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Dario Fumolo
Sono Dario Fumolo, anzi anagraficamente Dorio, comunque vengo chiamato Dario. Sono
nato a Udine il 4 maggio del 1920.
La mia storia ha bisogno di una premessa, poiché ero militare nell’aeronautica, nella
trentacinquesima squadriglia di osservazione aerea, dove fin dall’inizio della guerra ho
fatto servizio. Presso questa squadriglia, ho conosciuto una persona che già avevo
incontrato da ragazzo, Mario Vignando, dico il nome perché è un personaggio importante
che occupa molto spazio nella mia storia.
Quando c’è stato l’armistizio, l’8 settembre del 1943, io ho perso di vista Mario Vignando.
Abbandonato il campo, l’aeroporto di Lucca, dove mi trovavo in quel periodo, con la mia
fida bicicletta - con la quale veramente posso dire di aver fatto la guerra - sono partito e mi
sono diretto verso casa, verso Udine, con le difficoltà che si possono comprendere. In due
giorni, ho attraversato il passo della Porretta, sono arrivato a casa e ho fatto in modo che
la mia presenza fosse notata il meno possibile, data la situazione e il momento particolare
in cui mi trovavo.
Un giorno la costituzione della Repubblica Sociale Italiana ha fatto giungere a me, come
ad altri ex aviatori, una lettera in cui mi si imponeva di presentarmi al comando della ZAT
di Padova, zona aerea territoriale di Padova, per riprendere servizio con l’aeronautica
repubblichina. Questo fatto mi mise in crisi perché in me era maturata la convinzione che
la guerra che avevamo fatto, non era una guerra giusta, era una guerra di aggressione, e
solo pian piano mi sono convinto che anche la politica che ha portato avanti l’Italia e
soprattutto il fascismo, non era giusta, non poteva essere una politica da approvare,
specie dopo le prove che avevo sopportato e subito in una guerra difficile e logorante.
Quindi ho deciso di non presentarmi e di darmi per un po’ anche alla latitanza. E per
questo, molto spesso anziché dormire a casa, trovavo ospitalità presso un contadino che
abitava nei miei paraggi e così cercavo di dare nell’occhio il meno possibile. Però sono
riuscito a mantenere dei rapporti con Vignando che era tornato pure lui a casa. Questo
fatto è stato per me di un’importanza estrema, perché lui aveva conosciuto un ex militare,
sbandato, rimasto intrappolato in Friuli che non riusciva più a tornare nel suo paese natale
e di residenza e quindi non so come vivesse. Comunque era qui, era a Udine nella nostra
città.
Per prendere un libro che Vignando mi aveva prestato un giorno, sono capitati a casa
entrambi, e così questo signore ha potuto vedere anche dove abitavo, oltre che aver
conosciuto il mio nome in precedenza. Poi questa persona è stata arrestata in un bar
perché ad un confidente delle SS, o comunque della polizia tedesca, aveva fatto vedere
che girava con una pistola, e aveva detto di conoscere parecchi personaggi vicini al
movimento di Resistenza.
Per questo è stato arrestato e con gli interrogatori che aveva subito, probabilmente anche
abbastanza violenti, aveva fatto il nome di tutte le persone che aveva conosciuto,
compreso il mio, facendo delle accuse anche particolarmente pesanti. Per esempio io ero
accusato di avere fatto dello spionaggio a favore dei partigiani sulla consistenza delle
forze armate tedesche a Udine, in particolare di una caserma delle SS. Quindi ero stato
accusato di una cosa molto grave per la mia situazione.
Ad un certo punto la polizia di sicurezza tedesca ha preparato una retata e una mattina,
molto presto, tutte le persone che erano state implicate in questa vicenda, sono state
arrestate.
Quella mattina io dormivo in casa, dormivo a casa mia per sfortuna, e ho sentito una
macchina fermarsi davanti, sulla strada. Affacciatomi alla finestra, eravamo in agosto, era
il 3 di agosto del 1944, ho visto in assetto di guerra, in assetto di combattimento scendere
dei tedeschi da due, tre macchine e circondare la mia casa. Al che io, che avevo preparato
una specie di rifugio, sono uscito di casa velocemente, avvertendo mio padre che stavano
arrivando i tedeschi e mi sono messo in un rifugio, che avevo creato al di là di un cortiletto,
nel retro della casa. Queste persone erano accompagnate da due repubblichini, armati di
mitra, in borghese e molto violenti. Diciamo che mentre i tedeschi entrati in casa erano
passivi, questi si davano da fare per chiedere dov’ero io e chiederlo con violenza, con
insistenza, insistendo con mio padre affinché dicesse dov’ero. Mio padre, da me istruito,
aveva detto che io ero stato arruolato, che mi ero portato nella zona di Verona, che facevo
servizio in un aeroporto che lui non conosceva per ragioni di segreto di guerra. Non
potendo provare quanto diceva, questi repubblichini si fecero ancora più violenti e
minacciarono di bruciare la casa se io non mi fossi fatto vivo. Al che a una mia sorella - ne
avevo due oltre che mio padre presente in casa - sono saltati i nervi, come si suol dire, e si
è affacciata a una finestra chiamandomi e dicendo “Qui bruciano la casa, devi uscire
fuori!”. E quindi io ho dovuto abbandonare il mio rifugio, il mio nascondiglio, naturalmente
facendo del rumore, perché sapeva che nel retro casa avevo visto, passando
velocemente, un militare tedesco che impugnava il mitra, e naturalmente se avessi fatto le
cose meno rumorosamente, probabilmente avrebbe anche sparato. Sentendo i rumori, il
militare ha rotto con violenza il lucchetto di un piccolo cancello e mi è venuto a prendere.
Io, naturalmente in pantaloni, scalzo, con le mani alzate, mi presento e dimostro di essere
in condizioni di non reagire. I due repubblichini hanno fatto man bassa di documenti e altre
cose, poi hanno portato fuori biciclette e altri oggetti che, secondo loro, potevano avere un
valore immediato. Mi hanno fatto accomodare su una macchina della polizia tedesca
assieme a mio padre e a una delle mie sorelle. Quindi siamo arrivati in via Spalato, dove ci
sono le carceri. Sono stato messo in una cella di isolamento e quindi ho perso ogni
contatto con la realtà. Non conoscevo neanche il motivo per cui ero stato arrestato. Solo
dopo un interrogatorio ne venni a conoscenza. Venni interrogato da un ufficiale tedesco
con l’ausilio di un interprete italiano. Mi venne presentato questo personaggio che avevo
conosciuto a Udine con il mio amico Vignando, a cui venne chiesto se ero io la persona di
cui aveva parlato. Dopo il suo assenso, venne subito portato via. Sicché con questo capii
che fui arrestato per colpa di questo personaggio, di cui non conoscevo proprio niente.
E così, dopo alcuni giorni, dopo aver regalato una camicia a un secondino, potei essere
messo fuori dalla cella di isolamento. Mio padre e mia sorella furono rimandati a casa,
mentre io mi trovai in una cella con altre quattro o cinque persone che erano lì in attesa
del futuro nebuloso che si presentava. Una mattina siamo stati inquadrati e portati in
stazione, da lì nei soliti carri bestiame, siamo stati rinchiusi e portati in Germania. Questo
nostro trasferimento è stato eseguito il 24 agosto, sempre del 1944. Dico questo perché a
Buchenwaldd, dove eravamo diretti, sono arrivato il 28 agosto. E’ stato un viaggio
abbastanza tranquillo, addirittura dopo la partenza hanno aperto gli sportelloni, perché i
tedeschi volevano far credere che le cose sarebbero andate per il meglio. Infatti eravamo
tutti convinti di finire in qualche fabbrica, in qualche campo di lavoro e attendere così in
una situazione discretamente buona la fine della guerra che prevedevamo fosse vicina.
Invece avemmo la delusione di ritrovarci in una bolgia infernale, che non avremmo mai
pensato potesse esistere.
Era il campo di Buchenwald. La visione di queste persone che attraversavano, passavano,
intente nei loro lavori, fu orribile... Fu un’impressione orribile perché questa gente si
presentava rasata di capelli, magra all’infinito, con questa casacca, con questi pantaloni
zebrati. Era un’umanità che non pensavamo ci potesse essere. Lì, cominciò la distruzione
della nostra personalità perché ben presto ci accorgemmo che anche noi avremmo dovuto
fare la stessa fine e indossare gli stessi panni. Tant’è vero che, portati alle docce, ci
rasarono i capelli, fummo depilati completamente, disinfettati con un ridicolo scopino
immerso nella creolina e infine ci venne fatta fare la doccia e mandati fuori nudi, così come
eravamo rimasti... Ci avevano tolto naturalmente tutto e quindi ci ritrovammo, senza
possedere alcunché, alla vestizione, con questi giacconi rigati e questi pantaloni. Ed è così
che poi fummo mandati in una baracca dove ci fecero fare una breve quarantena,
iniettandoci anche dei medicinali o altre sostanze, dei sieri che potessero contrastare le
malattie che nel campo erano le più diffuse: il tifo petecchiale, il colera e altre malattie.
Ormai avevamo soltanto un numero, il nostro nome non veniva più pronunciato. Il mio
numero era il 22.542, dovetti impararlo anche velocemente in lingua tedesca, perché se
non veniva compreso alla chiamata, cominciavano a piovere le botte. Quindi fu giocoforza
imparare questo numero velocemente.
Subito dopo, chiamarono il nostro numero, il mio e quello di Vignando, e poi ci chiesero chi
di noi due conosceva meglio il francese. E siccome lui lo conosceva meglio di me, gli
dissero di prepararsi e di andare assieme alla persona che doveva prenderlo in consegna.
E questo mi ha fatto sospettare, visto poi anche le esperienze che ho avuto, che la lunga
mano della polizia di Udine fosse intervenuta per eliminare immediatamente il mio amico
Vignando, tant’è vero che non l’ho più visto e non è più rimpatriato, anche alla fine della
guerra. Quindi rimasi solo con alcuni, pochissimi degli amici che avevo conosciuto nella
cella, dopo essere uscito dalla cella di isolamento. Iniziammo i lavori faticosi, iniziammo a
capire com’era che funzionava questo campo, quali lavori venivano assegnati, e a me
toccò, purtroppo, fare dei lavori pesanti. Era recentemente stato bombardato il complesso
industriale che stava accanto al campo e quindi c’erano lavori di ricostruzione in corso e
allora mi toccava fare il manovale, portare sacchi di cemento, trasportare pesi, trasportare
mattoni, trasportare cemento, eccetera. Erano delle cose che io fra l’altro non avevo mai
fatto perché io facevo un mestiere da ufficio prima e da militare nel ruolo di marconista in
aviazione. Avrei anche potuto sopportare il peso di quel tipo di lavoro, se il cibo fosse stato
sufficiente, ma la situazione era veramente tremenda, perché il cibo veniva dato una volta
al giorno, in una quantità minima e con delle calorie alquanto basse, sicché non era
possibile immediatamente... Non era possibile eseguire i lavori che dovevamo eseguire,
alimentandoci in maniera così sconveniente.
Poi ebbi la possibilità di sentire che un altro dei miei pochi amici aveva trovato modo di
entrare in un Transport che secondo lui doveva portarlo in una piccola officina dove la vita
doveva essere molto più facile. Io una mattina, rischiando anche la vita, abbandonai il
gruppo, il comando nel quale ero inserito e andai a chiedere al suo kapò se potevo essere
anch’io trasferito in questa officina. Il kapò acconsentì e mi portò all’Arbeiterstatistik,
l’ufficio che teneva il conto di tutti i prigionieri lavoratori e mi fece passare al suo comando.
I tedeschi avevano una tecnica particolare, e anche qui la misero in pratica perché, dopo
quattro giorni di viaggio con lunghe soste - naturalmente più lunghe le soste che i
movimenti - ci ritrovammo a Dora Mittelbau, che non era una piccola officina ma era un
grandissimo campo con decine di migliaia di prigionieri. Si trattava di prigionieri che
alimentavano le vicine fabbriche delle armi segrete tedesche, che si trovavano
naturalmente in gallerie scavate in precedenza da altri prigionieri con una mortalità
spaventosa. Lì, c’era la costruzione di questi ordigni, l’EV1 e l’EV2, le armi segrete sulle
quali puntavano i tedeschi per raggiungere una vittoria che ormai stava loro sfuggendo di
mano.
Devo dire che la vita nel campo era dura, era pericolosa quanto lo era a Buchenwald,
aggravata dal fatto che i tedeschi erano assillati dal problema del sabotaggio. Questo si
aggiungeva a tutte le sofferenze che dovevamo patire sia per l’impossibilità di un letto, di
un riposo accettabile, sia per il poco cibo che ci veniva somministrato. Parecchie persone,
magari anche senza una colpa, solo per una sbadataggine oppure per una dimenticanza,
venivano sospettati di sabotaggio e impiccati. Quindi lungo la galleria, andando al lavoro la
mattina, dovevamo passare in mezzo alle gambe di gente che era stata impiccata nelle
ore precedenti.
Faccio un passo indietro. Quando sono stato trasferito a Dora, era l’11 novembre del ‘44,
non mi fu cambiato il numero di matricola, rimasi sempre col numero 22.542, che è il
numero che ho sempre avuto fino alla liberazione. La vita del campo, come ho accennato
prima, era durissima anche a Dora, aveva delle regole particolari, chi si recava nelle
gallerie al lavoro aveva dodici ore di lavoro continuato, salvo mezz’ora di riposo, a metà
giornata o a metà notte, perché il turno consisteva in una settimana di giorno e una
settimana di notte. I primi giorni mi toccò di dover fare un lavoro pesante, quanto quello
che facevo a Buchenwald, e questo mi mise nella condizione di pensare che se fosse
continuata così, non avrei avuto una vita molto lunga, sicuramente… Lì bisognava fare un
lavoro di ampliamento delle volte delle gallerie con dei compressori, che servivano per
forare le rocce, che pesavano moltissimo. Io venni in un primo tempo messo al lavoro.
Dovevo portare questi pezzi di roccia che cadevano, dovevo portarli all’esterno con una
specie di barella in due persone. E naturalmente era un lavoro faticoso, ripetuto per dodici
ore in un giorno. Fra l’altro, finite le ore di lavoro no n si andava direttamente al campo, ma
si passava da una cava di pietre dove ognuno di noi doveva prendere una pietra, entrare
nel campo con la pietra per gettarla dove il fango dominava per far sì che ci fosse la
possibilità di passare su un terreno meno disagevole, meno fangoso. Quindi anche questo
era un supplizio che si univa a quello delle dodici ore di duro lavoro. Al che, sentito da un
amico che era stato messo in un reparto di aggiustaggio, perché lui era veramente di
mestiere aggiustatore ai cantieri di Monfalcone, chiesi se era possibile fare la stessa cosa.
Mi accinsi a fare nel miglior modo possibile il lavoro che il capo civile, che comandava il
reparto, volle darmi da fare per capire se ero in grado veramente di fare l’aggiustatore.
Siccome di famiglia sono stato sempre in mezzo ai meccanici, avevo una certa
dimestichezza con il banco di lavoro, le lime e altri utensili, pur non essendo il mio
mestiere. Così superai brillantemente la prova e venni assunto, venni dato in consegna
come schiavo ad un tedesco che doveva essere il mio padrone in sostanza.
Quindi mi misi a fare questo nuovo lavoro, che era meno faticoso di quelli che avevo fatto
in precedenza. Ma l’alimentazione era sempre scarsa. Il fatto di lavorare una settimana di
giorno e una di notte, di portare le pietre dopo dodici ore di lavoro, fecero sì che ad un
certo punto mi sentissi veramente male. Entrai in crisi e un giorno mi venne in bocca una
piccola quantità di sangue. E capii che le cose andavano male, perché poteva essere
soltanto sangue proveniente dai polmoni. Era quindi un segnale gravissimo per le mie
condizioni di salute. Inoltre, si accompagnava a questa situazione anche la febbre.
Lasciato il reparto che andava al riposo nelle baracche, presi la strada del Revier e andai
per una visita, per un controllo. E lì c’erano dei medici francesi, deportati come noi, che mi
dissero che avevo bisogno di essere ricoverato perché dai raggi si notava una ‘caverna’.
Si trattava di un segnale gravissimo. Fatta la visita completamente nudo, consegnai i
vestiti in una specie di magazzino, e in pieno inverno dovetti andare lungo un sentiero
ghiacciato con solo una piccolissima coperta che mi copriva la testa fino al Revier,
all’ospedale, al Krankenhaus dove mi avevano assegnato. Lì ebbi un periodo di riposo
sotto il profilo lavorativo. Fu un periodo alquanto triste e duro, sia per la mia situazione
personale, sia per lo spettacolo che avevo davanti ai miei occhi di altri deportati che, come
me, finivano la loro vita lì in mezzo a questi letti in condizioni di disagio, non solo
alimentare ma anche fisico. Le lenzuola non esistevano, quando c’erano erano piene di
macchie lasciate da precedenti ammalati… Sicché dopo circa una decina di giorni, la
febbre se n’era andata. Per risollevare la mia situazione mi davano soltanto una cosa, del
calcio liquido pensando che quella fosse l’unica cura. Dopo dieci giorni, visto che non
avevo più febbre mi diedero cinque giorni di lavoro leggero e mi rimandarono alla mia
baracca.
I cinque giorni di lavoro leggero, però, si trasformarono in una brutta avventura. Il lavoro
che ci veniva dato era veramente leggero, si trattava di fare dei gomitoli mettendo vicino
lunghi pezzi di spago, che forse erano quelli che tenevano legate le valigie dei prigionieri
che arrivavano. Comunque questo lavoro sarebbe stato accettabile se, ad un certo punto,
non mi avessero chiamato assieme ad altri quattro o cinque per andare in cucina a
prendere dei sacchi di patate e portarli su una collina dove c’era un allevamento di maiali
per le SS. Fu terribile, nelle nostre condizioni noi non riuscivamo proprio ad andare avanti
lungo queste scalinate che ci portavano in cima alle colline. E quindi decisi che dovevo
rinunciare a questa specie di lavoro leggero e tornare in galleria. E così feci, fui rimandato
in galleria e, dopo dieci giorni, di nuovo mi si alzò la febbre. Ebbi delle situazioni alquanto
dolorose, per febbre, per malesseri generali e dovetti tornare al Revier per una seconda
visita. Fatto un secondo ricovero, una mattina un medico francese, armato di una bombola
di un tubo di gomma e di un ago, mi fece un pneumotorace.
Un pneumotorace consisteva nell’infilare l’ago fra la pleura e la parte esterna del corpo,
diciamo in zona polmonare, e iniettare, immettere dell’aria a pressione per immobilizzare il
polmone malato. Quindi mi ritrovai con un fiato cortissimo, una situazione enorme di
disagio, non potendo respirare che con un solo polmone, una situazione mai provata,
nuova. Quindi sono state giornate veramente tristi e dolorose. Sennonché mi diedero altri
cinque giorni di riposo e fui mandato fuori di nuovo nella mia baracca. Fra l’altro, non era
più la baracca dove ero di solito ma era un’altra baracca. Quindi mi ritrovai senza alcun
italiano vicino a me e in una marea di gente che parla va altre lingue: tedeschi, russi,
jugoslavi ecc.
Questa nuova situazione mi impediva anche i movimenti più brevi, le camminate più brevi,
gli sforzi meno intensi, perché la situazione respiratoria era quella che era, ero condannato
quasi all’immobilità. E questo fece sì che anche quei giorni di riposo fossero per me molto
tremendi. Avendo una certa libertà, ebbi modo di vedere che gli ammalati che avevano
necessità più gravi, venivano trasportati in sanatori - dicevano loro - in luoghi dove
potevano risanarsi e guarire per poi tornare nel campo. Ebbi modo, successivamente, di
vedere dei camion, sempre dei camion dello stesso tipo, peraltro tutti coperti coi teloni, dai
quali venivano scaricati dei prigionieri, dei deportati tutti morti. Un carico di morti. Avevano
soltanto il numero segnato sulla coscia sinistra della gamba, la gamba sinistra, con una
matita copiativa.
C’erano delle squadre di prigionieri che con delle barelle - avevano aperto un cancello che
recintava il campo dal bosco all’esterno del campo, lungo le colline - prendevano questi
corpi, questi cadaveri e li trasportavano all’esterno. Capii immediatamente che potevano
essere soltanto bruciati su cataste di legna o messi nelle fosse comuni scavate fuori dal
campo, perché c’era il crematorio ma era all’interno e non aveva grandi capacità per poter
bruciare parecchie persone. Questo mi fece pensare al pericolo che stavo correndo
anch’io essendo in una situazione così grave. E per questo per una seconda volta andai
all’Arbeiterstatistik per pregarli di riportarmi al mio lavoro consueto, dove perlomeno
conoscevo ormai l’ambiente e facevo un lavoro che non era dei più pesanti.
In questa situazione siamo arrivati ai primi di aprile del 1945 fino a quando, dopo un
violento bombardamento della città di Nordhausen, che era a pochi chilometri da noi,
venne deciso il trasferimento di tutti i prigionieri del campo. Venimmo caricati su dei carri,
dei vagoni, questa volta non di bestiame e quindi chiusi, ma su dei vagoni scoperti.
Per un chiarimento, devo dire che dal campo alle gallerie dove stavamo lavorando, non
c’era un lungo percorso, si poteva trattare di circa cinquecento metri. Per recarci al lavoro,
dovevamo uscire inquadrati per cinque, guai a sbagliare il passo! Quando eravamo vicino
all’ingresso c’era una guardia delle SS sempre presente per portarci fuori. Il problema non
era arrivare alle gallerie ma percorrerle dentro per centinaia di metri perché erano
moltissime e molto distanti. Andare al lavoro non era una grossa fatica, la fatica era il
ritorno perché dovevamo andare anche alla cava di pietre e prendere un grosso masso e
portarcelo sulle spalle.
Quando ci venne dato l’ordine di sgombero, loro ci dissero che chi se la sentiva poteva
andare via, mentre gli altri sarebbero rimasti nel campo. Naturalmente il buon senso mi
disse che era meglio che io me ne andassi, perché non sapevo che fine avrebbero fatto
quelli che rimanevano.
E su dei carri, non carri bestiame questa volta, ma su dei vagoni scoperti, venimmo
caricati e portati per una destinazione ignota. Il vagone scoperto era più comodo perché
c’era l’aria, quindi si poteva respirare, anche se pioveva ed eravamo in una condizione
veramente penosa. Tra l’altro, lo spazio era talmente stretto perché una larga parte
l’avevano occupata i kapò e noi dovevamo accontentarci di stare come sardine in piedi.
Quando poi dovevamo piegarci, cercavamo di sederci, dovevamo allargare le gambe e far
sedere uno in mezzo alle gambe, alla turca diciamo, per poter stare tutti. Naturalmente
c’era la possibilità che uno non sentisse più una gamba o si sentisse male. Alzandosi
perdeva il posto e rientravano in azione i kapò che con delle vigorose bastonate, facevano
crollare a terra la persona e dove crollava doveva rimanere, i prigionieri dovevano fargli
spazio per farlo rimanere in ogni caso. Questo è andato avanti per quattro giorni,
naturalmente facendo pochissima strada, pochissimo percorso, perché anche le ferrovie
erano state bombardate, la situazione era tremenda in ogni senso.
Una mattina ricordo che ci hanno fatto scendere da questo treno e ci hanno diviso in due
gruppi, dando ordine che chi voleva e poteva camminare si doveva mettere da un lato,
dall’altro si dovevano mettere tutti coloro che, per condizioni di salute, non erano più in
grado di camminare. Io scelsi questa soluzione perché nella posizione in cui ero stato per
ore e ore in tutte quelle notti, avevo le ginocchia gonfie e sembravano dei fiaschi.
Realisticamente pensai che era meglio che mi mettessi subito dalla parte di chi non poteva
camminare, anche se ciò poteva comportare una fine non certo facile, e di sicuro non
positiva.
Comunque ebbi la grande sorpresa di vedere dall’altra parte il mio amico Noro che avevo
perso di vista. Ci guardammo e non ci dicemmo nemmeno una parola a causa della
situazione sia psicologica che fisica in cui eravamo. Quindi mentre loro, circondati dalle
SS, con i cani lupo, presero una certa direzione, noi ricevemmo l’ordine di rimontare su dei
carri, che non erano più i carri aperti di prima, ma dei carri bestiame. C’era addirittura un
po’ di paglia all’interno per terra. E quindi io non feci altro che stendermi sulla paglia e mi
addormentai pesantemente. Al risveglio mi ritrovai in una stazione dove eravamo fermi.
Probabilmente c’erano problemi di transito. Per altri due giorni errammo così senza una
meta, almeno senza una meta apparente, lungo queste ferrovie, sentendo ad un certo
punto anche il tuonare dei cannoni, quindi capendo, comprendendo che stavamo
inoltrandoci in una zona dove la guerra era veramente guerra.
Avemmo anche la sorpresa di essere abbandonati dalle SS e di vedere al loro posto dei
vecchi militari con dei vecchi fucili che non erano più in grado di mantenere quell’ordine e
quella disciplina che ci era stata imposta fino a quel momento. Tant’è vero che, dopo una
notte insonne, al mattino qualcuno riuscì ad aprire un vagone, un carro, e da un vagone
aperto ebbero la possibilità di aprirli tutti e ci trovammo in una situazione di libertà.
Nel nostro convoglio c’era un tedesco, un tedesco politico, un triangolo rosso anche lui,
che stranamente era del paese dove eravamo fermi. Grazie a lui venimmo a sapere che
nei paraggi c’era un baraccamento di militari abbandonato e che poteva essere un buon
rifugio per noi. E così come potemmo, aiutandoci l’uno con l’altro, arrivammo in questo
baraccamento dove c’erano dei lettini a castello con dei materassi veri. Non ci parve vero
poterci adagiare lì anche se le nostre condizioni fisiche erano gravissime anche perché il
cibo non ci era mai stato dato.
Questa improvvisa semilibertà - perché non potevamo pensare di essere ancora liberi - è
avvenuta circa verso l’8 di aprile, l’8 di aprile naturalmente del ‘45. Il baraccamento non
era lontano da un piccolo paese rurale. Quindi noi ci trovammo lì e cominciammo, quelli
che potevano muoversi, a rovistare e trovammo delle minestre vegetali abbandonate dai
tedeschi. Potemmo cominciare a bere qualcosa di liquido, che avesse l’apparenza di una
zuppa e questo per noi fu già un motivo di grande soddisfazione.
Nei giorni successivi la battaglia continuava nei paraggi, al punto che alcune granate - ci fu
un duello di artiglieria - caddero anche sulle baracche, per fortuna vuote, di questo piccolo
baraccamento. Poi vedemmo comparire con grande gioia un militare americano, armato di
tutto punto, carico di tutte le cose di cui avevano bisogno oltre che delle armi. A quel punto
si scatenò una tale gioia, un tale entusiasmo che a gruppi di cinque tentarono di sollevarlo,
di portarlo in trionfo ma dato lo stato di debolezza in cui si trovava no, finivano col cadere a
terra con il soldato americano che doveva essere portato in trionfo.
Io naturalmente non potevo fare nemmeno questo perché le mie ginocchia non erano in
grado di sopportare sforzi, potevo appena muovermi.
Ci trovavamo in una zona non lontana da Dora, perché con tutto il nostro girovagare
avremmo fatto una sessantina di chilometri ed eravamo vicini ad una cittadina che si
chiamava Seesen. Per i primi giorni ci siamo arrangiati con quello che avevamo trovato in
questo piccolo magazzi no. Poi è arrivato un americano con una mucca, l’ha portata in
mezzo alla piazza e dopo averla ammazzata ci ha detto che potevamo approfittarne.
Allora lì c’è stato un assalto da parte dei più esperti per sezionare questa mucca. Così
abbiamo messo su dei grossi pentoloni a bollire, abbiamo avuto la soddisfazione di bere
del brodo, di mangiare della carne, insomma cose che non facevamo da tanto tempo.
Eravamo liberi sì, ma il ritorno alle nostre case non era ancora pensabile. Per fortuna i
polacchi del nostro convoglio avevano ottenuto in questa cittadina degli spazi, in una
scuola, per fare un ospedale, perché la maggior parte di noi aveva bisogno urgente di
essere ricoverato, di essere curato. E quindi da lì con dei carri fummo trasportati in questa
scuola , in questa piccola città di Seesen dove iniziammo veramente un periodo di
ricostruzione di noi stessi, sia fisico che morale. Avemmo il piacere di avere delle zuppe
abbondanti, di essere curati non tanto perché medicine non ce n’erano. Comunque la cura
più importante era quella di poterci alimentarci in maniera sufficiente. Siccome stare in
questo posto non poteva essere il modo migliore per rimpatriare, abbiamo avuto sentore
che a non molta distanza c’era un campo, un Lager di militari italiani internati l’8
settembre. Quindi abbiamo preso contatto con loro, perché avevo fatto amicizia con un
deportato di Pesaro, e assieme ci siamo poi portati in questo campo da dove alcuni mesi
dopo abbiamo avuto la possibilità di essere trasferiti a Blanswitz, una grande stazione, e
partire per l’Italia.
La strada è stata lunga, il rientro è stato anche difficile per la condizione in cui si trovavano
le ferrovie e tutto il territorio tedesco. Verso i confini austriaci ci siamo fermati in un campo
di raccolta dove siamo stati abbondantemente spruzzati con DDT e altre cose che
potevano far sì che tutti gli insetti che possedevamo fossero uccisi. Eravamo alimentati
con un puzzolentissimo formaggio tedesco, che aveva veramente un odore schifoso ma
che per noi era già una cosa preziosa. Dopo di che, dopo questa sosta siamo arrivati al
Brennero e siamo arrivati poi giù a Pescantina, che era in Italia. Era il primo posto di
soccorso, di raccolta e di ripartizione poi per le varie destinazioni. E con dei mezzi
americani, assieme ad altri che avevano come direzione Venezia, siamo stati portati fino a
Mestre. Da Mestre ho preso il treno e ho fatto finalmente ritorno a casa.
Questo sarà successo il mese di agosto, come casualmente nel mese di agosto ero finito
nel campo di Buchenwald così nel mese di agosto dell’anno successivo avevo avuto la
fortuna di tornare a casa.
Devo aggiungere che questa non fu la mia liberazione definitiva, perché ero già ammalato
e altri mali mi erano sopraggiunti all’ospedale Al Mare del Lido di Venezia. Così credendo
di fare un breve periodo di riposo in zona marina, ebbi la sventura di fare tre anni e tre
mesi di ricovero all’ospedale Al Mare, dei quali almeno due anni li ho trascorsi immobile
sul letto. Quindi la mia vera liberazione si può dire che comincia il 16 settembre del 1949.
Io non so che fine abbiano fatto i compagni con cui sono partito dall’Italia perché non ho
avuto l’opportunità come tanti altri di avere grosse conoscenze, di conoscere i nomi e le
storie degli altri prigionieri. A causa dei miei malanni mi sono trovato in baracche dove
addirittura non c’era nessun italiano. Quindi non ho avuto modo di conoscere persone per
uno scambio di frasi, di parole. La comunicazione inoltre spesso era anche resa
difficoltosa dalla differenza di lingua. Alla fine io avevo due persone nel cuore: Vignando
Mario e Noro Sergio. Vignando Mario come ho già detto è sparito e non è più tornato.
Noro Sergio l’ho visto quando scesi dal treno, ma poi io andai nel gruppo di quelli che non
potevano camminare, lui invece era nel gruppo di coloro che camminavano ancora. Non
ha più fatto ritorno a casa. Probabilmente lungo il percorso è stato abbattuto da queste SS
così crudeli. Quindi devo dire, concludendo questa storia, che quasi in solitudine sono
salito, e quasi in solitudine, anzi sicuramente in solitudine sono tornato.