1 La POETICA di Aristotele e i tempi moderni Anche se è cosi corta

La POETICA di Aristotele e i tempi moderni
Anche se è cosi corta, la Poetica di Aristotele è il studio più fondamentale
sull'arte drammatica nella storia di teoriche teatrali. Si usa e re-usa, da quanto è
stata scoperta nel rinascimento, nel 1300, (esistono speculazioni che è proprio
inventata a quel epoca), come una guida delle arti di tragedia, e come basi delle
varie teoriche della dramma. L'unico che si è “opposto” è stato Bertolt Brecht che
ha provato di creare il nuovo metodo di teatro epico. Lui ha assunto che tutto il
teatro prima di lui è basato sul principio di Aristotele e che il suo teatro epico era
la prima forma non aristotelica.
Nel tempo quanto ha scritto la sua Poetica, 300 anni prima del Cristo, Aristotele
aveva davanti il primo vero teatro nella tradizione occidentale. Forse questo è la
ragione che lui poteva andare fino a fondo delle arti drammatiche, alle loro basi.
Esiste quasi una semplicità maestosa nella prima frasi del testo, che subito
spiega di che cosa si tratta: (Lanza, p.117).
Pero, anche se sembra semplice, la Poetica è uno dei testi più complicati. Nel
periodo più di due mila anni questo testo è stato perso, ritrovato, e inventato da
ogni periodo di nostra storia con una nuova interpretazione che lo rendeva più
complicato dell’originale. Questo è grazie il fato che il testo è rimasto incompleto,
ripetitivo, e mal organizzato. Esiste possibilità che rappresenta appunti per le
lezioni, con interpolazioni che sono avvenute dopo.
Quando scriveva il suo testo, Aristotele assumeva che i suoi lettori sapevano la
sua filosofia, come la poesia e il teatro che discuteva. Certe parole chiave come
»azione«, »patos«, »forma« si possono capire solo nella luce degli altri scritti di
Aristotele. Piuttosto, il suo metodo è empirico, perché lui inizia con i testi che
conosceva bene, e provava di vedere che cosa era l'intenzione di poeta e come
ha composto il lavoro d'arte. La sua intenzione non era di trasformare la Poetica
in una scienza esatta, meno che un vademecum normativo, con le leggi severi,
come hanno provato gli umanisti di rinascimento, con le loro famosi unità di
tempo, posto e azione.
Lui sapeva che ogni poeta aveva la sua visione particolare, e doveva usare il
principio della sua arte a modo suo. Il teorico americano, Frensis Ferguson
pensa che la Poetica è più come un ricettario, che serve come un’interpretazione
è non una normativa. A mio parere, la Poetica si deve leggere piano, studiare
direttamente, senza altri interpretazioni, come una »aiuto nel riflessione«, e cosi
si può capire meglio. Per illustrazione, userò due esempi classici: Edipo re e
Aiace, nell’originale e nell’interpretazione moderna dei nostri tempi.
II
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I primi 5 capitoli della Poetica sembrano come l'introduzione a un lavoro più
lungo sulle più importanti forme della poesia, che erano conosciute ad Aristotele,
incluso commedia, epica, e ditirambi, come la tragedia.
I poeti, come pittori, musicisti, e danzatori, assume Aristotele, tutti »imitano
l'azione« in loro modi diversi. Come azione Aristotele intendeva non l'attività
fisica, ma il movimento dello spirito, e quando dice l'imitazione lui non pensa ad
una copia superficiale, ma alla rappresentazione delle forme infinite che lo spirito
umano può avere, tramite gli media dell'arte: musica, arti visive, parole e gesti.
Erra un senso comune che l'arte sempre imita la realtà.
Per esempio, Platone assumeva che la poesia incoraggia le passioni invece di
scoraggiarli. Lui è contro il mimesis perché si allontana dalla propria natura, che
è al suo turno imitazione delle idee. Nonostante, Aristotele usa questa
definizione dicendo che l'arte non è solo una imitazione pura, ma
imitazione delle forme ideali. Quindi, Platone parla della copia, ed Aristotele
invece della creazione, come quando il poeta crea una nuova realtà, e le cose
come dovrebbero essere, e non come sono. Comunque, Platone nello Stato
riconosce il ritmo e l'armonia che entrano profondamente in anima e diventa
presa da essi.
Questo era proprio un concetto che Platone ha provato di eliminare. Anche
Platone, come Aristotele, viveva in un periodo in quale teatro non era come nei
tempi di grandi scrittori greci. Lui dappertutto scriveva che l'agonistica si trovava
nelle mani sbagliate perché il pubblico generale decideva chi vincerà. Nelle Leggi
lui assumeva che lo stato greco era il paese in quale dominava il teatro che
aveva un’influenza negativa sui poeti, e cosi anche sugli spettatori. Invece di
provare un piacere nobile che gli renderà persone migliori, il pubblico è
sottoposto a tutte le cose contrarie. Platone pure condanna il teatro nella
Repubblica, perché imita le cose che sono di passaggio invece di contemplare
l'idee eterne. Lui era sempre per la promozione della verità, amore per essa e
coraggio, e contro l'aumento delle emozioni.
Platone, e il mondo greco classico in generale, avevano dell'arte un esperienza
molto diversa, che ha ben poco a che fare col disinteresse e con la fruizione
estetica. Il potere dell'arte sull'animo gli sembrava tanto grande, che egli pensava
che essa avrebbe potuto, da sola, distruggere il fondamento stesso della sua
città, e tuttavia, era costretto a bandirla, lo faceva pero soltanto a malincuore,
»perché abbiamo coscienza del fascino che essa esercita su di noi.”
Comunque, Aristotele affermava che l’arte deve imitare una “realtà ideale” e che
l’arti si possono distinguere in 3 modi:
Per l’oggetto imitato
Per il medio usato
Per il modo
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L'oggetto dello scrittore di tragedie, è l’imitazione di »una azione seria e
compiuta«, mentre per commediografo l'azione presentata dai caratteri che sono
peggiori di noi, o forse più stupidi che la gente che conosciamo nella propria vita.
Il medio Aristotele semplicemente definisce come le parole di poeta, colori di
pittore e i suoni per musicisti.
Per il modo lui pensa qualcosa come »convenzione«. In questo senso, il modo
dello scrittore epico (o di romanzi) e da presentare l'azione in sue proprie parole
e quella di drammaturgo di presentare i caratteri che recitano sulla scena, quello
che dicono e fanno.
Nel IV capitolo, Aristotele, per un attimo si chiede sulle origini e sviluppo della
poesia, che include in essa tutte le forme della letteratura e dramma. Lui pensa
che questo proviene dai due istinti nella natura umana, una verso imitazione e
l'altra verso armonia e il ritmo. Il piacere che noi proviamo dall’imitazione d'arte è
molto più diversa dalla esperienza diretta: pare che viene dal fatto di
riconoscimento di quello che fa l'artista, una esperienza o intuizione vaga
che al improvviso appare conosciuta.
La soddisfazione viene dal nostro desiderio per sapere e capire; imitazione ha
qualcosa da fare con il contenuto morale e intellettuale dell'arte e perciò è
connetta con la filosofia. Armonia e ritmo, sono connetti al piacere della forma
quale noi abitualmente la consideriamo »estetica pura«. Forse pero una
spiegazione, per l'imitazione del poeta, possiamo trovarla nella stessa Poetica,
nel brano di confronto tra poesia e storia del IX capitolo, »La poesia dice
piuttosto gli universali, la storia i particolari. p.147
La rappresentazione poetica non è dunque una semplice fabbricazione di un
immagine che riproduce accuratamente un modello, ma la riproduzione di quel
che universale in quel modello. L'universale è individuato dal verosimile... e la
rappresentazione governata dalla verosimiglianza ha dunque in se come
principio costitutivo la stessa norma di probabilità degli avvenimenti
rappresentati.
Dopo questo passaggio breve, ma suggestivo, Aristotele disegna lo sviluppo
storico di ditirambo, commedia, epica, e la tragedia in Grecia. Questo passaggio
è il primo documento della storia della letteratura ed è stato interpretato in vari
modi. Pero Aristotele non credeva in storia in modo come noi crediamo, ma lui
pensava che un uomo e l'umanità si può capire solamente in forme più
sviluppate, e nei capolavori di ogni forma, e cosi si è sviluppata la tragedia, come
la forma più perfetta, che in modo migliore riempie gli obbiettivi della poesia,
usando al massimo le risorse di questa arte. Certamente, che lui lascia la
possibilità per futuro sviluppo delle altre forme, ma per adesso lui prende la
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tragedia greca come suo esempio e specialmente il capolavoro di Sofocle, Edipo
re.
Nel V capitolo lui inizia il discorso sulla commedia, ma questa parte è rimasta nei
frammenti e non è rimasto abbastanza per capire che cosa lui pensava
esattamente di questa forma d'arte. Nei capitoli XXIII e XXVI lui discute epica,
pero pensa che i principi dell’epica sono solo corollari a quelli della tragedia, che
era la forma più completa.
Quello che c’interessa di più è la sua analizzi della tragedia che inizia nel VI
capitolo: p 135. Che è la definizione più famosa... e lui la intendeva per
descrivere la tragedia e per distinguerla dalle altre forme della poesia. Pero
quando parla di tragedia Aristotele pensa al modo di leggerla, e non solo
guardarla. È l'imitazione dell’azione che lui analizza, cioè la creazione della
dramma che rappresenta l'azione. Aristotele dice che l'azione esce da due
cause naturali, il carattere e il pensiero. Il carattere dell’uomo lo sforza di
comportarsi in un modo, ma in fatti lui si comporta in modo adeguato alle
condizioni che cambiano intorno a lui, e il suo pensiero (o la percezione) è quella
che gli mostra che cosa di seguire e che cosa di evitare in ogni situazione. Il
pensiero e il carattere insieme creano la sua azione.
III
Prima dobbiamo chiarire la parola azione (praxis) che non significa i scopi,
doveri, avvenimenti o l'attività fisica, ma piuttosto significa la motivazione da
quale escono i scopi. Dante lo chiamo il movimento di spirito, o il movimento
della anima verso quello che a un personaggio sembra giusto al momento.
All'inizio di Edipo re, per esempio, Edipo capisce che la peste in Tebe è risultato
della ira degli dei, perché sono offesi dal omicidio di re Laio di quale l’assassino
non è mai stato trovato e punito. In quel momento è trovato il motivo per Edipo e
l'azione può iniziare, che significa di trovare l'assassino, e cosi definita l’azione
può continuare, con tante variazioni come le risposte alla situazione che cambia
tutto il tempo, finche non è trovato l'assassino che è Edipo stesso. Quando
Aristotele usa la parola praxis lui pensa tutto il lavoro sul motivo fina a la sua
fine, buona o male.
L'azione dell’Edipo nella dramma è facile da definire, e il suo motivo è chiaro e
razionale. Questa è una specie d‘azione che Aristotele spesso ha in mente
quando discute la tragedia, e la sua parola praxis connota l'oggettivo razionale. Il
motivo comune di trovare l'assassino è l'azione principale della tragedia.
Nella Poetica, Aristotele assume, anche perché non la spiega, il suo concetto più
generale dell’azione. Perciò quando lui scrive, (VI.9) che la tragedia è infatti
imitazione non di uomini, ma di azioni e di modo di vita, lui si riferisce a quello
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che ha scritto prima sulla etica. Lui usa la parola energia, e parla di 3 forme di
essa: praxis, poiesis, theoria.
In praxis c’è il motivo di »fare qualcosa«, che abbiamo visto nell’azione
dell'Edipo, cioè subito quando lui capisce che deve trovare questo assassino, è
la praxis. In poesis il motivo è di »creare qualcosa«, che è l’azione degli artisti
quando sono concentrati sulla dramma, o la canzone, una poesia, che loro
provano di creare. La nostra parola poesia proviene da questa parola greca, e la
poetica e l'analisi della azione di poeta di creare la tragedia.
In teoria il motivo è di »prendere e comprendere« qualche verità. Si potrebbe
tradurre come contemplazione, se uno si ricorda che per Aristotele
contemplazione è una cosa molto attiva. E quando lui dice che la fine della
tragedia è il modo d’azione lui pensa alla teoria. Lui pensava che tutti gli uomini
hanno desiderio di sapere, e che il spirito umano vive in un modo più intensivo in
percezione della verità.
Ogni azione, pero, ha la sua propria forma che si crea come reazione ad una
situazione. Piuttosto, nella psicologia d’Aristotele, tutte due, l'intreccio e il
carattere, che lui definisce come azione abituale, sono formati dalle mal definite
emozioni e sensi, che lui chiama pathos (l’azione sbagliata). In ogni tragedia
che deve rappresentare »la azione compiuta«, l'elemento di patos è essenziale.
Se vogliamo capire meglio patos in nostro esempio, Edipo re, noi dobbiamo
riflettere sulla relazione tra il patos con cui comincia e finisce la tragedia,
l’oggettivo comune per cercare l’assassino, che poi produce gli avvenimenti della
tragedia.
Nella filosofia di Aristotele e nelle altre filosofie successive sullo comportamento
umano, gli concetti di azione e passione (praxis e pathos) sono contrastati in un
modo molto netto. Azione è una cosa attiva (praxis): e l’anima sopporta qualcosa
che non può controllare ne capire, e perciò è commossa (patos). Gli due
concetti, astrattamente considerati, sembrano i due opposti; ma nella nostra
esperienza umana azione e passione sono sempre combinate, e questo è stato
riconosciuto nella psicologia d’Aristotele. Non c'è il puro movimento dell’anima
che è la passione pura, totalmente senza l'oggettivo e compressione.
Nel prologo d’Edipo Re, la Tebe soffre dalla peste, e gli cittadini supplicano
Edipo per aiutarli. L’oggettivo comune di salvare la Tebe proviene dalla paura.
Quando Creonte porta la voce dagli Delfi, l'azione diventa più netta definitiva
come »cercare l'assassino«. Ogni episodio dopo di questo è una disputa tra
Edipo e uno dei suoi antagonisti sulla ricerca dell'assassino, e ognuna finisce
senza risoluzione, perché gli antagonisti non si mettono d'accordo, al contrario il
problema diventa più complicato, ma i fatti nuovi si portano a luce e avanzano la
storia.
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Il coro ogni volta è in preghiere e paura. I canti del coro sono patetici, ma il loro
patos e la passione ha una forma nella forza continuata di vedere come si può
arrivare a questo oggettivo comune. Quando alla fine Edipo capisce che è lui il
colpevole, sua azione è interrotta, e cosi anche il suo carattere di una persona
etica e responsabile. Il coro soffre con lui, ma nel lamento e visioni terribili alla
fine della dramma, loro hanno capito chi è il responsabile, e cioè arriva la
salvezza della città.
L’oggettivo comune è arrivato al fine paradosso, e il coro (e tramite loro gli
spettatori) ha ottenuto quel modo d’azione, alla teoria, cioè contemplazione
della verità, che Aristotele riguardava come la verità più importante della vera
vita umana. La completa azione nell’Edipo re è facile da vedere. Pero c'è una
discrepanza tra il desideri e il fatti veri e solo alla fine il protagonista è confrontato
con una azione seria ed compiuta, tramite il riconoscimento.
L’intreccio (racconto)
Aristotele assumeva che il racconto era la parte più importante della dramma e lo
considerava organico, offrendo i consigli come di costruirli. Lui pure discute
questo in VI capitolo e lo definisce come la parte più importante della dramma;
cioè come una composizione dei fatti. Questa definizione è molto utile, come
l'inizio, perché aiuta di fare la differenza tra il racconto e la storia che il poeta
vuole drammatizzare e l’azione quale lui vuole presentare.
Per esempio, Sofocle conosceva molto bene la storia d’Edipo, pero per scrivere
la sua tragedia, lui ha usato solo alcuni fatti per presentarli sulla scena, mentre
delle altre parti c’informa tramite le testimonianze di Tiresia, Giocasta,
messaggero del Corinte e il vecchio pastore. La distinzione tra la storia e il
racconto si potrebbe applicare su tutte tragedie, anche sulle quelle
completamente inventate dal poeta.
Il scopo è di creare il racconto e di presentare una azione compiuta, e in caso di
Edipo re si tratta della ricerca per l’ assassino. Supponiamo che in questo
Sofocle vedeva il motivo per iniziare il racconto. Questo era la sua visione
poetica o l'ispirazione per la tragedia in nascita. Lui vedeva questa azione come
tragica, che finiva in distruzione, sofferenza e l' apparenza di una nuova vista. È
proprio in quel momento che la creazione del racconto inizia, e gli fatti della
storia si sistemano in un arrangiamento significativo. Come dice Aristotele, la
composizione dei fatti, cioè il racconto è il primo principio e l'anima della tragedia.
Questo è una metafora organica che potrebbe essere importante nell’analisi
dell’artefice. Nell' anima, Aristotele assumeva (era un biologo) il principio
formativo in ogni essere vivo, uomo, animale, o pianta. L'azione che il poeta
conosce per la prima volta è solo potenzialmente una tragedia, finche non
comincia la composizione dei fatti e non si forma in una tragedia attuale.
Aristotele pensava che quando gli incidenti sono arrangiati in loro sequenze
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tragiche, loro gia producono un effetto tragico, anche se gli caratteri non sono più
che il nomi.
Pero la tragedia non è finalizzata finche le dramatis personae non sono
caratterizzate, e tutto il linguaggio è formato per esprimere il loro cambiamento
dell'azione, momento per momento. Il racconto, in altre parole, è la prima e
basica forma della dramma, ma è solo tramite la delineazione dei caratteri e l'arte
di linguaggio che il poeta gli da la forma finale.
I parti del racconto
Un'azione completa (come abbiamo visto) passa tramite i modi di praxis e il
patos fino a percezione finale, e il racconto cosi a delle 'parti', tipo di fatti
dall’inizio, mezzo, e fine della dramma, risultando dai vari modi della azione.
Aristotele discute gli parti dello racconto in modi diversi, in connessione con vari
problemi di scrivere i drammi. (p. 137-138)
Nel XII capitolo lui fa la lista e definisce gli parti quantitative della tragedia, come
gli elementi oppure gli movimenti di una sinfonia in quali le tragedie greche sono
state scritte: prologo, episodio, esodo, canto corale, e di questo parodo e
stasimo, che sono comuni a tutte, particolari sono invece i canti dalla scena e i
compianti. (p155). Sembra che questo breve e non finito capitolo è stato
interpolato dopo e comunque serve come una spiegazione del ritmo della
tragedia in paragone con i rituali.
Comunque Aristotele dedica la grande parte della sua attenzione a le “parti
organici” dell’intreccio, che lui gli definisce come rappresentanti della azione
tragica, che servono per produrre un effetto specificamente tragico. Questi tutti
rappresentano l'azione nel momento in quale la tragedia arriva alla sua tragica
fine: rovesciamento della situazione, ricognizione, e patos sono inerenti nella
concezione basica del racconto, e dipendono uno all'altro come in Edipo Re.
(p.151-2).
Notate come l’azione oggettiva non è cambiata, perché l'Edipo era in fatti il figlio
di Giocasta tutto il tempo. Cosa è cambiato è la situazione degli caratteri, perciò
l'azione di Edipo si cambia in fronte ai nostri occhi. L'azione che sembrava di
arrivare ad una lieta fine si vede come è diretta verso la catastrofe, e il patos
finale di Edipo continua. Riconoscimento, come dice Aristotele, è invece il
rovesciamento dalla ignoranza alla conoscenza,... (p.153) questo si può
applicare anche agli esempi più moderni, da Shakespeare a Ibsen.
Patos è un elemento essenziale della tragedia, da quale Aristotele non parla
molto, assumendo che fa la parte dei canti del coro in quali loro vedono e
capiscono il significato della sofferenza dell’Edipo, accompagnato dalla musica.
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Il suo punto più importante si trova nel XIV capitolo: p. 161-163. Anche se è
presentata con i mezzi spettacolari, l’ultima scena in quale Edipo entra con gli
buchi di sangue invece degli occhi che si è appena cavati, il pubblico capisce in
quel momento la tragedia di Edipo e che la perdita della vista è solamente il
simbolo della sua distruzione.
Varie specie di racconto
Nel suo principale tentativo di classificare le trame (x) Aristotele gli divide in
semplici e complesse, anche se a noi, rispetto al dramma moderno, tutte le
tragedie greche possono sembrare semplici. La distinzione esenziale fra queste
2 categorie consiste nel fatto che nei drammi 'semplici', l'azione si muove
continuamente in un unico senso, come nel Prometeo e nella Medea, mentre le
trame complesse comportano il passaggio dall’ignoranza alla cognizione, o dalla
prosperità alla calamita. Aristotele definisce come la migliore tragedia quella che
comprende sia il riconoscimento sia il rovesciamento, citando Edipo re come
capolavoro in quale le due cose sono combinate con grande effetto.
Il Edipo re è al parere del Aristotele il modello perfetto: l'azione è completa e il
racconto lo rappresenta quasi perfettamente. Il racconto è complesso, perché
contiene ricognizione e rovesciamento, pero esistono i racconti semplici che non
includono questi elementi. L'azione in Edipo prende in forma di una motivazione
etica, mentre Edipo segue il suo scopo razionale e moralmente responsabile di
trovare l'assassino, come la motivazione patetica all’inizio e alla fine della
dramma. Ma lui pure riconosce i drammi che hanno essenzialmente motivazione
patetica e quelle che hanno motivazione etica. In nostri tempi l'esempio delle
prime sono i testi Chekhov.
Infatti, molte delle tragedie comportano un drastico cambiamento di fortuna,
spesso collegato a una scoperta imprevista che riguarda l'identità di uno dei
personaggi oppure gli avvenimenti passati: l'ironia drammatica, come abbiamo
visto, dipende dall'esistenza temporanea di illusioni non condivise dal pubblico.
Gli studiosi hanno fatto l'impossibile per far rientrare tutte le tragedie entro gli
schemi descritti da Aristotele, ma persino fra quelle in nostro possesso ve ne
sono alcune che non si conformano a tale descrizione. La ricostruzione
congetturale di altre fa supporre una diversità ancora maggiore: nonostante
l'uniformità generale d’argomento e forma, e chiaro che i drammaturghi
trattavano il contenuto con assai maggiore varietà di quella concessa dalle
norme aristoteliche.
Comunque Aristotele non dimentica mai che un testo deve piacere ai spettatori e
tenere l'attenzione e tutta la sua discussione sulla creazione del racconto e
interspersa con le suggestione pratiche per il futuro drammaturgo. Il racconto
deve essere probabile e Aristotele ha le varie ricette per farli aprire cosi.
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Nel XVIII capitolo lui mostra che ogni racconto può essere diviso in due parti
principali, la complicazione che si estende da prologo fina punto di
rovesciamento e riconoscimento, e da questo punto in poi fino a la fine. Questo è
veramente una formula che funziona anche oggi, come nelle “well made plays”,
in cinema, e dappertutto. È un strumento di creare i nuovi pezzi. Ma questo è
forse la parte quale non ha bisogno di altre spiegazioni. (p179-81)
L'intreccio, oppure racconto (mythos) non deve avere ne troppi ne pochi episodi,
incluso le peripezie (un mutamento della fortuna nel suo contrario),
riconoscimento (un mutamento dall'ignoranza alla conoscenza) o entrambi.
Una delle domande più fondamentali che uno può chiedere sul un lavoro e la sua
unita: come si può arrivare ad essa per creare un pezzo organico? Aristotele
risponde a questa domanda, tante volte, che la tragedia o la poema possono
arrivare ad una unita dell'azione, la sola unita su cui Aristotele insiste.
Il poeta sviluppa la sua forma, immaginando i suoi caratteri, scrivendo le loro
parole deve essere sicuro che tutto rappresenta un spirito in movimento, solo
un'azione. Allora, se il racconto è la prima forma di una azione, che succede con
Shakespeare che combina vari racconti? Aristotele in fronte di lui aveva Omero,
che pure combinava tanti racconti, tante sequenze di intrecci, come in Iliade ed
in Odissea. Aristotele era capace di riconoscere che Omero era capace di
unificare questa schema complessa seguendo la fondamentale richiesta della
unita della azione: viii.3 (145)
Aristotele torna a questo punto anche in XXIII capitolo quando parla d’epica. I
poeti meno significativi, hanno provato di unificare un epica basando li solo sul
unico carattere, or unico avvenimento storico, come la guerra di Troia. L'Omero
era l'unico che a scoperto un’azione in ampio e diverso mondo delle sue epiche.
L'azione d’Iliade, come dice il primo verso e di parlare sulla ira di Achille, e
l'azione di Ulisse e di tornare a casa, una motivazione nostalgica che la sentiamo
nel vagare di Ulisse, e quelle di Telemaco e nella lotta paziente di Penelope di
salvare la sua propria casa dai corteggiatori. I racconti sono intrecciati, ognuno
con la sua propria azione, che sono analoghe: è il stesso modo come
Shakesperare gli intreccia insieme nel Lear o Hamlet, vari fili della stessa azione.
I caratteri (ethos)
Secondo Aristotele, il poeta lavora sulla caratterizzazione dopo che il racconto è
stato composto, come la sequenza tragica degli fatti. Caratteri sono impliciti
dall'inizio, perché ogni azione e l'azione di un individuale. Ma come ci ricorda
Aristotele di nuovo: la tragedia è infatti imitazione non di uomini ma di azioni e di
modo di vita, (137, Vi.9), e dunque non si agisce per imitare i caratteri ma si
assumono i caratteri a motivo delle azioni. Il poeta vede l'azione del racconto
come la cosa più importante, a poi vengono la sua forma tragica (o la
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composizione), e in fine i caratteri che sono più adatti per presentarla in sua
varietà e profondità.
Aristotele definisce il carattere come una “azione d’abitudine” che è formata dai
genitori e l'ambiente e dagli altri meno importanti pathos, come appetito, paura e
le cose simili che possono influenzare la gente più giovane. Quando una persona
crescendo capisce di che si tratta, diventa responsabile, e noi possiamo dire che
questa persona è di un buono o non cosi buono carattere. Per esempio, quando
noi incontriamo per la prima volta Edipo, lui è gia una persona formata, un re
responsabile che (nella piena coscienza di che cosa sta facendo) adatta il motivo
razionale per cercare l’assassino di Laio. Ma la sua scoperta che lui è il
colpevole distrugge non solo il suo motivo, ma il carattere della sapienza e il
regno responsabile, e la passione; e il patos inizia. Dopo la catastrofe, come nel
Re Lear, entrambi Lear ed Edipo sono pateticamente motivati, come i bambini e
come i bambini chiedono aiuto e il supporto. Nella tragedia, il carattere è spesso
distrutto, e in quel momento possiamo vedere 'vita e l'azione' ad un livello più
profondo.
Nel capitolo XIII, quando Aristotele comincia la sua disamina dei caratteri (ethos),
c'è un altro passo che ha dato origine e diverse discussioni: la descrizione del
protagonista ideale della tragedia. Dopo avere discusso brevemente i due
possibili mutamenti della fortuna (uomo per bene che cade in infelicità e l'uomo
malvagio che si trova al improvviso nella felicita), nessuno dei quali ispira i
sentimenti convenienti alla tragedia, Aristotele continua: resta fra queste due vie
estreme, la via di mezzo.... (XIII, 157) questo errore, definito da alcuni come
»macchia tragica« e un altro termine controverso hamartia.
Le varie interpretazioni del termine hamartia possono essere divise in due
gruppi, quelle che sottolienano l'aspetto morale della macchia e quelle che ne
sottolineano il lato intellettuale, facendo dell'hamartia un errore di giudizio o
un'errata presupposizione. La prima e l’interpretazione tradizionale, e per alcuni
critici la »macchia« ha quasi la stessa natura del concetto cristiano di peccato
(infatti il termine 'hamartia' è usato in questo senso nel vangelo di Giovanni).
L'illusione in questo brano, da parte dello stesso Aristotele di termini quali ‘virtù’ e
'vizio' sembra orientare in questa direzione.
Altrove, egli impiega il termine in maniera più ambigua, è il suo è un esempio
principale di tragedia, l'Edipo re, ha un protagonista le cui azioni appaiano tanto
immorali quanto inconsapevoli. In entrambi i casi, comunque è essenziale che
l'hamartia sia inconsapevole, perchè abbiano luogo riconoscimento e
scioglimento.
È facile di vedere come il carattere di Edipo e stato immaginato da Sofocle,
perchè è veramente perfettamente adatto per rappresentare la azione maggiore
della tragedia, e di portarla fino alla fine. Con la sua intelligenza, la sua arrogante
fiducia in se stesso, e il suo coraggio morale, lui è un protagonista perfetto.
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Pero anche gli altri caratteri sono ai pari con lui: Tiresia, che sa tutto il tempo che
cosa è la voglia degli dei, pero lui da solo non può essere quello che si può
occupare della purificazione della città, oppure Giocasta che tutto il tempo tema
la verità, e pensa che la Teba vivrebbe meglio nella ignoranza. Gli caratteri
contrastati scoprono l’azione principale in modi diversi, e i loro disaccordi creano
i disputi degli tutti episodi. Pero tutta la diversità della caratterizzazione, tutto
questo conflitto dei pensieri porta al unico scopo, che è trovare il responsabile.
Tutti vogliono salvare la Tebe, e questo è chiaro dall'inizio, come un motivo
comune.
Anche se lo dimentichiamo nei disputi e la fascinazione con i vari caratteri, noi
siamo sempre ricordati con ogni canzone o l'oda del coro. È il coro che tutto il
tempo direttamente rappresenta l'azione della tragedia, e il coro lo può fare
perchè ha meno carattere degli altri protagonisti. Il coro rappresenta l'azione più
profonda di quella degli individuali, e le sue canzoni successive, con la musica e
la danza, rappresentano la vita e il movimento della tragedia.
Noi dobbiamo assumere che l'azioni di Tiresia, Giocasta, e anche quella di
Edipo, sarebbero molto più diversi se li possiamo vedere a parte dalla situazione
basica della tragedia, la peste in Tebe. Noi gli vediamo solo in connessione con
quella crisi, e perciò la loro azione, anche se i loro caratteri sono diversi.
Aristotele sviluppa l'idee sui caratteri nei capitoli XIII e specialmente XV. Sono
come i consigli ai scrittori che devono fare per avere successo con il pubblico,
come la sua insistenza sulla probabilità e consistenza in caratterizzazione, o la
sua nozione che un carattere deve essere un nobile o un leader, e non gli uomini
degni di stima, che volgano dalla buona sorte alla sventura, perché questo non e
pauroso ne pietoso, ma ripugnante, etc.
Quando Aristotele assume che i caratteri tragici, devono essere superiori al
livello comune, sono stati fonte di diversi equivoci. Gia nel ii capitolo, compare la
famosa distinzione tra commedia e la tragedia, seconda la quale la prima
rappresenta gli uomini peggiori che nella vita reale, e la seconda migliori. Molti
critici, specialmente quelli appartenenti alla tradizione neoclassica, tradussero il
carattere 'buono' di Aristotele come 'nobile' e la tragedia fu costretta ad occuparsi
esclusivamente di re e principi. Per Aristotele, come abbiamo detto prima, i
caratteri non vengono determinati dalla nascita ma dalla scelta morale. Di
conseguenza, la nobiltà propria del carattere tragico è chiaramente di natura
morale più che sociale e politica. (p.157-59).
Per Aristotele, ethos è sempre legato a mythos: non si mette in rilievo la
costruzione dettagliata di un carattere, come in molto teatro moderno, bensì lo
sviluppo di un personaggio che agisce secondo quando richiede l'azione. Lui
assume che anche nei caratteri è necessario, come nella composizione dei fatti,
che una persona di un certo tipo dica o faccia cose di un certo tipo. Più
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importante (171): non ci sia nei fatti nulla d’illogico, o almeno fuori della tragedia,
come per esempio nell'Edipo di Sofocle, etc.
Nel XIX capitolo, Aristotele torna all'analisi degli elementi qualitativi,
abbandonando rapidamente il pensiero (dianoia) con un riferimento all' esame
svolto nella sua Retorica, e poi comincia a parlare della elocuzione (lexis), che
viene trattata nei capitoli dal XIX al XXIII. Per lui l'elocuzione è l'arte di
presentazione, come è stata insegnata nelle scuole moderne della recitazione.
L'elocuzione appartiene a 6 elementi qualitativi della tragedia, perché la tragedia
è sempre presentata sul palcoscenico, e gli attori devono sapere come
manipolare la lingua e le parole. Qui lui non dice molto, perché lui si occupa delle
arti di poeta, e non degli attori.
Il pensiero è quello che occupa un poeta direttamente, perché il pensiero è una
delle cause dell’azione. La parola pensiero dianoia connota un'ampia lista delle
attività della mente, dal pensiero astratto fino alla percezione e formulazione
delle emozioni, perché è il pensiero quello che definisce tutti gli oggetti della
motivazione umana, nonostante se sono chiare o no, se rappresentano i sogni o
i fatti veri.
Nella tragedia, il pensiero è rappresentato con quello che caratteri dicono sul
corso che si deve seguire in ogni situazione. Perciò Aristotele identifica il
pensiero con l'arte d'elocuzione (lexis). Aristotele dice che al pensiero appartiene
tutto quel che si deve presentare con la parola; suoi elementi sono il dimostrare,
il confutare, il procurare le emozioni (come per esempio pietà, paura, ira, etc.) e
ancora grandiosità e meschinità.
Lui qui indica la sua Retorica (Della interpretazione) dove analizza questo
discorso in dettagli. Lui qui pensa ad una porta voce, ad una persona pubblica,
un avvocato o un politico, di quale dovere è di persuadere i suoi spettatori di
adottare la sua opinione. Lui considera vari mezzi quali un rettore può usare per
persuadere il suo pubblico: le sue attitudini, la sua usanza di voce e gesti, le
pause – brevemente, i mezzi che sono usati d'attori. Pero la sua attenzione è
dedicata all'arte di linguaggio, da quella più logica, dove l'appello è di ragionare,
fino ad un linguaggio più colorato inteso di commuovere l'emozioni. La retorica è
un'analisi delle forme dei pensieri e dell'elocuzione che l'azione di persuadere
potrebbe usare.
Questa analisi si potrebbe applicare direttamente sull’episodio di Edipo, a il
pensiero e il linguaggio di Edipo e i suoi antagonisti, nelle successive situazioni
del racconto. Loro s’incontrano per discutere uno grande problema pubblico,
quello sul beneficio di Tebe, è loro provano di persuadere non solo uno l'altro,
ma pure il coro, e al di la città spaventata. Cosi loro sono situati come gli
consumatori della retorica di Aristotele, e loro risorte della stessa arte di
linguaggio. Loro iniziano mostrando la ragione (prova e rimbalzo), e perché
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questo non succede, loro si rivolgono a un linguaggio più emozionante, e se
questo anche fallisce, allora il disputo scoppia in una grande paura.
Sembra che i co-cittadini di Sofocle, che erano abituati all'arte di retorica
pubblica, hanno trovato molto piacere nell'arte d’Edipo e i suoi antagonisti. Nella
dramma moderna non si trova più questa formalità sofisticata della tragedia
greca, ne anche la virtuosità retorica, che Aristotele analizza. Pero i principi,
entrambi della tragedia e la retorica classica, sono naturali e gli disputati di oggi, i
politici ed altri, usano le forme retoriche. I caratteri contrastanti in tutti i drammi,
specialmente quelli di motivazione etica come quella di Ibsen, istintivamente
usano le strategie di retorica, quando provano di superare un ed altro, con il
pensiero e la lingua. La struttura delle grande scene di conflitto, nella dramma
classicista francese, in Shakespeare, in Ibsen, sono tutte simile a quelle di Edipo
re.
D'altro, uno può trovare le basi per l'analisi della lingua lirica nell'alcune parti
della retorica, e nei capitoli XXI e XXII della poetica. Qui mi riferisco ai suoi
rimarchi all’analogia e metafora, che lui riguarda come la basi della lingua
poetica, la più grande abilita del poeta è di avere il comando della metafora, che
non può essere imitato da un’altra persona. Pero, la sua analisi delle metafore
non è molto interessante. Lui anche presenta la sua definizione dell’analogia,
(xxi), non tanto elaborata, ma poi molto usata nella poesia medievale, piuttosto
nella poesia di Dante.
Cosi le canzoni del coro possono essere analizzate in termini delle metafore ed
analogia. Per esempio se usiamo qui la prima strofe della paroda, la metafora
principale è quella di luce e buio, si usano parole come »oro e ombra«, “la città
colpita dal sole”, una nuvola all'improvviso, e in tanti altri modi e tutti sono legati
ad Apollo, il dio della luce, della cura, e pure della malattia, è lui che ha parlato
tramite l'oracolo di Delfi.
Pero questo è una immagine che passa in tutta la tragedia, anche nella cecità di
Tiresia, a quella di Edipo alla fine. È basata sulla analogia tra l'occhio del corpo,
e l'occhio della mente, la vista e la cecità, riconoscimento e la ignoranza. La
cecità fisica e il buio della notte rappresentano l'azione della tragedia, il
movimento dello spirito dalla ignoranza allo riconoscimento.
IV
Abbiamo gia detto che Aristotele non tratta molto la musica (melos), ne il
spettacolo (opsis). Pero lui assumeva che un poeta della tragedia doveva nello
stesso tempo essere un buon attore. Il poeta non ha il bisogno delle tecniche
della voce, dizione e il movimento del corpo, ma doveva mentre scriveva di
imitare ogni carattere completamente e credere nelle situazioni, come un buon
attore. (nel XVII capitolo lui da un consiglio a i poeti p. 175-79) e questo consiglio
si avvicina in alcun modo a Stanislavski e il suo metodo di lavoro a MHAT.
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Pero resta la domanda principale perché la tragedia, con le suoi immagini di
conflitto, terrore e sofferenza, crea una sensazione di piacere e soddisfazione,
anche se è stata gia risposta in vari modi. Questo è probabilmente il punto più
interessante di tutta la Poetica, che ha prodotto tanto dibattito tra gli suoi
interpretti.
Gia abbiamo spiegato un poco il senso di piacere che proviene dall’imitazione,
pero ci sono pure i concetti di ritmo e armonia che ci rendono piacere. Il fatto che
la musica sia molto importante, si può riconoscere anche negli spettacoli e testi
di Shakespeare. Questo è comunque il piacere che noi proviamo in tutta l'arte,
ma la qualità speciale che noi proviamo in tragedia potrebbe essere meglio
spiegata. Dice Aristotele, che il piacere proviene dalla purificazione delle passioni
di paura e la pietà. La pietà è l'emozione che uno prova in presenza di
qualunque sofferenza e persone che soffrono. Sono la paura e il terrore gli
emozioni che la stessa cosa potrebbe succedere a noi. Per esempio, un
incidente in macchina crea una specie di dolore e simpatia, mentre l'arte crea
una passione che è molto di più di una sensazione individuale, di una importanza
momentanea. Ha più da fare con l'esistenza mistica della nostra natura e
destino.
Eppure sembra che la pietà e la paura devono andare insieme. La pietà da sola
diventa allora molto sentimentale (nel caso delle tele-novelas). D’altro lato la
paura da sola, come la deriviamo da un buon thriller, non basta. Pero i maestri
della tragedia, come i cuochi buoni, mischiano la paura e la pietà, nelle
proporzione giuste. Dopo paura, viene la pietà, purificando ci di queste emozioni,
riconciliando ci con il nostro destino, perché lo capiamo come la universale
umana fortuna.
La parola che Aristotele usa per solo una volta per questo effetto è purificazione
o la catarsi (catharsis). Questa parola si usa anche per i termini medicali,
significando la purificazione del corpo, o in senso religioso, purificazione della
mente. Comunque tutte due non spiegano bene cosa Aristotele intendeva,
perché lui parlava della tragedia e non di medicina o religione, e il suo uso del
termine è solo una analogia. Comunque, succedono i cambiamenti del corpo
(nella nostra chimica, respiro, la tensione dei muscoli, etc) mentre passiamo le
emozioni della tragedia e quando passano possono rassomigliare quello della
purificazione letterale. Ma la tragedia prima di tutto si rivolge alla mente e il
spirito e il suo effetto è come quello che i credenti vivono durante le cerimonie
religiose, create per purificare lo spirito.
Aristotele ha notato che nelle cerimonie religiose che lui conosceva, le passioni
erano risvegliate, liberate, e alla fine calmate, e lui probabilmente aveva questo
in mente quando ha usato il termine purificazione per descrivere gli effetti della
tragedia.
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I 4 capitoli finali paragonano la tragedia al genere, ed essa strettamente
collegato, della poesia epica. Nel XXIV capitolo (p 209) si trova l'importante
affermazione, costante citata nei periodi in cui la verosimiglianza divenne una
questione artistica di rilievo, che un poeta dovrebbe preferire “l'impossibile
verosimile” al “possibile non credibile”. E il sopranaturale è più difficile, cosi è più
saggio di evitare i dei sul palcoscenico.
Nel capitolo successivo si difende questa affermazione contro le critiche esterne,
è il principale argomento di difesa e come sempre, la necessita interna: gli
oggetti e gli eventi non devono essere mostrati come sono, ma come
“dovrebbero essere”.
In conclusione, Aristotele giudica le tragedie superiore, come forma artistica, alla
poesia epica, per la sua maggiore concentrazione ed unita d'azione, e per gli
ausili della musica e dello spettacolo. Questi momenti sono importanti dell'opera
fondamentale della riflessione critica greca, ciascuno dei quali fu continuamente
indagato e dibattuto durante i secoli successivi.
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