LUCIO ANNEO SENECA La filosofia dominante nella Roma imperiale del primo secolo d.C. fu lo stoicismo, il cui rigorismo era stato smorzato dagli accomodamenti fatti da Panezio. Con i successori di Augusto i rapporti tra i filosofi e il potere si fecero problematici, sfociando talvolta in aperto conflitto. Ciò coincideva con il crescente contrasto tra l'imperatore e l'aristocrazia senatoria, che in alcuni dei suoi esponenti più significativi si avvicinò allo stoicismo. Di per sè la filosofia stoica può essere mobilitata per giustificare sia l'abbandono al corso provvidenziale del mondo, sia lo sforzo morale dell'individuo, il ritiro dalla vita politica o l'impegno in essa. Emblematica di questa ambivalenza é la vita e l'opera di Lucio Anneo Seneca. Nato a Cordova in Spagna nel 4 d.C., visse a Roma aderendo da giovane al pitagorismo, da cui fu poi distolto dal padre - celebre retore - e in seguito abbracciando lo stoicismo, da cui mai si separò. Si dedicò dapprima con successo alla vita forense, ma nel 41 d.C. fu esiliato in Corsica dall'imperatore Claudio per un sospetto adulterio. Vi rimase otto anni, dedicandosi agli studi filosofici e componendo una serie di scritti consolatori, nonchè alcuni dialoghi. Rientrato a Roma nel 49 d.C., diventò precettore di Nerone, che però mostrò sempre maggiore predilezione per le arti che per la filosofia. In seguito all'ascesa al potere del suo discepolo, nel 54 d.C., Seneca scrive il De clementia, nel quale egli si candida come consigliere del principe; vi sostiene la tesi che la clemenza é tanto più ammirevole , quanto maggiore é il potere di chi la manifesta. La clemenza é agli antipodi dell'ira la malattia del tiranno - , di cui Seneca descrive le cause e suggerisce la terapia in un altro scritto (in tre libri), il De ira . La collaborazione con Nerone durò fino al 62, quando con l'uccisione di Burro , che aveva affiancato Seneca nella posizione di consigliere, la clemenza del principe si dissolse. A Seneca si pose l'alternativa tra la lotta contro il potere o il ripiegamento in se stesso. Non sappiamo sino a che punto la prima via fu imboccata e se la congiura dei Pisoni, scoperta nel 65, ne fu l'esito, soprattutto non sappiamo se Seneca ne fosse al corrente; di fatto fu accusato di farne parte e fu costretto al suicidio ma nei suoi scritti non compare mai un'esplicita giustificazione del tirannicidio. Da buon stoico quale era, Seneca non condanna il suicidio: quando non si può più applicare la virtù, quando l’uomo non é più libero esso é concesso come extrema ratio. Altre vittime illustri della reazione di Nerone furono il nipote di Seneca, Lucano, e Trasea Peto. In una situazione di dominio tirannico, quale appariva ai senatori ostili al principe, lo stoicismo, più che fornire programmi di azione, poteva insegnare che cosa non si deve fare nè temere. Anche per Seneca, costretto all'impotenza politica, la filosofia diventa - come già per Cicerone - la via di riscatto. La perdita di spazio politico appare compensata dall'estensione nel tempo dell'efficacia della propria azione, anche per le generazioni future, esercitata con la scrittura. E' in questo periodo che Seneca compone i suoi scritti filosofici più importanti: De otio, De tranquillitate animi, De providentia , le Quaestiones naturales (nelle quali Seneca guarda con grande simpatia al progresso scientifico, purchè sia soggiogato al dominio della ragione) e le 124 Epistulae morales ad Lucilium, un epistolario (forse con un destinatario fittizio) in cui troviamo l’intero pensiero senecano. Ma ciò che Seneca ritrova é soprattutto la sua interiorità: in questa nuova circostanza la filosofia diventa in primo luogo una barriera di protezione contro un mondo minaccioso. Il punto di partenza consiste nel riconoscere che contro la sorte é impossibile lottare e che l'errore fondamentale é di attribuire valore a ciò che dipende da essa. Se – stoicamente – il destino è signore delle cose, allora non ha senso opporvisi. La virtù non é preclusa a nessuno e per questo aspetto anche gli schiavi sono uomini. La vera schiavitù per Seneca é quella volontaria, l'assoggettamento al vizio. Egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente: lo schiavo ha piena dignità umana e a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via del bene. Da ciò se ne evince non già che si debbon liberare gli schiavi, ma, semplicemente, che si deve essere umani nei loro riguardi, permettendo loro di mangiare e di parlare liberamente: non si devono infatti giudicare gli uomini in base alla loro condizione sociale, bensì in base alle loro azioni. Chiunque, indipendentemente dalla propria condizione sociale, può raggiungere la virtù (De beneficiis) . Buona parte dell’opera di Seneca è poi dedicata alla fugacità del tempo: così si aprono l’epistolario a Lucilio e il De brevitate vitae; l’idea centrale di Seneca è che "non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo" (De brevitate vitae, 1). La vita ci sfugge di continuo, ma il tempo di cui disponiamo è sufficiente per compiere le più grandi imprese, per conseguire la virtù (vero obiettivo della vita umana): come ricchezze immense, se finite nelle mani di un incapace, vengono rapidamente dilapidate, così un piccolo gruzzoletto, se capita nelle mani giuste, viene investito e aumenta; così è per la vita, che è breve ma può essere ben sfruttata. Nel De tranquillitate animi il filosofo spagnolo polemizza con lo stoico Attenodoro, il quale sosteneva che per esercitare la filosofia fosse necessario allontanarsi dalla politica. Nel De otio, tuttavia, Seneca ritorna sui propri passi, esaltando a gran voce la vita contemplativa. Ma l’adesione allo stoicismo pone a Seneca anche altre problematiche di gran rilievo: forse la più importante è come sia possibile, in un modo retto dalla ratio cosmica, che gli uomini giusti si trovino a patire grandi torti e ingiustizie, mentre spesso gli ingiusti trionfino. Perché il male si abbatte sui buoni? Se davvero il mondo fosse governato dalla provvidenza cosmica – come prevede lo stoicismo -, i buoni non dovrebbero essere premiati anziché puniti? A questa difficile questione Seneca prova a rispondere nel De providentia, spiegando come quelli che a noi paiono mali siano in realtà delle prove che ci vengono poste per saggiare la nostra virtù: "perchè, allora tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti". Ricorrendo ad un’altra metafora, Seneca spiega che la divinità si comporta come un maestro coi suoi scolari, pretendendo "di più da coloro sui quali conta di più". Il pensiero di Seneca, per via del suo stile scintillante di sententiae e per il suo procedere costellato di metafore e rapide contrapposizioni, verrà condannato da Quintiliano, ma, nonostante la sua pur autorevole condanna, godrà di un’immensa fortuna nel pensiero successivo. DE CLEMENTIA L'opera è stata composta all'incirca tra il 55 e il 56 e rappresenta la più chiara espressione della concezione senecana del potere. Il testo è opportunamente dedicato all'imperatore Nerone come traccia di un ideale programma politico ispirato ad equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, nè le forme ormai palesemente monarchiche che esso ha assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l'impero. Il problema, piuttosto, è di avere un buon sovrano: l'unico freno del sovrano, essendo il potere assoluto, sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà tratteenere dal governare in modo tirannico. L'ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione. Seguiranno alcuni passi tratti dall’opera presa in questione. Le parti riportate possono essere legate al concetto di Totalitarismo. 1. Definizione della clemenza [1] E perché non ci inganni il magnifico nome di clemenza, e non ci conduca all’estremo opposto, esaminiamo che cosa sia la clemenza, che natura abbia e quali siano i suoi limiti. La clemenza è la moderazione dell’animo nell’uso del suo potere di punire; oppure è mitezza di un superiore nei confronti di un inferiore nell’assegnargli una pena. È più sicuro proporre più definizioni, perché non succeda che una sola definizione non sia sufficiente a comprendere la cosa e, per così dire, sia condannata per un vizio di forma; perciò, può essere definita anche un’inclinazione dell’animo alla mitezza nell’infliggere una pena. 14 Modo migliore di comandare [1] Oh principe degno di essere chiamato in consiglio dai padri! E degno di comparire nei testamenti come coerede con i figli privi di colpe! È questa la clemenza che si addice al principe: ovunque vada, renda ogni cosa più mite. Nessuno sia tanto spregevole per il re che costui non si accorga della sua morte: in qualunque condizione <si trovi>, ognuno è parte dell’impero! [4] <Infatti>, è forse giusto che si comandi con più gravosità e durezza a un uomo che ai muti animali? Eppure, un maestro esperto nel domare i cavalli non terrorizza il cavallo frustandolo spesso, perché diventerà pauroso e riottoso, se non lo rabbonisci con carezze affettuose. 23. La crudeltà è contraria alla natura umana [2] La ragione principale per cui la crudeltà è abominevole è che essa oltrepassa i limiti consueti, poi quelli umani, va in cerca di supplizi nuovi, fa appello all’immaginazione per escogitare strumenti mediante i quali variare e prolungare il dolore, trae piacere dai mali degli uomini. E il funesto morbo dell’animo raggiunge il culmine della follia quando la crudeltà si trasforma in voluttà e ormai si prova piacere a uccidere un uomo. [3] Alle spalle di un uomo simile viene dietro la sua naturale distruzione, gli odii, i veleni, le spade; è minacciato da tanti pericoli quanti sono coloro per i quali egli stesso rappresenta un pericolo, ed è insidiato sia da cospirazioni private sia da sollevazioni pubbliche. Infatti, un danno privato e leggero non solleva città intere: ma quello che ha cominciato a estendere i suoi furori e minaccia tutti, viene trafitto da tutte le parti. 24. Effetti della crudeltà [4] Quegli animali privi di ragione e da noi condannati per la loro ferocia si astengono dagli animali della loro specie, e così la somiglianza esteriore è una garanzia: la rabbia dei tiranni non risparmia neppure le persone a loro prossime, anzi mette sullo stesso piano gli estranei e i suoi, e si eccita tanto più quanto più si esercita. Poi dalle uccisioni di singoli individui si estende fino all’annientamento di interi popoli, e reputa che sia dimostrazione di potenza l’appiccare fuoco alle case e il far passare l’aratro sopra antiche città; e crede che l’ordinare di uccidere solo una o due persone si addica poco alla dignità imperiale e, se un gregge di infelici non è esposto nello stesso tempo ai <suoi> colpi, pensa che la propria crudeltà sia costretta entro limiti angusti.