Ancora Keynes? pagine 3-30

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Ancora Keynes?!
Dopo la crisi: miseria dilagante o nuovo sviluppo?
Giovanni Mazzetti
Ancora Keynes?!
Dopo la crisi:
miseria dilagante o nuovo sviluppo?
Asterios
Prima edizione nella collana AD: Luglio 2012
Asterios Editore è un marchio editoriale di
©Servizi Editoriali srl
Via Donizetti, 3/a – 34133 Trieste
tel: 0403403342 – fax: 0406702007
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di riproduzione e di adattamento totale o parziale
con qualsiasi mezzo sono riservati.
ISBN: 978-8895146-61-4
Indice
PARTE I
Il pareggio di bilancio come conquista storica, 11
PARTE II
Ma il sistema economico capitalistico procede
effettivamente in pareggio?, 19
PARTE III
La crisi dello Stato sociale e la lotta contro il deficit, 27
PARTE IV
Il problema nascosto dietro al deficit, 35
PARTE V
Perché il deficit pubblico è necessario, 49
PARTE VI
Perché il deficit pubblico non basta più, 57
PARTE VII
Oltre la crisi:
immiserimento dilagante o nuovo sviluppo?, 87
Nelle spasmodiche trattative per “salvare l’euro”, a inizio
2012, è passata la proposta di inserire nelle Costituzioni
dei singoli Stati il principio che i bilanci delle pubbliche
amministrazioni, e in particolare quello dello stato, debbano essere sistematicamente in pareggio. Un obiettivo
ritenuto taumaturgico, che anche Monti aveva vagheggiato nel suo programma “salvifico” e che il Parlamento
italiano si è affrettato ad approvare definitivamente,
primo in Europa, con una maggioranza ultraconformista,
senza rendersi conto del disastro che stava preparando.
Com’è stato egregiamente sottolineato da molti economisti conservatori, si tratta di un principio enunciato agli
albori del pensiero economico classico, duecento anni fa,
e che secondo loro sarebbe tutt’ora decisamente valido,
perché nessuno, nemmeno lo Stato, potrebbe spendere,
oggi come ieri, “un denaro che non ha” senza causare effetti economici negativi.
Ma la questione è così banalmente univoca?
PARTE I
Il pareggio di bilancio come conquista storica
Poche persone riescono di solito a ragionare sui problemi
che le investono muovendosi con la necessaria prospettiva
storica. In tal modo fanno scomparire qualsiasi relazione
tra la situazione in cui si trovano e le conquiste culturali
passate; un’ignoranza o una rimozione che comportano
anche l’impossibilità di intravedere le tendenze future. Ciò
rende i problemi praticamente irrisolvibili, perché nella
realtà umana, che è sempre un prodotto storico, le difficoltà che emergono costituiscono normalmente il risultato
dell’azione delle generazioni precedenti. Questa azione
produce ricorrentemente effetti che non erano contenuti
nelle intenzioni di chi l’ha posta in essere e il cui significato
è difficile da decifrare, con la conseguenza che finisce col
generare dei problemi. Problemi la cui soluzione costituisce il presupposto di un fisiologico svolgimento della vita
delle generazioni che si stanno affacciando alla vita produttiva. D’altronde, se che queste generazioni si rifiutano
di assumere su di sé i problemi, finiscono inevitabilmente
col precipitare in una situazione di impotenza e col trovarsi
del tutto smarrite.
11
Come scrive magistralmente Gramsci riferendosi alla situazione dell’epoca, non molto dissimile da quella di oggi:
“una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio
che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è
stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne la grandezza e
il significato necessario, non può che essere meschina e
senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie
e smanie di grandezza.1 Si rimprovera al passato di non
aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più
comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli.
Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto
noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro
…, ma essi non l’hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo
fatto nulla di più. Una soffitta su un pianterreno è meno
soffitta di quella sul decimo o sul trentesimo piano? Una
generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta
piani. Dite di essere capaci di costruire cattedrali, ma non
siete capaci che di costruire soffitte”.2 Cancellando la storia, e immaginando di poter far poggiare la vita solo sulla
buona volontà e la condivisione di intenti, si può costruire
ben poco della cultura umana. Perché si impedisce l’individuazione delle forze che hanno dato corpo ai problemi,
e con esse, delle forze che possono eventualmente contribuire alla loro soluzione.
1. Il quadro è ancora peggiore se il giudizio proviene da persone che
fanno a loro volta parte della generazione precedente ma che, per arruffianarsi i giovani, cercano di distinguersi della generazioni precedenti, magari avendo fatto parte delle classi dominanti di quell’epoca.
2. Antonio Gramsci, Costruttori di soffitte, In Quaderni dal Carcere n.
8, anche in Passato e presente, Editori Riuniti Roma 1991, pag. 129.
12
ANCORA KEYNES?!
È quello che sta accadendo nella nostra fase storica, in
rapporto al presentarsi di un deficit strutturale del bilancio dello stato.
1. Si potrebbe pensare che, quando emerse nell’antichità,
l’imposizione tributaria costituisse uno svolgimento solo negativo, appunto perché essa prevedeva un prelevamento dei
prodotti della gran massa degli individui per mantenere uno
stato che non aveva nulla di democratico e, spesso, era
espressione di un dominio straniero. Ma la questione è più
complessa, perché, da un lato, il passaggio alla tassazione
subentrava ad un istituto preesistente che era decisamente
distruttivo: quello del bottino di guerra e del saccheggio.
L’imposizione fiscale presupponeva, invece, la conservazione delle condizioni di vita di coloro che la subivano, cosicché questi potevano riprodursi, anche se in una posizione
subordinata rispetto ai conquistatori. Dall’altro lato, metteva nelle mani delle classi egemoni dell’epoca i mezzi per
realizzare quelle che noi oggi consideriamo come alcune
delle conquiste culturali della civiltà.
È ovvio che in questo quadro il bilancio dello “stato” si
presentasse sempre e soltanto in attivo, visto che l’impiego delle risorse era finalizzato unicamente agli scopi
di coloro che imponevano i prelievi tributari. C’era un
“dare” al quale non corrispondeva un qualsiasi “avere”.
2. Il principio che il pareggio di bilancio fosse cosa
buona e necessaria è stato un figlio, molto tardo, delle
lotte borghesi contro il potere della nobiltà e della monarchia assoluta. Stabilito (no taxation without representation) che la tassazione non potesse più costituire
un atto unilaterale delle classi dominanti3, com’era
stato nelle epoche storiche precedenti, ne conseguiva loPARTE I. IL PAREGGIO DI BILANCIO COME CONQUISTA STORICA
13
gicamente che il monarca e le classi che lo circondavano
non potessero spendere di più rispetto alle entrate che
sarebbero loro state assicurate nel confronto formale e
vincolante con i rappresentanti di quelli che stavano diventando i cittadini4. Un principio che, nella lunga fase
di transizione, fu ricorrentemente violato, specialmente
in occasione delle frequenti guerre.
3. Quando la borghesia trionfa, lo stato cambia la sua
natura, e al pareggio di bilancio si affianca un altro principio: quello della riduzione al minimo delle spese pubbliche
complessive. Nella rappresentazione sociale prevalente, il
monarca, la nobiltà e il clero hanno ormai perso qualsiasi
funzione produttiva5. La fonte dalla quale scaturisce la
ricchezza è la produzione che si riversa sul mercato, che
non comporta alcun potere sovrastante oltre a quello
che si esprime direttamente nella spesa di ciascun soggetto privato. Col laissez faire le uniche funzioni che possono essere delegate allo stato diventano, pertanto, quelle
giudiziarie, di polizia e della difesa militare, derivanti
dalla preclusione dell’uso della forza e della coercizione
personale nei rapporti tra individui, ai quali viene garantita la possibilità di avvalersi solo del potere impersonale
e contrattuale espresso nel denaro.
4. Su questa base, distruttiva del potere delle istituzioni
feudali e aristocratiche e dei privilegi nei quali si concre3. Le quali restavano del tutto indifferenti alla miseria del popolo che,
con le loro imposizioni, causavano.
4. Com’è noto la cittadinanza rappresenta una conquista recente, che
si esprime attraverso l’uguaglianza.
5. Nelle epoche storiche precedenti il clero mediava il rapporto con la divinità, al quale si attribuiva un ruolo essenziale nello svolgimento della
vita degli individui e dei popoli. La nobiltà garantiva la difesa armata dagli
aggressori stranieri e la salvaguardia della ricchezza prodotta.
14
ANCORA KEYNES?!
tizzava, prende corpo e si sviluppa la società borghese, la
quale espandendo gli scambi mercantili su una scala incomparabile con quella di tutte le epoche precedenti, crea
una condizione sociale nuova per coloro che partecipano
di questa evoluzione. L’espansione del mercato instaura
infatti, in un paio di secoli, una situazione nella quale la
vita di ognuno viene integralmente e continuativamente
a dipendere dall’attività produttiva di moltissimi altri.
Ciò comporta l’emergere di un problema essenziale: se
l’azione individuale non si esaurisce in se stessa e nel proprio contesto locale, ma determina la vita di grandi moltitudini su una scala sempre più ampia, basta lasciar
liberi i singoli – imprenditori e lavoratori – di agire autonomamente (cioè privatamente) per l’instaurarsi di una
situazione soddisfacente?
Su questo interrogativo gli studiosi si sono divisi in due
fronti contrapposti. Da un lato, gli economisti conservatori hanno sostenuto, che per nessuna ragione ci si potesse adoperare a cercare di individuare l’evoluzione dei
rapporti d’insieme della società, e tanto meno si potesse
sperare di indirizzarla. Qualsiasi intervento pubblico,
corrispondendo all’illusione di acquisire un potere al di
là della portata umana, avrebbe determinato solo effetti
negativi. Dall’altro lato si è schierata la ristretta cerchia
degli economisti eterodossi guidata da J.M. Keynes6, i
quali hanno sostenuto che questo modo di ragionare rinviava erroneamente ad un principio pseudo-immanente
che aveva, piuttosto, avuto senso solo nella fase di ascesa
6. In realtà la lotta ha ampiamente preceduto l’epoca di Keynes – basti
pensare ai dieci punti del programma indicato nel Manifesto – ma con
Keynes intervenne una svolta, perché ormai il problema si imponeva
oggettivamente.
PARTE I. IL PAREGGIO DI BILANCIO COME CONQUISTA STORICA
15
dei rapporti borghesi, quando gli individui non erano ancora legati da una sistema generale di relazioni produttive e le loro conoscenze sociali, economiche e statistiche
erano ancora troppo rozze. L’evoluzione della società
dalla fine dell’Ottocento al primo quarto del Novecento
dimostrava, però, che, nonostante il vecchio isolamento
fosse stato abbattuto, i singoli non erano in grado di
tener adeguatamente conto delle più ampie implicazioni
della loro stessa azione collettiva. Questa trascendeva
enormemente i limiti del passato, con la conseguenza
che l’economia avrebbe dovuto subire una subordinazione ad un innovativo processo di coordinamento generale.
5. Nel corso della Grande Crisi degli anni Venti/Trenta
si sviluppò così un ampio dibattito teorico sulla possibilità o meno dell’intervento dello stato nell’economia, al
fine di realizzare questo coordinamento. I conservatori,
ancora culturalmente egemoni, limitarono i mutamenti,
continuando a sostenere che “la spesa pubblica, invece di
garantire l’impiego sperato delle risorse, avrebbe comportato solo la loro dissipazione”.
6. Poiché dalla loro opposizione vincente scaturì un disastro epocale, dopo che la Seconda guerra mondiale
ebbe dimostrato la capacità dello stato di coordinare su
vasta scala il funzionamento del processo produttivo, gli
economisti eterodossi finirono col prevalere e il keynesismo divenne la teoria dominante. L’intervento della
spesa pubblica nella produzione del reddito cominciò
così a crescere, quadruplicando o quintuplicando7 la sua
incidenza sul PIL, con un effetto talmente straordinario
sulla produzione da far gridare al “miracolo economico”.
7. Passando dal 7/8 per cento al 35/45 per cento.
16
ANCORA KEYNES?!
E per un trentennio circa tutti (o quasi) vissero felici e
contenti.
7. A metà anni Settanta intervenne però un fenomeno
inatteso, che divenne poi noto come “crisi fiscale dello
stato”. Le uscite dello stato hanno infatti cominciato a sopravanzare sistematicamente le entrate, col presentarsi di
un deficit strutturale di bilancio. L’interpretazione prevalente di quello che stava accadendo, proprio perché la cultura che aveva reso possibile lo Stato sociale keynesiano
non era diventata realmente un patrimonio individuale e
collettivo8, fu fornita dagli stessi economisti che si erano
fieramente opposti a Keynes nel periodo tra le due guerre
mondiali. Scrissero infatti Hayek e gli altri intellettuali
conservatori, che il deficit era un fenomeno determinato
da un comportamento arbitrario, ed esattamente costituiva la conseguenza della decisione clientelare da parte
dei politici di spendere soldi dello stato per soddisfare bisogni che, sulla base delle risorse esistenti, non avrebbero potuto essere soddisfatti. Per questo si doveva
imporre una limitazione alla soddisfazione dei bisogni,
obbligando i cittadini al pagamento di più imposte, o si
doveva tornare sui propri passi tagliando le spese. Un argomento ripetitivo di quanto sostenevano durante la
Grande Crisi degli anni Trenta, sfociata in un grave disastro. Da allora siamo purtroppo nuovamente incagliati in
questa diatriba, che ha riportato indietro la società al livello culturale di inizio Novecento.
8. Perché la spesa pubblica crescente venne prima accettata – stiamo parlando di un trentennio – e dopo la
8. È quanto mai indicativo che una delle critiche più forti che Keynes
avanzava nei confronti dei laburisti si riferiva al fatto che essi, sul terreno economico, non ragionavano diversamente dai conservatori.
PARTE I. IL PAREGGIO DI BILANCIO COME CONQUISTA STORICA
17
crisi fiscale cominciò ad essere osteggiata? L’ingenuo risponderà che ciò è accaduto perché il principio del pareggio di bilancio è un principio economicamente
razionale, che non può essere violato. Va bene l’intervento pubblico, ma questo non può spingersi al di là della
disponibilità delle risorse, che lo stato può acquisire solo
attraverso le entrate fiscali o facendosi pagare per i servizi che rende. Ma le cose non sono così semplici.
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ANCORA KEYNES?!
PARTE II
Ma il sistema economico capitalistico procede effettivamente in pareggio?
Keynes aveva infatti rilevato un fenomeno, già evidenziato da Marx, che gli ortodossi tendevano a rimuovere.
Nell’ambito dei rapporti capitalistici, in ogni periodo produttivo, si ottiene un prodotto eccedente rispetto ai costi
che sono stati sostenuti per ottenerlo. Questo prodotto
non affluisce più nella disponibilità delle classi egemoni
attraverso le imposte, bensì attraverso gli stessi rapporti
di scambio. Come scrive chiaramente nel 1919 in Le conseguenze economiche della pace, “le ferrovie del mondo
[e tutte le altre forme di capitale produttivo], che quest’epoca ha costruito come un monumento per i posteri,
sono state, non meno delle piramidi dell’antico Egitto, il
prodotto di un lavoro che non era libero di consumare
nel godimento immediato il pieno equivalente della sua
attività.”1
Da parte loro, queste classi impiegavano la ricchezza di
cui si appropriavano in un modo decisamente rivoluzio1. John M. Keynes, The economic consequences of the peace, Gutenberg.org.files 2005.
PARTE II. MA IL SISTEMA PROCEDE EFFETTIVAMENTE IN PAREGGIO?
19
nario rispetto al passato. Seguiamo ancora Keynes: “le
classi capitalistiche potevano considerare [quel prodotto,
che costituiva] la parte migliore della torta come loro
[proprietà] ed erano astrattamente libere di consumarla,
alla tacita condizione sottostante che, nella realtà, ne
avrebbero consumato solo una piccolissima parte. Il
compito di ‘risparmiare’ divenne quasi l’unica virtù e la
crescita della torta [attraverso gli investimenti produttivi]
lo scopo della vera religione. … Così la torta crebbe; ma a
quale scopo non era chiaramente contemplato. Gli individui venivano esortati non tanto ad astenersi, quanto a
rinviare, e a coltivare i piaceri della sicurezza e della prefigurazione. Il risparmiare era per la vecchiaia o per i propri discendenti; ma ciò era vero solo in teoria, perché la
virtù della torta stava proprio nel fatto che non dovesse
mai essere consumata, né da chi era in vita, né dalle generazioni future.” Un concetto che Marx ha espresso in
forma sintetica affermando che la produzione capitalistica “è una produzione per la produzione”.2
“In ciò che sostengo”, aggiungeva Keynes, “non c’è
alcun disprezzo per il comportamento di quelle generazioni. Negli inconsci recessi del suo essere la società sapeva ciò che stava facendo. La torta era in realtà troppo
piccola rispetto agli appetiti del consumo, e nessuno, se
fosse stava divisa tra tutti, sarebbe stato meglio grazie a
quella spartizione. La società non stava lavorando per i
piccoli piaceri correnti, ma per la sicurezza futura e per
il miglioramento della specie – di fatto per il ‘progresso’.
… Il principio dell’accumulazione basato sull’ineguaglianza era una parte vitale dell’ordine prebellico della
2. Karl Marx, Il capitale, Libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia,
Firenze 1969, pag. 71.
20
ANCORA KEYNES?!
società e del progresso per come lo intendevamo, ma esso
poggiava su condizioni psicologiche instabili, che potrebbe essere impossibile ricreare. Non era naturale per
una popolazione, della quale solo una piccola frazione godeva dei conforti della vita, accumulare così tanto”.3
1. Questo modo di funzionare della società aveva fatto
emergere un problema. Il prodotto eccedente ottenuto
di volta in volta, per trasformarsi realmente in profitto e
tornare ad essere investito, doveva ogni volta essere venduto. Poiché il rapporto di scambio è un rapporto bilaterale, non può logicamente esserci un venditore senza
che di fronte gli compaia un compratore che conferma
la sua intenzione di vendere. Dunque, se la società ha
potuto, di volta in volta, realizzare un accrescimento del
capitale è stato perché, alla chiusura di ciascun periodo
produttivo, c’è stata una spesa superiore rispetto a
quella necessaria a riprodurre la situazione economica
al livello del periodo precedente. Vale a dire che non c’è
stato affatto un “pareggio” tra il valore immesso nel processo e quello che ne è scaturito, bensì un “avanzo”, che
è potuto intervenire come tale solo perché dall’altro lato
è stato bilanciato da un deficit.
Nella fase di ascesa dei rapporti capitalistici, e durante
la fase positiva del ciclo, questa spesa eccedente veniva
attuata dalle stesse imprese, le quali, attraverso il credito
creato dalle banche, acquisivano il denaro necessario per
i nuovi investimenti. In altri termini, le banche assumevano su di sé il deficit, emettendo la moneta necessaria a
coprirlo. Queste compere, oltre a permettere all’insieme
dei capitalisti di chiudere il precedente ciclo produttivo
con la vendita a credito dell’avanzo, consentivano al la3. Ibidem, pa. 9.
PARTE II. MA IL SISTEMA PROCEDE EFFETTIVAMENTE IN PAREGGIO?
21
voro necessario, corrispondente alla produzione delle
condizioni di esistenza dei lavoratori, di essere svolto.
Cosicché la società riusciva a riprodursi, e a soddisfare
bisogni su scala allargata, attraverso l’accumulazione capitalistica. Nelle fasi negative del ciclo, poiché, a causa
del contenimento dei costi da parte delle imprese, questa
compera mancava, anche in conseguenza del blocco del
credito, il sistema si avvitava su se stesso per la mancata
vendita del prodotto del periodo precedente, e la disoccupazione dilagava.
2. Questo svolgimento non era casuale. L’imprenditore
è imprenditore, come dimostra l’etimologia del termine,
perché “prende su di sé” il compito dell’impiego delle risorse, cioè esprime un’egemonia sociale che si fonda storicamente proprio sulla mediazione produttiva che mette
a sua disposizione le risorse esistenti. Non importa che il
suo fine particolare sia quello dell’accumulazione, perché
fintanto che riesce a perseguirlo spende per domandare
il lavoro necessario, e dunque consente ai produttori di
riprodursi, oltre a creare mezzi di produzione aggiuntivi,
che potranno essere impiegati nella soddisfazione del
consumo futuro. Come sottolinea Marx: “la produzione
basata sull’aumento e lo sviluppo delle forze produttive
esige la produzione di nuovi consumi; esige cioè che il circolo del consumo nell’ambito della circolazione si allarghi
allo stesso modo in cui precedentemente si allargava il
circolo della produzione. In primo luogo: un ampliamento quantitativo del consumo esistente; in secondo
luogo: la creazione di nuovi bisogni mediante la propagazione di quelli esistenti in una sfera più ampia; in terzo
luogo: la produzione di bisogni nuovi e la scoperta e la
creazione di nuovi bisogni.4
22
ANCORA KEYNES?!
3. Fintanto che le crisi erano di durata limitata, si continuò a far affidamento sui meccanismi di “aggiustamento” a posteriori da parte del mercato, anche se ciò
comportava lunghi mesi di povertà di massa, prima della
ripresa. Ma dopo la Prima guerra mondiale questo orientamento mostrò i suoi limiti, perché in molti paesi, e in
special modo in Inghilterra, la ripresa non intervenne per
tutto il ventennio e la disoccupazione media del periodo
fu addirittura del 15%. Il normale comportamento degli
imprenditori sembrava scontrarsi con degli ostacoli che
impedivano qualsiasi ripresa. Da qui l’emergere di
un’economia eterodossa, che non negava di dover partire
dalle difficoltà sociali per attuare una restaurazione, e
spingeva piuttosto per un cambiamento.
4. La natura del problema risultò ben presto chiara a
John M. Keynes che scrisse: “Ora ci si sta rendendo conto
abbastanza generalmente che la spesa di un uomo è il
reddito di un altro uomo. Ogni volta che [l’impresa si
astiene dal procedere all’accumulazione per non incorrere in perdite o che] qualcuno taglia la sua spesa, sia
come privato, sia come Consiglio Comunale o come Ministero, il mattino successivo qualcuno troverà il suo reddito decurtato; e questa non è la fine della storia. Chi si
sveglia scoprendo che il suo reddito è stato decurtato o
di essere stato licenziato in conseguenza di quel particolare risparmio, è costretto a sua volta a tagliare la sua
spesa, che lo voglia o meno.” “Pertanto ogni volta che ci
asteniamo dallo spendere, mentre indubbiamente aumentiamo il nostro margine, diminuiamo quello di qualcun altro. Un individuo può essere costretto dalla
4. Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia
politica, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, pag. 10.
PARTE II. MA IL SISTEMA PROCEDE EFFETTIVAMENTE IN PAREGGIO?
23
situazione in cui si trova a ridurre la sua spesa normale,
e nessuno può biasimarlo per questo. Ma nessuno sostenga che sta rispettando un dovere pubblico comportandosi in quel modo. Un individuo o un’istituzione o un
organismo pubblico, che volontariamente e non necessariamente tagliano la loro spesa utile o la posticipano,
stanno comportandosi in modo antisociale”.5 Una tesi assolutamente opposta a quella degli economisti ortodossi,
i quali hanno sempre sostenuto che le difficoltà derivano
da un eccesso di spesa, che dovrebbe essere riequilibrato
con un maggior risparmio.
5. Per Keynes, poiché gli imprenditori non sperimentavano la possibilità di un’ulteriore crescita del loro capitale e, piuttosto, temevano perdite, non attuavano le
spese in nuovi investimenti indispensabili per utilizzare
pienamente le risorse disponibili. Ma, se, come riteneva,
la spesa era assolutamente necessaria per mettere in
moto il processo produttivo, essa avrebbe dovuto essere
attuata dallo stato e dalle altre amministrazioni pubbliche. Lo stato avrebbe potuto, anzi dovuto, tranquillamente indebitarsi e spendere perché la sua spesa al di là
delle entrare fiscali non si sarebbe esaurita in se stessa
ma, per una fase storica, avrebbe prodotto una serie di
ripercussioni positive che gli economisti fino a quel momento ignoravano: gli aumenti di reddito garantiti dal
moltiplicatore. Salvo imporre, nel lungo periodo, cambiamenti più radicali di quelli corrispondenti al solo aumento della spesa pubblica.
6. Spiegare che cos’è il moltiplicatore non è difficile. In
termini metaforici corrisponde ad una sorta di carroz-
5. John M. Keynes, The world’s economic crisis and the way to escape,
in The collected writings, Macmillan, London 1972, vol. XXI, pag. 53.
24
ANCORA KEYNES?!
zella, che ha consentito al capitale di muoversi al di là
della sua decaduta capacità di investire autonomamente
su scala allargata, cioè di riuscire a riprodurre la società
spendendo sistematicamente in investimenti alla ricerca
di un profitto. Infatti, quando, nella prima fase dello sviluppo dello Stato sociale, lo stato spendeva, e comperava
alcuni dei prodotti creati nel ciclo produttivo capitalistico
che doveva chiudersi, dava corpo ad una domanda che
le imprese non riuscivano a metabolizzare e in assenza
della quale l’attività di produzione di quei beni sarebbe
stata interrotta e l’accumulazione bloccata. Grazie al moltiplicatore, se lo stato spendeva 100 determinava indirettamente un aumento del reddito in termini reali, ad
esempio, di 4006. Ciò dimostrava che c’era una domanda
potenziale che, affidata alle sole capacità degli imprenditori, sarebbe rimasta inespressa, e che c’erano le risorse
per soddisfarla. Ma dimostrava anche che quella spesa
pubblica funzionava, appunto, come una carrozzella, perché senza di essa non solo non ci sarebbe stata la soddisfazione dei bisogni nei quali si concretizzavano i diritti
sociali, ma non ci sarebbe stata nemmeno la ripresa della
produzione da parte delle imprese, e le risorse, inclusa la
forza lavoro disponibile, sarebbero rimaste strutturalmente disoccupate.
7. Ma una carrozzella può servire solo fintanto che il
soggetto presenta unicamente problemi di autonomia sul
piano motorio. Se il suo decadimento coinvolge più in generale le sue capacità relazionali, la disponibilità della
6. Chi riceveva in pagamento i 100 provvedeva infatti a spenderne una
buona parte, creando così redditi per altri. Questi ultimi spendevano
a loro volta buona parte del denaro guadagnato creando altri redditi, e
così via.
PARTE II. MA IL SISTEMA PROCEDE EFFETTIVAMENTE IN PAREGGIO?
25
carrozzella non potrà nascondere la sua più ampia impotenza. La spesa pubblica finisce così col mostrare i limiti
dell’efficacia del suo sostegno al capitale, che prendono
inevitabilmente la forma di una tendenza al deficit
strutturale del bilancio pubblico. Anche questo non è
un fenomeno difficile da comprendere. Quando il moltiplicatore opera, e cioè, da un lato, ci sono imprese che
aspettano solo di trovarsi di fronte dei compratori solvibili ai quali vendere i propri prodotti con guadagno, e
dall’altro lato consumatori che aspettano solo di guadagnare il reddito da spendere, la spesa pubblica finisce
col ripagarsi quasi spontaneamente, senza alcuna necessità di imporre tasse aggiuntive. Infatti se alla spesa
di 100 corrisponde un aumento del reddito di 400, le
maggiori entrate fiscali derivano automaticamente da
quel maggior reddito e non c’è alcun bisogno di aumentare le aliquote per ottenere la totale copertura dell’esborso effettuato. Ma se, a causa della bassa reattività
dei privati, all’affluire del denaro nella loro disponibilità,
la stessa spesa ha come effetto di far aumentare il reddito
solo di 150 o 200, una parte di essa non potrà più essere
coperta, perché ad aliquota invariata le entrate fiscali cresceranno in misura inferiore rispetto alla spesa, visto che
i privati non sono più capaci di produrre il reddito dal
quale esse scaturiscono. Com’è in effetti cominciato ad
accadere con la crisi fiscale, dalla fine degli anni Settanta.
26
ANCORA KEYNES?!
PARTE III
La crisi dello Stato sociale
e la lotta contro il deficit
È stato a questo punto che i conservatori, contando sull’inconsistenza culturale dei loro avversari1, sono ricicciati sulla scena sociale, alimentando quell’ideologia che
sarà poi nota come “neoliberismo”. La loro tesi, del tutto
dimentica della storia della prima metà del Novecento, è
stata che la più contenuta crescita del reddito non fosse
dovuta alla caduta della grandezza del moltiplicatore,
cioè all’incapacità da parte dei privati di continuare ad
avvalersi della spesa pubblica per dar corpo ad una domanda in grado di sostenere la loro stessa attività, ma
fosse, piuttosto, dovuta all’inefficienza produttiva della
pubblica amministrazione. Indubbiamente, nel tentativo
di far fronte al nuovo dilagare della disoccupazione, lo
stato, incapace a sua volta di fare ulteriori passi avanti
nell’affrontare le crisi2, si trovava sempre più nella con1. Che ha poco a vedere con la loro volontà e molto, invece, con la loro
incapacità, cioè con la loro ignoranza dei meccanismi economici.
2. Personalmente siamo convinti che l’inizio della lunghissima crisi che
stiamo attraversando risalga alla metà degli anni Settanta. È da allora
infatti che il quadro sociale generale ha iniziato a decadere, fino alle ulPARTE III. LA CRISI DELLO
STATO SOCIALE
27
dizione di sostenere spese improduttive o addirittura inutili, come rozza forma di occupazione d’ultima istanza.
Ma Keynes aveva ampiamente dimostrato che queste
spese dissipatorie costituivano solo un’ancora di salvezza,
alla quale aggrapparsi fintanto che la società si trovava
nell’incapacità di far crescere la domanda di beni e servizi utili in parallelo alla crescita della capacità produttiva, nonostante lo stato di bisogno nel quale si trovavano
molti suoi membri. E la loro eliminazione, lungi dal
creare condizioni più favorevoli allo sviluppo, sarebbe
corrisposta solo ad un’ulteriore contrazione del reddito.
(Come accadrà nei prossimi mesi o anni in Italia con i
tagli che si cercano di attuare con la cosiddetta spending
review della spesa pubblica portata avanti dall’accoppiate Giarda/Bondi per il governo Monti.)
La tesi di fondo di tutti i conservatori corrispondeva ad
un ribaltamento delle argomentazioni di Keynes. Lo stato,
lungi dallo svolgere un’azione di sostegno alla domanda,
secondo loro, non faceva altro che sprecar risorse, sottraendole alle imprese. Queste, una volta “liberate dai lacci e
laccioli”3 imposti alla loro azione dalla pubblica amministrazione, sarebbero state in grado di realizzare un nuovo
miracolo economico, attraverso una vera e propria esplosione della domanda privata, che avrebbero attuato in
prima persona e generato indirettamente.
Lo stato doveva, pertanto, astenersi dallo spendere. Poiché i tagli di spesa risultavano però impopolari, si ripiegò,
nel tentativo di limitare per altra via l’intervento pubblico,
time drammatiche manifestazioni.
3. L’espressione fu coniata da Guido Carli, prima Governatore della
Banca d’Italia, poi presidente di Confindustria e, infine, Ministro della
Repubblica.
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ANCORA KEYNES?!
su una crescita dell’imposizione fiscale. Come scrisse con
incredibile candore Hayek, sul finire del secolo scorso:
“l’unico modo per bloccare il processo mediate il quale si
compera il sostegno della maggioranza, garantendo speciali benefici a gruppi di clientes sempre più numerosi,
portatori di interessi particolari4, sta nel fatto che la gente
capisca che dovrà pagare sotto forma di tasse esplicite ..
tutto ciò che il governo può spendere”.5
Da decenni circola, invece, la convinzione che a imporre una tassazione crescente siano stati i progressisti.
Questo perché essi insistevano sulla necessità di un intervento pubblico nell’economia6. Ma il vincolo secondo
il quale quell’intervento poteva aver luogo solo attraverso
una crescente imposizione fiscale è il prodotto dell’ideologia neoliberista, che ha potuto nascondersi dietro a loro
solo perché i progressisti sono stati incapaci di comprendere la natura del deficit, e hanno sperato che le difficoltà
economiche avrebbero avuto solo natura congiunturale,
e tutto sarebbe ben presto tornato come prima.7 Ciò perché erano incapaci di comprendere i cambiamenti epocali
e le dinamiche impliciti nella nuova crisi sopravvenuta.
Nulla di ciò che era stato previsto dagli studiosi conser4. La natura ideologica di questa definizione è pleonastica. I pochi che
negli ultimi decenni hanno agito come clientes sono stati gli amministratori delle aziende.
5. Friedrich Von Hayek, La denazionalizzazione della moneta, Milano,
Etas, 2001, pag. 136.
6. Un orientamento che finì ben presto col disgregarsi al procedere della
crisi, con la pedissequa adesione di buona parte delle forze progressiste
all’apologia delle privatizzazioni.
7. Ciò spiega anche perché un conservatore come Padoa Schioppa, ministro di un governo di centro-sinistra arrivasse fino al punto di fare
l’apologia delle tasse, esprimendo un giudizio del tutto astratto e avulso
dalla storia economica.
PARTE III. LA CRISI DELLO
STATO SOCIALE
29
vatori, come conseguenza del loro prendere in mano il timone della società, è però effettivamente intervenuto. La
disoccupazione è restata decisamente elevata in quasi tutti
i paesi occidentali; la crescita del reddito non è intervenuta
e invece di uno sviluppo siamo precipitati in una situazione
di ristagno strutturale, sfociata infine in un vero e proprio
crollo, non dissimile da quello degli anni Trenta. L’imposizione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione rappresenta, pertanto, il tentativo ultimo, da parte
dei conservatori, di apporre il proprio suggello ideologico
sulla fase di crisi apertasi negli anni Settanta, nonostante
la storia di ben due generazioni abbia ormai dimostrato
che la loro risposta alle contraddizioni conseguite allo sviluppo dello Stato sociale, con una riaffermazione dei rapporti prekeynesiani, sia miseramente fallita.
Vale qui quanto aveva scritto Marx nel 1845: “quanto
più le normali forme di relazione della società, e con essa
le condizioni [che tengono unita] la classe dominante,
sviluppano la loro opposizione contro le forze produttive
nuove in formazione, quanto maggiore è quindi la scissione interna alla classe dominante e con la classe dominata, tanto più falsa diventa naturalmente la coscienza
[che] originariamente esprimeva queste forme di relazione [in maniera coerente]; essa cessa cioè di essere la
coscienza adeguata [a quei rapporti] e tanto più le passate
rappresentazioni [di essi] che sono state tramandate,
nelle quali gli interessi personali reali, ecc., vengono proclamati come [di valore] universale, precipitano al rango
di frasi puramente idealizzate, di illusioni consapevoli, di
ipocrisia premeditata. Ma quanto più vengono smentite
dalla vita e quanto meno hanno valore per la coscienza
stessa, tanto più energicamente verranno riaffermate
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ANCORA KEYNES?!
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