale sia predisposto nell'interesse della parte debitrice. Intanto una affermazione di questo tipo appare contraddetta dall'osservazione che la penale «può» ma non «deve» essere ridotta dal giudice, avuto riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento; dal che si desume che non esiste un diritto del debitore alla riduzione della penale e che il criterio che il giudice deve utilizzare per valutare se una penale sia eccessiva ha natura oggettiva, atteso che non è previsto che il giudice debba tenere conto della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che sul suo patrimonio la penale può avere, ma solo dello squilibrio tra le posizioni delle parti, mentre il riferimento all'interesse del creditore ha la sola funzione di indicare lo strumento per mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno. Ne discende che, pur sostanziandosi la riduzione della penale in un provvedimento che rende in concreto meno onerosa la posizione del debitore e che deve essere adottato tenuto conto dell'interesse che il creditore aveva all'adempimento, il potere di riduzione appare attribuito al giudice non per la tutela dell'interesse della parte tenuta al pagamento della penale, ma, piuttosto, a tutela di un interesse che lo trascende. Del resto il nostro ordinamento conosce altri casi in cui l'intervento equitativo del giudice pur risolvendosi in favore di una delle parti in contesa non è tuttavia predisposto specificamente per la tutela di un suo interesse. Si pensi all'ipotesi in cui una delle parti abbia chiesto il risarcimento del danno in forma specifica; il giudice, in questo caso, anche se l'esecuzione specifica sia possibile, ha tuttavia il potere di disporre che il risarcimento avvenga per equivalente «se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (art. 2058 c.c.). È un potere che il giudice può esercitare pacificamente d'ufficio avuta presente l'obiettiva difficoltà che il debitore può incontrare nell'eseguire la prestazione risarcitoria; la difficoltà, appunto perché obiettiva, non riguarda però la situazione economica del debitore, ma piuttosto l'esecuzione stessa della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra danno, 17 costo ed utilità. L'onerosità per il debitore viene cioè in rilievo come metro di giudizio perché il giudice possa effettuare la sua valutazione e non come interesse tutelato dalla norma. Si pensi ancora al potere attribuito al giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa se lo stesso non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c.), pacificamente esercitatile indipendentemente dalla richiesta delle parti. Già, quindi, dall'esame critico della giurisprudenza maggioritaria, emergono elementi per affermare che il potere di riduzione della penale è concesso dalla legge al giudice per fini che prescindono dalla tutela dell'interesse della parte, che al pagamento della penale sia tenuta per effetto del suo inadempimento o ritardato adempimento. 6.8.3. Il terzo argomento addotto dalla giurisprudenza prevalente è che il giudice, nell'esercizio dei poteri equitativi diretti alla determinazione dell'oggetto dell'obbligazione della clausola, non dispone di altri parametri di giudizio che di quelli dati dai contrapposti interessi delle parti al fine esclusivo di verificare se l'equilibrio raggiunto dalle parti stesse, nelle preventiva determinazione delle conseguenze dell'inadempimento, sia equo o sia rimasto tale. Ma anche questo argomento non appare decisivo ove si consideri che la mancata allegazione (o la impossibilità di riscontri negli atti acquisiti) della eccessività della penale incide sul piano fattuale dell'accertamento della sussistenza delle condizioni per la riduzione della penale medesima, ma non sull'esercizio officioso del potere del giudice. In proposito è sufficiente ricordare ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare d'ufficio purché risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima (Cass. n. 4062/1987), senza che per l'accertamento della nullità occorrano indagini di fatto per le quali manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/1986, 4955/1985, 985/1981), e più di recente Cass. n. 1552/2004, secondo cui «La rilevabilità d'ufficio della nullità di un contratto prevista dall'art. 1421 c.c. non comporta che il giudice sia obbligato ad un accertamento d'ufficio in tal senso, dovendo invece detta nullità risultare "ex actis" ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, essendo i poteri officiosi dei giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi perciò ad esonerare la parte dall'onere probatorio gravante su di essa», nonché da ultimo Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095. 6.8.4. Sembra, quindi, che nessuno dei tre argomenti prospettati dalla giurisprudenza maggioritaria sia decisivo per la soluzione del quesito oggetto del contrasto, mentre, come in parte anticipato, vi sono argomenti che appaiono sufficientemente probanti a sostegno della tesi fin qui minoritaria, i 18 quali assumono una valenza decisiva alla luce dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/1999. 6.9. Poiché nella discussione sull'esistenza del potere del giudice di ridurre d'ufficio la penale è stato spesso introdotto il tema dell'autonomia contrattuale è bene prendere le mosse proprio da tale punto. L'art. 1322 c.c. - la cui rubrica è appunto intitolata all'autonomia contrattuale attribuisce alle parti: a) il potere di determinare il contenuto del contratto; b) il potere di concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare. Nel primo caso l'autonomia delle parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», nel secondo caso la libertà è limitata per il fatto che il contratto deve essere diretto «a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico». La legge, quindi, nel riconoscere l'autonomia contrattuale delle parti, afferma che essa ha comunque dei limiti. L'osservanza del rispetto di tali limiti è demandato al giudice, che non può riconoscere il diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l'ordinamento giuridico. L'intervento del giudice in tali casi è indubbiamente esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge. Se nel nostro ordinamento non fosse stato previsto e disciplinato l'istituto della clausola penale e, tuttavia, le parti avessero introdotto in un contratto una clausola con tale funzione, il giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna del debitore al pagamento della penale pattuita per effetto dell'inadempimento, avrebbe dovuto formulare, d'ufficio, un giudizio sulla validità della clausola; giudizio che avrebbe potuto avere esito negativo, ove fosse stato ravvisato un contrasto dell'accordo con principi fondamentali dell'ordinamento, ad esempio per il fatto che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva. In questo caso vi sarebbe stato un controllo d'ufficio sulla tutelabilità dell'accordo delle parti e, ove il controllo si fosse concluso negativamente, la tutela non sarebbe stata accordata. Nel nostro diritto positivo questo controllo non è necessario perché l'istituto è riconosciuto e disciplinato dalla legge (artt. 1382 e segg. c.c.). 19 Nel disciplinare l'istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all'autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l'ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l'aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest'ultimo una sanzione per l'inadempimento (se se ne vuole privilegiare l'aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del risarcimento del danno, della possibilità di istituire sanzioni private. Tuttavia, la legge, nel momento in cui ha ampliato l'autonomia delle parti, in un campo normalmente riservato alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa autonomia. Così operando, la legge ha in sostanza spostato l'intervento giudiziale, diretto al controllo della conformità del manifestarsi dell'autonomia contrattuale nei limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell'accordo - che ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l'ammontare della penale - alla sua fase attuativa, mediante l'attribuzione al giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente manifestamente eccessiva e non lo fosse successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento. Un potere di tal fatta appare concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre l'accordo ad equità. Vi sono casi in cui la correzione della volontà delle parti avviene automaticamente, per effetto di una disposizione di legge che ne limita l'autonomia e che sostituisce alla volontà delle parti quella della legge (in tali casi l'accordo delle parti, che non rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non conforme); ve ne sono altri, in cui una inserzione automatica della disciplina legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel contratto; in tali casi la misura della prestazione è rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale per ottenere uno scopo che l'ordinamento non consente ovvero non ritiene meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale, dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento ad una penale che non solo sia eccessiva, ma che lo sia «manifestamente», ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria determinazione, per effetto del parziale adempimento dell'obbligazione. In tale senso inteso, il potere di controllo appare attribuito al giudice non nell'interesse della parte ma nell'interesse dell'ordinamento, per evitare che l'autonomia contrattuale travalichi i limiti entro i quali la tutela delle posizioni 20 soggettive delle parti appare meritevole di tutela, anche se ciò non toglie che l'interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come aspetto riflesso della funzione primaria cui assolve la norma. Può essere affermato allora che il potere concesso al giudice di ridurre la penale si pone come un limite all'autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale, limite non prefissato ma individuato dal giudice di volta in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al principio di equità. Se così non fosse, apparirebbe quanto meno singolare ritenere, sicuramente con riferimento all'ipotesi di penale manifestamente eccessiva, in presenza di una clausola valida (si ricordi che è valida la clausola ancorché manifestamente eccessiva), che l'esercizio del potere del giudice di riduzione della penale debba essere condizionato alla richiesta della parte, quasi che, a questa, fosse riconosciuto uno jus poenitendi, e, quindi la facoltà di sottrarsi all'adempimento di un'obbligazione liberamente assunta (quella appunto del pagamento di una penale che fin dall'origine si manifestava come eccessiva). Se si considera che il potere di riduzione della penale può essere esercitato solo in presenza di una clausola che sia valida (e quindi esente da vizi che ne determino la nullità o l'annullabilità) più coerente appare allora qualificare detto potere come officioso nel senso sopra specificato, di riconduzione dell'accordo, frutto della volontà liberamente manifestata dalle parti, nei limiti in cui esso appare meritevole di ricevere tutela dall'ordinamento. Non è privo di significato il fatto che la giurisprudenza, pur affermando la tesi della necessità della domanda o eccezione della parte al fine di sollecitare il potere di riduzione affidato al giudice, non ha potuto tuttavia non riconoscere (come del resto la quasi unanime dottrina) la natura inderogabile della disposizione di cui all'art. 1384 c.c., attributiva al giudice del potere di ridurre la penale, riconoscendo che essa è posta principalmente a salvaguardia dell'interesse generale, per impedire sconfinamenti oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale (v. in tal senso Cass. 4 febbraio 1960, n. 163 e successivamente, in modo conforme circa la natura inderogabile della norma, Cass., sez. un., 5 dicembre 1977, n. 5261; Cass. 7 agosto 1992, n. 9366; Cass. 29 marzo 1996, n. 2909; Cass. 5 novembre 2002, n. 15497 - queste ultime tre in motivazione), in tale modo riconoscendo l'esistenza dei presupposti per un intervento officioso dei giudice, non tanto per la tutela di interessi individuali, ma piuttosto per una funzione correttiva di riequilibrio contrattuale (se si vuole privilegiare la tesi della natura risarcitoria della penale) ovvero di adeguatezza della sanzione (se si vuole privilegiare la tesi della funzione sanzionatoria). Aspetto quest'ultimo particolarmente sottolineato da Cass. 24 aprile 1980, n. 2749, secondo cui il potere conferito al giudice dall'art. 1384 c.c. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia privata riducendolo nei limiti in cui opera il riconoscimento 21 di essa, mediante l'esercizio di un potere equitativo che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti, valutando l'interesse del creditore all'adempimento, cui ha diritto, tenendosi conto dell'effettiva incidenza di esso sull'equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale. Pare, quindi, a queste sezioni unite, che la lettura della norma interessata, svolta nel quadro dei principi generali dell'ordinamento e dei principi costituzionali posti in luce dalla sentenza n. 10511/1999, consenta di giungere alla conclusione che il potere del giudice di ridurre la penale possa essere esercitato d'ufficio, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all'ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l'obbligazione principale e stata in parte eseguita, giacché in quest'ultimo caso, la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell'obbligazione, si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta. 7. È questa lettura della norma che porta ad affermare il principio che «il potere di diminuire equamente la penale, attribuito dall'art. 1384 c.c. al giudice, può essere esercitato anche d'ufficio». 8. In questi termini deve essere accolto il secondo motivo del ricorso con rinvio della causa ad altra sezione del Tribunale di Roma che si atterrà al principio sopra enunciato. 9. È di conseguenza assorbito il terzo motivo, con il quale, denunciandosi: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e difetto di motivazione in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., si deduce che in conseguenza della fondatezza delle tesi esposte dal ricorrente le spese del giudizio di merito (primo e secondo grado) sarebbero dovute essere poste a carico del condominio. P.Q.M. La Corte di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il secondo motivo del ricorso, accoglie il primo motivo e dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di cassazione, ad altra sezione del Tribunale di Roma. 22 CASSAZIONE – SEZIONI UNITE CIVILI – SENTENZA 18 MAGGIO 2006, N. 11624 Presidente Carbone – Relatore Bucciante Pm Iannelli – parzialmente conforme – Ricorrente La Gamba ed altri Svolgimento del processo Con sentenza del 18 marzo 1998 il Tribunale di Pistoia ha Pronunciato la risoluzione, per inadempimento di Mirella Profeti, di un contratto preliminare con il quale costei si era obbligata a vendere a Wladimiro La Gamba e Teresa Virdò un podere con casa colonica sito in Larciano, e ha condannato la promittente alienante alla restituzione degli acconti ricevuti, nella misura di lire 17.000.000, nonché al rimborso delle spese di giudizio. Impugnata in via principale da Wladimiro La Gamba e Teresa Virdò, incidentalmente da Mirella Profeti, la decisione è stata riformata dalla Corte di appello di Firenze, che con sentenza del 21 marzo 2000, in parziale accoglimento di entrambi i gravami, ha dichiarato il contratto risolto per inadempimento del La Gamba e della Virdò, ha rideterminato in lire 16.000.000 la somma che doveva essere loro rimborsata, ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento di danni formulata dalla Profeti, ha posto a carico degli appellanti principali metà delle spese di entrambi i gradi di giudizio, compensandole tra le parti per l’altra metà. A queste pronunce il giudice di secondo grado è pervenuto ritenendo: che «unica ragione della mancata stipula va - ricondotta alla mancata proprietà del bene da parte della promittente venditrice, ma appare pacifico che in realtà anche tale questione era stata risolta precedentemente (il che assorbe ogni rilievo relativo all’effettiva conoscenza di tale altruità da parte dei La Gamba) essendosi la Profeti presentata munita di procura a vendere del tutto rituale, relativa al bene de quo e rilasciata dai proprietari due giorni prima e davanti allo stesso notaio»; che «è d’altronde indiscusso che in caso di preliminare di vendita l’obbligo-del promittente venditore è quello di procurarsi la proprietà del bene o di ottenere dal proprietario il consenso o l’autorizzazione alla vendita – Cassazione, 3677/96; 367/77; 8228/90 - per cui non è dato vedere cosa possa imputarsi alla Profeti che era perfettamente in grado di vendere il bene alla data prefissata»; che «né può sostenersi - come sembrano fare i La Gamba che essi acquistando da “altri” potevano risultare meno garantiti, rispetto alla Profeti: invero nei loro confronti e in relazione alle garanzie loro spettanti per legge, unico interlocutore era e restava la Profeti personalmente e direttamente, per cui solo sulla Profeti continuavano a ricadere tutte le garanzie in materia di vizi o di evizione - v. Cassazione, 3963/84»; che «non vi è alcuna prova (che la Profeti nemmeno ha chiesto di fornire)», in ordine ai danni da lei lamentati. Wladimiro La Gamba e Teresa Virdò hanno proposto ricorso per cassazione, in base a un motivo. Mirella Profeti si è costituita con controricorso, formulando a 23 sua volta due motivi di impugnazione in via incidentale, e ha depositato una memoria. Motivi della decisione In quanto proposte contro la stessa sentenza, le due impugnazioni vanno riunite in un solo processo, in applicazione dell’articolo 335 Cpc. Con il motivo addotto a sostegno del ricorso principale Wladimiro La Gamba e Teresa Virdò lamentano che la Corte di appello «ha applicato il disposto dell’articolo 1478 Cc anziché quanto previsto dall’articolo 1479 Cc», pur se «al momento della sottoscrizione del contratto preliminare di compravendita la Sig.ra Profeti Mirella non aveva messo a conoscenza i promittenti acquirenti che l’immobile fosse di proprietà di altri» e in tali casi «è possibile per il compratore chiedere la risoluzione del contratto salvo che il venditore non abbia, nel frattempo, acquistato la proprietà della cosa», mentre «nella fattispecie ciò era tanto più importante perché esistevano, come è stato riconosciuto da tutti i tenti, problemi di esercizio del diritto di prelazione da parte di terzi, con la conseguenza che i ricorrenti non avrebbero più avuto la garanzia da parte del loro originale contraddittore e promittente venditore». Secondo i ricorrenti principali, pertanto, Mirella Profeti avrebbe dovuto acquistare lei stessa l’immobile in questione e poi trasferirlo a loro, sicché legittimamente avevano rifiutato di farselo alienare direttamente dagli effettivi proprietari, per il tramite della stessa Profeti in veste di loro procuratrice. In ordine alle modalità di adempimento dell’obbligazione assunta dal promittente venditore di una cosa altrui, nella giurisprudenza di legittimità è insorto un contrasto, per la cui composizione la causa è stata assegnata alle Su. In prevalenza, questa Corte si è orientata nel senso che la prestazione può essere eseguita, indifferentemente, acquistando il bene e ritrasmettendolo al promissario, oppure facendoglielo alienare direttamente dal reale proprietario, in quanto l’articolo 1478 Cc - relativo al contratto definitivo di vendita di cosa altrui, ma applicabile per analogia anche al preliminare dispone che il venditore «è obbligato a procurarne l’acquieto al compratore», il che può ben avvenire anche facendo al che Il terzo, al quale il bene appartiene, lo ceda egli stesso al promissario (v., tra le più recenti, Cassazione, 13330/00, 2656/01, 15035/01, 21179/04, 24782/05). Talvolta si è però deciso che l’obbligazione in questione deve invece essere adempiuta acquistando il bene e ritrasferendolo, in particolare nel caso in cui l’altra parte non fosse stata consapevole dell’altruità, poiché l’articolo 1479 Cc – anch’esso dettato per la -vendita definitiva, ma estensibile a quella preliminare - abilita il compratore a «chiedere la risoluzione del contratto, se, quando l’ha concluso, ignorava che la cosa non era di proprietà del venditore, e se frattanto il venditore non gliene ha fatto acquistare la proprietà» (v. Cassazione 7054/90, 2091/99, relative, rispettivamente, a un contratto definitivo e a uno preliminare di vendita di cosa altrui). 24 Ritiene il collegio che debba essere seguito l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario. Stante la latitudine delle citate previsioni normative, non vi è ragione per escludere che la prestazione possa essere eseguita “procurando” il trasferimento del bene direttamente dall’effettivo proprietario, senza necessità di un doppio trapasso; il comma 2 dell’articolo 1478 menziona bensì l’acquisto che eventualmente compia l’alienante, nel caso di vendita (definitiva) di cosa altrui, ma come una particolare modalità di adempimento, alla quale eccezionalmente riconnette l’effetto di far diventare senz’altro proprietario il compratore. Né una diversa soluzione può essere adottata per il caso in cui il promissario avesse ignorato, al momento della conclusione del preliminare, la non appartenenza del bene al promittente. Il disposto dell’articolo 1479 Cc, che consente al compratore in “buona fede” di chiedere la risoluzione del contratto, è coerente con la natura - di vendita definitiva - del negozio cui si riferisce, destinato, nell’intenzione delle parti, a esplicare quell’immediato effetto traslatIvo che è stabilito dall’articolo 1376 Cc, ma è impedito dall’altruità della cosa: altruità che invece non incide sul sinallagma instaurato con il contratto preliminare, il quale ha comunque efficacia soltanto obbligatoria, essendo quella reale differita alla stipulazione del definitivo, sicché nessun nocumento, fino alla scadenza del relativo termine, ne deriva per il promissario. Dall’articolo 1479 Cc, pertanto, non può desumersi che egli sia abilitato ad agire per la risoluzione - e quindi ad opporre l’exceptio inadimpleti contractuo se l’altra parte, nel momento in cui vi è tenuta, é comunque in grado di fargli ottenere l’acquisto, direttamente dal proprietario. D’altra parte, il ritenere esatta tale modalità di adempimento è in sintonia con l’essenza e la funzione del contratto preliminare di vendita, quali sono state individuate nelle più recenti elaborazioni dottrinali, che hanno superato la concezione tradizionale dell’istituto e che qualche riflesso hanno avuto anche in giurisprudenza. Il contratto preliminare non è più visto come un semplice pactum de contrahendo, ma come un negozio destinato già a realizzare un assetto di interessi prodromico a quello che sarà compiutamente attuato con il definitivo, sicché il suo oggetto è non solo e non tanto un facere, consistente nel manifestare successivamente una volontà rigidamente predeterminata quanto alle parti e al contenuto, ma anche e soprattutto un sia pure futuro dare: la trasmissione della proprietà, che costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti. Se il bene già appartiene al promittente, i due aspetti coincidono, pur senza confondersi, ma nel caso dell’altruità rimangono distinti, appunto perché lo scopo può essere raggiunto anche mediante il trasferimento diretto della cosa dal terzo al promissario, il quale ottiene comunque ciò che gli era dovuto, indipendentemente dall’essere stato - o non - a conoscenza della non appartenenza della cosa a chi si era obbligato ad alienargliela. Né vale obiettare che l’identità del venditore, come i ricorrenti principali deducono, non è indifferente per il compratore, il quale può risultare meno tutelato, relativamente all’evizione e ai vizi. in proposito, in consonanza con le menzionate opinioni dottrinali, la giurisprudenza si é orientata nel senso che la conclusione del definitivo, per tali profili, non assorbe né esaurisce gli effetti 25 del preliminare, il quale continua a regolare i rapporti tra le parti, sicché il promittente alienante resta responsabile per le garanzie di cui si tratta (v., da ultimo, Cassazione, 15035/01). Si deve quindi affermare che il promittente venditore di una cosa che non gli appartiene, anche nel caso di buona fede dell’altra parte, può adempiere la propria obbligazione procurando l’acquisto del promissario direttamente dall’effettivo proprietario. Alla stregua di questo principio, il ricorso principale va rigettato, dovendoci riconoscere che la «Corte di appello correttamente ha ritenuto superfluo accertare se Wladimiro La Gamba e Teresa Virdò fossero stati inizialmente ignari dell’altruità dell’immobile in questione, essendo anche in tale ipotesi ingiustificato il loro rifiuto di addivenire alla conclusione del contratto definitivo, dato che Mirella Profeti si era munita di una procura rilasciatale, dagli effettivi proprietari del bene, che la abilitava a effettuarne la vendita in nome loro. Con il primo motivo del ricorso incidentale, si deduce che la Corte d’appello ha dichiarato la risoluzione del contratto preliminare de quo per inadempimento di controparte senza condannarla al risarcimento del danno richiesto che all’inadempimento consegue per legge non tenendo conto che tale domanda di risarcimento del danno. che spetta in ogni modo alla Comparente, era stata avanzata anche in via equitativa». La doglianza va disattesa, poiché con la sentenza impugnata si è rilevato che nessuna prova, in ordine ai danni asseritamente subiti, era stata data né offerta da Mirella Profeti: prova che comunque avrebbe dovuto essere fornita, relativamente all’an poiché è soltanto per la determinazione del quantum che si può fare luogo alla liquidazione in via equitativa, ove non ne sia dimostrabile il preciso ammontare (v., per tutte, Cassazione, 16112/05). Con il secondo motivo del ricorso incidentale Mirella Profeti lamenta che «una volta liquidate come da dIspositivo le spese di primo e secondo grado la Corte di appello non ha imposto a controparte la restituzione delle some che le erano state liquidate a titolo di spese legali dal Primo giudice». Neppure questa censura può essere accolta, in quanto dalle conclusioni riportate nell’epigrafe della sentenza impugnata risulta che la domanda di restituzione di cui si tratta non era stata formulata. Anche il ricorso incidentale deve essere pertanto rigettato. Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti, in considerazione della reciproca loro soccombenza. PQM La Corte riunisce i ricorsi; li rigetta entrambi; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione. 26 CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA N. 17461 DEL 1° AGOSTO 2006 (Sezioni Unite Civili, Presidente V. Carbone, Relatore M. La Terza) Le Sezioni Unite affrontano, con ampia motivazione, l’ elaborazione giurisprudenziale in ordine alla devoluzione delle controversie implicanti pretese relative alla tutela del diritto alla salute, ripercorrendo e rielaborando la materia. Affermano le Sezioni Unite che, in relazione al bene-salute è individuabile un "nucleo essenziale", in ordine al quale si sostanzia un diritto soggettivo assoluto e primario, volto a garantire le condizioni di integrità psicofisica delle persone bisognose di cura allorquando ricorrano condizioni di indispensabilità, gravità ed urgenza non altrimenti sopperibili, a fronte delle quali è configurabile un mero potere accertativo della P.A. in ordine alla ricorrenza di dette condizioni. In assenza, però, di tali condizioni, e allorquando non vengano denunziati pregiudizi alla salute, anche in termini di aggravamenti o di non adeguata guarigione, la domanda diretta ad ottenere prestazioni con modalità di più comoda ed agevole praticabilità per il paziente, rispetto a quelle apprestate dalla P.A., ha come presupposto una situazione soggettiva di interesse legittimo, stante la discrezionalità riconosciuta all'autorità amministrativa di soddisfare, tempestivamente, le esigenze del richiedente tra le possibili opzioni, anche attraverso un'opportuna integrazione tra le potenzialità delle strutture pubbliche con quelle private convenzionate, offrendo la soluzione reputata più adeguata alla finalità di piena efficienza del servizio sanitario. Nella specie le S.U., con riferimento alla domanda, proposta da alcuni emodializzati, diretta alla declaratoria del diritto a parcheggiare lungo un determinato viale di accesso al centro medico ove fruire delle cure necessarie, hanno cassato, con rinvio, l'impugnata sentenza, non adeguatamente motivata in ordine alla configurabilità, o meno, di un concreto danno alla salute e alla possibile individuazione di soluzioni alternative per la tutelabilità della pretesa. Presidente Carbone – Relatore La Terza Svolgimento del processo Con atto di appello depositato in data 23 aprile 1998, Luigi Nonni, Ludovico Scenga, Nicolino Forte, Biagio Maglioni e Giorgio Faccenda impugnavano la sentenza del 2 dicembre 1997, con la quale il Pretore di Tivoli aveva rigettato la domanda dagli stessi proposta nei confronti del suddetto Comune diretta alla declaratoria del diritto a parcheggiare lungo il viale Trieste di Tivoli, per potere 27 facilmente accedere al centro medico ivi situato onde usufruire delle cure necessarie come emodializzati. A sostegno della domanda gli appellanti deducevano il loro diritto a fruire delle cure necessarie allo statua di invalidi presso l’unico Centro sito nel territorio comunale, e denunziavano una errata valutazione da parte del primo giudice sulla possibilità di accedere ad altre strutture mediche più compatibili con le loro esigenze, attesa l’inesistenza di altri centri similari nel territorio del Comune di Tivoli. Su tali assunti instavano per la riforma della impugnata sentenza e per l’accoglimento della loro iniziale domanda. Dopo la costituzione del Comune, che spiegava anche appello incidentale con il quale ribadiva le eccezioni di difetto di giurisdizione del giudice ordinario e di incompetenza funzionale del giudice del lavoro, il Tribunale di Roma con sentenza del 12 luglio 2002 dichiarava il diritto degli appellanti a parcheggiare con la propria autovettura - nei limiti di tempo necessari alla fruizione delle cure di emodialisi cui si sottoponevano - nella zona antistante al Centro di terapia medica di Tivoli, sito sul viale Trieste n. 2/b, e condannava il Comune al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio e di quelle della espletata consulenza. Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale premetteva che la controversia in esame andavadevoluta alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto si era inteso dagli appellanti, invalidi al 100%, fare valere il loro diritto soggettivo alla salute, garantito in via assoluta dalla Costituzione ed insuscettibile, come tale, di affievolimento o compressione; precisava che era competente funzionalmente in materia il giudice del lavoro, per essere ad esso affidata la tutela del diritto del cittadino alla salute ed alle correlate prestazioni assistenziali e previdenziali nei confronti della Pa; e osservava,poi, nel merito che la pretesa azionata risultava fondata perché non era stato contestato dall’appellato che il Centro medico di Tivoli fosse l’unico autorizzato a praticare la dialisi inconvenzione con il servizio sanitario nazionale, e perché i diversi ed alternativi servizi di parcheggio approntati dal Comune non erano idonei a garantire le condizioni di salute degli interessati. Ed invero, il nuovo parcheggio attrezzato dal Comune imponeva a ciascun dializzato un sforzo - per la maggiore distanza da percorrere per raggiungere il proprio automezzo - incompatibile con le condizioni in cui versava dopo il trattamento sanitario; ed inoltre il pulmino del Centro, che era stato autorizzato a fungere da navetta ed a sostare davanti al Centro stesso per la salita e discesa degli utenti, non poteva rappresentare una soluzione alternativa al parcheggio dati i non preventivabili tempi di attesa. Avverso detta sentenza il Comune di Tivoli propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Le controparti sono rimaste contumaci. Motivi della decisione 28 1. Con il primo motivo il Comune ricorrente denunzia violazione dell’articolo 360 n. 1 Cpc, illogicità manifesta della decisione e difetto di motivazione, assumendo che la causa doveva essere decisa dal giudice amministrativo perché il Comune aveva approvato con una deliberazione formale la sistemazione delle aree urbane, compresa quella interessata che coinvolgeva un punto nodale della circolazione stradale, quale quella della statale Tiburtina. Si era, quindi, in presenza di un atto amministrativo attraverso cui la Pa aveva esercitato i poteri di disciplinare discrezionalmente i criteri di viabilità, sicché le posizioni giuridiche interessate non potevano che configurarsi come interessi legittimi. Evidenzia ancora l’impossibilità per il giudice ordinario di condannare l’amministrazione ad un facere o ad un pati. In ogni caso non poteva, ai fini del riparto della giurisdizione, qualificarsi come diritto soggettivo la pretesa avanzata in giudizio - e rivendicata in contrasto con il diritto di tutti i cittadini, utenti della strada, a circolare secondo gli standard di sicurezza imposti dal codice della strada - a parcheggiare in una zona invece di altra, equidistante dal centro sanitario, e senza un accertato e concreto danno capace di ledere il diritto alla salute. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione degli articoli 38 e 442 Cpc e per illogicità e contraddittorietà della decisione, deducendo che la stessa aveva errato nel ritenere che la fattispecie in oggetto rientrasse nella competenza funzionale del giudice del lavoro. Con il terzo motivo il Comune censura la sentenza impugnata ai sensi dell’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc per violazione del disposto dell’articolo 2697 Cc e della normativa del codice della strada e del relativo regolamento (D.Lgs 285 e Dpr 495/92) nonché per contraddittoria ed insufficiente motivazione. Più specificamente il ricorrente addebita alla decisione del Tribunale di Roma di non avere tenuto conto che il Centro sito in via Trieste non si era mai adoperato per permettere nella sua struttura la fermata per i mezzi di locomozione dei pazienti sicché non potevano trasferirsi oneri da porsi a carico della clinica convenzionata in capo alla Pa; che con ordinanza sindacale 131/96 prot. 13439 era stata autorizzata la fermata nelle vicinanze del Centro delle vetture a disposizione degli emodializzati diversamente da quanto era accaduto in passato; che la addotta circostanza della impossibilità di accedere ad altri centri di emodialisi era stata espressamente contestata e che, invece - come evidenziato anche dal primo giudice -il contrario risultava documentalmente provato attraverso la “mappatura del SSN”; che in ogni caso gli emodializzati non avevano assolto all’onere probatorio su di essi gravante di dimostrare di non potere accedere, senza conseguenze pregiudizievoli alla salute, ad altre strutture capaci di fornire le stesse prestazioni sanitarie di cui erano destinatari. 2. Ai fini di un ordinato iter argomentativo si impone l’esame del primo motivo di ricorso riguardante l’eccepito difetto di giurisdizione del giudice ordinario; eccezione che ha determinato la rimessione della controversia a queste Su. La soluzione di detta questione rende opportune alcune preliminari puntualizzazioni sul c.d. diritto alla salute che, garantito dall’articolo 32 Costituzione, cui viene riconosciuta una portata immediatamente precettiva e non meramente programmatica(cfr. Corte costituzionale 104/82), non coincide con il solo diritto alla integrità fisica, tutelando infatti lo stato di benessere non 29 solo fisico ma anche psichico del cittadino. 2.1. Per evidenziare l’assoluta rilevanza assunta nell’attuale assetto ordinamentale di tale diritto è sufficiente rammentare come dal giudice delle leggi: sia stata riconosciuta la incostituzionalità di normative (quali quelle finanziarie del 1984 e del 1985) dirette a disconoscere il rimborso delle spese per le prestazioni di diagnostica specialistica ad alto costo eseguite presso strutture private non convenzionate, uniche detentrici delle relative apparecchiature, in ragione della necessità di garantire “piena ed esaustiva tutela” al “diritto primario e fondamentale” della salute umana, così che “l’esclusione in assoluto ... di qualsivoglia ristoro, ancorché ricorrano particolari condizioni di indispensabilità non parimenti sopperibili, incide sulla garanzia di cui innanzi” (così:Corte costituzionale 992/98); sia stato affermato che “la salute è un valore protetto dalla Costituzione come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività”, tanto da essere “costantemente riconosciuto come primario sia per la sua inerenza alla persona umana sia per la sua valenza di diritto sociale” (cfr. in tali sensi: Corte costituzionale 37/1991); sia stato ancora rimarcato come il rispetto del principio fondamentale sancito dall’articolo 32 Costituzione debba valere come criterio interpretativo della legislazione ordinaria(cfr. al riguardo: Corte costituzionale 127/90 in materia della c.d. normativa antismog e dell’incidenza dell’inquinamento sulla salute della collettività); e sia stato, infine, in materia di “ambiente”, messo in evidenza come dalla legge statale 36/2001 (legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) siano stati, in una funzione non solo di immediata tutela ma anche di prevenzione del bene-salute, fissati tra l’altro “limiti di esposizione”(come valori di campo non superabili “in alcuna condizione di esposizione della popolazione e dei lavoratori per assicurare la tutela della salute”, nonché “i valori di attenzione” (come valori di campo da non superare, a titolo di cautela rispetto ai possibili effetti a lungo termine <negli ambienti abitativi e scolastici e nei luoghi adibiti a permanenze prolungate> (cfr. articolo 3 legge 36/2001) (in tali precisi termini: Corte costituzionale 307/03, sub 6 ). 2.2. Nello scrutinare i numerosi dicta della Corte costituzionale in materia si è osservato in dottrina come sia ormai stata superata l’iniziale lettura restrittiva che vedeva l’articolo 32 Costituzione rivolto ai soli poteri pubblici e che si è ormai guadagnato alla salute la qualifica di diritto soggettivo, fondamentale ed assoluto, e si è pure aggiunto che allo stato si individua un “nocciolo duro” del diritto - insopprimibile quale che siano le esigenze della collettività - imposto dallo stesso principio di solidarietà sociale che ne permette, solo a determinate condizione, la restrizione. In tale contesto il “principio personalista”, di cui l’articolo 2 Costituzione configura la più chiara espressione, e quello della solidarietà sociale ed economica, caratterizzante il disposto dell’articolo 38 Costituzione, fanno, dunque, della salute un diritto che, nel soddisfare istanze generalizzate della collettività, è diretto a tutelare -in modo efficace e paritario alle altre le fasce deboli della cittadinanza, garantendo in tal modo pienamente i diritti del malato, considerato come “persona” prima che come paziente da assistere e curare. 2.3. Nella direzione di un progressivo ampliamento dell’ambito di operatività dell’articolo 32 Costituzione si è mossa pure la giurisprudenza di questa Corte 30 di cassazione, ribadendo più volte che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in relazione alle controversie aventi ad oggetto il diritto soggettivo al rimborso delle spese ospedaliere sostenute dall’assistito all’estero (senza la preventiva autorizzazione della Regione) in caso di ricovero reso necessario da motivi di urgenza, costituiti da una situazione di pericolo di vita o di aggravamento della malattia o di non adeguata guarigione, residuando in tali ipotesi in capo all’autorità amministrativa un potere discrezionale di tipo meramente tecnico in ordine all’apprezzamento dei motivi di urgenza(cfr. in tali sensi: Cassazione, Su, 85/1999, cui adde Cassazione 7537/99, sempre per l’affermazione che il rimborso delle spese - in ragione della gravità delle condizioni di salute e nell’impossibilità di ottenere dalle strutture pubbliche e convenzionate prestazioni adeguate - riveste il carattere di diritto soggettivo perfetto tutelabile dal giudice ordinario cui va riconosciuto il potere di disapplicare l’atto amministrativo - e, quindi, anche il decreto ministeriale - che non preveda o escluda detto rimborso). L’indicato indirizzo risulta ormai essersi consolidato, essendosi più volte riconosciuto al diritto alla salute, come detto, la dimensione di diritto assoluto e primario ed essendosi conseguentemente negato - a fronte delle già individuate situazioni di urgenza - l’esercizio di poteri discrezionali (compresi quelli autorizzativi) da parte della Pa e, quindi, la configurabilità di atti amministrativi (comunque disapplicabili ai sensi dell’articolo 5 della legge 2248/1865 all. E), condizionanti il diritto all’ assistenza (cfr. ex plurimis: Cassazione, Su, 12249/03; 10737/98; 12218/90, ed, in epoca più recente: 14197/05; 13548/05; 11334/05). 3. Ai fini di un più completo excursus sui precedenti giurisprudenziali volti all’esigenza di assicurare, anche nei confronti della Pa, il rispetto del diritto alla salute, ritenuto diritto “forte”,che impone una “difesa a tutta oltranza contro ogni iniziativa ostile”(cfr. in tali precisi termini: Cassazione, Su, 5172/79), è opportuno segnalare come già in passato in relazione ad interventi riguardanti l’ambiente naturale (in un settore cioè rappresentativo di valori anche essi costituzionalmente protetti e definito di natura trasversale per le diverse competenze che lo caratterizzano) si sia giunti a negare - pur in un presenza di una stretto legame tra titolarità di interessi individuali da parte di singoli cittadini coinvolti dai suddetti interventi e titolarità di interessi, cosìddetti diffusi, facenti capo a collettività unitariamente considerate – alla Pa ogni potere ablatorio tale da fare degradare il diritto alla salute ad interesse legittimo (cfr. Cassazione, Su, 1463/79 in materia di localizzazione di centrali nucleari). 3.1. Ed ancora il carattere di assolutezza del diritto scrutinato e la sua elaborazione sul versante dei rapporti intersoggettivi hanno trovato riscontro: sia nell’affermazione che il diritto alla salute “è sovrastante all’amministrazione di guisa che questa non ha alcun potere, neppure per motivi di interesse pubblico specialmente rilevante, non solo di affievolirlo, ma neanche di pregiudicarlo nel fatto indirettamente”, perché incidendo in un diritto fondamentale la Pa “agisce nel fatto”, dal momento che “non essendo giuridicamente configurabile un suo potere in materia, esso per il diritto non 31 provvede”, ma “esplica comunque, e soltanto attività materiale illecita” (cfr. in questi precisi termini: Cassazione, Su, 2092/92 in una fattispecie di realizzazione di un impianto di depurazione in prossimità di una abitazione); e sia nell’assunto che la tutela giudiziaria del diritto alla salute può essere preventiva e dare luogo a pronunce inibitorie se, prima che l’opera pubblica sia messa in esercizio nei modi previsti, si riesca ad accertare - con riguardo alla situazione che verrà a determinarsi a seguito di detto esercizio - un pericolo di compromissione per la salute di chi agisce in giudizio(cfr., in una fattispecie di realizzazione di un elettrodotto, Cassazione 9893/00). 4. E sempre sul versante del diritto alla salute e, più specificatamente della tutela del malato, va segnalato come la giurisprudenza di questa Corte ricalchi in grandi linee quella comunitaria che - pur riconoscendo che gli articoli 59 e 60 del Trattato CE(coincidenti, a seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam, con gli articoli 49 e 50) non sono violati dalla normativa di uno Stato membro, che subordina alla previa autorizzazione della cassa malattia di appartenenza il rimborso delle spese sostenute dall’assicurato per il ricovero presso un Istituto ospedaliero situato in altro stato membro - ha affermato che l’autorizzazione non può essere negata quando risulti che il trattamento sanitario considerato assuma i caratteri dell’”usualità”(nel senso che sia adeguatamente provato e riconosciuto dalla scienza medica internazionale), e dalla “necessità” (nel senso che non sia possibile ottenere definitivamente un trattamento identico che presenti lo stesso grado di efficacia presso un istituto che abbia concluso una convenzione con la cassa malattia cui fa parte l’assicurato) (cfr. Corte giust. 12 luglio 2001, causa C-157/99, richiamata da Cassazione, Su, 11334/05 cit.);ed ha altresì statuito che la suddetta autorizzazione non possa essere rifiutata sempre che le cure in questione figurino tra le prestazioni previste dalla legislazione dello Stato membro nel cui territorio risiede l’interessato e sempre che un trattamento identico (o con lo stesso grado di efficacia) non possa essere tempestivamente ottenuto nel territorio dello Stato (cfr. Corte giust. 23 ottobre 2003, causa C-56/01). 5. A volere riassumere quanto sinora esposto può, seppure con qualche approssimazione, affermarsi che nel nostro ordinamento si rinvengono a fronte di situazioni “soggettive a nucleo variabile” – in relazione alle quali si riscontra un potere discrezionale della Pa capace di degradare (all’esito di un giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti) i diritti ad interessi legittimi o di espandere questi ultimi sino ad elevarli a diritti – “posizioni soggettive a nucleo rigido”, rinvenibili unicamente in presenza di quei diritti, quale quello alla salute, che - in ragione della loro dimensione costituzionale e della loro stretta inerenza a valori primari della persona - non possono essere definitivamente sacrificati o compromessi, sicché allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporli a pregiudizi gravi ed irreversibili, alla Pa manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su detti diritti non essendo ad essa riservato se non il potere di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel 32 quale viene fatta valere, quello spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata. 6. Quanto sinora detto fornisce le coordinate per risolvere la questione di giurisdizione sollevata dal Comune di Tivoli. 6.1. È giurisprudenza costante che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e che, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il cosiddetto “petitum sostanziale”, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui essi sono manifestazione e dal quale la domanda viene identificata(cfr. sul criterio del “petitum sostanziale” tra le tante: Cassazione, Su, 8374/06; 10243/03; 3508/03); ed è stato altresì precisato che l’applicazione, ai fini del riparto della giurisdizione, del suddetto criterio implica senza dubbio l’apprezzamento di elementi che attengono anche al merito (con la conseguenza che la corte di cassazione è in materia di giurisdizione anche giudice di fatto) ma non comporta che la statuizione sulla giurisdizione (la quale - come la competenza - va determinata con riguardo ai fatti allegati dall’attore, essendo in contrario irrilevanti le difese del convenuto) possa confondersi con la decisione sul merito né, in particolare/ che la decisione possa essere determinata “secundum eventum litis”, sicché non esiste alcuna contraddizione logico-giuridica in una sentenza che, sulla base della qualificazione del rapporto dedotto in causa, affermi la giurisdizione del giudice che l’ha emessa e, in un momento logicamente successivo, valutando le risultanze dell’istruttoria svolta, neghi la sussistenza in concreto del rapporto stesso(cfr. in tali esatti termini: Cassazione 1470/94, cui adde tra le altre: Cassazione 8057/01). Ed a conforto dell’assunto che la statuizione sulla giurisdizione vada in ogni caso tenuta distinta dalla decisione sul merito - si da non configurasi alcuna incompatibilità logico-giuridica tra la iniziale qualificazione del rapporto ai fini della individuazione del giudice competente e la declaratoria di insussistenza del rapporto stesso intervenuta in un momento successivo con la decisione della controversia all’esito dell’istruttoria - i giudici di legittimità hanno fatto riferimento agli articoli 187, comma 2 e 3, e 279 Cpc, ed ancora alla suscettibilità della suddetta statuizione di passare autonomamente in cosa giudicata formale nonché al principio che le sentenze dei giudici di merito che abbiano pronunciato sulla giurisdizione, proprio perché non di merito, non sono idonee a spiegare effetti al di fuori del processo in cui sono emesse(cfr. al riguardo in motivazione: Cassazione, Su, 1470/94 cit.,ed ancora Cassazione 8057/01 cit.) . 6.2. Corollario di quanto sinora detto – e ribadendosi ancora una volta la netta 33 distinzione tra declaratoria nel corso del giudizio sulla giurisdizione e sentenza definitiva di merito – è che dovendosi la giurisdizione determinare, come si è ora rimarcato, sulla base del cosìddetto “petitum sostanziale” - il quale si identifica soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia - è bene ribadirlo sui soli fatti indicati a fondamento della pretesa fatta valere con l’atto iniziale della lite - va devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda con la quale, proponendosi a fondamento della stessa il diritto alla salute e la necessità di interventi resi necessari per motivi di urgenza (al fine di scongiurare concreti pericoli di vita o di aggravamenti della malattia o di non adeguata guarigione della stessa) si chieda alla Pa, cui si addebita il sorgere della denunziata situazione, una condotta volta a tutelare il suddetto diritto che, per trovare espresso riconoscimento nell’articolo 32 Costituzione, si configura come diritto soggettivo perfetto non degradabile ad interesse legittimo. 6.3. La sentenza impugnata, alla stregua di quanto ora detto, va pertanto sul punto confermata per avere il Tribunale riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario sul presupposto che gli invalidi emodializzati hanno posto alla base della loro richiesta (ripristino del diritto di parcheggio di cui in precedenza usufruivano) il diritto alla salute, di cui hanno lamentato un grave pregiudizio per essere la fruizione delle cure rese estremamente difficoltose e disagevoli ad opera del Comune di Tivoli, che aveva proceduto ad interventi sulla viabilità, costringendo gli emodializzati a parcheggiare il loro automezzo ad una maggiore distanza dal Centro, fornitore delle prestazioni sanitarie. 7. In ragione del ruolo nomofilattico, assegnato istituzionalmente a questa Corte, va rigettato anche il secondo motivo del ricorso con il quale il Comune di Tivoli ha eccepito il difetto della competenza funzionale del giudice del lavoro a decidere la presente controversia, atteso che secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale - avverso il quale non sono state avanzate in questa sede ragioni capaci di metterne in dubbio la validità – le controversie relative alla previdenza ed assistenza sanitaria obbligatoria (nonché alle correlate prestazioni), per rientrare tra le cause espressamente menzionate dall’articolo 409, comma 1, Cpc, sono devolute alla competenza del giudice del lavoro(cfr. sul punto tra le altre: Cassazione 7456/83, in relazione ad una fattispecie riguardante proprio il trattamento di dialisi, cui adde, negli stessi termini e con un rinnovato richiamo agli articoli 442 e 444 Cpc, Cassazione, Su, 12218/90). 8. Risulta, di contro, fondata la censura spiegata con il terzo motivo di ricorso, attraverso il quale si addebita al Tribunale di Roma di non avere fatta corretta applicazione della regola fissata dall’articolo 2697 Cc sulla ripartizione dell’onere della prova, e di con avere sorretto l’accoglimento della domanda degli invalidi emodializzati con adeguata motivazione. 8.1. Sulla base della scrutinata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, consolidatasi nelle materie in cui il diritto alla salute va contemperato con altri diritti anche essi costituzionalmente protetti - e nelle quali il giudice è tenuto al difficile compito di bilanciare gli interessi in gioco definendone i rispettivi limiti - può enunciarsi il seguente principio: “In relazione al bene-salute è individuabile un “nucleo essenziale”, che configura un diritto soggettivo assoluto e primario, volto a 34 garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura allorquando ricorrano condizioni di indispensabilità, di gravità e di urgenza non altrimenti sopperibili, a fronte delle quali è configurabile soltanto un potere accertativo della Pa in punto di apprezzamento della sola ricorrenza di dette condizioni. In assenza, però, di dette condizioni e allorquando non vengano denunziati pregiudizi alla salute - anche in termini di aggravamenti o di non adeguata guarigione - la domanda volta a ottenere le dovute prestazioni con modalità di più comoda ed agevole praticabilità per il paziente di quelle apprestate dalla Pa, ha come presupposto una situazione soggettiva di interesse legittimo stante la discrezionalità riconosciuta alla autorità amministrativa di soddisfare tempestivamente le esigenze del richiedente scegliendo tra le possibili opzioni praticabili - anche attraverso una opportuna integrazione tra le potenzialità delle strutture pubbliche con quelle private convenzionate - la soluzione reputata più adeguata alla finalità di piena efficienza del servizio sanitario. 8.2. L’ora riportato principio si colloca nell’ambito delle ripetute statuizioni dei giudici costituzionali e di quelli di legittimità. Ed invero, a dimostrazione della veridicità di tale assunto, è sufficiente rammentare come i primi abbiano ancora una volta sul presupposto della natura della salute come diritto individuale assoluto - emesso, come si è già ricordato, decisioni caducatorie di norme che non consentano di assumere a carico del servizio sanitario nazionale la spesa per prestazioni di alta specializzazione ottenibili soltanto presso strutture private non convenzionali sempre che si sia in presenza della “indispensabilità” (intesa come idoneità delle medesime a produrre effetti diagnostici e terapeutici più certi e completi di quelli riferibili alle metodiche in uso presso il servizio pubblico;così Corte costituzionale 992/88 cit. e come, a loro volta, i giudici di legittimità abbiano anche essi riconosciuto una 2tutela forte” al diritto alla salute in presenza di situazioni d’urgenza e di esposizione a pericoli di danni irreparabili alla integrità fisica (cfr. ex plurimis: Cassazione, Su, 85/1999 cit.; 8882/94), a fronte dei quali la Pa può eventualmente apprezzare soltanto i dati fattuali addotti dall’interessato, secondo i criteri della discrezionalità tecnica, che non basta ad alterare la consistenza del diritto soggettivo, giacché l’inosservanza di tali criteri nell’accertamento della concreta sussistenza di una posizione soggettiva non esprime alcun potere di supremazia, tanto da essere consueta anche nei rapporti interprivati, e da non comportare, quindi, in quelli pubblici, alcun fenomeno di affievolimento(così: Cassazione, Su, 4647/02). 9. Alla stregua delle considerazioni svolte e del principio di diritto sopra enunciato la motivazione della sentenza impugnata si presenta non adeguata nella parte in cui non ha esplicitato le ragioni su questioni di certo rilevanti ai fini della decisione. Ed invero, tra l’altro, da parte del giudice d’appello non è stato chiarito se il denunziato spostamento del parcheggio determinasse un concreto danno alla salute degli emodializzati o fosse causa, in ragione di una sempre limitata distanza dal Centro sanitario, soltanto di un meno agevole accesso per gli utenti dello stesso Centro (senza però alcun rilevante pregiudizio per la loro integrità fisica); non è stato precisato – mediante un lineare, coerente ed esaustivo percorso argomentativo - se gli emodializzati, su cui incombeva il relativo onere probatorio, avessero provato l’impossibilità di 35 accedere ad altri presidi o strutture capaci di garantire la necessaria assistenza nel pieno rispetto della loro salute, nonostante la dedotta permanente contestazione degli elementi posti a base della domanda degli attuali intimati e nonostante l’agevole accertamento (anche attraverso la “mappatura” del Servizio sanitario nazionale) della effettiva dislocazione di altri centri per la dialisi extracorporea, e della loro agevole accessibilità. Ed, infine, in nessun passaggio motivazionale è stata esplicitata la ragione per la quale non sia stata accertata in modo esauriente la praticabilità – anche nell’ambito di una doverosa sinergia tra strutture pubbliche e strutture convenzionate capaci di assicurare alti standard di conoscenze specialistichee di efficienza pratica - di soluzioni alternative a quella seguita dal Comune di Tivoli, e più specificatamente non sia stata né esaminata né, tanto meno, valutata la capacità di soddisfare le esigenze degli emodializzati attraverso l’adibizione di spazi, a disposizione dello stesso Centro sanitario, a parcheggi deputati ad assicurare un agevole accesso ai luoghi attrezzati per la dialisi, od anche attraverso alcuna delle iniziative che il Comune di Tivoli ha sostenuto di avere preso a favore degli emodializzati. 10. Per concludere, va rigettato sia il primo motivo, dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario, che il secondo motivo del ricorso. in accoglimento, invece, del terzo motivo la sentenza impugnata va cassata ed, ai sensi dell’articolo 384 Cpc, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va rimessa ad altro giudice, designato nella Corte d’appello di Roma, che procederà ad un nuovo esame della controversia, facendo applicazione dei principi innanzi formulati. 11. Al giudice del rinvio va rimessa la statuizione anche delle spese del presente giudizio di cassazione. PQM La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, dichiarando al giurisdizione del giudice ordinario, nonché il secondo motivo ed, in accoglimento del terzo motivo del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma anche per le spese del presente giudizio di cassazione. 36 Enti locali: se l'incarico è privo di copertura, il professionista non ha diritto al compenso La delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidano ad un professionista privato l'incarico per la progettazione di un'opera pubblica è valida e vincolante nei confronti dell'ente soltanto se contenga la previsione dell'ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte; in mancanza, la delibera è nulla, e tale nullità si estende al contratto di prestazione d'opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l'idoneità a costituire titolo per il compenso. CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 10 GIUGNO 2005, N. 12195 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Gli ingegneri G.M. e S.C. chiesero al presidente del Tribunale di Catanzaro di emettere decreto ingiuntivo nei confronti dell'Amministrazione provinciale di Catanzaro per il pagamento della somma di lire 109.425.255, a titolo di onorari, cui ritenevano di avere diritto per la progettazione di un complesso scolastico. Il presidente adito emise il provvedimento in data 19 settembre 1990 e l'Amministrazione provinciale propose opposizione adducendo di aver già adempiuto la propria obbligazione. Instauratosi il contraddittorio il Tribunale di Catanzaro, con sentenza depositata il 15 dicembre 1994, revocò il decreto ingiuntivo, ritenendo che l'Amministrazione provinciale realmente avesse adempiuto l'obbligazione prevista nella convenzione regolatrice del rapporto. Specificamente, in essa era stato fissato un importo massimo di spesa che, se si fosse rivelato insufficiente per l'esecuzione dell'intera opera, avrebbe comportato la redazione di un progetto stralcio del progetto esecutivo generale, restando stabilito che, per tale prestazione, al professionista sarebbe stato corrisposto "un compenso pari al 25% della percentuale complessiva dell'importo del progetto stralcio applicato sull'importo dello stralcio stesso oltre al rimborso delle spese a norma di tariffa" (sentenza impugnata, pag. 3). In questo quadro il Tribunale pervenne alla conclusione che l'avvenuto versamento dell'importo ridotto, siccome previsto, esonerasse 37 l'Amministrazione da ogni obbligo ulteriore. L'ing. M. propose appello, adducendo l'erronea qualificazione del rapporto obbligatorio, sul presupposto che la clausola ora menzionata andasse interpretata nel senso che essa attribuiva ai professionisti il diritto, al compenso per il progetto generale, con una pattuizione, di cautela per l'Amministrazione, secondo la quale i redattori avevano diritto anche ad un compenso minore per il progetto stralcio in quanto avevano elaborato il progetto complessivo, del quale lo stralcio costituiva un minus. In via gradata spiegò azione di arricchimento, ai sensi dell'art. 2041 c.c. La Provincia di Catanzaro si costituì per resistere al gravame e propose appello incidentale, lamentando l'erroneità della sentenza nella parte in cui aveva compensato le spese processuali relative al giudizio di primo grado. La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza depositata il 15 aprile 1999, rigettò entrambe le impugnazioni e compensò le spese del grado. La Corte distrettuale, dopo aver giudicato inammissibile l'azione (subordinata) d'indebito arricchimento, perché proposta per la prima volta in secondo grado, osservò che sia la delibera di conferimento dell'incarico sia la convenzione adottata in esecuzione della prima non indicavano la previsione di spesa, limitandosi ad ipotesi affermative di riferimento l'una alla possibilità di finanziamento "a mezzo di mutuo da contrarre con la Cassa depositi e prestiti o con altro istituto di credito" e l'altra al bilancio senza imputazioni ad uno specifico capitolo o ad un anno. Tali caratteri e carenze comportavano, ad avviso di quel collegio, la nullità rilevabile d'ufficio degli atti menzionati, perché il difetto dei requisiti stabiliti dall'art. 284 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, provocava detta conseguenza non soltanto sull'atto deliberativo ma anche sul connesso atto negoziale per contrasto con norma imperativa ai sensi dell'art. 1418 c.c., come affermato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, nonché dallo stesso orientamento del legislatore (art. 55 l. 142/1990). Da tanto derivava il rigetto dell'appello principale, mentre la compensazione delle spese processuali disposta dal Tribunale era giustificata dai caratteri particolari della fattispecie e dall'indirizzo non univoco della giurisprudenza. Contro la suddetta sentenza l'ing. M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo illustrato con due memorie. L'Amministrazione provinciale di Catanzaro ha resistito con controricorso. La seconda sezione civile di questa Corte, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza interlocutoria depositata il 21 gennaio 2003 ha rilevato che nella giurisprudenza di legittimità esiste contrasto sul principio, affermato dalla sentenza impugnata, alla stregua dei quale il difetto dei requisiti stabiliti dall'art. 284 del r.d. 383 del 1934 comporta - trattandosi di norma imperativa 38 la nullità dell'atto deliberativo, da cui deriva la nullità del conseguente atto negoziale ex art. 1418 c.c. Infatti è stato anche osservato che un contratto di diritto privato non può essere invalidato per effetto dell'inosservanza di una norma di contabilità pubblica, qualificabile come norma di azione, che disciplina l'attività interna della P.A. senza rilevanza nei confronti dei terzi contraenti (tale sarebbe la norma dettata dal citato art. 284). Pertanto la sezione ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente, ai sensi dell'art. 374 c.p.c. La causa, quindi, è stata assegnata alle sezioni unite civili di questa Corte ed è stata chiamata all'odierna udienza di discussione. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Avverso la sentenza della Corte distrettuale - depositata il 15 aprile 1999 e, a quanto risulta, non notificata - il M. ha proposto tempestivo ricorso per cassazione con atto notificato il 22 novembre 1999, depositato il 26 novembre successivo. Il controricorso proposto dall'Amministrazione provinciale di Catanzaro risulta notificato il 6 giugno 2000 e quindi ben oltre il termine di cui all'art. 370, primo comma, c.p.c. Ne discende l'inammissibilità, del detto controricorso (stante il carattere perentorio dei suddetto termine), fermo restando per l'Amministrazione il diritto di partecipare alla discussione orale in forza della procura speciale a suo tempo rilasciata al difensore. 2. Con l'unico mezzo di cassazione il ricorrente denunzia violazione dell'art. 284 r.d. 3 marzo 1934, n. 383, e degli artt. 1418 e ss. c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Richiamata la motivazione della sentenza impugnata, afferma che essa sarebbe del tutto contraria all'ormai consolidato orientamento di questa Corte, espresso (tra le altre) dalla sentenza 27 febbraio 1998, n. 2235. Alla stregua dei principi ivi enunciati (trascritti in ricorso) non sarebbe comprensibile l'assunto della Corte di merito secondo cui la nullità dell'atto deliberativo, per difetto dei requisiti posti dall'art. 284 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, troverebbe riscontro in un "consolidato orientamento giurisprudenziale" relegando al rango di "orientamento minoritario" ed ormai superato quello che considera irrilevanti i vizi predetti; e neppure sarebbe dato comprendere come (la sentenza impugnata) abbia potuto individuare nell'art. 55 della l. 142/1990 la riaffermazione di un principio generale dell'ordinamento finanziario degli enti locali, mentre sarebbe pacifico che detta legge ha innovato la disciplina preesistente. Il ricorrente, poi, sostiene che vari richiami alla giurisprudenza di questa Corte, operati dalla sentenza impugnata, sarebbero inesatti, sicché l'unico precedente 39 conforme alla tesi fatta propria da detta pronuncia sarebbe costituito dalla sentenza n. 8410 dei 1990, che peraltro avrebbe utilizzato argomenti contrastati dalla successiva (citata) sentenza n. 2235 dei 1998. 3. Si deve premettere che il ricorrente non muove censure specifiche alla pronunzia impugnata, nella parte in cui ha rilevato di ufficio la nullità della delibera concernente l'affidamento dell'incarico e della conseguente convenzione, limitandosi ad addurre nell'esposizione del fatto che mai la Provincia aveva allegato tale nullità e notando che, se l'allegazione ci fosse stata, la questione sarebbe stata trattata davanti ai giudici del merito. Va aggiunto che, secondo l'accertamento di fatto compiuto dalla sentenza impugnata, «sia la delibera di conferimento dell'incarico, che la convenzione, adottata in esecuzione della prima, non indicavano la previsione di spesa, limitandosi a delle ipotesi alternative di riferimento l'una alla possibilità di finanziamento "a mezzo di mutuo da contrarre con la Cassa depositi e prestiti o con altro istituto di credito" e l'altra al bilancio senza imputazioni ad uno specifico capitolo o ad un anno" (sentenza cit., pag. 6); ed anche questo profilo non ha formato oggetto di censure. Pertanto il tema da decidere si risolve nel seguente quesito: se la nullità dell'atto deliberativo di un ente pubblico locale (nel caso di specie, Amministrazione provinciale), col quale viene conferito un incarico professionale, per difetto dei requisiti stabiliti dall'art. 284 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, determini la nullità anche della convenzione tra l'ente e il professionista con la quale il rapporto è costituito, oppure se gli eventuali vizi della suddetta deliberazione possano assumere rilievo nell'ambito interno dell'organizzazione dell'ente ma non incidano sulla validità ed efficacia del contratto privatistico di prestazione d'opera professionale e, quindi, sul diritto al compenso del professionista. 3.1. Sulla soluzione del quesito ora formulato si registra nella giurisprudenza di questa Corte il contrasto segnalato dall'ordinanza di rimessione alle sezioni unite. Più esattamente si sono manifestati due orientamenti. Secondo il primo, la delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidano ad un professionista l'incarico della compilazione di un progetto per un'opera pubblica è valida e vincolante nei confronti dell'ente soltanto qualora contenga la previsione dell'ammontare dei compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte. L'inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della delibera, che si estende al contratto di prestazione d'opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l'idoneità a costituire titolo per il pagamento del compenso professionale ed implicando il diritto dell'ente alla ripetizione di eventuali acconti versati in esecuzione del contratto stesso (Cass., 29 luglio 1967, n. 2021; 24 giugno 1972, n. 2144; 27 maggio 1975, n. 2131; 3 luglio 1979, n. 3724; 5 settembre 1980, n. 5134; 9 40 marzo 1983, n. 1760; 14 marzo 1983, n. 1890; 18 agosto 1990, n. 8410; 30 maggio 2002, n. 7910). In forza di un secondo orientamento, invece, qualora un ente locale, esercitando una facoltà conferitagli dalla legge (art. 285, comma 21, r.d. n. 383 del 1934), si avvalga per la redazione di un progetto di opera pubblica di un professionista privato, l'atto di affidamento del relativo incarico, come gli atti che vengano successivamente ad interferire sul rapporto, configurano espressione non di poteri pubblicistici ma di autonomia negoziale privatistica. Ciò comporta che il diritto del professionista al compenso, insorto quando la deliberazione comunale di conferimento dell'incarico si sia adotta nella costituzione del rapporto di prestazione d'opera professionale, resta insensibile ad eventuali vizi di detta deliberazione, rilevanti soltanto nell'ambito interno dell'organizzazione dell'ente territoriale, quale quello derivante dall'inosservanza dell'obbligo d'indicare l'ammontare della spesa e dei mezzi per farvi fronte (Cass., Sezioni unite, 17 novembre 1984, n. 5833; Cass., 11 maggio 1990, n. 4039; 30 agosto 1995, 9115; 28 maggio 1996, n. 4929; 27 febbraio 1998, n. 2235; 13 febbraio 2003, n. 2139). Il primo dei suddetti orientamenti è affidato alle seguenti considerazioni: Il precetto dettato dall'art. 284 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383, ha carattere imperativo e mira ad impedire che l'ente pubblico assuma un'obbligazione senza rendersi conto del suo ammontare e senza conoscere se e come farvi fronte. La delibera, come momento essenziale ai fini della validità del contratto successivo, e cioè come momento centrale della formazione del consenso (e non mero atto autorizzativo nei riguardi del legale rappresentante dell'ente, affinché stipuli il contratto) deve corrispondere alle norme particolari dei diritto pubblico che regolano la formazione dei contratti della P.A., e pertanto la sua invalidità si riflette sulla validità dei contratto. Nell'ipotesi contemplata dall'art. 284 cit. si tratta di una nullità testuale che investe anche il contratto, sotto il profilo della violazione di norme imperative, ex art. 1418, comma 2, c.c. (così Cass. n. 5134 del 1980, in motivazione). Il secondo orientamento, invece, trova il principale punto di riferimento nella citata sentenza delle Sezioni unite n. 5833 del 1984. In base a tale pronuncia (affidata alle Sezioni unite perché era stata addotta una questione di giurisdizione e, perciò, non emessa in sede di composizione di contrasto) l'eventuale incompletezza o irregolarità formale nella previsione della spesa occorrente per il compenso dovuto al professionista non potrebbe pregiudicare il diritto di questo. Invero, formatasi ritualmente nella sede propria la volontà dell'ente in relazione al conferimento dell'incarico ad un certo professionista per una data opera, e divenuta efficace la delibera in conseguenza delle prescritte ratifiche, la costituzione del rapporto di prestazione d'opera nella fase attuativa della delibera stessa ed il suo svolgimento producono tutti gli effetti giuridici propri di quel contratto e quindi anche l'obbligazione dell'ente di corrispondere le competenze al professionista. 41 Le carenze e le irregolarità del procedimento amministrativo in ordine alla previsione della relativa spesa e dei mezzi per fronteggiarla potrebbero produrre conseguenze nell'ambito interno dell'organizzazione dell'ente, non esclusa la responsabilità degli amministratori che concorsero a deliberare quel provvedimento, ma non potrebbero incidere negativamente: sui diritti acquisiti dal privato professionista in forza del contratto di prestazione d'opera (le sentenze successive si muovono, in sostanza, nella stessa prospettiva). 4. Il collegio ritiene che il contrasto debba essere composto secondo le linee tracciate dal primo degli orientamenti ora riassunti. Si deve premettere che, ai sensi dell'art. 284, primo comma, r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (normativa disciplinante la fattispecie in esame ratione temporis), le deliberazioni dei comuni, delle province e dei consorzi, che importino spese, devono indicare l'ammontare di esse e i mezzi per farvi fronte. Il successivo art. 288 dello stesso r.d. statuisce la nullità delle deliberazioni "prese in adunanze illegali, o adottate sopra oggetti estranei alle attribuzioni degli organi deliberanti o che contengano violazioni di legge". Dal combinato disposto dei due precetti discende che le deliberazioni - che importino spese e non indichino l'ammontare di esse e i mezzi per farvi fronte - sono nulle perché adottate in violazione di legge, stante il carattere tassativo della prima disposizione ("devono indicare"). La ratio di essa non può essere riduttivamente individuata soltanto in un'esigenza di contabilità pubblica. Se è vero che la norma ha di mira la regolarità e il buon andamento finanziario delle amministrazioni locali, è vero del pari che questi obiettivi sono perseguiti in funzione dell'interesse pubblico all'equilibrio economico, e quindi al buon andamento, di dette amministrazioni, in un quadro di certezza e di trasparenza che ha fondamento costituzionale (art. 97). Del resto, si tratta di un principio generale che si è perpetuato nell'ordinamento degli enti locali territoriali, com'è dimostrato, dal fatto che anche la l. 8 giugno 1990, n. 142, recante l'ordinamento delle autonomie locali, stabilisce nell'art. 55, comma 5, che "gli impegni di spesa non possono essere assunti senza attestazione della relativa copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio finanziario", aggiungendo subito dopo che "senza tale attestazione l'atto è nullo di diritto". Non rileva qui stabilire se tale precetto abbia carattere innovativo o meno rispetto alla precedente disposizione del citato art. 284. E' sufficiente notare che anche la nuova disciplina delle autonomie locali ha ritenuto necessario prevedere un'espressa comminatoria di nullità per gli impegni di spesa assunti senza preventiva attestazione della copertura finanziaria, adottando una formula che appare ancor più rigorosa rispetto a quella precedente, e ciò conferma la peculiare valenza dell'interesse pubblico che il legislatore ha inteso tutelare. Ciò posto, la tesi - secondo cui gli eventuali vizi della delibera in ordine alla 42 previsione della relativa spesa e dei mezzi per farvi fronte potrebbero produrre conseguenze nell'ambito interno dell'organizzazione dell'ente, ma non sarebbero idonei ad incidere negativamente sui diritti acquisiti dal privato professionista in forza del contratto di prestazione d'opera - non può essere condivisa. Invero, nella formazione dei contratti soggetti alla c.d. evidenza pubblica (nel cui novero rientrano anche quelli dei comuni e delle province) coesistono due procedimenti: il primo si traduce in un provvedimento (deliberazione a contrarre da parte degli organi qualificati) con cui si esterna lo scopo da perseguire nonché il modo con cui s'intende realizzarlo, e tale manifestazione di volontà costituisce il presupposto dell'atto negoziale che perciò si pone in rapporto strumentale col provvedimento; il secondo si svolge tra le parti contraenti ed ha ad oggetto la formazione della volontà secondo le norme privatistiche, con alcune varianti correlate specialmente alle procedure da seguire per la scelta del contraente. Orbene, è vero che, come questa Corte ha più volte affermato con particolare riguardo alla conclusione del contratto d'opera professionale (quando ne sia parte la P.A.), la deliberazione dell'ente - fino a quando non risulti tradotta in un atto contrattuale sottoscritto dal rappresentante dell'ente stesso e dal professionista - è atto con efficacia interna all'ente pubblico, non costituente neppure proposta contrattuale, sicché non è idonea a determinare la costituzione del relativo rapporto negoziale (v., ex multis, Cass., 25 novembre 2003, n. 17891; 5 novembre 2001, n. 13628; 16 ottobre 1999, n. 11687; 14 marzo 1998, n. 2772). Ciò, tuttavia, non significa che tutti i vizi della fase amministrativa e (per quanto qui rileva) della delibera siano privi d'incidenza sul contratto stipulato in forza di essa. L'affermazione può essere condivisa in relazione a carenze o vizi che rendano la delibera stessa soltanto annullabile, non in presenza di una violazione di legge che ne comporti la nullità. Infatti, come già si è notato, il contratto e la delibera, ancorché tra loro distinti, sono collegati poiché la delibera a contrarre s'inserisce come passaggio obbligato nell'iter di formazione della volontà contrattuale della parte pubblica. Pertanto la sua nullità (come la sua mancanza) si riflette necessariamente sulla validità del contratto, perché la volontà dell'ente non si può ritenere ritualmente formata nella sede propria e, sul piano negoziale, il contratto viene ad essere stipulato in contrasto con una norma imperativa (quale il combinato disposto dei citati artt. 284, 288 deve ritenersi, alla stregua delle considerazioni sopra svolte), con le conseguenze di cui all'art. 1418, comma 1, c.c. Conclusivamente, il contrasto segnalato deve essere risolto con l'affermazione del seguente principio di diritto: Nel vigore del combinato disposto degli artt. 284 e 288 r.d. 3 marzo 1934, n. 43 383, la delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidano ad un professionista privato l'incarico per la progettazione di un'opera pubblica è valida e vincolante nei confronti dell'ente soltanto se contenga la previsione dell'ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte. L'inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della delibera, che si estende al contratto di prestazione d'opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l'idoneità a costituire titolo per il compenso". La sentenza impugnata risulta conforme a tale principio, sicché il ricorso deve essere respinto. La natura della questione trattata, tuttavia, consente di ravvisare la sussistenza di giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese dei giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte, pronunziando a sezioni unite, rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione. 44 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 27 12 GIUGNO 2006 N. 13524 La quota di riserva spettante ai legittimari si determina all’apertura della successione (Presidente Carbone; Relatore Triola; Pm - parzialmente difforme - Iannelli; Ricorrente Caselli; Controricorrente e ricorrente incidentale Caselli) LA MASSIMA Successioni - Successione legittima e necessaria Individuazione della quota di riserva spettante ai singoli legittimari Riferimento alla situazione concreta determinatasi a seguito del mancato esperimento dell’azione di riduzione - Esclusione Riferimento al momento dell’apertura della successione Ammissibilità. (Cc, articolo 536) Ai fini dell’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria, occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinuncia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari. Svolgimento del processo Con atto notificato l'1-4 luglio 1987 Maria Caselli conveniva davanti al Tribunale di Torino il fratello Vincenzo Caselli, nonché i nipoti Enrico, Alberto e Maria Rosa Kiss, ed esponeva: • • • • che in data 17 gennaio 1987 era deceduta Lucia Bertolone, madre di essa attrice e di Vincenzo Caselli e di Thea Caselli, quest'ultima premorta lasciando a succederle per rappresentazione alla madre i figli Enrico, Alberto e Maria Rosa Kiss; che con atto in data 6 agosto 1980 Lucia Bertolone aveva venduto a Vincenzo Caselli la nuda proprietà su un immobile costituente il suo intero patrimonio; che tale atto dissimulava una donazione nulla per difetto di forma o comunque una donazione lesiva della propria quota di legittima; sulla base di tali premesse l'attrice chiedeva che venisse dichiarata la nullità della donazione, con conseguente apertura anche in suo favore della successione legittima o che, nell'ipotesi di validità dell'atto in questione, ne venisse disposta la riduzione nella misura necessaria ad assicurarle la quota di legittima cui aveva diritto. Vincenzo Caselli, costituitosi, contestava il fondamento delle domande. Enrico, Alberto e Maria Rosa Kiss rimanevano contumaci. Con sentenza non definitiva in data 3 novembre 1992 il Tribunale di Torino rigettava le domande proposte dall'attrice, che proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di appello di Torino con sentenza in data 8 febbraio 1995. Maria Caselli proponeva ricorso per cassazione, che questa S.C. accoglieva con sentenza in data 18 marzo 1997 n. 2885, ritenendo insufficiente la motivazione 45 con la quale era stata esclusa la simulazione dell'atto in data 6 agosto 1980 ed insussistente in ordine alla subordinata ipotesi della configurabilità di un negotium mixtum cum donatione. Maria Caselli provvedeva alla riassunzione del giudizio davanti alla Corte di appello di Torino, che con sentenza non definitiva in data 6 agosto 2001 escludeva la sussistenza della simulazione dell'atto in data 6 agosto 1980 e disponeva l'ulteriore corso del giudizio al fine di accertare la sussistenza o meno di un negotium mixtum cum donatione. Contro tale decisione Maria Caselli, dopo avere fatto riserva di impugnazione, proponeva ricorso immediato e tale ricorso è stato dichiarato inammissibile da questa S.C. con sentenza in data 30 marzo 2006 n. 7502. Con sentenza in data 15 novembre 2002 la Corte di appello di Torino, frattanto, aveva ritenuto, sulla base della C.T.U. all'uopo disposta, che con l'atto in data 6 agosto 1980 era stato realizzato un negotium mixtum cum donatione, che, costituendo donazione indiretta, non era soggetto ai requisiti di forma previsti per le donazioni dirette. A questo punto si poneva il problema di individuare la quota di riserva spettante a Maria Caselli in una situazione caratterizzata dal fatto che la legittima nel suo complesso era pari ai due terzi dell'asse ereditario, avendo Lucia Bertolone lasciato due figli superstiti e tre nipoti destinati a subentrare per rappresentazione alla terza figlia, ma questi ultimi non erano venuti alla successione. In sostanza, si trattava di stabilire se la quota pari ai 2/9 in teoria spettante a Enrico, Alberto e Maria Rosa Kiss si doveva accrescere in favore delle altre due quote pari a 2/9 ciascuna spettanti a Maria Caselli e Vincenzo Caselli. La Corte di appello di Torino dava risposta negativa a tale quesito in base alla seguente motivazione. È vero che la mancata accettazione dell'eredità dei nipoti Kiss è venuta ad equivalere ad una rinuncia, ma la quota di legittima che è riservata dalla legge non può essere modificata dalla rinuncia di altri eredi. E questo per una serie di ragioni tra loro autonome. In primo luogo il dato letterale della disposizione normativa. L'art. 537 cc che dispone la riserva a favore dei legittimari parla di figli e non di eredi accettanti. In secondo luogo vale la «ratio» della disposizione normativa. Riservando ai figli una parte del patrimonio la legge ha, per così dire, posto un limite inderogabile alla volontà del testatore, nel senso che gli ha impedito di escludere totalmente il passaggio dei suoi beni ai figli col predeterminare a favore di questi ultimi delle quote minime di riserva. Peraltro la mancata accettazione di un erede non può costituire un ulteriore elemento di coartazione della volontà del testatore. In terzo luogo, se è vero che la mancata accettazione dei nipoti Kiss ha comportato la prescrizione decennale del diritto, tuttavia la prescrizione non può essere rilevata di ufficio. Contro tale decisione, nonché contro la sentenza non definitiva in 6 agosto 2001, Maria Caselli ha proposto ricorso per cassazione, ripetendo, per quanto riguarda la sentenza non definitiva, il motivo del ricorso già proposto contro la stessa sentenza ed investendo con tre motivi la sentenza definitiva. 46 Vincenzo Caselli ha resistito con controricorso ed ha anche proposto ricorso incidentale, con un unico motivo, al quale resiste con controricorso Maria Caselli. Con ordinanza in data 22 aprile 2005 la Seconda sezione civile di questa S.C. ha rimesso gli atti al Primo Presidente al fine di valutare l'opportunità di assegnare la causa alle Sezioni unite, in considerazione del fatto che ai fini della decisione occorre risolvere alcune questioni di particolare rilevanza giuridica, cui la dottrina dà contrastanti soluzioni e che non sono state affrontate ex professo da questa S.C.; in particolare occorre stabilire: a) quale sia il criterio di determinazione della quota di riserva nella ipotesi in cui vi siano più legittimari pretermessi, dei quali uno solo abbia esperito l'azione di riduzione delle disposizioni testamentarie; b) se a tale ipotesi possa ritenersi applicabile l'art. 522 cod. civ. Motivi della decisione Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi. Con l'unico motivo del ricorso principale diretto contro la sentenza non definitiva Maria Caselli censura la motivazione con la quale la Corte di appello di Torino ha escluso che la vendita effettuata in data 6 agosto 1980 da M. Lucia Bertolone a Vincenzo Caselli dissimulasse una donazione nulla per difetto di forma. La doglianza è infondata. La ricorrente in via principale, infatti, da un lato, propone una diversa valutazione delle prove testimoniali rispetto a quella effettuata dai giudici di merito, mentre, invece, ai fini della sussistenza del denunciato vizio di motivazione avrebbe dovuto chiarire come le conclusioni cui la Corte di appello di Torino è pervenuta non siano congruenti, dal punto di vista logico, con il contenuto delle prove testimoniali ritenute attendibili; dall'altro, pretende che assurgano al livello di presunzioni elementi indiziari dal valore probatorio non univoco. Con il primo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva Maria Caselli censura la valutazione del donatum data dai giudici di merito e deduce testualmente. Con riferimento alla sentenza n. 1609/2002 occorre quindi osservare come la Corte di Appello di Torino ha, a sommesso parere dell'esponente, omesso di considerare che l'operazione posta in essere, cioè la vendita a prezzo vile della nuda proprietà dell'immobile, abbia comportato un duplice beneficio in favore del Vincenzo Caselli: uno immediato cioè l'acquisto a prezzo di gran lunga inferiore al reale della nuda proprietà dell'immobile, il secondo differito al momento in cui, con il decesso della de cuius, il Vincenzo sarebbe divenuto nudo proprietario dell'immobile. Per calcolare quindi correttamente il beneficio ricevuto la Corte di Appello avrebbe dovuto relazionare il prezzo pattuito e ritenuto pagato nell'agosto del 1980 al valore della piena proprietà dell'immobile al tempo dell'apertura della successione. La Corte di Appello ha invece effettuato un calcolo aritmetico attraverso il quale viene semplicemente trasposta la percentuale del prezzo asseritamente pagato nel 1980 sul valore della nuda proprietà a quella data per concludere che nella medesima percentuale è da considerare il beneficio ricevuto dal 47 donatario al momento in cui l'usufrutto si consolidò nella nuda proprietà. In realtà sarebbe stato corretto, giusto il disposto della norma di cui all'art. 747 cc in punto momento che deve aversi presente per la valutazione del valore dell'immobile, calcolare il valore della donazione e quindi la quota del bene immobile oggetto di donazione alla data dell'apertura della successione. Poiché nel tempo la svalutazione del denaro e la rivalutazione dei beni immobili in termini di valore nominale non ha andamento sempre coincidente (e poi ogni immobile - bene infungibile per eccellenza - fa storia a sé), e in ogni caso, poiché con la consolidazione dell'usufrutto il beneficio ricevuto dal donatario è individuabile nella piena proprietà del bene, la quota del donatum doveva essere effettuata parametrando il sacrificio economico sopportato dal Caselli Vincenzo (37 ml nel 1980) al beneficio ricevuto all'apertura della successione (ovvero il valore della piena proprietà dell'immobile al tempo dell'apertura della successione). La Corte di Appello di Torino ha invece del tutto omesso detta operazione trasfondendo la percentuale del «pagato» sul valore della nuda proprietà al 1980 alla quota ideale di donazione (e infatti 37,5 ml rappresentano proprio il 22,22% - la Corte ha finito con l'arrotondare a 22,25% - di 168.750.000 valore della nuda proprietà al 1980 secondo il seguente calcolo aritmetico 168.750.000/100 = 1.687.500; 37.500.000/1.687.500 = 22,22). Il Giudice del merito ha quindi concluso che il donatum fosse una quota ideale pari al 77,75% (100-22,25) dell'immobile. Detto criterio di calcolo non tiene in nessun conto il criterio di cui al citato art. 747 c.c. e soprattutto non considera che con il decesso dell'usufruttuaria il donante ha conseguito l'ulteriore beneficio della consolidazione dell'usufrutto. L'esponente aveva proposto invece il seguente diverso criterio di calcolo: somma di 37.500.000; rivalutata al gennaio 1987 pari a L. 76.500.000;=. Detta somma rivalutata rappresenta una percentuale del 12,96% del valore alla stessa data della piena proprietà del compendio immobiliare (590.000.000). Ne derivava quindi che la percentuale del donatum era da individuarsi nell'87,04% e non già nella minore percentuale del 77,75. Anche a non voler condividere detto criterio di calcolo, in ogni caso, il Giudice del merito avrebbe dovuto individuare criteri atti a rapportare, come sopra visto, il presunto sacrificio economico del Caselli Vincenzo al 1980 con il beneficio complessivo da calcolarsi al momento dell'apertura della successione. Il motivo, a prescindere dalla sua teorica fondatezza o meno, è inammissibile, in quanto investe una questione che non risulta trattata nella sentenza impugnata, né viene espressamente denunciata una omessa pronuncia, il che sarebbe stato necessario, in considerazione delle conclusioni che risultano formulate nell'epigrafe della sentenza impugnata. Con il secondo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva Maria Caselli sostiene che nella specie il negotium mixtum cum donatione doveva considerarsi nullo per difetto di forma, in applicazione del criterio della c.d. prevalenza. Il motivo è infondato, alla stregua quantomeno della più recente giurisprudenza di questa S.C., la quale ha affermato che per il negotium mixtum cum donatione non è necessaria la forma dell'atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma 48 dello schema negoziale adottato, senza far menzione del criterio della c.d. prevalenza (cfr. sent. 21 gennaio 2000 n. 642; 10 aprile 1999 n. 3499). Con il terzo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva Maria Caselli ripropone la tesi secondo la quale il mancato esercizio dell'azione di riduzione da parte dei nipoti ex sorore comportava l'accrescimento (anche) in suo favore della quota di legittima agli stessi in teoria spettante. Si tratta del problema con riferimento al quale la causa è stata assegnata a queste Sezioni unite. Questa S.C. ha avuto occasione di affermare che se più sono i legittimari (nell'ambito della categoria dei discendenti) ciascuno ha diritto ad una frazione della quota di riserva e non all'intera quota, o comunque ad una frazione più ampia di quella che gli spetterebbe se tutti gli altri (non) facessero valere il loro diritto (sent. 22 ottobre 1975 n. 3500, 1978 n. 5611). Tale orientamento, peraltro, si pone in implicito contrasto con la giurisprudenza formatasi con riferimento alla ipotesi in cui disponibile e legittima variano in funzione della esistenza di più categorie di legittimari o del numero di legittimari nell'ambito di una stessa categoria. Ad es., in base all'art. 542, primo comma, cod. civ., se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, legittimo o naturale, a quest'ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge; in base all'art. 542, secondo comma, cod. civ., quando, invece, i figli, legittimi o naturali, sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio ed al coniuge spetta un altro quarto. Con riferimento ad entrambe le ipotesi si pone il problema se il mancato esercizio dell'azione di riduzione da parte del coniuge pretermesso comporta che la legittima dell'unico figlio o dei più figli si «espanda», diventando rispettivamente pari alla metà o ai due terzi del patrimonio del de cuius, secondo quanto previsto dall'art. 537, primo e secondo comma, cod. civ. Con riferimento alla ipotesi prevista dal primo comma dell'art. 542 cod. civ. si pone il problema se il mancato esercizio dell'azione di riduzione da parte dell'unico figlio comporta la espansione della legittima del coniuge, in modo da farle raggiungere la misura prevista dall'art. 540, primo comma, cod. civ. Con riferimento, infine all'ipotesi prevista dall'art. 542, secondo comma, cod. civ. si pone il problema se l'esperimento dell'azione di riduzione da parte di uno solo dei figli comporta che la legittima allo stesso spettante debba essere determinata secondo quanto disposto dal primo comma. La giurisprudenza di questa S.C. si è mostrata favorevole alla tesi della c.d. espansione della quota di riserva con riferimento all'ipotesi di mancato 49 esercizio dell'azione di riduzione da parte del coniuge superstite (sent. 26 ottobre 1976 n. 3888; 9 marzo 1987 n. 2434; 11 febbraio 1995 n. 1529). Si è, in proposito, affermato (sent. 9 marzo 1987, cit.) che ... occorre tenere presente che, a norma dell'art. 521 c.c. la rinunzia all'eredità è retroattiva nel senso che l'erede rinunziante si considera come se non fosse mai stato chiamato all'eredità. È dunque impossibile far riferimento alla situazione esistente al momento dell'apertura della successione, dal momento che tale situazione è soggetta a mutare, per effetto di eventuali rinunzie, con effetto retroattivo. È quindi alla situazione concreta che occorre far riferimento, e non a quella teorica, riferita al momento dell'apertura della successione, indipendentemente dalle vicende prodottesi in seguito; devesi dunque far riferimento agli eredi che concretamente concorrono nella ripartizione dell'asse ereditario e non a quelli che in teoria a tale riparto avrebbero potuto partecipare. Tale orientamento è conforme a quanto sostenuto in dottrina, in cui ugualmente si è invocato il principio della retroattività della rinuncia fissato nell'art. 521 c.c. e si è sostenuto che un argomento a favore dello stesso sarebbe desumibile dall'art. 538 cod. civ., che regola la riserva spettante agli ascendenti «se chi muore non lascia figli legittimi», in quanto la norma dovrebbe applicarsi soltanto nel caso in cui l'ereditando non abbia avuto figli o questi siano tutti presenti o assenti; se invece sopravvivessero figli capaci di succedere e tutti rinunziassero, si dovrebbe concludere nel senso che o rimane ferma a beneficio degli ascendenti la quota riservata di due terzi stabilita dall'art. 537, oppure che non sorge alcun diritto di riserva in favore degli ascendenti, conclusioni, l'una e l'altra, evidentemente inammissibili. Si tratta di un orientamento che il collegio ritiene di non poter condividere. Appare, in primo luogo, inopportuno il richiamo agli effetti della rinuncia di uno dei chiamati in tema di successione legittima, secondo quanto previsto dagli artt. 521 e 522 cod. civ., per vari motivi.Nella successione legittima il c.d. effetto retroattivo della rinuncia di uno dei chiamati e il conseguente accrescimento in favore degli accettanti trovano una spiegazione logica nel fatto che, diversamente, non si saprebbe quale dovrebbe essere la sorte della quota del rinunciante. La situazione è ben diversa con riferimento alla c.d. successione necessaria. Il legislatore, infatti, si è preoccupato di far sì che ad ognuno dei legittimari considerati venga garantita una porzione del patrimonio del de cuius anche contro la volontà di quest'ultimo. Mancando una chiamata congiunta ad una quota globalmente considerata con riferimento alla ipotesi di pluralità di riservatari (ed anzi essendo proprio la mancanza di chiamata ereditaria il fondamento della successione necessaria), da un lato, viene a cadere il presupposto logico di un teorico accrescimento, e, dall'altro, non esistono incertezze in ordine alla sorte della quota (in teoria) spettante al legittimario che non eserciti l'azione di riduzione: i donatari o gli eredi o i legatari, infatti, conservano una porzione dei beni del de cuius maggiore di quella di cui quest'ultimo avrebbe potuto disporre. La lettera della legge, poi, costituisce un ostacolo insormontabile per l'adesione alla tesi finora sostenuta in dottrina ed in giurisprudenza. Dalla formulazione 50 degli artt. 537, primo comma («se il genitore lascia»), 538, primo comma («se chi muore non lascia»), 542, primo comma («se chi muore lascia»), 542, secondo comma («quando chi muore lascia»), cod. civ. risulta chiaramente che si deve fare riferimento, ai fini del calcolo della porzione di riserva, alla situazione esistente al momento dell'apertura della successione; non viene preso, invece, in considerazione, a tal fine, l'esperimento dell'azione di riduzione da parte di alcuno soltanto dei legittimari. Mancano, pertanto, le condizioni essenziali (esistenza di una lacuna da colmare e possibilità di applicare il principio ubi eadem ratio ibi eadem legis dispositio) per una estensione in via analogica delle norme in tema di successione legittima. La tesi criticata, poi, sembra in contrasto con la ratio ispiratrice della successione necessaria, che non è solo quella di garantire a determinati parenti una porzione del patrimonio del de cuius, ma anche (come rovescio della medaglia) quella di consentire a quest'ultimo di sapere entro quali limiti, in considerazione della composizione della propria famiglia, può disporre del suo patrimonio in favore di terzi. È evidente che l'esigenza di certezza in questione non verrebbe soddisfatta ove tale quota dovesse essere determinata, successivamente all'apertura della successione, in funzione del numero di legittimari che dovessero esperire l'azione di riduzione. Non possono, poi, essere taciuti gli inconvenienti pratici connessi alla adesione della c.d. espansione della quota di riserva. Occorre, a tal fine, partire dalla considerazione che l'esercizio dell'azione di riduzione è soggetto all'ordinario termine di prescrizione decennale e che non è prevista una actio interrogatoria, al contrario di quanto avviene con riferimento all'accettazione dell'eredità (art. 481 cod. civ.). Ne consegue che all'apertura della successione ogni legittimario può esperire l'azione di riduzione solo con riferimento alla porzione del patrimonio del de cuius che gli spetterebbe in base alla situazione familiare di quest'ultimo a tale momento. Solo dopo la rinunzia all'esercizio dell'azione di riduzione da parte degli altri legittimari o la maturazione della prescrizione in danno degli stessi potrebbe agire per ottenere un supplemento di legittima, con evidente incertezza medio tempore in ordine alla sorte di una quota dei beni di cui il de cuius ha disposto per donazione o per testamento a favore di terzi. Né utili argomenti a favore della tesi criticata possono desumersi dall'art. 538 cod. civ. In primo luogo, nel ragionamento sopra trascritto è incomprensibile il riferimento ad una quota pari a due terzi riservata in favore dagli ascendenti dall'art. 537 cod. civ., dal momento che tale disposizione fa riferimento alla quota riservata ai figli legittimi o naturali. Non si comprende, poi, perché sarebbe inammissibile la conclusione (cui si perverrebbe aderendo alla tesi che il collegio ritiene preferibile) secondo la quale, ove sopravvivessero al de cuius figli legittimi e tutti rinunziassero non sorgerebbe alcun diritto di legittima a favore degli ascendenti. Va, innanzitutto, rilevato che non è chiaro se la rinunzia viene riferita all'accettazione dell'eredità o all'esperimento dell'azione di riduzione. Nel primo caso un problema di tutela degli ascendenti non si porrebbe neppure, in quanto in loro favore si aprirebbe la successione legittima ex art. 569 cod. civ., dovendo i figli legittimi, a seguito della rinunzia all'eredità, 51 considerarsi come mai chiamati alla successione. Nel secondo caso la esclusione della configurabilità di una quota di riserva in favore degli ascendenti sarebbe espressione della scelta del legislatore di garantire il conseguimento di una quota del patrimonio del de cuius solo ai parenti più prossimi (oltre che al coniuge) esistenti al momento dell'apertura della successione. I parenti di grado successivo, che sono considerati come legittimari solo in mancanza di quelli di grado più vicino, pertanto, non possono essere rimessi in corsa in caso di mancato esercizio dell'azione di riduzione da parte di questi ultimi. In definitiva, il legislatore ha considerato iniquo il fatto che il de cuius disponga dell'intero suo patrimonio a favore di estranei nel caso in cui abbia solo discendenti o solo ascendenti; non ha considerato, invece, iniquo il fatto che rimangano fermi gli atti con i quali il de cuius, il quale lasci discendenti e ascendenti, abbia disposto dell'intero suo patrimonio a favore di estranei, nel caso in cui i discendenti (unici legittimari considerati) non esperiscano l'azione di riduzione. Alla luce delle considerazioni svolte si può, pertanto, concludere che ai fini della individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell'ambito della stessa categoria occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell'apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinunzia o prescrizione) dell'azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari. Alla luce delle considerazioni svolte è evidente che anche il terzo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva va rigettato. Con l'unico motivo del ricorso incidentale Vincenzo Caselli si duole del fatto che la Corte di appello di Torino, per quanto riguarda la valutazione dell'immobile oggetto della vendita in data 6 agosto 1980, nella quale è stato individuato un negotium mixtum cum donatione, e la rivalutazione dello stesso al momento dell'apertura della successione, abbia recepito le conclusioni del C.T.U., senza tenere conto delle critiche rivolte all'operato dello stesso. Il motivo è infondato, in quanto non viene specificamente censurata la esattezza dell'elemento decisivo sul quale si sono fondate le valutazioni del C.T.U. recepite dalla sentenza impugnata e cioè i dati compartivi desumibili dal mercato immobiliare per costruzioni similari, in base anche alle concrete risultanze ancora in possesso delle agenzie immobiliari operanti in loco. In definitiva, entrambi i ricorsi vanno rigettati. In considerazione della problematicità della questione con riferimento alla quale il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite di questa S.C., ritiene il collegio che sussistano giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. la Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. 52 CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE - SENTENZA 31 gennaio 2006 n. 2046 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente aggiunto Dott. CORONA Rafaele - rel. Presidente di sezione Dott. DUVA Vittorio - Consigliere Dott. PROTO Vincenzo - Consigliere Dott. PREDEN Roberto - Consigliere Dott. DI NANNI Luigi Francesco - Consigliere Dott. GRAZIADEI Giulio - Consigliere Dott. VIDIRI Guido - Consigliere Dott. CICALA Mario - Consigliere ha pronunciato la seguente: sul ricorso proposto da: C.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 223, presso lo studio dell'avvocato VITO CASTRONUOVO, rappresentato e difeso dagli avvocati ALDINO MICHELE E VINCENZO G.C. PAPALEO, giusta delega in calce al ricorso; - ricorrente contro C.A., L.G.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LUDOVISI 45, presso lo studio dell'avvocato FRANCESCO BONIFACIO, rappresentati e difesi dall'avvocato BONIFACIO CARLO, giusta delega in calce al controricorso; - controricorrenti avverso la sentenza n. 244/1999 della Corte d'Appello di POTENZA, depositata il 28/12/1999; udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 12/01/2006 dal Consigliere Dott. Guido VIDIRI; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per il rigetto del primo motivo, rinvio per il resto ad una sezione semplice. Svolgimento del processo Con citazione 16 novembre 1989, C.N. convenne, davanti al Tribunale di Lagonegro, i coniugi C.A. e L.G. R.. Espose di essere proprietario, in ragione della metà assieme ai convenuti, di un edificio sito in (OMISSIS) via (OMISSIS), e di aver effettuato delle riparazioni alle parti comuni (beneficiando del contributo previsto dalla L. n. 219 del 1981, per i danni subiti dal fabbricato a seguito del sisma del (OMISSIS) e del (OMISSIS)). Domandò la condanna dei convenuti alla restituzione della quota da loro dovuta pari a L. 7.334.737. 53 I convenuti chiesero l'assoluzione da ogni avversa pretesa e il Tribunale, con sentenza 5 dicembre 1995 - 5 gennaio 1996, rigettò la domanda. Decidendo sull'impugnazione principale proposta dal C. e sull'appello incidentale proposto da coniugi C.A. e L.G.R. (limitatamente alle spese), la Corte d'Appello di Potenza, con sentenza 17 novembre - 28 dicembre 1999, respinse ambedue le impugnazioni. Premesso che la legislazione speciale non aveva introdotto nessuna deroga alla disciplina civilistica, concernente il rimborso delle spese per la conservazione delle cose comuni erogate da un proprietario, al condominio costituito da due soli partecipanti si applicava la norma di cui all'art. 1134 cod. civ., che al condomino riconosce il diritto al rimborso soltanto per le spese urgenti, ragion per cui non operava la disposizione dettata in tema di comunione in generale dell'art. 1110 cod. civ., secondo cui il rimborso delle spese per la conservazione era subordinato solamente alla trascuranza degli altri comproprietari. Nel condominio composto da due soli condomini non si applicavano soltanto le disposizioni stabilite dall'art. 1136 cod. civ. relativamente alla costituzione ed alle votazioni in assemblea. Ha proposto ricorso per Cassazione C.; hanno resistito con controricorso C.A. e L.G.R.. Con ordinanza interlocutoria 10 marzo 2004, la Seconda Sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, avendo rilevato un contrasto di giurisprudenza in materia di rimborso delle spese per la conservazione delle cose comuni nel caso di condominio composto da due soli partecipanti (il cosiddetto "condominio minimo"), giacchè dalla Corte Suprema talora era stata affermata l'applicabilità dell'art. 1110 cod. civ. (Cass., Sez. 2^, 18 ottobre 1988, n. 5664), talaltro era stata ritenuta la applicabilità dell'art. 1134 cod. civ. (Cass., Sez. 2^, 26 maggio 1993, n. 5914 e Cass., Sez. 2^, 4 agosto 1997, n. 7181). Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1110 e 1134 cod. civ., poichè erroneamente la sentenza della Corte d'Appello aveva ritenuto applicabile al condominio costituito da due soli partecipanti la disposizione di cui all'art. 1134 cod. civ., anzichè quella prevista dall'art. 1110 c.c., ragion per cui al condomino, che aveva sostenuto le spese necessaire per la conservazione delle cose comuni, doveva riconoscersi il diritto al rimborso alla sola condizione della trascuranza dell'altro partecipante. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione della L. 14 maggio 1981, n. 219, artt. 9, 10, 12 e 14 e successive modificazioni, perchè erroneamente la sentenza impugnata non aveva considerato la deroga alle norme civilistiche apportate dalle norme speciali, con il diritto del condomino di procedere all'esecuzione delle opere, in sostituzione ed a spese del proprietario inadempiente. Con il terzo motivo, infine, il ricorrente censura ancora la violazione delle norme speciali ricordate sopra, che dalla sentenza impugnata non erano state ritenute applicabili a tutti gli immobili danneggiati dal sisma, in ragione dello stato di urgenza dei lavori per adeguare gli edifici alla normativa antisismica, a pena di decadenza dal beneficio del sussidio statale. 2.1.- La questione di diritto, che le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere per 54 decidere la controversia, è se, nel caso di edificio in condominio composto da due soli partecipanti (il cosiddetto "condominio minimo"), il rimborso delle spese per la conservazione delle parti comuni anticipate da un condomino sta regolato dalla norma di cui all'art. 1134 cod. civ., che riconosce il diritto al rimirano soltanto per le spese urgenti; ovvero se, in considerazione della peculiarità della situazione di fatto e di diritto configurata dalla presenza di due soli proprietari, e dalla susseguente inapplicabilità del principio di maggioranza, la fattispecie venga ad essere regolata dalla norma dettata dall'art. 1110 cod. civ. per la comunione in generale, secondo cui il rimborso è subordinato alla mera trascuranza degli altri condomini. Il diverso il regime del rimborso delle spese anticipate dal condomino e dal comproprietario, a seguito della inerzia degli altri partecipanti (o dell'amministratore) - è noto - si fonda sul diverso presupposto oggettivo dell'urgenza e della trascuranza. In materia di condominio negli edifici, il concetto di urgenza, impiegato nell'art. 1134 cod. civ., viene ricavato dal significato proprio della parola, che designa la stretta necessità: la necessità immediata ed impellente. Afferma la giurisprudenza che, ai fini dell'applicabilità dell'art. 1134 cod. civ. concernente il rimborso delle spese per le cose comuni fatte da un condomino, va considerata urgente la spesa, che deve essere eseguita senza ritardo (Cass., Sez. 2^, 26 marzo 2001, n. 4364); la spesa, la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il criterio del buon padre di famiglia (Cass., Sez. 2^, 12 settembre 1980, n. 5256). Trascuranza, invece, significa negligenza, trascuratezza, omessa cura come si dovrebbe. Relativamente alle spese necessarie per la conservazione delle cose comuni, l'art. 1110 cit. riconduce il diritto al rimborso alla semplice inattività (Cass., Sez. 2^, 3 agosto 2001, n. 10738). Il maggior rigore della disciplina in tema di condominio negli edifici rispetto alla comunione dipende dalla diversa utilità dei beni, che formano oggetto dei differenti diritti; l'utilità strumentale per i beni in condominio e l'utilità finale per i beni in comunione. La indivisibilità dei beni in condominio (art. 1119 cod. civ.) dipende dalla utilità strumentale, essendo strettamente legata al godimento delle unità immobiliari. Dalla virtuale perpetuità del condominio deriva l'opportunità che i condomini non interferiscono nella amministrazione delle parti comuni dell'edificio. Dalla normale divisibilità nella comunione, invece, segue che il comunista insoddisfatto dell'altrui inattività, se non vuole chiedere lo scioglimento (art. 1111 cod. civ.), può decidere di provvedere personalmente. 2.2 - L'espressione "condominio" designa il diritto soggettivo di natura reale (la proprietà comune) concernente le parti dell'edificio di uso comune e, ad un tempo, l'organizzazione del gruppo dei condomini, composta essenzialmente dalle figure dell'assemblea e dell'amministratore: organizzazione finalizzata alla gestione delle cose, degli impianti e dei servizi. La specifica fisionomia giuridica del condominio negli edifici - la tipicità, che distingue l'istituto dalla comunione di proprietà in generale e dalle altre formazioni sociali di tipo associativo - si fonda sulla relazione che, nel fabbricato, lega i beni propri e comuni, riflettendosi sui diritti, dei quali i beni formano oggetto (la proprietà esclusiva e il condominio). Le norme dettate 55 dagli artt. 1117, 1139 cod. civ. si applicano all'edificio, nel quale più piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse e un certo numero di cose, impianti e servizi di uso comune sono legati alle unità abitative dalla relazione di accessorietà. L'art. 1117 cod. civ., elencati a titolo esemplificativo talune cose, impianti e servizi di uso comune, stabilisce che "sono oggetto di proprietà comune"... "in genere tutte le parti dell'edificio necessarie per l'uso comune" (n. 1); i locali destinati "per simili servizi in comune" (n. 2); le opere, le istallazioni, i manufatti "di qualunque genere che servono all'uso o al godimento comune". Secondo l'interpretazione consolidata, ai fini della attribuzione del diritto di condominio la norma conferisce rilevanza al collegamento tra le parti comuni e le unità immobiliari in proprietà solitaria: collegamento, che può essere materiale o funzionale. Il primo tipo di legame, consistente nella incorporazione tra entità inscindibili, ovvero nella congiunzione stabile tra entità separabili, si concreta nella necessità delle cose, dei servizi e degli impianti per l'esistenza o per l'uso dei piani o delle porzioni di piano; il secondo si esaurisce nella destinazione funzionale delle parti comuni all'uso o al servizio delle unità immobiliari (tra le tante: Cass., Sez. 2^, 9 giugno 2000, n. 7889). Il collegamento tra beni propri e comuni, consistente nella necessità per l'esistenza o per l'uso, ovvero nella destinazione all'uso o al servizio, si definisce come relazione di accessorietà, perchè l'espressione mette in evidenza, ad un tempo, il legame funzionale e la connessione materiale. Il termine accessorietà, sul piano funzionale, enuncia il difetto di utilità fine a se stessa e la subordinazione strumentale delle parti comuni; esprime, altresì, la connessione materiale, che determina la mancanza di autonomia fisica dei beni comuni rispetto ai beni in proprietà esclusiva e, nondimeno, non esclude la loro perdurante individualità giuridica nell'orbita della incorporazione o della relazione stabile. Il regime del condominio negli edifici - inteso come diritto e come organizzazione - si istaura per legge nel fabbricato, nel quale esistono più piani o porzioni di piano, che appartengono in proprietà esclusiva a persone diverse, ai quali dalla relazione di accessorietà è legato un certo numero di cose, impianti e servizi comuni. Il condominio si costituisce (ex lege) non appena, per qualsivoglia fatto traslativo, i piani o le porzioni di piano del fabbricato vengono ad appartenere a soggetti differenti. Segue che, in un edificio composto da più unità immobiliari appartenenti in proprietà esclusiva a persone diverse, la disciplina delle cose, degli impianti e dei servizi di uso comune, legati ai piani o alle porzioni di piano dalla relazione di accessorietà, sia per quanto riguarda la disposizione sia per ciò che concerne la gestione, è regolata dalle norme sul condominio. In definitiva, l'esistenza del condominio e l'applicabilità delle norme in materia non dipende dal numero delle persone, che ad esso partecipano. Prima di chiudere sul punto, conviene ribadire le ragioni, che determinano la disciplina differente del condominio e della comunione in generale. La ragione di fondo è la diversa utilità dei beni, che formano oggetto del condominio e della comunione: rispettivamente, l'utilità strumentale e l'utilità finale. Le parti comuni dal codice sono considerate beni strumentali al godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva; cose in comunione costituiscono 56 beni autonomi, suscettibili di utilità fine a se stessa e come tali sono considerate. 2.3.- D'altra parte, nessuna norma prevede che le disposizioni dettate per il condominio negli edifici non si applichino al "condominio minimo", composto da due soli proprietari. Per la verità, le due sole norme concernenti il numero dei partecipanti riguardano la nomina dell'amministratore ed il regolamento di condominio (L'art. 1129 cod. civ. fissa l'obbligatorietà della nomina dell'amministratore quando i condomini sono più di quattro; l'art. 1138 prevede che il regolamento di condominio debba essere approvato dall'assemblea quando il numero dei condomini è superiore a dieci). Nessuna norma dettata in materia di condominio contempla il numero minimo (due) dei condomini. Pertanto, se nell'edificio ameno due piani o porzioni di piano appartengono in proprietà solitaria a persone diverse, il condominio - considerato come situazione soggettiva o come organizzazione - sussiste sulla base della relazione di accessorietà tra cose proprie e comuni e, per conseguenza, indipendentemente dal numero dei partecipanti trovano applicazione le norme specificamente previste per il condominio negli edifici. 2.4.- Si contesta l'applicabilità di talune delle norme di organizzazione (artt. 1120, 1121, 1129, 1130, 1131, 1132, 1133, 1135, 1136, 1137, 1138 cod. civ.), specialmente di quelle riguardanti il funzionamento del collegio sulla base del principio di maggioranza. Ciò sulla base dell'asserita inapplicabilità del metodo collegiale e del principio maggioritario in presenza di due soli condomini. Ma non è esatta l'affermazione che l'impossibilità di impiegare il principio maggioritario renda inapplicabili ai condomini minimi le norme procedimentali sul funzionamento dell'assemblea e determini automaticamente il ricorso alle norme sulla comunione in generale (tra le altre: Cass., Sez. n, 30 marzo 2001, n. 4721; Cass., Sez. 2^, 26 maggio 1993, n. 5914; Cass., Sez. U, 6 febbraio 1978, n. 535; Cass., Sez. n, 24 aprile 1975, n. 1604). Nessuna norma contempla l'impossibilità, logica e tecnica, che le decisioni vengano assunte con un criterio diverso da quello maggioritario. In altre parole, nessuna norma impedisce che l'assemblea, nel caso di condominio formato da due soli condomini, si costituisca validamente con la presenza di tutti e due i condomini e all'unanimità decida validamente. Dalla interpretazione logico- sistematica non si ricava la necessità di operare sempre e comunque con il metodo collegiale e con il principio maggioritario, quindi il divieto categorico di decidere con criteri diversi dal principio di maggioranza (per esempio, all'unanimità): si ricava la disciplina per il caso in cui non si possa decidere, a causa della impossibilità pratica di formare la maggioranza: il che vale non soltanto per il condominio minimo. La disposizione dell'art. 1136 cod. civ. è applicabile anche al condominio composto da due soli partecipanti: peraltro, se non si raggiunge l'unanimità e non si decide, poichè la maggioranza non può formarsi in concreto diventa necessario ricorrere all'autorità giudiziaria, siccome previsto ai sensi del collegato disposto degli artt. 1105 e 1139 cod. civ.. L'ipotesi del condominio minimo è del tutto simile ad altre, nelle quali la 57 maggioranza in concreto non si forma. Si pensi al caso del condominio composto da più partecipanti, in cui gli schieramenti opposti si equivalgono e non si determinano maggioranza e minoranza; oppure al caso di un condominio, del pari composto da più partecipanti, in cui un impianto risulti destinato al servizio di due soli condomini, i quali da soli sono chiamati a deliberare sulla gestione. In entrambi i casi, se in concreto la maggioranza non si forma si ricorre all'autorità giudiziaria ex art. 1105 cod. civ. cit.. A fortiori non sussistono ostacoli all'applicazione anche al condominio minimo delle norme concernenti la situazione soggettiva (artt. 1117, 1118, 1119, 1122, 1123, 1124, 1135, 1136, 1137, 1138 cod. civ.) Quindi, nulla osta che nel caso delle spese anticipate da un condomino trovi applicazione l'art. 1134 cod. civ.. Per la verità, il contemperamento di interessi dettato da questa disposizione si fonda sulla relazione di accessorietà tra beni propri e comuni, essendo la disciplina del rimborso delle spese per le cose, gli impianti ed i servizi comuni dell'edificio stabilita in funzione del carattere strumentale di queste parti rispetto al godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà solitaria, avuto riguardo alla necessità che i condomini sulla gestione interferiscano il meno possibile. 2.5.- In conclusione, il condominio si istaura, sul fondamento della relazione di accessorietà tra le cose, gli impianti ed i servizi rispetto ai piani o le porzioni di piano in proprietà solitaria, ogni qual volta nel fabbricato esistono più piani o porzioni di piano in proprietà esclusiva; la relazione di accessorio a principale conferisce all'istituto la fisionomia specifica, per cui si differenzia dalla comunione e dalle altre formazioni sociali di tipo associativo; d'altra parte, nessuna disposizione prevede l'inapplicabilità delle norme concernenti il condominio negli edifici al "condominio minimo", composto da due soli partecipanti, posto che le sole norme in materia concernenti il numero dei condomini riguardano la nomina dell'amministratore e la formazione del regolamento (gli artt. 1129 e 1138 c.c.). Tutto ciò considerato, nel caso di edificio in condominio composto da due soli condomini (il cosiddetto "condominio minimo"), il rimborso delle spese per la conservazione delle parti comuni anticipate da un condomino viene ad essere regolato dalla norma stabilita dall'art. 1134 cod. civ., da cui il diritto al rimborso è riconosciuto soltanto per le spese urgenti: ovverosia, soltanto per le spese impellenti, che devono essere eseguite senza ritardo e la cui erogazione non può essere differita senza danno. Il primo motivo di ricorso deve essere respinto. 3.- Deve essere rigettato, del pari, il secondo motivo, che al primo è strettamente connesso. La L. speciale 14 maggio 1981, n. 219 non deroga affatto alle disposizioni del codice civile in materia di condominio. Al contrario, la L. speciale, art. 12 cpv., ultimo conferma che le deliberazioni collegiali concernenti le opere di ricostruzione o di riparazione devono essere approvate con la maggioranza di cui all'art. 1136 cod. civ., comma 2: in piena conformità, quindi, con quanto dispone in generale lo stesso art. 1136 c.c., comma 4, per la ricostruzione dell'edificio o le riparazioni straordinarie di notevole entità. Allo stesso tempo, le norme concernenti i contributi per la riparazione degli 58 immobili non irrimediabilmente danneggiati riguardano, di regola, i soggetti titolari del diritto di proprietà alla data del sisma (legge citata, art. 10). Peraltro, i contributi per la riparazione previsti in favore del proprietario, a norma della legge citata, art. 11, possono essere assegnati eccezionalmente anche al conduttore o ad altri detentori alla duplice condizione che: a) sia decorso il termine di 90 giorni dalla comunicazione, con lettera raccomandata, che i predetti soggetti sono tenuti a inviare al proprietario, di voler eseguire direttamente le opere necessaria senza che il proprietario abbia presentato al sindaco la prescritta domanda di autorizzazione; b) nel termine di 90 giorni dall'autorizzazione del sindaco, il proprietario non abbia dato inizio ai lavori. Nella specie, nessuna di tali modalità procedimentali si deduce essere stata osservata. 4.- Appare del tutto nuovo e, come tale, inammissibile il terzo motivo di ricorso. E' risaputo che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove e nuovi temi non trattati nella fase di merito. Orbene, non risulta prospettata in appello la doglianza concernente l'urgenza ex se delle opere occorrenti per adeguare l'edificio alla normativa antisismica, posto che in sede di gravame C.N., con il primo motivo aveva lamentato la mancata ammissione della richiesta consulenza tecnica indispensabile per valutare l'applicabilità nella fattispecie della disposizione di cui all'art. 1110 cod. civ. e, con il secondo, aveva censurato l'affermazione circa l'insussistenza della prova relativa alla ultimazione dei lavori. 5.- Rigettato il ricorso, sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese processuali. P. Q. M. La Corte, pronunziando a Sezioni Unite: rigetta il ricorso e compensa le spese. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI ORDINANZA 13 GIUGNO N. 13659 ORDINANZA 13 GIUGNO N. 13660 ORDINANZA 15 GIUGNO 2006, N. 13911 (MOTIVAZIONE CENTRALE IDENTICA) (Presidente Carbone – Relatore Carbone Pg Nardi – difforme – Ricorrente S. ed altri Controricorrente Cooperativa Edilizia Solidarietà Srl) (Omissis) ha pronunciato la seguente ORDINANZA sul ricorso proposto da: S. I., L. M. T., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEGLI SCIALOJA 18, presso lo studio dell'avvocato FEDERICO MAZZETTI, rappresentati e difesi 59 dall'avvocato ANTONINO B0NGI0RN0 GALLEGRA, giusta delega a margine del ricorso; - ricorrente contro COOPERATIVA EDILIZIA SOLIDARIETÀ S.R.L., in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GROTTAROSSA 55, presso lo studio dell'avvocato NICOLINO STELLA, rappresentata e difesa dall'avvocato ACHILLE ALDO OCCHIONERO, giusta delega a margine del controricorso; - controricorrente contro COMUNE DI LAVAGNA, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell'avvocato ALESSIO PETRETTI, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato ANTONIO GRIFFI, giusta delega a margine del controricorso; - controricorrente per regolamento preventivo di giurisdizione in relazione al giudizio pendente n. 214/03 del Tribunale di CHIAVARI; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 24/11/05 dal Consigliere Dott. Enrico ALTIERI; lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo NARDI il quale, visto l'art. 375 c.p.c, chiede che la Corte di Cassazione, a sezioni unite, dichiari il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. §1. Svolgimento del processo Con citazione notificata il 24 gennaio 2003 I. S. e M. T. L. convenivano in giudizio dinanzi al tribunale di Chiavari il Comune di Lavagna e la cooperativa edilizia Solidarietà a r.l. Premesso che erano proprietari di un fabbricato ad uso officina in Lavagna; che il sindaco del Comune, con ordinanza n. 697 del 6 novembre 1987, aveva disposto, nell'ambito di un PEEP, lo sgombero e la demolizione del locale, e che il provvedimento veniva eseguito dalla delegata cooperativa Solidarietà; che tali provvedimenti venivano annullati con decisione del t.a.r. Liguria del 14 dicembre 1993, sulla considerazione che una parte dell'immobile non era contemplata nel procedimento di attuazione del PEEP, e che alla prima occupazione d'urgenza non era seguita la presa di possesso del bene; che il Consiglio di Stato, con la decisione in data 28 febbraio 2002, passata in giudicato, aveva confermato tale sentenza; chiedevano che i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni cagionati dal comportamento dell'amministrazione, non più sostenuto da alcun valido provvedimento. Costituitisi in giudizio, i convenuti eccepivano il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sostenendo che la fattispecie rientrerebbe nell'ipotesi di cui all'art. 34 del d.l.vo n. 80 del 1998, il quale attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di edilizia e di urbanistica. Gli attori hanno, quindi, proposto ricorso per regolamento di giurisdizione, al quale hanno resistito con controricorso il Comune e la cooperativa Solidarietà. § 2. Le ragioni svolte dalle parti sulla questione di giurisdizione 60 2.1. I ricorrenti sostengono che la controversia è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto: a) il PEEP, sul quale si basa parte della procedura espropriativa, è stato annullato con decreto del Presidente della Repubblica; b) in ogni caso, parte del fabbricato era stato demolito dalla cooperativa al di fuori delle previsioni del PEEP; e) che, conseguentemente, la fattispecie deve essere inquadrata nei termini della ed. occupazione appropriativa, e non di danno da provvedimento illegittimo, ipotesi in cui sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art.35, comma 4°, della legge 21 luglio 2000, n. 205. 2.2. I controricorrenti sostengono che la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo per le seguenti considerazioni: 1. con deliberazione della Giunta Provinciale è stata disposta l'espropriazione dell'area sulla quale si trovava il fabbricato demolito. Tale provvedimento, come pure gli atti propedeutici, non è stato impugnato dagli interessati, che si sono limitati a proporre opposizione alla stima, il cui giudizio è ancora pendente; 2. l'ordinanza di sgombero veniva annullata dal Consiglio di Stato perché non era stata ritenuta precisa la descrizione dell'immobile ivi contenuta; e) la dichiarazione di pubblica utilità esiste perché contenuta nel PEEP, atto che non è stato impugnato dai ricorrenti; d) il giudizio è stato introdotto nella vigenza della legge 21 luglio 2000, n. 205, il cui art. 7, comma 3°, lett.jb;, che ha sostituito l'art. 34, 1° e 2° comma, del d.l.vo 31 marzo 1998, n. 80, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni .pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati in materia urbanistica ed edilizia; tale materia concerne tutti gli aspetti dell'uso del territorio; 5. l'accertata illegittimità del provvedimento di sgombero e di demolizione non inficia il procedimento espropriativi per cui non può trattarsi, né di occupazione usurpativa, né di occupazione appropriativa, in quanto l'immobile non incorpora un'opera pubblica, costituendo area acquisita per l'utilizzo dell'indice di fabbricabilità; 6. l'accertata illegittimità dell'ordinanza potrebbe, al più, portare al risarcimento del danno da atto illegittimo e la relativa domanda deve essere proposta dinanzi al giudice amministrativo, che ha giurisdizione esclusiva ai sensi dell'art. 35, 4° e 5° comma, del d.l.vo n. 80 del 1998, così come sostituito dall'art. 7, comma 3°, della legge n. 205 del 2000. §3. Motivi della decisione 3.1. Le Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di giurisdizione in tema di responsabilità civile della p.a. connessa ad attività provvedimentale. L'argomento, a partire dal D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ha dato origine, com'è noto, ad un vasto dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, in particolare dopo le decisioni di parziale illegittimità costituzionale pronunciate dal giudice delle leggi con le sentenze 6 luglio 2004 n. 204 e 28 luglio 2004 n. 281, sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione alla 61 legge 21 luglio 2000, n. 205 ("'Disposizioni in materia di giustizia amministrativa"): decisioni alle quali si è di recente aggiunta la sentenza 3 maggio 2006 n. 191, con cui è stato dichiarato in parte illegittimo l'art. 53, comma 1, del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 327 ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazioni per pubblica utilità"). Orbene, due sono gli aspetti di questo tema, cui le sezioni unite sono chiamate a dare risposta: come, dopo la legge 205 del 2000, è ripartita tra giudice ordinario e giudice amministrativo la tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della p.a. da attività provvedimentale illegittima; se la parte si può limitare a chiedere il risarcimento del danno, senza dover anche chiedere l'annullamento e quale sia il regime di tale diversa forma di tutela giurisdizionale, una volta che la si ammetta. E, per una corretta impostazione del problema - sia sulle modifiche del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, intervenute negli anni dal 1992 al 2000, sia sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 33, commi 1 e 2, e 34, comma 1, d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come novellati dall'art. 7 1. 21 luglio 2000, n. 205 - è opportuno prendere l'avvio dalle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, nella sentenza 204, sui lavori preparatori della Costituzione. 3.2. In quella sede, come ha osservato la Corte, si ribadì l' indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della l. 20 marzo 1865, n. 2248, ali. E", ispirati al principio dell'unità della giurisdizione, ma vi emerse il contrasto tra la tesi - perdente - a favore del giudice unico ("l'esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari") e quella vincente, per il mantenimento di giudici diversi da quelli ordinari, quali Consiglio di Stato e Corte dei conti ("una divisione dei vari ordini di giudici . . . ognuno dei quali fa parte a sé"). La regola tradizionale del riparto della giurisdizione - se si tratta di diritti soggettivi la giurisdizione è del giudice ordinario, se é fatto valere un interesse legittimo la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo - trova il proprio antecedente storico e logico negli artt. 2 e 4 1. 20 marzo 1865, n. 2248, ali. E, tuttora vigenti. Se la legge è uguale per tutti, anche per la p.a., il cittadino che ha subito un pregiudizio ad un suo diritto può rivolgersi al giudice ordinario e il giudice si limiterà a conoscere gli effetti dannosi dell'atto amministrativo, senza sindacare le scelte discrezionali, del tutto autonome, della p.a. La legge del 1865 realizza così il principio dell'unità della giurisdizione, ma questa regola si rivelerà non idonea ad assicurare una tutela adeguata al cittadino, sia per la grande quantità di controversie che la legge abolitiva del contenzioso riservava all'autorità amministrativa, così sottraendola al sindacato giurisdizionale, sia per una certa timidezza del giudice ordinario nel dare applicazione ai principi sanciti dall'allegato E della legge del 1865. È in questa situazione che, nel 1889, si registra la scelta per l'introduzione del sindacato sugli atti amministrativi da parte di un organo consultivo, il Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale viene poi esplicitamente affermata con la legge n. 642 del 1907 istitutiva della V Sezione del Consiglio di Stato. 62 L'area delle situazioni tutelabili davanti a un giudice è in tal modo ampliata. L'assetto così realizzato trova conferma nel t.u 26 giugno 1924, n. 1054 sul Consiglio di Stato. Questo assetto non viene d'altro canto inciso dalla introduzione della "giurisdizione esclusiva". La giurisdizione sui diritti è devoluta al Consiglio di Stato in casi tassativamente enumerati, a conferma della regola generale posta alla base del riparto. Si tratta di una giurisdizione esclusiva, obiettivamente diversa, allora, da quella voluta dal legislatore in questi ultimi anni. Limitata a pochi "casi di confine", la sua introduzione è spiegata con la difficoltà di distinguere nell'aggrovigliato intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi, anche se la sua introduzione stava ad indicare un chiaro recupero della logica propria del contenzioso amministrativo abolito nel 1865. Tale è l'assetto cristallizzato nella Costituzione del 1948, che all'art. 24 dà riconoscimento sostanziale alla tutela sia del diritto soggettivo che dell'interesse legittimo e mentre all'art. 103, primo comma, limita la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di diritti soggettivi alle "particolari materie" indicate dalla legge, nell'art. 113 rimette alla legge di indicare il giudice che può annullare l'atto amministrativo e le conseguenze dell'annullamento. Questo assetto continua a riflettersi nella legislazione successiva, sino al d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80. Invero, come nei nove "particolari" casi enucleati nell'art. 8 r.d. 30 settembre 1923, n. 2840 (ribaditi negli artt. 29 del t.u. 1054 del 1924 e 7 della l. 1034 del 1971) così in quelli successivamente introdotti (tra gli altri: art.11 l. 1185/1967; art. 16 l. 10/1977; art. 35 1. 47/1985; art. 11 l. 210/1985; artt. 11 e 15 l. 241/1990; art. 33.1. l.287/1990; art. 7.11. d.lgs. 74/1992; art.4.7. 1. 109/1994; art. 2.25. l. 481/1995; art. 1.26. l. 249/1997), sono sempre rimaste riservate al giudice ordinario le questioni attinenti ai diritti patrimoniali conseguenziali, compreso il risarcimento del danno. Ma, vale la pena dì notarlo, è in questo assetto normativo che la giurisprudenza ha nel tempo elaborato, e con costanza applicato, i principi dell'irrisarcibilità dell' interesse legittimo, della degradazione del diritto ad interesse e della pregiudizialità amministrativa. Sicché non sarà senza ragione, se questo assetto normativo ed il bagaglio dei concetti che sono valsi a dargli spiegazione, apparirà richiedere modifiche, una volta che si affermerà, con il d. lgs. SO del 1998, la contraria regola della risarcibilità dell'interesse legittimo. 3.3. Facendo un passo indietro e tornando al riparto delle giurisdizioni, va detto che il dibattito restava aperto, non tanto sull'ubi consistam del riparto, non più contestato, quanto sull'esatta individuazione dei rispettivi territori, dei diritti e degli interessi, che non vivevano in mondi separati, poiché gli uni e gli altri costellavano il rapporto tra privato e p.a., vagando da un rapporto di coesistenza ad uno di successione, in situazioni dal confine incerto, a volte dubbio, di "facile trapasso" (Cass., sez. un., 5 dicembre 1987 n. 9095 e 9096). Il sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. I, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzio- 63 nalità, poi disattese (Corte cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni). A metterlo in crisi sono stati i principi comunitàri in tema di appalti pubblici di lavori o forniture. L'introduzione di una fattispecie di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del diritto comunitario, viene alla luce con l'art. 13 1. 19 febbraio 1992, n. 142 (legge comunitaria del 1991). In attuazione della direttiva del consiglio Ce n. 665/89 del 21 dicembre 1989, si riconosceva, in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, la possibilità di ottenere, dopo L'annullamento dell'atto lesivo da parte del giudice amministrativo, il risarcimento del danno dal giudice ordinario. Tuttavia, l'itinerario da percorrere apparve subito particolarmente gravoso, in quanto si obbligava il privato ad adire prima il giudice amministrativo per l'annullamento e, poi, il giudice ordinario per il risarcimento del danno, così mettendo in discussione il principio di effettività della tutela giurisdizional/e sancito dall'art. 24 della Costituzione. Il legislatore italiano, in un primo tempo, estese la norma anche agli appalti dei settori esclusi (art. 11 l. 19 dicembre 1992, n. 489) e poi agli appalti di servizi (art. 11, lett. i) , l. 22 febbraio 1994, n. 146: legge comunitaria per il 1993), ma, per negare la valenza dirompente sul precedente riparto, si preferì considerarla una norma di settore e non di portata generale" (Cass., sez. un., 20 aprile 1994 n. 3732). Di qui un deciso cambiamento di rotta con la soppressione del richiamo dell'art. 13 della legge 142 del 1992 contenuto nel terzo comma dell'art. 32 l. 11 febbraio 1994, n. 109, per effetto della novella introdotta dal d.l. 3 aprile 1995, n. 101, convertito con modifiche nella l. 2 giugno 1995, n. 216. La rivoluzionaria disposizione" è stata infine espressamente abrogata dall'ultimo comma dell'art. 35 d. lgs. 80 del 1998 (divenuto ultimo comma dell'art. 7 1. 205 del 2000), insieme con ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi". Si può dunque dire, per un verso, che la disposizione introdotta con la l. 142 del 1992 ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perché la Corte costituzionale sìa stata indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell'art. 24 della Costituzione. 3.4. È nel quadro sino ad ora descritto che il legislatore di fine secolo introduce una nuova specie di giurisdizione esclusiva, separata anche dalla giurisdizione di legittimità e ancorata a "settori" dell'ordinamento pubblico, con rilevante presenza di un pubblico interesse. Il Governo con il d. lgs. 80 del 1998 - anche superando i limiti della delega conferita dall'art. 11, comma 4, lett. g), l. 15 marzo 1997, n. 59 - e, dopo la dichiarazione di incostituzionalità (Corte cost., 17 luglio 2000, n. 292), il Parlamento con la 1. 205 del 2000, attribuiscono i ''settori particolari" degli appalti e servizi pubblici nonché dell'edilizia e urbanistica ad una "nuova*' giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa anche ai diritti patrimoniali conseguenzialì e al risarcimento del danno. 64 Il legislatore, inoltre, estende la nuova giurisdizione non solo alle vecchie ipotesi di "servizi pubblici, edilizia ed urbanistica", ma a qualsiasi fattispecie di giurisdizione esclusiva vecchia o nuova. Si porta a compimento l'indirizzo che vede nella giurisdizione esclusiva "il ramo più fertile e cioè più proiettato nel futuro della giurisdizione amministrativa ". Nel contempo, la risarcibilità dell'interesse legittimo, già prevista dal d. lgs. 80 del 1998 (ma ricondotta dalle sentenze della Corte costituzionale 292 del 2000 e 281 del 2004 nei limiti della delega conferita con la 1. 59 del 1997) è estesa all'intero ambito delle situazioni giuridiche giustiziabili davanti al giudice amministrativo. 3.5. In conclusione, l'ordinamento ha ora accolto il principio della risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo in conseguenza dell'illegittimità dell'atto amministrativo, prevedendo - in attuazione della regola della concentrazione che il giudice amministrativo può conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e disporlo. 3.6. Il tessuto normativo che è alla base della soluzione da adottare si può così sintetizzare. L'art. 35 del d. lgs. 80 del 1998, come sostituito dall'art. 7, lettera e), della legge 205 del 2000, nel comma 1 stabilisce che "Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto". Il citato articolo, nel comma 4 (sostituendo il primo periodo del terzo comma dell'art. 7 della legge n. 1034 del 1971), prevede che "Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizio-ne, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali". A sua volta, il comma 2 disciplina le modalità di determinazione della somma dovuta, disponendo che " . . il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dall'art. 27, primo comma, numero 4), del testo unico approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, può essere chiesta la determinazione della somma dovuta." 3.7. La dichiarazione di incostituzionalità non ha colpito la normativa appena ricordata; ha invece riguardato l'art. 7 della l. 205 del 2000 per la mancata esclusione dall'ambito della giurisdizione esclusiva delle controversie "nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione-autorità", con il ritorno alla dicotomia "diritti soggettivi - interessi legittimi", ripudiando il diverso criterio dei "blocchi di materie" che mirava a trasformare il giudice amministrativo nel "giudice dell' amministrazione". Si afferma in proposito che la giurisdizione esclusiva introdotta dalla l. 205 del 2000 appare configgere con i parametri costituzionali ed è qualitativamente diversa dalla precedente, che riguardava specifiche controversie "connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensì dall'intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi". 65 Si precisa che l'adozione, da parte del legislatore del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva, ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse, avrebbe presupposto la modifica dell'art. 103 Cosf. , mai approvata, nel senso che "la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge" (Atto Camera 7465, XIII Legislatura). Viceversa, il vigente art. 103, comma 1, Cost. non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare «particolari materie», nelle quali, «la tutela nei confronti della pubblica amministrazione» investe «anche» diritti soggettivi". Il collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive è espresso dall'art. 103 Cost. laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle già devolute alla giurisdizione generale di legittimità, in cui la p.a. agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo. In conclusione, il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva, ma con riguardo a "materie particolari" in cui la giurisdizione naturale sugli interessi attrae la cognizione dei diritti concorrenti e strettamente connessi. Ciò comporta che la mera partecipazione della p.a. al giudizio non è sufficiente per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo - "il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice «della» pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost." - e, inoltre, non è sufficiente "il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo". Sono, pertanto, sottratte alla funzione unificante della Corte di cassazione le sole pronunce che investano i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della "particolarità" della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario abbia legittimamente previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo su diritti e interessi, nonché quelle che riguardano le forme di tutela che il giudice amministrativo ritenga di accordare all'interesse legittimo. 3.8. Si tornerà sulle conseguenze che, dalle precedenti affermazioni di principio, la Corte ha tratto a proposito del modo in cui il legislatore ha configurato le materie di giurisdizione esclusiva delineate negli artt. 33 e 34 del d. lgs. 80 del 1998 modificati dalla l. 205 del 2000: punto sul quale la Corte si è ancora soffermata nella sentenza 191 del 2006 a proposito del ruolo che, nel campo dell'espropriazione, assumono comportamenti volti alla anticipata realizzazione di opere, pur sempre dichiarate di pubblica utilità. 3.9. Qui interessa soffermarsi sul punto che la dichiarazione di incostituzionalità non ha investito le disposizioni contenute nell'art. 35 del d. lgs, 80 come riformulate dall'art. 7, lett. e), della l. 205 del 2000. La Corte ha osservato che "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova «materia» attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, 66 rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione". Su questa parte della motivazione della sentenza 204, la Corte è tornata nella sentenza 191 di questo anno. Ha in particolare considerato come sia da escludere che "per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario": ed ha osservato che dove la legge - come fa l'art. 35 del d. lgs. n. 80 del 1998 - costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone - come è stato detto il carattere «rimediale», essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli". In altri termini" - ha osservato la Corte - al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario «le controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi» (così l'art, 35, comma 5, del d. lgs. n. 80 del 1998, come modificato dell'art. 7, lett. e della legge n. 205 del 2000) il legislatore ha sostituito (appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione". 13.10. Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa è valso a rendere intelligibile quale si debba oggi considerare il punto d'arrivo nella ricerca della soluzione del primo degli aspetti segnalati all'inizio, ovverosia in base a quali criteri si trovi oggi ad essere stabilito il riparto tra le giurisdizioni. Rilevano a questo fine due momenti ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino considerata nel suo aspetto statico e gli effetti che l'ordinamento ricollega all'azione amministrativa una volta che questa sia esercitata. La tutela giurisdizionale contro l'agire illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte l'azione della pubblica amministrazione non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perché a sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto. A questo fine, si ritiene che vada richiamato il principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 204 del 2000, secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo secondo le forme tipiche previste dall'ordinamento: ciò sia nella giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di annullamento. Il che non si verifica quando l'amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l'operare del soggetto pubblico sia ascrivibile 67 a mera attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che l'esercizio del potere non sia riconoscibile neppure come indiretto ascendente della vicenda. Esemplificando, l'amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in cui l'azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29 luglio 1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l'integrità personale. Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del patrimonio del privato sia l'effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri, ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719): qui si è nell'ambito delle controversie meramente risarcitorie già contemplate nell'art. 33, comma 2, d. lgs, 80 del 1998, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la sentenza 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è ravvisabile, più in generale, la reazione a meri comportamenti lesivi dell'amministrazione. Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione ordinaria le forme di occupazione "usurpativa", caratterizzate dal tratto, che la trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità manca affatto. E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a bene, la cui destinazione ad opera di pubblica utilità la si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta scadenza del suo termine d'efficacia. Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta come interesse legittimo, la tutela risarcitoria ne va chiesta al giudice amministrativo. Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si rinviene nella circostanza che oggetto della domanda non è l'annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno. Riconducibili alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio. Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all'esercizio del potere e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo (Ad. pi. 15 settembre 2005 n. 7), non di un diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione, quella valutata dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti l'accesso al giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si considera che ad attrarre la fattispecie nell'orbita della sua giurisdizione possa valere la presenza di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel 68 potere, in particolare, che si è manifestato nella dichiarazione dì pubblica utilità. 3.11. Resta da affrontare quello che all'inizio si è indicato come secondo aspetto problematico della tutela del cittadino di fronte all'attività provvedimentale illegittima della pubblica amministrazione, ovverosia la possibilità di domandare la sola tutela risarci toria. Da quando nell'ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse legittimo, è emerso il tema se il privato si possa limitare a rivendicare per il diritto o l'interesse leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di tale domanda. 3.12, Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul punto due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro. Secondo una prima, più diffusa opinione, "tutta amministrativa", il d. lgs. 80 del 1998 e la l. 205 del 2000 avrebbero attribuito, in via generale, al giudice amministrativo la cognizione delle pretese di risarcimento del danno da atti illegittimi della p.a., in sede di giurisdizione esclusiva (in virtù del comma 1 dell'art. 35) o di legittimità (in virtù del comma 4), che entrambe hanno ora assunto il connotato di giurisdizione "piena". In tal senso è apparso orientarsi il Consiglio di Stato, secondo cui la ratio della riforma iniziata con il d.lgs. 80 del 1998 e completata con la legge 205 del 2000 è stata quella di concentrare davanti ad un unico giudice, quello amministrativo, in coerenza con l'art. 24 Cost., ogni forma di tutela, anche risarcitola, nei confronti della p.a., quando viene in gioco la lesione di interessi legittimi (Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002 n. 3338/ Ad. plen. 26 marzo 2003 n. 4/ Ad plen, 30 agosto 2005 n. 8). In particolare, alcune pronunce (Ad plen. 4 del 2003) hanno fatto propria la tesi per cui le norme richiamate avrebbero previsto, come necessaria condizione per l'accesso alla tutela risarcitoria, che nel termine di decadenza per l'impugnazione fosse anche esperita con esito favorevole l'azione di annullamento, ancorché la tutela risarcitoria possa essere richiesta non insieme, ma successivamente. Ciò in ragione del principio della ed. pregiudiziale amministrativa. L'annullamento avrebbe dovuto essere richiesto in via principale nel termine di decadenza, perché al giudice amministrativo non è consentita la cognizione incidentale della illegittimità degli atti amministrativi né esso è munito del potere di disapplicazione. Consegue che, se la tutela di annullamento non è richiesta nel termine per l'impugnazione del provvedimento, questo diviene inoppugnabile, precludendo l'accesso non solo alla tutela risarcitoria erogabile dal giudice amministrativo, ma anche a quella che potesse essere chiesta al giudice ordinario, facendo valere l'atto illegittimo come elemento costitutivo dell'illecito civile (secondo la sent. 500 del 1999 delle S.U.). Il Consiglio di Stato aveva peraltro ammesso che l'azione risarcitoria potesse essere proposta in taluni casi davanti al giudice amministrativo come domanda autonoma (Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2002 n. 3338) . E ciò, oltre che nei casi di danno da ritardo, in quelli in cui l'annullamento del provvedimento vi sia già stato, ad opera dello stesso giudice amministrativo 69 (ad esempio in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena") od a seguito di annullamento su ricorso amministrativo o straordinario o di annullamento di ufficio. Nello scenario così delineato, la giurisdizione del giudice amministrativo sulle pretese risarcitorie del cittadino che si assume leso in una posizione giuridica sostanziale (di diritto o di interesse legittimo) dall' esercizio illegittimo della funzione amministrativa non dovrebbe concorrere con una, sia pur residuale, giurisdizione del giudice ordinario. Ovvio che il giudice amministrativo, nato come giudice dell'atto e non del rapporto, avrà non poche difficoltà a distinguere il danno specie sotto il profilo della determinazione del quantum del danno risarcibile: dovrà mutuare le regole civi-listiche sul concetto stesso di danno come fatto, sul nesso di causalità, anche ipotetico (si pensi all'art. 1221 ce), sui criteri di valutazione ex art. 1223, 1225, 1226, 1227 co 1 (concorso di cause) e co. 2 (danni evitabili con l'ordinaria diligenza) ce. Una diversa ricostruzione, "tutta civilistica", è stata prospettata da parte della dottrina, muovendo dai principi affermati dalla sent. 500 del 1999 delle S.U. Punto di partenza ne è la qualificazione della pretesa risarcitoria come diritto soggettivo, sia nei confronti del privato che della p.a., in una concezione che nega rilevanza ai successivi interventi normativi, i quali non potrebbero scalfire, con il mero collegamento processuale, la tutela sostanziale riconosciuta al diritto soggettivo, nei confronti di chiunque azionato. Si è mossi dalla considerazione che, secondo la Corte costituzionale, il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova «materia» attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo) , da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della p.a.". Il profilo di connessione processuale non avrebe escluso tuttavia che la tutela sia apprestata ad una posizione sostanziale avente natura di diritto soggettivo: il diritto al risarcimento del danno ingiusto. Il danno ingiusto, determinato dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (sia esso diritto soggettivo o interesse legittimo: sent. 500 del 1999), sarebbe fonte di una obbligazione di risarcimento (ex art. 2043 ce. o ex art. 1218 ce. secondo il possibile diverso atteggiarsi della responsabilità della p.a.) mentre la parte che chiede il risarcimento aziona sempre un diritto soggettivo. La sentenza 204 del 2004 della Corte costituzionale avrebbe, quindi, solo negato che il novellato art. 35 abbia istituito una nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo avente ad oggetto il diritto al risarcimento del danno. Il punto rilevante, nella decisione della Corte, sarebbe stato là dove si è rilevato che l'attribuzione dell'ulteriore strumento della tutela risarcitoria, venuto ad aggiungersi a quello classico della tutela di annullamento, è valsa a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo, in attuazione del precetto dell'art. 24 Cost., come giurisdizione atta a garantire piena ed effettiva tutela alle situazioni soggettive ad essa devolute, per evitare al cittadino di doversi rivolgere a due diversi ordini di giudici, cioè a quello amministrativo per conseguire prima l'annullamento e poi a quello ordinario 70 per ottenere il risarcimento del danno, come diritto patrimoniale consequenziale. E' stato messo in dubbio che la Corte abbia inteso riferirsi soltanto alla giurisdizione esclusiva (art. 35, comma 1), ovvero anche a quella generale di legittimità (art. 35, comma 4), ma si è considerato corretto attribuire ampia valenza alla ravvisata estensione dei poteri del g.a. in entrambe le giurisdizioni, che risultano quindi connotate da pienezza. La Corte non si sarebbe peraltro in alcun modo espressa sulla natura del risarcimento del danno. Se, quindi, si tiene ferma la qualificazione del diritto al risarcimento del danno ingiusto come diritto soggettivo, resterebbe valido il principio di ordine generale secondo cui il giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario (art. 2 della l.a.c.a). Di qui la conseguenza che il giudice della tutela risarcitoria sarebbe stato, di regola, il giudice ordinario. A questa regola l'art. 35, commi 1 e 4, avrebbe apportato deroga (secondo il criterio della connessione), col consentire che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, possa disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto e che nell'esercizio della sua giurisdizione (di legittimità) possa conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Non sarebbe stato tuttavia corretto sostenere che si tratti di una concentrazione necessaria, con attrazione inscindibile della tutela risarcitoria al seguito di quella di annullamento, in presenza di un atto amministrativo da impugnare. La concentrazione sarebbe infatti funzionale, in termini di pienezza ed effettività della tutela, alle esigenze del cittadino che chiede giustizia nei confronti della p.a., e pertanto non la si potrebbe ritenere doverosa e tale da dover essere praticata come unica via esclusiva. Né, d'altra parte, sarebbe desumibile dal testo normativo - così come interpretato costituzionalmente - che al riconoscimento, in positivo, al giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto (comma 1) e di conoscere delle questioni relative all'eventuale risarcimento del danno (comma 4), si unisca, in negativo, la totale sottrazione di eguale potere al giudice ordinario. Il giudice amministrativo avrebbe potuto conoscere di questioni relative al risarcimento del danno e, cioè, di questioni attinenti ad un diritto soggettivo la cui cognizione è di regola attribuita al giudice ordinario, nel caso in cui il cittadino si fosse avvalso della facoltà di richiedere a tale giudice la tutela risarcitoria congiuntamente a quella di annullamento. In questa ipotesi, come è stato osservato, le norme in esame realizzerebbero una deroga alla giurisdizione per ragioni di connessione. Si è ancora notato che la prevista concentrazione troverebbe giustificazione nel tipo di tutela che, oltre a quella di annullamento, il giudice amministrativo può somministrare: una "tutela ulteriore" che è di completamento rispetto a quella primaria della quale postula l'esito positivo, nel senso che serve a rimuovere i pregiudizi che l'annullamento non ha potuto eliminare. 71 E' per effetto della dipendenza della tutela ulteriore da quella di annullamento che il giudice amministrativo può prendere in esame questioni relative al risarcimento (ed agli altri diritti patrimoniali consequenziali) solo se gli è richiesto e ritiene di concedere l'annullamento dell'atto lesivo. Quanto alle conseguenze della omessa richiesta della tutela di annullamento nel termine di decadenza, con conseguente inoppugnabilità dell'atto, si è rilevato che la decadenza preclude la via della tutela di annullamento e, di conseguenza, della tutela risarei-toria di completamento (da erogare nelle peculiari forme di cui all'art. 35, comma 2) . Non sarebbe invece precluso il ricorso alla sola tutela risarcitoria. Si è rilevato, infatti, che in un sistema in cui al cittadino sono riconosciuti sia la tutela di annullamento, sia quella risarcitoria (e questa nella duplice connotazione di tutela di completamento che al g.a. è dato somministrare ex art, 35, comma 2, e di tutela risarcitoria secondo le regole del diritto civile), non necessariamente le due forme di tutela debbono essere spese entrambe. Se il danneggiato dall'esercizio illegittimo del potere amministrativo non si vuole avvalere, non avendone interesse, della tutela costitutiva di annullamento del provvedimento lesivo della sua posizione giuridica sostanziale, ma ritiene, invece, conforme al suo concreto interesse avvalersi della sola tutela risarcitoria, potrà farlo, in via autonoma, davanti al giudice ordinario. Quest'ultimo non dovrà giudicare in via incidentale della legittimità dell'atto, in funzione della sua disapplicazione (art. 4, comma 1, l.a.c.a.), ma dovrà valutare il provvedimento solo come fatto, come elemento costitutivo dell'illecito. Non si porrebbe un problema di pregiudizialità in senso tecnico, poiché tale problema si poneva solo quando, prima della sentenza n. 500 del 1999, era necessario attendere l'annullamento per poter risarcire il danno arrecato dal sacrificio di situazioni di diritto degradato ad interesse. Una volta riconosciuto che la lesione dell'interesse protetto obbliga anche la p.a. al risarcimento del danno, è venuto meno il nesso di dipendenza della risarcibilità dal previo annullamento dell'atto. Nelle ipotesi in cui l'annullamento non fosse stato chiesto, potrebbe eventualmente porsi un problema attinente al merito della decisione, sotto il profilo se nel danno risarcibile rientri la situazione determinata dal provvedimento di cui non si sia voluto do-mandare l'annullamento. Nelle ipotesi in cui l'annullamento sia stato già disposto dallo stesso giudice amministrativo (in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena"), a seguito di ricorso straordinario, o d'ufficio, ovvero nel caso in cui manchi l'atto, come avviene per il danno da ritardo, si sarebbe potuto egualmente adire per la tutela ri-sarcitoria il giudice ordinario, poiché l'estensione della cognizione del giudice amministrativo alle questioni relative al risarcimento postula che la relativa tutela sia stata richiesta congiuntamente a quella di annullamento. 3.13. La sopravvenuta decisione della Corte costituzionale spiana la strada e indirizza la scelta verso la concentrazione della tutela risarcitoria presso il giudice amministrativo, ma lascia impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria. 3.14. Le Sezioni unite - nell'esercizio della funzione di riparto della giurisdizione (artt. 31, 41, 360 n. 1, 362 c.p.c; art. 37, secondo comma, L. 11 72 marzo 1953, n. 87) ad esse attribuito dal nuovo codice di rito (dopo la soppressione del Tribunale dei conflitti, istituito con L. 31 marzo 1877, n. 3761, ed. legge Mancini-Peruzzi) - ritengono che sia necessario accedere ad una soluzione, che, mentre tiene conto dei principi costituzionali che legano la tutela giurisdiziona le offerta dai due ordini di giudici alle situazioni soggettive, alla luce del criterio enunciato dall'art. 103 Cost., fa propri i valori di effettività e concentrazione delle tutele sottesi all'art. Ili Cost. - e in particolare al principio della ragionevole durata dei processi - che la Corte costituzionale ha assunto come criterio-guida di interpretazione delle altre norme in materia di giustizia. 3.15. In quest'ottica, va adeguatamente ricordato che alla tutela risarcitoria dell'interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione questa Corte è pervenuta non già estendendo la detta tutela dai diritti soggettivi agli interessi legittimi, bensì affermando che, sul piano della tutela risareitoria, non si può fare differenza tra interessi che trovano protezione diretta nell'ordinamento e interessi che trovano protezione attraverso l'intermediazione del potere amministrativo.' Questa svolta - che cancella sul piano sostanziale, con riferimento alla tutela risarcitoria, il divario tra diritti ed interessi altrimenti rilevanti - matura in un momento storico in cui il legislatore ha imboccato la strada che lo porterà a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo come una giurisdizione piena ed esige, di conseguenza, che sia data una più coerente lettura al sistema del riparto di giurisdizioni, in particolare una lettura che leghi la potestas iudicandi alla natura della situazione soggettiva. La tesi "tutta civilistica" non può essere condivisa allorché disattende la svolta voluta dal legislatore di assicurare all'interesse legittimo una tutela piena, concentrata dinanzi a un unico giudice per il principio di effettività che reca in sé la ragionevolezza dei tempi di tutela. La soluzione, fatta propria dal legislatore del 2000 e in linea con la portata di "norma di sistema" riconosciuta dalla Corte costituzionale all'art. 24 Cost. con la sentenza 204 del 2004, da ultimo ribadita, è coerente con la riaffermazione del criterio tradizionale del riparto fondato non sulla distinzione tra le tecniche di tutela, bensì sulla natura sostanziale delle situazioni soggettive. D'altra parte, questa ricostruzione è coerente anche con il processo di evoluzione che caratterizza l'interesse legittimo, che va perdendo la sua tradizionale funzione meramente famulativa o ancillare rispetto all'interesse pubblico, per assumere un più marcato connotato sostanziale, coerentemente del resto con l'evoluzione della stessa nozione di interesse pubblico, al cui perseguimento si accompagna un aumento della discrezionalità, ma anche della connessa responsabilità dell' amministrazione. Deriva da ciò che - in linea di principio e salvo quanto si è già considerato - la giurisdizione sulla tutela dell'interesse legittimo non può che spettare al giudice amministrativo, sia nella tecnica della tutela di annullamento, sia nelle tecniche della tutela risarcitola, in forma specifica o per equivalente: tecniche che non possono essere oggetto di separata e distinta considerazione ai fini della giurisdizione. 3.16. Del pari non può essere condivisa la soluzione ed. "amministrativa", dove, da una parte, pone un nesso inscindibile, non richiesto dalle norme di 73 legge né dal quadro costituzionale, tra tutela di annullamento e tutela risarcitoria (Ad. Plen. n. 4 del 2003), dall'altra, sembra ricomprendere nella giurisdizione amministrativa ogni contesto caratterizzato dalla presenza della funzione pubblica senza esigere che di tale funzione si sia avuto un concreto esercizio, nei modi e forme tipici del potere amministrativo, che soli consentono di riconoscere l'atto come espressione di un potere esistente. Dal primo punto di vista non è privo di rilievo il considerare che la teoria della pregiudizialità amministrativa, intesa come dipendenza del diritto al risarcimento dal previo annullamento, era maturata in un contesto nel quale da un lato si escludeva la risarci-bilità del pregiudizio sofferto per il sacrificio di situazioni di interesse legittimo, dall'altro si era omologato al trattamento di questa situazione quella del diritto soggettivo degradato ad interesse. Né è senza importanza considerare che la soggezione a termine di decadenza è prevista dalla legge per l'azione di annullamento e, in questo sistema, l'accertamento incidentale dell'illegittimità viene negato non solo per escludere che vizi prima non rilevati possano esserlo dopo dando luogo all'annullamento di provedimenti che presuppongonio quello non impugnato, ma anche perché gli effetti dell'azione di annullamento non si esauriscono nel rapporto tra amministrazione e soggetto leso e, ben spesso, si rifrangono su altri soggetti in conflitto con chi sollecita l'annullamento. Ma, non di questo si tratta quando non l'annullamento dell'atto è preteso, bensì l'accertamento della illiceità della situazione determinata dalla sua adozione ed esecuzione, accertamento che esaurisce la sua rilevanza nel rapporto tra soggetto leso e pubblica amministrazione. Queste considerazioni, unitamente ai ricordati processi di cambiamento che caratterizzano l'interesse legittimo e la sua relazione con l'interesse pubblico, giustificano ampiamente l'abbandono di un approccio di tipo tradizionale. Ammettere la necessaria dipendenza del risarcimento dal previo annullamento dell'atto illegittimo e dannoso, anziché dal solo accertamento della sua illegittimità significherebbe restringere la tutela che spetta al privato di fronte alla pubblica amministrazione ed assoggettare il suo diritto al risarcimento del danno, anziché alla regola generale della prescrizione, ad una Verwirkung amministrativa, tutta italiana. La conclusione da accogliere è dunque che, dopo l'irruzione nel mondo del diritto della risarcibilità -effettiva e non solo dichiarata - anche dell'interesse legittimo, e dopo i ricordati tentativi dei primi anni novanta della doppia tutela (espressamente abrogata sia dall'art. 35 d. lgs. 80 del 1998 sia dall'art. 7, lett. e), della 1. 205 del 2000), il legislatore di fine secolo non ha inteso ridurre la tutela risarcitoria al solo profilo di completamento di quella demolìtaria, ma, mentre l'ha riconosciuta con i caratteri propri del diritto al risarcimento del danno, ha ritenuto di affidare la corrispondente tutela giudiziaria al giudice amministrativo, nell'intento di rendere il conseguimento di tale tutela più agevole per il cittadino. 3.17. In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi su esposte ("tutta civilistica" e "tutta amministrativistica") conducono ad una possibile diminuzione dell'effettività della tutela del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall'art. 24 Cost. 74 Quella civilistica, perché finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela giurisdizionale, per giunta secondo una direttrice che si allontana dalla regola del riparto. Quella amministrativistica, perché rischia di assicurare all'interesse legittimo una protezione che comprime l'ambito della tutela risarcitoria riducendone, per modalità o contenuti, la portata. Essa altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con l'estendere l'area della giurisdizione amministrativa al di là della connessione con l'esercizio in concreto del potere pubblico. In una situazione del genere, l'osservazione secondo la quale il legislatore del 2000 ha opportunamente concentrato le forme di tutela dell'interesse legittimo in una sola seóe giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza degli articoli 2 e 4 della legge 20 marzo 1865, ali. E, che configurano comunque a tutela del cittadino la giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui si faccia questione "di un diritto civile o politico". Il nostro sistema si basa appunto sull'art. 2907 ce, cui fa riscontro l'art. 99 c.p.c, ed è un sistema di civil lavi, in cui il riconoscimento della posizione soggettiva da tutelare, cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), precede la tutela giurisdizionale. In un sistema del genere, l'art. 2 della legge del 1865 - secondo una lettura coerente con le disposizioni di cui al Titolo IV della Costituzione - costituisce, in definitiva, una norma di chiusura del sistema, che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela, quando altri valori di pari rilievo costituzionale non rendono legittimo il ricorso a diversi modelli di tutela. 3.18. Quante volte si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l'atto sia capace di esplicare i propri effetti perché il potere non incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere chiesta al giudice amministrativo. Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva. Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare allora il termine di decadenza pertinente all'azione di annullamento. 3.19. A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa interpretazione delle norme attributive della giurisdizione e dall'altro renderne esplicite le conseguenze. Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcito-ria, è venuta meno sul piano del diritto sostanziale la differenza tra le situazioni che nell'ordinamento trovano protezione. L'evoluzione dell'ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai diritti quanto al bagaglio delle tutele: com'era stato per le situazioni di diritto soggettivo, di norma dotate, oltre che di tutela risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata dal diritto al risarcimento del danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria autonoma è stata affiancata alla 75 tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni di interesse legittimo erano prima dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre conformata in modo da comprendervi il risarcimento del danno, che con l'annullamento non si può elidere. Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della funzione di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della pubblica amministrazione, un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione sul risarcimento del danno, consente di riconoscere loro la portata d'avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche solo in rapporto alla tutela risarcitoria autonoma. Ma ciò perché, nel bilanciamento tra valori rilevanti sul piano costituzionale, è da riconoscere legittimità ad una norma che mentre concentra la tutela giurisdizionale presso il giudice amministrativo, non reca pregiudizio alla tutela sostanziale delle situazioni soggettive sacrificate dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione. D'altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per le situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della giurisdizione piena e quello di una tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta in rapporto alla tutela risarcitoria. Sicché dalla premessa discende in modo necessario la conseguenza che il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione, che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento. Si può obiettare, che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza l'esercizio dell'azione. Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo non potrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguaio a quello cui è soggetta la domanda di annullamento, perché ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione. Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all'avere affermato che l'art. 7 della L. 21 luglio 2000, n. 205 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda autonoma di risarcimento del danno. Tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire. Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento né il diritto al risarcimento può essere per sé disconosciuto 76 da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità. Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, il giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene. 3.20. Al termine di questo lungo excursus, i principi di diritto enunciati da queste Sezioni Unite sono i seguenti: 1. la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano; 2. spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere e tra queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno; e) il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma dell'art. 362, primo comma c.p.c., si presta a cassazione da parte delle sezioni unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l'esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti. 3.21. Applicando tali principi nel caso di specie, deve ritenersi che la domanda risarcitoria proposta nella presente causa deve ritenersi devoluta al giudice amministrativo, in quanto la condotta causativa di danno si riconnette direttamente all'esercizio di attività provvedimentale ( approvazione del PEEP, occupazione d'urgenza, ordinanza di sgombero e demolizione del fabbricato ) . Secondo le nuove regole sul riparto della giurisdizione e i principi affermati dalla Corte Costituzionale, l'azione risarcitoria deve essere esercitata esclusivamente dinanzi al giudice amministrativo, anche se i provvedimenti dell'amministrazione - la cui emanazione ed esecuzione hanno causato danni, siano essi consistenti in lesione di diritti o d'interessi legittimi - sono stati annullati dallo stesso giudice in sede di giurisdizione di legittimità o a seguito di ricorso straordinario al Capo dello Stato. L'attuazione dei principi di effettività della tutela giurisdizionale e di concentrazione della tutela comporta che anche quella di tipo risarcitorio deve essere necessariamente, ed esclusivamente, attribuita al giudice cui è attribuita giurisdizione sulla legittimità dell'atto, giurisdizione che non può subire alcuno spostamento, a favore del giudice dei diritti soggetti vi, per l'effetto retroattivo - ripristinatorio dell' annullamento. Poiché i provvedimenti causativi di danno sono stati annullati in sede giurisdizionale o di ricorso amministrativo non si pongono, ai fini della decisione sulla giurisdizione nella presente causa, i problemi connessi alla regola della pregiudizialità amministrativa. La complessità e novità della questione giustificano una pronuncia di compensazione delle spese. 77 P.Q.M. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite; dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo; compensa le spese. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del le Sezioni Unite civili, il 15 giugno 2006 78 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA 28 MARZO 2006, N. 7028 Fatto e Diritto Svolgimento del processo T.G. ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Bari, confermativa della statuizione di primo grado, con la quale è stata accolta la domanda di revoca, ex art. 67 L. Fall., comma 2, nei suoi confronti proposta dal curatore del fallimento di G.M., in relazione alla vendita, per il prezzo di L. 160.000.000, di un locale commerciale effettuata, in favore di esso T., dal G., nell'anno anteriore alla dichiarazione del di lui fallimento. Con i due motivi dell'odierna impugnazione - illustrati anche con memoria e resistiti dalla curatala con controricorso - il T. ha denunciato violazione del citato art. 67 L. Fall. e vizi di motivazione in ordine, rispettivamente, alla revocabilità del negozio in questione - erroneamente, a suo carico, presupposta dalla Corte di merito, non ostante l'intervenuta destinazione di parte del correlativo prezzo (L. 98.000,000) alla estinzione di un credito assistito da ipoteca sull'immobile compravenduto - ed alla scientia decoctionis, che quei giudici avrebbero, del pari erroneamente, ritenuto nella specie sussistente. Con ordinanza interlocutoria n. 193 del 5 gennaio 2005, la Sezione 1^ di questa Corte - previamente respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controparte in ragione del dedotto difetto di firma dell'avvocato - ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha quindi assegnato la causa a queste Sezioni unite, per una ravvisata "non consonanza di indirizzi giurisprudenziali" con riferimento alla questione posta con il primo mezzo impugnatorio. Motivi della decisione 1. Va preliminarmente confermata la reiezione, per infondatezza, dell'eccezione di inammissibilità del ricorso, per difetto di sottoscrizione del difensore, formulata dalla curatela sul rilievo della insufficienza dell'unica sottoscrizione, come nella specie apposta, in calce alla allegata dichiarazione relativa al valore della causa. Ciò in quanto - come già rilevato nella riferita ordinanza della Sezione 1^ - la suddetta dichiarazione, sul valore della causa, è, appunto, redatta su foglio che, non solo segue, senza soluzione di continuità, quelli utilizzati per la stesura del ricorso ma è ad esso "congiunto materialmente". Per cui non v'è dubbio che tale dichiarazione debba ritenersi apposta "in calce" al ricorso (cfr. L. n. 141 del 1997, art. 83, comma 3) e che, per tale ragione,la correlativa sottoscrizione sia, a sua volta, oggettivamente riferibile anche al ricorso stesso. 2. La questione sottesa al primo motivo del ricorso e portata, come detto, all'esame di queste Sezioni unite, è propriamente la seguente: se sia o meno oggettivamente revocabile, ai sensi dell'art. 67 L. Fall., comma 2, la vendita eseguita dall'imprenditore - poi fallito entro un anno - il quale abbia utilizzato parte del prezzo riscosso per il pagamento di credito privilegiato (nella specie assistito da ipoteca gravante sullo stesso immobile oggetto della vendita). 79 2.1. Sul punto, risalente giurisprudenza si è effettivamente già pronunciata nel senso, come ricordato dal ricorrente, della irrevocabilità di una siffatta vendita ove, e per la misura in cui, si accerti che il denaro corrisposto a titolo di prezzo dall'acquirente sia stato destinato all'estinzione di crediti privilegiati: così, appunto, Cass. 9 novembre 1956 n. 4211, 18 maggio 1971 n. 1472, 28 aprile 1975 n. 1626, 4 maggio 1983 n. 3050. Ma sono rimasti al riguardo insuperati i rilievi formulati da autorevole dottrina in ordine all'assenza di previsioni normative che autorizzino e rendano in concreto possibile l'attuazione di una revoca parziale della vendita di un unico immobile. Rilievi dei quali l'ultima delle citate sentenze (n. 3050/1983) si è pur mostrata avvertita, ma dai quali ha ritenuto di poter prescindere per la ragione che, nella specie, il giudice del merito, disposta la revoca, aveva condannato il terzo acquirente al rimborso di parte del valore del bene, determinato in una somma di denaro, e sul punto non vi era stata censura. Mentre da quella data (1983) nessun'altra pronuncia è più intervenuta sullo specifico tema della parziale revocabilità, ex art. 67 L. Fall., della vendita di un unico immobile; nè la questione si è mai prospettata con riguardo alla revocatoria ordinaria di cui all'art. 2901 c.c.. 2.2. E però, comunque, sulla premessa della natura indennitaria della revocatoria fallimentare - da cui appunto le sentenze su menzionate hanno desunto il corollario che gli effetti utili di quella azione vadano "contenuti nei limiti del danno causato dall'atto impugnato" - che la giurisprudenza successiva ha evidenziato quelle "dissonanze", in ragione delle quali la Sezione IA ha ritenuto opportuna la rimessione della questione a queste Sezioni unite. Ed infatti, mentre un filone di pronunzie, tendenzialmente maggioritario, ha optato per una configurazione distributiva, e non più indennitaria, della revocatoria di cui al comma secondo dell'art. 67 L. Fall. - affermando che, in relazione alla stessa, il danno della massa è "in re ipsa", ovvero presunto in via assoluta, e consiste nella pura e semplice lesione della "par condicio creditorum" (cfr. Cass. 20 settembre 1991 n. 9853; 16 settembre 1992 n. 10570; 12 novembre 1996 n. 9908; 19 febbraio 1999 n. 1390; 12 gennaio 2001 n. 403; 14 novembre 2003 n. 17189) - altra serie di pronunzie, sia pur con riferimento alla diversa fattispecie del pagamento infrannuale effettuato dall'imprenditore a creditore - privilegiato, ha ritenuto subordinata la revoca di quell'atto alla effettiva ricorrenza di un danno, in concreto, per la massa. E ciò o appunto (in un primo tempo) sul presupposto del carattere solo relativo della presunzione di danno ai creditori correlata all'atto in questione, vincibile attraverso la prova contraria della sua insussistenza nel caso concreto (cfr. nn. 7649/1987; 5857/1988), ovvero (in prosieguo) argomentando dal "difetto di interesse ad agire del curatore" nel caso in cui il convenuto dimostri che l'eventuale accoglimento della domanda non arrechi alcuna utilità alla massa)trattandosi di somma che, ove pur recuperata, dovrebbe, in sede di riparto, essere poi comunque a lui attribuita, in quanto titolare di diritto di prelazione poziore rispetto a quello degli altri creditori (così, da ultimo, sent. n. 20005 del 14 ottobre 2005; e, in precedenza, n. 495 del 18 gennaio 1991; n. 2751 dell'8 marzo 1993; n. 8096 del 28 aprile 2004; n. 12558 dell'8 luglio 2004; n. 5713 del 16 marzo 2005). 80 3. Tanto premesso e valutato, ritiene ora però il Collegio che, ai fini della soluzione del quesito come sopra proposto, non venga in realtà in rilievo la circostanza che il prezzo della vendita, eseguita dall'imprenditore poi fallito entro l'anno, sia stato da questi destinato solo in parte al pagamento di un credito assistito da privilegio (e che resti di conseguenza assorbito il problema di ammissibilità di una revoca parziale della vendita di un unico bene immobile), dovendosi - a monte - escludere che una destinazione anche integrale, del prezzo ricavato da una siffatta vendita, al pagamento di creditori privilegiati dell'imprenditore poi fallito, possa assumere valenza ostativa all'esercizio dell'azione di cui al comma secondo dell'art. 67 L. Fall.. E ciò in ragione del carattere distributivo, e non indennitario, di detta azione, che va qui riaffermato, in consonanza con l'indirizzo interpretativo aperto dalla citata sentenza n, 9853 del 1991 ed alla stregua di una lettura della norma in esame che univocamente si impone alla stregua dei canoni dell'ermeneutica, letterale, teleologico e sistematico. Avendo, per altro, riguardo, per quest'ultimo profilo, al coordinamento - che presuppone l'enucleazione dei rispettivi tratti differenziali - della revoca, che qui ne occupa, degli atti a titolo oneroso (e dei pagamenti) compiuti entro l'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, rispetto, per un verso, alla revocatoria ordinaria di cui agli artt. 2901 cod. civ., e ss., per altro verso, alla revocatoria fallimentare degli atti onerosi infrabiennali con "notevole sproporzione" in danno dell'imprenditore, di cui all'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 1. Come è stato, infatti, anche di recente esattamente ribadito (da Cass. n. 17189/2003) il fondamentale elemento di discrimine tra la revocatoria ordinaria (che anche il curatore è legittimato ad esperire ex art. 66 L. Fall.) e quella fallimentare, sotto il profilo del danno, è rappresentato dalla circostanza che la seconda si riferisce, per definizione, ad atti posti in essere quando il debitore si trova in una situazione di insolvenza già inveratasi; mentre, agli effetti della revocatoria ordinaria, l'atto di disposizione viene in rilievo in correlazione ad una insolvenza solo potenziale, per cui appunto si richiede la dimostrazione di un pregiudizio alle ragioni del creditore, costituito dalla insufficienza dei beni residui, ad offrire la garanzia patrimoniale prevista dall'art. 2740 c.c. (e non da una semplice diminuzione della stessa: cfr. n. 16915/03). Ulteriore distinzione va poi, come detto, operata nell'ambito della stessa revocatoria fallimentare. E, per tal profilo, corretto è il rilievo, svolto nella sentenza capofila n. 9853/1991 e nelle successive (già citate) conformi, per cui, mentre nella previsione dell'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 2, l'oggettivo danno al patrimonio della parte, poi fallita, riconducibile al requisito della "notevole sproporzione" richiesto per la revoca dell'atto oneroso di disposizione da essa compiuto, costituisce elemento da inglobare nel più ampio concetto di "eventus damni" per la massa dei creditori, non così è nell'ipotesi del negozio oneroso infrannuale di cui al successivo comma secondo, ove è assente il riferimento ad un analogo requisito di danno. Emergendo così, anche dalla stessa diversa formulazione delle due regole giuridiche (pur) contenute nel medesimo articolo, come, nel secondo caso (in 81 prospettiva di una più incisiva salvaguardia nei confronti degli atti compiuti dall'imprenditore commerciale nel periodo più prossimo alla sua dichiarazione di fallimento), prema al legislatore non tanto il rapporto commutativo del negozio quanto il recupero, comunque, di ciò che, uscendo dal patrimonio del debitore nell'attualità di una situazione di insolvenza, sottragga il beneficiario alla posizione di creditore concorrente (perchè, in tal modo, già soddisfatto), con automatico vulnus del principio della par condicio creditorum. E spiegandosi pure, quindi, in tale prospettiva perchè la norma sancita nel capoverso dell'art. 67 L. Fall. accomuni, nella sua eccezionalità, alla sorte dei contraenti a titolo oneroso quella dei creditori che abbiano (pur legittimamente secondo le regole civilistiche) ricevuto dall'imprenditore, poi fallito, il pagamento di propri crediti liquidi ed esigibili. Dal che la conclusione - coerentemente da tali premesse desunta dalla giurisprudenza che si condivide (sent.ze nn. 9853/91; 10570/92; 11216/95; 9908/96; 1390/99; 403/01; 17189/03 citt.) - che il presupposto oggettivo della revocatoria degli atti di disposizione compiuti dall'imprenditore nell'anno anteriore alla dichiarazione del suo fallimento si correli non alla nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell'ordinamento bensì alla specialità del sistema fallimentare, ispirato all'attuazione del principio della par condicio creditorum, per cui il danno consista nel puro e semplice fatto della lesione di detto principio, ricollegata, con presunzione legale assoluta, al compimento dell'atto vietato nel periodo indicato dal legislatore. 3.1. Il contrario orientamento - che ritiene tale presunzione suscettibile viceversa di prova contraria e, anche in prospettiva di una verifica dell'interesse ad agire da parte del curatore, ammette il convenuto in revocatoria a dimostrare l'eventuale assenza in concreto di un danno alla massa ricollegabile all'atto di disposizione vietato, in correlazione alla intervenuta utilizzazione del prezzo che l'imprenditore abbia ricavato dalla vendita (e dalla destinazione del pagamento da lui effettuato) in favore di un creditore assistito da privilegio - si scontra inevitabilmente, infatti, con la considerazione che è solo nella fase finale di riparto dell'attivo, e non anche quindi già anticipatamente nella fase dell'esercizio delle revocatorie, che è possibile verificare se esistano o meno altri creditori privilegiati, di grado poziore o pari rispetto a quello beneficiario del pagamento vietato, e se, in caso affermativo, sia possibile l'integrale soddisfazione di tutti (come implicitamente ammesso anche da Cass. 9149/1997 cit.). 3.2. La natura distributiva della azione di cui al capoverso dell'art. 67 L. Fall. non è stata, del resto, revocata in dubbio anche nel corso del dibattito e dei lavori che hanno preceduto la recente riforma della legge fallimentare, essendosi talora proposta una rimodulazione di quella norma in senso indennitario ovvero, alternativamente, anche auspicato un suo ridimensionamento, con abrogazione della revocabilità dei pagamenti di debiti liquidi ed esigibili. Ma a questi indirizzi non si è poi dato seguito, essendo prevalsa la diversa scelta (in linea con l'evoluzione della disciplina concorsuale dei principali paesi europei) di ridurre semplicemente (dimezzandolo) il periodo sospetto per l'esercizio dell'azione in esame (art. 67 cpv., L. Fall., nuovo testo, come sostituito dal D.L. art. 35, n. 2, convertito in L. n. 80 del 2005), con 82 l'introduzione anche, per altro, di talune eccezioni alla regola (implicitamente confermative quindi della stessa), come (per quel che più direttamente attiene alla fattispecie considerata) quella di non revocabilità delle vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo destinati a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti od affini entro il terzo grado(art. 67 cit., comma 3, lett. c, nuovo testo). 4. Il contrasto di indirizzi interpretativi sottostante alla questione in esame va conclusivamente, quindi, risolto con l'affermazione del principio per cui, ai fini della revoca della vendita di propri beni effettuata dall'imprenditore, poi fallito entro un anno, ai sensi dell'art. 67 L. Fall., comma 2, l'eventus damni è "in re ipsa" e consiste nel fatto stesso della lesione della par condicio creditorum, ricollegabile, per presunzione legale ed assoluta, all'uscita del bene dalla massa conseguente all'atto di disposizione. Per cui grava, in tal senso, sul curatore il solo onere di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte dell'acquirente. Mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia stato utilizzato dall'imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato (eventualmente anche garantito, come nella specie, da ipoteca gravante sull'immobile comprevenduto) non esclude la possibile lesione della par condicio, nè fa venir meno l'interesse all'azione da parte del curatore, poichè è solo in seguito alla ripartizione dell'attivo che potrà verificarsi se quel pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che anche successivamente all'esercizio dell'azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi. 5. La sentenza impugnata ha fatto di tal principio corretta applicazione. Per cui resiste alla censura avverso di essa, sul punto, formulata con il primo motivo del ricorso. 6. Destituito di fondamento è, per altro, pure il residuo secondo mezzo impugnatorio. Poichè - diversamente da quanto con esso sostenuto - anche per il profilo della scientia decoctionis quella sentenza si sottrae a critica. Avendo, infatti, la Corte di merito, con congrua, logica e giuridicamente corretta motivazione, ritenuto nella specie raggiunta la dimostrazione della consapevolezza dello stato di insolvenza del venditore da parte del compratore. Non solo (come si assume) sulla base dei numerosi protesti anche per cifre di non elevato importo) esistenti, alla data dell'atto, a carico del venditore ma anche in considerazione del fatto che tale situazione non poteva essere ignorata dall'acquirente che gestiva un'attività commerciale in locale contiguo a quello del G., il quale del resto, anche in sede di stipula aveva espressamente dichiarato la propria qualità di imprenditore. 7. Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto. 8. Possono comunque compensarsi tra le parti le spese di questo giudizio di Cassazione. P.Q.M. La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese. Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2006. Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2006. 83 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA 2 FEBBRAIO-24 MARZO 2006, N. 6572 PRESIDENTE CARBONE – RELATORE LA TERZA PM MARTONE – DIFFORME – RICORRENTE RETE FERROVIARIA ITALIANA SPA Svolgimento del processo Con sentenza in data 31 gennaio 2000, il Tribunale del lavoro di Roma dichiarava la nullità del licenziamento intimato dalle Ferrovie dello Stato Spa a F. C. e per l’effetto condannava la società suindicata alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra, nonché al risarcimento del danno derivante dal demansionamento, che faceva decorrere dal 1992, pari a lire 486.660.000. A seguito dell’impugnazione dalla società, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava nullo, per violazione dell’articolo 112 Cpc, il capo di sentenza concernente la reintegra nel posto di lavoro perché ad essa il ricorrente aveva rinunciato e dichiarava inammissibile, perché nuova, la domanda di reintegra proposta in grado di appello; dichiarava altresì l’illegittimità del licenziamento intimato il 29 maggio 1998 e condannava la società a pagare al C., a titolo di risarcimento danni derivanti dall’illegittimo licenziamento, una somma pari a 24 mensilità dell’ultima retribuzione; ravvisata altresì l’esistenza del demansionamento, che faceva decorrere dal 1996, condannava la società appellante al pagamento della somma, pari a sei mensilità di retribuzione, di lire 186.696.000, in luogo della maggior somma liquidata a tale titolo in primo grado, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal dì della maturazione, i primi sino al saldo, la seconda sino alla data della sentenza. In punto di danno da demansionamento, la Corte di appello riteneva indiscutibile che l’inattività del C. avesse prodotto una serie di risultati negativi i quali – ancorché non direttamente attinenti alla sfera economica – si presentavano come conseguenze patrimoniali di un danno di diversa natura ed erano, quindi, legittimamente suscettibili di valutazione. In particolare, la Corte di appello indicava la lesione della personalità professionale e morale del prestatore, il discredito che l’avvenuto declassamento aveva comportato a suo carico nell’ambiente di lavoro e il pregiudizio che tutta la vicenda, la cui responsabilità era da ascrivere alla società appellante, aveva comportato sul curriculum vitae e sulla carriera del C., quali circostanze che, pur non avendo un immediato prezzo economico, si ripercuotevano indubbiamente, oltre che nell’ambito personale e morale, anche sotto il profilo patrimoniale. Nella specie – attese le caratteristiche del pregiudizio e considerato che l’impossibilità di prova di cu parla l’articolo 1226 Cc, va’intesa in senso relativo e con riferimento ai mezzi e facoltà di cui la parte è fornita – il danno doveva essere necessariamente oggetto di valutazione equitativa da parte del giudice, ed a tal fine la Corte territoriale faceva ricorso, come chiesto dal lavoratore, al disposto 84 dell’articolo 9 del contratto collettivo, il quale prevede, nell’ipotesi di mutamento di funzioni, il diritto del dirigente, di risolvere il rapporto con diritto ad una indennità pari a quella sostitutiva del preavviso, che doveva essere limitata, stante il minore periodo di dequalificazione riconosciuto rispetto alla sentenza di primo grado, in misura pari a sei mensilità. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso Rete Ferroviaria Italiana Società per azioni, già Ferrovie dello Stato di Trasporti e Servizi per azioni, sulla base di quattro motivo, cui ha resistito con controricorso F. C., il quale ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a quattro motivi, cui la società ha risposto con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie. La trattazione dei ricorsi è stata rimessa alle Su per la risoluzione del contrasto di giurisprudenza concernente la questione dell’onere probatorio in caso di domanda di risarcimento danni del demansionamento professionale del lavoratore prospettata con il quarto motivo del ricorso principale. Motivi della decisione Con il primo motivo del ricorso principale la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 Cpc, in relazione agli articoli 99, 414, 420, 436 e 437 Cpc, in ordine al capo della sentenza relativo alla liquidazione, in conseguenza della ravvisata illegittimità del licenziamento, dell’indennità supplementare di cui all’articolo 30, comma 10, del Ccnl Dirigenti Ferrovie dello Stato 29 maggio 1990, giacché la domanda in tal senso, non contenuta nel ricorso introduttivo, sarebbe stata inammissibilmente proposta dal C. solo nelle note autorizzate dal giudice di primo grado. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360 n. 5 Cpc, insufficiente, contraddittoria e omessa motivazione su punto determinante della controversia in tema di criteri di liquidazione della indennità supplementare. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 416, 115 e 116 Cpc, in relazione all’articolo 2697 e all’articolo 2103 Cc e difetto di motivazione. La censura si riferisce all’accertamento del giudice di appello circa l’avvenuto demansionamento del C. nel periodo successivo al 1996. In proposito, ricorda che sin dall’atto della sua costituzione in giudizio aveva formulato articolate deduzioni circa il riassetto dell’organigramma di Fs del 1997, richiedendo in proposito prova per interpello del ricorrente e per testi, al fine di dimostrare l’effettività e la dimensione del processo ristrutturativi in atto dal 1997 in poi, il coinvolgimento dei settori cui il C. era stato preposto, il suo esito con ridefinizione dell’organigramma e dei compiti di tutta la struttura coinvolta, l’evidenza, all’esito, di eventuali posizioni di esubero, quale quella del C. e l’incollocabilità del medesimo in posizioni consimili, nonché l’attività svolta dal C. in tale periodo presso la società Metropolis. La Corte d’appello aveva considerato del tutto generiche e infondate le difese di essa società concernenti il processo di ristrutturazione aziendale in atto nell’anno 1997, senza però palesare, sostiene la società ricorrente, i motivi per i quali i fatti esposti e dedotti ad oggetto di prova sarebbero generici, e, soprattutto, perché le relative difese sarebbero infondate. 85 Con il quarto motivo ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 414 e 420 Cpc, in relazione all’articolo 2697 Cc e agli articoli 432 Cpc e 1226 Cc. Si assume che nessuna prova era stata offerta, né tanto meno nessun fatto specifico era stato allegato in linea assertiva in ordina alla dimostrazione di un qualsivoglia danno derivante a carico del C. per la lamentata dequalificazione, e comunque nessuna domanda poteva essere accolta a tale titolo per difetto di prova. La sentenza, prosegue la ricorrente, sarebbe errata per avere individuato il presupposto della condanna risarcitoria non già sulla base delle allegazioni della parte, che difettavano completamente (rasentando il ricorso la nullità assoluta), ma in vere e proprie “illazioni imperscrutabili e putative”. Inoltre, la motivazione sarebbe assolutamente apparente, o comunque insufficiente, non consentendo di verificare da quali elementi del processo il giudice avrebbe tratto il convincimento della verificazione del pregiudizio. Tali ipotesi (non suffragate da fatti di sorta, né da prova di essi) nella loro genericità ed astrattezza non integrerebbero la prova specifica del danno – il cui onere gravava a carico del ricorrente – e quindi del presupposto che consente di ricorrere, nella determinazione del quantum, alla valutazione equitativa, vigendo anche nella giurisprudenza relativa all’articolo 1226 Cc il principio secondo il quale l’equità è solo un criterio di determinazione di una riconosciuta pretesa. In subordine, con il medesimo motivo di ricorso, la ricorrente censura anche l’applicazione dei criteri liquidativi del danno con ricorso all’equità ex articoli 432 Cpc e 1226 Cc. Con il primo motivo, il ricorrente incidentale deduce, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 e 5, Cpc violazione e/o falsa applicazione degli articoli 420 e 416 Cpc, in relazione agli articoli 2696 e 2103 Cc, sulla valutazione del danno da demansionamento con riferimento all’articolo 9 Ccnl dirigenti Fs, nonché omessa o contraddittoria motivazione in relazione agli articoli 2103 e 2087 Cc, in ordine alla determinazione del medesimo e omessa insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia, per avere escluso il demansionamento, pure riconosciuto dal giudice di primo grado, per il periodo 1992-1996; per avere ritenuto compensativi incarichi privi di contenuto operativo; per avere disatteso la clausola del Ccnl (articolo )) pur ad essa facendo riferimento; per non avere tenuto conto del danno emergente consistente nella perdita, conseguente alla rimozione dell’incarico di direttore finanziario, dei premi ex articolo 38 Ccnl e dell’indennità di funzione ex articolo 37 del medesimo Ccnl. Con il secondo motivo, il C. deduce violazione o falsa applicazione dell’articolo 112 Cpc, sulla domanda di reintegra nel posto di lavoro, contestando che in alcun atto vi è stata rinuncia a tale domanda da parte di esso ricorrente, né valida rinuncia da parte del procuratore. Con il terzo motivo si deduce la nullità del licenziamento in relazione al difetto di poteri del funzionario che lo aveva disposto. La inefficacia della procura al direttore delle risorse umane 27 luglio 1997 in materia di assunzione e licenziamento dei dirigenti con contratto a tempo indeterminato regolato dalla contrattazione collettiva. La violazione e falsa applicazione dell’articolo 435 Cpc in relazione agli articoli 416 e 420 Cpc e all’articolo 2697 Cc. Insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione su un punto determinante della controversia. 86 Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc, violazione o falsa applicazione dell’articolo 429 comma 3 Cpc, in materia di rivalutazione monetaria e interessi su somme dovute a titolo di risarcimento del danno. Omessa motivazione su un punto determinante della controversia. Appare logicamente preliminare – rispetto alla questione oggetto del contrasto, di cui al quarto motivo del ricorso principale ed al primo motivo del ricorso incidentale – la trattazione del terzo motivo del ricorso principale, perché con esso si critica la sentenza per avere ravvisato l’esistenza, dal 1996, del dedotto demansionamento e quindi il presupposto stesso da cui è stato fatto discendere il diritto al risarcimento del danno. Il motivo non è fondato. In primo luogo in ricorso non si contesta una circostanza decisiva affermata nella sentenza impugnata, e cioè essere pacifico – avendolo ammesso la stessa società – che il C., una volta dimessosi da tutte le cariche precedentemente rivestite, lasciata la società Metropolis e rientrato presso le Ferrovie dello Stato, era rimasto del tutto inoperoso. La società invero si giustifica allegando, e lamentando la mancata ammissione di prova sul punto, il profondo riassetto organizzativo, delinea compiutamente in ricorso il nuovo organigramma, con l’indicazione di tutte le numerose direzioni e del personale che ne era rispettivamente a capo, al fine di dimostrare una sorta di impossibilità sopravvenuta di assegnare al C. una qualsiasi mansione. Ma il riassetto organizzativo che si intende provare non appare però decisivo per infirmare le conclusioni cui sono pervenuti i giudici di merito, giacché proprio la complessità della organizzazione, la pluralità di settori di intervento, con articolazione in molteplici direzioni (che comprendevano l’amministrazione, la finanza operativa e straordinaria, gli acquisti, il patrimonio, il settore legale, la tesoreria, il bilancio, la contabilità, il settore fiscale ed altro) portano invece logicamente ad escludere l’esistenza di detta impossibilità, rendendo poco credibile che non si fosse in condizione di reperire – nell’ambito di un ragionevole periodo di tempo quale è quello trascorso dal 1996 al licenziamento del maggio 1998 – una posizione compatibile con la qualifica e le competenze professionali del C.. In particolare, mentre si deduce che il medesimo era esperto in materia fiscale, non si spiega in ricorso il motivo per cui il medesimo non potesse trovare utile collocazione in detto settore, che pure risulta essere stato variamente articolato (adempimenti fiscali, imposte dirette, Iva ed altre imposte indirette e contenzioso). Il terzo motivo del ricorso principale è quindi infondato. Parimenti infondato è il primo motivo del ricorso incidentale, con cui si lamenta che non sia stato ravvisato il demansionamento fin dal 1992, allorquando il C. era stato rimosso dalla posizione di direttore dell’area finanziaria e patrimonio, avente un peso che non sarebbe stato adeguatamente valutato dai giudici di merito. La prospettiva in cui si muove il ricorrente appare invero erronea, non potendosi il demansionamento ritenere integrato solo dalla revoca di un incarico di direzione, ancorché prestigioso, e remunerativo, essendo pur sempre rimesso al datore il cosiddetto ius variandi, ossia l’assegnazione a mansioni diverse, purché equivalenti a quelle svolte da ultimo; ed infatti, diversamente opinando, ne conseguirebbe la impossibilità di modificare in 87 alcun modo l’organizzazione aziendale, il che però si porrebbe in patente contrasto con i poteri riservati all’imprenditore dall’articolo 2094 Cc ed anche con i principi di rango costituzionale (articolo 41 Costituzione). E quanto alla equivalenza delle nuove mansioni, assegnate dopo la revoca di quell’incarico, nella sentenza impugnata sono state puntualmente indicate le funzioni di vertice svolte dal 1992 al 1996 (dal 30 aprile 1992 al 30 aprile 1994, era stato assistente dal presidente per la diversificazione delle attività ferroviarie e responsabile per le Diversificate e il Patrimonio; contemporaneamente era stato consigliere di amministrazione di Metropolis fino al 18 novembre 1996 e vice presidente della medesima società del 18 maggio 1993 al 28 giugno 1996); inoltre non si indicano in ricorso gli elementi comprovanti la tesi difensiva svolta, per cui detti incarichi sarebbero stati privi di contenuti operativi e che la società Metropolis avrebbe agito solo sulla carta, per cui non si può ascrivere alla sentenza impugnata né di averli pretermessi, né di averli incongruamente valutati. Il primo motivo del ricorso incidentale va quindi rigettato. Quanto al quarto motivo del ricorso principale, concernente i danni derivanti dal demansionamento per il periodo dal 1997 al 1998 ravvisati e liquidati dai giudici di merito, è effettivamente sussistente un contrasto nella giurisprudenza della sezione lavoro di questa Corte. La questione è la seguente: se, in caso di demansionamento o di dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello cosiddetto esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato all’assolvimento, da parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio. Invero entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o presentano una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature quanto al regime della prova. 1. Sono ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cassazione 13299/92, 11727/99, 14443/00, 13580/01, 15868/02, 8271/04, 10157/04, le quali, ancorché con motivazioni diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di esame, hanno ritenuto che «In materia di risarcimento del danno per attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto, l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’articolo 1226 Cc, anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze dal caso concreto». 2.Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cassazione 7905/98, 2561/99, 8904/03, 16792/03, 10361/04, le quali enunciano il seguente principio «Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche sulla sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) 88 subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificatine del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’articolo 2697 Cc». Con dette pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificatine fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall’adempimento dell’obbligazione retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale. Le Su ritengono di aderire a quest’ultimo indirizzo. 1. La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2103 (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 8tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell’ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In entrambi i casi, giacchè l’illecito consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione in inadempimento contrattuale regolato dall’articolo 1218 Cc, con conseguente esonero dall’onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessine con l’articolo 1223 dello stesso codice. Vi è da aggiungere che l’ampia locuzione usata dall’articolo 2087 Cc (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall’articolo 2059 Cc (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte costituzionale 233/03 e l’indirizzo inaugurato da Cassazione 7283/03), verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del Cc. 2. Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo. L’inadempimento infatti è già sanzionato con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma, non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di ci all’articolo 1218 e 1223, 89 per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi di cui agli articoli 2087 e 2103 Cc, da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa la Corte costituzionale 372/94). D’altra parte – mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta – ove diminuzione non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile. In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento. 3. È noto poi che dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cosiddetto esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra. Prima di scendere all’esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’articolo 421 Cpc – non può invece mai sopperire all’inere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cassazione Su 1099/98). 4. Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a 90 venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore. 5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacchè questo, che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psico fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui all’articolo 5 comma 3 della legge 57/2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’articolo 13 del D.Lgs 38/2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte costituzione con la sentenza 233/03). 6. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli articoli 1 e 2 della Costituzione (cosiddetto danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto. Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso. Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema gabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali 91 applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psico fisica – necessità imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita. Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza 378/94 per cui «È sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 Cc, costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato». 6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostante di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cassazione 9834/02) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’articolo 2727 Cc venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del 92 soggetto; da tutte queste circostante, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cassazione 13819/03) complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex articolo 115 Cpc a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessità di parametri a cui ancorarsi. 7. Applicando detti criteri al caso di specie, la Corte territoriale afferma essere indiscutibile che il dedotto demansionamento ha sicuramente prodotto una serie di risultati negativi ed indica a tale fine la lesione della personalità professionale e morale, il discredito derivante dal declassamento nell’ambiente di lavoro ed il pregiudizio sul cv e sulla carriera dell’istante. In primo luogo detti rilievi prescindono integralmente dalle allegazioni del ricorrente, perché non se ne riporta in alcun modo il tenore, anzi l’espressione usata «Si pensi alla lesione della personalità professionale e morale al “discredito” nell’ambiente di lavoro» sembra alludere a conclusioni cui il Giudice è pervenuto autonomamente, in altri termini, non risultano posti a base della decisione fatti introdotti dalla parte nel processo, così contravvenendo all’obbligo di decidere iuxta alligata ed provata di cui all’articolo 115 Cpc. Inoltre ciò di cui si da conto è, non già – come si dovrebbe – il danno conseguenza della lesione, e cioè l’esistenza dei riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione dello stile di vita, ma l’esistenza della lesione medesima, essendosi fatto ricorso ad una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti i casi di dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette controversie con l’apposizione di un formulario “fisso” e quindi con elusione delle specificità delle singole fattispecie. Del tutto generico e immotivato è poi il riferimento al pregiudizio al cv ed alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative dell’interessato nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero state frustrate dall’inadempimento datoriale, né alla conoscenza della vicenda al di fuori dell’ambiente di lavoro, né alla perdita di [omissis] del ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale. La causa va poi rimessa alla sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi. PQM La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il quarto motivo del ricorso principale e cassa la sentenza impugnata in relazione al medesimo motivo. Rigetta il terzo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale. Rimette la causa alla Sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi. 93 CASSAZIONE CIVILE , SEZ. UN., 28 MARZO 2006, N. 7029 CASSAZIONE CIVILE , SEZ. UN., 28 MARZO 2006, N. 7030 CASSAZIONE CIVILE , SEZ. UN., 28 MARZO 2006, N. 7031 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente Aggiunto Dott. PRESTIPINO Giovanni - Presidente di sezione Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere Dott. GRAZIADEI Giulio - Consigliere Dott. VIDIRI Guido - Consigliere Dott. BONOMO Massimo - Consigliere Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - rel. Consigliere Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere Dott. BOTTA Raffaele - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: FALLIMENTO ITALSEMOLE S.R.L., in persona del Curatore pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ASIAGO 8, presso lo studio dell'avvocato STANISLAO AURELI, rappresentato e difeso dall'avvocato INZITARI BRUNO, giusta delega a margine del ricorso; - ricorrente contro BANCA ROMA S.P.A. (ora CAPITALIA S.P.A.); - intimata e sul 2^ ricorso n. 05430/03 proposto da: CAPITALIA S.P.A. - CAPOGRUPPO DEL GRUPPO BANCARIO CAPITALIA (già BANCA DI ROMA S.P.A.), in persona del legale rappresentante protempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 6, presso lo studio dell'avvocato ALESSI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso e ricorso incidentale; - controricorrente e ricorrente incidentale contro FALLIMENTO ITALSEMOLE S.R.L., in persona del Curatore pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ASIACO 8, presso lo studio dell'avvocato STANISLAO AURELI, rappresentato e difeso dall'avvocato BRUNO INZITARI, giusta delega a margine del controricorso al ricorso incidentale; - controricorrente al ricorso incidentale avverso la sentenza n. 930/02 della Corte d'Appello di BARI, depositata il 04/11/2002; 94 udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 16/02/2006 dal Consigliere Giuseppe Maria BERRUTI; uditi gli avvocati Bruno INZITARI, Giuseppe ALESSI; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso principale, accoglimento del secondo motivo, rinvio per il resto ad una sezione semplice. Inizio documento Fatto Con citazione del 5 settembre 1999 il fallimento srl Italsemole, in persona del curatore conveniva davanti al Tribunale di Foggia la spa Banca di Roma per sentirla condannare in suo favore al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 2043 c.c. in ragione della abusiva concessione di credito alla srl predetta, quando era in bonis, in quanto effettuata in presenza di elementi tali da doverne far riconoscere la situazione di impresa insolvente. Precisava che il credito così concesso aveva tenuto artificiosamente in vita la srl, suscitando nel mercato la falsa opinione che si trattasse di impresa economicamente valida. La banca convenuta si costituiva e resisteva eccependo anzitutto la nullità della citazione, l'incompetenza del Tribunale adito, la carenza di legittimazione attiva del curatore per esservi quella dei singoli creditori danneggiati dal preteso illecito, e la prescrizione quinquennale dell'azione. Quindi, quanto alle azioni revocatorie ne eccepiva la inammissibilità per superamento del periodo sospetto, che a suo avviso andava calcolato dalla sentenza del Tribunale di Foggia senza che dovesse darsi alcun rilievo a quella antecedente del Tribunale di Nola, cassata dalla Corte Suprema che aveva dichiarato la competenza del Tribunale pugliese. Ne eccepiva altresì il difetto di interesse con riferimento alla domanda risarcitoria il cui accoglimento avrebbe soddisfatto interamente i creditori. Il Tribunale di Foggia con sentenza n. 898 del 2001, non definitiva, rigettava le domande revocatorie per superamento del periodo previsto dalla legge; affermava la propria competenza territoriale sulla domanda risarcitoria della Curatela nonchè la legittimazione attiva della stessa, e rigettava la relativa eccezione di prescrizione. La Banca di Roma proponeva regolamento facoltativo di competenza e la Corte di Cassazione con ordinanza n. 1236 del 2001 confermava la competenza territoriale del Tribunale di Foggia ex art. 20 c.p.c., pur escludendo quella ex art. 24 L. Fall.. La banca proponeva anche appello al quale resisteva il fallimento che proponeva a sua vola appello incidentale. La Corte di Bari, respinta la reiterata eccezione di nullità della citazione, in parziale riforma della prima sentenza dichiarava il difetto di legittimazione attiva del curatore fallimentare a proporre l'azione risarcitoria, fondata l'eccezione di prescrizione della domanda stessa ed infondata l'eccezione di inammissibilità dell'azione revocatoria dovendosi il periodo sospetto calcolare avendo riguardo alla sola sentenza del Tribunale di Foggia e non anche a quella, cassata, del Tribunale di Nola, giacchè ciò avrebbe dato luogo a due distinti periodi sospetti. Per quanto soprattutto attiene all'odierno giudizio, riteneva, aderendo alla pronuncia della Corte di 95 Cassazione resa nelle citata ordinanza n. 12368 del 2001 che l'azione aquiliana in parola non costituisse azione di massa, in quanto la parte danneggiata dalla abusiva concessione del credito bancario non si identifica con la collettività dei creditori ma con ciascuno di essi, cosicchè rispetto ad ognuno dei pretesi danneggiati occorre valutare, caso per caso, la sussistenza dell'illecito e del pregiudizio. Rilevava in proposito che la curatela non aveva allegato un pregiudizio risentito dall'intero ceto creditorio dal momento che la domanda identificava il danno risarcibile nella differenza tra le attività fallimentari e le passività nei confronti di soggetti diversi dalle banche, tra i quali soli dunque andrebbe suddiviso il risultato dell'eventuale esito favorevole della azione risarcitoria. La Corte barese negava che al curatore si possa riconoscere un generale potere di rappresentante dei dritti dei creditori del fallimento e, al di fuori dello strumento della revocatoria, quello di far valere in nome loro la eventuale responsabilità di terzi. Riteneva quindi che l'azione in parola fosse da assimilarsi a quella di cui all'art. 2395 c.c. e che fosse pertanto ininfluente ogni riferimento all'art. 146 L. Fall., per pervenire alla affermazione della legittimazione di cui si tratta, e negava la applicabilità alla vicenda della previsione dell'art. 240 L. Fall.. Quanto alla eccepita prescrizione delle azioni proposte dalla curatela riteneva che il decorso del relativo periodo si doveva considerare iniziato già alla data del 30 luglio 1994, nella quale le banche non approvarono il piano di rientro presentato dalla impresa, giacchè da tale evento, molto pubblicizzato, i creditori non potettero dedurre la solvibilità della stessa. Contro questa sentenza vi è ricorso per Cassazione da parte della curatela del fallimento con quattro motivi. Resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato la Banca di Roma, ora Capitalia s.p.a.. Resiste al ricorso incidentale condizionato con altro controricorso la Curatela del fallimento. Le parti hanno depositato memorie. La causa è stata rimessa all'esame di queste Sezioni Unite per la soluzione della questione di massima di particolare importanza relativa alla legittimazione attiva del curatore fallimentare. Inizio documento Diritto 1.1 ricorsi vanno preliminarmente riuniti. 2. Vanno esaminati, prima del ricorso principale, il primo ed altresì il secondo motivo del ricorso incidentale, ancorchè questo sia espressamente condizionato all'accoglimento del principale, giacchè con essi la Banca propone questioni pregiudiziali di rito che incidono su quella di massima il cui esame è stato demandato a queste Sezioni Unite. 2.a. Con il primo motivo del ricorso incidentale la Banca lamenta il mancato esame da parte della Corte Barese di un motivo di appello da essa proposto relativo alla già eccepita incompetenza del Tribunale di Foggia. 2.b. Osserva il collegio che la sentenza impugnata, sia pure senza farne un capo di decisione formalmente evidenziato, ha tuttavia trattato la questione ed ha dato conto di avere esaminato la eccezione di incompetenza, rigettandola, rilevando che la questione era stata risolta dalla ordinanza delle Sezioni Unite n. 12368 del 2001. In tal modo dunque la Corte di merito ha anche motivato in 96 ordine alla ritenuta competenza, giacchè ha espressamente richiamato, condividendolo, il dictum delle Sezioni Unite. Il motivo è infondato. 2.c. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale lamenta il mancato rilievo della nullità della domanda originaria di risarcimento dei danni da abusiva concessione del credito, sotto il profilo della mancanza di specificazione. La citazione infatti, come la Corte Barese non ha notato, non indicava i singoli finanziamenti che sarebbero stati effettuati commettendo l'abuso. 2.d. Osserva il collegio che la domanda della curatela è stata interpretata dalla Corte di merito come fondata sulla allegazione di un complessivo comportamento professionale del banchiere protratto per un certo periodo, il cui effetto è stata la produzione nel mercato della percezione della impresa sovvenuta come ancora finanziatale. La domanda, rileva la sentenza impugnata sul punto, si conclude con la richiesta di un risarcimento commisurato alle passività bancarie complessive. Esattamente la Corte Barese ha ritenuto la domanda, così intesa, specificata nei suoi elementi. La doglianza è dunque anch'essa infondata. 3. Con il primo motivo del ricorso principale la Curatela lamenta la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. nonchè la motivazione insufficiente, contraddittoria ed omessa sul punto decisivo dell'affermata carenza di legittimazione attiva del curatore a proporre l'azione risacitoria. Sostiene che siccome il curatore è legittimato a proporre, quale avente causa dal fallito, ogni azione che questi avrebbe potuto proporre, egli nella vicenda ha fatto valere per l'appunto un pregiudizio subito dalla Italsemole per effetto della abusiva concessione di credito da parte della banca. Il valore economico di un finanziamento secondo questa prospettazione è neutralizzato dal suo costo complessivo, cosicchè esso assume rispetto al patrimonio del soggetto finanziato, un valore negativo. La condotta della banca, illecita perchè connotata non già dal rispetto dei principi di sana e corretta gestione del credito, ma invece diretta a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore decotto, avrebbe cagionato al patrimonio della società per l'appunto con i non dovuti finanziamenti un danno diretto, il cui ristoro può essere chiesto dal curatore allo stesso titolo per il quale avrebbe potuto chiederlo l'imprenditore danneggiato. 3.a. Deve, a questo punto, essere esaminata l'eccezione di inammissibilità del motivo, avanzata dalla banca resistente sotto il profilo della sua novità. La banca infatti sostiene che la domanda risarcitoria era stata avanzata esclusivamente sotto il profilo della spettanza al Curatore della tutela immediata dei diritti della massa e non dei diritti derivati al creditore da pretese lesioni del patrimonio della società fallita. 3.b. Osserva il collegio che la citazione introduttiva del primo giudizio allega a fondamento della accusa di illecita concessione di credito bancario, la direzione a mantenere "artificiosamente in vita" una impresa decotta, "suscitando nel mercato la falsa opinione si trattasse di impresa economicamente valida". La direzione a mantenere artificiosamente in vita l'impresa non è, in questa prospettazione, allegazione distinta da quella della produzione della falsa opinione del mercato, corrispondente cioè a circostanza fattuale a sua volta distinta e capace di dare luogo ad evento ulteriore, come sostiene la curatela 97 rispondendo sul punto alla eccezione della banca. Essa è, piuttosto, il presupposto della seconda. Si manteneva in via artificiosamente un' impresa che era insolvente e con ciò appunto si suscitava nel mercato una errata percezione della sua realtà finanziaria ed economica. Effetto questo che a sua volta conduceva i terzi a contrattare o a continuare a contrattare con la società. Detta prospettazione unitaria della condotta della banca da parte della Curatela, trova conferma nella sottolineatura di circostanze dalle, quali, secondo l'attrice, doveva emergere una sorta di complicità tra i vertici della impresa ed i funzionari della banca, tendente a rendere apparenti le istruttorie ed ad evitare che esse facessero emergere la vera situazione della impresa. Attività scorretta che peraltro nello stesso atto introduttivo viene attribuita all'intero ceto bancario interessato e che viene valutata come estesa a tutto il gruppo Casillo del quale la srl Italsemole era componente. Siffatta impostazione della domanda, e dunque la causa pretendi, si riflette sul petitum. Tant'è che la domanda risarcitoria viene specificata in citazione nell'ammontare delle passività non bancarie della fallita, detratte le attività. Infatti, in assoluta coerenza alla predetta interpretazione della domanda la sentenza impugnata a foglio 13 e 14 rileva la novità della prospettazione della curatela secondo la quale il diritto leso consisteva anche nella impossibilità nella quale la fallita società era stata messa relativamente all'esercizio delle azioni revocatorie e ritiene di non poterla esaminare. Ciò in quanto, appunto, l'azione originariamente esercitata dal curatore era relativa alla tutela della massa dei creditori, lesi da una attività bancaria che li aveva indotti a ritenere, tutti indistintamente, effettivamente sussistente una organizzazione di impresa che invece era una apparenza, frutto del predetto artificio finanziario. 3.c. Va peraltro osservato che il danno da abuso di credito cagionato nei confronti dei terzi, creditori inclusi, ha natura aquiliana. Esso è il pregiudizio che segue alla insufficienza del riparto, pur dopo l'esperimento delle azioni esecutive. Esso, diversamente dalla diminuzione che subisce il patrimonio del creditore per effetto dell'inadempimento, risale anche alla attività di un soggetto diverso dall'inadempiente, e richiede per il suo accertamento, prima ancora che per la sua liquidazione, l'esperimento delle azioni, per l'appunto di massa, che tendono alla conservazione della garanzia generica. Consegue che le due responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale risalgono a fatti pregiudizievoli distinti ed autonomi, i quali possono dare luogo a distinti eventi dannosi. La rispettiva allegazione in giudizio a fondamento della domanda risarcitoria, a prescindere dalla questione della legittimazione a proporre quest'ultima, deve essere differenziata non potendo l'una essere dedotta automaticamente dall'altra. In conclusione nella vicenda in esame il dedotto danno al patrimonio della società non è mai stato allegato autonomamente, ma solo quale indistinto elemento del danno alla massa. Un danno diretto ed immediato al patrimonio della fallita, quale presupposto dell'azione che al curatore spetta come successore nei rapporti del fallito e titolare dei diritti sorti in capo a questi, non venne mai dedotto. La questione, come tale, è nuova perchè avanzata per la prima volta in questa sede, e pertanto inammissibile. 98 4. Con il secondo motivo di ricorso la Curatela del Fallimento lamenta la violazione degli artt. 2043, 1175, 1375, 2740, 2741 c.c., degli artt. 51 e 52 L. Fall., degli artt. 99 e 100 c.p.c., degli artt. 6 e 31 L. Fall. nonchè la motivazione carente sul punto della legittimazione attiva del curatore fallimentare. Sostiene che il comportamento della banca, contrario a correttezza e buona fede, ha leso il diritto della massa alla realizzazione del credito nella esecuzione concorsuale. Sostiene che la banca con l'allegato comportamento non solo ha violato i doveri del proprio stato, ma ha realizzato il proprio interesse con il danno contemporaneo dei creditori della fallita diminuendo la soddisfazione che questi avrebbero potuto realizzare attraverso il riparto. Ciò tanto con riferimento ai creditori anteriori al compimento dell'illecito quanto a quelli successivi. Il motivo quindi rileva che la banca ha operato perchè attraverso la abusiva concessione del credito venisse allargato il passivo, così pregiudicando il patrimonio della fallita e facendo oggettivamente diminuire le quote spettati ai partecipanti al riparto- L'iniziativa del curatore dunque sarebbe diretta a tutelare la intera massa al maggior riparto possibile. L'interesse della fallita alla conservazione del patrimonio e quello dei creditori ad un più ampio riparto sarebbero coincidenti. 4.a. Osserva il collegio che in via di principio non si può ritenere, come sembra presupporre la ricorrente, che nel sistema fallimentare il curatore sia titolare di un potere di rappresentanza di tutti i creditori, indistinto e generalizzato. Il sistema piuttosto prevede che la funzione del curatore sia diretta a conservare il patrimonio del debitore, garanzia del diritto del creditore, attraverso l'esercizio delle cosìdette azioni di massa, dirette ad ottenere, nell'interesse del creditore, la ricostituzione del patrimonio predetto, come avviene per l'appunto attraverso l'esercizio delle azioni revocatorie e surrogatorie. Tale principio peraltro non è assoluto, come ancora pare ritenere il ricorrente, ma va armonizzato con quello secondo il quale siffatta legittimazione ad agire, sostitutiva dei singoli creditori, non sussiste in presenza di azioni esercitabili individualmente in quanto dirette ad ottenere un vantaggio esclusivo e diretto del creditore nei confronti di soggetti diversi dal fallito, come avviene mediante le azioni di cui agli artt. 2395 e 2449 c.c. (vedi cass. n. 18147 del 2002). Il quesito sottoposto alla Corte è dunque se la azione di danno da abusiva concessione di credito possa essere ritenuta azione di massa, nel senso precisato, con conseguente legittimazione attiva del curatore fallimentare. La risposta, anche sulla scorta della dominante opinione scientifica, deve essere negativa. 4.b. L'azione di massa è caratterizzata dal carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo. Essa nell'immediato perviene all'effetto di aumentare la massa attiva, quali che possano essere i limiti quantitativi entro i quali i creditori se ne avvantaggeranno. Essa tende direttamente alla reintegrazione del patrimonio del debitore, inteso come sua garanzia generica e comunque esso sarà suddiviso attraverso il riparto. Non appartiene a tale novero di azioni ogni pretesa che richiede l'accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori. Nè vi appartiene ogni azione che, per quanto diffusa possa essere una specifica pretesa, necessita pur sempre dell'esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, non essendo sufficiente ad assicurarne l'eventuale beneficio la 99 mera appartenenza ad un ceto. 4.c. Va dunque anzitutto rilevato che l'azione risarcitoria di cui si tratta nella sua ontologia costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, analogamente alle azioni che traggono origine da atti degli amministratori della società fallita che danneggiano il terzo, ai sensi dell'art. 2395 c.c.. Il danno che deriva da siffatta attività andrà, comunque, caso per caso valutato nella sua esistenza e nella sua entità, essendo ben ipotizzabile che creditori che pur hanno diritto di partecipare al riparto non hanno titolo per il risarcimento di cui si tratta, non avendo ricevuto danno dalla continuazione della attività di impresa. 4.d. Inoltre la posizione dei singoli creditori nei confronti di siffatta attività di sovvenimento abusivo dell'imprenditore si differenzia a seconda che i crediti siano antecedenti oppure successivi alla stessa. La circostanza temporale infatti può escludere oppure costituire il presupposto del pregiudizio, negando pertanto il carattere indifferenziato che struttura l'azione di massa. Il creditore antecedente l'abusiva concessione del credito avrà titolo a dolersi per la partecipazione al riparto, pur sempre all'esito delle azioni conservative del patrimonio da ripartire, dei creditori successivi. Questi ultimi, invece, esclusivamente dell'eventuale incapienza e per tale parte soltanto. 4.e. Va ancora osservato, sviluppando un argomento cui si è cennato innanzi ai soli fini processuali rilevanti nell'esame del primo motivo, che la odierna ricorrente partecipò al contratto che dette luogo alla abusiva concessione del credito. Essa dunque da quel contratto non trasse un credito nei confronti della banca, oggi rivendicabile dal curatore. Piuttosto dette luogo, nella stessa costruzione proposta dalla curatela, all'illecito di cui si discute. Dunque non può ragionarsi in termini di compensazione delle colpe, come pretende la curatela, giacchè l'ipotesi di cui all'art. 1227 c.c., non può applicarsi al caso in cui entrambe le parti del rapporto danno vita, consapevolmente, al medesimo illecito, riguardando la norma codicistica la fattispecie nella quale distinte condotte, diversamente efficienti a produrre l'evento di danno, ma tuttavia l'una avente titolo nella colpa, concorrono a produrre l'evento pregiudizievole. Nelle vicenda in esame si ha che l'abuso del credito affermato si è perfezionato mediante la conclusione di un contratto al quale la s.r.l. partecipò con i suoi organi, a tanto legittimati dai suoi statuti. Potrebbe, al più, ipotizzarsi una responsabilità di costoro per mala gestio, ma questa esclude comunque l'azione risarcitoria di cui si tratta per la ragione che alcun diritto di credito verso il proprio contraente in capo alla società finanziata abusivamente potette nascere, da un fatto illecito prodotto anche da attività infedele dei suoi rappresentanti. Ragionare diversamente, pare il caso di osservare, vorrebbe dire ammettere che la banca dopo di avere subito l'azione risarcitoria, e dunque avere conferito alla massa l'equivalente del pregiudizio arrecato, possa poi, non essendo venuta meno la sua qualità di creditore del fallito, partecipare al riparto della massa così costruita e riprendere quanto versato. Siffatto duplice eventuale ruolo della banca, creditrice e insieme responsabile di un pregiudizio, viene autorevolmente indicato in dottrina come ulteriore ragione di esclusione della 100 legittimazione di cui si tratta. 4.f. Osserva ancora la Corte che la abusiva concessione del credito per perfezionarsi e produrre pregiudizio, non deve essere collegata di necessità all'evento fallimento, come la suggestiva prospettazione del ricorrente sembra supporre. Essa infatti rimane illecita e dunque possibile fonte di pregiudizio aquiliano, ancorchè non venga seguita dal fallimento ed addirittura prima ancora che questo si verifichi. Una concessione di credito estranea alle regole di corretta amministrazione del medesimo, mantenendo artificialmente in vita una impresa quando essa invece dovrebbe uscire dal mercato, le consente di continuare una concorrenza che altrimenti non eserciterebbe. Con ciò essa, quale ne possa essere la sorte, produce danno di natura concorrenziale al concorrente, il quale a prescindere dal fallimento, può esercitare azione risarcitoria nei confronti della impresa stessa, oltre che della banca. Si deve dunque dedurre che l'effetto dannoso della attività illecita di cui si tratta non è di necessità e dunque esclusivamente la erronea percezione della solvibilità della impresa finanziata. Lo specifico effetto piuttosto è potenzialmente plurimo, e dipende dalla relazione giuridica con il terzo danneggiato. Situazione tutt'affatto estranea a quella caratterizzata dalla omogeneità delle azioni di massa. Nella fattispecie in esame il fallimento della impresa abusivamente finanziata, come autorevole dottrina ha chiarito, si pone che evento storico, non essenziale a renderla rilevante. Laddove invece, ad esempio un pagamento effettuato con modalità anomale, rileva quale oggetto di una revocatoria fallimentare, solo se è seguita dal fallimento. In questo senso peraltro deve essere intesa la giurisprudenza della Corte di Cassazione che si è occupata dell'abuso del credito al fine di determinare la competenza territoriale sulla relativa domanda (oltre alla già citata ord. n. 12369 del 2001, vedi la n. 13934 del 2003). Essa osserva che tale competenza si individua con riferimento al luogo nel quale si è verificato l'evento dannoso, che non è costituito dal fallimento, fatto estraneo alla struttura del danno, ma dall'aggravamento del dissesto economico della impresa artificiosamente tenuta in vita. Evento che per l'appunto si realizza laddove essa svolge la sua attività economica. 4.g. Tale considerazione toglie utilità alla prospettazione ulteriormente avanzata dalla ricorrente relativa alla piena coincidenza del pregiudizio alla massa con quello al patrimonio della società, di cui s'è detto nel rilevare la inammissibilità quale motivo di ricorso, e che viene in questa sede adoperata quelle argomentazione di rincalzo. 4.h. Pare infine utile precisare che la interpretazione che si è appena sostenuta è coerente con la linea di tendenza che emerge dalle recenti riforme nella materia fallimentare (D.L. n. 35 del 2005, L. n. 80 del 2005 e D.Lgs. n. 122 del 2005). Mentre infatti le finalità recuperatorie della azione revocatoria risultano ribadite, viene ulteriormente rafforzata la opinione oramai risalente che sostiene lo sganciamento dell'istituto dalle forme di tutela nei confronti dell'illecito, e dunque viene ulteriormente sottolineata la differenza con la azione ordinaria. Cosicchè pare di dovere concludere che ogni pretesa che pur riguardando il patrimonio del fallito, allega a fondamento un illecito da questi 101 subito, sfugge alla logica della universalità e della concorsualità, tipiche delle azioni esecutive di massa. Con ciò, va pure rimarcato, confermandosi quella autorevole lettura dell'art. 240 L. Fall., che considera, a fronte di un illecito, eccezionale la doppia legittimazione ad agire del curatore e del creditore. Il motivo deve essere respinto. 5. Vanno dunque rigettate le prime due doglianze del ricorso incidentale e le prime due doglianze del ricorso principale. Gli atti vanno rimessi al Primo Presidente per la assegnazione alla Sezione Semplice che dovrà esaminare le restanti questioni. P.Q.M.La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale ed il primo ed il secondo motivo del ricorso principale. Rimette gli atti al Primo Presidente per la assegnazione della causa alla sezione semplice per l'esame delle restanti questioni. 102 CASS. CIV. -SEZ. III- 6 LUGLIO 2006, N. 15383- PRES. NICASTROEST. SEGRETO Svolgimento del processo Con citazione notificata il 18.11.1998, Andrea Bollesi, proponeva appello avverso la sentenza del giudice di pace di Ancona n. 3 02/1998, con la quale veniva respinta la domanda di risarcimento dei danni subiti dallo stesso in occasione del sinistro occorso il 30.7.1996, in Ancona, mentre alla guida della propria autovettura percorreva via Passo Varano ed, a seguito dello spostamento improvviso sulla sinistra dell'auto che lo precedeva, finiva con la ruota posteriore in un tombino scoperto, non segnalato, il cui coperchio era appoggiato in vicinanza dell'apertura, riportando danni. Il Tribunale di Ancona, con sentenza depositata il 13.6.2002, rigettava l'appello. Riteneva il tribunale che nella specie, trattandosi di bene appartenente al demanio stradale comunale, non era ipotizzabile una responsabilità del Comune a norma dell'art. 2051 ce, ma solo ai sensi dell'art. 2043 ce, ove fosse stata ravvisabile un'insidia stradale; che nella fattispecie l'attore avrebbe potuto far valere la responsabilità da custodia nei confronti dell'Azienda Municipalizzata Servizi (dotata di propria soggettività giuridica), in quanto gli operai di tale azienda avevano sollevato il coperchio del telaio; che nessuna colpa poteva ravvisarsi a carico del Comune, in quanto lo scoperchiamento del tombino costituiva un caso fortuito posto in essere da un terzo, che escludeva il nesso di causalità. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'attore. Non ha svolto attività difensiva il convenuto. Motivi della decisione l. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2051 ce, in relazione all'art. 2967 ce.., nonché la violazione dell'art. 21 del Cod. strad. e l'insufficiente e contraddittoria motivazione. Assume il ricorrente che erratamente la sentenza ha ritenuto che la responsabilità del Comune per danni dall'uso di strada comunale fosse ristretto alle sole ipotesi di danni da insidia stradale ex art. 2043 ce, mentre andava affermata la responsabilità dell'ente, quale custode a norma dell'art. 2051 e e ; che, ove anche fosse stata ritenuta la custodia del bene da parte della Azienda, cui erano stati appaltati i lavori di manutenzione della strada, ciò non escludeva che rimaneva custode della stessa anche il Comune, essendo essa aperta al traffico, con i conseguenti obblighi imposti dall'art. 21 cod. strad.; che conseguentemente nessun caso fortuito poteva ritenersi sussistere; che, in ogni caso, l'apertura del tombino integrava un'insidia stradale per l'attore, che, proseguendo a ridosso della vettura che lo precedeva, non era in grado di avvistare la detta apertura. 2.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia fondato e che lo stesso vada accolto. Osserva questa Corte che esistono quattro orientamenti giurisprudenziali in merito alla responsabilità della p.a. per i danni subiti dall'utente conseguenti all'utilizzo di beni demaniali e, segnatamente, per quelli conseguenti ad omessa od insufficiente manutenzione di strade pubbliche. Secondo 1'orientamento predominante questa tutela è esclusivamente quella predisposta dall'art. 2043 ce. Si osserva, infatti, che la p.a. incontra nell'esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o di regolamento, nonché dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e 103 diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere (art. 2043 ce), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l'utente una situazione di pericolo occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al ed. trabocchetto o insidia stradale. Sussiste l'insidia, fondamento della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 ce, della p.a. per danni riportati dall'utente stradale, allorché essa non sia visibile o almeno prevedibile (26/05/2004, n.10132; Cass. 22.4.1999, n. 3991; Cass. 28.7.1997, n. 7062; Cass. 20.8.1997, n. 7742; Cass. 16.6.1998, n. 5989 e molte altre). La giurisprudenza nei primi anni del 1900 iniziò ad affermare il principio della responsabilità della P.A. conseguente alla violazione colposa delle regole di prudenza e di esperienza nell'ambito della attività amministrativa, fissando il limite oltre il quale la discrezionalità (e la correlata insindacabilità del suo comportamento da parte dell'autorità giudiziaria) doveva arrestarsi, e sostenendo la rilevanza sul piano civilistico della inosservanza delle regole di prudenza, perizia e diligenza anche con riguardo alla specifica materia della manutenzione stradale. In tale contesto la giurisprudenza in un primo tempo elaborò la figura della insidia o trabocchetto quale elemento sintomatico della attività colposa dell'amministrazione, ricorrente allorché la strada nascondeva una insidia non evitabile dall'utente con l'ordinaria diligenza,- successivamente, peraltro, tale nozione divenne un indice tassativo ed ineludibile della responsabilità della P.A., e l'onere probatorio in ordine alla sua sussistenza ricadeva a carico del danneggiato. Tale orientamento costituisce sostanzialmente ancor oggi un elemento fondamentale per l'affermazione della responsabilità della P.A. ex art. 2043 ce. con riferimento ai danni prodotti da omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, ricondotta infatti all'inosservanza del principio del "neminem laedere", ma sempre a condizione che venga provata l'esistenza di una situazione insidiosa caratterizzata dalla non visibilità e dalla non prevedibilità del pericolo. 2.2.Un orientamento minoritario, invece, riconduce la responsabilità della p.a., proprietaria di una strada pubblica, per danni subiti dall'utente di detta strada, alla disciplina di cui all'art. 2051 ce, assumendo che la p.a., quale custode di detta strada, per escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell'art. 2051 ce, deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile come conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato dell'esistenza dell'insidia, che questi, invece, non deve provare, così come non ha 1 ' onere di provare la condotta commissiva o omissiva del custode, essendo sufficiente che provi l'evento danno ed il nesso di causalità con la cosa (Cass. 22.4.1998, n. 4070; Cass. 20.11.1998, n. 11749; Cass. 21.5.1996, n. 4673; Cass. 3 giugno 1982 n. 3392, 27 gennaio 1988 n. 723). In particolare dalla proprietà pubblica del Comune sulle strade poste all'interno dell'abitato (art. 16 lett. b della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F) discende non solo l'obbligo dell'Ente alla manutenzione, come stabilito dall'art. 5 del R.D. 15 novembre 1923 n. 2056, ma anche quello della custodia con conseguente operatività, nei confronti dell'Ente stesso, della presunzione di responsabilità ai sensi dell'art. 2051 ce . Per danni causati da beni demaniali, è fortemente sostenuto in dottrina che il ritenere non applicabile alla stessa per tale categorie dei beni la responsabilità da custodia, 104 ma solo quella ex art. 2043 ce, costituirebbe un ingiustificato privilegio e, di riflesso, un ingiustificato deteriore trattamento per gli utenti danneggiati. 3.1.Un orientamento intermedio, che è andato sempre più sviluppandosi negli ultimi tempi, ritiene che l'art. 2051 ce, in tema di presunzione di responsabilità per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia - in realtà -trova applicazione nei confronti della pubblica amministrazione, con riguardo ai beni demaniali, esclusivamente qualora tali beni non siano oggetto di un uso generale e diretto da parte dei terzi, ma vengano utilizzati dall'amministrazione medesima in situazione tale da rendere possibile un concreto controllo ed una vigilanza idonea ad impedire l'insorgenza di cause di pericolo (Cass. 3 0 ottobre 1984 n. 5567), ovvero, ancora, qualora trattisi di beni demaniali o patrimoniali che per la loro limitata estensione territoriale consentano una adeguata attività di vigilanza sulle stesse (Cass. 5.8.2005, n. 16675; Cass. n. 11446 del 2003; Cass. 1.12.2004, n. 22592; Cass. 15/01/2003, n.488; Cass. 13.1.2003, n. 298; Cass. 23/07/2003, n.11446). 3.2. Una recente sentenza di questa Corte (20.2.2006, n. 3651) ribadisce il principio che, poiché custode dei beni demaniali è la P.A., essa risponde dei danni provocati da detti beni a norma dell'art. 2051 ce. La peculiarità di questa sentenza è nell'escludere che la responsabilità del custode ex art. 2051 ce costituisca una responsabilità oggettiva, cioè "una responsabilità senza colpa", poiché fondamento della responsabilità è la violazione del dovere di sorveglianza, gravante sul custode. Secondo tale arresto il caso fortuito, che esclude la responsabilità, non costituisce un elemento esterno che incide sul nesso causale, ritenendo, invece che la prova del fortuito (prova liberatoria) attiene alla prova che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con l'adeguata diligenza, per cui la prova del fortuito attiene al profilo della mancanza di colpa da parte del custode, mentre l'estensione del bene demaniale e l'uso diretto della cosa da parte della collettività sono elementi sintomatici per escludere tale presunzione di colpa a carico del custode. Tale sentenza, quindi, non solo inquadra la responsabilità della P.A. per danni da beni demaniali nell'ambito dell'art. 2051 ce, ma soprattutto riporta la responsabilità del custode nell'ambito della responsabilità per colpa, nella specie presunta. 4. La problematica in questione è stata esaminata dalla Corte Costituzionale (10/5/1999 n. 156) , che ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2043, 2051 e 1227, primo comma, ce. in rapporto agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, sulla scorta dei rilievi che, come sottolineato in alcune sentenze, "la notevole estensione del bene e l'uso generale e diretto da parte dei terzi costituiscono meri indici dell'impossibilità del concreto esercizio del potere di controllo e di vigilanza sul bene medesimo; la quale dunque potrebbe essere ritenuta, non già in virtù di un puro e semplice riferimento alla natura demaniale del bene, ma solo a seguito di un'indagine condotta dal giudice con riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità". La Corte Costituzionale, nel ritenere non fondata la questione, richiamato il principio di autoresponsabilità a carico degli utenti "gravati di un onere di particolare attenzione nell'esercizio dell'uso ordinario diretto del bene demaniale per salvaguardare appunto la propria incolumità", ha tra l'altro considerato la nozione di insidia "come una sorte di figura sintomatica di colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso fine di meglio distribuire tra le parti l'onere 105 probatorio, secondo un criterio di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità in esame" (sull'infondatezza della sollevata questione di incostituzionalità, vedasi anche Cass. S.U. n. 10893/2001). 5.1.11 problema che si pone, soprattutto per effetto della sentenza n. 3651/2006, è, in primo luogo, quello di riesaminare il tipo di responsabilità del custode, al fine di sperimentarne l'applicabilità nei confronti del titolare di beni demaniali. La giurisprudenza costante di questa Corte ritiene che la responsabilità per danni cagionati da cosa in custodia, ex art. 2051 ce, ha base: a) nell'essersi il danno verificato nell'ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa; b) nell'esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi. In questo senso, in buona sostanza, è anche la suddetta Cass. n. 3651/06. 5.2. A fronte del suddetto tradizionale orientamento giurisprudenziale tradizionale, che individuava nella norma in questione un caso di presunzione di colpa, per cui il fondamento della responsabilità sarebbe stato pur sempre il fatto imputabile dell'uomo (nella specie del custode), che era venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza perché la cosa non producesse danni a terzi (in questo senso, in buona sostanza, è anche la suddetta Cass. n. 3651/06) , la maggioranza della dottrina recente ritiene che il comportamento del responsabile è estraneo alla fattispecie e fa quindi giustizia di quei modelli di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta o meno, parlando in proposito di caso di responsabilità oggettiva. La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia (art. 2051 ce.) ha carattere oggettivo e, perché possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, e funzione della norma è, d'altro canto, quella di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto ne controlla le modalità d'uso e di conservazione, e non necessariamente il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'imprevedibilità (rilevante non già ad escludere la colpa bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare l'eccezionalità del fattore esterno, sicché anche un'utilizzazione estranea alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode laddove largamente diffusa in un determinato ambiente sociale) e dell'inevitabilità, a nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi insorti nella cosa prima dell'inizio del rapporto di custodia (ex multis Cass. 10/03/2005, n.5326; Cass.10/08/2004, n.15429, Cass. 15/03/2004, n.5236; Cass. 15/01/2003, n.472; Cass. 20/08/2003, n.12219; Cass. 9/04/2003, n.5578; Cass. 15/01/2003, n.472; Cass. S.U. 11.11.1991, n. 12019; Cass. 17.1.2001, n. 584). 5.3.Ritiene questa Corte di dover ribadire tale orientamento. Solo il "fatto della cosa" è rilevante (e non il fatto dell'uomo). 106 La responsabilità si fonda sul mero rapporto di custodia e solo lo stato di fatto e non l'obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie. Il profilo del comportamento del responsabile è di per sé estraneo alla struttura della normativa; né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia, giacché il solo limite previsto dall'articolo in esame è l'esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite del fortuito si identifichi con l'assenza di colpa. Va, quindi, affermata la natura oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia. La dottrina, parla, al riguardo di "rischio" da custodia, più che di "colpa" nella custodia ovvero, seguendo l'orientamento della giurisprudenza francese di "presunzione di responsabilità" e non di "presunzione di colpa". 5.4.Osserva questa Corte che il dato lessicale della norma in esame ritiene sufficiente, per l'applicazione della stessa, la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all'evento lesivo. Sempre dalla lettera dell'art. 2051 ce, emerge che il danno è cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del custode, ma dalla cosa (fait de la chose - art. 1384, e 1, Code Napolèon) , per cui detto comportamento è irrilevante. Responsabile del danno cagionato dalla cosa è sì colui che essenzialmente ha la cosa in custodia, ma il termine non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire la cosa, e quindi non rileva la violazione di detto obbligo. Qui la nozione di "custodia" non ha la stessa valenza del diritto romano né quella propria della responsabilità contrattuale, per cui non comporta l'obbligo comportamentale del soggetto di controllare la cosa per evitare che essa produca danni: essa non descrive nuli'altro che la relazione tra un soggetto e la cosa che gli appartiene. Il custode negligente non risponde in modo diverso dal custode perito e prudente se la cosa ha provocato danni a terzi. Ciò è tanto più rilevante se si osserva il contesto ove trovasi la norma in questione e cioè tra altre (artt. 2047, 2048 e 2050 ce, art. 2054 ce, 1° comma) ben diversamente strutturate, in cui la presunzione non attiene alla responsabilità, ma alla colpa, per cui la prova liberatoria, in siffatte altre ipotesi, ha appunto ad oggetto il superamento di detta presunzione di colpa. 5.5.11 fortuito esclude la responsabilità del custode, ai sensi dell'art. 2051 ce. Esso va inteso nel senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso danneggiato, purché detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass. 10/03/2005, n.5326; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11264; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1947). Poiché la responsabilità si fonda non su un comportamento o un'attività del custode, ma su una relazione (di custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poiché il limite della responsabilità risiede nell'intervento di un fattore (il caso fortuito) che attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 ce), ma alle modalità di causazione del danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all'elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi. All'attore compete provare l'esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l'evento lesivo; il convenuto per liberarsi dovrà provare l'esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale. 107 5.6. Va, quindi, riassorbita la tesi sostenuta da Cass. n. 3651/06, secondo cui il caso fortuito altro non costituirebbe che la presenza di un evento che esclude la colpa del custode, con la conseguenza che anche questa ipotesi di responsabilità sarebbe di tipo soggettivo, con presunzione di colpa a carico del custode, salva la prova liberatoria della mancanza di colpa, cioè, in positivo, della presenza del fortuito. Tale impostazione risente del principio della tradizione romanistica e di una parte della dottrina classica tedesca, secondo cui " nessuna responsabilità sussiste senza colpa", per cui casus = non culpa, mentre la dottrina moderna riconosce pacificamente la presenza di ipotesi di responsabilità oggettiva, considerandole come approdo delle legislazioni moderne. Anche in Germania, il cui sistema è strenuamente preoccupato della centralità della colpa sul piano dell'affermazione di principio ($ 823 del BGB), la Gefahrdungshaftung si è sviluppata come un vero e proprio sistema di responsabilità oggettiva rigorosamente legislativo, per quanto esterno al BGB. A fronte delle resistenze verso un tipo di responsabilità fondata sulla pura causalità, si è osservato che il criterio di imputazione reagisce sul rapporto di causalità. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare la sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Tale criterio di imputazione nelle specifiche fattispecie di responsabilità oggettive è fissato dal legislatore con una qualificazione del soggetto, su cui viene fatto ricadere il costo del danno. La ratio di tale accollo del costo del danno non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia rimane fuori dalla norma. Esso fu individuato nella deep pocket (tasca ricca) negli ordinamenti del common law e nella richesae oblige, nella tradizione francese, mentre nell'affinamento dottrinale successivo si è ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell'esposizione al pericolo o all'assunzione del rischio, ovvero nell'imputare il costo del danno al soggetto che aveva la possibilità della eoet.benefit analysis, per cui doveva sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria. 5.7.Sennonché, ciò che va ribadito, è che quanto sopra individua la ratio del criterio di imputazione del rapporto di causalità ad un determinato soggetto e non ad altri, effettuata a monte dal legislatore, ma non comporta un ulteriore elemento di integrazione della fattispecie di responsabilità, costituito da un sindacato da parte del giudice sulla scelta effettuata dal soggetto su cui la norma accolla il costo del danno. Nella responsabilità oggettiva il giudizio è puramente tipologico e consiste nell'appurare se l'evento che si è verificato appartenga o meno alla serie di quelli che il criterio di imputazione ascrive ad una certa sfera del soggetto per il loro semplice accadere. In questi termini è esatta la centralità del nesso causale nelle ipotesi di responsabilità oggettiva. 108 Mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta,nesso, causale, ed evento naturalistico o giuridico) , ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale. E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga, giacché l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui agli artt. 2043 e segg. ce. ( sia di responsabilità oggettiva che soggettiva), le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento ad un soggetto chiamato a risponderne. il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili o evento dannoso, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo(questo inteso come condotta, nesso causale ed evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria. 5.8.Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, è analoga a quella penale, artt. 40 e 41 c.p. ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita , la regola dell'art. 1223 ce, per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica, per cui si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili). Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti fanno applicazione dei principi penalisti di cui agli artt. 40 e 41 c.p.. 5.9.Pertanto un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (ed. teoria della condicio sine qua non) : ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiono inverosimili (ed. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale(Cass. 16/12/2004, n.2343; Cass. 26/03/2004, n.6071; Cass. 3/12/2002, n.17152; Cass. 29/07/2004, n.14488; Cass. 19/08/2003, n.12124; Cass. 22/10/2003, n.15789; Cass. 15/01/2003, n.484). Secondo tale teoria della causalità adeguata, elaborata dalla dottrina tedesca ( e sostanzialmente anche secondo la variante italiana della cosiddetta teoria della causalità umana) per l'imputazione oggettiva dell'evento occorrono due presupposti: uno positivo (la raffigurazione della condotta dell'agente come condizione necessaria) ed uno negativo, cioè la mancanza di fattori esterni eccezionali, da valutarsi non ex post, ma ex ante. 109 Detta causalità adeguata (nella sua tradizionale formulazione "positiva") comporta che la rilevanza giuridica della "condicio sine qua non" è commisurata all'incremento, da essa prodotto, dell'obiettiva possibilità di un evento del tipo di quello effettivamente verificatosi. 5.10.Sennonché, una volta ritenuto che nella responsabilità aquiliana, il nesso di causalità materiale è regolato dalle norme penalistiche , non può poi decamparsi da esse allorché si tratti del caso fortuito, previsto dall'art. 45 c.p., che esclude la punibilità di "chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore". La dottrina e la giurisprudenza penalistiche tradizionali ritenevano che il caso fortuito presupponesse il nesso causale e che esso operasse nell'ambito della colpevolezza, quale causa di esclusione della stessa (ed in questi termini sembra muoversi anche la suddetta sentenza civile n. 3651/06) . Sennonché, da oltre quaranta anni, la dottrina penalistica dominante ritiene che il fortuito costituisca una causa di esclusione del nesso causale in quanto l'art. 45 c.p. , nel far seguire al verbo " ha commesso" la preposizione "per", sta ad indicare "a causa di". In ogni caso la suddetta dottrina rileva, in modo pienamente condivisibile, che solo la concezione del fortuito come esclusione del nesso causale si coordina con il precedente art. 41 cpv., secondo cui le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento e soprattutto con il principio di regolarità causale o causalità adeguata. Infatti la considerazione oggettiva del fortuito, inteso come avvenimento obbiettivamente non prevedibile come verisimile, è l'unica compatibile con la teoria della causalità adeguata. Allorché si dichiara che la valutazione del fortuito, come causa di esclusione della colpevolezza e non del nesso di causalità (ovvero come causa concorrente), presuppone già risolta la questione del rapporto di causalità tra la condotta e l'evento verificatosi, si finisce per creare un duplicato del caso fortuito, uno di natura oggettiva e l'altro di natura soggettiva. Ciò è inesatto, giacché non può tenersi conto del casus due volte, prima in sede di causalità e poi in sede di colpevolezza. Sotto il profilo eziologico il caso fortuito svolge a monte la stessa funzione che la "causalità adeguata" svolge a valle relativamente all'evento, ma pur sempre nell'ambito dell'elemento materiale e non in quello soggettivo: esclusione dell'imputabilità per imprevedibilità ed inevitabilità oggettiva (nel primo caso del fatto causante, nel secondo dell'evento causato). 6.1. Così riportata la responsabilità da cose in custodia nell'ambito della responsabilità oggettiva, occorre stabilire quali siano i limiti ed il contenuto della "custodia", che è elemento costitutivo della responsabilità ex art. 2051 ce. ed è il criterio che consente di identificare il soggetto tenuto a risarcire il danno cagionato dalla cosa, al fine di esaminare se ed in quali limiti la P.A. possa essere responsabile ex art. 2051 ce, quale custode di beni demaniali, per poi esaminare, nei casi positivi, in quali termini possa per essa operare l'esimente del caso fortuito. Secondo una tesi il concetto di custodia si deve collegare a quello di uso, godimento, sfruttamento economico della cosa: al custode si imputa la responsabilità, giacché è al soggetto che trae profitto dalla cosa, secondo il brocardo cuius conmoda eìus et incomoda, che deve addebitarsi la responsabilità. La tesi è stata ulteriormente sviluppata dai teorici del rischio-profitto, che hanno ritenuto che la custodia si sostanzia nel dovere di controllo sul rischio derivante dalla 110 cosa, distinguendo tra rischi tipici e rischi atipici, rimanendo a carico del custode solo i primi. 6.2.Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale e dottrinale, cui questa Corte aderisce, la custodia si identifica in una potestà di fatto, che descrive un'attività esercitabile da un soggetto sulla cosa in virtù della detenzione qualificata, con esclusione quindi della detenzione per ragioni di ospitalità e servizio, sulla scia del Gardien (dell'art. 1384 Code Napoleon) e del Besitzherr (§ 854 B.G.B.). Responsabile del danno proveniente dalla cosa non è il proprietario, come nei casi di responsabilità oggettiva di cui agli artt. 2052, 2053 e 2054, ult. e, C.C., ma il custode della cosa. E' dunque la relazione di fatto, e non semplicemente giuridica, tra il soggetto e la cosa che legittima una pronunzia di responsabilità, fondandola sul potere di " governo della cosa". La sola relazione giuridica (corrispondente al diritto reale o alla titolarità demaniale) tra il soggetto e la cosa non dà ancora luogo alla custodia ( ma la fa solo presumere), allorché la relazione di fatto intercorra con altro soggetto qualificato che eserciti la potestà sulla cosa, (ad esempio il conduttore o il concessionario). Tale "potere di governo" si compone di tre elementi: il potere di controllare la cosa, il potere di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonché quello di escludere qualsiasi terzo dall'ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno. Solo così intendendo il contenuto della custodia, si dà ragione del criterio di imputazione costituito dalla relazione di custodia tra il soggetto custode e la cosa che ha prodotto il danno. Infatti - come detto - il criterio di imputazione esiste anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è più fondato su criteri soggettivi, ma su criteri oggettivi, come tali tipologici. Il concetto di responsabilità implica quello di sanzione per un fatto che l'ordinamento connota negativamente nei confronti di colui sul quale ne fa gravare il costo. 6.3.Poiché la custodia è una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa, certamente tale potere di fatto non può essere a priori escluso in relazione alla natura demaniale del bene, ma neppure può essere ritenuto in ogni caso sussistente anche quando vi è l'oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo. Va qui, specificato che, attraverso questa analisi del concetto di "custodia" nel suo contenuto di "potere di governo" della cosa, non si vuole reintrodurre in modo surrettizio, un elemento di soggettività della responsabilità ex art. 2051 ce, inserendolo nell'elemento della custodia, da cui discenderebbe che il custode, che avesse tuttavia controllato senza colpa, sarebbe esente da responsabilità per il danno verificatosi. Non vi è dubbio, come sopra detto, che il custode risponde dei danni prodotti dalla cosa non perché ha assunto un comportamento poco diligente, ma più semplicemente per la particolare posizione in cui si trovava rispetto alla cosa danneggiante, e quindi secondo una logica che è propria della responsabilità oggettiva. 6.4. Ciò comporta che la possibilità o meno del potere di controllo va egualmente accertata in termini oggettivi nello specifico caso di predicata custodia. 111 Se il potere di controllo è oggettivamente impossibile, non vi è custodia e quindi non vi è responsabilità della p.a., ai sensi dell'art. 2051 ce. 6.5.Indici sintomatici dell'impossibilità del controllo del bene demaniale sono la notevole estensione e l'uso generalizzato dello stesso da parte degli utenti; ma tali elementi non attestano in modo automatico l'impossibilità di custodia. La possibilità o l'impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza - dalle quali rispettivamente dipendono l'applicabilità o la non applicabilità dell'art. 2051 ce. - non si atteggiano univocamente in relazione a tutti i tipi di beni demaniali, ma vanno accertati in concreto da parte del giudice di merito. Ove tale attività di controllo non sia oggettivamente possibile, non potrà invocarsi alcuna responsabilità della p.a., proprietaria del bene demaniale, a norma dell'art. 2051 ce, per mancanza di un elemento costitutivo della custodia e cioè la controllabilità della cosa, residuando, se ne ricorre gli estremi, la responsabilità di cui all'art. 2043 ce. 6.6. Segnatamente per i beni del demanio stradale la possibilità in concreto della custodia, nei termini sopra detti, va esaminata non solo in relazione all'estensione delle strade, ma anche alle loro caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico di volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti. Per le autostrade, contemplate dall'art. 2 del D.P.R. 15 giugno 1959 n. 393 (vecchio codice della strada) e del D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (nuovo cod. strad.) e per loro natura destinato alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l'apprezzamento relativo alla effettiva "possibilità" del controllo alla stregua degli indicati parametri non può che indurre a conclusioni in via generale affermativa, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia per gli effetti di cui all'art. 2051 ce. (Cass. n.298/03; Cass. n. 488/2003). 6.7.Figura sintomatica della possibilità dell'effettivo controllo di una strada del demanio stradale comunale è che la stessa si trovi all'interno della perimetrazione del centro abitato (art. 41 quinqiues 1. 17.8.1942, n. 1150; come modificato dall'art. 17 1. 6.8.1967, n. 765; art. 9 d.p.r. 6.6.2001, n. 380; art.4 d. lgs. 30.4.1992, n. 285). infatti la localizzazione della strada all'interno di tale perimetro, dotato di una serie di altre opere di urbanizzazione e, più in generale, di pubblici servizi che direttamente o indirettamente sono sottoposti ad attività di controllo e vigilanza costante da parte del Comune, denotano la possibilità di un effettivo controllo e vigilanza della zona, per cui sarebbe arduo ritenere che eguale attività risulti oggettivamente impossibile in relazione al bene stradale. 6.8.Ove l'oggettiva impossibilità della custodia, renda inapplicabile l'art. 2051 ce, come detto, la tutela risarcitoria del danneggiato rimane esclusivamente affidata alla disciplina di cui all'art. 2043 ce. in merito a questa va specificato che la responsabilità della p.a. per danni conseguenti all'utilizzo di bene demaniale da parte del soggetto danneggiato non può essere limitata ai soli casi di insidia o trabocchetto: questi, come è stato rilevato, sono solo elementi sintomatici della responsabilità della p.a., ma ciò non esclude che possa individuarsi nella singola fattispecie anche un diverso comportamento colposo della p.a.. Limitare aprioristicamente la responsabilità della p.a. per danni subiti dagli utenti dei beni demaniali alle sole ipotesi della presenza di insidia o trabocchetto non trova alcuna base normativa nella Generalklausel di cui all'art. 2043 ce, con 112 un'indubbia posizione di privilegio per la p.a. (in questo senso, già Cass. 14.3.2006, n. 5445). Una volta ritenuta l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 2 043 ce non vi è una ragione, normativamente fondata, né per effettuare una limitazione del contenuto precettivo della norma né per un diverso riparto dell'onere probatorio. In questo caso graverà sul danneggiato l'onere della prova dell'anomalia del bene demaniale ( e segnatamente della strada), fatto di per sé idoneo - in linea di principio - a configurare il comportamento colposo della P.A. sulla quale ricade l'onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali - nella teorica dell'insidia o trabocchetto- la possibilità in cui l'utente si sia trovato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la suddetta anomalia.". 7.1.Sia nell'ipotesi che la fattispecie rientri nell'art. 2043 ce. sia che rientri nell' art. 2051 ce, è rilevante l'eventuale comportamento colposo del danneggiato ,poiché esso incide sul nesso causale. In un sistema in cui il nesso causale tra il fatto e l'evento svolge un ruolo centrale, diventa fondamentale accertare se 1'evento eziologicamente derivi in tutto o in parte dal comportamento dello stesso danneggiato, valutandone, quindi, 1'eventuale apporto causale. Come sopra detto, l'interruzione del nesso di causalità può essere anche l'effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva causa dell'evento di danno, sì da privare dell'efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell'autore dell'illecito (cfr. Cass. 8.7.1998,n. 6640; Cass. 7 aprile 1988, n. 2737). 7.2.Un corollario di detto principio è la regola posta dall'art. 1227, e. 1, ce, il quale nel contempo dà base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un approdo dei codici moderni. In passato, invece, l'accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui. Nei sistemi di common low si parlava di contributory negligence, contributory negligence ed attualmente di comparati ve negligence. Secondo la dottrina classica nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall'art. 1227, e. 1 ce, oltre che da altre norme, che imporrebbe ai, potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza. L'autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli. 7.3.Senza entrare nella questione dell'esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l'idea che la regola di cui all'art 1227, e. 1, ce. sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile. Pertanto la colpa, cui fa riferimento l'art. 1227 e .e., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito dì cui all'art. 2043 ce), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato. 7.4. La regola di cui all'art. 1227 ce. va inquadrata 113 esclusivamente nell'ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso(Cass. civ. 26/04/1994, n.3957; Cass. 08/05/2003, n.6988) . La colpa, cui fa riferimento l'art. 1227 ce, va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043 ce), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato. * Proprio perché è rimasta superata la teoria del principio autoresponsabilità del danneggiato, la colpevolezza del comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall'art. 1227, 1 e, ce, è l'unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti - eziologicamente idonei - del danneggiato, qualunque possa essere l'interpretazione dell'obbligo giuridico, cui si richiama l'art. 41, e 2, c.p.c, allorché il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto. Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore-danneggiato, stante la genericità dell'art. 1227,e I, ce sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica. Se tanto avviene in caso di concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno, tenuto conto di quanto sopra esposto su detto istituto, per eguale ragione il comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia sufficiente da solo a determinare l'evento, esclude il rapporto di causalità delle cause precedenti. 7.5.In questa ottica la diligenza del comportamento dell'utente del bene demaniale, e segnatamente della strada demaniale, va valutata anche in relazione all'affidamento che era ragionevole porre nell'utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo. Per il principio dell'affidamento il fatto che una persona agisca come membro di un determinato gruppo sociale comporta l'assunzione della responsabilità di saper riconoscere ed affrontare determinati pericoli secondo lo standard di diligenza e capacità del gruppo. Qui non si tratta di introdurre - specularmente - in relazione alla posizione del custode l'elemento dell'esigibilità o meno di una diversa condotta , poiché 1'inesigibilità, indipendentemente dal punto se abbia ingresso nella struttura dell'illecito civile, in ogni caso non potrebbe operare che nell'ambito dell'elemento soggettivo, come avviene nella struttura dell'illecito penale (ove peraltro la figura e controversa e non riconosciuta dalla giurisprudenza), con la conseguenza che essa sarebbe irrilevante in ipotesi di responsabilità oggettiva. Qui il problema si pone solo in relazione al comportamento colposo o meno del danneggiato, il quale è connotato dall'affidamento, secondo criteri oggettivi e non soggettivi, che egli ripone nel ritenere esigibile da parte della p.a. custode, una determinata condotta di custodia in relazione ad un determinato bene. In questi termini il colpevole comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o dando un apporto concorrente. In applicazione di tale principio, la diligenza che è richiesta al danneggiato nell'uso del bene demaniale, costituito nella specie da strada, sarà diversa a 114 seconda che si tratti di una strada campestre o del corso principale della città, pur facendo capo entrambe allo stesso demanio stradale dello stesso Comune, proprio perché il danneggiato fa affidamento su una diversa attività di controllo-custodia (che quindi ritiene esigibile) in relazione ai due tipi di strada dello stesso demanio. 7.6.Così inquadrato sotto il profilo eziologico (ex art. 1227, ci, ce.) il comportamento colposo del danneggiato-utente del bene demaniale (nella fattispecie: stradale), va osservato che esso non concreta un'eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, che deve essere esaminata anche d'ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull'eventuale sussistenza dell'incidenza causale dell'accertata negligenza nella produzione dell'evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto su cui si fonda il comportamento colposo del danneggiato (Cass. 2.4.2001, n. 4799; Cass. 9.10.2000, n. 13403; Cass. 3.12.1999, n. 13460). Ciò vale sia nel caso di azione proposta ex art.2051 ce. che ex art. 2043 ce. . 8.1. Sulla base di quanto sopra esposto vanno affermati i seguenti principi di diritto: "La responsabilità ex art. 2051 ce per i danni cagionati da cose in custodia , anche nell'ipotesi di beni demaniali in effettiva custodia della p.a., ha carattere oggettivo e, perché tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa (che ne è fonte immediata) ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell'oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante". 8.2. "La presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all'art. 2051 ce, non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ( nella fattispecie: del demanio stradale) ogni guai volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale potere di fatto sulla stessa. L'estensione del bene demaniale e l'utilizzazione generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure sintomatiche dell'impossibilità della custodia da parte della P.A.,mentre elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune, pur dovendo dette circostanze, proprio perché solo sintomatiche, essere sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito". 8.3. "Ove non sìa applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051 ce, per l'impossibilità in concreto dell'effettiva custodia del bene demaniale, l'ente pubblico risponde dei danni da detti beni, subiti dall'utente, secondo la regola generale dettata dall'art. 2043 ce, che non prevede alcuna limitazione della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l'onere della prova dell'anomalia del bene demaniale ( e segnatamente della strada), fatto di per sé idoneo - in linea di principio a configurare il comportamento colposo della P.A. daini" i-uu., sulla quale ricade l'onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali - nella teorica 115 dell'insidia o trabocchetto- la possibilità in cui l'utente si sia trovato di percepire o prevedere con l'ordinaria diligenza la suddetta anomalia.". 8.4. "Tanto in ipotesi di responsabilità oggettiva della P.A. ex art. 2051 ce, quanto in ipotesi di responsabilità della stessa ex art. 2043 ce, il comportamento colposo del soggetto danneggiato nell'uso di bene demaniale (che sussiste anche quando egli abbia usato il bene demaniale senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) esclude la responsabilità della p.a., se tale comportamento è idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso, integrando, altrimenti,un concorso di colpa ai sensi dell'art. 1227 ce primo comma, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante in proporzione ali'incidenza causale del comportamento del danneggiato". 9. Nella fattispecie, quindi, è errata in diritto l'impugnata sentenza per avere escluso già in astratto che il Comune di Ancona potesse essere responsabile ex art. 2051 ce, quale custode della strada in questione, senza valutare se in concreto fosse possibile esercitare il controllo e la vigilanza sul demanio stradale di quella città,vagliando anche le figure sintomatiche suddette (punto 8.2). 10.1. Quanto al punto secondo cui in ogni caso la custodia faceva capo all'Azienda di manutenzione servizi e non al Comune, per essere stati alla prima affidati i lavori di manutenzione, va osservato che è stato già precisato, in via generale, che, nel caso in cui non vi sia stato il totale trasferimento a terzi del potere di fatto sull'opera, per l'ente proprietario, che sull'opera debba continuare ad esercitare la opportuna vigilanza ed i necessari controlli, non viene meno il dovere di custodia e, quindi, nemmeno la correlativa responsabilità ex art. 2051 ce, da cui si può liberare solo dando la prova del fortuito (Cass., n. 5007/96; Cass., n. 5539/97). E' stato in particolare affermato da questa Corte che, con riguardo a lavori stradali eseguiti in appalto su concessione dell'Anas, che abbiano comportato insidia o trabocchetto causativi di sinistro, per mancanza di cartelli di segnalazione e conseguente invisibilità della esatta ubicazione del pericolo, è configurabile la concorrente responsabilità tanto dell'appaltatore - in relazione al suo obbligo di custodire il cantiere, di apporre e mantenere efficiente la segnaletica, nonché di adottare tutte le cautele prescritte dall'art. 8 e strad. e relativo regolamento - quanto dell'Anas, in relazione al suo dovere di vigilare sull'esecuzione delle opere date in concessione, ed altresì di emettere i provvedimenti necessari per la sicurezza del traffico (Cass. 25/09/1998, n.9599; Cass. 25/09/1990, n.9702). 10.2.Ne consegue che, se l'area di cantiere è stata completamente enucleata, delimitata ed affidata all'esclusiva custodia dell'appaltatore, con assoluto divieto del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all'interno di questa area non potrà che risponderne esclusivamente l'appaltatore, quale unico custode della stessa. Se, invece, l'area su cui vengono realizzati i lavori è ancora contestualmente adibita a tale traffico, ciò denota che l'ente titolare della strada ne ha conservato la custodia, sia pure insieme all'appaltatore, utilizzando la strada ai fini della circolazione. Né potrebbe ritenersi in questo caso che l'estensione del bene demaniale nel suo complesso escluda la possibilità della custodia da parte dell'Ente. Qui infatti ciò che viene in rilievo è esclusivamente l'area adibita promiscuamente ai lavori ed alla circolazione, per cui essa è necessariamente di ridotte dimensioni. Inoltre se per tale area si ritiene possibile la custodia da parte dell'appaltatore, non si vede la 116 ragione per cui non sia possibile la custodia anche da parte dell'Ente titolare della strada, che ne ha conservato il potere di fatto ai fini della circolazione degli utenti. 10.3.Ciò comporta che la responsabilità per danni subiti dall'utente a causa dei lavori in corso su detta strada graverà su entrambi detti soggetti, salvo poi l'eventuale azione di regresso dell'ente proprietario della strada nei confronti dell'appaltatore dei lavori a norma dei comuni principi in tema di responsabilità solidale (art. 2055, e 2, ce.) , tenuto anche conto della violazione degli obblighi di segnalazione e manutenzione imposti dalla legge per opere, depositi e cantieri stradali (art. 21 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285) nonché di quelli assunti dall'appaltatore della manutenzione della strada nei confronti dell'ente proprietario, in base a specifica convenzione. 10.4.Né può ritenersi, come assume la sentenza impugnata, che "il fatto del soggetto assuntore dei lavori" (id est: dei suoi dipendenti) costituisca un'ipotesi del "fatto del terzo", integrante caso fortuito e quindi idoneo ad interrompere il nesso causale tra la custodia ed il danno ingiusto. Ciò potrebbe essere esatto (sia pure in presenza anche di altri elementi) se l'Ente, titolare della strada, fosse il solo custode della stessa, ma nella situazione in cui si sia ritenuto che detta custodia è congiunta nell'area del sinistro, il soggetto preposto ai lavori, in rapporto al fatto di custodia, non è più un terzo, ma è solo un custode congiunto. Poiché in questa ipotesi la responsabilità è oggettiva { e quindi prescinde dalla imputabilità per comportamento almeno colposo) e si fonda sulla sola relazione di fatto con la cosa, entrambi i soggetti rispondono solidalmente del danno ingiusto a norma dell'art. 2051 ce. 11.L'accoglimento del primo motivo di ricorso comporta l'assorbimento del secondo motivo, relativo alla condanna delle spese processuali. Pertanto va cassata l'impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione del tribunale di Ancona che si uniformerà ai principi di diritto, esposti al punto 8. P.Q.M. Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione ad altra sezione del tribunale di Ancona. Così deciso in Roma, lì 8 giugno 2006. 117 CASSAZIONE – SEZIONE TERZA CIVILE – SENTENZA 14 LUGLIO 2006, N. 16123PRESIDENTE FIDUCCIA – RELATORE MASSERA RICORRENTE VILLANUCCI ED ALTRO Svolgimento del processo Con sentenza non definitiva in data 1 aprile - 7 maggio 1998 il Tribunale di Pordenone, pronunciando sulla domanda proposta da Franca Villanucci e Pierantonio Pignat, in proprio e quali esercenti la potestà di genitori sulle figlie minori Fabrizia e Fabiana, tra l’altro, accertava la solidale responsabilità extracontrattuale della USL n. 12 del Livenza e di Franco Magoni, aiuto primario del Reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale Civile di Sacile, nei confronti della Villanucci e del Pignat e la concorrente responsabilità contrattuale della USL n. 12; stabiliva che la RAS era tenuta a manlevare quest’ultima nei limiti della quota assicurata, pari al 75% del massimale e che l’Assitalia era tenuta a manlevare il Maioni sino alla concorrenza del massimale assicurato; respingeva la domanda di manleva svolta dal Maioni nei confronti della RAS e le domande di Villanucci e Pignat quali esercenti la potestà sulle figlie minori. Con sentenza in data 30 marzo - 18 aprile 2001, la Corte di Appello di Trieste respingeva tutti gli appelli e, quindi, confermava in toto la sentenza del Tribunale, con integrale compensazione delle spese del grado. La Corte territoriale osservava per quanto interessa: il Tribunale aveva proceduto alla difficile ricostruzione di una domanda prospettata in termini oscuri e ambigui in ordine sia al petitum, sia alla causa petendi, ritenendo, in esito ad una interpretazione faticosa ma esatta, che fossero state azionate cumulativamente tanto la responsabilità contrattuale, quanto quella extracontrattuale; quindi aveva accertato la responsabilità extracontrattuale del Maioni per la mancata informazione, nella quale concorreva la USL per il rapporto di servizio che legava i due soggetti, e la responsabilità contrattuale della USL per effetto dell’articolo 1228 Cc, mentre aveva escluso la ravvisabilità della responsabilità contrattuale del medico dipendente, mancando la prova che costui avesse svolto prestazioni ambulatoriali a pagamento; la esecuzione di una serie di attività (visite ginecologiche, esami ecografici, parto) in ambito ospedaliero provavano l’avvenuta stipulazione per facta concludentia del contratto tra la Villanucci e la struttura pubblica sanitaria; il Maioni aveva omesso di informare la paziente delle malformazioni del feto rilevate in sede di esame ecografico e di indicare le malformazioni sulla relativa scheda o cartella; non risultavano invece provati gli ulteriori comportamenti censurabili che gli attori imputavano al sanitario; la domanda di quantificazione del danno era inammissibile, stante il rinvio contenuto nella sentenza impugnata al prosieguo della causa; le figlie minori non rivestivano la qualità di danneggiate, la nata malformata poiché non era ancora nata -quindi non poteva essere ritenuta 118 soggetto danneggiato - al momento in cui erano stati tenuti i comportamenti illeciti addebitati al Maioni, l’altra non essendo stato neppure specificato quale comportamento del Maioni l’avrebbe danneggiata e quali danni avesse in concreto subito; i massimali assicurati non dovevano essere rivalutati non essendo ciò giuridicamente configurabile e non essendosi verificato alcun ritardo colposo da parte delle compagnie assicuratrici; mancava la prova di un contratto del Maioni con la RAS; i comportamenti del medico erano riferibili alla USL in quanto la sua condotta, nella fattispecie concreta, era sicuramente coerente con le finalità istituzionali della struttura sanitaria e il relativo vincolo non era stato spezzato neppure dalla commissione di un reato essendo il fatto addebitato solo un abuso commesso nell’ambito dell’attribuzione dell’ente e delle competenze del dipendente e non per finalità personali egoistiche. Avverso la suddetta sentenza la Víllanucci e il Pignat, in proprio e nella qualità, hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Hanno proposto separati ricorsi incidentali, ciascuno articolato in due motivi, la RAS, il Maioni e la Azienda per i Servizi Sanitari n. 6 Friuli Occidentale già USL n. 12 del Lívenza. I ricorrenti principali, il Maioni e la Asl hanno depositato memorie. Motivi della decisione Preliminarmente occorre disporre la riunione dei quattro ricorso, come previsto dall’articolo 335 Cpc. Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano violazione degli articoli 5 Legge Regione Friuli Venezia Giulia 25/1985, legge 833/78 e 39 del Codice Deontologico, nonché vizio di motivazione. Le norme citate affermano rispettivamente il diritto individuale dell’utente all’informazione in termini comprensibili, la finalità in capo al Servizio Sanitario Nazionale dell’educazione sanitaria che logicamente presuppone l’informazione, il dovere del medico di dare completa informazione al paziente in conformità alla sua volontà. Per queste ragioni l’informazione costituisce una imprescindibile integrazione della prestazione sanitaria. La censura, seppur basata su argomentazioni totalmente condivisibili è inammissibile per manifesta carenza di interesse, in quanto la Corte territoriale ha addebitato al Maioni proprio le omesse informazioni in ordine alle malformazioni riscontrate nella nascitura. La Villanucci e il Pìgnat sostengono che la mancata informazione ha loro impedito sia di ricorrere alla interruzione della gravidanza o di recarsi in un paese estero avente un regime giuridico meno rigoroso di quello italiano, sia di avere un approccio meno brutale con la realtà. Ma queste argomentazioni non dimostrano l’erroneità della sentenza impugnata, poiché essa ha evidenziato appunto sia un illecito contrattuale di natura professionale (la mancanza di informazione), sia un illecito professionale di natura extracontrattuale (la lesione del diritto assoluto 119 all’informazione), in relazione ai quali ha confermato la condanna generica al risarcimento del danno inflitta dal Tribunale. D’altra parte è noto (Cassazione 2793/99) che il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo dì esatta informazione che il sanitario era tenuto ad adempiere in ordine alle possibili anomalie o malformazioni del nascituro, ma necessita anche della prova della sussistenza delle condizioni previste dagli articoli 6 e 7 della legge 194/78 per ricorrere all’interruzione di gravidanza. I ricorrenti lamentano anche il mancato invito alla donna a sottoporsi ad ecografia alla ventesima settimana, oltre alle altre praticate alla prima, alla quattordicesima, alla trentesima e alla trentasettesima. La contestazione implica imprescindibili valutazioni di merito non consentite in sede di legittimità e sulle quali si è pronunciata la Corte d’Appello. D’altra parte gli elementi testuali ricavabili dalla sentenza impugnata e dal ricorso non consentono di stabilire se l’esecuzione della ecografia di cui si lamenta l’omissione avrebbe fornito elementi più significativi e tempestivi rispetto a quelli risultanti delle ecografie praticate, che gli stessi ricorrenti riconoscono essere state in numero superiore al consueto. Quanto, poi, alle modalità, tecnica e qualità degli accertamenti strumentali eseguiti, è agevole rilevare che si tratta di temi preclusi in questa sede, così come i riferimenti alla consulenza tecnica medico legale. Considerazioni dei tutto analoghe valgono per la villocentesi, che la sentenza impugnata afferma essere stata effettuata per volontà della Villanucci, avendola costei prenotata prima di sottoporsi alla visita ginecologíca effettuata dal Maioni (anche questa circostanza viene contestata ma trattasi di questione di fatto non diversamente ricostruibile in questa sede) e che la pericolosità di tale pratica all’epoca non era ancora nota. In altri termini, i limiti istituzionali del giudizio di legittimità non consentono di apprezzare quella “condotta negligente e omissiva” che i ricorrenti addebitano al Maioni e che la Corte territoriale ha negato in base all’apprezzamento motivato delle risultanze processuali. In conseguenza di ciò nessuna responsabilità è stata attribuita dai due giudici di merito - e certamente non può esserlo dalla Corte dì Cassazione -al sanitario e all’ente ospedaliero in ordine alle cause che hanno determinato le malformazioni all’origine della controversia. Il primo motivo risulta, dunque, infondato. Con il secondo motivo i ricorrenti principali denunciano violazione degli articoli 2059 - 2056 - 2043 Cc, 1223 Cc e 32 Costituzione, nonché vizio di motivazione. La censura concerne il rigetto della domanda di risarcimento a favore delle due minori, che la Corte d’Appello non ha ritenute soggetti danneggiati. Quanto a Fabiana, che è appunto la minore affetta dalle gravissime malformazioni, all’epoca dei comportamenti illeciti attribuiti al Maioni soltanto concepita, i ricorrenti pongono in evidenza che l’evoluzione giurisprudenziale è nel senso di riconoscere, in presenza di lesioni gravi del nascituro, la tutela dell’individuo sin dal momento del concepimento. Quanto alla sorella maggiore Fabrizia, assumono che, nella sua qualità di 120 congiunta, ha subito un pregiudizio che investe molteplici versanti. Il tema concernente la prima minore viene proposto facendo leva su una nota sentenza di questa stessa sezione che, tuttavia, non è pertinente in quanto risolve la ben diversa fattispecie in cui le lesioni riportate dal nascituro erano direttamente imputabili a comportamento colposo dei sanitari, situazione da escludere nella specie in virtù delle considerazioni vedute con riferimento al primo motivo. Invece il tema particolare proposto dal caso concreto si sostanzia nello stabilire se la violazione del dovere di informazione cui il sanitario era tenuto e la conseguente mancata interruzione della gravidanza possano dar luogo al risarcimento del danno subito dal nascituro. Questa stessa sezione si è già occupata della questione (Cassazione Sezione terza, 14488/04) stabilendo che l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la “non nascita”, essendo pertanto (al più) configurabile un “diritto a nascere” e a “nascere sani”, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da “contatto sociale”, nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso ); sotto il profilo - latamente - pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell’ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano. Non è invece in capo a quest’ultimo configurabile un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”, come si desume dal combinato disposto di cui agli articoli 4 e 6 della legge 194/78, in base al quale si evince che: a) l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine ) ; b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; e) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro) . E come emerge ulteriormente: a) dalla considerazione che il diritto di “non nascere” sarebbe un diritto adespota (in quanto ai sensi dell’articolo 1 Cc la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e i diritti che la legge riconosce a favore del concepito articoli 462, 687, 715 Cc - sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita sicché il cosiddetto diritto di “non nascere” non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più; b) dalla circostanza che ipotizzare un diritto dei concepito a “non nascere” significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (e in via postuma) in caso di sua violazione, in difetto della quale (per cui non si fa nascere il malformato per rispettare il suo “diritto di non nascere”) essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l’esercizio definitivamente precluso. Ne consegue che è pertanto da escludersi la configurabilità e l’ammissibilità nell’ordinamento del c.d. aborto “eugenetico”, prescindente dal 121 pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l’interruzione della gravidanza al di fuori delle ipotesi di cui agli articoli 4 e 6 legge 194/78 (accertate nei termini di cui agli articoli 5 ed 8 ) , oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’articolo 2 Costituzione e di indisponibilità del proprio corpo ex articolo 5 Cc, costituisce reato anche a carico della stessa gestante (articolo 19 legge 194/78 ), essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente - anche mediante sanzioni penali - tutelato dall’ordinamento. Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d’informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all’aborto ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall’articolo 54 Cp) prevista dall’articolo 4 legge 194/78, risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore dì esso minore, così come configurabile e tutelato (in termini prevalenti rispetto anche - ad eventuali contrarie clausole contrattuali: articolo 1419, secondo comma, Cc) alla stregua della vigente disciplina. Ne consegue che la tutela dell’individuo che, con la nascita acquista la personalità giuridica nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse come quella di specie, ove a carico del Maioni la Corte di merito ha accertato non errori diagnostici e/o terapeutici, ma la mancata informazione a i genitori e indicazione nella cartella clinica di malformazioni a lui non imputabili. Ne consegue che correttamente essa ha escluso l’esistenza di un danno risarcibile a favore di Fabiana e anche della sorella Fabrizia, in quanto non destinataria del diritto all’informazione, soltanto la cui omissione è stata imputata al Maioni e, quindi, alla USL. La Corte si rende conto che la decisione adottata comporta un vulnus ai diritti delle due minori, ma ritiene che la soluzione positiva di casi come quello di specie non possa essere ricercata nella elaborazione giurisprudenziale ove manchi il supporto indispensabile di una normativa che la consenta. Con il terzo motivo i ricorrenti principali lamentano violazione dell’articolo 91 Cpc in tema di compensazione delle spese giudiziali. La censura presuppone l’accoglimento delle tesi esposte nei precedenti motivi e, quindi, rimane travolta dal rigetto di esse. In definitiva il ricorso principale va rigettato. Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale la RAS lamenta violazione dell’articolo 112 Cpc e vizio di motivazione assumendo che la domanda dei coniugi Pignat è stata accolta per ragioni del tutto diverse da quelle prospettate, in quanto al Maioni era stata imputata una condotta negligente, imprudente e imperita, ma non la mancata informazione circa la malformazione. La censura risulta infondata poiché (Cassazione 11639/02) l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, per cui, ove questi abbia 122 espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata - ed era compresa nel “thema decidendum”, tale statuizione, ancorché erronea non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompressa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione sia erronea; la sentenza non può pertanto essere annullata per ultrapetizione se preliminarmente non si annulli quella parte di essa in cui si sono spiegate le ragioni che hanno indotto alla trattazione della questione. In tal caso, l’errore del giudice non si configura come “error in procedendo”, ma attiene esclusivamente al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte, e non a quello inerente a principi processuali, pertanto detto errore può concretizzare solo una carenza nella interpretazione di un atto processuale, ossia un vizio sindacabile in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione di cui all’articolo 350 n. 5 Cpc, giacché la ricostruzione del contenuto di tali atti è compito istituzionale del giudice del merito. La Corte d’Appello, con apprezzamento di merito insindacabile in quanto sufficientemente e razionalmente motivato, ha spiegato di condividere l’interpretazione che della oscura e confusa domanda il Tribunale aveva accreditato e di ritenere compresa nella domanda la prospettazione della responsabilità extracontrattuale del Maìoni per omessa informazione. In effetti gli attori avevano prospettato nell’atto di citazione e negli atti ulteriori una serie di questioni tra cui l’omessa informazione a partire dalla trentesima settimana, anche se essa non costituiva l’argomento centrale della loro domanda e da essa hanno tratto spunto i giudici dì merito, che invece hanno escluso i denunciati comportamenti negligenti nella esecuzione dei controlli. Con il secondo motivo la RAS censura la motivazione della sentenza impugnata con riferimento alla sussistenza del reato dì cui all’articolo 328 Cp e di una condotta dolosa del medico. Entrambi i giudici di merito hanno ritenuto colpevole il deficit informativo del Maìoni e hanno legittimamente valutato al riguardo anche l’esito del giudizio penale (le pagg. 25 e 26 della sentenza impugnata trattano proprio la questione). Il relativo accertamento fa leva su apprezzamenti di fatto e su considerazioni di merito razionalmente esposte, cui la ricorrente contrappone altre di segno opposto e basate su circostanze (l’esperienza maturata dal Maioni in un precedente caso analogo) che non possono essere addotte in sede di legittimità. In definitiva, il ricorso incidentale della RAS è privo di pregio e va rigettato. Il ricorrente incidentale Maioni con il primo motivo denuncia violazione degli articoli 112 Cpc e 2697 Cc e vizio di motivazione con riferimento alle prospettazioni contenute nella domanda introduttiva del giudizio di primo grado. La censura è infondata per le ragioni già addotte in riferimento all’analoga doglianza espressa dalla RAS. Giova aggiungere che lo stesso ricorrente ammette che uno dei presupposti della domanda era costituito dal riferimento all’articolo 328 Cp e che la Corte d’Appello ha spiegato che essa era stata 123 proposta in termini talmente ampi da includervi tutte la possibili conseguenze e tutti i possibili danni provocati dai comportamenti censurati, inclusi quelli derivati dalla mancata informazione. E’ opportuno rilevare ancora, per ragioni di completezza, che non è contraddittorio stigmatizzare l’oscurità e ambiguità della domanda e poi, una volta completata l’opera di interpretazione, affermarne l’ampiezza dei contenuti. Con il secondo motivo il Maioni lamenta violazione degli articoli 328, 47, 54 e 55 Cp, 2045 e 2059 Cp, nonché vizio di motivazione, in quanto la Corte territoriale non si è pronunciata sulle proprie censure (assume che ha esaminato solo gli appelli incidentali della RAS e della USL) non affrontando il tema della sussistenza del reato dì cui all’articolo 328 Cp, non considerando che l’esistenza della malformazione alla 30° settimana avrebbe riguardato una situazione clinica già definita, non reversibile né emendabile, cosi come non ha considerato un caso precedente e la possibilità che il sanitario avesse errato nel ritenere non dovuta l’informazione o che sussistesse l’esimente di cui all’articolo 54 Cp; infine, assume che non si era pronunciata sulla censura relativa alla posizione del Pignat, che egli aveva contestato essere destinatario del dovere di informazione. Premesso che dal testo della sentenza impugnata si evince che l’appello del Maioni non è stato pretermesso, osserva la Corte che, a prescindere dal rilievo che il ricorrente non ha ottemperato al principio di autosufficienza del ricorso, omettendo di indicare le specifíche argomentazioni sottoposte all’esame della Corte territoriale, è determinante il rilievo che le questioni concernenti la sussistenza delI’ipotesi delittuosa configurata dall’articolo 328 Cp e l’applicabilità dell’articolo 47 Cp (la stessa prospettazione del ricorrente sembra riferibile più ad un errore di diritto che di fatto, risultando il dovere di informazione da una normativa specifica) e dell’articolo 54 Cp risultano superate dalla sentenza penale di questa stessa Corte, cui la sentenza impugnata fa esplicito riferimento condividendone e recependone le conclusioni. Per il resto la stessa Corte territoriale ha osservato che gli attori non hanno mosso alcun addebito al Maioni sotto il profilo della mancata possibilità dì scelta di una eventuale interruzione della gravidanza come conseguenza della mancata o ritardata informazione. Quanto alla sussistenza del danno e della estensione del medesimo al Pignat occorre rilevare (Cassazione, Sezione terza, 9709/03 ) che la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno per fatto illecito, emessa ex articolo 278 Cpc, integra un accertamento di potenziale idoneità lesiva di quel fatto, e non anche l’accertamento del fatto effettivo, la cui prova è riservata alla successiva fase di liquidazione. Tale accertamento di lesività potenziale prescinde dalla misura e anche dalla stessa concreta esistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi su detta pronuncia non osta a che nel giudizio instaurato per la liquidazione venga negato il fondamento concreto della domanda risarcitoria, previo accertamento del fatto che il danno non si sia in concreto verificato. La sentenza impugnata ha fondato la propria statuizione sulla diminuzione del trauma psico-fisico che i genitori avrebbero comunque subito in virtù di una 124 preparazione adeguata all’evento, ove l’informazione fosse stata tempestiva. Spetterà alla sentenza definitiva stabilire se in concreto tale danno vi sia stato, chi lo abbia subito e quale ne sia stata l’entità. Tuttavia occorre rilevare sul piano generale che la posizione “contrattuale” anche del padre è stata ormai condivisibilmente affermata dalla sentenza 20320/05 di questa Corte. Pertanto anche il ricorso incidentale del Maioli risulta infondato. Con il primo motivo del ricorso incidentale l’Azienda per i Servizi Sanitari propone il tema della violazione degli articoli 2697, 1218, 2043 e seguenti del Cc e vizio di motivazione della sentenza impugnata assumendo che manca la prova dell’esistenza di un rapporto contrattuale tra la Villanucci e la Usl 12 e che, in ogni caso, non è configurabile alcun rapporto contrattuale con il Pignat. La prima argomentazione è infondata poiché la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione contestata facendo leva su una serie di indizi (le visite ginecologiche si sono svolte in ambito ospedaliero, gli esami ecografici sono stati eseguiti negli ambulatori dell’ospedale, il parto è avvenuto in ospedale) che ha ritenuto gravi, precisi e concordanti e confortati dalle nozioni di comune esperienza dell’id quod plerumque accidit. Al riguardo si tratta di un accertamento di fatto che - stante la congruità e razionalità della motivazione - sfugge al sindacato della Corte regolatrice. Non costituisce violazione dell’articolo 2697 Cc, ma corretta applicazione della ripartizione dell’onere probatorio, la considerazione della sentenza che, ritenuto provato in base a quanto sopra sintetizzato il contratto stipulato per facta concludentia tra la Villanucci e la struttura pubblica, gravava sulla USL dimostrare che il sanitario aveva svolto la propria attività nell’ambito dì visite ambulatoriali a pagamento che poteva compiere nell’ambito della sua attività di libero professionista. Non vi è dubbio che l’effettuazione delle visite in ambiente ospedaliero, coordinata con gli ulteriori elementi fattuali valorizzati dalla Corte d’Appello, determini la riconducibilità dell’attività del sanitario alla USL, sulla quale gravava, dunque, l’onere di dimostrare il contrario. D’altra parte appare condivisibile anche l’ulteriore affermazione del giudice di merito circa il mezzo attraverso il quale (le proprie registrazioni) la USL avrebbe potuto agevolmente dimostrare il proprio assunto, laddove non è dato vedere di quale altro strumento probatorio, oltre le evidenziate presunzioni, disponesse la Villanucci per dimostrare il rapporto con la USL. Ugualmente priva di pregio è la seconda argomentazione sottoposta all’esame della Corte, la cui infondatezza deriva sia dalla estensione soggettiva del rapporto contrattuale affermata dalla giurisprudenza appena sopra citata (Cassazione 20320/05), sia dai principi che disciplinano il ricorso per cassazione. L’Azienda per i Servizi Sanitari ha sostanzialmente prospettato una violazione di legge in tema di definizione dei limiti soggettivi di un contratto, ma ha omesso di dimostrare di averla già sollevata nel giudizio di appello. Poiché dal testo della sentenza emessa in quel grado si evince il contrario, in ottemperanza al principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione era onere della ricorrente dimostrare - riproducendo testualmente il relativo motivo di appello - di averne specificamente investito la Corte territoriale. 125 Con il secondo motivo la ricorrente incidentale prospetta violazione degli articoli 28 Costituzione, 2043 e seguenti e 2949 Cc nonché vizio di motivazione circa la riferibilità alla USL del comportamento del dipendente. La censura è esposta in termini che la rendono inammissibile prima che infondata. Inammissibile poiché la ricorrente incidentale non prende in esame le argomentazioni addotte dalla sentenza impugnata, ma si limita a riproporre la propria tesi facendo leva su massime ‘tratte da pronunce di questa Corte che non attengono al tema specifico trattato dalla Corte territoriale. Infondata poiché è ormai jus receptum (Cassazione n. 1798 del 2006) la riferibilità del contratto all’ente ospedaliero anche in mancanza di un formale rapporto di lavoro con il sanitario essendo sufficiente la prestazione d’opera come ausiliario necessario, cioè un mero rapporto di occasionalità necessaria. Pertanto anche questo ricorso incidentale deve essere rigettato. La natura della causa, le tesi rispettivamente sostenute dalle parti, il loro esito consigliano la compensazione integrale delle spese del giudizio di cassazione. PQM Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa totalmente le spese del giudizio di cassazione. 126 CASSAZIONE – SEZIONE TERZA CIVILE – SENTENZA 16 NOVEMBRE 2005-14 MARZO 2006, N. 5438 PRESIDENTE FIDUCCIA – RELATORE PER CONTE LICATESE PM CENICCOLA – DIFFORME – RICORRENTE CENTRO LEASING SPA – CONTRORICORRENTE SEP Srl Svolgimento del processo Il 1° settembre 1992 la Spa Centro Leasing acquistava dalla Spa Edile Triveneta un capannone industriale, per concederlo in locazione finanziaria alla Spa Olimpia, con la quale aveva già, in data 4 agosto 1992, sottoscritto un contratto della durata di otto anni, verso un canone mensile di lire 23.554.032, in aggiunta a quello iniziale di lire 358.201.900. La società Olimpia, a far data dall’1 febbraio 1993, si rendeva inadempiente all’obbligo di pagare il canone, costringendo la Centro Leasing a valersi della clausola risolutiva espressa e a chiedere, inutilmente, il rilascio dell’immobile. Il 22 aprile 1994 il Tribunale di Bolzano dichiarava,il fallimento della conduttrice Olimpia e la Centro Leasing rinnovava, sempre vanamente, la richiesta di rilascio alla curatela, chiedendo poi di essere ammessa al passivo per il complessivo importo per canoni ed accessori, di lire 210.692.493. Essendo intervenuto anche, nella stessa data, il fallimento della Edile Triveneta, la Centro Leasing si insinuava altresì al passivo di quest’ultimo per lo stesso importo, dovuto in forza della prestata fidejussione. Il giudice delegato ai fallimenti decretava, il 29 novembre e il 16 dicembre 1994, di non ammettere il credito. La società Centro Leasing proponeva opposizione ai sensi dell’articolo 98 della legge fallimentare, alla quale resisteva la curatela, asserendo che i contratti a suo tempo stipulati tra la Centro Leasing e le società fallite avevano costituito una fattispecie negoziale complessa e indiretta, unitariamente convenuta in frode alla legge per ottenere una garanzia commissoria vietata. Anche il fallimento della Edile Triveneta chiedeva il rigetto della pretesa creditoria, sull’assunto della nullità del contratto di trasferimento dell’immobile alla Centro Leasing e degli atti susseguenti, cioè della locazione finanziaria e della garanzia fidejussoria. In pari tempo la Centro Leasing azionava in separato giudizio le proprie ragioni inerenti al mancato rilascio dell’immobile già locato alla società Olimpia e ai danni per l’indebita occupazione, che terminava solo il 26 luglio 1996. Intervenuta l’omologazione dei concordati fallimentari delle società olimpia e Edile Triveneta, tutte le cause venivano riassunte dalle predette società, tornate “in bonis” e dalla Srl Sep, assuntrice di entrambi i concordati. Riuniti i giudizi, il Tribunale di Bolzano, con sentenza del 27 giugno 2000, dichiarava la nullità di tutti i contratti “inter partes” per violazione del divieto di patto commissorio; dichiarava la Edile Triveneta, ovvero la Srl Sep, unica proprietaria dell’immobile in questione; rigettava le domande della Centro Leasing. 127 Con sentenza dell’11 febbraio 2002, la Corte d’appello di Trento, Sezione Distaccata di Bolzano, ha rigettato il gravame della Centro Leasing. Ricorre per la cassazione la soccombente, con sei motivi, cui resiste con controricorso la Srl Sep. Non si sono costituite le altre due società. La ricorrente ha depositato una memoria. Motivi della decisione Col primo motivo, denunciando omessa motivazione sui tre punti decisivi della controversia (la pretesa interposizione fittizia della Spa Olimpia nel contratto di “leasing”, la pretesa anormalità del contratto di “sale and lease back”, la pretesa partecipazione della Centro Leasing alla frode alla legge) , la ricorrente deduce che la sentenza impugnata si limita alla semplice elencazione delle circostanze di fatto della causa e si affida, per il resto, a proposizioni prive, per la loro genericità, di valore argomentativo (“appare di tutta evidenza che”; “così stando le cose ritiene la Corte che”; “ritiene la Corte che i dati oggettivi più sopra esposti ( ... ) portino senz’altro a concludere”; “condizioni che non corrispondono ad un normale contratto di “sale and lease back”“). Col secondo motivo, denunciando lo stesso vizio, ribadisce gli errori di logica e le incongruenze in cui sono caduti i giudici di Bolzano. nel motivare sui ricordati tre punti decisivi della controversia e nel pervenire apoditticamente alla decisione senza confutare i contrari elementi di fatto recati in giudizio dalla società Centro Leasing; senza dettagliare le pretese deviazioni dallo schema tipico del “lease back”; mettendo assieme assunti fra loro inconciliabili, quello della pretesa interposizione fittizia della Spa Olimpia e quello del preteso rilievo di soggetto giuridico autonomo riferito al gruppo imprenditoriale costituito dalle società Olimpia e Edile Triveneta. Passa quindi ad esemplificare le più vistose di tali lacune e incongruenze. Col terzo mezzo, denunciando la violazione degli articoli 13, 2331 e 2359 Cc, rileva che due società di capitali (Olimpia e Edile Triveneta) non possono costituire un unico soggetto giuridico, trattandosi sempre e comunque di soggetti distinti e indipendenti, che rappresentano centri di imputazione di rapporti giuridici del tutto autonomi e non confondibili tra loro, anche in caso di controllo azionario fra l’una e l’altra società: tant’è che la Olimpia e la Edile Triveneta hanno dato luogo a due procedure fallimentari diverse, con masse attive e passive diverse, poi concluse da autonomi e separati concordati. Se quindi la sentenza di appello davvero si fondasse sulla premessa che la Olimpia e la Edile Triveneta costituivano un unico soggetto giuridico, ne scaturirebbe la violazione delle norme sopra richiamate. Col quarto mezzo, denunciando la violazione degli articoli 1344 e 1345 Cc, ribadisce l’assenza di motivazione sulla pretesa interposizione fittizia della società Olimpia e soggiunge che la semplice “consapevolezza” della Centro Leasing di contrattare con un unico soggetto non sarebbe idonea ad integrare 128 le fattispecie degli articoli 1344 o 1345 Cc, occorrendo una precisa determinazione finalizzata al conseguimento di un risultato contrattuale illecito. Seppure il motivo illecito fosse comune alle società Olimpia e Edile Triveneta, si sarebbe dovuto dedurre una (inesistente) comunanza di intento illecito anche nella sfera soggettiva della Centro Leasing, che al contrario i giudici di Bolzano non hanno né dedotto né solo asserito. Col quinto mezzo, denunciando la violazione degli articoli 1526 Cc, 345 Cpc e 98 della legge fallimentare nonché vizio di motivazione, quanto al quarto motivo di appello, la ricorrente ricorda di non aver proposto, a differenza della controparte, nessuna domanda ai sensi dell’articolo 1526 Cc, ma di avere semplicemente chiesto, per l’uso dell’immobile da parte della società Olimpia dall’inizio della locazione finanziaria (1° ottobre 1992) sino alla risoluzione del contratto (21 marzo 1994), l’adempimento del contratto di “leasing”, che consisteva nel pagamento dei canoni spettanti: è questo l’oggetto della domanda di ammissione al passivo dei due fallimenti, che ha costituito il “petitum” della odierna ricorrente nei procedimenti promossi ai sensi dell’articolo 98 della legge fallimentare e nelle successive impugnazioni fino ad oggi. La Spa Centro Leasing non ha perciò introdotto domande nuove di sorta e comunque si sarebbe semmai trattato di un mezzo di eccezione ben proponibile per la prima volta anche in appello. Col sesto mezzo, denunciando omessa o insufficiente motivazione sui ricordati tre punti decisivi della controversia nonché violazione degli articoli 13, 1344, 1345, 2331 e 2359 Cc, censura il rigetto della domanda di risarcimento promossa in conseguenza della procrastinata occupazione dell’immobile., da parte della curatela del fallimento, dal 22 aprile 1994 al 26 luglio 1996; rigetto motivato col rilievo che la nullità dei rapporti rende inaccoglibile la richiesta risarcitoria, quando invece i contratti di compravendita e di locazione finanziaria sono perfettamente validi. Il terzo motivo è infondato. Per vero la sentenza non afferma mai che le due società (Olimpia e Edile Triveneta) costituissero un unico soggetto giuridico, ma soltanto mette in evidenza che esse avevano una indubbia comunanza di interessi sostanziali, dato il rapporto di controllante e controllata corrente tra loro. Nel dire che le due società non erano “dei soggetti completamente distinti”, il giudice di appello vuole soltanto rimarcare che le loro posizioni furono nella specie coincidenti, in quanto nella identica misura interessate all’intera operazione. Non disconosce perciò la Corte, come paventa la ricorrente, l’elementare verità delle distinte personalità giuridiche della Olimpia e della Edile Triveneta, tant’è vero che essa parla di “gruppo di società” e ne discute sempre come di soggetti giuridicamente diversi e distinti. Il primo, il secondo e il quarto mezza, da esaminare congiuntamente per le loro connessioni logico-giuridiche, sono invece fondati. La sentenza impugnata, per respingere il secondo e il terzo motivo dell’appello, osserva essere di tutta evidenza che i contratti intercorsi tra le parti costituiscano un’unica fattispecie negoziale complessa e non potersi seriamente sostenere che l’Edile Triveneta e l’Olimpia fossero dei soggetti completamente distinti; tant’è vero che l’Olimpia possedeva il 98% del capitale sociale 129 dell’Edile Triveneta. A ciò va aggiunto, continua la sentenza, che presupposto e finalità della compravendita del le settembre 1992, dalla società Edile Triveneta alla società Centro Leasing, era la stipula del contratto di “leasing” tra la società Centro Leasing e la società Olimpia, quest’ultimo, del resto, già convenuto il 4 agosto 1992, e che l’uso dell’immobile “de quo” non è assolutamente mutato dopo la stipula di entrambi i contratti, dal momento che esso è continuato ad essere promiscuamente usato dall’ Edile Triveneta, dall’Olimpia e da un’altra società del gruppo (la Nuova Hydro Srl, pure fallita); la qual cosa dimostra che non vi era alcuna necessità operativa di stipulare il contratto di “leasing”, visto che l’uso dell’immobile non subiva modificazione alcuna. Consegue perciò, ad avviso del giudice di appello, che l’intera operazione aveva finalità esclusivamente finanziarie e non operative. Infatti l’intero prezzo d’acquisto di lire 1.500.000.000 nemmeno è stato pagato alla venditrice Edile Triveneta, dacché lire 300.000.000 sono state trattenute dalla Centro Leasing, come prima rata del canone di locazione dovuto dalla Olimpia, e l’ulteriore importo di 300 milioni è rimasto depositato presso il notaio rogante, a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni assunte dalla società Olimpia nei confronti della Centro Leasing: importo che la venditrice Edile Triveneta non ha quindi incassato. Nemmeno va trascurato, argomenta ancora il giudice di appello, che, per le obbligazioni scaturenti dal contratto, avrebbe dovuto prestare cauzione eventualmente la locataria Olimpia e non la venditrice Edile Triveneta, né che, a fronte di un prezzo complessivo (dichiarato) di 1.500.000.000, appare piuttosto esiguo il prezzo previsto per il riscatto finale (lire 150.000.000). È convinta dunque la sentenza impugnata, sulla scia del Tribunale, che l’interposizione della Olimpia fosse solo apparente e destinata in sostanza a coprire la funzione di garanzia di trasferimento con clausola di retrocessione, una volta andato a buon fine il finanziamento (sostanzialmente di soli 900 milioni) che la Centro Leasing ha messo a disposizione del gruppo di società facenti capo alla Olimpia. Dopo aver accennato alla posizione di terzo del curatore fallimentare, come tale abilitato a provare l’interposizione con ogni mezzo e anche per presunzioni, la sentenza giudica che i dati oggettivi più sopra esposti (stipula dapprima della locazione con la Olimpia e poi della compravendita con la Edile Triveneta; immutato uso degli immobili “de quibus” prima e dopo la stipula dei contratti stessi, da parte delle varie società facenti capo all’Olimpia; concessione, da parte della Edile Triveneta, di una fidejussione per la restituzione del finanziamento, cioè del prezzo apparentemente incassato per la vendita dell’immobile; corrispondenza tra la prima rata del canone dovuto dalla Olimpia e l’importo di lire 300.000.000 che la Olimpia avrebbe dovuto pagare alla Edile Triveneta; l’ulteriore garanzia conferita dalla Edile Triveneta col deposito cauzionale di lire 300.000.000 presso il notaio rogante, importo che quindi la Centro Leasing non ha pagato) portino senz’altro a concludere non solo che tra la Edile Triveneta e la Olimpia vi fosse interposizione e che i vari contratti da queste ultime stipulati con la Centro Leasing siano da interpretare e valutare unitariamente; ma altresì per la perfetta consapevolezza di quest’ultima di contrattare, sostanzialmente, con 130 un unico soggetto, al chiaro scopo di porre in essere un negozio di “sale and lease back” in frode alla legge, cioè volto ad eludere il divieto di patto commissorio (articolo 2744 Cc), nel senso che la creditrice Centro Leasing, a fronte di un finanziamento a favore del gruppo di società facenti capo alla 01impia, avrebbe ottenuto una garanzia reale, il tutto in violazione del principio della “par condicio creditorum”. Che poi le società Edile Triveneta e Olimpia, soggiunge e conclude la sentenza, versassero in difficoltà economiche risulta confermato dal fallimento sopravvenuto per entrambe nel biennio successivo; ma sono comunque le stesse caratteristiche del negozio complessivo posto in essere dalla Centro Leasing con le società sopra indicate a dare la conferma che quest’ultima fosse perfettamente a conoscenza di siffatte difficoltà, tant’è vero che il finanziamento è stato concesso alle condizioni sopra descritte, condizioni che non corrispondono ad un normale contratto di “sale and lease back”. Il giudice di appello passa quindi all’esame del quarto e del quinto motivo di gravame. Da un lato dichiara inammissibile per novità (articolo 345 Cpc) la domanda indennitaria e risarcitoria, ai sensi dell’articolo 1526 Cc, per l’uso dell’immobile da parte della società olimpia nell’arco della locazione (ottobre 1992/ marzo 1994); dall’altro rigetta la domanda risarcitoria per la procrastinata occupazione dell’immobile da parte del fallimento, dalla dichiarazione di questo (22 aprile 1994) fino al 26 luglio 1996, poiché, stante la nullità dei contratti “de quibus”, la Centro Leasing non ne è mai diventata proprietaria. In definitiva, ritenuta la nullità dei contratti di vendita dell’immobile, di locazione finanziaria e di fidejussione, viene confermato il rigetto delle opposizioni allo stato passivo dei fallimenti e riconosciuto il diritto di proprietà dell’immobile in capo all’assuntrice del concordato (la Sep Srl). È bene premettere che la complessa operazione di “sale and lease back” dà luogo a un contratto sinallagmatico con cui un’impresa vende un bene strumentale di sua proprietà ad una società finanziaria (concedente), la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone periodico e con la possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto, mediante l’esercizio di un diritto di opzione, per un prezzo normalmente molto inferiore al valore del bene. La circostanza che il bene venduto rimanga, di regola, nella disponibilità del venditore, il quale continua ad usarlo corrispondendo canoni periodici di “leasing” e con la possibilità di riacquisto al termine del contratto, ha indotto dottrina, e giurisprudenza a interrogarsi circa la liceità dell’operazione di “lease back” (altrimenti detta locazione finanziaria di ritorno), stanti le indubbie somiglianze tra questa fattispecie contrattuale e le alienazioni a scopo di garanzia; e segnatamente a chiedersi se e a quali condizioni sia possibile che il contratto di “lease back” possa costituire il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa (articolo 1344 Cc), ovvero che, sotto le spoglie del contratto in parola, si celi un patto commissorio vietato dall’articolo 2744 Cc. La giurisprudenza di legittimità è ormai pervenuta a ritenere, in linea di massima, astrattamente valido lo schema contrattuale del “lease back”, in quanto contratto d’impresa socialmente tipico, ferma la necessità di verificare, 131 caso per caso, l’assenza di elementi patologici sintomatici di un contratto di finanziamento assistito da una vendita in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento fraudolento, il divieto di patto commissorio previsto dall’articolo 2744 CC, e pertanto sanzionabile, per illiceità della causa, con la nullità, ai sensi del cit. articolo 1344, in rel. all’articolo 1418 comma 2 Cc. Orbene, gli elementi ordinariamente sintomatici della frode alla legge sono essenzialmente tre, cosi individuati: la presenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria (concedente) e l’impresa venditrice utilizzatrice, preesistente o contestuale alla vendita; le difficoltà economiche dell’impresa venditrice, legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza; la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquIrente, che confermi la validità di tale sospetto. Soltanto il loro concorso vale a fondare ragionevolmente la presunzione che il “lease back”, contratto d’impresa per sé lecito, sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto commissorio e sia pertanto nullo perché in frode alla legge (sull’intero tema, cfr. Cassazione 13580/04; 4612/98; 4095/98; 6663/97; 10805/95). L’accertamento del carattere fittizio di un contratto di “sale and lease back”, per la presenza di indizi sintomatici di un’anomalia nello schema causale socialmente tipico del contratto in questione, costituisce naturalmente un’indagine di fatto, insindacabile in sede di legittimità solo se adeguatamente e correttamente motivata (Cassazione 9324/03). Tutto ciò premesso, quanto al primo elemento, la sentenza perviene alla conclusione dell’esistenza, sotto l’apparente “lease back”, e con l’espediente altresì di un’ interposizione fittizia di Persona, di una vendita con clausola di retrocessione, in funzione di garanzia di un finanziamento, secondo l’implicito assunto, contestualmente concesso, di lire 900.000.000; ma sulla base tuttavia di elementi indiziari dei quali, sebbene unitariamente considerati, sfugge la significatività e concludenza ai fini della ventilata frode complessiva che si vorrebbe dare per dimostrata. Quanto poi al secondo elemento sintomatico, non basta constatare come le società (la utilizzatrice Olimpia e la sua controllata Edile Triveneta) siano fallite il 22 aprile 1994, dopo meno di due anni (circa venti mesi dopo), per indurne uno stato economico di insolvenza o di semplice difficoltà del quale (come la sentenza lascia intendere) vi sarebbe stato approfittamento da parte della concedente Centro Leasing. Ed infatti, di fronte a quest’unico argomento, è facile alla ricorrente obiettare (pag. 24 e 25 del ricorso) di aver provato in causa che, all’epoca del contratto (10 settembre 1992), le società non erano protestate né a loro carico pendevano pignoramenti, sequestri, procedure esecutive o ricorsi di fallimento, e proclamare altresì che le stesse chiusero in utile gli esercizi 1991-92, che il relativo patrimonio netto era positivo, che esisteva, per contenzioso attivo pendente, la probabilità seria di significative sopravvenienze attive. È di palmare evidenza che il non lungo intervallo trascorso tra la stipula del contratto di “leasing” e il fallimento non prova nulla circa le effettive condizioni economiche delle due società collegate, non potendosi certo applicare nella materia in esame la presunzione “juris et de jure” di insolvenza sancita dall’articolo 67 della legge fallimentare a tutt’altri. non estensibili, fini, e 132 nemmeno potendosi ragionevolmente presumere, solo per quella “consecutio” cronologica, che la società Olimpia o la Edile Triveneta o ambedue versassero in un semplice stato di difficoltà economiche, premonitore dell’insolvenza vera e propria. Sul terzo e ultimo punto, infine, la sentenza tace su un’eventuale sproporzione tra il valore di mercato dell’immobile trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente, limitandosi ad evidenziare soltanto l’esiguità del prezzo finale di riscatto (lire 150.000.000), quando si è visto che è normale, in linea di massima, che il prezzo finale sia molto inferiore al valore di acquisto del bene. Non manca in proposito di osservare la ricorrente (pag. 23 del ricorso) che il prezzo pattuito per la vendita sarebbe stato valutato dal consulente tecnico d’ufficio “pienamente in linea con il valore di mercato del bene”, ciò che rende ancora più vulnerabile la decisione. Si deve concludere che la sussistenza della frode alla legge e, con essa, del vietato, sottostante patto commissorio, con la conseguente nullità dell’intera operazione, viene giustificata dal giudice di appello, piuttosto che col ricorso ai soli indici rivelatori concordemente individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza (dei quali tutti dalla surriferita motivazione non si ricava la prova), attraverso una serie di proposizioni meramente assertive, le quali pongono l’accento su elementi di altra natura, di incerto o nullo valore indiziario ai fini dell’assunto, e si traducono quindi in altrettante petizioni di principio, che danno per dimostrato quanto invece si doveva dimostrare. Di qui l’esigenza di un riesame dell’intera questione. I capi concernenti l’adempimento del contratto di “leasing” e il pagamento dei relativi canoni pretesi dalla Centro Leasing con l’istanza di ammissione al passivo rigettata dalla Corte d’appello nonché il risarcimento per la protratta occupazione dell’immobile da parte della curatela dipendono strettamente dalla soluzione che sarà data, in sede di rinvio, alla preliminare questione della validità o nullità del complesso negozio e le corrispondenti censure (quinto e sesto motivo) sono pertanto assorbite. In definitiva, il ricorso va accolto nei limiti dianzi spiegati, ovvero per quanto di ragione, col rinvio, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di Cassazione, al giudice di pari grado designato nel dispositivo. PQM La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte di appello di Trento. 133 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Sentenza 7 aprile 2006, n. 8229 (Presidente G. Losavio, Relatore R. Rordorf) Svolgimento del processo Il sig. M.V., con atti notificati il 13 ed il 25 settembre 1997, citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Monza il sig. D.V. e la Ing Group Società Sviluppo Investimenti Sim s.p.a. (in seguito indicata solo come Sviluppo Investimenti Sim). L'attore riferì che per diversi anni egli era stato cliente della società convenuta compiendo investimenti mobiliari per il tramite del sig. D., all'epoca promotore finanziario della Sviluppo Investimenti Sim; che in due riprese, il 15 luglio ed il 15 settembre del 1992, egli aveva sottoscritto schede di prenotazione di certificati di deposito bancari al tasso del 14% annuo, versando a mani del sig. D., nella prima occasione, assegni bancari al portatore per l'importo di L. 40.000.000 e, nella seconda occasione, altri analoghi assegni per l'ulteriore importo di L. 30.000.000; che il promotore non aveva però dato corso agli investimenti concordati, giacchè non aveva trasmesso gli assegni alla Sviluppo Investimenti Sim, ma se ne era indebitamente appropriato. Il sig. M., pertanto, chiese la condanna in proprio favore del sig. D. al risarcimento dei danni in misura pari all'importo complessivo degli assegni a suo tempo versati, maggiorato degli interessi al tasso annuo del 14% di cui avrebbe beneficiato se gli investimenti fossero stati eseguiti nei termini convenuti; e chiese altresì che la medesima condanna fosse pronunciata in solido nei confronti della Sviluppo Investimenti Sim, quantunque il sig. D. avesse cessato di esserne promotore a partire dal 31 luglio 1992, in applicazione di quanto disposto dalla L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4, nonchè dei principi sull'apparenza del diritto. Il sig. D. rimase contumace. Si costituì invece la Sviluppo Investimenti Sim, chiedendo il rigetto della domanda proposta nei propri confronti dall'attore, al quale imputò l'esclusiva responsabilità dell'accaduto per avere egli effettuato i versamenti a mani del promotore mediante assegni bancari al portatore e, quindi, in violazione delle condizioni contrattuali che avrebbero invece imposto l'uso di assegni intestati direttamente alla società d'intermediazione mobiliare. La convenuta negò, comunque, di dover rispondere del comportamento posto in essere dal promotore dopo la cessazione del rapporto di preposizione, avendo essa fatto tutto quanto necessario per recuperare la modulistica ed ogni altro materiale utilizzato dal medesimo promotore nella vigenza del mandato. Chiese, in via subordinata, che venisse accertato il concorso di colpa dell'attore nella produzione del fatto lesivo, e propose domanda di rivalsa nei confronti del sig. D. per quanto eventualmente essa fosse condannata a risarcire all'attore. Il tribunale, con sentenza emessa il 14 marzo 2000, accolse le domande proposte dal sig. M. nei confronti di entrambi i convenuti, che condannò quindi in solido al risarcimento dei danni, quantificati in complessive L. 79.800.000 (pari all'importo di L. 70.000.000, maggiorato del 14%), con interessi legali e rivalutazione monetaria. Il sig. D. fu anche condannato (oltre che al 134 risarcimento del danno non patrimoniale subito dall'attore) a rivalere la Sviluppo Investimenti Sim di quanto quest'ultima avrebbe dovuto corrispondere al sig. M. per effetto della sentenza. Chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dalla Sviluppo Investimenti Sim, nella perdurante contumacia del sig. D., la Corte d'appello di Milano, con sentenza depositata il 19 febbraio 2002, confermò integralmente la decisione di primo grado. Ritenne innanzitutto la corte milanese che non potesse imputarsi al cliente alcuna colpa, esclusiva o concorrente, per non aver consegnato al promotore assegni intestati direttamente alla società d'intermediazione, in quanto siffatta previsione non figurava in modo chiaro sulle schede di prenotazione specificamente riferibili alle operazioni di cui si discute e, soprattutto, in quanto già in occasione di precedenti investimenti, compiuti senza inconvenienti tramite il medesimo promotore, il sig. M. aveva emesso assegni non intestati alla Sviluppo Investimenti Sim, la quale tuttavia aveva accettato i relativi pagamenti senza nulla obiettare. Quanto poi al fatto che, al tempo del secondo dei due versamenti di cui si tratta, il sig. D. non era più promotore della Sviluppo Investimenti Sim, la medesima corte osservò che, nondimeno, egli era rimasto in possesso della documentazione precedentemente fornitagli dalla società mandante ed a questa intestata, della quale si era appunto servito nel caso di specie: onde a detta società era da imputare l'incolpevole affidamento del cliente, convinto della permanenza del rapporto di mandato, non avendo la società d'intermediazione neppure provveduto ad informare il cliente medesimo della cessazione di quel rapporto nè a ritirare il tesserino di appartenenza del sig. D. all'albo dei promotori. L'ammontare della condanna fu infine stimata corretta dalla Corte d'appello, anche per la parte relativa agli interessi che il cliente avrebbe percepito a seguito degli investimenti commissionati ma non effettuati. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Sviluppo Investimenti Sim, formulando tre motivi di censura, illustrati con successiva memoria. Il sig. M. ha replicato depositando controricorso. Nessuna difesa ha svolto invece, neppure in questa sede, il sig. D. Motivi della decisione 1. I tre motivi di ricorso investono, rispettivamente, le tre principali questioni sulle quali la corte d'appello si è pronunciata con l'impugnata sentenza, e cioè: 1) se sussistessero, nel caso in esame, di estremi di una colpa esclusiva o concorrente del cliente danneggiato dall'illegittimo comportamento del promotore finanziario, del cui illecito la società d'intermediazione preponente è stata chiamata a rispondere; 2) se sussistesse una situazione di apparenza del diritto, colpevolmente imputabile alla società d'intermediazione, in forza della quale quest'ultima debba esser tenuta responsabile anche della condotta illecita posta in essere dal promotore dopo la cessazione del rapporto tra la società ed il promotore medesimo; 3) se sia attribuibile al cliente, a titolo di risarcimento, una somma comprensiva degli interessi convenzionali che lo stesso cliente avrebbe percepito ove l'investimento da lui disposto fosse stato eseguito nei termini contrattualmente convenuti. 135 Conviene esaminare separatamente le tre questioni. 2. Non è in discussione il fatto che il denaro affidato dal cliente al promotore della Sviluppo Investimenti Sim per essere investito in certificati di deposito bancario fu invece distratto a proprio favore dal promotore medesimo. E' un fatto accertato in causa e, comunque, pacifico. Altrettanto certo è che un tal fatto sia idoneo a generare il diritto del cliente al risarcimento del danno subito e che la pretesa risarcitoria, ove ricorrano le condizioni previste (allora vigente) dalla L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4, possa esser fatta valere anche nei confronti della società d'intermediazione per la quale il promotore operava. Già nel corso del giudizio di merito è stata però prospettata dall'odierna ricorrente la configurabilità di una colpa esclusiva - o quanto meno concorrente - del cliente; colpa che la ricorrente ricollega al fatto che il sig. M. eseguì i versamenti consegnando al promotore assegni bancari al portatore, quantunque le schede di prenotazione predisposte dalla società Sviluppo Investimenti Sim e sottoposte alla sottoscrizione del cliente prevedessero espressamente che i pagamenti avrebbero dovuto esser fatti mediante assegni bancari o circolari intestati alla società. Entrambi i giudici di merito hanno negato che tale circostanza potesse sia escludere il diritto al risarcimento di un danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (art. 1227 c.c., comma 2), sia ridurre l'ammontare del risarcimento per avere il fatto colposo del danneggiato concorso a cagionare il danno (art. cit., comma 1). A tal riguardo, in particolare, la corte d'appello ha osservato che sarebbe dubbia la sussistenza della pattuizione concernente le suindicate modalità di pagamento, essendo essa riportata su moduli predisposti per l'investimento in fondi diversi, ma non anche sugli specifici moduli relativi ai certificati di deposito di cui si discute nella presenta causa; ed ha aggiunto che sarebbe comunque decisivo il rilievo per cui, già in diverse precedenti occasioni, lo stesso cliente, nell'effettuare investimenti tramite il medesimo promotore, aveva consegnato a costui assegni al portatore che erano stati accettati ed incassati dalla società d'intermediazione senza formulare alcuna obiezione nè nei confronti del cliente nè nei confronti del promotore medesimo, ad onta del fatto che il regolamento emanato dalla Consob espressamente vietasse una simile prassi e la sanzionasse addirittura con la radiazione del promotore dall'albo. 2.1. La ricorrente censura tali affermazioni, ravvisando in esse violazioni di diritto (con riferimento agli artt. 1227, 2697 e 2702 c.c., nonchè artt. 115 e 116 c.p.c.) e difetti di motivazione. In particolare essa riferisce di aver prodotto in giudizio, in data 30 settembre 1999, cinque assegni bancali emessi dal sig. M. nel 1991 in relazione ad operazioni d'investimento mobiliare eseguite per il tramite del promotore sig. D., non intestati alla Sviluppo Investimenti Sim e posti all'incasso non da quest'ultima, bensì dallo stesso sig. D. o da terze persone. Di tali documenti non v'è cenno nella motivazione dell'impugnata sentenza, ma da essi invece a parere della ricorrente - si sarebbe dovuto trarre la prova del fatto che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, la Sviluppo Investimenti Sim non aveva avuto alcuna contezza della prassi già in precedenza 136 scorrettamente seguita dal proprio promotore con l'accettazione di assegni non intestati alla società d'intermediazione. Erano state altresì prodotte - osserva ancora la ricorrente - le schede di prenotazione dei certificati di deposito bancali, sottoscritte dal sig. M., nelle quali risultava espressamente indicato che il pagamento doveva aver luogo a mezzo di assegni intestati alla società d'intermediazione, onde non sarebbe comprensibile il dubbio espresso dalla corte d'appello in ordine all'effettiva vigenza di una siffatta pattuizione, non rispettata però dal cliente. Il quale, inoltre, aveva omesso di rilevare tempestivamente il mancato invio, ad opera della società, delle lettere di conferma degli investimenti relativi agli anni 1991 e 1992: ciò che avrebbe dovuto metterlo sull'avviso ed indurlo a compiere immediate verifiche, anzichè attendere oltre un anno per accorgersi dell'accaduto, giacchè simili lettere di conferma gli erano sempre state recapitate in occasione degli investimenti da lui effettuati negli anni precedenti. Avrebbe dunque errato la corte d'appello nel ritenere inapplicabile nel caso di specie la citata disposizione dell'art. 1227 c.c., comma 2, o almeno quella del comma 1 del medesimo articolo. 3. Non ritiene il collegio che tali censure siano meritevoli di accoglimento. Vi osta infatti un rilievo di carattere preliminare che porta ad escludere l'applicabilità, in un caso come quello in esame, delle disposizioni dettate da entrambi i commi del citato art. 1227 c.c.. 3,1. Occorre muovere dalla considerazione che la L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 4 (poi sostituito dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 23 e quindi dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 31, comma 3, ma ancora applicabile ratione temporis ai fatti di causa) pone a carico dell'intermediario la responsabilità solidale per gli "eventuali danni arrecati a terzi nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale". Non interessa in questa sede soffermarsi a discutere se quella così configurata sia o meno una forma di responsabilità oggettiva, nè quali siano i suoi rapporti sistematici con la responsabilità contemplata, in via generale, dall'art. 2049 c.c. a carico dei padroni e dei committenti per i fatti illeciti imputabili ai domestici ed ai commessi. Conviene invece sottolineare come la suindicata responsabilità dell'intermediario preponente, la quale pur sempre presuppone che il fatto illecito del promotore sia legato da un nesso di occasionalità necessaria all'esercizio delle incombenze a lui facenti capo (cfr. Cass. n. 20588 del 2004 e Cass. 10580 del 2002), trova la sua ragion d'essere, per un verso, nel fatto che l'agire del promotore è uno degli strumenti dei quali l'intermediario si avvale nell'organizzazione della propria impresa, traendone benefici cui è ragionevole far corrispondere i rischi; per altro verso, ed in termini più specifici, nell'esigenza di offrire una più adeguata garanzia ai destinatari delle offerte fuori sede loro rivolte dall'intermediario per il tramite del promotore, giacchè appunto per le caratteristiche di questo genere di offerte più facilmente la buona fede dei clienti può essere sorpresa. E tale garanzia il legislatore ha inteso rafforzare, tra l'altro, anche e proprio attraverso un meccanismo normativo volto a responsabilizzare l'intermediario nei riguardi dei comportamenti di soggetti - quali sono i promotori - che 137 l'intermediario medesimo sceglie, nel cui interesse imprenditoriale essi operano e sui quali nessuno megliodell'intermediario è concretamente in grado di esercitare efficaci forme di controllo. In questo quadro si collocano, ovviamente, anche le disposizioni regolamentari che la Consob è stata chiamata a dettare, in base al disposto della citata L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 8, ed in particolare quelle menzionate nella lettera f) di detto comma, ossia le regole che i promotori debbono osservare "nei rapporti con la clientela al fine di tutelare l'interesse dei risparmiatori". Tra esse rileva qui, specificamente, l'art. 14, comma 9, del regolamento emanato dalla Consob con Delib. n. 5388 del 2 luglio 1991 (vigente all'epoca dei fatti di causa), che fa obbligo al promotore di ricevere dal cliente esclusivamente: "1) titoli di credito che assolvono la funzione di mezzi di pagamento, purchè siano muniti di clausola di non trasferibilità e siano intestati al soggetto indicato nel prospetto informativo o nel documento contrattuale ove il prospetto non sia prescritto; 2) titoli di credito nominativi intestati al cliente e girati a favore di chi presta il servizio di intermediazione mobiliare offerto tramite il promotore". Ora, è pacifico che nel caso in esame, come s'è detto, tale disposizione non fu osservata dal promotore, il quale ebbe a ricevere assegni emessi dal sig. M. al portatore. Ma quella regola - come pure già si è sottolineato - è unicamente diretta a porre un obbligo di comportamento in capo al promotore e trae la propria fonte da una prescrizione di legge (la citata L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 8, lett. f) espressamente volta alla tutela degli interessi del risparmiatore. Non è perciò logicamente postulatole che essa, viceversa, si traduca in un onere di diligenza posto a carico di quest'ultimo, tale per cui l'eventuale violazione di detta prescrizione ad opera del promotore si risolva in un addebito di colpa (concorrente, se non addirittura esclusiva) a carico del cliente danneggiato dall'altrui atto illecito. Nè il mero fatto che una corrispondente previsione sia eventualmente inserita nei moduli sottoscritti dal cliente può mutare la funzione di quella regola e trasformarla, da obbligo di comportamento del promotore in vista della tutela dell'investitore, in un onere gravante su quest'ultimo in funzione della tutela dell'intermediario rispetto ai rischi di comportamento infedele del promotore. A parte il rilievo che l'implicito presupposto dal quale muovono tutte le disposizioni volte a conformare a regole prefissate il comportamento di intermediari e promotori è proprio l'insufficienza delle tradizionali forme di autotutela dell'investitore affidate alla mera sottoscrizione di moduli e formulati, ove si ammettesse la possibilità per l'intermediario di scaricare in tutto o in parte sull'investitore il rischio della violazione di regole di comportamento gravanti sui promotori, si finirebbe evidentemente per vanificare lo scopo della normativa che, come s'è visto, per ragioni di carattere generale attinenti alla tutela degli investitori (e perciò del risparmio), mira invece proprio a responsabilizzare l'intermediario per siffatti comportamenti del promotore. Non s'intende con ciò negare, in assoluto, che possa trovare spazio l'applicazione dell'art. 1227 c.c. (comma 1 o 2, a seconda dei casi), qualora l'intermediario provi che vi sia stata, se non addirittura collusione, quanto meno una consapevole e fattiva acquiescenza del cliente alla violazione, da parte del promotore, di regole di condotta su quest'ultimo gravanti. Al dovere 138 di tutela reciproca dei contraenti, insito nel principio generale di buona fede, anche il cliente dell'intermediario è certamente tenuto. Per le ragioni dianzi chiarite, deve però escludersi che la mera allegazione del fatto che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest'ultimo sarebbe stato legittimato a riceverle valga, in caso d'indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell'attività del promotore finanziario medesimo e la consumazione dell'illecito, e quindi precluda la possibilità d'invocare la responsabilità solidale dell'intermediario preponente; e deve parimenti escludersi che un tal fatto possa essere addotto dall'intermediario come concausa del danno subito dall'investitore in conseguenza dell'illecito consumato dal promotore al fine di ridurre l'ammontare del risarcimento dovuto. L'enunciazione di tale principio, destinato evidentemente ad assorbire e rimpiazzare la motivazione dell'impugnata sentenza sul punto, rende superfluo l'esame delle considerazioni svolte dalla ricorrente in ordine al modo in cui si sono concretamente configurate le modalità di pagamento nei pregressi rapporti intercorsi con il sig. M., mai avendo la ricorrente dedotto che quest'ultimo fosse consapevole della violazione delle regole di condotta gravanti sul promotore. 3.2. Neppure può esser dato peso in questa sede all'asserita tardività con la quale il cliente avrebbe reagito all'illecito del promotore, non accorgendosi del fatto che la società d'intermediazione non gli aveva inviato le consuete lettere di conferma degli investimenti da lui disposti e non segnalando perciò subito la cosa alla medesima società. Di una tal questione non si fa cenno nell'impugnata sentenza, e la ricorrente non indica se ed in quale atto difensivo del giudizio di merito essa l'avesse invece sollevata, limitandosi ad un generico richiamo alle risultanze documentali e ad un documento prodotto da parte avversa, ma senza fornire elementi idonei a dimostrare l'effettiva incidenza causale che il lamentato ritardo di reazione del cliente avrebbe avuto sulla produzione del danno. 4. Il secondo motivo di ricorso investe il tema della responsabilità della società d'intermediazione per la seconda delle due indebite appropriazioni di denaro del cliente, compiuta dal sig. D. nel settembre del 1992, quando da ormai circa un mese e mezzo egli aveva cessato di essere promotore della Sviluppo Investimenti Sim. La Corte d'appello, richiamando i principi della cosiddetta apparenza del diritto, ha ravvisato la sussistenza della responsabilità dell'intermediario preponente in considerazione essenzialmente di ciò: che il sig. M., pur essendo da tempo cliente della Sviluppo Investimenti Sim per il tramite del promotore sig. D., non era stato informato dalla società della cessazione di ogni rapporto tra questa ed il predetto sig. D.; che quest'ultimo era stato lasciato in possesso del materiale a suo tempo fornitogli dalla Sviluppo Investimenti Sim per l'espletamento dell'attività di promotore ed aveva perciò potuto continuare ad utilizzare i moduli intestati alla società; che la Sviluppo Investimenti Sim non si era neppure attivata per assicurarsi che il sig. D. fosse privato del tesserino di promotore, onde costui aveva potuto esibirlo traendo in inganno il cliente in occasione dell'operazione di cui si tratta. 139 4.1. La ricorrente lamenta anche a tale proposito sia violazioni di legge (con riferimento agli artt. 1398, 2697 e 2702 c.c., artt. 115 e 166 c.p.c.) sia vizi di motivazione della sentenza impugnata. Essa sostiene: che il sig. M., pur avendo effettivamente avuto rapporti in precedenza con la Sviluppo Investimenti Sim, non poteva più dirsi cliente di quest'ultima nel luglio del 1992 (quando il sig. D. aveva dato le proprie dimissioni da promotore), onde nessuna specifica informazione gli era in proposito dovuta; che nessun addebito di colpa potrebbe comunque esser mosso alla ricorrente, la quale aveva tempestivamente chiesto già nel luglio 1992 al promotore dimissionario di restituire i moduli in suo possesso e di riconsegnare il tesserino alla competente Commissione regionale per l'albo dei promotori; che altrettanto tempestivamente, appena venuta a conoscenza nel settembre del 1993 degli illeciti compiuti dal sig. D., essa ne aveva informato gli organi preposti alla vigilanza ed aveva sporto denuncia alla magistratura competente. Circostanze tutte alla stregua delle quali la conclusione cui è prevenuta la corte territoriale risulterebbe priva di basi logiche e giuridiche. 5. Nemmeno questo motivo di ricorso è accoglibile. 5.1. Nessun errore di diritto è rilevabile in quanto statuito sul punto dalla corte d'appello. Non sembra infatti dubbio - e neppure la ricorrente in realtà lo pone in dubbio che in un caso come quello di cui qui si tratta possano trovare applicazione i principi dell'apparenza del diritto, elaborati dalla giurisprudenza soprattutto nella materia della rappresentanza negoziale; e che, quindi, un intermediario finanziario possa esser chiamato a rispondere di un illecito compiuto in danno di terzi da chi appaia essere un suo promotore, ed in tale apparente veste abbia commesso l'illecito, ogni qual volta l'affidamento del terzo risulti incolpevole ed alla falsa rappresentazione della realtà abbia invece concorso un comportamento colpevole (ancorchè magari solo omissivo) dell'intermediario medesimo. A questo principio si è attenuta la sentenza impugnata, che per questa ragione non può dunque essere censurata, essendo per il resto evidente che la ravvisabilità nei singoli casi di una situazione di apparenza del diritto, nei termini sopra indicati, dipende da circostanze di fatto il cui accertamento e la cui valutazione sono riservati alla competenza esclusiva del giudice del merito e, come tali, possono essere sindacati in cassazione solo per eventuali difetti logici o giuridici della motivazione. 5.2. Si tratta perciò di stabilire se, nel presente caso, il giudice del merito abbia motivato in modo giuridicamente e logicamente corretto il proprio ragionamento. Ed è in rapporto a ciò che viene in evidenza soprattutto il tema della colpa addebitata dalla corte territoriale alla società d'intermediazione, sulla base degli elementi già dianzi ricordati, il cui fondamento la ricorrente però contesta. A questo riguardo, può effettivamente dubitarsi che una società d'intermediazione disponga in concreto dei mezzi necessari per conseguire con certezza la restituzione, da parte di un promotore dimissionario, di tutta la modulistica prima fornitagli per esercitare la sua attività in favore della medesima società; e può escludersi che competesse a quest'ultima di attivarsi direttamente per ritirare il tesserino professionale che, viceversa, in base 140 all'art. 6, lett. f), dell'allora vigente e già citato regolamento n. 5388 della Consob, avrebbe dovuto essere ritirato dalla competente commissione regionale per i promotori. Non sembra invece possibile dubitare del fatto - da solo invero decisivo - che la Sviluppo Investimenti Sim dovesse diligentemente comunicare la cessazione del proprio rapporto con il promotore a chi, come il sig. M., aveva avuto nel tempo una serie di ripetuti contatti contrattuali con detta società per il tramite di quel promotore ed era perciò logicamente incline ad identificare in costui appunto un promotore di quella società d'intermediazione. La circostanza che i promotori possano svolgere la loro opera nell'interesse di una sola società d'intermediazione (cd. obbligo di monomandato, già posto dall'allora citata L. n. 1 del 1991, art. 5, comma 3) e la naturale conseguente identificazione da parte dei terzi del promotore come inserito nella struttura organizzativa di detta società, per effetto di un atto di preposizione da questa proveniente, rende evidente il rischio che i terzi - ed in specie i clienti adusi ad avere rapporti con la società tramite quello specifico promotore - possano continuare ad identificare in costui un referente della medesima società pur quando in realtà il rapporto di preposizione sia invece venuto meno. Emerge perciò anche in questo campo quell'esigenza d'informazione tempestiva del terzo alla quale, sia pure con una norma non di per sè applicabile alla presente fattispecie, il legislatore si è mostrato ben sensibile dettando l'art. 1396 c.c.. Certo, non può pretendersi che l'intermediario informi della cessazione del rapporto di preposizione tutti coloro che in passato siano entrati in qualche modo con lui in contratto per il tramite del promotore cessato. Ma un tale dovere d'informazione, connesso al dovere di protezione dell'altro contraente che naturalmente si estende anche a tutto quanto immediatamente consegue alla relazione contrattuale, è invece configurabile nei confronti di coloro i quali, essendosi sempre e ripetutamente avvalsi del promotore poi dimissionario, hanno intrattenuto rapporti con la società d'intermediazione in un arco di tempo che ragionevolmente può far supporre la loro attitudine ad effettuare ulteriori investimenti per il tramite di quel medesimo promotore. Ora, in punto di fatto, la corte d'appello ha accertato che il sig. M. aveva compiuto investimenti con l'intermediazione dell'anzidetta società fino a quattro mesi prima di quando il sig. D. presentò le proprie dimissioni da promotore. Questo accertamento, appunto perchè attiene ad una circostanza di fatto, non può evidentemente esser rimesso in discussione in sede di legittimità e, sulla base di esso, tenuto anche conto dei doveri di diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell'interesse del cliente che già l'art. 6, comma 1, lett. a), dell'allora vigente L. n. 1 del 1991 poneva a carico dell'intermediario, non può dubitarsi che fosse dovuta un'informazione come quella di cui si discute, perchè inerente ad un fatto nuovo idoneo a dispiegare effetti sul modo in cui fino ad allora si erano svolti i rapporti tra intermediario e cliente; rapporti non necessariamente continuativi, ma comunque frequenti e reiterati, dei quali, per ciò stesso, sarebbe stato logico attendersi ulteriori sviluppi. Sotto questo profilo la motivazione che ha indotto la corte territoriale a ravvisare una colpa della ricorrente nell'affidamento incolpevolmente riposto 141 dal cliente nell'esistenza del rapporto di preposizione si appalesa corretta ed adeguata a sorreggere l'anzidetta conclusione. 6. Privo di fondamento, infine, è anche l'ultimo motivo di ricorso,con cui si lamenta la violazione dell'art. 1248 c.c., oltre che difetti di motivazione dell'impugnata sentenza. L'assunto della ricorrente, secondo la quale la condanna al risarcimento dei danni in favore del sig. M. avrebbe dovuto esser circoscritta nel quantum all'importo delle somme da quest'ultimo versate e poi distratte dal promotore, maggiorate dei soli interessi legali e non di interessi al tasso annuo del 14%, in difetto di pattuizione scritta in tal senso, è palesemente infondato. Non è qui in questione, infatti, la corresponsione di interessi dovuti in forza di una specifica pattuizione tra il debitore ed il creditore, è questione invece del risarcimento del danno sofferto in conseguenza della violazione, da parte di un soggetto cui una determinata somma era stata affidata, dell'obbligo di investirla conformemente alle disposizioni ricevute. E poichè, in punto di fatto, la sentenza impugnata indica (e la stessa ricorrente nella premessa del ricorso conferma) che quella somma avrebbe dovuto essere investita in certificati di deposito bancari dei quali era prevista la restituzione a scadenza con aggiunta di interessi annui al tasso del 14%, risulta conforme a diritto e congruamente motivata la statuizione con cui la Corte di merito ha condannato i convenuti ad un risarcimento comprendente anche la misura degli interessi che il cliente avrebbe percepito qualora le somme da lui affidate al promotore fossero state impiegate come dovevano. 7. Alla reiezione del ricorso fa seguito la condanna della società ricorrente al rimborso delle spese processuali del controricorrente, che vengono liquidate in Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge. P.Q.M. La corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese processuali del controricorrente, liquidate in Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e 100,00 (cento) per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge. Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2006. 142 CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA CIVILE – SENTENZA 30 GENNAIO-12 APRILE 2006, N. 8516 PRESIDENTE PROTO – RELATORE NAPOLEONI Svolgimento del processo Con atto di citazione del 10 dicembre 1996 il fallimento Gruppo Editoriale Marotta di Carlo Marotta conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Taranto la signora Maria Francesca Primerano, moglie consensualmente separata del Marotta, esponendo che in sede di separazione consensuale, omologata dal medesimo Tribunale l’11 luglio 1998, il Marotta e la Primerano avevano stabilito che la casa coniugale sita in Taranto, alla Via Palermo n. 4, acquistata in regime di comunione dei beni, sarebbe rimasta nella esclusiva disponibilità del marito. Questi, per parte sua, avrebbe corrisposto alla moglie – oltre all’assegno di mantenimento per lei stessa e la figlia, di cu era affidataria – un ulteriore assegno mensile di lire 750.000, quale contributo alle spese per il reperimento di altro alloggio. Con successivo ricorso al Tribunale di Taranto del 29 gennaio 1994, omologato con decreto del 3 febbraio 1994, i coniugi avevano peraltro chiesto ed ottenuto la modifica delle anzidetto condizioni, convenendo, in specie, che la casa di proprietà comune veniva destinata ad abitazione della Primerano. A tal fine, il Marotta aveva costituito sull’immobile, per la quota di sua spettanza, il diritto di abitazione in favore della consorte per l’intera durata della di lei vita, venendo correlativamente dispensato dal contributo mensile di lire 750.000, in precedenza pattuito. Di tale atto, trascritto nel registri immobiliari, il fallimento chiedeva la revoca ai sensi degli articoli 69 e 67, comma 1, n. 1, della legge fallimentare, in quanto stipulato in pregiudizio dei creditori dell’imprenditore fallito. Nella resistenza della convenuta, la domanda veniva accolta dal Tribunale adito con sentenza del 13 giugno 2000, successivamente confermata, a seguito del gravame della Primerano, dalla Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 4 luglio 2002. La Corte territoriale negava in specie validità alla tesi dall’appellante, secondo cui l’accordo intervenuto in modo di separazione consensuale rimarrebbe estraneo alla sfera di operatività degli articoli 67 e 69 della legge fallimentare osservava, al riguardo, come la disposizione del comma 1 dell’articolo 69 - in forza della quale gli atti di cui al precedente articolo 67, compiuti tra i coniugi nel tempo in cui il fallito esercitava un’impresa commerciale, sono revocati so il coniugo non prova che ignorava lo stato di insolvenza del coniugo fallito dovemmo considerarsi applicabile a tutti gli atti ponti in camere tra i coniugi in costanza di matrimonio, ancorché in pendenza di uno stato di separazione personale. E ciò sia perché la modifica consensuale della condizioni della separazione, se pur soggetta ad omologazione da parte del tribunale, resta un 143 atto di natura patrizia; perché il citato articolo 69 legge fallimentare, sul presupposto che il coniugo rappresenti il “complice naturale” dell’imprenditore insolvente nel compimento di atti pregiudizievoli ai creditori, lo sottopone ad una disciplina più rigorosa di quella prevista in rapporto alla generalità dei terzi. La Corte di merito riteneva sussistente, inoltre, la sproporzione - contentata viceversa anch’essa dall’appellante - tra quanto concesso dal fallito con l’atto impugnato (il diritto di abitazione nulla metà dell’immobile di sua spettanza) e quanto da lui ricevuto (l’esonero dall’obbligo di versare mensilmente al coniuge separato la soma di lire 750.000). A tale conclusione inducevano sia il pregio dell’immobile (composto da dieci vani e mezzo “più accessori”, con annesso giardino); sia l’slavato valore di “capitalizzazione” del diritto di abitazione, stante la giovane età della beneficiaria (nata nel 1957); sia, infine, la circostanza che, a seguito dell’accordo modificativo, il Marotta veniva a sobbarcarsi la spese per il reperimento di un diverso alloggio, quando invece l’obbligo di versamento mensile originariamente assunto avrebbe avuto termine - in correlazione alla sua finalità - allorché la Primerano fosse venuta a godere di altra idonea abitazione. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la Primerano sulla base di due motivi, cui resiste il curatore del fallimento Marotta con controricorso, illustrato da successiva memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” (articolo 360, n. 3, Cpc), assumendo che - contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di merito -l’accordo intercorso tra i coniugi in modo di separazione consensuale, regolarmente omologato dal tribunale, non potrebbe essere estrapolato dall’insieme della condizioni in cui è incorporato e ricompreso nell’ambito applicativo dell’articolo 67 della legge fallimentare, che riguarda “rapporti del tutto autonomi sul piano economico”. In ogni caso, la sentenza impugnata avrebbe completamente ignorato che la disposizione invocata dalla curatela a fondamento della domanda richiede che la prestazione del fallito sorpassi notevolmente la controprestazione. 2. Con il secondo motivo la Primerano lamenta “omessa ad insufficiente motivazione” (articolo 360, n. 5, Cpc), censurando che la Corte territoriale abbia rigettato il proprio gravame senza alcuna valida motivazione sia per quanto concerne l’ambito di applicazione dell’articolo 67 della legge fallimentare, sia, e soprattutto, per quel che attiene alla sproporzione tra la prestazioni, apoditticamente affermata dai giudici di appello in assenza di qualsiasi elemento di prova: prova che sarebbe stato per converso onere del curatore fornire. 3.1. Il primo motivo, nella parte in cui a volto a contentare 144 l’assoggettabilità a revocatoria fallimentare della pattuizione oggetto di giudizio, non è fondato. In accordo con i postulati della concezione c.d. “privatistica” della separazione consensuale - a cui favore militano tanto il tenore letterale degli articoli 158, comma 1, Cc e 711, comma 4, Cpc, quanto i limiti si poteri di controllo del giudica prefigurati dall’articolo 158, comma 2, Cc -questa Corte ha difatti ripetutamente affermato che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale – più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel suo nucleo centrale e salvo quanto appresso si dirà, del connotato della “patrimonialità”) - rispetto al quale il provvedimento di omologazione si atteggia a mora condizione sospensiva (legale) di efficacia: avendo detto provvedimento la circoscritta funzione di verificare che la convenzione sia Compatibile con le norma cogenti ed i principi di ordine pubblico, nonché di controllare, la termini più pregnanti, che l’accordo relativo all’affidamento e al mantenimento dei figli non contrasti con l’interesse di questi ultimi. Con la conseguenza, tra l’altro, che l’avvenuta omologazione lancia affatto impregiudicata la facoltà delle parti di esperire nei confronti della convenzione l’azione di annullamento per vizi della volontà, in base alle regole generali (Cassazione, 6625/05; 17902/04; 17607/03; 3149/01). Al tempo stesso, questa Corte ha costantemente riconosciuto la validità dello clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti tra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cassazione, 43061/97; 12110/92; con particolare riguardo ai riflessi fiscali, 11458/05; 7493/02), ovvero la costituzione di diritti reali minori, tra cui, in primis, per quanto al presento interessa, il diritto di abitazione (cfr., in tal nonno, già la remota Cassazione, 1594/63): clausola che presentano, peraltro, una loro propria “individualità”, quali espressioni di libera autonomia contrattuale della parti interessato (cfr. Cassazione, 12897/91), dando vita, nella sostanza a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sonni dell’articolo 1322 Cc (Cassazione, 11342/04; 12110/92; 9500/87; 3299/72; con riguardo altresì a clausola inserita in un accordo per la separazione di fatto, Cassazione, 7470/92). Pattuizioni del genere considerato, nondimeno, ben possono rivelarsi lesive, in concreto. dell’interesso dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale del coniuge disponente eventualità nella quale nessun ostacolo testuale o logico-giuridico ai frappone alla loro impugnazione – ove ricorrano i relativi presupposti - tramite azione revocatoria, tanto ordinaria (cfr., al riguardo, Cassazione, 5741/04) che fallimentare. 145 Tali azioni non possono ritenersi precluse, difatti, né dall’avvenuta omologazione dell’accordo di separazione, cui resta affatto estranea la funzione di tutela dei terzi creditori, e che, per quanto detto, lascia comunque inalterata la natura negoziale della pattuizione, né contrariamente a quanto assume l’odierna ricorrente dalla pretesa “inscindibilità” della pattuizione stessa dal complesso della altro condizioni della separazione. È del tutto evidente, in effetti, che nell’ipotesi considerata si discute non già di una (peraltro difficilmente concepibile) revocatoria “della” separazione, quanto piuttosto di una revocatoria “nella” separazione l’impugnativa mira a colpire, cioè, non la separazione in sé, ma il segmento della fattispecie complessa in cui si annida il vulnus alla aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio. Il che, peraltro, è perfettamente ammissibile a fronte della rimarcata autonomia delle pattuizioni di cui si va discorrendo, non giovando addurre, in direzione contraria, che l’ablazione del singolo “tassello” finisce inevitabilmente per squilibrare i rapporti fra i coniugi separati, quali risultanti dal complessivo assetto convenzionale. Al di là, infatti, della generale facoltà accordata al soccombente in revocatoria dall’articolo 71 legge fallimentare, la tutela del coniuge, che abbia visto modificata in peius la propria posizione a seguito del vittorioso esperimento della revocatoria, resta affidata alla facoltà di allegare l’anzidetta modifica quale fatto sopravvenuto idoneo a legittimare la revisione delle residue condizioni della separazione, a norma dell’articolo 711, comma 5, Cpc. Né, infine, una preclusione all’esperimento dell’azione revocatoria potrebbe essere ravvisata nella circostanza che il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore siano stati concretamente pattuiti in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli: obbligo di fonte legale, rientrante, come tale, nel cosiddetto contenuto necessario dell’accordo di separazione. È agevole replicare, difatti, che nel frangente l’azione revocatoria non pone in discussione la sussistenza dell’obbligo in sé, quanto piuttosto le modalità di assolvimento del medesimo, quali stabilite dalle parti nell’ambito di un regolamento, per questo verso, di matrice spiccatamente “convenzionale”. 3.2. Le conclusioni ora esposta si impongono d’altro canto a fortiori allorché – come nella fattispecie in esame - il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore non facciano parte dell’originario -pacchetto- delle condizioni della separazione consensuale omologata, ma formino invece oggetto di un accordo modificativo intervenuto successivamente tra i coniugi, esaurendone in pratica i contenuti. 146 Per un verso, infatti, al lume della giurisprudenza di questa Corte, le modificazioni degli accordi, convenuto dai coniugi successivamente all’omologazione della separazione, trovando fondamento nel principio di autonomia contrattuale di cui all’articolo 1322 Cc, sono valido ed efficaci anche a prescindere dall’intervento del giudice ex articolo 710 Cpc, ove non varchino il limito di derogabilitá consentito dall’articolo 160 Cc (Cassazione, 5829/98; 657/94; 22701/93; 2481/82). Onde diviene ancor più difficile ravvisare un ostacolo alla revocabilità dell’accordo modificativo nell’avvenuta omologazione, neppure indispensabile al fini dell’efficacia dell’accordo stesso. Per altro verso, poi, risulta ancor più palese, nel caso considerato, l’autonomia dell’atto dispositivo rispetto ai complessivi accordi di separazione e, di conseguenza, la sua distinta impugnabilità con l’azione revocatoria al fine di evitare il pregiudizio ai creditori del coniuge disponente che ad esso eventualmente consegua. 4. Il secondo motivo- che, per l’identità di oggetto, può essere esaminato congiuntamente alla seconda parte del primo motivo – è anch’esso infondato. La sussistenza della sproporzione tra le prestazioni delle parti, richiesta dalla disposizione di cui all’articolo 67, comma 1, n. 1, della legge fallimentare – in base alla quale la curatela ha proposto la domanda di revoca – lungi dall’essere stata ravvisata dalla Corte di merito in termini puramente assertivi, è stata affermata sulla scorta di un’articolata analisi della fattispecie concreta, che si sottrae a censura in questa sede, in quanto scevra da incongruenze e da vizi logici. La Corte territoriale ha soppesato infatti comparativamente, da un lato, l’entità della prestazione del coniuge poi fallito alla luce della consistenza oggettiva dell’immobile sul quale il diritto di abitazione è stato costituito e del valore di tale diritto in rapporto alla prevedibile durata della vita del coniuge beneficiario; dall’altro lato, il vantaggio corrispettivo conseguito dal disponente (esonero dall’obbligo di corrispondere a un assegno mensile di lire 750.000), ponendo l’accento – ai fini della conclusiva valutazione di carenza di congruità – sulla circostanza che mentre tale obbligo era stato prefigurato ab origine come temporaneo, essendo destinato a cessare, stante la sua causale, allorché la Primerano fosse venuta a disporre di una idonea residenza; di contro, l’atto impugnato poneva il Marotta nella necessità di affrontare a propria volta le spese per il reperimento di altra abitazione. 5. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo. PQM 147 La Corte, rigetta il ricorso, condanna Maria Francesca Primerano al rimborso delle spese processuali in favore del fallimento Gruppo Editoriale Marotta di Marotta Carlo, liquidate in euro 1600 di cui euro 100 per esborsi ed euro 1500 per onorari, oltre spese generali ed accessorie di legge. 148 Corte di cassazione Sezione I civile Sentenza 6 ottobre 2005, n. 19512 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Su ricorso in data 21 aprile 1997 della curatela del fallimento Riviera Motori di B. e P. s.n.c., il Presidente del Tribunale di Imperia emise decreto con cui ingiunse alla Banca di Roma s.p.a. di pagare alla ricorrente la somma di lire 53.150.000 - oltre interessi e spese - pari all'importo di sei assegni circolari non trasferibili emessi nel 1991 dal Banco Ambrosiano Veneto s.p.a. a favore della società poi fallita, girati per l'incasso alla Banca di Roma - Filiale di Ventimiglia e da quest'ultima pagati a persona diversa dal prenditore. L'ingiunta si oppose, eccependo la prescrizione dell'azione nel presupposto che si verteva in tema di responsabilità extracontrattuale. In corso di giudizio, chiese di provare per testi di avere pagato correttamente gli assegni in questione a soggetto, tale Giuseppe L., delegato all'incasso dal B., legale rappresentante della s.n.c. prenditrice e interessato a che le somme riscosse non figurassero nei bilanci ufficiali della società amministrata. L'adito tribunale respinse l'opposizione e stessa sorte la Corte di appello di Genova riservò al gravame della Banca di Roma. Premise la Corte ligure che le obbligazioni ex lege nascenti da "ogni altro atto o fatto previsto dalla legge" costituiscono, per l'art. 1173 c.c., un tertium genus definito quasi contrattuale, la cui violazione importa responsabilità contrattuale in quanto connessa a una obbligazione specifica inserita in un rapporto obbligatorio con fonte legale, comunque preesistente alla violazione stessa, in ciò distinguendosi dalla responsabilità aquiliana conseguente a un'obbligazione costituitasi ex novo. Osservò, quindi, che la fonte della responsabilità della banca opponente andava ravvisata nella violazione dei doveri su di essa incombenti per legge, ai sensi dell'art. 43 legge sul diritto d'assegno, ovverosia nel mancato rispetto dell'obbligo di diligente accertamento della legittimazione cartolare del prenditore all'atto della presentazione dell'assegno per l'incasso. Il sorgere della relazione intersoggettiva aveva preceduto la causazione del danno chiaramente connesso alla violazione di un'obbligazione specifica, in cui il responsabile è pre-individuato così come è determinato il contenuto dell'obbligo risarcitorio, commisurato all'interesse tutelato dalla legge. Si verteva, pertanto, nell'ambito di una responsabilità contrattuale, con gli effetti che ne derivano sotto il profilo della prescrizione dell'azione risarcitoria. Corretta era anche la sentenza in relazione al rigetto della richiesta istruttoria, non essendo possibile ritenere che lo specifico dovere imposto alla banca negoziatrice possa essere stato disinvoltamente disatteso da un comportamento ai limiti della responsabilità penale quanto alla banca medesima, resa edotta dei rapporti intercorrenti tra il B. e il L. e delle ragioni 149 che avevano indotto il primo a non apparire come prenditore degli assegni; in ogni caso, le prove dedotte non apparivano idonee a dimostrare l'esistenza di un legittimo atto di delega all'incasso degli assegni ed erano, come tali, irrilevanti ai fini del decidere. La cassazione di tale sentenza è stata chiesta dalla Banca di Roma con ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso il fallimento della Riviera Motori di B. e P. s.n.c. Entrambe le parti hanno depositato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo, denunziata la violazione del r.d. 1736/1933 e degli artt. 2043 e 2947 c.c., la Banca di Roma critica la sentenza per avere la Corte ligure ravvisato nel comportamento della banca girataria per l'incasso, che abbia violato il dovere di identificazione del presentatore all'assegno circolare non trasferibile, una responsabilità ex contractu nei confronti dell'intestatario del titolo, laddove, ai sensi dell'art. 43 r.d. citato, tale responsabilità va qualificata come extracontrattuale e, quindi, assoggettata alla prescrizione quinquennale, essendo il banchiere giratario per l'incasso del tutto estraneo al rapporto cartolare. Peraltro, la somma portata dagli assegni fu pagata a persona diversa dal prenditore e conosciuta dalla banca, che appose il timbro "per conoscenza e garanzia", dietro precise disposizioni del B. che, nella qualità di amministratore della Riviera Motori s.n.c., aveva sottoscritto la girata "pagate dall'ordine Banca di Roma". Non sussisteva, quindi, colpa per mancata diligenza nell'identificazione del presentatore dei titoli, posto che il versamento è stato effettuato al soggetto indicato dal prenditore e con il pieno consenso di costui. Il motivo è da disattendere in entrambe le sue articolazioni. Anche se nell'impianto del mezzo, incentrato sulla natura della responsabilità della banca girataria per l'incasso in caso di inesatto pagamento, è prospettata quasi quale argomentazione di rincalzo (peraltro, senza l'indicazione precisa della norma pretesamente violata dal giudice a quo), la tesi della presunta assenza di responsabilità nella specie da parte della Banca di Roma, avente priorità nell'ordine logico delle questioni, è palesemente destituita di ogni minimo fondamento giuridico. Come correttamente statuito dai giudici di merito (la cui motivazione in diritto sul punto va però integrata, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., con le considerazioni di cui infra), la violazione dell'art. 43 legge sul diritto d'assegno è manifesta. Per effetto di questa norma, è la banca girataria per l'incasso che è tenuta a identificare il presentatore girante, accertare che egli sia il prenditore del titolo e provvedere al pagamento dell'assegno, che avverrà di norma dopo che la banca trattaria abbia accertato l'autenticità della firma del proprio cliente e inviato la valuta alla banca girataria per l'incasso; questa, peraltro, può anche 150 anticipare la valuta effettuando pur sempre il pagamento al prenditore personalmente e non ad altro soggetto. Nella specie è incontestabilmente accertato che, nonostante la clausola di non trasferibilità, gli assegni circolari in questione, girati per l'incasso alla Banca di Roma dalla beneficiaria Riviera Motori di B. e P. s.n.c., vennero pagati dal cassiere, anziché a quest'ultima, a tale Giuseppe L., apponendo prima della relativa firma la dicitura "per conoscenza e garanzia". L'irregolarità del pagamento è dunque evidente, data la presenza della firma del L. (formalmente "per conoscenza e garanzia", ma sostanzialmente "per quietanza"), il cui intervento - figurante sui titoli in termini di attestazione dell'identità del prenditore, a maggior tutela del cassiere sportellista - era in realtà inteso a sostituire il prenditore medesimo nella percezione delle somme e non ad asseverarne la legittimazione a riscuotere. Il tutto in violazione dell'obbligo, espressamente posto a carico della banca negoziatrice dall'art. 43 legge sull'assegno, di diligente accertamento, all'atto della presentazione dell'assegno per l'incasso, della legittimazione cartolare del prenditore, che costituisce fonte della facoltà di negoziare il titolo e, con la girata, di investire la banca dei poteri del mandatario. In definitiva, essendo l'assegno circolare intrasferibile, la clausola "per conoscenza e garanzia", apposta accanto alla sottoscrizione del L., non era certamente idonea a legittimare il pagamento in favore di persona diversa dalla società prenditrice. Anche il nucleo centrale del mezzo in esame è infondato. A termini dell'art. 43 legge sull'assegno (r.d. 1736/1933) «L'assegno bancario emesso con la clausola "non trasferibile" non può essere pagato se non al prenditore o, a richiesta di costui, accreditato nel suo conto corrente. Questi non può girare l'assegno se non ad un banchiere per l'incasso, il quale non può ulteriormente girarlo». Soggiunge il comma 2 di detto articolo «Colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l'incasso risponde del pagamento». La regola, in virtù del rinvio operato dall'art. 86, comma 1, ultima parte legge sull'assegno, si applica anche all'assegno circolare, in quanto non sia incompatibile con la sua natura. È pacifico in giurisprudenza (Cassazione 6778/1990, 10111/1993) e presso la dottrina maggioritaria che tale disciplina, e la conseguente responsabilità in caso di sua violazione, vale per "colui che paga" e quindi non soltanto per la banca trattaria ovvero per la banca emittente, in ipotesi di assegno circolare, ma anche per l'eventuale banchiere giratario per l'incasso. Si nota convincentemente, al riguardo, che quantunque non sia corretto parlare di "pagamento" in riferimento alla banca girataria per l'incasso, dovendosi piuttosto dire che essa non "paga", non essendo a ciò obbligata sotto il profilo cartolare, ma anticipa la valuta acquistando la legittimazione all'esercizio del diritto cartolare, tuttavia l'espressione "colui che paga", in una interpretazione che tanga conto altresì di quanto immediatamente prima prescrive l'ultimo 151 comma dell'art. 41 (dove chiaramente si dice "il trattario o il banchiere"), abbia appunto il senso di estendere anche al banchiere giratario per l'incasso le conseguenze per il pagamento dell'assegno effettuato contra legem. Non essendo tenuto il trattario a verificare l'autenticità delle firme, la protezione dei terzi interessati in caso di falsa o irregolare girata per l'incasso sarebbe compromessa se il banchiere giratario non fosse obbligato a tale verifica, cioè all'identificazione dell'intestatario girante. Contrasti presso la giurisprudenza di questa Corte, come anche in dottrina, si sono registrati in ordine alla natura della responsabilità in cui incorre il banchiere giratario per l'incasso che, in violazione dell'art. 43 legge sull'assegno, paghi un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore. Secondo un primo indirizzo, sorto in tema di assegno bancario (non trasferibile), la banca negoziatrice agirebbe quale sostituita nel mandato (art. 1717 c.c.) impartito dal traente dell'assegno alla propria banca trattaria. Più in particolare, si è ritenuto che la banca girataria per l'incasso di un assegno bancario non trasferibile sia da considerare non soltanto mandataria del prenditore-girante, ma anche sostituta della banca trattaria nell'esplicazione del servizio di pagamento dell'assegno, cui quest'ultima è obbligata nei confronti del traente in base alla convenzione di cheque. Subentrando alla banca trattaria, la banca girataria si sostituisce ad essa nel dovere di identificazione del presentatore del titolo con l'uso della dovuta diligenza professionale, mediante le cautele e gli accorgimenti suggeriti dal caso concreto. Sotto questo profilo, la banca girataria viene chiamata a rispondere del negligente pagamento non solo nei confronti della banca trattaria, ma anche nei confronti del traente, ai sensi dell'art. 1717, ultimo comma, c.c. In altri termini, il traente può esercitare verso la banca che ha effettuato il pagamento irregolare la medesima azione contrattuale che avrebbe potuto esercitare in forza della convenzione di assegno nei confronti della banca trattaria, non potendo i di lui diritti ricevere una tutela diversa secondo che il pagamento venga richiesto alla banca trattaria o ad altra banca girataria per l'incasso (cfr. Cassazione 3928/1977, 6929/1986, 4187/1987, 6377/2000 - la quale, tuttavia, distingue l'ipotesi del pagamento in violazione della causa di intrasferibilità dell'assegno circolare, rispetto al quale il richiedente a nome altrui resta un terzo estraneo al rapporto cambiario ed ha solo un'azione extracontrattuale contro la banca che abbia pagato l'assegno a persona diversa dall'intestatario - 14359/2001). Per altro orientamento, anch'esso sorto in fattispecie di assegno bancario non trasferibile, detta responsabilità sussiste erga omnes e si configura come aquiliana o extracontrattuale non potendo qualificarsi il banchiere giratario alla stregua di sostituto della banca trattaria o emittente nell'adempimento della convenzione di assegno, come tale posto in rapporto diretto con il traente, ma dovendosi piuttosto considerarlo, in quanto investito e attivato dalla procura all'incasso, quale rappresentante del girante, in nome e per conto del quale riceve il pagamento (così Cassazione 6778/1990, 10111/1993, 1641/1996, 1023/1998, 1087/1999, 9902/2000, 12425/2000). 152 Ad avviso di questa Corte, nessuno dei due indirizzi merita di essere seguito. Non il primo che identifica nel banchiere giratario per l'incasso il sostituto della banca trattaria nell'adempimento della convenzione di assegno, ponendolo perciò in rapporto con il traente che può esercitare contro di lui l'azione contrattuale fondata, appunto, sulla convenzione d'assegno. Una tale costruzione è incompatibile con la considerazione che il banchiere giratario è totalmente estraneo sia alla convenzione di assegno sia al rapporto di emissione del titolo; esso, investito e attivato dalla procura all'incasso, figura soltanto quale rappresentante del girante, in nome e per conto del quale riceve il pagamento. Vero è che la banca trattaria o emittente non potrebbe mai, in caso di girata per l'incasso, procedere direttamente al controllo della legittimazione e all'identificazione del presentatore, cionondimeno appare superfluo ogni richiamo ai principi in tema di mandato, posto che anche per ciò che attiene alla negoziazione dei titoli di credito valgono le stesse regole dettate per il pagamento; anzi, la previsione legislativa della possibilità di girare per l'incasso l'assegno non trasferibile esclusivamente a un banchiere assume un preciso significato proprio in considerazione della responsabilità professionale e della funzione di pubblico interesse degli istituti di credito, cioè dell'estrema sicurezza offerta dalla particolare qualità del soggetto intermediario. In ogni caso, l'interpretazione dell'art. 43 legge sull'assegno offerta dalle sentenze che si iscrivono in questo indirizzo, se può apparire confacente in tema di assegno bancario (per il quale è, in realtà, avanzata) la cui struttura si spiega sullo schema della delegazione di pagamento, non sembra per altro verso riproponibile per l'assegno circolare; è infatti largamente contestato che all'atto dell'emissione dell'assegno circolare si stipuli un contratto di mandato, in relazione al quale potrebbe aversi la sostituzione (o il submandato nei confronti) della banca girataria. Ma neanche il secondo orientamento è persuasivo. Deve, in generale, premettersi che esso pare ispirato all'intento pratico di evitare che la configurazione della responsabilità sub specie contrattuale possa condurre a una sorta di deresponsabilizzazione dell'istituto negoziatore, il quale, ove fosse considerato quale mero sostituto della banca trattaria ed esecutore delle istruzioni di quest'ultima, ben potrebbe limitarsi a pagare la somma al presentatore una volta che la trattaria, ricevuto l'assegno in compensazione, non abbia sollevato eccezioni sulla sua regolarità. Di qui l'esigenza di investire la banca girataria di un titolo autonomo di responsabilità, la cui rilevanza non viene meno per via della concorrente condotta della banca trattaria. Ma, a parte ciò, la tesi non è condivisibile sul piano dei principi generali in tema di obbligazioni. Com'è noto, la responsabilità extracontrattuale - nonostante l'ampia portata della dizione dell'art. 2043 c.c., che fa riferimento a "qualunque fatto doloso o colposo" - ricorre solo allorquando la pretesa risarcitoria venga formulata nei confronti di un soggetto autore di un danno ingiusto, non legato all'attore da alcun rapporto giuridico precedente o, comunque, indipendente da tale eventuale rapporto, sicché essa può configurarsi solo per effetto della violazione di una norma di condotta. Ove a fondamento della pretesa dedotta in giudizio venga enunciato l'inadempimento di un'obbligazione 153 volontariamente contratta, o anche derivante dalla legge (art. 1173 c.c.), non vi è luogo per l'illecito aquiliano, ma è ipotizzabile unicamente una responsabilità contrattuale o legale derivante da un preesistente vincolo obbligatorio specifico posto in essere tra le parti dalla volontà delle stesse ovvero direttamente da una disposizione di legge. Orbene, non v'è dubbio che l'obbligazione per l'istituto negoziatore di pagare l'assegno solo al prenditore o al beneficiario deriva direttamente dalla disposizione di legge innucleata nell'art. 43 legge sull'assegno, a sua volta richiamata dall'art. 86 stesso decreto. Anzi, da tale disposizione sembra promanare il richiamo a una più stretta diligenza proprio dell'istituto negoziatore di assegni in ragione degli aspetti pratici e sostanziali dell'operazione di pagamento. A questo proposito, si rammenta che la banca girataria riceve materialmente il titolo dal proprio cliente, trovandosi così a gestire in forma individuale la presentazione dell'assegno in versamento, con maggiori possibilità di riscontare eventuali irregolarità nella circolazione del titolo o contraffazioni. Di contro, l'azienda trattaria e quella emittente si vedono normalmente consegnare il titolo in stanza di compensazione, all'interno di una rimessa comprendente una moltitudine di altri titoli, per giunta con tempi assai ristretti per poterne eccepire l'irregolarità (verificandosi, in caso contrario, la presunzione di "pagato" che consegue allo spirare dei termini delle procedure interbancarie). A ciò si aggiunge che solo l'azienda girataria per l'incasso ha la possibilità di un diligente vaglio sulla persona del presentatore (ivi comprese le sue qualità) e sulla natura del documento di identificazione esibito, elementi tutti che devono concorrere a integrare un pagamento diligente e liberatorio. In diversi termini, l'art. 43 legge sull'assegno, per agevolare l'incasso dell'assegno (assolutamente) intrasferibile, ne ammette la girata per l'incasso esclusivamente a un banchiere sul cui vaglio fa affidamento, rendendolo - per così dire - mallevadore verso la trattaria (o la banca emittente dell'assegno circolare) della esatta identificazione del prenditore e infine responsabile dell'inesatto pagamento, che si pone in evidente contrasto con i principi che reggono il servizio bancario e impongono al banchiere comportamenti conformi alle regole della specifica professionalità. Quindi, promanando direttamente dalla legge, la responsabilità della banca girataria per l'incasso non si configura come obbligazione ex delicto, ma, per l'appunto, come obbligazione ex lege, riconducibile in base all'art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico. Trattasi, in fin dei conti, di fattispecie tipica di obbligazione che, pur non avendo natura contrattuale, non può per ciò solo essere ricondotta nello schema generale dell'art. 2043 c.c., trovando invece il suo archetipo nell'art. 1173 c.c. Il fondamento della correlativa azione risarcitoria è unico e non vi è bisogno di diversificarne il titolo (contrattuale, extracontrattuale, cartolare) a seconda del soggetto che si ritiene danneggiato. Il criterio per individuare il soggetto titolare della pretesa dovrà essere fondato sull'individuazione della sfera giuridica patrimoniale sulla quale è in concreto caduto il danno. In linea generale, il pregiudizio derivante dal pagamento dell'assegno circolare a soggetto diverso dal prenditore potrebbe ripercuotersi 154 sul richiedente, ovvero sul prenditore, ovvero infine sulla stessa banca emittente se nella negoziazione si sia inserita una banca girataria per l'incasso. Corretto è, quindi, il percorso giuridico seguito dalla sentenza qui impugnata. Il banchiere giratario per l'incasso che paga un assegno circolare non trasferibile a persona diversa dal beneficiario indicato dal titolo incorre in una responsabilità, nei confronti del beneficiario, che non ha natura contrattuale, non essendovi rapporto negoziale di sorta tra banca e beneficiario medesimo, né extracontrattuale, che riguarda il comportamento illecito per la violazione dell'obbligo generico del neminem laedere, bensì quasi contrattuale ai sensi dell'ultima parte dell'art. 1173 c.c. L'obbligazione deriva appunto direttamente dalla legge, ovverosia dalla norma di cui all'art. 43 legge sull'assegno, la quale prevede l'obbligo, a carico del banchiere giratario per l'incasso, di pagare solo ed esclusivamente al soggetto ordinatario ed il correlativo diritto, a favore di tale soggetto, di chiedere il risarcimento del pregiudizio patrimoniale patito. Ne consegue che il termine di prescrizione per l'azione di responsabilità nei confronti della banca negoziatrice è quello ordinario decennale e non quello quinquennale previsto dall'art. 2947, comma 1, c.c. per la domanda risarcitoria da fatto illecito. Con il secondo motivo, viene denunziata omessa e insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Si duole la ricorrente che la Corte, al pari del tribunale, pur avendo ravvisato nella fattispecie una ipotesi di responsabilità contrattuale, ha respinto la prova per testi intesa a dimostrare che la banca non aveva alcuna colpa per avere agito su espressa disposizione del prenditore degli assegni. Né, a proposito della indicazione del L. quale delegato all'incasso da parte del B., poteva obliterarsi che costui aveva agito nella veste di legale rappresentante della Riviera Motori s.n.c. Il motivo è inammissibile sotto due profili. Valutare se la prova non ammessa riguardasse un punto decisivo della controversia richiede, da parte della Corte di cassazione, il raffronto tra il fatto da provare e le circostanze dedotte a contenuto della prova nel giudizio di appello. Perché la Corte sia posta in grado di compiere tale valutazione è necessario che la parte interessata indichi nel ricorso il contenuto dei capitoli di prova, diversamente il motivo di ricorso viene a mancare del requisito della specificità. Ciò da tempo la giurisprudenza della Corte viene affermando attraverso l'enunciazione del principio secondo cui il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione in appello di una prova testimoniale, ha l'onere di indicare specificamente - occorrendo anche mediante integrale trascrizione in ricorso - le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo sulla decisività dei fatti da provare in ordine alla risoluzione della controversia e sulle prove stesse, in quanto, per il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, la Corte di cassazione deve essere in grado di compiere tale verifica solo in base alle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è 155 consentito sopperire con indagini integrative (solo per indicare le più recenti, sentenze 19138/2004, 9711/2004, 9290/2004, 5369/2004, 17904/2003, 15751/2003, 9712/2003). Orbene, nel caso, la ricorrente si è limitata a dedurre di avere formulato una istanza di ammissione di prova testimoniale, ma di questa non ha poi indicato il contenuto. Ulteriore profilo di inammissibilità del mezzo sta nel fatto che con esso non risulta censurata la ratio decidendi autonoma espressa a riguardo dalla Corte del merito, per la quale la prova (oltre che inammissibile) era anche irrilevante in quanto, dalla articolazione dei relativi capitoli, appariva inidonea a dimostrare la esistenza di un legittimo atto di delega all'incasso dei titoli. Infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso va rigettato con condanna della sua proponente alle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in euro 2.700 di cui 2.500 per onorari d'avvocato oltre spese e accessori di legge. 156 CASSAZIONE – SEZIONI UNITE CIVILI – SENTENZA 13 OTTOBRE 20055 MAGGIO 2006, N. 10311 PRESIDENTE CARBONE – RELATORE LO PIANO PM MACCARONE – CONFORME – RICORRENTE COCCO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Cocco Salvatore convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace di Alghero, Sanna Sebastiano e la Spa Lloyd Italico, assicuratrice per la responsabilità civile dell’auto di quest’ultimo, e ne chiese la condanna, in solido, al risarcimento dei danni subiti a seguito di incidente stradale, la cui responsabilità era da attribuire al Sanna, come dallo stesso riconosciuto con la sottoscrizione del modulo di constatazione del sinistro (c.d. CID). Si costituì in giudizio la compagnia di assicurazione, che chiese il rigetto della domanda, deducendo la inattendibilità di quanto risultante dal CID. Sanna Sebastiano rimase contumace. Il Giudice di pace, ritenuto il concorso di colpa del Sanna, nella misura del 20%, e del Cocco, nella misura dell’80%, condannò il Sanna e la compagnia di assicurazione, in solido, a pagare al Cocco il 20% dei danni da questi subiti, condannandolo a pagare alla compagnia assicuratrice l’80% delle spese. La sentenza fu appellata, in via principale, dal Cocco, che chiese affermarsi l’esclusiva responsabilità del Sanna, con la conseguente condanna dello stesso e della compagnia di assicurazione all’integrale risarcimento dei danni, e, in via incidentale, dalla compagnia di assicurazioni, che chiese l’integrale rigetto della domanda proposta nei suoi confronti. Sanna Sebastiano rimase contumace anche nel giudizio d’appello. Il Tribunale di Sassari, in accoglimento dell’appello incidentale, respinse la domanda proposta dal Cocco nei confronti del Sanna e della compagnia di assicurazione, sulla base delle seguenti considerazioni: - la tesi del Cocco (secondo cui l’incidente si sarebbe verificato perché l’autoveicolo del Sanna, che egli stava sorpassando, in un tratto di strada rettilineo, aveva, a sua volta, iniziato una manovra di sorpasso del veicolo che lo precedeva, intersecando cosi la traiettoria. della propria auto e determinandone l’uscita di strada) non era provata, cosi come non era provato il nesso di causalità tra i danni lamentati dal Cocco ed il sinistro; la ricostruzione del sinistro, contenuta nel modulo CID, non poteva costituire prova nei confronti della compagnia assicuratrice, perché il detto modulo non risultava essere stato ad essa tempestivamente trasmesso e perché non risultava essersi verificato uno «scontro tra veicoli», requisito richiesto dall’articolo 5 del Dl 857/76; - gli elementi risultanti dal modulo CID - al quale poteva essere attribuita soltanto il valore di prova atipica - apparivano in insanabile contrasto con la documentazione fotografica acquisita agli atti, con le osservazioni svolte dal consulente tecnico d’ufficio e con la circostanza che sull’auto del Sanna non erano state riscontrate tracce di collisione; del tutto da condividere erano, quindi, le conclusioni cui era pervenuto il 157 consulente tecnico d’ufficio, secondo cui i danni riscontrati sull’autoveicolo del Cocco non erano compatibili con la dinamica del sinistro descritta dalle parti, cosicché, se l’incidente si era effettivamente verificato, non si era svolto, comunque, con le modalità indicate; pertanto, non era da ritenere sussistente la prova del fatto e del nesso di causalità con i danni dei quali il Cocco aveva chiesto il risarcimento. Per la cassazione della suddetta sentenza ha proposto ricorso Cocco Salvatore. La Spa Lloyd Italico e Sanna Sebastiano non hanno svolto attività difensiva. La causa, dapprima assegnata alla terza sezione civile, è stata rimessa alle Su essendosi ravvisata una questione di massima di rilevante importanza in relazione ai motivi addotti a sostegno del ricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo del ricorso si denuncia: Violazione degli articoli 112, 339, 342 Cpc in relazione all’articolo 360 n. 3 Cpc. Si deduce che la sentenza di primo grado, che aveva pronunciato la condanna in solido del Sanna e della Spa Lloyd Adriatico, era stata impugnata solo da quest’ultima, che aveva chiesto la reiezione della domanda contro di lei proposta dal Cocco; nessuna impugnazione era stata invece proposta da Sanna Sebastiano, con la conseguenza che il giudice d’appello non avrebbe potuto rigettare la domanda, avanzata nei confronti del predetto dal Cocco e già accolta, sia pure parzialmente, dal giudice di primo grado. Con il secondo motivo si denuncia: Violazione e falsa applicazione dell’articolo 116 Cpc e degli articoli 2054, 2697 e 2735 Cc, nonché dell’articolo 5, comma 1 e 2, del Dl 857/76 convertito nella legge 39/1977 in relazione all’articolo 360 nn. 3 e 5 Cpc. La censura svolge le seguenti argomentazioni: Il Tribunale ha immotivatamente disatteso le risultanze del modulo CID, che con riferimento al Sanna aveva valore di confessione stragiudiziale, nel quale erano con precisione indicati l’ora ed il luogo del fatto, i mezzi coinvolti, il teste presente, le modalità del sinistro, la dichiarazione del Sanna di avere costretto con la sua manovra il Cocco a «stringere a sinistra», nonché il punto di contatto tra i due mezzi; - v’era la prova della collisione tra i due veicoli e la dinamica del sinistro era stata confermata dal teste indicato nel modulo CID ed aveva trovato riscontro nel l’interrogatorio libero e in quello formale del Cocco; - la prova del sinistro e delle sue modalità era stata data dal Cocco a mezzo di prove documentali ed orali e tale prova non poteva essere superata dalla consulenza basata su mere deduzioni, tra l’altro, erronee e contraddittorie; - la prova del nesso causale tra i danni ed il sinistro era stata fornita e del resto la sentenza del giudice di pace sul punto non era stata impugnata; il Tribunale ha erroneamente ritenuto che l’articolo 5 del Dl 857/76 trovi applicazione soltanto nel caso di «scontro» tra i veicoli inteso nel senso di contatto materiale tra gli stessi idoneo a cagionare danno ad entrambi, mentre 158 è da considerare «scontro» «qualsiasi contatto tra i mezzi cha causalmente provochi, di per sé ovvero in conseguenza di manovre illegittime e colpose, un sinistro»; - il modulo CID era pienamente probante nei confronti della compagnia assicuratrice, perché gli elementi in esso indicati avevano trovato riscontro negli altri elementi di prova acquisiti al processo; la valenza probatoria del modulo CID non poteva essere inficiata dal rilevato ritardo con cui, secondo il Tribunale, esso era stata trasmesso alla compagnia assicuratrice; ciò perché: nessun termine era previsto dalla legge per l’invio del modulo; nessuna eccezione era stata sollevata in proposito dalla compagnia di assicurazione; il modulo era stato consegnato tempestivamente dal Cocco alla propria compagnia assicuratrice; il Tribunale ha immotivatamente ritenuto che la compagnia assicuratrice avesse fornito la prova contraria, su di essa incombente, ai sensi dell’articolo 5, secondo comma, Dl 857/76. Con riferimento ai detti motivi, la terza sezione civile di questa Corte, ha rilevato che gli stessi pongono una questione di massima di particolare importanza (articoli 374 e 376 Cpc) e, pertanto, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, che ha disposto la trattazione della causa da parte di queste Su. L’ordinanza, richiamata la giurisprudenza di questa Corte, osserva che in essa sono rinvenibili due principi: uno, secondo cui il litisconsorzio previsto dall’articolo 23 della legge 990/69, che impone al danneggiato che esercita l’azione diretta (articolo 18) nei confronti dell’assicuratore di chiamare in giudizio il responsabile del danno, «soddisfa l’esigenza che sulla responsabilità dell’assicurato e dell’assicuratore si statuisca in un unico contesto, in modo uniforme», cosicché l’impugnazione proposta dal solo assicuratore impedisce che sulla responsabilità del danneggiante, chiamato in giudizio, si formi il giudicato. L’altro, secondo cui «il modulo di constatazione amichevole di sinistro stradale redatto ai sensi del Dl 857/76, convertito con modificazioni in legge 39/1977, (quando è sottoscritto dai conducenti coinvolti e completo in ogni sua parte, compresa la data) ha valore probatorio di confessione esclusivamente nei riguardi del suo autore, mentre genera soltanto una presunzione iuris tantum nei confronti dell’assicuratore, come tale superabile con prova contraria», con la possibilità, quindi, che la responsabilità dell’assicurato venga affermata in base alla sua confessione, mentre l’azione diretta nei confronti del l’assicuratore venga respinta ove egli fornisca la prova contraria. Con riferimento al caso in esame l’ordinanza osserva che il Tribunale ha respinto la domanda proposta nei confronti del responsabile del danno che, con la sottoscrizione del modulo, aveva ammesso fatti per sé sfavorevoli; con ciò il Tribunale aveva fatto applicazione del primo principio, secondo cui la decisione deve essere unitaria, sia per l’assicurato, sia per l’assicuratore, ma aveva disatteso il secondo principio, secondo cui la dichiarazione di fatti sfavorevoli al responsabile del danno, contenuta nel modulo da lui sottoscritto, ha valore di confessione stragiudiziale. Il Tribunale osserva ancora che se il Tribunale avesse affermato la responsabilità dell’assicurato, in base alla sua confessione, e rigettato la domanda nei confronti dell’assicuratore, ritenendo che questi avesse offerto la prova contraria rispetto a quanto dichiarato dall’assicurato nel modulo CID, avrebbe rispettato il secondo principio, ma avrebbe disatteso il primo. 159 L’ordinanza, a questo punto, prospetta, sia pure in via dubitativa, le seguenti possibili soluzioni: - un’applicazione dell’articolo 2733 Cc in linea coi primo principio, nel senso che la confessione di uno soltanto dei litisconsorti necessari sia bensì liberamente apprezzabile dal giudice, ma in modo conforme per tutti i litisconsorti, come affermato da Cassazione, 198/87; ma a ciò, secondo l’ordinanza, sembra ostare la lettera e la ratio dell’articolo 5, comma 3, Dl 857/76, che ha anche funzione dissuasiva di tentativi di frode in danno dell’assicuratore; - ritenersi che l’impossibilità di un apprezzamento (e di conseguenze) difforme per il confitente e per il litisconsorte non confitente sia da riservarsi ai soli casi di litisconsorzio sostanziale in cui sia dedotto un unico rapporto, con la conseguente possibilità di valutare diversamente la confessione dell’assicurato nei casi di cui all’articolo 23, legge 990/69: ammettendosi, cioè, che la sua confessione (tramite il modulo di constatazione amichevole) non abbia effetto solo per l’assicuratore che abbia offerto la prova contraria ai sensi dell’articolo 5, comma 3, Dl 857/76; ciò, però, secondo l’ordinanza, comporterebbe lo scostamento dal primo principio, dovendo allora riconoscersi la possibilità che lo stesso fatto sia ritenuto vero per l’assicurato, e non vero per l’assicuratore, quantomeno nei casi in cui sia il solo assicuratore del responsabile (e non anche il solo assicurato) a dover essere mandato indenne dalla pretesa risarcitoria del danneggiato. Sembra a queste Su che, al fine di dare una risposta ai quesiti posti con l’ordinanza di cui sopra - che trovano fondamento nelle questioni poste con i motivi del ricorso - occorra partire dall’analisi della struttura dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, disciplinata dall’articolo 18 della legge 990/69, e dall’accertamento delle ragioni del litisconsorzio che il successivo articolo 23 impone di realizzare nei confronti del responsabile del danno. In particolare occorre verificare se il procedimento litisconsortile disciplinato dai suddetti articoli tolleri che si possa giungere ad una decisione che non sia unica per tutte le parti che vi devono necessariamente partecipare. Tale accertamento appare necessario perché, se ben si osserva, più o meno consapevolmente, la tesi prevalente nella giurisprudenza, che, pure riconoscendo nella fattispecie considerata la ricorrenza di un litisconsorzio necessario previsto dalla legge, afferma che la confessione del danneggiante assicurato fa piena prova nel rapporto tra questi ed il danneggiato, mentre può essere liberamente apprezzata dal giudice nel diverso rapporto tra assicurato ed assicuratore, si fonda sulla tesi che non in tutti i casi in cui è necessaria la partecipazione al giudizio di una pluralità di parti sussiste anche la necessità che la sentenza sia unica per tutte, donde il diverso senso da attribuire all’espressione lifisconsorzio necessario, che nell’articolo 102 Cpc, esprime solo l’esigenza che al giudizio partecipino più soggetti, mentre nell’articolo 2733, comma 3 del codice civile, si riferisce non a tutti i casi di litisconsorzio ma solo a quelli in cui la decisione deve essere uguale per tutte le parti in causa. Ai sensi dell’articolo 19 17 Cc, che disciplina l’assicurazione della responsabilità civile, di cui l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità derivante dalla circolazione dei veicoli costituisce una specie, l’assicuratore è tenuto a tenere 160 indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto. E giurisprudenza costante di questa Corte che l’assicurazione della responsabilità civile non può essere inquadrata tra i contratti a favore dei terzi giacché per effetto della stipulazione non sorge alcun rapporto giuridico diretto ed immediato tra il danneggiato e l’assicuratore, ma l’obbligazione dell’assicuratore relativa al pagamento dell’indennizzo all’assicurato è distinta ed autonoma rispetto all’obbligazione di risarcimento cui l’assicurato è tenuto nei confronti del danneggiato. Talché quest’ultimo non ha azione diretta contro l’assicuratore (v. in tal senso Cassazione 8382/93 e successivamente, Cassazione 2678/96; 4364/97; 4364/00; 10418/02; nonché Cassazione 8650/96, la quale ha precisato che il principio opera anche quando l’indennità sia stata pagata direttamente al terzo danneggiato, ai sensi dell’articolo 1917, comma 2, Cc). In deroga a questa disciplina, l’art 18 della legge n. 990 del 1969, dispone che il danneggiato per sinistro causato dalla circolazione di un veicolo o di un natante, per i quali a norma della medesima legge vi è obbligo di assicurazione, ha azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’assicuratore, entro i limiti delle somme per le quali è stata stipulata l’assicurazione. Con il secondo comma, la suddetta norma inoltre dispone che fino alle somme minime per cui è obbligatoria l’assicurazione, indicate nella tabella A allegata alla legge, l’assicuratore non può opporre al danneggiato, che agisce direttamente nei suoi confronti, eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno, ed altresì stabilisce che l’assicuratore ha tuttavia diritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe avuto contrattualmente diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione. Fin da Cassazione Su, 5218 e 5219/83 la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la legge 990/69, prevedendo l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore, ha creato - accanto al rapporto, sorto dal fatto illecito, tra il danneggiato e l’assicurato ed al rapporto contrattuale fra il responsabile e l’assicuratore - un terzo rapporto che, sul presupposto del primo ed in attuazione del secondo, obbliga ex lege l’assicuratore verso il danneggiato; in sostanza l’assicuratore non resta più estraneo al rapporto tra il suo assicurato ed il terzo danneggiato, ma viene inserito quale parte e protagonista attivo nel rapporto risarcitorio dipendente dall’illecito di cui l’assicurato è responsabile, con la conseguenza che la richiesta del danneggiato lo rende contraddittore diretto e p rimario per l’accertamento e la quantificazione dell’obbligazione risarcitoria dell’assicurato e lo costituisce debitore verso lo stesso terzo della relativa prestazione. Secondo lo schema delineato dalla legge 990/69, il danneggiato, allorquando, trascorso inutilmente il termine di cui all’articolo 22, agisce nei confronti dell’assicuratore per essere risarcito del danno, non chiede che l’assicuratore sia condannato ad adempiere in suo favore l’obbligo che il predetto ha nei confronti dell’assicurato in base al contratto, ma fa valere un diritto suo proprio nei confronti del predetto assicuratore. Ciò è sufficientemente provato dal fatto che, secondo la legge, l’assicuratore non può opporre al danneggiato, che 161 agisce direttamente nei suoi confronti, eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedono l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno. L’ accoglimento della domanda del danneggiato presuppone che siano accertate: - l’esistenza di un contratto di assicurazione tra l’assicuratore convenuto e colui che è indicato come responsabile del danno; l’esistenza di una danno e la responsabilità del soggetto assicurato. Tali accertamenti, anche so non esplicitamente formulati, costituiscono oggetto della domanda che il danneggiato propone nei confronti dell’assicuratore, la quale ha quindi il seguente contenuto: a) si accerti che Tizio è responsabile dei danni che Caio ha subito a seguito di incidente stradale; b) si accerti che Tizio è assicurato per la responsabilità civile con la società X; c) si condanni la società X, obbligata ai sensi dell’articolo 18 della legge 990/69, al risarcimento dei danni subiti da Caio. L’accertamento negativo in ordine ad una sola delle indicate circostanze importa che la domanda proposta nei confronti dell’assicuratore ai sensi dell’articolo 18 della legge 990/69 debba essere respinta. Infatti, in assenza di un contratto di assicurazione non sorge alcun obbligo di indennizzo a carico del l’assicuratore convenuto e, del resto, una volta accertata l’esistenza del rapporto assicurativo l’obbligo di indennizzo diretto da parte del l’assicuratore non sussiste se non sussiste anche la responsabilità dell’assicurato in ordine al fatto dannoso, o perché questo non si è verificato, o perché pur essendosi verificato non è connotato dalle caratteristiche attribuitegli, ovvero ancora perché, pur essendo connotato da quelle caratteristiche. non comporta alcun obbligo risarcitorio. L’articolo 18 propone una situazione di questo tipo. Vi è da un lato un soggetto che assume di essere rimasto danneggiato da un sinistro stradale, il quale agisce in giudizio e dall’altro l’assicuratore che la legge costituisce come obbligato al risarcimento del danno cagionato dal proprio assicurato. Si hanno pertanto due soggetti danneggiato ed assicuratore legittimati rispettivamente ad agire e resistere nel giudizio in forza di un rapporto sostanziale che prevede un’obbligazione del secondo direttamente nei confronti del primo. Senonché, come si è visto, l’accertamento dell’esistenza del contratto di assicurazione e quello relativo alla responsabilità dell’assicurato, i quali costituiscono oggetto della domanda proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, riguardano rapporti rispetto ai quali la titolarità è del responsabile del danno. t, infatti l’assicurato che ha, con la stipulazione del contratto, costituito il rapporto assicurativo che, sebbene non perda la sua caratteristica di contratto finalizzato a tenerlo indenne dal rischio del risarcimento dovuto a causa di una sua responsabilità civile, rende. tuttavia, l’assicuratore direttamente responsabile nei confronti del danneggiato estraneo al rapporto contrattuale; è d’altra parte il danneggiante l’autore dell’illecito che fa sorgere il diritto al risarcimento da parte del danneggiato nei confronti dell’assicuratore. In una situazione di questo genere l’articolo 23 della legge 990/69 ha previsto che nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti del l’assicuratore deve 162 essere chiamato il responsabile del danno. Si tratta di un litisconsorzio che è necessario non solo perché è previsto dalla legge, ma anche perché l’accertamento dei due rapporti in cui è coinvolto il responsabile del danno non costituiscono un mero presupposto per l’accoglimento della domanda proposta dall’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma costituiscono invece uno degli oggetti della domanda. Tale accertamento non può che essere unico e uniforme per tutti e tre i soggetti coinvolti nel processo, non potendosi nel medesimo giudizio affermare, con riferimento alla domanda proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, che il rapporto assicurativo e la responsabilità dell’assicurato esistano nel rapporto tra due delle parti e non per l’altra, e ciò non soltanto in base al principio di non contraddizione, ma soprattutto in base alla struttura dell’azione cosi come disciplinata dagli articoli 18 e 23 della legge 990/69, se si ha presente che l’obbligazione del l’assicuratore di pagare direttamente l’indennità al danneggiato, non nasce se non esiste il rapporto assicurativo e se non è accertata la responsabilità dell’assicurato. Né è sostenibile che l’univoco accertamento che il giudice compie in ordine all’azione promossa dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore vale solo con riferimento al rapporto diretto che la legge istituisce tra i due. Si consideri come nessuno abbia mai dubitato che l’accertamento della esistenza del contratto di assicurazione e della responsabilità dell’assicurato, compiuto nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assi curatore, valga anche nel rapporto tra assicuratore e responsabile del danno. Nessuno ha mai sostenuto, infatti, che l’assicuratore condannato a risarcire il danno, il quale, in separato giudizio svolga l’azione di rivalsa nei confronti dell’assicurato, assumendo di aver indennizzato il danneggiato pur avendo avuto contrattualmente il diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione, possa vedersi opporre dall’assicurato che egli non era responsabile del danno e che il contratto di assicurazione non esisteva, quando questi fatti siano stati accertati nel giudizio promosso dal danneggiato ai sensi dell’articolo 18, al quale abbia partecipato anche l’assicurato. Allo stesso modo l’assicurato che faccia valere la responsabilità del l’assicuratore perché questi con il suo comportamento omissivo ha fatto lievitare il danno oltre i limiti del massimale e, quindi, chiede di essere tenuto indenne dall’assi curatore, in base al rapporto di assicurazione tra i due esistente, di quanto abbia dovuto pagare al danneggiato, non può vedersi opporre dell’assicuratore che il rapporto accertato nel giudizio intercorso tra il danneggiato e l’assicuratore e la responsabilità accertata nello stesso giudizio non esistono. Se ciò è vero nei rapporti tra assicurato ed assicuratore, deve essere pure vero nei rapporti tra danneggiato e assicurato, con riferimento all’accertata responsabilità del danno. Questa responsabilità una volta accertata o negata nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, in contraddittorio con l’assicurato, è accertata o negata anche nei rapporti tra danneggiato e assicurato. Ma, come si è detto prima, nel giudizio tra danneggiato ed assicuratore l’esistenza del rapporto di assicurazione e la responsabilità dell’assicurato non possono essere contemporaneamente affermate e negate. O esistono e la 163 domanda va accolta o non esistono ed allora la domanda va respinta, aspetto questo ben colto da Cassazione 10693/98 laddove afferma, richiamando Cassazione 5793/82, che la controversia si svolge in maniera unitaria tra i tre soggetti del rapporto processuale ed abbraccia inscindibilmente sia il rapporto di danno, originato dal fatto illecito dell’assicurato, sia il rapporto assicurativo. La situazione non muta se il danneggiato, nel giudizio promosso contro l’assicuratore ai sensi dell’articolo 18 della legge 990/69, oltre a chiedere la condanna dell’assicuratore chiede anche la condanna del responsabile del danno; in tale caso la domanda nei confronti di quest’ultimo si articola nei seguenti punti: a) si accerti che Tizio è responsabile dei danni che Caio ha subito a seguito di incidente stradale; b) si condanni Tizio al risarcimento del danno subito da Caio. Ma la domanda sub a) proposta dal danneggiato nei confronti del responsabile del danno è la stessa domanda sub a) proposta dal danneggiato nei confronti dell’assi curatore, attiene ad un medesimo fatto, impone l’accertamento delle medesime circostanze e delle medesime conseguenze giuridiche; ciò che la differenzia dall’altra e che alla domanda di accertamento della responsabilità si aggiunge quella di condanna del responsabile al risarcimento del danno. Ora, se come si è sopra chiarito, l’accertamento della responsabilità dell’assicurato, nell’azione diretta promossa dal danneggiato nei confronti del l’assicuratore deve avvenire in modo unitario nei rapporti di tutte e tre le parti che partecipano al giudizio, e tale accertamento vale anche nei rapporti tra danneggiato e responsabile, ne consegue che nell’azione promossa dal danneggiato nei confronti del responsabile per ottenere da costui il risarcimento del danno, tale accertamento non può differire da quello svolto in sede di azione diretta. La suddetta ricostruzione dell’azione diretta e della sussistenza in essa di un litisconsorzio necessario che impone oltre alla partecipazione al giudizio del responsabile del danno anche una decisione unitaria nei confronti dei soggetti partecipanti allo stesso, giustifica come nell’ipotesi di azione proposta dal danneggiante nei confronti del solo responsabile del danno non sia prevista la necessaria partecipazione al giudizio dell’assicuratore quale litisconsorte. Invero in quest’ultima ipotesi il rapporto sostanziale dedotto in giudizio intercorre tra le parti che formalmente vi partecipano e la situazione accertata in quel giudizio solo indirettamente influisce sul rapporto assicurativo, il quale potrebbe essere solo eventualmente introdotto mediante una chiamata in garanzia, ovvero essere introdotto con altro giudizio, ovvero ancora non essere mai evocato. Se quanto sin qui detto è esatto ne discende: a) che va ribadita la giurisprudenza di questa Corte, risalente alla Su, Cassazione, Su, 5220/83, secondo cui in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore o dei natanti, qualora il danneggiato, esercitando l’azione diretta nei confronti dell’assicuratore, evochi in giudizio quest’ultimo ed il responsabile assicurato (articoli 18 e 23 della legge 990/69), e, chiedendo un risarcimento eccedente i limiti del massimale di assicurazione, proponga, oltre alla domanda nei confronti dello assicuratore, anche domanda contro l’assicurato, le domande 164 medesime si trovano in rapporto di connessione e reciproca dipendenza, trovando presupposti comuni nell’accertamento della responsabilità risarcitoria dell’assicurato e dell’entità del danno risarcibile, con la conseguenza che l’impugnazione della sentenza per un capo attinente a detti presupposti comuni, da qualunque parte ed in confronto di qualunque parte proposta, impedisce il passaggio in giudicato dell’intera pronuncia con riguardo a tutte le parti (v. di recente: Cassazione 15039/04; 10125/03; 5877/99, 255/99; 9919/98); b) che, in materia di dichiarazioni rese dal responsabile del danno, va respinta qualsiasi tesi che porti a concludere che, nel giudizio instaurato ai sensi dell’articolo 18 della legge 990/69, e nel caso in cui sia stata proposta soltanto l’azione diretta e nel caso in cui sia stata proposta anche la domanda di condanna nei confronti del responsabile del danno, in base a dette dichiarazioni si possa pervenire ad un differenziato giudizio di responsabilità, in ordine ai rapporti tra responsabile e danneggiato, da un lato, e danneggiato ed assicuratore dall’altro. È bene che questo. punto sia affrontato e chiarito, a prescindere dal fatto se la dichiarazione del responsabile del danno sia contenuta o meno nel cosiddetto CID, con la precisazione che quanto si parla di dichiarazioni confessorie si fa riferimento a quelle dichiarazioni in cui siano ammessi fatti che, valutati alla stregua delle regole in materi5possano portare alle affermazione della responsabilità del soggetto che le ha rese, e non quindi alle dichiarazioni che consistano in mera assunzione di responsabilità o di colpa.. Questo secondo punto deve, inoltre, essere affrontato in relazione all’ipotesi in cui la dichiarazione, ritenuta avente valore confessorio, sia resa dal responsabile del danno che sia anche litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal danneggiato contro l’assicuratore, e cioè dal proprietario del veicolo assicurato, secondo quella che è la quasi unanime giurisprudenza di questa Corte. Questa ipotesi si realizza prevalentemente nel caso, ricorrente nella specie, in cui il conducente del mezzo si identifica con il proprietario del veicolo. Sono estranee al presente giudizio invece le questioni che attengono alla confessione resa dal conducente del veicolo, il quale non sia anche proprietario del mezzo. Orbene una volta chiarito che nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore il responsabile del danno, che deve essere chiamato nel giudizio sin dall’inizio, assume la veste di litisconsorte necessario, ed una volta affermato che la decisione deve essere uniforme per tutti e tre i soggetti ed è, inoltre, idonea a regolare i rapporti tra gli stessi (non quindi solo il rapporto tra danneggiato ed assicuratore, ma anche quello tra quest’ultimo ed il responsabile del danno, in ordine alla sussistenza del rapporto assicurativo, e tra il predetto responsabile ed il danneggiato in ordine alla responsabilità del sinistro), appare consequenziale che dalla valutazione delle dichiarazioni di colui che secondo il danneggiato è il responsabile del danno, non possono derivare conclusioni differenziate in ordine ai rapporti sopra individuati. La norma attraverso la quale si realizza questo effetto è quella di cui al comma 3 dell’articolo 2733 Cc, secondo la quale in caso di litisconsorzio necessario la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorzi è liberamente apprezzata 165 dal giudice; questa norma costituisce una deroga a ciò che dispone il secondo comma, secondo cui la confessione fa piena prova contro chi l’ha fatta; infatti viene esclusa la funzione di piena prova della confessione, la quale assume soltanto la natura di elemento che il giudice apprezza liberamente, e ciò non solo nei confronti di chi ha reso la dichiarazione ma anche nei confronti degli altri litisconsorzi. La norma è applicabile alla fattispecie in esame, poiché si verte in tema di accertamento di fatti, da effettuarsi in modo unitario, i quali, come si è in precedenza affermato, hanno efficacia e rilevanza comuni per tutte e tre le parti che la legge indica come litisconsorzi necessari del giudizio promosso dal danneggiato ai sensi dell’articolo 18 della legge 1969/90. In applicazione dei suddetti principi perde rilievo la questione sollevata nel secondo motivo del ricorso relativa al valore confesso rio o meno da attribuire alle dichiarazioni rese della parti nel modello CID. Non hanno rilievo neppure le questioni sollevate, sempre con il secondo motivo, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata, secondo cui l’articolo 5 della del Dl 857/76 non troverebbe applicazione nella specie essendo mancato uno «scontro» tra i due veicoli e perché il modello CID sarebbe stato inviato con ritardo all’assicuratore. Infatti, il Tribunale, nonostante abbia affermato che, per le AMA suddette ragioni, il modulo CID non potesse avere valore di «presunzione legale» nei confronti dell’assicuratore, ha finito poi per prendere in esame la ricostruzione dei fatti contenuta nel predetto modulo e con ampia ed argomentata motivazione, basata su dati obiettivi e sulle osservazioni del consulente tecnico, ha, in accordo con questi, concluso che i danni riscontrati sull’auto del Cocco non erano compatibili con la dinamica del sinistro cosi come descritta dalle parti e che, ammesso che il sinistro si fosse effettivamente verificato, lo stesso era comunque avvenuto con modalità diverse da quelle descritte. Ora se si considera che, come da costante giurisprudenza di questa Corte di Cassazione, il modulo CID quando è sottoscritto dai conducenti coinvolti e completo in ogni sua parte, compresa la data, genera una presunzione iuris tantum valevole nei confronti dell’assicuratore, e come tale superabile con prova contraria e che tale prova può emergere non soltanto da un’altra presunzione, che faccia ritenere che il fatto non si è verificato o si è verificato con modalità diverse da quelle dichiarate, ma anche da altre risultanze di causa, ad esempio da una consulenza tecnica d’ufficio, ne consegue che la sentenza impugnata si sottrae alle censure in diritto svolte dal ricorrente, perché, nonostante le richiamate -contrarie affermazioni, essa ha finito per applicare di fatto correttamente la norma che si assume violata. Le censure che. invece, si richiamano alla violazione dell’articolo 360 n. 5 c.p.c. sono inammissibili, atteso che esse si risolvono nella pretesa di una diversa valutazione degli elementi di prova esaminati dal Tribunale, il cui convincimento è sostenuto da argomentazioni immuni da vizi logici e, come rilevato nel paragrafo che precede, anche da vizi giuridici. Il ricorso è rigettato. Nulla per le spese in assenza di svolgi mento di attività difensiva delle parti intimate. 166 PQM La Corte di cassazione, a Su, rigetta il ricorso. 167 CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 21 APRILE-21 GIUGNO 2005 N. 13294 (PRESIDENTE CARBONE; RELATORE ELEFANTE; PM - DIFFORME PALMIERI; RICORRENTE LITOSTAMPA SRL; CONTRORICORRENTE TESSITURA DELLA TORRE SAS) Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 22/12/1987, la Tessitura Della Torre s.a.s. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo del 26/11/1987 per il pagamento di L. 5.944.035, e - messo dal Presidente del Tribunale di Busto Arsizio ad istanza della Litostampa s.r.l. che di tale somma s'era dichiarata creditrice a titolo di saldo per una fornitura di scatole di cartone stampate plastificate. Deduceva la società opponente l'esistenza di vizi della merce (scollatura delle scatole) che la rendevano inidonea all'uso: vizi che non erano stati eliminati dall'intervento effettuato dalla venditrice. Chiedeva, pertanto, previa revoca del decreto opposto, la risoluzione del contratto e, in subordine, la riduzione del prezzo. Costituitasi, la soc. Litostampa contestava la fondatezza dell'opposizione, deducendo, fra l'altro, la decadenza dalla garanzia per tardiva denuncia dei vizi. Il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo e, in accoglimento della domanda di riduzione del prezzo, condannava la soc. Litostampa alla restituzione della somma di L. 6.804.301. Proponeva appello la soc. Litostampa, deducendo fra l'altro che l'obbligazione di garanzia prevista dall'art. 1490 C.C. si era estinta per novazione in considerazione della nuova obbligazione assunta dalla venditrice che, nel riconoscere l'esistenza dei vizi, si era impegnata ad eliminarli: pertanto non erano esperibili i rimedi di cui all'art. 1492 C.C., in particolare l'acto quanti minoris, ma se mai soltanto quella di risarcimento del danno per inadempimento della nuova obbligazione. Con sentenza n. 344/00 dell'815/02/2000, la Corte d'appello di Milano rigettava l'impugnazione, osservando, per quel che qui rileva, che il riconoscimento dei vizi con l'impegno di eseguire le riparazioni necessarie ad eliminarli non dà luogo di per sé alla novazione dell'intero contratto di vendita, se non sia provata in concreto la volontà delle parti di sostituire al rapporto originario un nuovo rapporto con diverso oggetto o titolo, come richiesto dagli artt. 1230 e 1231 C.C. 168 Pertanto, non sussistendo la novazione della originaria obbligazione di garanzia del venditore per i vizi, rimane fermo l'iniziale contratto di compravendita, conseguentemente, ove, gli interventi riparatori restino senza esito, ovvero abbiano un effetto inidoneo ad eliminare il sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni delle parti, il compratore conserva il diritto di domandare a sua scelta la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo. Contro tale sentenza la soc. Litostampa ha proposto ricorso per cassazione, al quale la soc. Tessitura Della Torre ha resistito con controricorso. La seconda sezione civile, con ordinanza del 16/12/2003, ha rilevato la presenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti in ordine alla riconducibili dell'impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi della cosa venduta nell'ambito della novazione oggettiva dell'obbligazione di garanzia. Per la composizione del contrasto, il Primo Presidente, ai sensi dell'art. 374, 2° comma, C.P.C., ha rimesso la questione alle sezioni unite. Motivi della decisione 1. Il ricorso contiene tre motivi. a) Il primo motivo riguarda la violazione e falsa applicazione degli artt. 1492, 1495 e 1230 C.C. Sostiene la ricorrente che a seguito della novazione dell'originaria obbligazione di garanzia per effetto dell'impegno assunto dal venditore di riparare la cosa difettosa, non era ammissibile l'azione di riduzione del prezzo, riconducibile, ai sensi dell'art. 1490 C.C., esclusivamente alla garanzia per vizi: nel caso di inadempimento della nuova obbligazione assunta dal venditore in sostituzione di quella di garanzia e non rientrante per il suo contenuto fra quelle derivanti dal contratto di compravendita - il rimedio esperibile era soltanto quello del risarcimento del danno. b) Il secondo motivo concerne la violazione e falsa applicazione degli artt. 1492 e 1495 C.C. sotto un diverso profilo. La ricorrente censura la sentenza impugnata per aver - nel ritenere ammissibile il rimedio della riduzione del prezzo nel caso di inadempimento della nuova obbligazione assunta dal venditore - erroneamente applicato il principio di diritto formulato dalla Suprema Corte (con la decisione richiamata: Cass. 27/11/1985, n. 5889), secondo cui il compratore può chiedere, ai sensi dell'art. 1455 C.C., la risoluzione del contratto: tale norma esclude l'acto quanti minoris. c) Il terzo motivo attiene alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 C.C. e 324 C.P.C. La ricorrente deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto l'esistenza del giudicato in ordine all'ammissibilità dell'azione quanti minoris, senza considerare che aveva formato oggetto dell'appello da essa proposto. 2. In relazione ai primi due motivi, da trattare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, l'ordinanza di remissione ha rilevato l'esistenza di un contrasto all'interno della giurisprudenza di questa Corte nei seguenti termini. 2.1. Con pronunce conformi la Suprema Corte ha affermato e ribadito che, qualora il venditore riconosca la sussistenza di difetti della prestazione eseguita ed assuma, in luogo dell'obbligazione di garanzia rientrante nell'originario contratto, l'obbligo di eliminare i vizi stessi, si configura a carico di tale parte un'obbligazione nuova ed autonoma (rispetto a quella di garanzia), non 169 soggetta ai termini di prescrizione e decadenza previsti dalla disciplina del contratto di vendita (art. 1495 C.C.), restando soggetta all'ordinaria prescrizione decennale (v., fra tante, Cass. 19/6/2000, n. 8294; 12/5/2000, n. 6089; 11/5/2000, n. 6036; 24/4/1998, n. 4219; 29/8/1997, n. 8234; 20/2/1997, n. 1561; 12/6/1991, n. 6641). 2.2. Tali pronunce appaiono in contrasto con altre dalle quali, con riferimento all'istituto della novazione oggettiva in generale (art. 1230 C.C.), si ricava il principio costantemente ribadito dalla Corte di Cassazione, secondo il quale l'effetto estintivo dell'obbligazione, che è proprio della novazione, presuppone sempre - anche se si acceda alla concezione più ampia della novazione medesima, che la ravvisa in ogni ipotesi di mutamenti di carattere quantitativo dell'oggetto o di modifiche di modalità o di elementi di una medesima prestazione - che sia accertata comunque la sussistenza dell'animus novandi, che deve essere provato in concreto (Cass. 12/9/2000, n. 12039; 14/7/2000, n. 9354); con l'ulteriore corollario che la modifica dell'oggetto del contratto integra una novazione quando dà effettivamente luogo ad una nuova obbligazione incompatibile con il persistere dell'obbligazione originaria, e non anche quando le parti regolino semplicemente le modalità relative all'esecuzione dell'obbligazione preesistente, senza alterarne l'oggetto ed il titolo (Cass. 22/5/1998, n. 5117; 7/3/1983, n. 1676). 2.3. Secondo l'ordinanza di remissione, ove si ritengano applicabili i principi enunciati nelle sentenze da ultimo citate, sarebbe quanto meno problematico aderire alla soluzione offerta dalle pronunce più sopra menzionate ed ai criteri dalle stesse indicati, con riguardo alla ritenuta novazione dell'obbligazione discendente dall'art. 1490 C.C. a carico del venditore e alle conclusioni che ne sono state tratte, in punto di inammissibilità dell'azione di riduzione ex art. 1492, comma 1, C.C., nel caso di riconoscimento dei vizi della cosa venduta e di assunzione dell'obbligo di eliminarli; sembrando tutt'altro che ragionevole ritenere «novata» l'originaria obbligazione del venditore, che pertanto non sarebbe più quella di cui all'art. 1490 C.C., con conseguente impossibilità per l'acquirente di esperire le azioni di garanzia offertegli dalla legge, pur in totale carenza dell'animus novandi e della causa novandi, che ne costituiscono elementi imprescindibili. 3. Il contrasto giurisprudenziale rilevato con l'ordinanza di remissione, in sostanza, se comporti novazione dell'originaria obbligazione di garanzia l'impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa consegnata, con conseguente preclusione dell'esperibilità delle azioni edilizie, in particolare di quella di riduzione del prezzo (actio quanti minor). 3.1. Prima di procedere all'esame del contrasto nei termini in cui e stato enunciato, è opportuno effettuare una, sia pur sintetica, ricognizione dell'orientamento della Corte e della dottrina, partendo dalle norme codicistiche, in tema di obbligazione di garanzia per vizi della cosa venduta e in relazione all'istituto della novazione. 4. Secondo l'art. 1476 C.C., «le obbligazioni principali del venditore sono: 1) quella di consegnare la cosa al compratore; 2) quella di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l'acquisto non è l'effetto immediato del contratto; 3) quella di garantire il compratore dall'evizione e dai vizi della cosa». 170 L'art. 1477, 1° comma, C.C. stabilisce che «la cosa deve essere consegnata nello stato in cui si trovava al momento della vendita». A sua volta l'art. 1490, 1° comma, C.C. definisce il contenuto della garanzia per vizi, sancendo che «il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore». Ai sensi del 1° comma dell'art. 1492 C.C. (effetti della garanzia) «nei casi indicati dall'art. 1490 il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto (art. 1453 ss.) ovvero la riduzione del prezzo salvo che, per determinati vizi, gli usi escludano la risoluzione». 5. Secondo giurisprudenza, l'obbligazione di garanzia discende dal fatto oggettivo del trasferimento di un bene affetto da vizi che lo rendano inidoneo all'uso cui i destinato o ne diminuiscano in misura apprezzabile il valore, mentre possibili profili di colpa del venditore rilevano, ex art. 1494 C.C., ai soli eventuali (e diversi) fini risarcitori (Cass. 8/3/2001, n. 3425; 12/5/2000, n. 6089; 22/8/1998, n. 8338). In alcune sentenze è detto che l'azione di inadempimento del contratto di compravendita è regolata non già dalla disciplina generale dettata dagli art. 1453 e ss. C.C., ma dalle norme speciali di cui agli art. 1492 e ss. C.C., che prevedono specifiche limitazioni rispetto alla disciplina generale, ed in particolare l'onere di denuncia dei vizi nel termine di otto giorni dalla scoperta, che condiziona sia l'esercizio dell'azione di risoluzione e dell'azione di riduzione del prezzo previste dall'art. 1492 C.C., sia quella di risarcimento dei danni prevista dall'art. 1494 c.c. (Cass. 5/5/2000, n. 6234; Cass. 4/9/1991, n. 9352). 6. In dottrina, il fondamento dell'istituto è controverso, anche se gli autori sono concordi nel ritenere che, nonostante l'espressione letterale, l'art. 1476 n. 3) C.C., non configura, acconto a quelle di cui ai numeri 1) e 2), una autonoma obbligazione avente ad oggetto la prestazione di garanzia: le obbligazioni del venditore sono quelle di trasferire la proprietà della cosa e di consegnarla nello stato di fatto in cui si trovava al momento della conclusione del contratto. Qualora la cosa risulti difettosa, la garanzia di cui agli artt. 1490 e 1492 C.C., nel prevedere la soggezione del venditore ai rimedi della risoluzione del contratto o della riduzione del prezzo, dà luogo a un'ipotesi di responsabilità per inadempimento indipendentemente da colpa, in considerazione dello squilibrio fra le attribuzioni patrimoniali derivanti dall'obiettiva esistenza dei vizi al momento della conclusione del contratto. 6.1. Secondo alcuni autori, la specialità e la esclusività della garanzia per vizi opera nel senso che il compratore, nel caso in cui il venditore non sia in colpa, non possa esperire l'azione di adempimento per ottenere dal venditore la riparazione o la sostituzione della cosa difettosa: unici rimedi esperibili sono la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo. La consegna di cosa affetta da vizi o priva delle qualità promesse è stata da altri ricondotta all'ipotesi della responsabilità contrattuale per inadempimento e da taluni all'inesatta esecuzione del rapporto. 6.2. È stato pure rilevato che la riparazione della cosa, esulando dal contenuto della prestazione contrattuale, potrebbe assumere rilievo soltanto sotto il profilo del risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 C.C.). D'altra parte, il compratore non potrebbe chiedere la sostituzione del bene difettoso, 171 perché in tal caso verrebbe chiesto al venditore un secondo adempimento. 6.3. La maggior parte degli autori, in considerazione della natura delle obbligazioni poste a carico dell'alienante (aventi ad oggetto un dare) e del contenuto della garanzia per vizi, ritiene che il venditore non può essere tenuto a un'obbligazione di facere, che possa consistere nella riparazione o sostituzione del bene: il che troverebbe conferma anche nel rilievo che tali rimedi sono normativamente previsti in ipotesi circoscritte, per evitare che il danneggiante sia costretto a sopportare un sacrificio economico sproporzionato rispetto al valore del bene (ad esempio, la sostituzione della cosa è espressamente prevista dall'art. 1512, 2° comma, C.C., per il caso in cui il venditore abbia prestato la garanzia di buon funzionamento; in tema di appalto, l'art. 1668 C.C. prevede espressamente a favore del committente la possibilità di chiedere l'eliminazione della difformità e dei vizi a cura e spese dell'appaltatore). 7. Stabilisce l'art. 1230 C.C. che «L'obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono all'obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso. La volontà di estinguere l'obbligazione precedente deve risultare in modo non equivoco». In tema di modalità che non importano novazione, il successivo art. 1231 C.C. dice che il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l'apposizione o l'eliminazione di un termine e ogni altra modificazione accessoria dell'obbligazione non producono novazione. 7.1. Elementi essenziali per la novazione oggettiva, che costituisce un modo di estinzione dell'obbligazione diverso dall'adempimento, sono: l'obbligazione originaria da novare (obligatio novanda), la volontà delle parti di estinguerla e di sostituirla con una nuova (animus novandi), la diversità della nuova obbligazione per l'oggetto o il titolo (aliquid noti). 7.2. Secondo la giurisprudenza, il mutamento dell'oggetto o del titolo deve riguardare la causa dell'obbligazione, per cui le modifiche accessorie non hanno alcuna rilevanza (Cass. 2/4/2004, n. 6520; 12/9/2000, n. 12039). L'animus novandi, inteso come manifestazione non equivoca dell'intento novativo, deve essere comune ai contraenti (Cass. 9/4/2003, n. 5576; 19/11/1999, n. 12838) e non può essere presunto ma deve essere provato in concreto (Cass. 27/7/2000, n. 9867; 7/3/1983, n. 1676). La necessità di una volontà diretta in modo non equivoco alla novazione oggettiva dell'obbligazione, stante il principio generale di conservazione degli effetti del negozio, sta a significare che l'intento estintivo-sostitutivo deve essere certo, senza peraltro che siano richieste espresse dichiarazioni di volontà, essendo sufficiente anche un comportamento concludente o una manifestazione tacita, ravvisabile nelle ipotesi di incompatibilità oggettiva (Cass. 1998, n. 5399; 1987, n. 9620; 1983, n. 1676). È da escludere che l'intento novativo possa farsi risalire a una volontà presunta. 8. Il panorama giurisprudenziale, in tema di riconoscimento dei vizi e assunzione dell'obbligo di eliminarli da parte del venditore, è il seguente. 8.1. Alcune sentenze espressamente affermano l'esistenza della novazione oggettiva dell'originaria obbligazione di garanzia in presenza dell'impegno assunto dal venditore di riparare o sostituire la cosa difettosa (Cass. 12/5/2000, n. 6089; 19/6/2000, n. 8294; 13/1/1995, n. 381; 5/9/1994, n. 172 7651). In particolare si dice che qualora il venditore, tenuto per legge alla garanzia per vizi, riconosca la sussistenza di difetti della prestazione eseguita ed assuma, in luogo dell'obbligazione di garanzia, rientrante nel contenuto dell'originario contratto, l'obbligo di eliminare i vizi stessi, si configura a carico di tale parte un'obbligazione nuova ed autonoma (rispetto a quella di garanzia), non soggetta ai termini di decadenza e di prescrizione previsti dal contratto di vendita restando soggetta alla ordinaria prescrizione decennale (Cass. 12/5/2000, n. 6089). Si precisa, altresì, che mentre il semplice riconoscimento dei vizi rende superflua la denuncia del compratore, il riconoscimento che il venditore faccia, verificatasi la decadenza, e l'impegno che egli assuma di eliminarli, dà luogo ad una nuova obbligazione con estinzione per novazione dell'obbligazione originaria (Cass. 13/1/1995, n. 381; 5/9/1994, n. 761). Tale indirizzo, nell'evidenziare la differenza fra il mero riconoscimento dei vizi (che ha il limitato effetto di rendere superflua la denuncia da parte del compratore) e l'impegno assunto dal venditore di eliminarli o di sostituire la cosa (che può avvenire anche per facta concludentia), sottolinea il verificarsi della novazione oggettiva dell'originaria obbligazione di garanzia, in quanto sostituita da una nuova, che avendo ad oggetto un facere, non rientra nella previsione di cui all'art. 1490 C.C.: ne consegue l'inapplicabilità della disciplina dettata in tema di decadenza e di prescrizione dall'art. 1495 C.C. 8.2. Altre sentenze si limitano a sostenere che l'impegno del venditore di eliminare i vizi della cosa difettosa o di sostituirla determina la costituzione di un'obbligazione che, essendo nuova ed autonoma rispetto a quella originaria di garanzia, è sempre svincolata dai termini di decadenza e di prescrizione decennale, indipendentemente dalla volontà delle parti (Cass. 29/8/1997, n. 8234; 14/11/1994, n. 9562). Non fanno riferimento all'effetto estintivosostitutivo dell'originaria obbligazione di garanzia e non parlano di novazione oggettiva, ma sottolineano soltanto che l'obbligazione del venditore di eliminare i difetti della cosa è svincolata, indipendentemente dalla volontà delle parti, dai termini di cui all'art. 1495 C.C. (Cass. 13/12/2001, n. 15758). 8.3. Similmente numerose decisioni (Cass. 17/4/2001, n. 5597; 11/5/2000, n. 6036; 24/4/1998, n. 4219; 20/2/1997, n. 1561; 12/6/1991, n. 6641) si soffermano unicamente ad analizzare, in relazione agli oneri imposti al compratore dall'art. 1495 C.C., i presupposti, le modalità, la natura e gli effetti del riconoscimento dei vizi da parte del venditore, rilevando che il riconoscimento può avvenire anche per facta concludentia e che esso impedisce la decadenza del compratore per l'omessa denuncia ovvero può integrare la rinuncia del venditore a far valere la decadenza già verificatasi (Cass. 1/4/2003, n. 4893; 16/7/2002, n. 10288). 8.4. Esclude espressamente la configurabilità della novazione soggettiva Cass. 29/12/1994, n. 11281 così argomentando: «poiché rientra tra le obbligazioni del venditore la prestazione di una cosa immune da vizi indicati nell'art. 1490 C.C., l'assunzione dell'impegno di eliminare i vizi, che eventualmente esistessero nella cosa oggetto della vendita, non è che uno dei modi con i quali si assicura e si attua l'esatto adempimento dell'obbligazione; essa, di per sé, non dà luogo all'esistenza di un accordo diretto a modificare uno degli elementi essenziali dell'obbligazione stessa, posto che la scelta di uno dei rimedi offerto 173 dalla garanzia, come non apporta un obiettivo mutamento del vincolo obbligatorio, così nemmeno implica necessariamente le volontà di sostituire alla precedente una nuova e diversa obbligazione». 9. Secondo l'ordinanza di remissione, l'orientamento della Corte che attribuisce natura novativa dell'originaria obbligazione di garanzia all'impegno assunto dal venditore di riparare o sostituire la cosa difettosa si porrebbe in contrasto con i principi formulati in tema di novazione oggettiva dell'obbligazione. L'effetto estintivo dell'obbligazione, proprio della novazione oggettiva, è detto nella citata ordinanza, presuppone che sia accertata la sussistenza dell'animus novandi, sicché la modifica dell'oggetto del contratto integra una novazione quando dà effettivamente luogo ad una nuova obbligazione incompatibile con il persistere di quella originaria e non anche quando le parti regolino modalità relative all'esecuzione dell'obbligazione preesistente senza alterarne l'oggetto o il titolo. 9.1. Ma al riguardo le sentenze (sub 8.1), secondo le quali l'impegno assunto dal venditore dà luogo a una nuova ed autonoma obbligazione che sostituendosi a quella di garanzia ne determina l'estinzione per novazione oggettiva, evidenziano che sono le parti a costituire una nuova ed autonoma obbligazione in luogo di quella originaria derivante dal contratto di compravendita. Pertanto, l'obbligazione di riparare o sostituire la cosa difettosa è ritenuta nuova ed autonoma, in quanto non rientra nel contenuto della garanzia (ovvero fra le obbligazioni contrattuali poste a carico del venditore) ed è caratterizzata dall'avere un oggetto diverso (aliquid novi) rispetto a quello di garanzia derivante dal contratto di compravendita, determinandone il mutamento e non semplicemente la «modifica» della relativa modalità di esecuzione. Il sorgere di una nuova obbligazione, secondo tali sentenze, assumerebbe rilievo anche sotto il profilo dell'animus novandi, in quanto l'esistenza dell'accordo novativo andrebbe accertato verificando se, con l'accettazione da parte del compratore della nuova obbligazione assunta dal venditore, le parti abbiano inteso sostituire l'originaria obbligazione ed estinguerla per novazione (potendo la volontà delle parti di estinguere la precedente obbligazione risultare, come si e detto, anche per facta concludentia). Ma tale indagine, risolvendosi nella verifica in concreto della natura novativa o meno dell'accordo, costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice di merito ed è incensurabile in cassazione se immune da vizi logici e giuridici (v. ex plurimis: Cass. 5/5/1998, n. 4520; 20/2/1997, n. 1661). 9.2. Le sentenze (sub 8.2), che focalizzano l'indagine esclusivamente sulla non operatività dei termini di decadenza e di prescrizione di cui all'art. 1495 C.C. per effetto dell'impegno l'assunto dal venditore di eliminare i vizi, danno rilievo assorbente alla manifestazione unilaterale di quest'ultimo, non facendo alcun riferimento all'effetto estintivo-sostitutivo della precedente obbligazione, che in assenza di un accordo delle parti non potrebbe evidentemente prodursi. In realtà tali sentenze appaiono ispirate dall'esigenza di tutelare il compratore dai rigorosi termini di decadenza e prescrizione imposti dall'art. 1495 C.C., e, pertanto, l'impegno assunto dal venditore e stato considerato come svincolato da detti termini. Al riguardo è stato pure affermato (Cass. 26/6/1995, n. 7216), analizzando la natura e la portata della dichiarazione del venditore, che 174 bisogna scindere gli effetti che sono ad essa direttamente collegati da quelli che postulano, con l'accettazione del compratore, il perfezionamento della novazione: nella prima ipotesi l'impegno del venditore, dando luogo al riconoscimento del debito, ha soltanto efficacia interruttiva della prescrizione ex art. 2944 C.C. 9.3. Infine, le sentenze (sub 8.3), che si sono limitate a considerare gli effetti e le modalità del solo riconoscimento dei vizi, non hanno dovuto esaminare la natura e gli effetti dell'obbligazione di riparare o sostituire la cosa difettosa, che non era oggetto del thema decidendum. 10. Pertanto, un vero e proprio contrasto giurisprudenziale non appare sussistere. Tuttavia, nei termini in cui i stato denunciato, deve essere risolto in base alle seguenti considerazioni. 11. La garanzia per vizi, che si giustifica in relazione ad una serie di particolari istituti di tutela - di prevalente origine commerciale - che caratterizzano lo scambio di beni, attiene alla prestazione traslativa e, sebbene trovi specifica regolamentazione nella vendita (negozio nella pratica dominante), non v'è dubbio che è suscettibile di più ampia applicazione ai contratti di alienazione. 11.1. In realtà, sulla natura della garanzia - connessa ai tradizionali istituti di tutela del compratore e sulla posizione che essi assumono rispetto alle comuni regole di tutela creditoria - mancano soluzioni chiare: suggestioni storiche e concettuali concorrono a rendere l'istituto non facilmente inquadrabile, anche se è generalmente inserito nel sistema della responsabilità contrattuale, e quindi dell'inadempimento indipendentemente da colpa. 11.2. Così, sinteticamente, la garanzia, di volta in volta, è stata ricondotta all'invalidità del negozio (per anomalia funzionale della causa), all'assunzione del rischio (come precetto primario di tipo assicurativo), ad una speciale forma di responsabilità (collegata all'obbligo del venditore di consegnare la cosa qualitativamente esatta), fino ad essere intesa come violazione dell'impegno del venditore in ordine dell'esatto risultato traslativo, in quanto la regola del consenso traslativo, derivante da una pratica negoziale in cui era divenuta superflua la consegna come formalità condizionante il trasferimento della proprietà, non annulla l'impegno negoziale dell'alienante circa la conformità del bene al contenuto esplicito o implicito della sua offerta (un bene sano e senza difetti occulti). 12. Il consenso traslativo richiede un accenno, sia pure fugace, alla distinzione, riguardo al modo e al momento di perfezione del vincolo, tra contratti consensuali e contratti reali; nonché, riguardo all'efficacia che sono destinati ad avere immediatamente, tra contratti con efficacia reale (o traslativi) e contratti obbligatori. 12.1. Nel diritto moderno i contratti si perfezionano di regola con il semplice consenso delle parti (cd. principio consensualistico). Secondo l'art. 1376 C.C. «Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato». In tema di compravendita, il contratto è perfetto nel momento in cui si raggiunge l'accordo. Il consenso, formatosi secondo legge, produce gli effetti voluti: indipendentemente, e quindi anche prima, del trasferimento del possesso e del 175 pagamento del dovuto. Logicamente tali affermazioni sono relative al rapporto inter partes tra i contraenti, mentre relativamente all'efficacia erga omnes il consenso potrebbe essere non più sufficiente, con conseguente applicazione della regola della consegna (art. 1155 C.C.) nell'ipotesi di pluralità di vendite dello stesso immobile, o della trascrizione (art. 2644 C.C.) nell'ipotesi di vendita dello stesso immobile a più acquirenti. 12.2. Ci sono alcuni contratti speciali, per i quali il consenso, pur sempre necessario, non basta, nel senso che il contratto è perfetto soltanto con la consegna della cosa, con la tradizione alla controparte dell'oggetto del contratto (ad esempio: comodato (art. 1803 C.C.), mutuo (art. 1813 C.C.), deposito (1766 C.C.), pegno (2784 C.C.), riporto (1548 C.C.), trasporto (art. 1678 C.C.) etc.). Prima della consegna non c'è contratto, ma c'è uno degli elementi della fattispecie complessa (consenso + traditio) di cui è formato il contratto reale. Pertanto la consegna non è effetto obbligatorio del contratto, ma un elemento costitutivo dello stesso. La categoria dei contratti reali, che ha prevalentemente un significato storico, conserva anche una funzione e un valore di carattere pratico, ben visibili, per esempio, nel pegno, dove la consegna della cosa mobile dà al creditore una certezza di garanzia, e nel deposito, dove la consegna della cosa costituisce il presupposto necessario per l'esercizio dell'attività di custodia. 12.3. La distinzione tra contratti obbligatori (ad es. locazione, mandato, comodato etc.) e contratti con efficacia reale (o traslativa, ad es. compravendita, permuta, donazione etc.) rileva nel senso che i primi producono soltanto effetti obbligatori (in quanto, senza realizzare automaticamente per il semplice consenso l'effetto voluto, fanno assumere alle parti l'obbligazione di un certo atto da compiere e di un comportamento da osservare), mentre i secondi producono anche effetti reali perché, accanto e oltre l'effetto principale di trasferire o costituire diritti, fanno sorgere, tra le parti, obbligazioni da adempiere. 12.4. Nei contratti con efficacia reale, se sono consensuali (come la compravendita), il trasferimento o la costituzione del diritto reale si attuano per effetto immediato del consenso (principio consensualistico: art. 1376 C.C.). Nel mutuo, invece, che è un contratto reale, la proprietà sulla cosa fungibile si trasferisce nel momento in cui il contratto e perfetto, cioè nel momento in cui avviene la tradizione (consegna) della cosa prestata. Il criterio distintivo del contratto reale si riferisce alla formazione del contratto, cioè al suo perfezionarsi, quello del contratto con efficacia reale si riferisce, invece, agli effetti. 12.5. L'individuazione del momento in cui si attua l'efficacia reale ha molta importanza, specie dal punto di vista pratico. Così, ad esempio, nel contratto di compravendita, nel preciso istante in cui passa la proprietà passa anche il rischio del perimento della cosa per caso fortuito, in virtù del principio res perit domino, affermato nell'art. 1465 C.C.; per cui, se prima del pagamento del prezzo, un incendio distrugge la cosa venduta, il venditore ha diritto di ricevere il prezzo, anche se più non farà la consegna del bene al compratore. In generale, invece, secondo il disposto dell'art. 1463 C.C., la parte liberata per la soppravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le 176 norme relative alla ripetizione dell'indebito. 13. Sempre in tema di tutela del compratore bisogna ricordare che la giurisprudenza (per lo più confortata dal sostegno della dottrina dominante) tende sempre più a ridurre il numero delle fattispecie riconducibili ai vizi redibitori (e alla mancanza di qualità essenziali), estendendo invece la categoria dell'aliud pro alio, in presenza della quale è noto che il compratore risulta svincolato dall'onere di denuncia e dalla prescrizione breve. 13.1. La legislazione in tema di tutela del consumatore e responsabilità del produttore (L. 21/12/1999, n. 526 e d.p.r. 24/5/1988, n. 244) incoraggia le posizioni interpretative favorevoli all'acquirente nel caso di consegna di cosa difettosa. 14. Come si è visto, la giurisprudenza allorché adotta lo schema della novazione oggettiva per inquadrare l'ipotesi del venditore che si impegna ad eliminare i vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui è destinata (ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore economico), richiede un accordo delle parti inteso a conseguire l'effetto estintivo-novativo dell'originaria obbligazione di garanzia. Qui la novazione non è un effetto automatico dell'impegno, quanto piuttosto una conseguenza dell'accordo (espressione dell'autonomia negoziale) delle parti (significativo dell'animus novandi). 14.1. Negli altri casi l'espressione «novazione» e usata in senso atecnico, dato che la giurisprudenza, posta di fronte al quesito relativo alle conseguenze della mancata realizzazione del risultato cui il venditore si era impegnato - cioè l'eliminazione dei vizi - non esita ad affermare che «ove gli interventi riparatori del venditore... restino senza esito, ovvero... abbiano un effetto inidoneo ad eliminare il sopravvenuto squilibrio fra le prestazioni delle parti, l'acquirente conserva il diritto di chiedere la risoluzione del negozio traslativo» (Cass. 27/11/1985, n. 5889). L'uso atecnico del termine novazione è evidente, atteso che è sufficiente l'inattuazione del nuovo obbligo per far rivivere ciò che c'era prima, cioè la garanzia. 15. La dottrina che nega che l'impegno del venditore costituisca vera e propria obbligazione autonoma - ritenendo l'impegno di eliminare i vizi un momento della fase attuativa della vendita, nel senso che esso e semplicemente preordinato alla realizzazione dell'operazione economica originariamente divisata dalle parti - esclude in radice l'esistenza di un fenomeno novativo, atteso che nella novazione il nuovo obbligo è del tutto autonomo dal vecchio. 15.1. Parimenti resta fuori discussione che si possa parlare di fenomeno novativo in relazione a quelle teorie che fondano la natura delle garanzie edilizie su basi diverse dall'inadempimento di un'obbligazione: ciò per l'evidente assenza di un elemento essenziale della fattispecie novativa, cioè l'obbligazione da novare. 15.2. Ma ad analogo risultato si perviene ove si collochino le garanzie edilizie nell'ambito dell'inadempimento dell'obbligazione di far acquistare utilmente la proprietà della cosa (ovvero nell'ambito della c.d. violazione dell'obbligo traslativo). Non può, infatti, sfuggire come in tal caso l'impegno del venditore a riparare la cosa viziata non abbia affatto valore novativo della precedente obbligazione, ma attuativo della stessa, nel senso che esso è esclusivamente preordinato ad attuare il risultato economico che il compratore si prefigurava di ottenere dal contratto di compravendita. 177 15.3. In realtà l'impegno del venditore non rappresenta un quid novi con effetto estintivo-modificativo della garanzia, ma semplicemente un quid pluris che serve ad ampliarne le modalità di attuazione, nel senso di consentire al compratore di essere svincolato dalle condizioni e dai termini di cui d'art. 1495 C.C., particolarmente brevi, come la prescrizione annuale, rispetto a quella decennale. 15.4. Si tratta di assegnare un significato, ai fini dell'esercizio delle azioni edilizie e del relativo termine prescrizionale, alla circostanza che fra le parti è in corso, per l'impegno assunto dal venditore, un tentativo di far ottenere al compratore il risultato che egli aveva il diritto di conseguire fin dalla conclusione del contratto di compravendita. E altro significato non può essere che quello di svincolare il compratore dai termini e condizioni per l'esercizio delle azioni edilizie, atteso che queste non vengono da lui esercitate in pendenza degli interventi del venditore finalizzati all'eliminazione dei vizi redibitori, al fine di evitare di frapporre ostacoli, secondo la regola della correttezza (art. 1175 C.C.), alla realizzazione della prestazione cui il venditore è tenuto. 16. Avuto riguardo alle considerazioni svolte e ai principi espressi, risolvendo il prospettato contrasto giurisprudenziale, queste Sezioni Unite ritengono che l'impegno del venditore di eliminare i vizi che rendano la cosa inidonea all'uso cui è destinata (ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore economico) di per sé non dà vita ad una nuova obbligazione estintivasostitutiva (novazione oggettiva: art. 1230 C.C.) dell'originaria obbligazione di garanzia (art. 1490 C.C.), ma consente al compratore di essere svincolato dai termini di decadenza e dalle condizioni di cui all'art. 1495 C.C., ai fini dell'esercizio delle azioni edilizie (risoluzione del contratto o riduzione del prezzo) previste in suo favore (art. 1492 C.C.), sostanziandosi tale impegno in un riconoscimento del debito, interruttivo della prescrizione (art. 2944 C.C.). Solo in presenza di un accordo delle parti (espresso o per facta concludentia), il cui accertamento i riservato al giudice di merito, inteso ad estinguere l'originaria obbligazione di garanzia e a sostituirla con una nuova per oggetto o titolo, l'impegno del venditore di eliminare i vizi dà luogo ad una novazione oggettiva. 17. Il principio comporta il rigetto dei primi due motivi di ricorso, atteso che la corte d'appello, con motivazione congrua ed idonea, ha escluso che le parti avessero introdotto nel regime negoziale mutamenti dell'oggetto o del titolo dell'obbligazione con la volontà di porre in essere la sostituzione di un nuovo rapporto a quello originario in base all'impegno assunto dal venditore di eliminare i vizi dei beni consegnati; onde, vigendo la garanzia, legittimamente ha ritenuto che il compratore poteva esperire l'actio quanti minoris (art. 1492 C.C.), svincolato dai termini e condizioni di cui all'art. 1495 C.C. 18. Il terzo motivo non ha pregio e la ricorrente non ha interesse a dedurre la censura, giacché, indipendentemente dal fatto che si fosse formato o meno il giudicato in ordine alla ammissibilità della domanda di riduzione del prezzo, la corte di merito ha comunque esaminato la questione ed ha ritenuto, per le ragioni sopra esposte, che era ammissibile l'actio quanti minoris. 19. In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato. Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di cassazione. 178 P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. 179 Risarcimento dei danni per le lesioni cagionate alla persona con cui si convive SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE SENTENZA 29 aprile 2005, n. 8976 (Presidente Giuliano – relatore Chiarini) Svolgimento del processo Con citazione notificata il 16 aprile 1996 O. Bruno, unitamente a M. Anna e al figlio di costei, M. Antonio, convenivano dinanzi al tribunale dì Milano R. Renato, R. Renzo e la Ras Assicurazioni Spa chiedendone la condanna al risarcimento dei danni da essi subiti a seguito dell’incidente verificatosi il 27 dicembre 1992, in cui l’auto dell’O., condotta dalla sua convivente M. Anna, era stata investita dall’auto condotta da R. Renato, di proprietà di R. Renzo. A causa della collisione la M. riportava gravi lesioni e fratture,con conseguente invalidità temporanea totale per quindici mesi, e postumi permanenti del 50%, incidenti sulla capacità lavorativa al 100%, si che ad esso O. erano derivati, di riflesso, gravi danni, morale e biologico, per complessive lire 250.000.000, oltre al danno patrimoniale per l’autovettura. Con sentenza dell’11 marzo 1998 il tribunale di Milano rigettava la domanda dell’O. perché sfornita di prova in mancanza di indicazione del periodo di convivenza, delle conseguenze su di essa e sull’O. dopo l’incidente, nonché dell’anno di immatricolazione e dello stato di conservazione dell’auto. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 29 settembre 2000, accoglieva l’appello dell’O. limitatamente al risarcimento del danno all’auto. Confermava per il resto il rigetto del gravame sulla considerazione che la convivenza con la M. aveva avuto inizio da breve tempo - nell’anno dell’incidente - e difettavano altri elementi probatori in ordine ad aspetti rilevanti del rapporto, incidenti sui lamentati danni, non avendo l’O. neppure dedotto una sua patologia conseguita alle lesioni della sua convivente. Analoghe considerazioni valevano per la richiesta di risarcimento del danno morale. Avverso questa sentenza ricorre per due motivi l’O., cui resiste la Spa Riunione Adriatica di Sicurtà. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva. Motivi dalla decisione Preliminarmente va disposto lo stralcio dei documenti allegati alla memoria dell’O. perché in Cassazione la produzione dei documenti è ammissibile soltanto nei limiti indicati dall’articolo 372 Cpc e con le formalità previste da detta norma. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce: “violazione e falsa applicazione degli articoli 2059, 2043 Cc; violazione degli articoli 2697 e 143 Cc, in relazione agli articoli 360 nn 3 e 5 Cpc”. L’O. ha dimostrato la convivenza con la M. e tale stato è rilevante per il nostro ordinamento ai fini anche del risarcimento del danno, si che aver condizionato 180 questo diritto alla durata della convivenza o ad altri aspetti del rapporto, viola gli articoli 2043 e 2059 Cc. Il convivente more uxorio ha infatti diritto ad ottenere il risarcimento del danno morale (analogo a quello della famiglia legittima: articolo 2059 Cc), patrimoniale (per il contributo alla vita quotidiana: articolo 2043 Cc), e biologico, come quello sofferto per la morte o lesioni di prossimi congiunti. 2.-Con il secondo motivo l’O. deduce: “Violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 e 2059 Cc sotto un ulteriore profilo: diritto dell’O. ad ottenere il risarcimento del danno biologico; violazione dell’articolo 360 n. 5 Cpc”. La Corte d’appello ha negato il risarcimento del danno biologico che può sussistere tutte le volte che l’evento incide sull’integrità psichica e sulle manifestazioni della vita, incrinando l’equilibrio personale, e certamente il grado di invalidità residuato alla M. (60%), ha leso lo status complessivo di convivente di esso ricorrente. I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente perché connessi, sono infondati. Occorre preliminarmente considerare che, dalla libera determinazione dei conviventi di fatto di non contrarre il vincolo del matrimonio, e quindi di non assumere gli obblighi che l’ordinamento impone vicendevolmente ai coniugi (coabitazione, fedeltà, solidarietà, assistenza materiale e morale), consegue l’inesistenza di qualsiasi diritto, sia di natura personale che patrimoniale, di un convivente verso l’altro, ed infatti è pacifico che qualsiasi prestazione patrimoniale fra loro, se non costituisce adempimento di una regolamentazione negoziale, non può esser pretesa, ma determina soltanto l’effetto della soluti retentio (articolo 2034 Cc). Da qui la difficoltà per l’interprete, in assenza di disciplina normativa di carattere generale sui requisiti indispensabili affinché un’unione di fatto - anche nell’ipotesi in cui i conviventi, o uno di essi, non sia libero di stato - sia meritevole di tutela giuridica di fronte ai terzi, di enucleare un modello di convivenza dalla disciplina dettata da ragioni dì solidarietà sociale (quali ad esempio i decreti luogotenenziali 968/16, articolo 8 e 1726/18, articolo 12, ispiratori della legge 313/68 in materia di pensioni di guerra; il decreto luogotenenziale 1450/17, articolo 1, lett. b, in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni in agricoltura, il Dpr 1124/65, in tema dì assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, norme peraltro emanate in un’epoca in cui nel nostro ordinamento non vi era il divorzio, ancorché le ragioni dì solidarietà sociale a cui esse sono ispirate hanno indotto il giudice delle leggi - sentenza 404/88 - a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’ articolo 6, comma 1, legge 392/78 nella parte in cui non prevedeva, tra gli altri successibili nella titolarità del contratto di locazione di immobile ad uso abitativo, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio, al quale peraltro già la legislazione vincolistica aveva esteso la fruibilità di alcuni benefici). In relazione alla disciplina della responsabilità civile dalla circolazione dei veicoli non è superfluo rilevare che il legislatore, nell’estendere l’assicurazione obbligatoria per la RCA al convivente, aveva previsto la risarcibilità del danno patrimoniale e morale soltanto per il convivente superstite della vittima deceduta - così regolamentando un’ipotesi che da tempo aveva trovato riconoscimento giuridico nella giurisprudenza - ed aveva a tal fine disciplinato i 181 requisiti della convivenza (articolo 20 legge 12 gennaio 1992, tra cui la durata di essa per un periodo non inferiore a cinque anni) - in tal modo consentendo all’interprete di superare ogni questione scaturente dalla necessità di raccordare i principi in tema di responsabilità civile, tra cui quello secondo il quale il fatto dannoso, a norma dell’articolo 2043 Cc, deve essere contra ius e cioè deve ledere un diritto, e l’esigenza sociale di riconoscere rilevanza giuridica ad interessi e ragionevoli aspettative non in contrasto con la legge, derivanti dalla convivenza - ma la legge non fu promulgata proprio per la mancanza di criteri obbiettivi per la liquidazione del danno biologico. Comunque il dato comune che emerge dalla legislazione vigente e dalle pronunce giurisprudenziali, è che la convivenza assume rilevanza sociale, etica e giuridica in quanto somiglia al rapporto di coniugio, anche nella continuità nel tempo. Ne consegue che colui che chiede il risarcimento dei danni derivatigli, quale vittima secondaria, dalla lesione materiale, cagionata alla persona con cui convive dalla condotta illecita del terzo, deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equilibrio affettivo - patrimoniale instaurato con la medesima, e perciò, per poter esser ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, deve esser dimostrata l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo sufficiente a tal fine la prova di una relazione amorosa, per quanto possa esser caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela giuridica di fronte ai terzi. Quanto poi alla prova di tali elementi strutturali e qualificativi, concreti e riconoscibili all’esterno, presupposti dì esistenza della convivenza more uxorio e parametri caratterizzanti la stessa, può esser fornita con qualsiasi mezzo (articolo 2697 Cc), mentre il certificato anagrafico (Dpr 223/89) può tutt’al più provare la coabitazione, insufficiente a provare altresì la condivisione di pesi e oneri di assistenza personale e di contribuzione e collaborazione domestica analoga a quella matrimoniale. I giudici di appello, nel confermare il rigetto della domanda risarcitoria dell’O. in conseguenza delle lesioni riportate dalla M., non si sono discostati da tali principi avendo riscontrato la mancanza di prova su alcuni requisiti indispensabili, tra cui la stabilità della convivenza e la durata della medesima al momento del fatto dannoso, la cui prova era altresì necessaria per determinare il danno biologico e morale dell’O., perché la liquidazione dei predetti tipi di danno deve esser personalizzata, e quindi va tenuto conto di tutte le particolarità del caso concreto. Quanto al danno patrimoniale dell’O., è appena il caso di aggiungere che dalla sentenza impugnata si desume che esso nei precedenti gradi è stato chiesto limitatamente ai danni all’auto, e quindi in ogni caso non può esser ampliato in questa sede. Concludendo, il ricorso va respinto. Sussistono giusti motivi per dichiarare compensate le spese del giudizio di Cassazione tra le parti costituite. 182 P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; dichiara compensate le spese del giudizio di Cassazione tra le parti costituite. Così deciso in Roma il 14 gennaio 2005. Depositato in cancelleria il 29 aprile 2005 183 Durata ragionevole del processo: eredi legittimati a richiedere l'indennizzo CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA 23 DICEMBRE 2005, N. 28507 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso depositato il 17 aprile 2002 C.C.S. conveniva in giudizio dinanzi alla Corte d'appello di Genova la Presidenza del Consiglio dei Ministri per sentirla condannare al pagamento di una somma a titolo di equo indennizzo dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la non ragionevole durata di cinque giudizi da lui promossi dinanzi al TAR per la Toscana, rispettivamente il 6 giugno 1990, il 9 novembre 1993, il 28 novembre 1997, il 16 febbraio 1998 e il 6 marzo 1998, tuttora in attesa di fissazione dell'udienza di discussione. Con decreto del 18 giugno-17 luglio 2002 la corte adita rigettava la domanda osservando preliminarmente che il ricorrente non aveva titolo per far valere eventuali danni riferibili a ritardi maturati prima del 18 aprile 2001, data di entrata in vigore della l. n. 89 del 2001. Quindi, passando a esaminare i vari processi pendenti, affermava che per il primo di essi, promosso dalla sig.ra M.T.S., madre del ricorrente che in qualità di erede aveva provveduto alla riassunzione, la domanda non poteva trovare accoglimento poiché la riassunzione era avvenuta solo il 4 settembre 2001, e non era trascorso neppure un anno dal momento in cui era divenuto parte processuale; che per il secondo e il terzo la domanda era priva di fondamento essendo decorsi solo tre anni dalla presentazione dell'istanza di prelievo; che parimenti infondata. Contro Non ha la sentenza presentato ricorre difese per la cassazione Presidenza con del due Consiglio motivi dei C.C.S. Ministri. Con ordinanza del 9 marzo-26 giugno 2002 è stata disposta la rimessione degli atti al Primo Presidente che ha provveduto all'assegnazione del ricorso alle Sezioni unite per la risoluzione della questione di particolare importanza relativa all'individuazione del momento in cui sorge il diritto alla durata ragionevole del processo nonché del contrasto di giurisprudenza relativo all'accertamento del momento iniziale ai fini del computo del termine di durata del processo amministrativo. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo viene denunciata la violazione e la falsa applicazione dell'art. 6, n. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo ratificata con la l. 848/1955, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. e si contesta l'affermazione secondo cui solo dalla data di entrata in vigore della l. 89/2001 sarebbe sorto il diritto all'equa riparazione, prima non esistente nel vigente sistema positivo, con la conseguente esclusione della legittimazione degli eredi alla proposizione della domanda di equo indennizzo per l'eccessiva durata di un processo instaurato dal loro dante causa prima di tale data. 184 La questione è stata sinora decisa in senso negativo dalla giurisprudenza di questa Corte la quale ha considerato che la l. 89/2001 contempla senza limitazioni temporali le violazioni del canone di ragionevole durata del processo verificatesi dopo la ratifica della Convenzione dei diritti dell'uomo, ma che, in assenza di una espressa previsione di retroattività della norma interna costitutiva del diritto all'equo indennizzo, resta esclusa la nascita di tale diritto in capo a un soggetto deceduto prima della sua entrata in vigore e, conseguentemente, la sua trasmissibilità agli eredi (Cassazione 17650/2002; 360/2003); e ciò anche se la parte, poi deceduta, avesse già proposto ricorso alla Corte di Strasburgo in quanto la fattispecie riparatoria prevista dalla normativa comunitaria non costituiva un diritto azionabile dinanzi a un giudice diverso da quello europeo. Tali considerazioni trovavano un ulteriore elemento di conferma nel rilievo che la norma transitoria dell'art. 6 della l. 89/2001 aveva natura di norma sostanziale e non processuale e non prevedeva alcun traslatio iudicii ma consentiva unicamente una circoscritta e limitata applicazione retroattiva del nuovo istituto dell'equa riparazione con riferimento ai soli giudizi per i quali si fosse già avuto il tempestivo deposito del ricorso dinanzi alla Corte di Strasburgo e non fosse ancora intervenuta una dichiarazione di ricevibilità del ricorso stesso (Cassazione 5264/2003). Ciò premesso, merita accoglimento l'invito a riconsiderare la fondatezza di tale orientamento interpretativo, contenuto nell'ordinanza di rimessione, sulla base dell'evoluzione della giurisprudenza delle Sezioni unite le quali, con le sentenze in data 1339/2004, 1340 e 1341 hanno identificato il fatto costitutivo prefigurato dall'art. 2 della l. 89/2001 proprio nel mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo stabilito dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, e hanno negato, conseguentemente, che la fattispecie prevista dalla norma interna assumesse connotati diversi da quelli stabiliti dalla Convenzione, rispetto alla quale essa andrebbe considerata non già costitutiva del diritto all'equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, bensì unicamente istitutiva della via di ricorso interno, prima inesistente, diretta ad assicurare una tutela pronta ed efficace alla vittima della violazione del canone di ragionevole durata del processo in attuazione del disposto dell'art. 13 della Convenzione il quale stabilisce il diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale il cui esperimento preventivo opera, a norma dell'art. 35, come condizione di procedibilità del ricorso alla Corte di Strasburgo che, ai sensi dell'art. 34, era proponibile in via immediata e diretta prima dell'introduzione del ricorso negli ordinamenti nazionali. Va ricordato al riguardo che l'art. 1 della Convenzione stabilisce che «le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dal titolo primo della Convenzione», tra i quali è compreso il diritto ad un processo equo e di durata ragionevole (art. 6), che dev'essere tutelato attraverso il ricorso a un'istanza nazionale (art. 13), la cui introduzione nell'ordinamento vigente è avvenuta tardivamente, solo a seguito del moltiplicarsi delle condanne nei confronti dello stato in sede comunitaria per il pregiudizio derivante dalla non ragionevole durata dei processi. 185 La l. 848/1955, provvedendo a ratificare e rendere esecutiva la Convenzione, ha introdotto nell'ordinamento interno i diritti fondamentali, aventi natura di diritti soggettivi pubblici, previsti dal titolo primo della Convenzione e in gran parte coincidenti con quelli gia indicati nell'art. 2 Cost., rispetto al quale il dettato della Convenzione assume una portata confermativa ed esemplificativa (Corte costituzionale, 388/1999). La natura immediatamente precettiva delle norme convenzionali a seguito di ratifica dello strumento di diritto internazionale è stata già del resto riconosciuta esplicitamente dalla giurisprudenza di questa Corte che ha affermato l'avvenuta abrogazione dell'art. 34, comma 2, del r.d.l. 511/1946, nella parte in cui escludeva la pubblicità della discussione della causa nel giudizio disciplinare a carico di magistrati per contrasto con la regola della pubblicità delle udienze sancito dall'art. 6 della Convenzione che pone precisi limiti alla discussione della causa a porte chiuse (Sezioni unite 7662/1991); parimenti ha riconosciuto il carattere di diritto soggettivo fondamentale, insopprimibile anche dal legislatore ordinario, al diritto all'imparzialità del giudice nell'amministrazione della giustizia, con richiamo all'art. 6 della Convenzione (Cassazione 4297/2002), e, infine, ha espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l'obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cassazione 10542/2002). Deve essere quindi superato l'orientamento secondo cui la fonte del riconoscimento del diritto all'equa riparazione dev'essere ravvisata nella sola normativa nazionale (Cassazione 11046/2002; 11987/2002; 16502/2002; 5664/2003; 13211/2003) e ribadito il principio che il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell'art. 6 della convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno. Né appare meritevole di consenso la distinzione adombrata in sede di discussine orale, tra diritto ad un processo di ragionevole durata, introdotto dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (o addirittura ad essa preesistente come valore costituzionalmente protetto), e diritto all'equa riparazione, che sarebbe stato introdotto solo con la l. 89/2001, in quanto la tutela assicurata dal giudice nazionale non si discosta da quella precedentemente offerta dalla Corte di Strasburgo, alla cui giurisprudenza è tenuto a conformarsi il giudice nazionale (Sezioni unite 1340/2004). Da ciò consegue che il diritto all'equa riparazione del pregiudizio derivato dalla non ragionevole durata del processo verificatosi prima dell'entrata in vigore della l. 89/2001 va riconosciuto dal giudice nazionale anche in favore degli eredi della parte che abbia introdotto prima di tale data il giudizio del quale si lamenta la non ragionevole durata, col solo limite che la domanda di equa riparazione non sia stata già proposta alla Corte di Strasburgo e che questa si 186 sia pronunciata sulla sua ricevibilità. L'accoglimento del primo motivo di ricorso non preclude l'esame del secondo motivo, avente natura autonoma, con il quale si lamenta il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia con riferimento all'affermazione, posta a fondamento della statuizione di rigetto della domanda di equa riparazione per l'eccessiva durata dei processi pendenti dinanzi al giudice amministrativo, secondo cui la mancata o tardiva presentazione dell'istanza di prelievo escluderebbe la permanenza di un interesse alla decisione in capo al ricorrente, non essendo dato riscontare l'esistenza di una presunzione generale in tal senso. Va premesso al riguardo che nel sistema vigente prima dell'entrata in vigore della l. 205/2000 - al quale deve farsi riferimento per i giudizi dei quali si lamenta nella specie la non ragionevole durata - il processo amministrativo richiede, dopo il deposito del ricorso, un solo necessario, infungibile impulso di parte costituito dalla presentazione nei due anni dal deposito del ricorso (o dall'ultimo atto della procedura quando venga ordinata un'attività istruttoria o la causa sia stata cancellata dal ruolo) di un'apposita istanza di fissazione, in mancanza della quale la causa si estingue per perenzione; una volta presentata tale istanza, infatti, il processo è dominato dal potere di iniziativa del giudice e non costituisce, perciò, adempimento necessario l'istanza di prelievo del ricorso dal ruolo, prevista dall'art. 51, comma 2, r.d. 642/1907, che ha il solo fine di fare dichiarare il ricorso urgente onde ottenerne la trattazione anticipata sovvertendo l'ordine cronologico di iscrizione delle domande di fissazione dell'udienza di discussione. Orbene, con riferimento al problema dell'individuazione del momento iniziale dal quale decorre la durata del procedimento amministrativo instaurato prima dell'entrata in vigore della l. 205/2000 la giurisprudenza prevalente afferma che esso coincide con quello della presentazione dell'istanza di prelievo, ritenendo sufficiente a tal fine l'onere posto a carico del ricorrente di avvalersene per trarre il ricorso da una condizione di quiescenza e ottenerne l'effettiva trattazione, in considerazione del fatto che l'art. 2, comma 2, della l. 89/2001 esclude l'addebitabilità all'Amministrazione dei tempi imputabili alla negligente condotta della parte che non si sia avvalsa dello strumento acceleratorio posto a sua disposizione, sicché solo dal momento della presentazione di tale istanza il decorso del tempo potrebbe considerarsi parametro esclusivo di valutazione del comportamento del giudice adito al fine di valutare la ragionevolezza della durata del processo (Cassazione 15445/2002; 15992/2002; 6180/2003; 22503/2004). A tale interpretazione si contrappone un orientamento minoritario secondo cui la mancata presentazione dell'istanza di prelievo non può influire sul calcolo dei termini del processo, ma potrebbe incidere unicamente sulla determinazione dell'entità dell'equa riparazione spettante con riferimento al dettato dell'art. 2056 c.c. richiamato nell'art. 2 della l. 89/2001, che a sua volta richiama l'art. 1227, il quale al secondo comma esclude il risarcimento dei danni che il 187 danneggiato avrebbe potuto evitate usando l'ordinaria diligenza, col risultato che la durata irragionevole del processo, ancorché accertata, non potrebbe porsi esclusivamente a carico dello Stato (Cassazione 3347/2003). Va segnalato che successivamente alla ordinanza di rimessione degli atti al Primo Presidente, è intervenuta una nuova pronuncia (Cassazione 23187/2004) con la quale, in adesione all'orientamento ripetutamente espresso dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha già proceduto alla revisione dell'interpretazione sinora prevalente affermando che la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo va riscontrata, anche per le cause proposte davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo di tempo decorso dall'instaurazione del procedimento, senza che su di esso possa incidere la mancata o ritardata presentazione dell'istanza di prelievo. Tale interpretazione, che ha incontrato il consenso delle decisioni che si sono succedute sulla questione in esame (Cassazione 18759/2005; 19801/2005), merita ulteriore conferma in considerazione del fatto - evidenziato nella motivazione della citata pronuncia - che la presenza di strumenti sollecitatori non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell'apprezzamento dell'entità del lamentato pregiudizio. In conclusione il ricorso merita accoglimento e conseguentemente il decreto impugnato dev'essere cassato con rinvio della causa ad altro giudice il quale si conformerà ai principi di diritto innanzi enunciati. Al giudice di rinvio viene rimessa altresì la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte, pronunciando a Sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di appello di Genova, cui rimette altresì la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. 188 Interruzione della prescrizione può essere rilevata d’ufficio dal giudice SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA 27-07-2005, n. 15661 Svolgimento del processo Con ricorso del 27 febbraio 1998 al Pretore di Pistoia, Franco L. chiedeva accertarsi una malattia professionale, consistente in artrosi contratta a causa della sua attività di aiuto cuoco dipendente da un'Azienda sanitaria locale, e condannarsi l'Inail alla corresponsione della relativa rendita. Costituitosi il convenuto, il Pretore accoglieva l'eccezione di prescrizione estintiva, sollevata in base all'art. 112 D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, con decisione del 1 aprile 1998, confermata consentenza del 6 maggio 2001 dal Tribunale, il quale Osservava che, eccepita la prescrizione da parte dell'Istituto, soltanto in appello, ossia tardivamente, il lavoratore-appellante aveva sollevato la controeccezione di interruzione, già prospettabile nell'udienza di discussione in primo grado. Quanto ad una lettera in atti, con data del 5 luglio 1996, essa era stata redatta da un'"associazione sindacale" non legittimata all'interruzione della prescrizione poichè non investita del relativo potere dal titolare, ossia dal lavoratore. Contro questa sentenza ricorre per Cassazione il L. mentre l'Inail resiste con controricorso. Con ordinanza del 16 aprile 2004 la Sezione lavoro di questa Corte rilevava un contrasto di giurisprudenza in ordine alla qualificazione dell'eccezione di interruzione della prescrizione come eccezione in senso lato oppure in senso stretto, ossia non rilevabile d'ufficio da parte del giudice (nella specie, sulla base di un documento ritualmente allegato), onde trasmetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione a queste Sezioni unite ai sensi dell'art. 374 cod. proc. civ. il Primo Presidente decideva in conformità. Memorie utrinque. Motivi della decisione 1. Il controricorrente eccepisce l'inammissibilità del ricorso, privo dell'indicazione delle norme in tesi violate dal giudice d'appello, e contenente un mero riepilogo delle argomentazioni svolte nel giudizio di merito. L'eccezione, sostanzialmente denunciante la inosservanza dell'art. 366, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., non può essere accolta poichè il ricorrente, seppure in forma non impeccabile e certamente non consueta, formula le sue censure con contenuto e con richiamo dinorme di diritto ( art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) sicuramente identificabili. 2. Con un primo motivo, in sostanza denunciante la violazione degli artt. 112 d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124, 2943 cod. civ., e 112 cod. proc. civ., egli osserva di avere allegato al ricorso di primo grado (documento n. 8) una lettera con cui la UIL Ital, ente di patronato, in data 2 agosto 1996 ossìa certamente entro il triennio di cui all'art. 112 d.P.R. cit., chiedeva all'Inail il riconoscimento della malattia professionale, e con ciò la prestazione previdenziale. Tale atto, interruttivo della prescrizione in quanto valido a 189 costituire in mora il debitore (art. 2943 cit.), avrebbe dovuto essere esaminato dal Pretore d'ufficio, vale a dire anche in difetto di un'eccezione di interruzione della prescrizione. Con un secondo motivo il ricorrente, richiamando l'art. 1 d.c.p.s. 29 luglio 1947 n. 804, sostiene, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale (peraltro con erroneo riferimento alle associazioni sindacali), il potere dell'ente di patronato di rappresentare i lavoratori iscritti quanto alla richiesta di prestazioni previdenziali, e quindi di interrompere la prescrizione dei relativi crediti. 3. Il primo motivo è fondato. Con esso il ricorrente pone alla Corte la questione se l'eccezione di interruzione della prescrizione debba considerarsi come eccezione in senso lato, ossia rilevabile anche dal giudice in ogni stato e grado del processo purchè sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti, oppure come eccezione in senso stretto, ossia non rilevabile d'ufficio e perciò assoggettata, nel processo del lavoro,alle preclusioni disposte nei capoversi degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. (e nel processo ordinario nell'art. 345, secondo comma, dello stesso codice). E' da osservare che il legislatore presuppone la distinzione tra i due tipi di eccezione ma non la definisce e l'affida così all'interprete; infatti l'art. 112 cod. cit., secondo cui il giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, suole essere considerato come norma in bianco, ossia da completare in sede di applicazione quanto alla nozione di eccezione officiosa oppure riservata all'iniziativa di parte. Talvolta è lo stesso legislatore ad esonerare l'interprete da questo compito, escludendo espressamente la rilevabilità d'ufficio: così,fra i numerosi possibili esempi, nell'art. 1242, primo comma, cod. civ. quanto all'eccezione di compensazione; nell'art. 1442, quarto comma, quanto all'eccezione di annullabilità del contratto; nell'art. 1460, primo comma, quanto all'eccezione di inadempimento; e, per ciò che più da vicino attiene alla materia qui in questione, nell'art. 2938 quanto all'eccezione di prescrizione. Al di fuori di questi casi, nei quali l'interprete deve semplicemente uniformarsi alla chiara lettera della legge, la nozione di eccezione in senso stretto è rimasta a lungo controversa anche nella giurisprudenza di questa Corte, la quale tuttavia con la sentenza, pronunciata a Sezioni unite, 3 febbraio 1998 n. 1099, ha provveduto alla sistemazione della materia. La semplice contestazione dei fatti posti dall'attore a base della propria pretesa viene considerata come "mera difesa" (non è stato accolto il termine "obiezione", proposto dalla dottrina fra le due guerre) mentre l'ammissione di quei fatti, accompagnata dalla deduzione dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi (ad es. il pagamento del debito) è definita come "eccezione in senso lato". La suddetta sentenza considera come "eccezione in senso stretto" quella consistente nella contrapposizione, da parte del convenuto in giudizio, di fatti che, senza escludere il rapporto affermato dall'attore, attribuiscano per legge un potere ad impugnandum ius, ossia rivolto ad estinguere in tutto o in parte il diritto dell'avversario. In questi casi, aggiungono le Sezioni unite, il legislatore 190 costruisce la fattispecie in modo tale che la presenza di determinati fatti non ha di per sè efficacia modificativa, impeditiva o estintiva, ma la consegue per il tramite di una manifestazione di volontà dell'interessato, da sola ovvero seguita da un accertamento giudiziale. Le Sezioni unite si riferiscono in tal modo all'esercizio di un diritto potestativo da parte del convenuto (diritto di annullamento, di rescissione, di risoluzione), il cui esercizio in giudizio da parte del titolare è necessario perchè si verifichi il mutamento della situazione giuridica. In questi casi la manifestazione della volontà dell'interessato come elemento integrativo della fattispecie difensiva esclude che, pur acquisita al processo la conoscenza di fatti rilevanti, possa il giudice desumerne l'effetto senza l'apposita istanza di parte. Soltanto a questa è rimessa la scelta del mezzo difensivo, così che l'interesse a valersi dell'eccezione non è necessariamente legato all'interesse a resistere alla pretesa attrice e, ulteriore conseguenza, la volontà di non valersi di quel mezzo rende facilmente tollerabile - per usare espressioni di una ormai risalente dottrina - l'eventuale ingiustizia della sentenza: la parte dovrà imputare la soccombenza solo a se stessa, ossia alla propria assenza di volontà. La nozione di eccezione in senso stretto accolta nella sentenza n. 1099 del 1998 viene riaffermata dalle stesse Sezioni unite con la sent. 25 maggio 2001 n. 226, in tema di rilevabilità d'ufficio dell'eccezione di giudicato esterno, nonchè dalle sentenze 1 aprile 2004 n. 6450, 8 aprile 2004 n. 6943 e 21 agosto 2004 n. 16501. 4. Malgrado la sistemazione della materia nel senso testè illustrato, sulla questione, ora in esame, della qualificazione dell'eccezione di interruzione della prescrizione, permane un contrasto di giurisprudenza. Prima della citata pronuncia di queste Sezioni unite n. 1099 del 1998 la giurisprudenza della Corte la definiva costantemente come eccezione in senso stretto, non affrontando però la generale questione del concetto di eccezione processuale e le relative distinzioni, ma semplicemente parlando di "controeccezione", da opporre a quella, omogenea, di prescrizione (tra le numerose, Cass. 7 dicembre 1996 n. 10904, 1 ottobre 1997 n. 9583, 25 ottobre 1997 n. 10526). Non mancava tuttavia una giurisprudenza secondo cui, estintosi il giudizio ed iniziato un nuovo processo, il giudice di questo poteva rilevare l'interruzione istantanea, prodotta dal primo atto introduttivo ex art. 2945, terzo comma, cod. civ., in presenza della sola eccezione di prescrizione (Cass. 6 agosto 1966 n. 2167, 24 ottobre 1974 n. 3111, 24 ottobre 1978 n. 4810). L'affermazione dell'eccezione in senso stretto permaneva anche dopo la sent. n. 1099 del 1998, con numerose pronunce, che unificavano ancora il regime dell'eccezione ex art. 2938 e della controeccezione,senza peraltro confutare, almeno espressamente, gli argomenti di detta sentenza (tra le più recenti, Cass. 20 giugno 2002 n. 9016, 27 giugno 2002 n. 9378, 12 luglio 2002 n. 10137, 14 novembre 2002 n. 16032, 28 luglio 2003 n. 15188, 14 luglio 2004 n. 14276). Cass. 25 marzo 2002 n. 4219 contrasta esplicitamente la sentenza delle Sezioni unite attraverso il richiamo al principio di speditezza del processo, , che verrebbe ostacolato dalla rilevabilità officiosa dell'eccezione in questione in ogni stato e grado; di questa pronuncia si dirà oltre. 191 L'opposta asserzione, ossia quella della rilevabilità d'ufficio, si trova in Cass. 28 marzo 2000 n. 3276, la quale ritiene che l'eccezione di prescrizione devolva al giudice l'accertamento di ogni fatto relativo alla vicenda estintiva, compreso quello interrutti vo, il cui rilievo è perciò sottratto all'iniziativa esclusiva della parte interessata. L'argomentazione di questa soluzione èespressamente appoggiata sul qui più volte citato precedente del 1998. 5. Non ritengono ora queste Sezioni unite che fra l'eccezione di prescrizione, ascritta dall'art. 2938 cod.civ. al novero delle eccezioni in senso stretto, e la controeccezione di interruzione ex artt. 2943-2945, di natura non definita dal legislatore, sussista una somiglianza tale da consentirne la stessa disciplina processuale. Nè il principio di speditezza, ora espressamente canonizzato nel capoverso dell'art. 111 Cost. e da bilanciare sempre con le garanzie di difesa di cui al precedente art. 24 (Cass. 22 aprile 2005 n. 8540), permette di ravvisare preclusioni processuali prive di base normativa ed anzi contrarie ad un sistema legale che vede come eccezionale, per quanto detto sopra, la riserva alla parte del poteredi eccepire fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto soggettivo dedotto in giudizio. Nessuno sostiene che l'eccezione di interruzione, vale a dire l'affermazione dell'avvenuto compimento di un atto d'esercizio del diritto, giudiziale o stragiudiziale ( art. 2943 cod.civ.) oppure dell'altrui riconoscimento (art. 2944), corrisponde al contenuto di un diritto potestativo di realizzazione giudiziale ossia ad un'azione costitutiva e perciò stesso possa senz'altro ricondursi alla figura delle eccezioni in senso stretto non di espressa previsione legale. Ma deve altresì escludersi che a questo risultato possa condurre un'asserita identità di sostanza fra l'eccezione di prescrizione e quella di interruzione, tale da permettere la sussunzione di quest'ultima, pur sempre e per ragioni di sostanza, sotto la previsione dell'art. 2938. Il titolare passivo del diritto soggettivo dedotto in giudizio dall'attore, ossia il debitore oppure il proprietario quanto ai diritti reali limitati (l'istituto della prescrizione estintiva è di portata generale, come risulta dall'art. 2934: "ogni diritto"), fu correttamente definito in dottrina come a sua volta titolare di un diritto potestativo di provocare l'estinzione del diritto trascurato, ottenendo la liberazione dal debito oppure dal peso gravante sul proprio fondo. Infatti l'effetto estintivo della prescrizione non si produce automaticamente allo scadere del termine ma entra nella disponibilità del soggetto passivo del diritto, cosiddetto "prescrivente", il quale decide se sollevare o meno la relativa eccezione. Ciò spiega perchè l'art. 2937, primo comma, parli di irrinunciabilità della prescrizione da parte di "chi non può validamente disporre del diritto". Questa espressione, introdotta colcodice del 1942 e assente in quello del 1865, si riferisce verosimilmente alla non disponibilità della materia controversa, anche se può rilevarsene l'improprietà giacchè colui che rinunzia alla prescrizione non è il titolare del diritto prescritto bensì il soggetto passivo, che della prescrizione potrebbe avvalersi. L'espressione impropria, che attribuisce un "diritto" al prescrivente, spiega in ogni caso perchè la scadenza del termine di prescrizione sia stata definita come species adquirendi a favore del prescrivente (cfr. da ult. Cass. 24 marzo 1994 n. 3445), in conformità all'antico carattere unitariamente acquisitivo delle 192 prescrizioni, oggi distinte in usucapione e prescrizione estintiva: carattere unitario posto in evidenza dai romanisti e conservato nell'art. 2105 cod.civ. 1865, secondo cui la prescrizione è "il mezzo con cui, col decorso del tempo e sotto condizioni determinate, taluno acquista un diritto o è liberato dall'obbligazione" (la liberazione comporta l'acquisto di una posizione di vantaggio). Esclusi i casi eccezionali di rilevabilità d'ufficio della prescrizione (cfr. Cass. 16 agosto 2001 n. 11140), la scadenza del termine attribuisce al titolare passivo del diritto prescrivendo la potestà di farne valere l'effetto estintivo o, al contrario, di non giovarsene, preferendo di servirsi di altri mezzi di difesa in giudizio: per tali ragioni il legislatore include l'eccezione di prescrizione fra quelle in senso stretto. 6. Diverso è il carattere dell'eccezione di interruzione. Qui l'attore, di fronte all'eccezione di prescrizione, non può considerarsi titolare di alcuna posizione soggettiva diversa da quella dedotta in giudizio ma semplicemente è in grado di contrapporre all'eccipiente un fatto dotato di efficacia interruttiva. L'interesse a giovarsi di questo atto è compreso nell'interesse sottostante il diritto azionato, nè certo potrebbe sottostare ad una distinta azione costitutiva. Il legislatore collega immediatamente l'effetto interruttivo ai fatti previsti dagli artt. 2943 e 2944 cod.civ. onde l'eccezione non amplia i termini della controversia ma - come si è rilevato in dottrina - concorre a realizzare l'ordinamento giuridico nell'orbita della domanda, su cui il giudice deve pronunciarsi tota re perspecta, ossia prendendo in considerazione d'ufficio gli atti interruttivi. Spetta dunque a lui di decidere la questione di prescrizione, ritualmente introdotta dal convenuto attraverso l'eccezione di cui all'art. 2938, tenendo conto del fatto, anche dedotto in giudizio prima dell'eccezione, idoneo a produrre l'interruzione, qualora l'attore abbia affermato il proprio diritto ritualmente e rettamente provandone sussistenza e persistenza. La situazione processuale non è diversa da quella che si verifica a proposito dell'eccezione di rinuncia alla prescrizione, che questa Corte quasi sempre ritiene rilevabile d'ufficio (Cass. 13 ottobre 1976 n. 3409, 7 febbraio 1996 n. 963, 14 maggio 2003 n. 7411). Non vale affermare in contrario, come fa Cass. n. 9209 del 2002 cit., che eccezione di prescrizione ed eccezione di interruzione sono caratterizzate dalla medesima natura e debbono essere assoggettate allo stesso regime a fini di speditezza del procedimento e per "sgombrare il campo dalla questione": il principio di speditezza, già implicito nell'art. 24 Cost. ed ora espresso, come s'è ricordato, nel capoverso dell'art. 111, si realizza nelle forme di legge ("...La legge ne (del processo) assicura la ragionevole durata") e non comporta l'obliterazione della distinzione fra eccezioni rilevabili d'ufficio e non, voluta dal legislatore. In altre parole la sent. n. 9209 del 2002 opera una completa assimilazione fra eccezione in senso stretto e controeccezione, che è priva di fondamento positivo: si pensi all'eccezione di compensazione ed alla controeccezione di pagamento. In conclusione si deve affermare il principio di diritto secondo cui l'eccezione di interruzione della prescrizione, in quanto eccezione in senso lato, può essere 193 rilevata d'ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti. Nel caso di specie la sentenza impugnata non nega la rituale produzione del documento epistolare di contenuto interruttivo, nè la produzione è negata dal controricorrente, il quale nell'ultimapagina del suo scritto difensivo vi fa esplicito riferimento (lettera 5 luglio 1996), limitandosi a negarne la provenienza dal creditore, ossia dal soggetto legittimato ad interrompere la prescrizione. E' altresì pacifico il detto contenuto interruttivo, ossia la manifestazione della pretesa creditoria, avente ad oggetto la prestazione previdenziale (cfr. Cass. 28 giugno 1979 n. 3618, 27 giugno 1997 n. 5733). Il primo motivo, in conclusione, dev'essere accolto. 7. Parimenti fondato è il secondo motivo. Già da tempo questa Corte ha affermato che la richiesta della prestazione previdenziale rivolta all'ente assicuratore da un istituto di patronato (circa questa qualifica, da riferire all'istituto che in concreto effettuò la richiesta, le parti non controvertono) per conto dell'assicurato interrompe la prescrizione del relativo diritto, anche in difetto di delega, stante il potere di rappresentanza attribuito ai detti istituti dall'art. 1 d.lgs. C.P.S. n. 804 del 1947 (Cass. 13 giugno 1980 n. 3749, 16 dicembre 2002 n. 17997, 21 agosto 2004 n. 16523). Accolto il ricorso e cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata ad altro collegio d'appello, che si pronuncerà sul merito della pretesa dell'attore e provvedere sulle spese di questo giudizio di Cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso e cassa con rinvio alla Corte d'appello di Firenze, anche per le spese. Così deciso in Roma, il 9 giugno 2005. Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2005. 194 CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE, SENTENZA N. 4806 DEL 07/03/2005 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La controversia trae origine da impugnazione proposta (con atto di citazione del 19 febbraio 1997) da due condomini, F.M. e A.G., del complesso immobiliare sito in Roma, via Tor de' Schiavi 3819, avverso tre delibere dell'assemblea del condominio (adottate il 18 settembre 1995, il 15 dicembre 1995 e il 23 settembre 1996) concernenti l'approvazione del consuntivo relativo alle spese ordinarie per l'anno 1995/1996, la ripartizione delle spese per alcuni lavori straordinari e il riparto della tassa di occupazione suolo pubblico. Le ragioni dell'impugnazione erano la mancanza nel verbale dell'indicazione dei condomini che avevano partecipato all'assemblea e dell'entita’ delle spese deliberate; l'errata ripartizione, essendo stata effettuata sulla base di fittizi valori millesimali ed essendo state poste a loro carico spese sostenute per l'esclusiva utilita’ di condomini di altra palazzina. Il Tribunale - ritenute le ragioni prospettate (come l'utilizzo di criteri contrari alla legge per la ripartizione delle spese) quali motivi di nullita’ delle delibere rigettava la domanda nel merito, sostenendo che risultavano documentalmente smentite le omissioni nel verbale e l'utilizzo di tabelle millesimali fittizie e che la dedotta errata ripartizione delle spese era sfornita di prova. Con sentenza 1354/2000, la Corte d'appello di Roma dichiarava inammissibile l'appello principale del M. e G.; in accoglimento dell'appello incidentale del condominio e in riforma della sentenza del Tribunale, dichiarava i due condomini decaduti dal diritto di proporre impugnazione avverso le suddette delibere per decorrenza del termine di legge, perche’ i vizi dedotti erano da inquadrare nell'ambito dell'annullabilita’ e non della nullita’ delle delibere. In particolare la Corte d'appello riteneva il vizio di omessa comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea vizio del procedimento rientrante nell'annullabilita’, e le delibere di ripartizione in concreto delle spese condominiali, anche se adottate in violazione dei criteri legali o convenzionali, annullabili, in quanto rientranti nell'esercito delle attribuzioni assembleari ex art. 1135 c.c., dovendo la loro impugnazione avvenire entro il termine di decadenza previsto dall'art. 1137 c.c., non rispettato. I condomini M. e C. hanno chiesto la cassazione di detta sentenza, formulando tre motivi di censura. Il condominio ha resistito con controricorso. La seconda sezione civile, con ordinanza del 18 novembre 2003, ha rilevato la presenza di orientamenti giurisprudenziali divergenti in ordine alla riconducibilita’ dei vizi delle delibere assembleari nell'ambito della nullita’ o annullabilita’. Per la composizione del contrasto, il Primo Presidente, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, c.p.c. ha rimesso la questione alle sezioni unite. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso contiene tre motivi. a) Il primo motivo riguarda la violazione dell'art. 1136, sesto comma, c.c. Affermano i ricorrenti che dalla lettera della legge, secondo cui "l'assemblea non puo’ deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla 195 riunione", deriverebbe che la delibera stessa e’ nulla e non annullabile, qualora l'assemblea deliberi senza che anche uno solo dei condomini sia stato invitato alla riunione. b) Il secondo motivo denuncia la falsa applicazione dell'art. 1137, secondo e terzo commi, c.c. Premesso di aver dedotto con i motivi d'appello l'omissione nel verbale dei nominativi dei condomini presenti (ovvero assenti, assenzienti e dissenzienti), dei valori dei millesimi e dell'entita’ delle spese deliberate ed approvate, i ricorrenti sostengono la nullita’ di tali delibere e non l'annullabilita’, che la Corte d'appello avrebbe ritenuto incorrendo nella falsa applicazione dell'art. 1137 cit. In particolare sottolineano che il verbale deve contenere gli elementi indispensabili per il riscontro della validita’ della costituzione assembleare: l'indicazione dei condomini e dei millesimi sono essenziali ai fini della verifica della prescritta maggioranza ex art. 1136 c.c. c) Il terzo motivo concerne la violazione dell'art. 1123, terzo comma, c.c. I ricorrenti assumono che, essendo state poste a loro carico spese - quali la tassa di occupazione del suolo pubblico, lavori straordinari per posti auto e per un ascensore - che dovevano essere a carico solo dei condomini che ne traevano utilita’, la delibera e’ nulla. 2. I motivi sono stati contestati dal condominio che, dopo aver evidenziato rispetto al primo che i ricorrenti nei precedenti gradi di giudizio non si sono mai doluti della mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea, ha sostenuto che, comunque, tutte le dedotte ipotesi sono riconducibili nell'ambito dell'annullabilita’ e non della nullita’. 3. E' bene premettere, per quanto riguarda il primo motivo, che la questione della mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea e’ entrata nel thema decidendum, evidentemente perche’ ritenuta strettamente connessa con quella della mancata indicazione dei nominativi dei condomini, tant'e’ che di essa espressamente si occupa la sentenza impugnata (fine pag. 5, inizio pag. 6), donde l'infondatezza del profilo di inammissibilita’ prospettato dal condominio. 4. Il contrasto giurisprudenziale rilevato con l'ordinanza di remissione e’ se comportino la nullita’ o la annullabilita’ della delibera: a) la mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea, anche ad un solo condomino; b) l'omessa indicazione, nel verbale, dei condomini presenti e dell'entita’ delle spese deliberate e approvate; c) l'errata ripartizione delle spese. 5. Prima di procedere all'esame del contrasto, e’ opportuno effettuare una, sia pur sintetica, ricognizione dell'orientamento della Corte e della dottrina in tema di nullita’ e annullabilita’ delle delibere dell'assemblea condominiale. 5.1. La Corte, in generale, ha affermato che sono da ritenersi nulle le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea o alla formazione della volonta’ della prescritta maggioranza; quelle con maggioranze inferiori alle prescritte; le delibere prive degli elementi essenziali; quelle adottate con maggioranza inesistente, apparente o inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale; le delibere con oggetto impossibile o illecito, a volte specificandolo come oggetto contrario all'ordine pubblico, o alla morale, o al buon costume; le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea; le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi 196 comuni o sulla proprieta’ esclusiva di ognuno dei condomini; le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto. 5.2. Nell'ambito della categoria delle delibere contrarie alla legge o al regolamento condominiale, la Corte ha affermato che sono da ritenersi annullabili quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea; quelle genericamente affette da irregolarita’ nel procedimento di convocazione; le delibere viziate da eccesso di potere o da incompetenza, che invadono cioe’ il campo riservato all'amministratore; le delibere che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto. 6.1. In particolare, premesso che l'art. 1137 c.c. ha un'ampia portata ma non si riferisce a quelle decisioni assembleari che sono senza effetto alcuno in forza di principi generali indiscutibili, e percio’ attaccabili in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, alcuni autori ritengono nulle le delibere prive dei requisiti essenziali, in quanto prese da assemblee non regolarmente costituite (anche perche’ non sono stati invitati tutti i condomini) o con maggioranze inesistenti o apparenti; ovvero quelle aventi un oggetto impossibile o illecito; quelle esorbitanti dalla sfera dei compiti dell'assemblea; quelle che ledono i diritti di ciascun condomino sulle cose e servizi comuni o sul proprio piano o appartamento. Considerano annullabili le delibere affette da vizi formali, prese in violazioni di prescrizioni convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione e di informazione dell'assemblea. 6.2. Altri autori, operando un accostamento con i principi generali e le disposizioni dettate in tema di delibere societarie, ritengono nulle le delibere aventi ad oggetto materie sottratte alla competenza della assemblea, la ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli legali, contenuto illecito o impossibile, la menomazione dei diritti spettanti a ciascun condomino, e quelle contrarie a norme imperative. Sono, invece, annullabili le delibere assunte a seguito di un procedimento viziato, ovvero inficiate da eccesso di potere perche’ invadono il campo riservato alla competenza dell'amministratore. 7. Il denunciato contrasto e’ sintetizzabile nei seguenti termini. 7.1. Sull'omessa comunicazione dell'avviso, sino al 2000 e’ rimasto fermo il principio, affermato dalla Corte in numerose pronunce (v. fra le tante: Cass. 1° ottobre 1999, n. 10886; 19 agosto 1998, n. 8199; 12 giugno 1997, n. 5267; 27 giugno 1992, n. 8074; 9 dicembre 1987, n. 9109; 15 novembre 1977, n. 4984; 16 aprile 1973, n. 1079; 12 novembre 1970, n. 2368), della nullita’ della delibera. In alcune sentenze, la sanzione della nullita’ e’ espressamente ricondotta alla difettosa costituzione dell'organo deliberante, risultando irrilevante l'incidenza o meno del voto sulle prescritte maggioranze (Cass. 12 febbraio 1993, n. 1780; 15 novembre 1977, n. 4984). In altre la nullita’ e’ ricondotta all'esigenza che tutti i condomini siano preventivamente informati della convocazione dell'assemblea, cosi’ da poter essere partecipi del procedimento di formazione della delibera stessa, con la conseguenza che non determinano la nullita’ le mere irregolarita’, quali la convocazione ad opera di persona non qualificata (Cass. 2 marzo 1987, n. 2184) o l'incompletezza dell'ordine del giorno (Cass. 21 giugno 1977, n. 4035) che danno luogo alla 197 sola annullabilita’. A volte la nullita’ e’ fatta discendere espressamente dall'art. 1136, sesto comma, c.c. 7.2. A partire dal 2000, cambiando orientamento, la Corte (Cass. 5 gennaio 2000, n. 31; 5 febbraio 2000, n. 1292; 1° agosto 2003, n. 11739) afferma che la mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale ad un condomino determina la semplice annullabilita’ della delibera. Il mutamento di indirizzo della Corte trae argomento: a) dal combinato disposto degli artt. 1105, terzo comma, e 1109 c.c., in base al quale la mancata preventiva informazione dei partecipanti alla comunione determina semplicemente l'impugnabilita’, nel termine di decadenza di trenta giorni, delle deliberazioni assunte da parte dei componenti della minoranza dissenziente; b) dal parallelismo e dall'identita’ di ratio (individuata nell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici, messa a rischio dalla possibilita’ di dedurre in ogni tempo la nullita’) esistente tra la disciplina in materia di societa’ di capitali (artt. 2377, 2379 c.c., logicamente prima della riforma introdotta col d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, di cui si dira’ in seguito) e quella in materia condominiale (art. 1137 c.c.) in tema di delibere dell'assemblea (dei soci, nel primo caso, e dei condomini, nel secondo), la prima delle quali espressamente limita le ipotesi di nullita’ delle delibere assunte dall'assemblea dei soci ai soli casi dell'impossibilita’ e dell'illiceita’ dell'oggetto. 7.3. In particolare, i vizi dell'oggetto come causa di nullita’ sono ricollegati con i confini posti in materia di condominio al metodo collegiale e al principio di maggioranza. Secondo la Corte «tanto la impossibilita’ giuridica, quanto la illiceita’ dell'oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all'assemblea, considerato che la prima consiste nella inidoneita’ degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l'assetto stabilito in concreto, e che la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, alle quali l'assemblea non puo’ derogare, ovvero con la lesione dei diritti individuali, attribuiti ai singoli dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni». Di conseguenza la formula dell'art. 1137 c.c. deve interpretarsi nel senso che per «"deliberazioni contrarie alla legge" si intendono le delibere assunte dall'assemblea senza l'osservanza delle forme prestabilite dall'art. 1136 (ma pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.)». Inoltre, «mentre le cause di nullita’, afferendo all'oggetto, raffigurano le uniche cause di invalidita’ riconducibili alla "sostanza" degli atti, alle quali l'ordinamento riconosce rilevanza e, costituendo vizi gravi, non sono soggette a termine per l'impugnazione; invece «sono inficiate da un vizio di forma le deliberazioni quando l'assemblea decide senza l'osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volonta’ collettiva per gestire le cose comuni» e, attenendo al procedimento di formazione, producono un vizio non grave che, se non fatto valere nei termini prescritti, non inficia gli atti. Le diverse cause di invalidita’ sono state, quindi, ricondotte al tipo di interesse leso: interessi sostanziali inerenti all'oggetto delle delibere, per la nullita’; strumentali, in quanto connessi con le regole procedimentali relative alla formazione degli atti, per l'annullabilita’. 198 8. Con riferimento al verbale delle delibere dell'assemblea dei condomini, un vero e proprio contrasto giurisprudenziale non sembra emergere, registrandosi soltanto alcune puntualizzazioni e specificazioni. 8.1. Infatti, la Corte, in alcune pronunce (v. ex plurimis: Cass. 22 maggio 1999, n. 5014; 19 ottobre 1998, n. 10329) ha espressamente affermato l'annullabilita’ ex art. 1137 c.c. della delibera il cui verbale contiene delle omissioni, precisando che la redazione del verbale costituisce una delle prescrizioni di forma che devono essere osservate al pari delle altre formalita’ richieste dal procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, etc.), la cui inosservanza comporta l'impugnabilita’ della delibera, in quanto non presa in conformita’ della legge. 8.2. Principio che si ritrova implicitamente alla base di altre pronunce, dove la Corte ha affermato l'annullabilita’ delle deliberazioni assembleari nel caso in cui non siano individuati, e riprodotti nel relativo verbale, i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, ed i valori delle rispettive quote millesimali (Cass. 22 gennaio 2000, n. 697; 29 gennaio 1999, n. 810). 8.3. E' stato pure affermato che la sottoscrizione del presidente subentrato in luogo di quello che all'inizio ha presieduto concreta una irregolarita’ formale, comportante annullabilita’ (Cass. 29 ottobre 1973, n. 2812); e, in generale, la stessa redazione per iscritto del verbale, prescritta dall'art. 1136, ultimo comma, c.c., non e’ prevista a pena di nullita’, tranne il caso in cui la delibera incida su diritti immobiliari (Cass. 16 luglio 1980, n. 4615). 9. Parimenti per quanto riguarda le delibere in materia di ripartizione delle spese (se si esclude l'isolata e risalente pronuncia n. 1726 del 4 luglio 1966) non sembra sussistere contrasto nella giurisprudenza, atteso che la Corte - a partire del 1980 - ha costantemente distinto, sulla base di un medesimo criterio, le ipotesi di nullita’ (v. Cass. 9 agosto 1996, n. 7359; 15 marzo 1995, n. 3042; 3 maggio 1993, n. 5125; 19 novembre 1992, n. 12375; 5 dicembre 1988, n. 6578; 21 maggio 1987, n. 4627; 5 ottobre 1983, n. 5793; 5 maggio 1980, n. 29289) da quelle di annullabilita’ (cfr. Cass. 9 febbraio 1995, n. 1455; 8 giugno 1993, n. 6403; 1° febbraio 1993, n. 1213; 5 agosto 1988, n. 4851; 8 settembre 1986, n. 5458), in molti casi facendo espresso riferimento all'art. 1123 c.c. 9.1. In particolare, partendo dal rilievo che le attribuzioni dell'assemblea ex art. 1135 c.c. sono circoscritte alla verificazione ed all'applicazione in concreto dei criteri stabiliti dalla legge e non comprendono il potere di introdurre deroghe ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe, venendo ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino di concorrere nelle spese per le cose comuni dell'edificio condominiale in misura non superiore a quelle dovute per legge, possono conseguire soltanto ad una convenzione cui egli aderisca, la Corte (cfr. Cass. 9 agosto 1996, n. 7359; 15 marzo 1995, n. 3042; 3 maggio 1993, n. 5125; 19 novembre 1992, n. 12375) ha affermato la nullita’ della delibera che modifichi i suddetti criteri di spesa (sia nell'ipotesi di individuazione dei criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 c.c., sia nell'ipotesi di cambiamento dei criteri gia’ fissati in precedenza), 9.2. Conseguentemente la Corte ha riconosciuto l'annullabilita’ della delibera nel caso di violazione dei criteri gia’ stabiliti quando vengono in concreto 199 ripartite le spese medesime (Cass. 9 febbraio 1995, n. 1455; 8 giugno 1993, n. 6403; 1° febbraio 1993, n. 1213). 10. Il contrasto, che come evidenziato riguarda essenzialmente l'omessa comunicazione dell'avviso di convocazione, ex art. 66, comma 3, disp. att. c.c., ha visto divisa anche la dottrina, la quale ha assunto posizioni di segno diverso sia rispetto all'utilizzo degli artt. 1105 e 1109 c.c., sia rispetto al parallelismo e identita’ di ratio con la disciplina in materia di societa’ di capitali. 10.1. Alcuni autori dubitano della pertinenza del richiamo all'art. 1105, comma 3, c.c. in tema di comunione: l'omessa informazione preventiva sull'oggetto della deliberazione non puo’, infatti, essere assimilata senz'altro all'omessa convocazione. Cio’ per la decisiva considerazione che il principio maggioritario in tanto puo’ operare in quanto tutti gli aventi diritto siano posti in condizione di intervenire in assemblea per partecipare alla discussione e alla votazione. Nei riguardi del condomino non convocato la riunione assembleare e le relative deliberazioni sarebbero res inter alios acta. Ne’ puo’ dirsi, sotto altro profilo, che la convocazione di un condomino attenga, comunque, solo al procedimento da osservare per la formazione della volonta’ assembleare, determinando l'omissione un error in procedendo. 10.2. Secondo altri autori e’ stato individuato un riscontro normativo direttamente afferente al vizio di convocazione ed espressamente regolato come annullabilita’ in un settore non distante dal regime condominiale. Inoltre, il richiamo risulta utile per la sua diretta attinenza alla ricostruzione della disciplina codicistica del metodo collegiale: nella comunione, come nel condominio, le decisioni comuni vengono assunte in collegio e l'obbligo di informativa sulle materie oggetto di discussione e’ finalizzato al successivo svolgimento dell'assemblea, di cui l'art. 1105 c.c. prescrive in definitiva la convocazione; in tal senso e’ di rilievo l'azione di annullabilita’ prevista dall'art. 1109 c.c. quale rimedio idoneo contro le decisioni illegittime della maggioranza, poiche’ nel condominio il metodo collegiale riveste la medesima rilevanza che nella comunione ordinaria, ove pure e’ posto a tutela dei diritti delle minoranze. 10.3. Quanto al parallelismo e identita’ di ratio con la disciplina in materia societaria, un orientamento dottrinario distingue tra la «mancata convocazione di alcuni soltanto dei soci» e «mancata convocazione dei soci» (ovvero mancata convocazione dell'assemblea) non seguita da assemblea totalitaria, ritenendo che, mentre in quest'ultimo caso ricorre un'ipotesi di nullita’ radicale (rectius: di inesistenza), nel primo, invece, una situazione di semplice annullabilita’, ai sensi dell'art. 2377 c.c. Peraltro, in generale, si e’ affermato che il richiamo alla disciplina della societa’ per azioni non sembra corretto, essendo il condominio pervaso dalla logica proprietaria a differenza della materia societaria, dove l'interesse del gruppo trova spesso maggiore tutela dell'interesse del singolo sacrificato in funzione dello scopo comune. 10.4. Altro orientamento dottrinario, al contrario, ritiene condivisibile il parallelismo con la disciplina societaria, avuto riguardo alle invocate esigenze di certezza nei rapporti tra i condomini e tra il condominio e terzi. Vi e’ chi sostiene che nel condominio (differentemente dalla disciplina positiva dei contratti e di quella in materia di societa’) l'art. 1137 c.c. assoggetterebbe ad un unico regime decadenziale le violazioni della legge e del regolamento, senza 200 possibilita’ di distinzione tra annullabilita’ e nullita’. Non manca chi, partendo da una rilettura dell'art. 1139 c.c., che per quanto non espressamente previsto in materia di condominio rinvia alle norme sulla comunione, e dal presupposto che tale norma non e’ di chiusura (altrimenti sarebbe «di clausura»), ma consente un rinvio interno fra sistemi laddove sussistano elementi di sufficiente omogeneita’, condividendo le cosiddette concezioni miste del condominio, giunge a condividere la concezione della "complessita’ sistematica", che vede nel condominio «un sistema di sistemi», e dunque «un istituto giuridico che trova la sua consistenza nell'avvalersi di regole gia’ proprie di altri istituti, quali quelli attinenti ai rapporti fra parti di proprieta’ individuale e parti comuni, quelle relative all'assemblea, quelle infine che si riferiscono all'amministratore». E, quindi, con riferimento alla modalita’ di convocazione e gestione dell'assemblea, sono da prendersi in considerazione, secondo l'autore, anche le norme del codice dettate per la societa’ per azioni. 11. Ritengono le Sezioni Unite, al fine di risolvere la questione di diritto e definire il contrasto, che debba privilegiarsi l'interpretazione secondo la quale la mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, anche ad un solo dei condomini, comporta non la nullita’, ma l'annullabilita’ della delibera condominiale, in base alle seguenti considerazioni. 11.1. Conviene premettere che in tema di condominio negli edifici, il codice non contempla la nullita’. L'art. 1137 c.c., al comma 2, espressamente stabilisce che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente puo’ fare ricorso all'autorita’ giudiziaria; al comma 3 aggiunge che il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data di deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti. Il breve termine di decadenza e la individuazione delle persone legittimate (ben poche) alla impugnazione dimostrano essere contemplata una ipotesi di annullabilita’, posto che sia in tema di negozio (artt. 1441 e 1442 c.c.), sia in tema di delibere societarie (art. 2377, comma 20, c.c.), il termine per la impugnazione e le persone legittimate a proporre l'azione contrassegnano le ipotesi di annullabilita’; al contrario, per le ipotesi di nullita’ tanto in tema di negozio (art. 1421 e 1422 c.c.) quanto in tema di delibere societarie (art. 2379 c.c.), l'azione di nullita’ non e’ soggetta a termine e, allo stesso tempo, e’ legittimato ad esercitarla chiunque vi ha interesse, inoltre la nullita’ puo’ essere rilevata d'ufficio dal giudice. 11.2. Dottrina e giurisprudenza ravvisano l'essenza della nullita’ nella mancanza o nella grave anomalia di qualche elemento intrinseco dell'atto, tale da non consentire la rispondenza alla figura tipica individuata dall'ordinamento. La nullita’ e’ considerata lo strumento con cui la legge nega fondamento a quelle manifestazioni di volonta’ attraverso le quali si realizza un contrasto con lo schema legale e con gli interessi generali dell'ordinamento. Di conseguenza, attraverso la sanzione della nullita’, l'ordinamento, esprimendo un giudizio di meritevolezza, nega la propria tutela a programmazioni che non rispondono a valori fondamentali. 11.3. L'art. 1418 c.c. elenca una serie di ipotesi in cui il contratto, per gli specifici vizi in esso previsti - la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 201 1325, l'illiceita’ della causa, l'illiceita’ dei motivi nel caso indicato dall'art. 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'art. 1346 - viene espressamente sanzionato con la nullita’. Altre norme, poi, prevedono tale sanzione ora nello stesso codice civile, ora in leggi specifiche (cfr. art. 1418, comma 3). 11.4. Alcune norme di legge vietano il compimento di determinati negozi, senza pero’ stabilire la specifica sanzione in caso di inosservanza del relativo divieto. Si parla in tali ipotesi di nullita’ c.d. virtuale, argomentandosi dal 1° comma dell'art. 1418 c.c., il quale dispone che «il contratto e’ nullo quando e’ contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente». Cio’ vuol dire che se la legge dispone diversamente, ossia una diversa sanzione (ad esempio, l'annullabilita’), sara’ questa sanzione a doversi applicare; se, pero’, non e’ prevista una sanzione per la violazione di una precisa norma imperativa, dovra’ applicarsi quella della nullita’, in quanto cio’ e’ detto proprio nel 1° comma dell'art. 1418. 11.5. Regole esattamente inverse, invece, valgono in materia testamentaria, societaria e del lavoro: in tali ambiti, infatti, e’ l'annullabilita’ ad essere virtuale, in quanto le ipotesi di nullita’ sono specificamente limitate a singole e particolari ipotesi (per il testamento cfr. l'art. 606 c.c.; per le societa’ di capitali l'art. 2332 c.c.; per il rapporto di lavoro l'art. 2126 c.c.). 12. In materia di condominio, la nullita’ non prevista e’ piuttosto una creazione della dottrina e della giurisprudenza per impedire l'efficacia definitiva delle delibere mancanti degli elementi costitutivi (o lesive dei diritti individuali); per la verita’, fissare l'efficacia definitiva di una delibera gravemente viziata per difetto di tempestiva impugnazione non sembra giusto. In assenza di specifica previsione normativa, sembra logico doversi ammettere la nullita’ soltanto nei casi piu’ gravi. 12.1. Al riguardo, nell'ambito del condominio negli edifici acquista rilevanza la distinzione tra momento costitutivo e momento di gestione. Invero, l'espressione «condominio negli edifici» designa tanto il diritto individuale sulle cose, gli impianti ed i servizi comuni attribuito ai proprietari dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, quanto l'organizzazione degli stessi proprietari, cui e’ affidata la gestione delle parti comuni. I vizi riscontrabili nel momento costitutivo, che riflette l'insorgenza del diritto individuale e la stessa situazione soggettiva di condominio, con conseguente rilevanza della volonta’ individuale di ogni singolo partecipante, onde il principio e’ quello dell'autonomia, che si avvale dello strumento negoziale, certamente sono piu’ gravi di quelli verificabili nel momento di gestione, che riguarda l'organizzazione del condominio per quanto attiene le sole cose comuni, dove vige il metodo collegiale e il principio maggioritario, che comportano la subordinazione della volonta’ dei singoli al volere dei piu’. 12.2. Come sopra accennato, a favore della nullita’ della delibera per la mancata convocazione di un solo condomino si adducono due argomenti. Anzitutto, la lettera dell'art. 1136, comma 6, c.c., secondo cui l'assemblea non puo’ deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione, mediante comunicazione di cui all'art. 66, comma 3, disp. att. c.c. Donde l'inferenza che, in mancanza della convocazione anche di un solo condominio, non sussisterebbe il potere dell'assemblea di deliberare. Il 202 principio maggioritario - si aggiunge - in tanto puo’ operare in quanto tutti i condomini siano stati posti in condizione di intervenire in assemblea, di partecipare alla discussione e alla votazione, D'altra parte, si conclude, la convocazione non attiene al solo procedimento, perche’ nei confronti del non convocato il procedimento non inizia e quindi non puo’ verificarsi alcun error in procedendo: la convocazione attiene alla sostanza della applicazione del principio maggioritario. 12.3. Gli argomenti non persuadono e nel sistema si rinvengono considerazioni contrarie di maggior peso. Premesso che il procedimento di convocazione e’ unico e non si frantuma in tanti procedimenti quanti sono i singoli condomini da convocare, la lettera dell'art. 1136, comma 6, c.c. non raffigura un ostacolo insormontabile; la norma puo’ essere intesa, con riferimento alla funzione, nel senso che la proposizione secondo cui l'assemblea non puo’ "validamente" deliberare se tutti i condomini non sono stati convocati, deve intendersi nel senso che, in difetto di convocazione di un condomino, la delibera non e’ definitivamente valida, essendo suscettibile di impugnazione (nel prescritto termine di trenta giorni). 12.4. La delibera approvata con il principio maggioritario non va confusa con la statuizione assunta con il negozio plurilaterale. Mentre il negozio plurilaterale non e’ valido, se non vi partecipano tutte le parti necessarie, contrassegno precipuo del principio maggioritario e’ la imputazione all'intero collegio di quello che e’ il volere della maggioranza; quindi riconoscere l'efficacia della deliberazione sulla base delle maggioranze prescritte e non necessariamente sul fondamento della volonta’ di tutti i partecipanti. Se in base al metodo collegiale e al principio maggioritario si vincolano anche tutti i condomini assenti o dissenzienti non deve menar scandalo la mancata convocazione di un condomino il quale, peraltro, non resta privo di tutela, poiche’ puo’ impugnare quando la delibera gli viene comunicata. 12.5. Rileva poi la portata del collegato disposto degli artt. 1105, comma 3, e 1109, n. 2, e p. ult., c.c., che, in tema di comunione, stabilisce l'impugnazione della delibera entro il termine di decadenza di trenta giorni nel caso di omessa preventiva informazione a tutti i partecipanti. E' pur vero che l'art. 1105 c.c. parla di preventiva informazione e non di convocazione. La terminologia differente si spiega con la considerazione che nella comunione non e’ prevista l'assemblea, ma la semplice riunione dei comproprietari interessati. Tuttavia la sostanza della norma e’ che il difetto di informazione - certamente assimilabile alla omessa convocazione - non configura una causa di nullita’, ma di semplice annullabilita’. Da qui risulta ragionevole dubitare che l'art. 1136, comma 6, c.c., disciplinando la stessa fattispecie e usando un formula consimile, alla mancata convocazione di un condomino ricolleghi non la annullabilita’ ma la conseguenza piu’ grave della nullita’. 13. A queste considerazioni specifiche conviene aggiungere argomenti desunti dalla teoria degli atti giuridici. Come sopra detto, in generale, si considera nullo l'atto quando manca ovvero e’ gravemente viziato un elemento costitutivo, previsto secondo la configurazione normativa. Pertanto, a causa dell'assenza ovvero del grave vizio dell'elemento considerato essenziale, l'atto si considera inidoneo a dar vita alla 203 nuova situazione giuridica, che il diritto ricollega al tipo legale, in conformita’ con la sua funzione economico-sociale. Per contro, si considera annullabile l'atto in presenza di carenze o di vizi ritenuti meno gravi, secondo la valutazione compiuta dall'ordinamento. Annullabile e’, dunque, l'atto che, non mancando degli elementi essenziali del tipo, presenta vizi non gravi, che lo rendono idoneo a dare vita ad una situazione giuridica precaria, che puo’ essere rimossa. 13.1. In tema di deliberazioni delle societa’ di capitali, come e’ noto, le cause di nullita’ sono circoscritte (art. 2379 c.c.), in funzione della certezza dei rapporti societari, i quali riguardano un numero cospicuo di persone. Le stesse esigenze di certezza dei rapporti si rinvengono in tema di condominio negli edifici, dove i rapporti riguardano i condomini, che raffigurano un numero di persone maggiore di quelle che al singolo contratto sono interessate. Pertanto, appare corretto e coerente con i principi limitare le cause di nullita’ ai vizi afferenti alla sostanza degli atti, vale a dire alla impossibilita’ o alla illiceita’ dell'oggetto. Tanto la impossibilita’ giuridica quanto l'illiceita’ dell'oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all'assemblea, posto che la prima consiste nella inidoneita’ degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l'assetto stabilito in concreto, e la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, dalle quali l'assemblea non puo’ derogare, ovvero con la lesione dei diritti individuali, attribuiti ai condomini dalla legge, dagli atti di acquisto o dalle convenzioni. 13.2. La formula dell'art. 1137 c.c. deve interpretarsi nel senso che per le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio si intendono le delibere assunte dall'assemblea senza l'osservanza delle forme prescritte dall'art. 1136 c.c. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c. Sono inficiate da un vizio di forma le deliberazioni quando l'assemblea decide senza l'osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volonta’ collettiva per gestire le cose comuni. Pertanto, se gli stessi condomini interessati ritengono che dal provvedimento approvato senza l'osservanza delle forme prescritte non derivi loro un danno, manca il loro interesse a chiedere l'annullamento. Il difetto di impugnazione in termine puo’ assumere significato di personale successiva adesione alla delibera. 13.3. Sul punto e’ opportuno soffermarsi brevemente. Per la verita’, la configuratone della mancata convocazione del condomino come vizio procedimentale, da cui ha origine la semplice annullabilita’, non significa privare della tutela il condomino non convocato. Invero, essendogli riconosciuto il potere di impugnare nel termine di trenta giorni dalla comunicazione, egli ha modo di far valere le sue ragioni. Peraltro, la configurazione proposta esclude il rischio che le delibere assembleari possano essere impugnate anche dopo il trascorrere di un lunghissimo tempo, sol perche’ un requisito formale non e’ stato osservato, con conseguenze gravissime sulla gestione del condominio. 204 14. Un ultimo argomento proviene dal nuovo assetto dell'art. 2739 c.c. stabilito dalla riforma societaria. 14.1. In attuazione dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge-delega n. 366/2001, il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nel regolare le assemblee della societa’ per azioni, ha dettato nuove norme sui vizi delle deliberazioni, modificando gli artt. 2377, 2378 e 2379 c.c. e aggiungendo due nuovi artt., 2739-bis e 2739-ter, oltre l'art. 2734 bis. Il nuovo sistema ha innovato, in primo luogo, il regime di invalidita’ degli atti, sotto il duplice profilo della causa e degli effetti, in entrambe le fattispecie di annullabilita’ e nullita’. In secondo luogo, ha modificato il procedimento di impugnazione delle delibere invalide, in coerenza con le nuove norme sul processo in materia di diritto societario, e affiancando all'azione reale una speciale azione personale e risarcitoria dei danni causati dalla deliberazione viziata. 14.2. Nel sistema adottato, la regola generale, come nel precedente assetto, e’ quella secondo cui la violazione di legge o di statuto induce la annullabilita’. Invece, la nullita’ consegue ad una serie di violazioni particolarmente gravi della legge, e la relativa disciplina, anziche’ richiamare - come faceva il vecchio art. 2379 - le regole generali sulla nullita’ dei contratti, di cui agli artt. 1421, 1422 e 1423 c.c., contiene disposizioni particolari e introduce nuove ipotesi. Le ipotesi di nullita’ sono tre (art. 2379) e per ciascuna e’ dettata una disciplina intesa al contenimento della fattispecie e delle sue conseguenze; la disciplina comune consiste nella impugnabilita’ da parte di chiunque vi abbia interesse nel termine di tre anni (con l'eccezione di ipotesi particolari) e alla rilevabilita’ d'ufficio, nei casi e nei termini previsti. 14.3. Secondo i primi commenti la riforma avrebbe privilegiato l'interesse della societa’ alla stabilita’ delle delibere e l'esigenza del mercato alla stabilita’ dei rapporti giuridici, senza pregiudicare peraltro l'interesse dei singoli soci a non subire dei pregiudizi per l'illegalita’ delle delibere sociali. 15. Avuto riguardo alle considerazioni svolte e ai principi espressi, queste Sezioni Unite ritengono che debbano qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprieta’ esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto. Debbano, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarita’ nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto. 16. Il contrasto giurisprudenziale, pertanto, va risolto affermandosi che la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale comporta non la nullita’, ma l'annullabilita’ della delibera condominiale, che se non viene impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137, 3° comma, c.c. - decorrente per i condomini assenti 205 dalla comunicazione e per i condomini dissenzienti dalla sua approvazione - e’ valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio. 17. Il principio comporta, quindi, il rigetto del primo motivo di ricorso. 18. Anche il secondo motivo e’ da rigettare, perche’ (come sopra detto) questa Corte ha costantemente affermato l'annullabilita’ ex art. 1137 c.c. della delibera il cui verbale contiene delle omissioni, anche relative alla mancata individuazione dei singoli condomini assenzienti, dissenzienti, assenti e al valore delle rispettive quote (Cass. 22 gennaio 2000, n. 697; 29 gennaio 1999, n. 810). 19. Infine pure il terzo motivo e’ infondato, perche’ la delibera ha riguardato non la determinazione e fissazione dei criteri legali ovvero convenzionali per la ripartizione delle spese, ma, nell'ambito di tali prefissati criteri, la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative a lavori straordinari ritenuti afferenti a beni comuni (posti auto o vano ascensore) e tassa di occupazione di suolo. E' stato sempre riconosciuto che la delibera, assunta nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135, nn. 2 e 3, c.c. relativa alla ripartizione in concreto delle spese condominiali, ove adottata in violazione dei criteri gia’ stabiliti, deve considerarsi annullabile, non incidendo sui criteri generali da adottare nel rispetto dell'art. 1123 c.c., e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza (trenta giorni) previsto dall'art. 1137, comma ultimo, c.c. (v. Cass. 9 febbraio 1995, n. 1455; 8 giugno 1993, n. 6403; 1° febbraio 1993, n. 1213). 20. In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato, con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 2.600,00, di cui euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali e accessori come per legge. 206 Immissioni: proprietà, esigenze della produzione e tutela del diritto alla salute SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE (PRESIDENTE F. SABATINI, RELATORE G.B. PETTI) SENTENZA N. 8420 DELL'11 APRILE 2006 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione del 25 maggio 1983 i coniugi Z. Luigi e P. Maria Teresa convenivano dinanzi al tribunale di Ascoli Piceno, V. Maria, proprietaria di un fondo e di una azienda confinante, e proponevano una serie di domande, anche di natura risarcitoria, dirette da un lato a rendere stabile una scarpata esistente sulla linea di confine del fondo e dall'altro ad eliminare le immissioni di odori nauseanti provenienti dall'allevamento di polli e di altro bestiame, gestito dalla convenuta. La V. si costituiva contestando il fondamento delle pretese ed in via riconvenzionale chiedeva la demolizione della sovrastante vasca di raccolta di acque piovane ed il risarcimento dei danni provocati dalla franatura della scarpata, nonché la condanna per la realizzazione delle opere di consolida mento. La lite era istruita con prove orali e documentali e l'espletamento di ben tre consulenze tecniche di ufficio. Con sentenza del 19 novembre 1997 il Tribunale di Ascoli Piceno accoglieva solo in parte la domanda proposta dai coniugi Z. e condannava la V. al risarcimento dei danni, liquidati ai V. attuali, nella misura di £ 46.553.333, oltre interessi dalla domanda al saldo VcIevalutativ. di £ 23 milioni. In relazione alla costruzione del muro di contenimento il Tribunale ripartiva tra le parti le responsabilità della frana, nella misura di 1/3 a carico degli attori e di 2/3 a carico della V.. Accoglieva la domanda riconvenzionale della V. in ordine ai danni cagionati dalla frana del 1992 e condannava gli attori al pagamento dei relativi danni (v. amplius in dispositivo); compensava tra le parti le spese del giudizio. Contro la decisione proponevano appello principale il V., in relazione alla instabilità della scarpata ed alle opere di consolidazione, ed appello incidentale i coniugi Z., in ordine al riparto delle responsabilità, alle immissioni ed ai relativi danni. Con sentenza del 20 settembre 2001 la Corte di appello di Ancona così decideva: rigetta l'appello principale della V. ed in accoglimento per quanto di ragione dell'appello dei coniugi Z. ordina alla V. la immediata cessazione dello allevamento dì galline e la condanna al risarcimento dei danni, liquidati in £ 20 milioni per ciascun coniuge; condanna la V. alla rifusione dei due gradi del giudizio e conferma nel resto la impugnata sentenza. Contro la decisione ricorre la V. proponendo due motivi di censura illustrati da memoria; resistono le controparti con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso non merita accoglimento in ordine ai dedotti motivi. NEL PRIMO MOTIVO si deduce la omessa motivazione su punti decisivi della controversia, ovvero la contraddittorietà e insufficienza della stessa. 207 Le censure in particolare riguardano due punti: a. il punto della causalità ( della frana, indi-cata nel supplemento della CTU (4 marzo 1994) secondo un doppio fattore, sia per la naturale inclinazione di coinvolgimento delle acque piovane, sia per colpa dei coniugi Z. che avevano lasciato aperto a lungo il rubinetto della vasca di contenimento delle acque provocandone la tracimazione delle stesse; b. un secondo punto decisivo concerne la valutazione della utilità del muro di contenimento e la legittimità della sua collocazione sul terreno della V. In ordine alla prima censura si rileva che essa difetta di autosufficienza e di decisività: di autosufficienza poiché la consulenza è interpolata e la causalità non appare indicata chiaramente in termini alternativi o di concorrenza; di decisività in quanto il ragionamento della Corte di appello si fonda sull'analisi degli esiti delle varie consulenze e perviene al convincimento di un concorso di cause e di colpe imputabili in maniera prevalente alla V. e minore per i vicini del fondo. (Vedi ff 6 e 7 della motivazione) . Si tratta dunque di un prudente apprezzamento di fatto,che si avvale delle indicazioni tecniche peritali, ed è congruamente motivato senza errori di tecnica o di logica giuridica. In ordine alla seconda censura si osserva che la costruzione del muro giova ad entrambi i contendenti, ed è stata disposta in prevenzione di futuri danni, onde la collocazione del muro sulla proprietà della V. è misura di prevenzione esigibile e realizzabile con 1' assenso della medesima, anche in relazione alle autorizzazioni necessarie per la sua edificazione. Eventuali impedimenti posti dalla V. la renderanno ci vilmente responsabile per ulteriori danni. Inoltre si osserva che entrambe le parti hanno chiesto una pronuncia sulla costruzione di un muro di contenimento,sia pure in disputa sulle responsabilità. Non sussiste pertanto alcun error in iudicando sul punto. NEL SECONDO MOTIVO si deduce 1'error in iudicando per la violazione dello art.844 del codice civile. La tesi è che essendo l'attività di allevamento preesistente alla edificazione del fondo vicino, il criterio della prevenzione doveva prevalere, unitamente alle esigenze della produzione, sulle minori esigenze olfattive dei vicini. Si deduce infine la contraddittorietà della motivazione, sulla base della errata indicazione del numero della galline e sulla relativa intuizione del lezzo insostenibile. In senso contrario si osserva che la norma codificata sulle immissioni, nel prevedere la valutazione, da parte del giudice, delle esigenze della produzione, con le ragioni della proprietà, tenendo eventualmente conto della priorità di un determinato uso, è stata correttamente applicata alla fattispecie in esame, considerando anche la valenza della qualità della vita e della salute dei vicini dell'azienda, nella quale la produzione si è svolta senza la predisposizione di misure di cautela idonee ad evitare o limitare 1'inquinamento atmosferico. Si tratta di una interpretazione estensiva della norma, costituzionalmente orientata, in relazione al fattore salute, che è ormai intrinseco nella attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato (cfr. Cass. 3 febbraio 1999 n.915, Cass.4 aprile 2001 n.4963). La valutazione del fatto storico e la sua corretta sussunzione sotto la norma in esame appare dunque giuridicamente esatta, legittimando la statuizione preclusiva del prolungamento di un'attività sostanzialmente nociva alla salute dei vicini del fondo. 208 Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente alla rifusione, in favore del resistente, delle spese ed onorari del giudizio di cassazione, liquidati come in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente V. Maria a rifondere a Z. e P. Maria Teresa le spese ed onorari di questo giudizio di cassazione, che liquida in complessive Euro 4100,00 di cui euro 100,00 per spese, oltre accessori e spese generali come per legge. Roma 8 febbraio 2006. 209 CASSAZIONE – SEZIONE PRIMA CIVILE – SENTENZA 8 MARZO-29 APRILE 2006, N. 10052 PRESIDENTE OLLA – RELATORE GIUSTI MASSIMA Anche nell'appalto di opere pubbliche, stante la natura privatistica del contratto, è configurabile, in capo all'amministrazione committente, creditrice dell'opus, un dovere - discendente dall'espresso riferimento contenuto nell'art. 1206 cod. civ. e, più in generale, dai principi di correttezza e buona fede oggettiva, che permeano la disciplina delle obbligazioni e del contratto - di cooperare all'adempimento dell'appaltatore, attraverso il compimento di quelle attività, distinte rispetto al comportamento dovuto dall'appaltatore, necessarie affinché quest'ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio. In questo contesto, l'elaborazione di varianti in corso d'opera - di norma costituente una mera facoltà della P.A. (esercitabile in presenza delle condizioni previste dalla legge) - può configurarsi come espressione di un doveroso intervento collaborativo del creditore: tanto avviene allorché la modifica del progetto originario (nella specie, costruzione di un edificio scolastico) sia resa necessaria da sopravvenute disposizioni imperative, legislative e regolamentari, sulla sicurezza degli impianti, giacché, in tal caso, l'opera che fosse realizzata secondo le inizialmente progettate modalità costruttive e istruzioni tecniche esporrebbe l'appaltatore a responsabilità per eventi lesivi dell'incolumità e dell'integrità personale di terzi. Ne consegue che la perdurante, mancata consegna, da parte della stazione appaltante, benché ritualmente sollecitata, dei progetti di adeguamento dell'opera alle sopravvenute prescrizioni normative, ben può determinare impossibilità della prestazione per fatto imputabile al contraente creditore, sul quale sono destinate a ricadere le conseguenze dell'omessa cooperazione necessaria all'adempimento da parte del debitore. Svolgimento del processo 210 1. Il Tribunale di Napoli – pronunciando sulla domanda, proposta da Campa Pasquale, titolare dell’omonima impresa individuale, nei confronti del Comune di Frattaminore, per sentire dichiarare risolto, per inadempimento dell’Ente territoriale, il contratto di appalto stipulato inter partes per la costruzione di un edificio scolastico, oltre che per ottenere la condanna del committente al risarcimento dei danni, nonché sulla domanda riconvenzionale con la quale il Comune aveva chiesto che fosse dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’impresa – con sentenza depositata il 25 febbraio 2000, in accoglimento della domanda attrice, dichiarava la risoluzione del contratto (sia per il mancato pagamento, da parte del Comune, di quanto dovuto per il quinto stato di avanzamento dei lavori, sia per il mancato adeguamento del progetto, da parte del medesimo ente e nonostante l’espressa sollecitazione dell’impresa, alla normativa di legge in tema di edilizia scolastica e di sicurezza degli impianti), e condannava la Pa al pagamento della somma di lire 487.276.819, oltre interessi, nonché al pagamento delle spese di lite. 2. Su gravame del Comune committente, al quale resisteva il Ciampa, la Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 107 depositata in data 16 gennaio 2002, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale, riduceva a lire 310.597.450, oltre accessori, il debito risarcitorio del Comune, e dichiarava compensato, per la metà, la spose di entrambi i gradi del giudizio, condannando l’Ente locale al pagamento, in favore del Ciampa, dell’altra metà. 2.1. Per quanto qui rileva, la Corte territoriale - dopo avere escluso, in accoglimento della censura mossa dall’appellante, l’inadempimento del Comune con riguardo al pagamento del quinto ed ultimo stato di avanzamento (sul rilievo che i lavori eseguiti non avevano raggiunto l’importo contrattualmente stabilito) - riteneva legittima la sospensione dei lavori disposta, in corno d’opera, dall’appaltatore in data 26 luglio 1993, dopo che agli, in dal marzo dello stesso anno, aveva segnalato la necessità di adeguare il progetto alla nuova normativa in materia di sicurezza degli impianti elettrici dettata dalla legge 46/1990, e parimenti legittimo il suo rifiuto di ottemperare all’ordine dell’Amministrazione di eseguire l’opera secondo l’originario progetto; e ciò in quanto, in conseguenza dell’ordine impartito dal Comune committente, che aveva respinto la segnalazione e insistito per l’esecuzione del progetto, non sarebbe venuta meno la responsabilità penale e risarcitoria dell’appaltatore per eventi lesivi della integrità personale degli alunni e degli insegnanti, che si fossero verificati a causa della realizzazione dell’istituto scolastico in modo difforme dalla prescrizioni di legge. Ad avviso della Corte partenopea. la mancata consegna dei progetti di adeguamento dell’opera alle prescrizioni di legge integrò la mora della Amministrazione creditrice, perché rese impossibile l’esecuzione della prestazione dell’appaltatore debitore, il quale aveva interesse a ricevere il progetto per poterai liberare dall’obbligo assunto col contratto di appalto e per conseguire la controprestazione. Di qui la conferma della pronuncia di risoluzione del contratto, sotto il profilo, appunto, della mancata cooperazione del creditore. 2.2. La Corte d’appello accoglieva, inoltre, il motivo di impugnazione concernente l’accollo all’Amministrazione delle spese di guardiania sostenute dall’appaltatore dal momento della sospensione dei lavori, ritenendo che fosse 211 mancata la prova dell’esecuzione della prestazione di vigilanza e di custodia del cantiere. 3. Avverso questa sentenza, con atto notificato il 10 ottobre 2002 il Comune di Frattaminore ha interposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi di censura. Ha resistito con controricorso Ciampa Pasquale, il quale, a sua volta, ha proposto ricorso incidentale, con due motivi. Il Comune di Frattaminore ha resistito con controricorso al ricorso incidentale. Motivi della decisione 1. A norma dell’articolo 335 Cpc, deva essere disposta la riunione dei ricorsi avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli, proposti, in via principale, dal Comune di Frattaminore e, in via incidentale, da Ciampa Pasquale. 2. Con il primo motivo dal ricorso principale (violazione e falsa applicazione dell’articolo 348 dalla legge 240/65, all. 7, dell’articolo 30 del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del ministero dei Lavori pubblici, approvato con il Dpr 1063/62, e dell’articolo 16 del regolamento per la direzione, la contabilità e la collaudazione dei lavori dello Stato che sono nelle attribuzioni del Ministero dei lavori pubblici, approvato con il Rd 350/1895), Il Comune di Frattaminore ai duole che la Corte d’appello abbia erroneamente ritenuto legittima la sospensione dei lavori decisa, unilateralmente, dal Ciampa durante l’esecuzione dell’opera pubblica costituente oggetto del contratto di appalto. Sostiene il ricorrente che, nell’ambito della disciplina regolante l’appalto pubblico, nessuna norma attribuirebbe all’appaltatore il potere di sospendere i lavori: costui sarebbe abilitato esclusivamente a formulare osservazioni in ordine alla ragioni che possono suggerire o imporre una sospensione, e tale provvedimento potrebbe essere adottato esclusivamente dall’ingegnere capo, in presenza di tassativa circostanze. Ad avviso del Comune, la disciplina sull’abbattimento delle barriere architettoniche e sulla sicurezza degli impianti costituiva jus superveniens rispetto alla stipula del contratto di appalto ad alla predisposizione del progetto: sicché - forma rimanendo l’inammissibilità di qualsivoglia potere di unilaterale sospensione da parte dell’appaltatore - le varianti al progetto originario, in quanto correlato a sopravvenuto disposizioni legislative, avrebbero dovuto essere regolate dall’articolo 343 della legge 2248/65, all. F. In base a quest’ultima disposizione, soltanto all’Amministrazione committente è riservata la facoltà, ove lo ritenga opportuno e necessario, di attivare la procedura amministrativa a forma vincolata ed a contenuto predeterminato per l’approvazione di una perizia di variante tecnica e suppletiva, ampliando il contenuto dell’originario contratto di appalto di opera pubblica anche con riferimento ai tempi contrattuali di esecuzione dell’opera, ovvero promuovendo la stipula di un altro contratto di appalto, con contenuti nuovi e diversi, prevedendo i costi di esecuzione ad i fondi per finanziarli. 212 Il ricorrente in via principale rileva inoltre che le protese modifiche progettuali, richieste dall’appaltatore mentre stava realizzando le opere murario, non incidevano in alcun modo sulle lavorazioni in corso e non potevano, quindi, giustificarne la sospensione, tanto più che - per comune esperienza - la realizzazione di tutte le opere pretestuosamente invocato dall’appaltatore in aggiunta al progetto originario, in quanto accessorie e pertinenziali, ben potevano essere realizzabili anche su opere perfettamente completato, come è dimostrato dal fatto che il legislatore, nella invocata normativa, ha specificamente previsto sia i tempi aia la modalità per la realizzazione di strutture di adeguamento su opere già interamente ultimate. In conclusione, la Corte d’appello avrebbe erroneamente ammesso che una valutazione discrezionale dell’appaltatore può sostituirsi al giudizio dell’Amministrazione committente, sostituendosi addirittura ad essa, finendo con l’affermare che l’appaltatore, con la propria decisioni, può superare la procedura di collaudo: collaudo che - viceversa - dovrebbe considerarsi un adempimento obbligatorio, necessario ed indispensabile da parte dell’Amministrazione committente, la quale nolo attraverso tale procedimento, conclusivo della procedura di appalto di opera pubblica, verifica la rispondenza dell’opera al contratto e alla regola d’arte (c.d. collaudo tecnico) e l’idoneità dell’opera medesima al servizio o alla funzione pubblica cui essa è destinata (c.d. collaudo amministrativo), con tutto le conseguenza connesse ad un eventuale giudizio negativo. 3. Il motivo è infondato. 3.1. È esatto che - in base al principio della continuità dell’esecuzione dei lavori (principio che, pur essendo comune tanto all’appalto privato quanto a quello di opere pubbliche, in quest’ultimo assume una maggiore intensità in ragione della necessità che venga assicurato il tempestivo e regolare compimento dell’opera) - l’appaltatore di opere pubbliche non può, di regola, sospendere di propria iniziativa i lavori. Secondo la disposizioni sui lavori pubblici, applicabili ratione temporis “l’impresa non potrà sotto verun pretesto sospendere o rallentare la esecuzione del lavori” (articolo 348 comma 3 della legge 2249/1865, all. F); soltanto all’amministrazione committente, ad esclusivamente per causo determinato, è dato disporre sospensioni temporanee nell’esecuzione dei lavori (articolo 16 del regolamento approvato con il Rd 350/05; articolo 30 del capitolato generale d’appalto per le opere di competenza del ministero dei Lavori pubblici, approvato con il Dpr 1063/62). Inoltre l’appaltatore non può neppure, di sua iniziativa, eseguire le addizioni e le variazioni che ritenga indispensabili: quando riconosca una siffatta necessità, devo avvertire il direttore dei lavori e provocare la predisposizione, da parte della stazione appaltante, di varianti in corso d’opera. Difatti, la variazioni nono destinato a determinare delle modificazioni del contratto, le quali possono essere introdotto soltanto dagli organi competenti a manifestare la volontà della Pa e ad impegnare quest’ultima (articolo 343 della legge sui lavori pubblici; artt. 20 e ss. del regolamento di cui al Rd 350/95). 3.2. Sennonché, occorre osservare che la preminenza della posizione riservata alla Pa committente, derivante dall’essere l’opera appaltata rivolta a fini pubblici, non incide sulla natura privatistica del contratto di appalto di opere pubbliche (cfr. Cassazione, 213 Su, 10525/96, Sezione prima, 5232/85, 9794/94): anche nell’appalto di opere pubbliche, pertanto, è configurabile, in capo all’amministrazione committente, creditrice dell’opus, un dovere – discendente dall’espresso riferimento contenuto nell’articolo 1206 Cc (là dove questa norma richiama il compimento, da parte del creditore, di quanto a necessario affinché il debitore possa adempiere l’obbligazione) e, più in generale, dai principi di correttezza e buona fede oggettiva, che permeano la disciplina della obbligazioni e del contratto, con particolare riguardo al momento della sua esecuzione di cooperare all’adempimento dell’appaltatore, attraverso il compimento di quelle attività, distinte rispetto al comportamento dovuto dal debitore, necessario affinché quest’ultimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio, ossia la soddisfazione dell’interesso della stessa stazione appaltante. In questo contesto, l’elaborazione di varianti in corso d’opera - di norma costituente una mera facoltà della Pa committente (esercitabile in presenza delle condizioni previsto dalla legge) - può configurarsi come espressione di un doveroso intervento collaborativo del creditore, al fine di rendere possibile l’adempimento dell’appaltatore. Ciò avviene, in particolare, quando, come nella specie, la modifica del progetto originario (di un immobile destinato a scuola) sia resa necessaria da sopravvenute disposizioni imperativa, legislativo e regolamentari, sulla sicurezza degli impianti (legge 46/1990; Dpr 447/91): in tal caso, infatti, l’opera. che fosso realizzata secondo le inizialmente progettato modalità costruttive e istruzioni tecniche, esporrebbe l’appaltatore a responsabilità per eventi lesivi dell’incolumità e dell’integrità personale di terzi (cfr. Cassazione, Sezione prima, 2328/93; Sezione terza, 14905/02; 7515/05). Ne consegue che la perdurante, mancata consegna, da parte della stazione appaltante, benché ritualmente intimata, dei progetti di adeguamento dell’opera alla sopravvenute prescrizioni di legge, ben può determinare Impossibilità della prestazione per fatto imputabile al contraente creditore, sul quale sono destinate a ricadere la conseguenze dell’omessa cooperazione necessaria all’adempimento da parte del debitore. E non rilevano, in senso contrario, né i poteri della Pa in sede di collaudo, atteso che l’esito positivo di questo non fa venir meno la responsabilità dell’appaltatore nei confronti dei terzi (cfr. Cassazione, Sezione prima, 4026/74; Sezione seconda 1290/00) né la - peraltro genericamente accampata - previsione di tempi di adeguamento alla sopravvenuta normatIva per immobili già ultimati ad adibiti ad edificio scolastico, poeto che nella specie si versa nella diversa ipotesi di contratto di appalto per opera In corno di costruzione. 3.3. La Corte partenopea ha fatto corretta applicazione di questo principio, con una valutazione sorretta da adeguata e congrua motivazione. Difatti, il giudice del merito - avendo accertato che la sospensione dei lavori fu disposta, in corno d’opera, nel luglio 1993, dall’impresa, dopo che cosa, fin dal marzo dello stesso anno, aveva segnalato la necessità di adeguare il progetto alla nuova normativa in materia di sicurezza degli impianti elettrici - ha ritenuto legittimo il rifiuto dell’appaltatore di ottemperare all’ordine dell’Amministrazione di eseguire l’opera secondo l’originario progetto, non più in linea con la 214 prescrizioni imposte dalla normativa sopravvenuta, osservando che non sarebbe venuta meno la responsabilità penale e risarcitoria del Ciampa per eventi lesivi della integrità personale degli alunni e degli insegnanti, che si fossero verificati a causa della realizzazione dell’istituto scolastico in modo difforme dalle prescrizioni di legge; e, avendo accertato che la prestazione del debitore ora divenuta impossibile per la perdurante more della stazione appaltante nel necessario intervento collaborativo, ha dichiarato la risoluzione del contratto, addebitandone la responsabilità all’Amministrazione. Il motivato apprezzamento del giudica del merito, frutto di una analitica ricostruzione della risultanze processuali e privo di mende logiche e di errori giuridici, si sottrae alle censure del Comune ricorrente. 4. Con il secondo motivo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia), il ricorrente in via principale si duole della omessa considerazione, da parte della Corte territoriale, del motivo di appello riguardante le prospettazioni addotto a sostegno della domanda riconvenzionale, sulla quali il giudica del marito non si sarebbe affatto pronunciato. Nel dispositivo della sentenza mancherebbe un qualsiasi cenno alla domanda riconvenzionaie, sicché la Corte d’appello non avrebbe statuito alcunché su un punto decisivo del thema decidendum. Assume il ricorrente che dalla esperita consulenza tecnica d’ufficio sarebbe emerso che il Comune di Frattaminore avrebbe subito gravi danni in conseguenza della perdurante mancata ultimazione dei lavori e della intervenuta maggiorazione dei prezzi, il prodursi di tali danni sarebbe strettamente legato, sotto il profilo del nesso di causalità, alla sospensione unilaterale ad illegittima dei lavori da parte dell’impresa. 5. Il motivo è infondato. Per costante giurisprudenza di questa Corte (Cassazione, Sezione prima, 1735/63; Sezione seconda, 2190/66, Sezione prima 676/73, Sezione lavoro, 4546/83, Sezione seconda, 3693/95, Sezione terza, 4079/05), non è configurabile il vizio di omessa pronuncia quando il rigetto di una domanda sia implicito nella costruzione logico-giuridica della sentenza, con la quale venga accolta una tesi incompatibile con tale domanda. Nella specie, il rigetto della domanda riconvenzionale, con la quale il Comune aveva chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento dell’impresa appaltatrice, per avere questa unilateralmente ad illegittimamente sospeso i lavori, è implicito nella pronuncia della Corte d’appello in ordine alla domanda principale, con la quale si è statuito, per un verso, che quella sospensione ora il riflesso dell’impossibilità temporanea della prestazione per fatto imputabile al creditore e, per l’altro verso, che lo scioglimento del contratto di appalto si è prodotto a causa della mancata cooperazione del creditore. 6. Con il primo motivo, il ricorrente incidentale denuncia l’illegittima ed erronea motivazione della sentenza in ordine alle spose di guardiania. Essendo la guardiania espletata da personale della stanza impresa, sarebbe irrilevante che lo stesso non fosse munito di specifica qualifica di guardia giurata. Inoltre, l’attore in primo grado aveva specificamente articolato una prova testimoniale sull’avvenuto espletamento del servizio, senza che il Tribunale avesse ravvisato la necessità di metterla, risultando la circostanza provata 215 documentalmente. La Corte d’appello si sarebbe basata, per escludere il rimborso delle speso di guardiania, sul verbale del comandante della polizia municipale, mentre tale documento sarebbe privo di rilievo giuridico, attesa la provenienza da un organo funzionale e dipendente dello stesso Comune. 7. Il motivo è inammissibile. 7.1. La Corte partenopea ha ritenuto non provata l’esecuzione della prestazione di vigilanza e di custodia del cantiere da parte dell’impresa appaltatrice durante il periodo di sospensione dei lavori, dando una motivazione congrua e logicamente argomentata di tale convincimento. Secondo la Corte d’appello, in mancanza elementi deponenti nel senno dell’avvenuto svolgimento di tale servizio, l’impresa avrebbe dovuto fornire la dimostrazione della pretesa creditoria mediante l’esibizione di libri paga e matricola e mediante attestato del possesso, da parte del soggetto incaricato dell’espletamento di tale servizio, della qualifica di guardia particolare giurata, proveniente dall’autorità di pubblica sicurezza. Secondo la Corte di Napoli, non solo ara mancata questa prova, ma doveva anzi ritenersi che il servizio non fosso stato mai concretamente espletato, sia perché il comandante della polizia municipale di Frattaminore constatò, nelle periodiche visito da lui effettuato, che il cantiere ora incustodito, sia perché lo stesso Ciampa ebbe a denunciare il furto di materiale dal cantiere per l’assenza del guardiano diurno, seppure motivata da contingenti ragioni di saluto. 7.2. Il motivo si risolve, in sostanza, in una inammissibile richiesta di revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito alla soluzione della questione esaminata, evidente apparendo come il ricorrente in via incidentale, lungi dal prospettare alcun vizio rilevante della sentenza gravata sotto il profilo di cui all’articolo 360, comma 1, numero 5), Cpc, ai limiti ad invocare - peraltro in modo assai generico, e senza neppure indicare il contenuto del documento da cui emergerebbe l’avvenuta esecuzione della prestazione di custodia né le circostanze sulla quali avrebbe dovuto vertere la prova testimoniale non Ammessa - una diversa lettura delle risultanza di fatto o! come accertate e ricostruite dal giudica di merito. La censura ometto di considerare che tanto la valutazione delle risultanze probatorie, quanto il giudizio sul contenuto e sulla portata delle quaestionis facti posta dalle singolo fattispecie sottoposte al vaglio del giudice di merito così come la scelta, fra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenuto più idonee a sorreggere la motivazione - involgono apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudica del merito, il quale, nel fondate la propria decisione, non incontra altro limito che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontate e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare ogni e qualsiasi deduzione difensiva. È principio di diritto ormai consolidato (cfr., ex multis, Cassazione, Sezione terza, 15805/05) quello per cui l’articolo 360, comma 1, numero 5), Cpc non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendolo, per converso, il solo controllo, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, delle valutazioni compiuto dal giudice del merito, al quale soltanto - va ripetuto spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove 216 controllandone l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra cose, quella funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Il ricorrente in via incidentale, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita una nuova valutazione delle risultanze del processo ad opera di questa Corte, onde trasformare il processo di cassazione in un terzo giudizio di merito, nel quale ridiscutere analiticamente il contenuto di fatti e vicende del processo, la maggiore o minore attendibilità di questa o di quella risultanza processuale, le opzioni del giudice di appello non gradito e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altra più consone alle aspettative della parte. 8. Con il secondo motivo del ricorso incidentale, il Ciampa si duole che la Corte d’appello abbia erroneamente compensato per la moti le spese del doppio grado: essendo invece stata acclarata la esclusiva responsabilità del Comune, nessuna compensazione delle spese, neppure parziale, sarebbe stata, per il principio di soccombenza, legittima. 9. Il motivo a inammissibile. 9.1. In tema di regolamento delle spose processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato alla violazione del principio secondo cui le spose non possono essere posto a carico della parte totalmente vittoriosa. Pertanto, esula da tale sindacato, e rientra, invece, nei poteri discrezionali del giudice del marito, la valutazione dell’opportunità della compensazione, totale o parziale, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in quella di concorso di altri giusti motivi. La valutazione della ricorrenza dei giusti motivi è rimessa al prudente apprezzamento del giudica e sfugge al controllo di legittimità, sempre che a giustificazione della disposta compensazione non siano addotto ragioni illogiche o erronee (ex multis, Cassazione, Sezione lavoro, 16162/04). 9.2. Nella specie la Corte d’appello ha compensato per la metà tra le parti la spese del doppio grado “In considerazione dell’esito complessivo della lite”, tenendo implicitamente conto del fatto che la protesa dell’impresa, ridimensionata in appello, è stata accolta soltanto in parte, e quindi adducendo, con adeguata argomentazione, un motivo in astratto idoneo a giustificare la adottata pronuncia di compensazione parziale. La statuizione della Corte territoriale si sottrae alla censura del ricorrente in via incidentale, che sollecita un riesame, nel merito, della valutazione operata dalla Corte territoriale in ordine alla ricorrenza dei giunti motivi. 10. Il ricorso principale e il ricorso incidentale sono rigettati. Tale esito, unitamente alla novità, in parte, delle questioni trattate nell’esame del primo motivo del ricorso principale, giustifica l’integrale compensazione delle spese della fase di legittimità. PQM 217 La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Dichiara interamente tra le parti le spese della fase di legittimità. 218 CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE SENTENZA 27 DICEMBRE 2004, N. 23994 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CALFAPIETRA Vincenzo - Presidente Dott. MENSITIERI Alfredo ConsigliereDott. SCHETTINO Olindo - ConsigliereDott. SETTIMJ Giovanni Consigliere Dott. TROMBETTA Francesca - rel. Consigliere Svolgimento del processo Con ricorso del condominio Lungotestene in persona dell'amministratore Mario S., il G.D.P. di Agropoli ingiungeva con decreto 156/97, ad Angelo B. il pagamento di L. 4.539.908 per quote condominiali relative ad un appartamento condominiale. Su opposizione del B., che eccepiva di non essere proprietario dell'immobile, il G.D.P. di Agropoli con sentenza N. 190/97, revocava il decreto ingiuntivo dichiarando l'ingiunto carente di legittimazione passiva. Su impugnazione di S. Mario, il Tribunale di Vallo della Lucania, con sentenza 17.2.2000, in riforma della sentenza impugnata confermava il decreto ingiuntivo emesso nei confronti del B. condannandolo al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio. - Afferma il Tribunale, in ordine alla dedotta carenza di legittimazione attiva dell'appellante (per essersi il S. costituito in giudizio personalmente e non nella qualità di amministratore del condominio), che, se è vero che nell'atto di appello il S. non si qualifica come amministratore del condominio, è altrettanto vero che lo stesso non ha inteso costituirsi personalmente come si evince: dal fatto che a margine della procura rilasciata dal S. è stampigliata la dicitura: "amministratore", facendo ciò chiaramente intendere che il mandato ad litem è stato conferito per conto del legale rappresentante del condominio; dal fatto che il S. difende la sua posizione di amministratore del condominio, nel quale il B. avrebbe ingenerato l'incolpevole affidamento che egli era il proprietario dell'immobile; nel fatto che conclusivamente, nell'atto di appello, è il condominio Lungotestene ad effettuare la vocatio in ius; - quanto alla dedotta nullità della procura ad litem per la mancata certificazione da parte del difensore, dell'autografia della firma dell'appellante, afferma il Tribunale che la mancata sottoscrizione della procura da parte dell'avvocato costituisce una mera irregolarità sanabile in corso di causa, come nella specie è avvenuto, con la sottoscrizione dell'avvocato che ha certificato l'autografia della sottoscrizione del mandante, non essendo necessaria l'attestazione dell'avvocato che la firma del mandante sia avvenuta in sua presenza. Afferma il Tribunale che l'esecuzione di incompetenza per valore del giudice adito è infondata in quanto la controversia è di valore determinabile e calcolando gli interessi da applicare al capitale di L. 4.539.908, al tasso del 10% annuo per il periodo 14.8.96 (data della delibera con cui è stata ripartita la spesa) 31.12.96 ed al tasso del 5% per il periodo 31.12.96 e 23.4.97 (data 219 di emissione del decreto ingiuntivo), la somma ingiunta non supera il valore di L. 5.000.000 e quindi la competenza del G.D.P. ex art. 7 c.p.c.. Quanto all'eccepita carenza di legittimazione passiva del B., ribadita l'applicabilità del principio dell'apparenza del diritto anche in tema di condominio ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto al pagamento delle quote condominiali, afferma il Tribunale che, nella specie, il comportamento tenuto dal B. (coniuge convivente con l'effettiva proprietaria dell'appartamento) il quale avendo la disponibilità dell'immobile ha partecipato uti dominus alle assemblee condominiali, pagato le quote condominiali, sottoscritto le ricevute rilasciate dall'amministratore, ricevuto la corrispondenza inviatagli ad personam dall'amministratore, ha creato in capo al medesimo l'apparenza della titolarità della quota condominiale inducendo legittimamente l'amministratore a credere che egli fosse il proprietario formale dell'unità immobiliare. Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione il B.. Resiste, con controricorso, il condominio. Motivi della decisione Deduce il B. a motivi di impugnazione: la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, nonchè l'omessa contraddittoria e comunque insufficiente motivazione per avere il Tribunale erroneamente: 1) accolto un atto di appello NULLO perchè proposto da S. Mario che, non qualificandosi quale amministratore del condominio Lungotestene, era privo di legittimazione attiva ad impugnare la sentenza del G.D.P. affermando: che la qualifica di amministratore era desumibile dal fatto che sul mandato vi era la stampigliatura "amministratore", e che dal contesto dell'atto si arguiva che il S. difendeva le posizioni del condominio; NONOSTANTE: a) la stampigliatura contenesse l'indicazione generica di "amministratore" senza specificare nemmeno il nome del condominio: b) la ritenuta difesa degli interessi del condominio da parte del S. seppur legittimava il medesimo a contraddire, da altro lato contrastava con il riconoscimento che lo stesso era estraneo agli interessi processuali; 2) ritenuto valido il mandato conferito al difensore del condominio, nonostante la mancata certificazione da parte del difensore medesimo della autografia della firma dell'appellante; 3) ritenuto l'"affidamento incolpevole" dell'amministratore del condominio nel considerare il B. proprietario dell'appartamento, nonostante le bollette condominiali approntate dall'amministratore fossero intestate a C. Pasqualina, proprietaria effettiva dell'immobile in forza del rogito 21.11.77 e tra la medesima ed il marito B. prima del rogito fosse stata convenuta la separazione dei beni; 4) ritenuto la controversia, rientrante nella competenza per valore del G.D.P., NONOSTANTE: a) la domanda fosse di valore indeterminato, superiore a L. 5.000.000, richiedendosi anche gli interessi alla scadenza delle singole quote, per un ammontare indeterminato, senza che il ricorrente avesse limitato il valore nei limiti di competenza del giudice adito, con la conseguenza che la controversia rientrava nella competenza per valore del Tribunale; 220 b) la domanda, anche a ritenere gli interessi, determinabili con opportuni calcoli, rientrasse nella competenza per valore della Pretura di Vallo della Lucania in quanto aggiungendo alla parte capitale pari a L. 4.539.908, gli interessi maturati al 23.4.97 pari a L. 605.318 il valore ammonterebbe a L. 5.145.226, superiore alla competenza del G.D.P. e rientrante nella competenza del Pretore; 5) omesso di pronunciarsi sulle contestazioni in ordine all'an ed al quantum sollevate dal ricorrente fin dall'atto di opposizione. La prima doglianza è infondata, in quanto il ricorrente non fa altro che ripetere argomenti ai quali ha già risposto il Tribunale di Vallo della Lucania, senza chiarire quale sarebbe l'errore nel quale lo stesso sarebbe incorso. La seconda doglianza è infondata, in quanto, in base alla giurisprudenza di questa S.C., la mancata certificazione, da parte del difensore, dell'autografia della firma del conferente la procura ad litem costituisce una mera irregolarità, che non comporta la nullità della procura stessa, in quanto tale nullità non è comminata dalla legge; nè detta formalità incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell'atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato, salvo che la controparte non contesti, con valide e specifiche ragioni e prove, l'autografia della firma non autenticata, sent. 17 dicembre 1998 n. 12625). Da un punto di vista logico va, poi, esaminata la doglianza, con la quale il ricorrente ribadisce che: a) la domanda riconvenzionale, tenuto conto della indeterminatezza della misura degli interessi era di valore indeterminabile, per cui andava affermata la competenza per valore del Tribunale di Vallo della Lucania; b) la domanda riconvenzionale, sommando somma capitale ed interessi,aveva un valore superiore a lire 5.000.000, con conseguente incompetenza del Giudice di pace e competenza del Tribunale di Vallo della Lucania. Le doglianze sono infondate, in quanto: a) la indeterminatezza degli interessi richiesti non comportava la indeterminabilità degli stessi, tenendo conto della determinatezza dei parametri in base ai quali gli stessi andavano calcolati; b) il ricorrente si limita ad opporre un proprio calcolo, senza indicare gli elementi in base ai quali lo stesso è stato effettuato e senza contestare la correttezza di quelli utilizzati dalla sentenza impugnata per giungere a diversa conclusione. E', invece, fondata la doglianza relativa al difetto di legittimazione passiva del ricorrente. La sentenza impugnata, infatti, non ha tenuto conto che secondo la più recente giurisprudenza di questa S.C. in tema di ripartizione delle spese condominiali è passivamente legittimato rispetto all'azione giudiziaria per il recupero della quota di competenza colui che sia effettivamente individuato come proprietario esclusivo dell'unità immobiliare, non potendo l'azione stessa essere proposta contro colui il quale, con le sue dichiarazioni e comportamenti, anche univoci, abbia ingenerato nell'amministratore il ragionevole convincimento che si tratti dell'effettivo condomino, in quanto in materia condominiale non può trovare applicazione il principio dell'apparenza del diritto, mancando una relazione di terzietà tra il condomino e il condominio, che non ha una soggettività giuridica diversa da quella dei semplici condomini. 221 (Cfr. sent.: 25 novembre 2003 n. 17897; 30 agosto 2002 n. 12709; 8 aprile 2002 n. 5035). La doglianza relativa alla omessa pronuncia sulle contestazioni in ordine all'an ed al quantum viene ad essere assorbita. Il ricorso va, pertanto, accolto nei limiti esposti e la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Tribunale di Salerno che provvedere all'applicazione dei principi esposti, nonchè a liquidare le spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, al Tribunale di Salerno. Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2004. Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2004. 222 CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILE SENTENZA 7 ottobre-4 novembre 2004, n. 21095 (Presidente Carbone – Relatore Morelli Pm Palmieri – parzialmente conforme – ricorrente Credito Italiano Spa – controricorrente Carlino ed altri) Svolgimento del processo Il Credito Italiano Spa ha impugnato per cassazione la sentenza in data 15 gennaio 2001, con la quale la Corte di appello di Cagliari, in riforma della pronunzia di primo grado, ha accolto la opposizione proposta da Franco e Carlino Stefana avverso il decreto ingiuntivo su sua istanza. emesso nei confronti dei due predetti intimati, quali fideiussori della Fas Spa, per l’importo complessivo di lire 1.097.415.300 (ed accessori), corrispondente al saldo passivo finale del conto corrente sul quale sarebbero state effettuate plurime erogazioni di credito in favore della società garantita. Con le quattro complesse serie di motivi, di cui si compone l’odierno ricorso - la cui ammissibilità e fondatezza è contestata dagli intimati con separati controricorsi - il Credito italiano critica in sostanza la Corte di merito per avere, a suo avviso, errato: a) nel rilevare di ufficio profili di nullità del contratto da cui trae origine il debito garantito dagli attuali resistenti; b) nell’escluderne, in particolare, la validità in relazione alla clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, anche per il periodo anteriore alle note pronunzie della primavera del 1999 (nn. 2374 del 16 marzo, n. 3096 del 30 marzo e successive conformi che, in contrasto con la precedente giurisprudenza, hanno escluso la rispondenza di clausole siffatte ad un “uso normativo” ai sensi dell’articolo 1283 Cc; c) nel ritenere, inoltre, non operative le garanzie prestate dagli Stefana per il periodo successivo alla data (9 luglio 1992) di entrata in vigore della legge 154/92, che ha prescritto la fissazione di un tetto massimo per la validità delle fideiussioni omnibus; d) nell’escludere, infine, la debenza dell’intero credito, azionato con il decreto opposto, per ritenuta (a torto) carenza di documentazione, imputabile all’istituto, che consentisse di scorporare dall’importo preteso in via monitoria quello riferibile a periodo di operatività della fideiussione e detrarre, dallo stesso, le voci relative alla capitalizzazione periodica degli interessi. Su istanza della parte ricorrente, il primo Presidente ha assegnato la causa alle Su, ravvisando, in quella sub b), questione di massima di particolare importanza. Motivi della decisione 1. La questione di massima, in ragione della cui particolare importanza gli atti della presente causa sono stati rimessi a queste Su, ai sensi dell’articolo 374, cpv, Cpc si risolve nello stabilire se - incontestata la non attualità di un uso normativo di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario - sia o non esatto escludere anche che un siffatto uso preesistesse al nuovo orientamento giurisprudenziale (Cassazione 2374/99 e successive 223 conformi) che lo ha negato, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con la precedente giurisprudenza. 2. È, per altro, preliminare all’esame della riferita questione, quello delle eccezioni pregiudiziali - sollevate, rispettivamente, da Franco e dal Carlino Stefana - di inammissibilità del ricorso “per difetto di specialità della procura alle liti” e “per intervenuto giudicato formale sulla sentenza parziale resa dalla Corte di Cagliari” nel corso del giudizio a quo. 2.1. La prima eccezione - con cui il difetto di specialità, per “assenza di riferimento al giudizio per cassazione e alla sentenza impugnanda”, è (impropriamente), in particolare, riferito, non già alla procura rilasciata al difensore (che tali riferimenti puntualmente, invece, contiene), ma all’atto fonte dei poteri del soggetto che detta procura ha conferito - è infondata. Si deduce, infatti, in sostanza, dal resistente che la procura speciale non sia nella specie riferibile - come ex articolo 365 Cpc viceversa dovrebbe - alla parte od a chi ha il potere di rappresentarla, in quanto sottoscritta “da un dirigente e non dal legale rappresentante del Credito Italiano ricorrente”. E tale rilievo non coglie nel segno, dacché il dirigente dell’ente - contrariamente all’avverso assunto - ha conferito il mandato alla odierna impugnazione nella veste appunto di “legale rappresentante” del Credito italiano, così (correttamente) spesa sulla base dello Statuto dell’ente che, all’articolo 29, testualmente prevede che «la rappresentanza anche [e quindi: non solo] processuale della società spetta disgiuntamente al Presidente, ai Vice Presidenti ... nonché ai dirigenti ... con facoltà di designare mandatari speciali per il compimento di determinate operazioni e di nominare avvocati munendoli degli opportuni poteri». 2.2. Del pari destituita di fondamento è anche l’ulteriore eccezione di “giudicato formale interno”, che tale vis preclusiva pretende, con evidente forzatura, di conferire all’ordinanza (del 31 maggio 1999), con la quale la Corte di merito - in via istruttoria e strumentale alla decisione, non certo decisoria si è limitata invece a nominare un Ctu per l’espletamento di una perizia contabile, volta ad accertare, sulla base degli atti, le singole voci (tra cui quella relativa alla capitalizzazione degli interessi) da cui risultava il complessivo importo per cui la Banca aveva agito in via monitoria. 3. Precede ancora, a questo punto, l’esame del primo motivo del ricorso, con il quale si denunzia la violazione degli articoli 112, 101, 345 Cpc, in relazione all’articolo 1421 Cc, in cui si assume essere incorsa la Corte di appello nel rilevare di ufficio la nullità della clausola anatocistica. Atteso che, con tal mezzo, si introduce un tema di indagine logicamente preliminare, e virtualmente assorbente, rispetto a quello sostanziale sulla validità o meno della clausola stessa nel periodo che qui viene in rilievo. Il vizio in procedendo, così prospettato, ad avviso di questo Collegio, però, non sussiste. La nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi (tardivamente dedotta dalle parti solo in comparsa conclusionale), effettivamente è stata, infatti, rilevata “di ufficio” nella fase di gravame. Ma ciò la Corte di Cagliari ha fatto in corretta applicazione del principio per cui la nullità, in tutto o in parte, del contratto posto a base della domanda può essere rilevata, appunto, di ufficio,anche per la prima volta in appello (cfr. Cassazione 2772/98). 224 È pur vero, per altro, che il potere che il citato articolo 1421 conferisce in tal senso al giudice (in ragione della tutela di valori fondamentali dell’ordinamento giuridico) va coordinato con il principio della domanda, di cui agli articoli 99 e 112 Cpc, e che le esigenze a tali principi sottese - rispettivamente di verifica delle condizioni di fondatezza della azione e di immodificabilità della domanda possono trovarsi tra loro in contrasto ove, in particolare, alla pretesa di una parte relativa ad un credito ex contractu si contrapponga l’eccezione di nullità, dell’altra, che il giudice ritenga (come nella specie) di integrare con il rilievo di aspetti della patologia del negozio che la parte, interessata alla improduttività dei correlativi effetti, non abbia colto (o non abbia tempestivamente comunque dedotto). Ma un tale contrasto si risolve sulla base della considerazione che, se da un lato, il potere-dovere decisionale del giudice, in relazione alla domanda proposta, si estende agli aspetti della inesistenza o della nullità del contratto dedotto dall’attore, la deduzione in tal senso del convenuto non può costituire, od essere considerata, domanda giudiziale, non ponendosi in rapporto genetico con il potere-dovere decisionale del giudice sul punto, che già esiste. Sia impostata quella deduzione come eccezione, come domanda riconvenzionale per la declaratoria di nullità, o come motivo di gravame, si tratta pur sempre di mera difesa, attenendo all’inesistenza, per mancato perfezionamento o per nullità, del fatto giuridico, il contratto, dedotto dall’attore a fondamento della domanda, che dunque non condiziona l’esercizio del potere officioso di rilievo della nullità fondata su aspetti distinti di patologia negoziale (Cassazione 5341/84). Nella specie deve farsi riferimento alla domanda iniziale, proposta in via monitoria dal Credito italiano la quale, se pur rivolta nei confronti dei fideiussori, ha comunque ad oggetto il pagamento del saldo del contratto di conto corrente, stipulato dal debitore principale. Per cui, appunto, non vale a paralizzare la rilevabilità, da parte del giudice, dì aspetti di nullità di quel contratto il fatto che gli intimati (aventi veste sostanziale di convenuti nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo) abbiano focalizzato, in particolare, le loro difese su profili, di invalidità ed inoperatività della fideiussione, da essi prestata. E ciò a prescindere dalla considerazione che, eccependo comunque anche l’inesistenza di valida prova del credito contro di loro azionato, i fideiussori hanno con ciò contestato in radice lo stesso debito principale. 4. Può ora passarsi all’esame della questione di massima di cui retro, sub 1. 4.1. Il parametro di riferimento è costituito dall’articolo 1283 del Cc (Anatocismo) e, in particolare, dall’inciso “salvo usi contrari” che, in apertura della norma, circoscrive la portata della regola, di seguito in essa enunciata, per cui «gli interessi scaduti possono produrre interessi [(a)] solo dalla domanda giudiziale o [(b)] per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre, che si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi». 4.2. Come è noto, in sede di esegesi della predetta norma, le richiamate sentenze (2374, 3096, 3845) della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente (6631/81; 5409183; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 9227/95; 3296/97; 12675/98), hanno enunciato il principio - reiteratamente, poi, confermato dalle successive sentenze 12507/99; 6263/01; 1281, 4490, 4498, 225 8442/02; 2593, 12222, 13739/03, ed al quale ha dato comunque immediato riscontro anche il legislatore (che, con l’articolo 25 del D.Lgs 342/99 ha, all’uopo, ridisciplinato le modalità di calcolo degli interessi su base paritaria tra banca e cliente) – (principio) per cui gli “usi contrari”, idonei ex articolo 1283 Cc a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli usi “normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283. 4.3. Al di là di varie ulteriori argomentazioni, di carattere storico e sistematico, rinvenibili nelle pronunzie del nuovo corso, destinate più che altro ad avvalorare il “revirement” giurisprudenziale, emerge dalla motivazione delle pronunce stesse come, nel suo nucleo logico-giuridico essenziale l’enunciazione del principio di nullità delle clausole bancarie anatocistiche si ponga come la conclusione obbligata di un ragionamento di tipo sillogistico. La cui premessa maggiore è espressa, appunto, dalla affermazione che gli “usi contrari”, suscettibili di derogare al precetto dell’articolo 1283 Cc, sono non i meri usi negoziali di cui all’articolo 1340 Cc ma esclusivamente i veri e propri “usi normativi”, di cui agli articoli 1 e 8 disp. prel. Cc, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis). E la cui premessa minore è rappresentata dalla constatazione che «dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico in cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente». 4.4. Ora di questo sillogismo, che costituisce la struttura portante del nuovo indirizzo, del quale si sollecita il riesame, neppure la banca ricorrente mette in discussione la premessa maggiore, mentre quanto alla sua premessa minore la contestazione che ad essa si muove, attiene, sul piano diacronico, al solo profilo della portata retroattiva che il nuovo indirizzo ha inteso attribuire alla rilevata inesistenza di un uso normativo in materia di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari. Si sostiene, infatti, in contrario che la giurisprudenza del ‘99 abbia correttamente accertato l’inesistenza attuale, ma erroneamente escluso l’esistenza pregressa della consuetudine in parola. E si auspica per ciò, dunque, che essa vada superata nel senso di constatare che «la convinzione degli utenti del servizio bancario della normatività dell’uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi, originariamente sussistente, è venuta meno dopo lungo tempo» [id est: la consuetudine si è estinta per 226 desuetudine in relazione al venire meno della opinio iuris del comportamento sottostante] «proprio a seguito di quello stesso processo di mutamento di prospettiva che ha indotto la Cassazione medesima a mutare il proprio precedente orientamento». Ed a sostegno di tale assunto la difesa della ricorrente argomenta: a) che l’opinio iuris della prassi di capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente sarebbe stata esclusa dalla criticata giurisprudenza assumendo a parametro un quadro normativo, come evolutosi a partire dai primi anni ‘90, non certo retrodatabile all’epoca in cui, in un contesto radicalmente diverso, quella prassi si era instaurata, con adesione degli utenti dei servizi bancari, che ne avrebbero pienamente presupposto la normatività; b) che, comunque, la stessa precedente giurisprudenza che per un ventennio aveva reiteratamente ritenuto, ove pur erroneamente, l’esistenza di un uso normativo di capitalizzazione degli interessi bancari avrebbe, per ciò stesso, costituito “elemento di fondazione o consolidazione dell’uso stesso”. Nessuno dei riferiti, pur suggestivi, argomenti si lascia però condividere. 4.5. L’evoluzione del quadro normativo - impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni ‘90, in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente (che ha dato, a sua volta, occasione al revirement giurisprudenziale) relativamente a prassi negoziali, come quella di capitalizzzione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolventesi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole. Ma ciò non vuole dire (e il dirlo sconterebbe un evidente salto logico) che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a ius e che, sulla base di una tale convinzione (opinio iuris), venissero accettate dai clienti. Più semplicemente, di fatto, le pattuizioni anatocistiche, come clausole non negoziate e non negoziabili, perché già predisposte dagli istituti di credito, in conformità a direttive delle associazioni di categoria, venivano sottoscritte dalla parte che aveva necessità di usufruire del credito bancario e non aveva. quindi, altra alternativa per accedere ad un sistema connotato dalla regola del prendere o lasciare. Dal che la riconducibilità, ab initio, della prassi di inserimento, nei contratti bancari, delle clausole in questione, ad un uso negoziale e non già normativo (per tal profilo in contrasto dunque con il precetto dell’articolo 1283 Cc), come correttamente ritenuto dalle sentenze del 1999 e successive. 4.6. Né è in contrario sostenibile che la “fondazione” di un uso normativo, relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca, sia in qualche modo riconducibile alla stessa giurisprudenza del ventennio antecedente al revirement del 1999. Anche in materia di usi normativi, così come con riguardo a norme di condotta poste da fonti-atto di rango primario, la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa. 227 Discende come logico ed obbligato corollario da questa incontestabile premessa che, in presenza di una ricognizione, pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenza che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata. Ciò vale evidentemente, nel caso di specie, anche con riguardo alla giurisprudenza (costituita, per altro, da solo dieci tralaticie pronunzie nell’arco di un ventennio) su cui fa leva l’istituto ricorrente. La quale - a prescindere dalla sua idoneità (tutta da dimostrare e in realtà indimostrata) ad ingenerare nei clienti una “opinio iuris” del meccanismo di capitalizzazione degli interessi, inserito come clausola insuscettibile di negoziazione nei controlli stipulati con la banca - non avrebbe potuto, comunque, conferire normatività ad una prassi negoziale (che si è dimostrato essere) contra legem. 4.7. Della insuperabile valenza retroattiva dell’accertamento di nullità delle clausole anatocistiche, contenuto nelle pronunzie del 1999, si è mostrato subito, del resto, ben consapevole anche il legislatore. Il quale - nell’intento di evitare un prevedibile diffuso contenzioso nei confronti degli istituti di credito ha dettato, nel comma 3 dell’articolo 25 del già citato D.Lgs 342/99, una norma ad hoc, volta appunto ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, di cui ai precedenti commi primo e secondo del medesimo articolo 25. Quella norma di sanatoria è stata, però, come noto, dichiarata incostituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dal Giudice delle leggi, con sentenza n. 425 del 2000. L’eliminazione ex tunc, per tal via, della eccezionale salvezza e conservazione degli effetti delle clausole già stipulate lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’articolo 1283 Cc (cfr. Cassazione 4490/02). 4.8. Sul punto della rilevata nullità della clausola anatocistica inserita nel contratto da cui deriva il credito azionato in via monitoria dall’istituto, la sentenza impugnata resiste dunque a censura. 5. Non diverso esito hanno anche le residue due doglianze formulate dal Credito ricorrente. 5.1. In particolare la denuncia di violazione degli articoli 1367 Cc e 10 legge 154/92 - con la quale si addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente escluso che per le fideiussioni stipulate in data anteriore alla legge 154 cit. il tetto massimo di garanzia, che ne condiziona l’ulteriore validità, possa essere anche “unilateralmente” fissato dalla Banca, come nella specie, l’istituto in concreto avrebbe fatto con lettera del 1976 - si scontra contro l’accertamento in fatto, operato dai giudici a quibus, quanto alla riferibilità di quella missiva a fideiussione diversa da quelle azionate nel presente giudizio. Dal che propriamente l’inammissibilità della censura in esame per difetto di interesse. 228 5.2. A sua volta, anche la statuizione conclusiva della sentenza d’appello secondo cui non era risultato, nella specie, possibile l’accertamento del credito azionato nei confronti dei fideiussori “per non avere l’istituto assolto pienamente al suo onere probatorio” - si sottrae al sindacato di legittimità, come sollecitato nella parte finale del ricorso, per la sua attinenza all’area delle valutazioni, relative alle risultanze probatorie, riservate alla discrezionalità di giudizio del giudice del merito. Né l’istituto ricorrente può fondatamente sostenere che la rilevazione di ufficio, solo in fase di appello, della questione di nullità della capitalizzazione degli interessi lo abbia ostacolato nella sua attività difensiva. Poiché la Corte territoriale - al fine di accertare quanto effettivamente dovuto alla banca (con detrazione delle voci indebite) - ha disposto apposita Ctu e, nel corso delle operazioni peritali, l’istituto ha avuto evidentemente modo di documentare (cosa che secondo i giudici a quibus non ha fatto in modo compiuto) le proprie ragioni creditorie. 6. Il ricorso va integralmente, pertanto, respinto. 7. La stessa particolare rilevanza della questione centrale, prospettata con l’odierno ricorso, costituisce giusto motivo di compensazione tra le parti di questo giudizio di cassazione. PQM La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese. 229 CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA 4 FEBBRAIO 2005, N. 2207 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato il 18 febbraio 2002 Mario Ricciarelli conveniva davanti al Giudice di pace di Avellino la S.p.a. Unipol Assicurazioni per sentirla condannare al pagamento della somme corrispondenti al 20% di quanto da lui versato a titolo di premio relativamente alla polizza assicurativa r.c.a. 30/728795339, per il periodo settembre 1998-settembre 1999. Chiedeva in subordine che fosse il giudice adito a determinare in via equitativa quanto a lui spettante. Sosteneva che tale somma, comunque determinata, gli era dovuta giacché la polizza suddetta era stata stipulata secondo le condizioni determinate dal cartello delle società assicuratrici, il cui effetto era stato di maggiorare i prezzi in modo uniforme per tutto il mercato nazionale, in violazione della l. 287/1990, dei principi di correttezza e buona fede e con pregiudizio di essa particolare, più debole in quanto obbligata a contrarre. Deduceva che l'autorità garante della concorrenza e del mercato aveva inflitto alla Unipol, per violazione del divieto di cui all'art. 2 della predetta legge antitrust, il pagamento a titolo di sanzione amministrativa della somma di lire 33.050.995.445. La convenuta resisteva ed oltre a contestare il fondamento della pretesa, eccepiva l'incompetenza del giudice per esservi la competenza della Corte d'appello, ai sensi dell'art. 33 della l. 287/1990. Deduceva anche il incompetenza per territorio dello stesso Giudice di pace. Il giudice di primo grado riteneva la propria competenza sotto ogni profilo, quindi accoglieva la domanda condannando la Unipol al pagamento in favore dell'attore della somma di lire 151.684, pari ad euro 78,34, indebitamente riscossa quale effetto dell'intesa, vietata dalla legge. La sentenza in esame prendeva atto della notorietà della questione, che aveva sollevato scalpore sia in Italia che all'estero, ed altresì del provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato che aveva inflitto alla Unipol la sanzione innanzi menzionata. Dava atto che a tale decisione l'Agcm era pervenuta a seguito di una compiuta istruttoria, il cui risultato era stato l'accertamento dell'avvenuto scambio di informazioni tra le imprese del ramo, che aveva dato a sua volta luogo ad un comportamento delle stesse del tutto omogeneo e tale pertanto da impedire al contraente di individuare un 230 assicuratore che, praticando effettiva concorrenza, offrisse prezzi migliori di quello nella specie pagato. Sulla base di tale premessa la sentenza impugnata spiegava anche il più alto livello dei prezzi di tali polizze rispetto alla media europea. Quindi, quanto alla questione della competenza, riteneva che ai sensi dell'art. 33 della legge Antitrust la domanda di risarcimento del danno che fonda la competenza della Corte d'appello consegue al pregiudizio che hanno subito gli imprenditori terzi rispetto al cartello o alla posizione dominante, ovvero gli imprenditori in concorrenza con quegli imprenditori che vi hanno aderito, e che risultano a tal titolo vittime dell'intesa o della posizione dominante. La predetta azione pertanto non riguarda i soggetti oltre che terzi rispetto alla intesa i anche non concorrenti dei partecipi alla stessa, e dunque non riguarda le domande avanzate da soggetti non imprenditori, ancorché anch'essi subiscano il cartello o il dominio. Riteneva che il giudice al quale siffatte domande provenienti da soggetti diversi dagli imprenditori vanno rivolte deve essere individuato alla stregua dei criteri di cui all'art. 1469-bis n. 18 e nella specie, trattandosi di domanda di ripetizione di indebito oggettivo, ai sensi dell'art. 2033 c.c. Ciò perché la sanzione di nullità dell'autorità antitrust colpisce il cartello e non colpisce i contratti che, successivamente al cartello, vengono conclusi con i singoli automobilisti. Costoro, secondo il Giudice di pace, si trovano nella situazione di pagare più di quanto una contrattazione che non fosse derivata dal cartello avrebbe implicato. Infine il Giudice di pace riteneva di far uso del potere di determinare secondo equità, atteso il valore della causa in riferimento all'art. 113 c.p.c., la somma spettante al Ricciarelli. Contro questa sentenza ha presentato ricorso per cassazione la Unipol, affidato a cinque motivi. Ha resistito il Ricciarelli con controricorso. La causa, assegnata alla terza Sezione civile della corte di Cassazione, è stata rimessa al primo presidente con ordinanza 15538/2003. In essa il collegio, preso atto di un indirizzo della Corte Suprema (Cassazione 17475/2002) secondo il quale i consumatori ovvero i soggetti non imprenditori e pertanto terzi rispetto alla intesa, non sono legittimati ad esperire l'azione di nullità della stessa di cui all'art. 33 della l. 287/1990, ha ipotizzato l'opportunità di rimettere la questione della legittimazione ad agire e dunque della competenza della Corte d'appello in unico grado, per la sua particolare importanza, alle Sezione unite. Con provvedimento del primo Presidente la causa è stata rimessa alla odierna udienza di queste Sezioni unite. Le parti hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE 231 1. Con il primo motivo di ricorso la Unipol deduce la violazione dell'art. 33, comma 2, della l. 287/1990 e dell'art. 2033 c.c. nonché la motivazione omessa, illogica ed insufficiente sul punto del rigetto della sua eccezione di incompetenza per materia del giudice adito. Sostiene che il primo giudice ha errato nel ritenere che legittimati alla azione prevista dalla legge Antitrust possano essere solo gli imprenditori esclusi dal cartello e pertanto da questo danneggiati, ed ha errato ancora nel qualificare l'azione in parola come restitutoria e dunque estranea alla previsione di cui all'art. 33 della legge antitrust. Sostiene infatti che la legge ha attribuito alla Corte d'appello in unico grado di merito una competenza, ratione materiae, che prescinde dai soggetti che esercitano il relativo diritto. Deduce pure che siffatto criterio di competenza non può essere eluso attraverso la qualificazione della domanda come restitutoria anziché risarcitoria, giacché anche la restituzione del cosiddetto sovrapprezzo seguirebbe ad una nullità, almeno derivata, del contratto concluso tra la società assicuratrice ed il cliente automobilista, e l'accertamento di tale nullità è devoluto alla Corte d'Appello. 1.a. Osserva il collegio che le due questioni proposte, quella relativa alla legittimazione ad agire e quella relativa alla posizione giuridica dei contratti conclusi tra impresa assicuratrice e cliente "a valle" dell'accordo illecito tra gli imprenditori, costituiscono aspetti del medesimo problema. Ciò in quanto la posizione giuridica del terzo, estraneo all'intesa, che afferma di averne subito gli effetti ne determina la legittimazione ad agire. Tali questioni vanno trattate, pertanto, con una visione complessiva della materia che, movendo da una corretta nozione di intesa, consenta di definire la posizione di quegli che non vi ha partecipato. 1.b. La l. 287/1990, come è noto, rappresentò una novità nel panorama nazionale che, pur della vigenza del Trattato Ce e dunque anche dei principi desumibili dagli artt. 85 (oggi 81) e ss., era tuttavia imperniato sulla logica codicistica della concorrenza sleale, e dunque sulla tutela dell'imprenditore dalla attività scorretta del concorrente. Infatti benché anche la tutela suddetta si sia evoluta nella interpretazione della dottrina e dei giudici facendo si che si attenuasse fortemente l'originaria impronta deontologica e corporativa e si prendesse atto della nozione costituzionale del mercato come luogo della libertà di impresa che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale (Cassazione 11859/1997), essa conserva il carattere fondamentale di strumento dì tutela del corretto rapporto di concorrenza. La sussistenza di siffatto rapporto tra le parti che controvertono innanzi al giudice è il presupposto della sua operatività e mantiene pertanto la dimensione essenzialmente interindividuale dei conflitti. La normativa che difende l'imprenditore dalla concorrenza sleale, dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente. 232 La novità del Trattato CE è stata l'introduzione della tutela della struttura e della logica competitiva del mercato. Questo in quanto luogo nel quale si esplicita la pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l'esercizio della impresa, è perciò stesso luogo della competizione, cosicché ogni comportamento di mercato che riduce tale competitività perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria pretesa di autoaffermazione, è illecito. In particolare, poiché l'esercizio della concorrenza presuppone l'autonomia delle imprese concorrenti nell'esercizio delle rispettive scelte di mercato, è illecito ogni fatto che porta a ridurre questa autonomia, assimilando o avvicinando i comportamenti di mercato all'esecuzione di accordi antecedenti ovvero comunque conformandoli oggettivamente ad un certo grado di collaborazione che sostituisce o riduce la competizione. 1.c. Detta affermazione merita qualche ulteriore considerazione. L'art. 2 della legge antitrust chiarisce che "sono considerati intese" una serie di comportamenti, come gli accordi, le pratiche concordate ed addirittura le deliberazioni di consorzi ed associazioni di imprese. Essi sono vietati se hanno "per oggetto o per effetto dì ridurre o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza...". Pertanto se al di là della loro veste giuridico formale, tali attività in realtà mirano ad eliminare ovvero addirittura eliminano o riducono la autonomia di mercato dei soggetti che le compiono, esse integrano l'illecito di cui si tratta. La norma si conclude, al n. 3, con la perentoria statuizione: "le intese vietate sono nulle ad ogni effetto". L'elencazione del n. 2 dell'art. 2 in parola, considerata esemplificativa, sorregge la lettura della norma innanzi anticipata giacché consente all'interprete di delineare i tipi dei comportamenti anticompetitivi. Le fattispecie elencate, e cioè la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto o di vendita ovvero di altre condizioni contrattuali, l'impedimento e la limitazione della produzione o dello sbocco o dell'accesso al mercato, l'impedimento degli investimenti e dello sviluppo tecnico delle imprese, tutte le forme di ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento, l'applicazione di condizioni ingiustificatamente diverse a categorie di imprenditori omogenee, l'imposizione nei contratti con i concorrenti di prestazioni prive di relazione con la natura del rapporto, sono classici comportamenti anticompetitivi. La loro funzione è di sostituire all'esercizio individuale e perciò stesso libero del potere di impresa, un potere esercitato collettivamente estraneo alle forme societarie nelle quali si esercita l'impresa collettiva ed esente dai controlli che la legge in proposito prevede. Tali pratiche rafforzano la posizione dei loro autori riducendo l'efficacia della concorrenza da parte degli esclusi ed eliminando quella tra i partecipi. 1.d. Va osservato ancora che la l. 287/1990, la quale ai sensi della prima parte dell'art. 1 deve essere letta come attuazione dell'art. 41 Cost., deve peraltro essere interpretata in base ai principi dell'ordinamento comunitario. Pertanto in 233 armonia con la norma del Trattato (vedi quanto alla cosiddetta regola de minimis nel diritto comunitario della concorrenza causa Sirena n. 40/70, sentenza 18 febbraio 1971, e causa Volk n. 5/69, sentenza 9 luglio 1969) essa fa rilevare una dimensione quantitativa della intesa traducendola in carattere della stessa. La legge vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare "in maniera consistente" il gioco della concorrenza "all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante". La norma ripete quasi letteralmente il tenore dell'art. 81 del Trattato, salvo che per la norma comunitaria la rilevanza quantitativa è data ovviamente dall'ambito comunitario. Ma ciò che conta rispetto al problema che ne occupa è il rilievo dimensionale della fattispecie, che si spiega con il fatto che oggetto della tutela della l. 287/1990, come già del Trattato, è appunto la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in discussione da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull'assetto che trova. In definitiva, poiché, come è stato scritto argutamente, la legge non si occupa dell'intesa tra i barbieri di piccolo paese, il dato quantitativo conferma che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente ancorché questo possa essere riparato dalla repressione della intesa (cfr. quanto al pregiudizio al commercio comunitario, presupposto di applicabilità dell'art. 81, causa Grundig 58/64, sentenza 13 luglio 1966, e causa Montecatini, C 235/92, sentenza 8 luglio 1999, ex multis), bensì un più generale bene giuridico. Tuttavia tale più ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento di vietato (cfr. Cassazione 827/1999). Un'intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell'autore o degli autori della intesa. Ciò spiega che la l. 287/1990 all'art. 33, che contiene tanto una norma di giurisdizione, quanto una norma di competenza, si preoccupi con quest'ultima di individuare anche il giudice dell'accertamento della nullità, che è il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria. La legge infatti mentre affida al Giudice amministrativo (TAR del Lazio) la giurisdizione sulle impugnative avverso le deliberazioni della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, stabilisce pure che "Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione, delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla Corte d'appello competente per territorio". Alla Corte d'appello, dunque, deve rivolgersi chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo, e dunque ne chieda la dichiarazione di nullità presupposto dell'eventuale risarcimento (Cassazione 827/1999). 234 1.e. Va appena osservato che siffatta struttura della giurisdizione che comunque risale alla repressione della intesa appare datata, perché influenzata dalla impostazione che al momento, in cui la legge venne emanata era dominante. La previsione, che risale alla concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge sul contenzioso amministrativo del 1865, n. 2248, artt. 4 e 5, non a caso appare coerente con quella contenuta nella legge comunitaria 142/1992 che, all'art. 13, regolando la tutela giurisdizionale conseguente alla violazione delle normativa comunitarie in materia di appalti pubblici, stabiliva che il risarcimento del danno poteva essere domandato al Giudice ordinario da parte di quegli che avesse ottenuto dal Giudice amministrativo l'annullamento dell'atto amministrativo. Detta norma è stata abrogata dall'art. 35 u.c. del d.lgs. 80/1998 abrogazione confermata dall'art. 7, lett. c), della l. 205/2000), ma soprattutto l'assetto della giurisdizione ancora riconoscibile agli inizi degli anni novanta, è stato superato dalla legge e dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (Corte Costituzionale 204/2000 e 281/2004). Ciò contribuisce a spiegare come, attribuendo al Giudice amministrativo la giurisdizione sull'atto di Agcm e dunque nell'ambito di questa il potere di dire se l'intesa affermata si è realizzata, la legge antitrust 287/2000 abbia voluto accorciare il giudizio di merito introdotto da una domanda di nullità e di conseguente risarcimento del danno stabilendo un unico grado innanzi alla Corte d'appello competente per territorio. Cosicché anche quegli che non ha partecipato al giudizio innanzi al TAR, perché non ha resistito alla impugnativa della sanzione irrogata da Agcm, proposta dall'affermato autore della intesa, o non vi ha potuto partecipare perché in quella sede era carente di interesse, si trova a perdere un grado di giudizio allorché si rivolge al Giudice ordinario. Situazione processuale che non trova ostacoli di carattere costituzionale (art. 125 Cost.), e che comunque appare coerente con l'esigenza di favorire la sollecita soluzione di controversie che attengono all'assetto del mercato. 1.f. Sembra a questo punto al collegio di potere esprimere talune conclusioni, utili alla soluzione dei quesiti ad esso sottoposti. La diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica dalla concorrenza sleale e quella innanzi detta della legge antitrust esclude si possa negare la legittimazione alla azione davanti al Giudice ordinario ai sensi dell'art. 33, n. 2, della l. 287/1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa. Contrariamente a quanto ritenuto da Cassazione 17475/2002, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere. Pare opportuno notare peraltro che mentre siffatta esclusione della legittimazione in parola non è prevista espressamente dalla legge, questa peraltro, all'art. 4, laddove prevede il potere discrezionale della Agcm di 235 autorizzare un' intesa che possiede i caratteri che giustificherebbero il divieto, indica tra i presupposti della discrezionalità che fonda "il beneficio del consumatore". La legge dunque non ignora, nella materia della intesa, l'interesse del consumatore al punto da prevedere una ipotesi in cui esso,alla cui tutela la ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un "periodo limitato" addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale. Il consumatore, che è l'acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l'appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile. Va detto pure, atteso il rilievo interpretativo dei principi dell'ordinamento comunitario nella materia, che la sentenza della Corte di Giustizia, Courage, (453/1999) tende ad ampliare l'ambito dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva, sembra al collegio, che valorizza proprio le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla struttura competitiva del mercato. 1.g. E' appena il caso di precisare dal momento che la sentenza impugnata sembra sovrapporre le due figure che quanto fin qui espresso non è contraddetto dalla considerazione dell'abuso di posizione dominante, che è fattispecie diversa da quella che rileva nella controversia e che dunque non viene in esame. 1.h. Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto "a valle" costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Esso in realtà, oltre ad estrinsecarla, la attua. E' ben vero, come si fa rilevare in atti, che la legge vieta anche le intese che abbiano anche solo per "oggetto" la distorsione di cui si tratta, oltre che per "effetto", ma ciò si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della Agcm e quello riparatorio di cui alla azione di nullità e risarcimento. L'autorità garante è organo di amministrazione, ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista dì un pericolo, e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l'effetto distorsivo del fenomeno di mercato. Il giudice, che dirime controversie e non si occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte d'appello deve essere allegata un'intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l'interesse ad agire dell'attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento. 236 Il contratto cosiddetto "a valle", ovvero il prodotto offerto al mercato, del quale si allega, come nel caso di specie, la omologazione agli altri consimili prodotti offerti nello stesso mercato, è tale da eludere la possibilità di scelta da particolare del consumatore. La realizzazione consapevole di siffatta situazione rientra in modo strutturale nel comportamento oggettivo di mercato che giustifica la azione individuale di cui all'art. 33. Pertanto la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla "cospirazione anticompetitiva" e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se un'intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio, a parte la difficoltà dell'indagine, per la proibizione e la sanzione da parte di Agcm, giacché la legge, giova rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto oltre che per effetto la distorsione della concorrenza, non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell'art. 33 della l. 287/1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale "a monte" ogni funzione di copertura formale dei comportamenti "a valle". E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi affetti. 1.i. Non conduce a conclusione diversa nemmeno la considerazione della fattispecie restitutoria di cui all'art. 2033 c.c. Come è noto essa si distingue dalla fattispecie risarcitoria di cui all'art. 2043 c.c. per l'assenza di qualunque profilo di colpa o dolo nell'accipiens (Cassazione 3060/1984). Orbene, una parte che chiede dichiararsi la nullità di una intesa, allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l'elemento psicologico del dolo o della colpa. Pertanto, quale che sia la forma della domanda di ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa, essa prescinde dalla fattispecie di indebito oggettivo. Quegli che chiede la restituzione di ciò che ritiene di avere pagato in esecuzione di un negozio concluso per effetto della intesa nulla, allega pur sempre quest'ultima e l'impossibilità giuridica che essa produca effetti. Ritiene pertanto la Corte, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente il danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (Sezioni unite, 500/1999) che colui che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione, l'azione di cui all'art. 33 della l. 287/1990. Cosicché, pare utile precisare conclusivamente, a qualificare la domanda ed a determinare la competenza nel caso che ne occupa è la richiesta di accertamento di una intesa e quindi di dichiararla nulla presupposto della domanda di eliminarne gli effetti anche attraverso l'eliminazione del 237 sovrapprezzo. Pertanto, poiché le sentenze del Giudice di pace ancorché emesse secondo equità sono soggette al rispetto delle norme di rito tra le quali quelle che attengono alla competenza del giudice (Cassazione 10486/2001 ex multis) e dei principi informatori della materia (Cassazione 743/2005) quali nella specie quelli che definiscono l'intesa vietata e la sua struttura e rispetto a questa, le posizioni dei terzi, il motivo esaminato è fondato. Pertanto, la competenza a conoscere della causa, è della Corte d'appello di Napoli, come peraltro, sia pure in subordine, chiede la stessa ricorrente. Ciò in quanto il privato ha adito il Giudice di pace di Avellino ai sensi degli art. 19 e 20 c.p.c., come pure afferma la ricorrente, ovvero invocando i fori alternativi da esse norme previsti. 2. La trattazione del secondo motivo mediante il quale Unipol lamenta la violazione degli artt. 320, 183, 184 c.p.c., è assorbita dall'accoglimento del primo motivo giacché la questione è rimessa al giudizio davanti al giudice dichiarato competente. 3. La trattazione del terzo motivo mediante il quale viene allegata la violazione dell'art. 1469-bis c.c., relativamente alla ritenuta competenza del foro del consumatore nonché quella del quarto e del quinto motivo mediante i quali la parte ricorrente allega la violazione degli artt. 2033, 1322, 1372 c.c., la inadeguatezza della motivazione sui relativi punti, la violazione dell'art. 113 e 115 c.p.c. ed ancora dell'art. 2033 c.c., sono parimenti assorbite. 4. Va pertanto accolto il ricorso e va dichiarata la competenza della Corte d'appello di Napoli. Ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le parti. P.Q.M. La Corte di cassazione, Sezioni unite Civili, accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbita trattazione dei restanti motivi, e dichiara la competenza della Corte d'appello di Napoli. Compensa le spese del giudizio tra le parti. 238 239