G. Campus Venuti (leggi l`intervento)

LE RISORSE UMANE, SOCIALI E AMBIENTALI
Intervento di
Giuseppe Campos Venuti
CITTÀ, TERRITORIO, AMBIENTE - UNA RISORSA PER L’ITALIA
In un Paese che deve ripensare in larga misura il proprio assetto economico, sociale
e culturale, è indispensabile riflettere sul valore strutturale che hanno le città, il
territorio e l’ambiente. Affrontando le passate criticità, non tanto per denunciare i
danni commessi, quanto per individuare le politiche alternative, necessarie a
sfruttare questi fattori come risorsa, piuttosto che subirli, più o meno
consapevolmente, quali fattori di arretratezza. Sono oggettivamente una risorsa le
città – alcune grandi e metropolitane, poche medie e moltissime piccole – perché in
esse vivono oltre 50 milioni di persone, facendone la sede produttiva, sociale e
culturale del Paese. Il territorio che circonda le città è capillarmente insediato e
rappresenta una risorsa, produttiva, ma anche ambientale. E l’ambiente in Italia è,
dunque, fortemente antropizzato, ma è una risorsa da gestire in modo totalmente
nuovo, per non disperderne il valore. Nelle città, nel territorio e nell’ambiente, gli
italiani da millenni investono un capitale fisso produttivo che non siamo abituati a
calcolare. Eppure questi investimenti in infrastrutture e servizi, non sono decisivi
soltanto in funzione delle condizioni di vita che garantiscono e di cui in genere ci si
ricorda, almeno per l’aspetto sociale; ma anche in funzione dell’influenza che hanno
sulla produttività generale del sistema paese, cosa che, invece, è abitualmente
trascurata.
In Italia la rivoluzione industriale che ha investito l’Europa nell’Ottocento, è arrivata
debole e in ritardo, tanto che nel 1951 il 40% dei lavoratori era ancora impegnato in
agricoltura. E altrettanto ritardata e debole è stata la ricaduta di infrastrutture e
servizi sulle città, sul territorio e sull’ambiente, coinvolti dallo sfruttamento delle
rendite, assai più che dai profitti. Gli unici a guadagnarci, in fondo, sono stati i centri
storici, che il sistema economico non ha avuto la forza di radere al suolo, come ha
fatto nel resto d’Europa. La rivoluzione industriale ha realmente investito l’Italia
soltanto nell’ultimo mezzo secolo, ma ad essa si è presto sovrapposta la rivoluzione
terziaria; e le relative ricadute si sono quindi intrecciate. L’industria ha stimolato lo
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sviluppo prima delle grandi città, poi delle medie e delle cinture metropolitane e
infine dei piccoli centri; uno sviluppo speculativo e poco pianificato sulle aree
agricole intorno alle città, sostenuto da agevolazioni finanziarie e fiscali, a favore
della casa in proprietà. Il capitale fisso destinato ai servizi e alle infrastrutture, già
scarso in origine per la debolezza intrinseca del capitalismo italiano, si è, dunque,
ulteriormente ridotto per il drenaggio di liquidità verso la rendita urbana e la
proprietà edilizia.
Emblematica di questo sviluppo arretrato è la “anomalia genetica” delle città italiane
prive del trasporto collettivo su ferro, delle reti metropolitane e tranviarie; che in
Europa hanno rappresentato, invece, la garanzia della mobilità di massa nelle
maggiori città e nelle aree circostanti. Mentre l’unico consistente investimento
infrastrutturale italiano, è quello delle autostrade, che arrivano sul finire degli anni
Cinquanta a stimolare la motorizzazione diffusa, alternativa al trasporto collettivo,
che viene così ulteriormente penalizzato, nelle città e nel Paese. Ancora una volta il
capitale fisso interviene a favore delle rendite e dei monopoli, emarginando gli
interventi produttivi. Così come viene impedita negli anni Sessanta la riforma
urbanistica, che avrebbe offerto allora un terreno di incontro concreto fra scelte
pubbliche e imprenditoria privata, nelle città e sul territorio.
Nell’ultimo periodo della crescita industriale, questa si sposta dalle grandi città alle
medie e poi ai piccoli centri; ma presto arriva il calo della occupazione industriale, al
quale si sovrappone la rivoluzione terziaria con una sostenuta crescita occupazionale
e produttiva. Immediate sono le ricadute sulle città e sul territorio. Le città grandi e
poi le medie sono abbandonate dalle industrie e dalle abitazioni di lavoratori meno
abbienti e di giovani; mentre in esse si concentra il nuovo terziario e le loro strade
diventano così congestionale, e inquinate, spesso degradate e insicure. Mentre le
cinture metropolitane e i piccoli centri, il più delle volte non garantiscono le qualità
ambientali sperate dai nuovi abitanti, ma piuttosto li costringono a sgradite
condizioni di isolamento territoriale e di marginalità sociale. E intanto l’ambiente
subisce una diffusa deforestazione e una totale deregimazione idraulica, che insieme
provocano un generale dissesto idrogeologico in montagna e in pianura.
E’ mancata, dunque, una politica complessiva per le città, il territorio, l’ambiente; gli
investimenti in capitale fisso sono stati carenti, ma anche sbagliati. Lo stock edilizio
è passato in mezzo secolo da 37 ad oltre 110 milioni di stanze di abitazione, ma la
politica dello Stato ha spinto gli alloggi in proprietà fino all’80%, percentuale doppia
di quella tedesca; con un taglio degli alloggi medi da 4 a 5 stanze, quando la famiglia
media supera di poco i 2 componenti. La rete ferroviaria nazionale ha cominciato a
rinnovarsi solo da qualche anno, le reti urbane metropolitane e tranviarie sono pari
ad un quinto di quelle tedesche e complessivamente il trasporto pubblico copre
appena un decimo degli spostamenti urbani; la mobilità è allora affidata a 40 milioni
di automezzi circolanti – ormai fabbricati in prevalenza da industrie straniere – che
inquinano l’atmosfera e paralizzano il traffico specialmente nelle città, la cui
inadeguata rete viaria è prevalentemente occupata dalla sosta, non altrimenti
garantita.
Per ricordare soltanto un’altra rete infrastrutturale, quella dello smaltimento dei
rifiuti, basti pensare che a Milano non funziona ancora il depuratore e che le sue
fogne alimentano, attraverso il Po, l’eutrofizzazione delle coste romagnole, con esiti
economici disastrosi. Il cattivo governo delle città, del territorio e dell'ambiente,
manca di validi investimenti in capitale fisso, ma anche di un abituale rispetto delle
regole: nessuna città europea conosce, infatti, l’abusivismo edilizio, che in Italia ha
creato, invece, un vero e proprio mercato di investimenti fraudolenti, che danneggia
tanto i costruttori quanto le città; ma che i governi italiani ripetutamente condonano,
legittimandolo.
Ancora una volta, però, questi aspetti della governabilità, sono considerati magari
eticamente scandalosi, ma non quali elementi strutturali del declino economico
italiano. Per fare un esempio, non siamo soliti chiederci perché Germania e Francia,
con un reddito medio pro-capite di poco superiore al nostro, hanno una quota di
capitale fisso investito nelle infrastrutture e nei servizi urbani, territoriali e
ambientali tanto maggiore della nostra. Né ci chiediamo se questo differenziale di
capitale fisso investito non produca, oltre ai danni sociali e culturali denunciati
spesso fieramente, anche rilevanti danni economici per il Paese. Negli anni Sessanta
la sinistra si impegnò a fondo per la riforma urbanistica, fallita solo per la strenua
resistenza delle forze economiche più retrive; ma in questi anni, l’approvazione della
nuova riforma urbanistica messa a punto sotto il governo dell’Ulivo, non è riuscita
per la clamorosa sottovalutazione da parte della sinistra, del rapporto organico che
c’è fra il governo dell’economia e quello della città, del territorio e dell’ambiente.
Non abbiamo ancora una volta analizzato le ricadute delle trasformazioni
economiche e produttive sul regime immobiliare: che non è più caratterizzato dalle
rendite assolute, nascenti nelle campagne in via di urbanizzazione all’epoca della
grande espansione delle città, rendite che allora era possibile affrontare con
l’esproprio dei suoli da trasformare. Perché oggi sono, invece, da trasformare le zone
delle città già urbanizzate, dove si formano le rendite differenziali; che stimolano
l’edilizia terziaria e le abitazioni ad alto costo, congestionando ulteriormente le zone
storiche e le aree centrali urbane. Quando, invece, per le città, il territorio e
l’ambiente sarebbe necessario un policentrismo funzionale e sociale, che contrasti la
congestione dei luoghi centrali migliorandone la qualità della vita; e che insieme
riequilibri la distribuzione di funzioni urbane, gruppi sociali e strati generazionali,
nelle periferie e nel territorio extra-urbano.
Quest’ultima, era, infatti, la politica che ispirava la nuova riforma urbanistica,
mancata dalla maggioranza di centro-sinistra. Una riforma che abbandonava il
meccanismo dell’esproprio, nato per contrastare ieri la formazione della rendita
assoluta; destinato oggi, se conservato, a premiare, invece, la proprietà fondiaria,
legittimando involontariamente l’alto valore raggiunto dai suoli. Riforma che, al
contrario, utilizza il nuovo meccanismo nato per affrontare la trasformazione urbana
con la cosiddetta perequazione compensativa: ottenendo gratuitamente tutti i terreni
necessari alla comunità, in cambio delle edificazioni concesse dal piano regolatore.
E mentre con il metodo espropriativo la collettività era l’unico protagonista –
finanziariamente assai debole – degli investimenti in capitale fisso per la città, con il
metodo perequativo-compensativo gli operatori immobiliari privati – e non più la
proprietà fondiaria, passivamente in attesa di esproprio – possono essere coinvolti
direttamente nel processo di infrastrutturazione urbana, partecipando
all’investimento del capitale fisso. Tentando così di realizzare una convergenza di
interessi fra l’operatore privato urbano e la comunità.
Una politica della città, oggi che appena un quinto degli alloggi è rimasto in affitto,
non va più indirizzata a contestare le rendite assolute, perché la quota di costruzioni
realizzabili non dipende più dalle dimensioni del piano urbanistico, ma dalle
effettive disponibilità del mercato; ed è su questo che bisogna operare, affrontando le
rendite differenziali con strumenti urbanistici, fiscali e finanziari. Agli strumenti
urbanistici spetta di garantire la qualità dei nuovi interventi sulle città: evitando il
nuovo terziario nelle aree centrali e semicentrali urbane; condizionando le nuove
costruzioni alla accessibilità del trasporto collettivo; obbligando i nuovi
insediamenti non solo alla cessione gratuita di tutte le aree necessarie alla città, ma
anche alla realizzazione di ampi giardini condominiali privati, di valore tanto
commerciale quanto ecologico.
L’uso dello strumento fiscale – del tutto ignorato, anche dal governo centro-sinistra,
per una politica delle città – potrà avere, invece, un ruolo decisivo: per scoraggiare la
congestione terziaria nelle aree centrali e agevolare in queste aree il cambio d’uso da
uffici ad abitazione, per stimolare il frazionamento degli alloggi di grande
dimensione moltiplicando la quantità di piccoli alloggi sul mercato, per favorire con
opportune detrazioni fiscali gli investimenti privati in capitale fisso nei grandi
interventi sulle città. Quanto allo strumento finanziario, è necessario troncare ogni
futuro contributo pubblico alla casa in proprietà, limitandolo esclusivamente agli
alloggi in affitto sociale. Mentre un massiccio sistema di agevolazioni finanziarie
dovrebbe investire tutti i centri storici da risanare progressivamente; rivolgendosi
con assoluta priorità a quelli che si trovano in aree sismiche, affrontando così
gradualmente l’adeguamento antisismico di almeno 10 milioni di stanze a rischio.
D’altra parte non è difficile scorgere il forte risvolto economico di una politica di
infrastrutture nelle città e sul territorio. Eppure, se i costi sociali della “anomalia
genetica” italiana rispetto al trasporto su ferro sono stati calcolati cento volte,
questo non ha mai indirizzato la politica industriale nazionale alla produzione di
materiale rotabile o di applicazioni elettroniche ai sistemi ferroviari, come hanno
fatto i francesi alla metà degli anni Sessanta. Né siamo stati capaci di capire, come
l’uso della rete ferroviaria nazionale tedesca per creare una diecina di sistemi
metropolitani ferroviari con elevata frequenza di collegamenti, ha potenziato negli
ultimi trenta anni il policentrismo della Germania; creando migliori condizioni di
vita in tutto il Paese, ma anche favorendone lo sviluppo economico equilibrato.
Perché, ancora una volta, il sistema di mobilità su ferro tedesco non risponde
soltanto agli stanziamenti del piano generale dei trasporti, ma ad una visione
economica che non è monetarista e neppure industrialista, ma vorrei dire
“generalista”.
Un approccio economico al riequilibrio delle infrastrutture della mobilità, comporta
però anche il rifiuto ideologico della opzione zero nei confronti del traffico su
gomma. Per il quale una scelta realista e coraggiosa, sarà quella di investire capitale
fisso per le infrastrutture a pagamento sui tracciati nazionali principali e per i
parcheggi a pagamento nelle città: perché questa modalità di traffico non sia
trascurata, ma neppure si sviluppi a carico della comunità. Stimolando il capitale
fisso privato ad attuare le grandi infrastrutture programmate per il traffico su gomma.
Risolvendo, però preliminarmente il tema della partecipazione del capitale privato
alle maggiori infrastrutture del Paese. Necessario a colmare le scarse disponibilità
pubbliche, alla perentoria condizione che si tratti di capitale di rischio e non
partecipe alla sola privatizzazione dei profitti; ma specialmente evitando che lo Stato
intervenga accollando alla comunità un colossale “debito occulto”, posto a carico
delle future generazioni.
La nostra incapacità di approccio integrale al tema del capitale fisso negli
investimenti per l’ambiente, ci fa dimenticare perfino il più banale commento,
ripetuto ogni volta che una alluvione o una frana colpiscono il Paese. Perché il costo
dei danni economici – senza contare quelli incalcolabili delle vite umane che a volte
si perdono – è sempre assai più grande degli investimenti in capitale fisso che
avrebbero evitato gli eventi disastrosi. E tanto meno riusciamo a scorgere che il
capitale investito nella riforestazione sarebbe in grado di produrre profitti industriali;
o che la regimazione idraulica è anche indispensabile ad una gestione economica
delle risorse idriche, una strategia, questa, che oggi è di importanza planetaria; e che,
paradossalmente, soltanto la protezione – e non la privatizzazione – dei beni naturali,
garantisce la sopravvivenza della risorsa indispensabile per l’economia turistica.
L’Italia ha, dunque, bisogno di nuove strategie che siano capaci di mobilitare grandi
quantità di capitale fisso, pubblico e privato, da investire sulle città, il territorio e
l’ambiente; recuperando così una storica arretratezza del capitalismo italiano. Un
programma per la riqualificazione degli insediamenti urbani, un grande progetto
innovativo infrastrutturale, una radicale operazione di risanamento ambientale: sono
tre scelte strategiche che non possono essere relegate all’ambito ristretto delle
politiche urbanistiche ed ecologiche. Perché i loro effetti possono produrre una
grande trasformazione positiva dell’intero sistema Paese. E’ questa una parola
nuova, non certo marginale, da proporre per reagire al declino economico dell’Italia.