CAPITOLO 2 PROPOSIZIONI, GIUDIZI, RAGIONAMENTI 1

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CAPITOLO 2
PROPOSIZIONI, GIUDIZI, RAGIONAMENTI
AVVERTENZA: TRASCURATELA A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO . Quanto segue é un cross-over
tra un set di lecture notes e un textbook. La presentazione in paragrafi e sottoparagrafi, la presenta di NOTE ed OSSERVAZIONI,
etc é tipica di un libro di testo; invece la presenza di esempi ed esercizi, commenti a chiarimento, etc e la mancanza di una
bibliografia sera e ragionata é tipica di appunti di lezione. La forma tipografica (colpa di Donald Knuth) é quella di un libro
di testo. Il fatto che vi siano umpteen casi di errori di stompa, e magari errori matematici, lo denuncia come al massimo una
bozza di possibile textbook, il che é avvalorato da ricorrenze di ”[[MANCA]]” che sono dei promemoria di altro materiale che
potrebbe essere aggiunto. Ogni segnalazione di sviste, errori, o miglioramenti possibili é benvenuta. [email protected]
1. Argomentazioni e dispute
Immaginiamo una disputa tra due personaggi, che chiameremo A e B: supponiamo che essi
abbiano una divergenza di opinioni, ma che ciascuno voglia convincere l’altro di essere nel
giusto.
La situazione si presenterá come segue: A ha avanzato una sequela PA di frasi di cui le prime
saranno della forma: “ Mi devi ammettere che ...” (esse saranno le ”assunzioni o premesse
iniziali” di A; qualcuna di esse potrebbe essere inespressa, data per scontata ed insomma
presupposta coma accettata da entrambi senz’altro); poi una serie di ”passaggi logici” e poi
alla fine c’è una conclusione CA . Da parte sua B ha analogamente costruito una sequela di
frasi PB con una conclusione CB .
All’ inizio, A ha concesso il suo assenso alle assunzioni iniziali di B ( ed alle proprie) e
viceversa B ha concesso il suo assenso alle assunzioni iniziali di A (ed alle proprie). Pertanto
sia A che B consideravano in partenza che tutte le loro assunzioni insieme fossero vere. La
disputa si è poi sviluppata.
Il fatto che essi non risultano d’accordo vuol dire che le rispettive conclusioni CA , CB non
sono logicamente compatibili, ossia che che non possono essere vere entrambe.
A questo punto facciamo intervenire un terzo personaggio , che fará da arbitro, e che è il
Logico; chiamiamolo L. Costui svolge il suo compito che è quello di controllare la validitá
delle argomentazioni. In altre parole, L, senza essere un esperto dell’argomento su cui verte
la disputa, comunque senza essere in possesso di alcuna opinione in proposito, esamina PA e
poi la PB per appurarne la validitá . La commedia si fa interessante nel caso che entrambe
risultino essere, al vaglio di L, delle orgomentazioni valide. Ove infatti una o entrambe fossero
logicamente difettose, sarebbe il caso che la disputa venisse ricominciata, risolta con altri mezzi,
o magari abbandonata... .
Il logico, dunque, esaminate le argomentazioni, le dichiara logicamente valide.
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Ecco la situazione:
(1) entrambi A, B hanno “ragionato in modo correttó’;
(2) le loro conclusioni CA , CB sono in contraddizione.
A questo punto, L emette una sentenza decisiva:
Le ammissioni iniziali di A e B non possono essere tutte vere.
Infatti un ragionamento e’ corretto proprio in quanto la veritá delle premesse passi intatta ai
passaggi intermedi fino alle conclusioni. Consideriamo insieme sia le ammissioni iniziali di A
che quelle di B, avremo un gruppo di assunzioni ASSA,B , a partire dalle quali, con ineccepibili
deduzioni corrette sono state ricavate le contraddittorie conclusioni CA e CB . Se tutte le
assunzioni del gruppo ASSA,B fossero vere, avremmo che entrambe la CA e la CB dovrebbero
essere vere . L’ intervento di L ha chiarito, pertanto, che in effetti A e B credevano di essere
d’accordo sulle assunzioni iniziali. Da qualche parte, nel totale delle assunzioni ASSA,B , si
è insinuata la possibilitá di dedurre una contraddizione: poteva essere giá all’ interno delle
assunzioni di A, o in quelle di B, o si è prodotta quando le si mette insieme.
La disputa, si rifletta bene, non è stata affatto ”risolta”; non nel senso, perlomeno, di
finire col dare ragione all’ uno o all’altro. Invero, è solo stata trasferita alle assunzioni iniziali,
diciamole ASSA ed ASSB di A e B. Ora, se queste, come supponiamo, sono ”assunzioni ultime”
per A e B, ossia non solo ciascuno dei due non intende rinunciare alle proprie, ma non intende
neppure argomentarle (cioè derivarle da altre logicamente) a loro volta, la questione si blocca,
il logico L esce di scena.
Nella disputa immaginata qui sopra giá incontriamo un gruppo di nozioni e di domande
che meritano attenzione ( sulla veritá, le contraddizioni,...) ma quelle che in primo luogo
ci si presentano sono le seguenti due domande ”trasversali”:
(1) di che si compone un ragionamento (per lo meno uno che sia espresso e comunicato in un dato linguaggio: non intendiamo riferirci nè alla psicologia nè alla
neurofisiologia ....)?
(2) come si puó appurare la validitá di un ragionamento?
2. Frasi e Proposizioni
Circa la domanda (1), possiamo constatare come si presentano i ragionamenti che si
fanno comunemente, in quanto ”fenomeno naturale” passibile di osservazione: un ragionamento si presenta come una sequenza di un numero finito di enunciazioni linguistiche,
”frasi” (che siano solo pensate o anche pronunciate, oppure scritte ...). Tali frasi sono
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collegate tra loro da ”dunque”, ”pertanto”, ”perció”, ”ne consegue che”, o simili, creando una specie di figura grafica che ha delle ammissioni iniziali, poi procede con quel
tipo di collegamenti fino al fatidico: ”pertanto la conclusione è ....”.
Cosa e’ una frase (per es. in lingua italiana)? Come ”fenomeno naturale”, una frase
scritta é una sequenza di parole, spazi, segni di punteggiatura; una frase orale e’ una
successione temporale di suoni e silenzii ... . Tuttavia, non tutte le sequenze di questo
genere sono frasi; intanto la grammatica della lingua impone certe regole da rispettare
nel formare una frase; ma neppure questo basta: ”Il venerdi’ beve la procrastinazione”
sembra ben fatta secondo le regole della grammatica, tuttavia le manca qualcosa per
essere una frase: le manca il significato, ossia non comunica alcunche’. Come possa
accadere che certe sequenze linguistiche comunichino qualcosa ed altre no, e’ questione
non facile ... .
2.1. Cominceremo con alcune osservazioni sul linguaggio, come strumento del pensiero
e della comunicazione. C’è in un linguaggio una parte fisica, concreta, che sono i segni.
Intendiamo per esempio: le lettere, cifre e altri segni della vostra tastiera, oppure i
suoni del parlato, o le folate di fumo nell’ America degli Indiani, o le espressioni mimiche
e le posizioni di mani e dita, le lineette ed i puntini del Morse, le rugositá del Braille,le
righe, i puntini e i tondini delle pagine di spartiti musicali, i disegni sui cartelli stradali,
etc..
I segni si presentano come configurazioni di oggetti fisici, riconoscibili come ricorrenza
di ”uno stesso” segno se stanno in posti o tempi diversi, riproducibili a piacimento. Cosi’
possono essere il supporto di ció che potremmo chiamare simboli: per simbolo potremmo
intendere un segno accompagnato da un significato. Questo viene conferito al segno
dai soggetti interessati alla comunicazione, il piú delle volte è meramente convenzionale
(alcune eccezioni nel mondo umano ed animale: il pianto dei neonati, le grida di dolore,
o di piacere), e, spesso, nella vita comune, puó dipendere pesantemente dal contesto
in cui viene impiegato (si pensi al segno grafico di una freccia ⇒:puó, a seconda del
contesto, essere una indicazione di direzione, l’obbligo di percorrere una certa strada, un
simbolo logico,...) .
Un segno si percepisce se ne riconosce la forma fisica. Un simbolo, supportato da un segno,
va invece inteso, – dopo aver percepito il segno –, di esso si riconosce il significato. Un word
processor elabora segni, non sa nulla di simboli o di significati. Affinchè un segno diventi un
simbolo, occorre che un qualcuno lo comprenda. Non siamo solo noi umani a poter far questo:
la gatta comprende benissimo il tipo di miagolio dei suoi micetti– esso è per lei un simbolo (
o addirittura, chisá, una proposizione...)–.
Nel caricarsi di significato, un segno diventa un simbolo, ma i diversi simboli possono
avere diverse motivazioni o scopi nel loro uso. Si puó usare un segno per:
(1) comunicare direttamente un contenuto, che le cose stiano cosi’ e cosı́: per esempio
si pensi ai simboli di una carta delle previsioni del tempo;
(2) indicare una prescrizione: per esempio i segnali stradali;
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(3) manifestare un’ appartenenza: per esempio il ”segno della croce” o un distintivo
di un club;
(4) denotare un oggetto: per esempio le cifre numeriche 0, 1, 2, ... o la letteraπ;
(5) denotare una funzione: per esempio i segni aritmetici +, −, √,...;
(6) denotare una relazione: per esempio i segni <, >, ≤, ≥, =, . . . ;
e cosi’ via.
Spesso certe combinazioni di piú segni possono essere possibili portatori di significato.
Tipicamente ció capita con le lettere e gli altri segni dell’ alfabeto. A parte qualche
eccezione (per esempio l’ uso della lettera e in ambiente matematico come il simbolo di
un certo numero reale, ) sono solo certe combinazioni, cioè sequenze finite di lettere a
poter assumere significato.
Potremmo considerare una sequela di segni come a sua volta un singolo segno. (Per es.
l’ intera sequela di lettere e spazi che trovate stampati nella vostra edizione de La Divina
Commedia sarebbe un unico segno). Un motivo pratico per pretendere che un singolo segno
sia qualcosa di molto limitato e riconoscibile a colpo d’ occhio è che sia semplice l’eventuale
attribuzione di significato, e ció si ottiene tanto piú facilmente quanto piú il segno è un segno
”atomico” ossia non composto di parti che siano a loro volta dei segni. Le combinazioni
finite di segni atomici, pur essendo astrattamente nient’ altro che segni a loro volta, saranno
opportunamente distinti dai segni atomici singolarmente presi, sopratutto perchè spesso capita
che anche il loro eventuale significato sia a sua volta ottenuto combinando i significati di alcune
sue parti che siano atomiche o a loro volta composte. Questo capita certamente nello studio
tecnico dei linguaggi artificiali; ma anche alcune parti delle lingue naturali si prestano ad una
utile distinzione tra segni atomici e loro composizioni.
Tra le sequenze (scritte, orali, grafiche, ...) di segni se ne distinguono alcune, per gli
scopi della comunicazione: esse sono suscettibili di essere ”comprese”, recano una informazione, sono portatrici di ”significato” in quanto ” descrivono uno stato di cose”. Una
frase dotata di significato costituisce ció che chiameremo, in generale, una proposizione.
Tra frasi e proposizioni corrono gli stessi rapporti che tra segni e simboli. Quando
una espressione è comprensibile diventa una proposizione; occorre che abbia associato
un ”contenuto conoscibile”. Tutto questo è molto vago; accontentiamoci di esaminare
alcune distinzioni che sono possibili giá a questo livello di approssimazione.
Nel loro impiego, le proposizioni vengono accompagnate da ”intenzioni” o ”atteggiamenti”: dichiarativa, interrogativa, di comando, di consiglio, di desiderio, etc. Basti
pensare a quante atteggiamento possono accompagnare l’enunciazione di una semplicissima proposizione quale : ”Piove”. Puó essere:
(1) ”Piove” (come semplice comunicazione di uno stato di fatto) – atteggiamento
dichiarativo;
(2) ”Piove !” (come espressione di disappunto) – vorrei che non piovesse...)
(3) ”Piove !” (come espressione di soddisfazione, se l’ aspettavamo da tanto);
(4) ”Piove ?” (come domanda);
(5) ”Piove !” (come comando, se è Zeus che lo vuole).
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Questi diversi atteggiamenti possono essere espliciti, o li si riconosce dalla forma sintattica o dal tono di pronuncia; oppure impliciti, e si ottengono considerando il contesto.
NOTA.
1.
Un computer che riceva, trasmetta o rielabori un testo che sia una frase, la tratta unicamente
come sequenza di segni; non si tratta di proposizioni; non c’è, sembrerebbe, nessuno ”dentro
la macchina” –per quanto essa possa essere etichettata di essere ”intelligente”– che attribuisca
significato alle espressioni, facendole diventare delle proposizioni.
2.
È interessante chiedersi lo status di un’ espressione, per esempio ”5+5 = 10”, quando essa
sia recitata da un attore sul palcoscenico. Certamente l’attore sta pronunciando questa proposizione con atteggiamento che non è dichiarativo; potremmo dire che sia un’ atteggiamento
descrittivo: il suo intento è di farci credere che il fantasmatico personaggio da lui interpretato
stia enunciando la proposizione, e se è davvero un bravo attore, sará in grado di farci anche
immaginare l’ atteggiamento con cui tale personaggio enuncerebbe tale proposizione.
3.
Qualcosa di simile vale per quasi tutte le proposizioni che compaiono in tutte le opere
letterarie : romanzi, poemi, films, commedie... . Dire che esse hanno quasi sempre una
atteggiamento estetico ha del giusto, se riandiamo al significato originale della parola; invero
esse sono enunciate con l’ intenzione di suggerire alla nostra immaginazione delle immagini,
delle sensazioni, etc.
È abbastanza chiaro alla logica interessano solo proposizioni accompagnate da atteggiamento dichiarativo, ossia quelle per le quali l’ atteggiamento consiste nel voler
comunicare un dato, un’ informazione, il sussistere o il non sussistere di uno stato di
cose.
In effetti, avremo raramente modo di interessarci ad altri atteggiamenti, per cui, in
modo ellittico, se di una certa espressione linguistica A diciamo
A è una proposizione
o, abbreviando,
A prop
stiamo riassumendo due enunciati: 1. che A sia una proposizione, ossia una frase dotata
di significato; e 2. che A è considerata come accompagnata da atteggiamento dichiarativo.
Da questo momento, e salvo avviso in contrario, restringeremo il nome di ”proposizione” a quest’ uso e non altro.
2.2. La questione che naturalmente si pone di fronte all’ informazione ” A prop ” è
se ci siano, e nel caso quali siano, le motivazioni o le giustificazioni che consentano
all’ emettitore – ed eventualmente a chi riceve la frase – di asserirla: non possiamo
accontentarci della vaga caratteristica del ”comunicare un’ informazione”.
Quando qualcuno emetta una frase con intenzione enunciativa, possiamo chiederci se
essa sia vera o falsa: forse possiamo sostenere che ha un significato proprio per questo.
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Ció non ha senso per comandi, desideri, domande, divieti etc.
Questa circostanza rende possibile addirittura provare a dare una definizione di quando
una frase sia una proposizione dichiarativa.
Nella tradizione logica classica, si è arrivati ad una chiarificazione – forse non ultimativamente convincente dal punto di vista della linguistica o della filosofia – estremamente
utile nella sua semplicitá . Frege e con lui Russell, di fronte alla questione di ”che cosa
sia il significato di una proposizione dichiarativa”, rispondevano all’ incirca che
(1) una frase è dotata di significato se e solo se o essa è vera oppure è falsa;
(2) se una frase è dotata di significato, il suo significato è proprio il valore di veritá
che essa denota, che sará il ”Vero” se essa è vera ed il ”Falso” se essa è falsa.
In tal modo, ”proposizione dichiarativa” è la stessa cosa che ”frase dotata di significato”.
Certamente si ha la conseguenza apparentemente curiosa che, per esempio, tutte le frasi
vere avranno lo stesso significato (cioè il valore ”Vero”), il che sposta tutto l’interesse
conoscitivo verso il modo con cui il ”Vero” viene denotato dalle varie frasi vere. Tale
modo è talvolta indicato come il senso della frase. Insomma le due frasi:
α) Roma è a Sud di Firenze;
β) 7+5 = 12
hanno entrambe significato, donotano entrambe il Vero, ma in modi ben diversi.
Quando la nozione di proposizione dichiarativa si intenda in questo modo, siamo nell’
ambito della cosidetta logica classica; si ha il notevole vantaggio che – come vedremo –
molti dei principii della logica ”classica” risultano precisabili in semplici termini rispetto
al loro comportamento rispetto al ”Vero” ed al ”Falso”, sulla base di poche e semplici
assunzioni su tali ”valori di veritá ”.
In tal modo, asserire che A prop e’ lecito a condizione che A sia vera o falsa. Non e’
richiesto che io o voi, o noi sappiamo quale dei due casi si verifica; e’ solo richiesto che
uno dei due casi si verifichi.
NOTA
1. Si puó, tuttavia cercare di essere meno astratti. Un’ interessante proposta (-P.
Martin Löf negli anni 1980-...) è la seguente: una frase e’ una proposizione (dichiarativa)
a condizione che si sappia cosa occorre fare per appurare se la frase sia vera o falsa . In
altri termini, e’ lecito sostenere che A prop, in questo nuovo senso, se si sa indicare in
che consisterebbe una (possibile) verifica di A; ossia se si sa indicare come si potrebbe
controllare che A sia vera. In secondo luogo, sara’ lecito asserire Avera se si possiede
in effetti una verifica di A. Quando si parta da questa concezione delle proposizioni
dichiarative, si ottengono come principii logici quelli della logica intuizionistica, i quali
in parte rinunciano ad alcune regole della logica classica, ma d’ altra parte, proprio
per essere basati fin dall’ inizio su un atteggiamento ”costruttivo”, forniscono un modo
di ragionare in cui le conclusioni sono piú ricche di contenuto informativo. Per fare
un esempio, affinchè una frase del tipo A oppureB sia una proposizione dichiarativa
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(supposto che A, B siano proposizioni) occorrerá sapere in cosa possa consistere una
sua eventuale verifica, e la risposta e ’ che una verifica per A oppureB consiste nello
scegliere una delle due: una verifica per A o una verifica per B. Di conseguenza, affinchè
A oppureB sia vera, occorrerá essere in possesso di una sua verifica, e pertanto essere in
possesso di una verifica per A o di una verifica per B.
Questo è molto piú potente che non la logica classica tradizionale, in cui si accetta il
principio del ”terzo escluso” per cui [A oppure (non A)] vera è sempre e comunque lecito,
anche se non sappiamo affatto quale delle due. Si pensi ad una qualunque congettura
matematica ancora aperta, per es.: A = ” Esistono infinite coppie di numeri primi della
forma n, n + 2”. Allora (A oppure (non A)) vera non e’ un asserto lecito in logica intuizionistica, mentre (A oppure (non A)) prop e’ certo lecito poiche’ si sa cosa dovremmo
fare per provare A vera (o per provare non A vera): eseguire una dimostrazione aritmetica. Questo approccio alla logica ha avuto origine dalla visione della matematica
di Brouwer, detta appunto Intuizionismo, il cui principio fondamentale è che le veritá
matematiche accettabili sono solo quelle passibili di una dimostrazione costruttiva, che
escluda il ricorso a nozioni quali quella di insieme infinito e a principi o assiomi che,
per esempio, asseriscano l’ esistenza di oggetti senza indicare un modo per ottenerli
effettivamente. Sulla logica intuizionistica si tornerá piú avanti nel corso.
In via preliminare, possiamo riassumere l’ atteggiamento filosofico di tale proposta
come un modo di specificare cosa si debba intendere per ”prova” o ”dimostrazione” o
”verifica” di un asserto matematico. Dando per noto cosa sia un prova per proposizioni
”atomiche”, si procede poi sulla complessita’ della proposizione:
(1) una prova di una congiunzione ”A e B” consiste in una coppia (pi1 , pi2 ) formata
da una prova di A ed una prova di B; (in altri termini, e’ lecito l’asserto ”(A e
B) vera ” se sono leciti gli asserti A vera e B vera; )
(2) una prova per una disgiunzione ”A oppure B” consiste in una scelta tra una
prova di A ed una prova di B;
(3) una prova di ”Se A allora B ” consiste di una procedura che di fronte ad una
prova di A produca una prova di B;
(4) una prova di ” non A” consiste in una procedura che di fronte ad una prova di
A produca una prova di una assurdo (quale per es. ”0 ̸= 0”);
(5) una prova di ”Per ogni x vale A(x)” consiste in una procedura che di fronte ad
un qualunque oggetto a produca una prova di ”A(a)”;
(6) una prova di ”Esiste un x tale che A(x)” consiste nel produrre un oggetto a ed
una prova di ”A(a)”.
Questa appare come una parafrasi filosofica, ma in uno sviluppo avanzato della parte
della logica detta teoria della dimostrazione(Proof Theory) diventa poi un asserto matematico che assimila le prove della logica intuizionistica a programmi.
Un aspetto non molto chiaro e’ la clausola per la negazione; in effetti, non esistono–per
definizione– prove di un assurdo come 0 ̸= 0: non c’e’ alcuna azione possibile che porti
ad una siffatta prova. La clausola quindi si puo’ intendere che una prova di ”Non A”
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consiste piuttosto in una scommessa ”se tu mi fornisssi una prova di A, io te la ridurrei
ad un assurdo”.
2.
Si puo’ andare ancora piu’ in profondita’, come nelle recenti proposte di J.Y. Girard, anni 2000-.... Anche qui presentiamo solo la parafrasi filosofica di un approccio
radicalmente nuovo alla logica (logica lineare; Ludica).
Le prove non si confrontano con gli asserti di verita’, ma piuttosto con delle sfide,
secondo lo schema per cui una prova di ”Non A” e’ una sfida per ”A”.
Cosi’ avremo da integrare la lista del punto precedente:
(1) una sfida per ”A eB” consiste in una scelta tra una sfida per A ed una sfida per
B;
(2) una sfida per ”A oppure B” consiste di una coppia di sfide: una per A ed una
per B;
(3) una sfida per ”Se A allora B” consiste nel fornire una prova per A ed una sfida
per B;
(4) una sfida per ”Per ogni x vale A(x)” consiste nella scelta di un oggetto a e nel
produrre una sfida per A(a);
(5) una sfida per ”Esiste un x tale che A(x)” consiste in una procedura che di fronte
ad un qualunque oggetto a, produce una sfida per A(a).
In tal modo, compare un’ altra metafora se pensiamo a un gioco tra due giocatori,
di cui il primo I mira a dimostrare, il secondo II mira a confutare, ed uno solo possa
vincere:
(1) una ”proposizione ” A descrive le regole di un gioco;
(2) una sfida per A e’ una strategia per il gioco A;
(3) una prova di A e’ una strategia vincente per I nel gioco A.
Ogni prova e’ una sfida, ma non viceversa; per esempio ci sono sfide sia per
”A” che per ”non A”, ma certo non ci sono prove per entrambe.
3. Proposizioni e giudizi
3.1. Consideriamo le seguenti due frasi:
(1) In questo momento piove a piazza Navona
(2) “Il detersivo ASSO lava piú bianco del detersivo OSSA” è una proposizione.
Nel caso di 1, si ha a che fare con una proposizione dichiarativa , con la comunicazione
di uno stato delle cose; perchè sia accertata la sua veritá ( o falsitá) si devono eseguire
certi atti ( come andare a Piazza Navona, o telefonare al bar laggiú, etc.). Anche 2 è, in
primo luogo una frase, della forma A prop, dove A sia a sua volta la frase tra virgolette.
Essa si puó certamente considerare come una proposizone ma per appurare la veritá o
falsitá di 2, bisogna appurare se davvero la frase A sia dotata o meno di significato. Per
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esempio, in logica classica, bisogna che A sia vera o falsa. Questo secondo genere di
indagine si rivolge al rapporto tra certe combinazioni di segni linguistici e un certo stato
di cose.
Converrá distinguere: le proposizioni come la 2, per le quali l’ accertamento di veritá
richiede un raffronto tra linguaggio e una qualche ”realtá ”, preferiremmo chiamarle
giudizi.
Anche qualche altra nomenclatura merita un’ adattamento. Anzichè dire che ”la 2 è
vera”, è senz’altro preferibile dire che ” il giudizio 2 è lecito, corretto ”.
3.2. C’è una altra classe di giudizi (particolari tipi di proposizioni) che sono per noi
della massima importanza in logica. Per arrivare a determinarla, torniamo alla domanda
basilare: da che cosa sono composti i ragionamenti?
La prima risposta che forse viene alla mente è che i ragionamenti sono catene di
proposizioni. E ció è apparentemente vero, ma le proposizioni che compaiono in un ragionamento, non vi compaiono come tali, ossia con il loro semplice intento di comunicare
un alcunchè; esse compaiono nel ragionamento come asserite, ossia sono proposte come
vere, una dopo l’altra nella loro concatenazione.
Ci troviamo allora di fronte a frasi del tipo:
è vero che A
(in cui A denota una proposizione)
e che spesso stenografiamo come segue:
A vera.
Esse ( al pari delle altre ”A prop”) costituiranno dei giudizi: anche per essi l’ accertamento di veritá si ottiene tramite un raffronto tra linguaggio e ”realtá ”. Sempre
supponendo che A sia una frase, la differenza tra i giudizi:
A prop – A vera
sta intanto nel fatto che il primo è corretto se e solo se A possiede un significato (in
logica classica: se e solo se A è vera o A è falsa); il secondo invece è corretto se e solo
se A è vera, ed inoltre c’è una gerarchia tra i due giudizi, poichè il secondo puó essere
corretto solo se giá lo sia il primo (la veritá si puó solo predicare di proposizioni).
NOTA.
1.Si potrebbe aggiungere ancora un terzo tipo di giudizi quale ”A falsa” – sempre col presupposto che A denoti una proposizione; ma vedremo che se ne fa a meno, in virtú dell’ operazione
logica di negazione).
2.In altri settori, potremmo considerare tutt’altro tipo di giudizi: per esempio, in ambito
giuridico, giudizi del tipo ” A è ingiuriosa”, o, in critica letteraria, giudizi del tipo ”A è
emozionante” (con A che denota una proposizione); o in matematica ”A è un teorema (di una
data teoria)”; e altri ancora. Per l’ analisi della logica, ci bastano i due tipi di giudizio: ”A
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prop”, (con A che denota una espressione linguistica) ed ”A vera” (con A che denota una
proposizione).
Un ragionamento appare dunque alla fine come una certa configurazione di giudizi
della forma A vera. L’ uso della particella conclusiva ”dunque” rende chiarissima questa
situazione: la conclusione è presentata non come una qualsivoglia proposizione di un
qualsivoglia elenco di proposizioni. Essa è, in un certo senso da chiarire, prodotta, e ció
vale anche per le altre conclusioni parziali ottenute nel corso del ragionamento: ciascuna
di loro è inserita in virtú di un atto di giustificazione. Ciascuno di questi atti è di uno
dei quattro seguenti generi:
(1) si ammette che una certa proposizione sia vera;
(2) si constata che da una o piú di tali ammissioni di verita’ si puó ottenere, come
” conseguenza logica”, che una certa proposizione sia vera;
(3) si forma un certo gruppo di proposizioni ammesse come vere e si puó proseguire
con ulteriori atti di genere 2.
Lo scopo principale della logica è di determinare quali siano le norme o regole logiche,
quelle che consentono di giustificare l’ inserimento di questo o quel giudizio in una catena
deduttiva in una posizione di conclusione a partire da certe assunzioni giá ammesse.
NOTA.
In generale, i giudizi si caratterizzano, all’ interno del sistema di tutte le proposizioni, per il
fatto che essi sono ammessi, accettati o giustificati come risultato di azioni
Una proposizione A, per esempio una che esprima un dato di fatto, crea un rapporto tra un
soggetto conoscitivo ed un pezzo di realtá, fisica o mentale; il soggetto fornisce alla proposizione
un significato, ed il dato di fatto viene espresso dal soggetto mediante la proposizione. Nell’
afferrarne il significato, si sa, nell’ approccio classico, come starebbero le cose SE la proposizione
FOSSE VERA e come invece SE essa FOSSE FALSA. (Nell’ approccio intuizionistico, si sa
CHE COSA dovremmo fare per appurare se A sia vera.) Non si è ancora di fronte ad un pezzo
di conoscenza acquisita. Si pensi a una frase A come la seguente
Ogni numero intero è esprimibile come somma di quattro interi elevati al quadrato.
Essa (per chi intenda un minimo di aritmetica) è una proposizione.
Quando noi ci impegnamo a emettere il giudizio
”Ogni numero naturale è la somma di quattro interi al quadrato” è una proposizione
( in breve: A prop)
lo facciamo solo perchè, piú o meno rapidamente, abbiamo eseguito una serie di atti mentali
(in questo caso), tendenti ad appurare che la frase A sia grammaticalmente corretta, poi che ai
suoi termini corrispondano dei significati, poi che ai verbi corrispondano relazioni significanti,
etc. Un lungo lavorio che, nella lingua naturale adattata all’ aritmetica, resta sepolto nella
nostra familiaritá con la lingua che parliamo. (Se si trattasse di una lingua con una sintassi
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ed una semantica completamente specificata, ci accorgeremmo che l’emissione del giudizio A
prop è corretta in virtú delle regole linguistiche di questa sintassi e di questa semantica).
Quando invece ci impegnassimo ad emettere (e solo avendo giá ottenuto che A prop sia
corretto) l’altro giudizio:
” ogni numero naturale è la somma di quattro interi al quadrato” è vera (in aritmetica).
( ossia: A vera)
intendiamo che abbiamo eseguito (o almeno ci impegnamo ad eseguire)un ragionamento che
dai pricipii ammessi per i numeri interi, porti con consequenzialitá logica alla suddetta conclusione, ossia ci dichiariamo in possesso di una dimostrazione del giudizio stesso, ottenuta come
risultato di una certa serie di atti logici, di passaggi logici da premesse a conclusione.
In data odierna (Ottobre 2004) se si prende la frase B:
Ogni numero intero pari maggiore di due è una somma di due numeri primi
senza dubbio, per motivi analoghi, siamo autorizzati ad enunciare che B prop, ma sarebbe
scorretto giudicare che B vera (in aritmetica), e altrettanto scorretto giudicare che B falsa,
nessun matematico, infatti, conosce ancora alcuna dimostrazione aritmetica che porti a B vera,
nè alcuna che porti a B falsa.
In conclusione, riassumiamo la nomenclatura che corrispondebbe all’ analisi concettuale svolta:
(1) Una proposizione che sia espressa da una frase A entra come costituente in (almeno) due tipi di giudizio, che son quelli interessanti la logica:
A prop, A vera;
(2) il secondo giudizio presuppone il primo ( la veritá si puó solo predicare per le
proposizioni);
(3) ciascuno di tali giudizi potrá essere valido o corretto, se è stato ottenuto come
risultato di adeguate azioni compiute dal soggetto conoscitivo (che, in ipotesi
potrebbe essere anche semplicemente il Padreterno) ciascuna delle quali sia giustificata all’ interno delle regole che delimitano la formazione delle proposizioni,
nel caso di ”A prop”, e dalle regole che delimitano l’attribuzione di veritá, nel
caso di ”A vera”.
(4) i ragionamenti sono composti di giudizi delle seconda forma (A vera, B vera, ...);
4. Esercizi
(1) Riflettete sulla differenza di natura logico-linguistica fra:
la cifra 37; la parola ”trentasette”; la cifra romana XXXVII; la parola inglese
”thirtyseven”.
(2) Prima del rinvenimento della Stele di Rosetta, i geroglifici egiziani erano espressioni;
dopo sono diventati proposizioni. Vi sembra corretto ?
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CAPITOLO 2
(3) Immaginate un mondo senza esseri conoscenti. Esiterebbero simboli? proposizioni?
segni? espressioni?
(4) Quando si traduce da una lingua ad un’ altra si stanno traducendo:
a. espressioni
b. proposizioni
c. entrambe
d. nessuna delle due: si traducono i significati.
In base alla vostra risposta, date un apprezzamento dei tentativi di fare programmi
per computer che traducono da una lingua ad un’ altra.
(5) È importante la distinzione tra uso e menzione di un segno o di una espressione. Per
esempio: l’ espressione Parigi risulta usata nel dire ”Rutelli è sindaco di Parigi”, essa
è menzionata nel dire ”Parigi ha sei lettere”. E Rutelli non gradirebbe di essere sindaco
di sei lettere, ma molto di essere sindaco di Parigi. Le virgolette ”...” ( o a volte il
corsivo, o il mettere l’espressione separata dal testo) servono spesso a evidenziare che
i segni - o le espressioni - sono menzionate, e non usate direttamente. è preferibile dire
” ”Parigi” è un nome di cittá ”. Notate che sto menzionando delle frasi italiane, e
perció ho usato le virgolette. Nel traduure in un’ altra lingua, diró: ”Rutelli is Mayor
of Paris” e ” ”Parigi” has six letters ” ( e non posso invece tradurre scioccamente:
” Paris has six letters”; semmai, ”Paris has five letters” o meglio ””Paris” has five
letters”). Tutto ció perchè le nostre lingue oltre a parlare delle cose fisiche o mentali,
molto spesso parlano anche di sè stesse, delle loro espressioni o parole.
Determinate nelle seguenti frasi se i segni o frasi: ”Roma”, ”sette”,” 7”, ”re” sono
usati o menzionati ( e riscrivetele con le opportune ”...”):
a. Roma ha avuto sette re, ma Roma ha sei lettere e 7 ha la forma di un bastoncello
e re viene dopo di do;
b. Sette è uguale a 7, ma sette non è la stessa cosa di 7.
c. I sette re di Roma sono piú di quattro, e sono anche un bel film.
(6) Classificate le seguenti espressioni linguistiche come: semplici espressioni (sequenze di
segni), proposizioni o giudizi:
a. la frase che, secondo Dante, è incisa sulla porta di Dite
b. Caltanissetta e’ morta;
c. la frase considerata al punto c del precedente esercizio
d. La frase che state leggendo è falsa.
e. S’io fossi foco, arderei’ l mondo.
f. ”Roma è bella” ha quattro parole.
g. Il numero 18 è molto grazioso.
h. Il numero 13 è maggiore del numero 12.
i. la prima frase de ”I Fratelli Karamazov”, di Dostojewski
l. la prima frase dell’ ”Amleto”
m. l’ ultima frase del ”Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein
n. la prima frase de ”Gli elementi di geometria” di Euclide
o. la trentaduesima frase del vostro libro di aritmetica della scuola media
p. la frase ottenuta scrivendo di seguito le parole ”cade”, ”la”, ”pioggia”
(7) Linguaggio e metalinguaggio.
A volte è indispensabile distingurere i livelli in cui si situano le nostre espressioni.
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Ancora una volta le virgolette... . Per esempio, se il linguaggio di cui si tratta
è l’italiano (il ”linguaggio oggetto”), la frase ” L’italiano è la lingua di Petrarca” è
una frase italiana che si riferisce al linguaggio oggetto. Peró sto usando l’italiano
come metalinguaggio rispetto all’ italiano. Se nella mia grammatica francese trovo
la frase: ”I verbi francesi possono essere attivi, passivi o riflessivi”, ho una frase del
metalinguaggio (italiano) rispetto al linguaggio oggetto (il francese).Queste dispense
sono piene di diversi livelli: linguaggio, metalinguaggio, metametalinguaggio etc, e
quasi tutti sono in italiano.
5. Verso la logica proposizionale
Nel considerare gli asserti di forma Avera, con A prop, la proposizione A puo’ essere
spesso scomposta in frammenti che sono ancora proposizioni, combinate tra loro in modo
da formare A; per esempio
(i) Se B1 allora B2 oppure B3 ;
(ii) Dopo B3 é bene che B4 ;
in cui le Bi siano proposizioni.
Le questioni che si pongono sono:
(1) Come le componenti contribuiscono al significato della proposizione composta A;
(2) Quali condizioni consentono di giudicare Avera e se ed in qual modo questo
giudizio sia collegato ai singoli giudizi riguardo le componenti B1 vera, B2 vera,
etc.
In effetti la seconda questione specifica anche la prima: alla fine il significato di una
proposizione A ha comunque a che fare con le condizioni che consentono di giudicare A
vera.
Per rispondere alla questione (2), nel caso dell’ esempio (i) e’ sufficiente far ricorso
alle regole d’uso delle espressioni ”se — allora —-” e ” —- oppure —-”:per X, Y − prop,
il giudizio X oppureY - vera é corretto se almeno uno dei due giudizi X-vera, Y -vera
é corretto. Mentre se X allora Y -vera é corretto se non si da’ il caso che X-vera sia
corretta senza che anche Y -vera sia corretto (e qualcosa di simile nella interpretazione
intuizionista).
Nel caso dell’ esempio (ii) non si da’ un simile passaggio dai giudizi B3 -vera, B4 -vera
etc al giudizio A- vera : ”dopo che —” coinvoilge un dato temporale, ed in genere
l’informazione presente in B3 non basta per sapere se siamo a ”Dopo che —”: ci vuole
anche l’ orologio. Inoltre ”é bene che —”-vera si puo asserire, se per esempio si tratta
di teoria della morale, ma ancora non basta l’informazione presente in B4 .
Le combinazioni del tipo (i) sono quelle che ci interessano in primo luogo: le condizioni
per asserire A-vera dipendono solo dalle condizioni per asserire Bi -vera per le varie
componenti di A. Alla loro analisi si dedica la Logica Proposizionale, e le particelle che
servono a questo tipo di composisione si chiamano ”connettivi (logici)”.(1)
1I
costrutti come quelli presenti nell’ esempio (ii) si chiamano a volte ”modalita’ ”; essi sono stati
anche studiati e ci sono anche tentativi di farne una logica matematica, con alterno successo.
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Torniamo al caso della particella oppure: in sostanza abbiamo che
(⋆)
X oppure Y -vera ”equivale a:” X-vera oppure Y -vera.
Sembra di trovarsi di fronte ad un giro vizioso di parole: una sorta di commutazione
tra il connettivo e l’ asserzione ”—vera”. In realta’ quello che si intende é che date
X-prop, Y -prop, si pretende che anche (X oppure Y ) -prop, ma allora occorre spiegare
quali sono le condizioni per poter asserire X oppure Y -vera, e di questo si incarica la
(⋆). La particella oppure posta tra due proposizioni non ha lo stesso ruolo di quando sia
posta tra due giudizi come capita a destra nella (⋆).
Se espandiamo la clausola ”X-vera oppure Y -vera” otteniamo: c’e’ un modo per
verificare A oppure c’e’ un modo per verificare B, ossia c’e’ la scelta tra due azioni.
Tutto questo aiuterá anche a scoprire certe condizioni che consentono di aggiungere
passi ad un regionamento: per es. se abbiamo trovato corretto l’asserto X-vera, allora
possiamo lecitamente proseguire con l’asserto X oppure Y -vera.
Dall’ altro lato, se abbiamo lecitamente asserito X oppure Y -vera, ( e di solito questo
ha interesse perche’ non sappiamo qule dei due) possiamo proseguire ragionando per
casi; cioe’ se abbiamo che da X-vera si conclude Z-vera, a separatamente che da Y
-vera si conclude Z-vera, allora da X oppure Y -vera possiamo lecitamente concludere
che Z-vera (sottintendendo: ”in ciascuno dei due casi”).
6. Oltre la logica proposizionale: variabili, funzioni proposizionali e
quantificatori
Una proposizione puó essere risultato di un tipo di composizione diverso da quello di
una combinazione mediante connettivi, ma tale che comunque i componenti contribuiscono a determinarla come proposizione, ossia contribuiscono alle condizioni per la sua
veritá.
Consideriamo per esempio:
(•)
24 + 1 e ’un numero primo
IL fatto che noi intendiamo il suo significato, e, anzi, la riteniamo vera nell’aritmetica usuale,
e’ – apparentemente – dovuto al fatto che noi intendiamo le sue componenti, che sono , grammaticalmente, il ”soggetto”, 24 + 1 ed il ”predicato” ... è primo. L’ espressione aritmetica
24 + 1 viene intesa come un’ espressione che denota un certo oggetto, in questo caso il numero
intero 17. Per intendere il predicato, occorre che possediamo il concetto di ”essere un numero
primo”. Cosa significa? Un modo di rispondere puo essere il seguente:
–intendiamo la nozione di ”essere un numero primo”
equivale a:
–dato un numero intero qualsiasi, sappiamo se esso e’ primo o meno.
Immaginiamo allora di considerare la frase ”... e’ primo” come una frase incompiuta, che
contiene un posto ”vuoto”, pero’ in modo tale che comunque riempiamo tale posto con un’
espressione denotante un intero, il risultato è una proposizione, ossia e’ vera o e’ falsa. La
principale scoperta nella storia della matematica ci viene ora incontro: il ”posto vuoto” di
cui si tratta altro non e’ che una variabile. Allora l’espressione “x è primo” e’ una ”funzione
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15
proposizionale” (sul dominio dei numeri interi): comunque si metta al posto della variabile un’
espressione denotante (o il nome di) un intero, si ottiene una proposizione.
A questo punto, nel fatto che (•) sia una proposizione, sono coinvolti:
(1) la funzione proposizionale ”x è primo”;
(2) il dominio degli interi ( su cui x ”varia”);
(3) l’ espressione denotante 24 + 1;
Puo’ sembrare una mentalita’ barocca quella di intendere una frase semplice come la (•)
in questo modo... . Questa analisi, intanto, ci pone di fronte alla necessita’ di avere chiaro
cosa si debba intendere con ”la nozione di numero primo ”. La semplicita’ di (•) si dilegua se
tale nozione non si prende come primitiva o non ulteriormente analizzata, ed invece la si vuol
ricondurre, per esempio, alle componenti ultime dell’ aritmetica, quali le nozioni di somma e
prodotto. Possiamo allora far ricorso all’ usuale definizione di numero primo; ne risulta che
– x è primo
è un’ abbreviazione di
– x ≥ 2,e ogni volta che x sia il prodotto di numeri naturali n.m, o n = 1, oppure m = 1.
Dal che si vede che sono presenti in effetti la congiunzione “e”, la disgiunzione “o”, nonche’
il costrutto “ogni volta che”. Tuttavia, c’ e’ una difficolta’ in linea di principio: che intanto
usiamo i connettivi aldila’ del loro ambito di operazioni, che era finora quello delle proposizioni. E certamente la frase ”x ≥ 2” non e’ una proposizione... . Anche essa sara’ piuttosto
una ”funzione proposizionale”; sara’ pertanto necessario estendere l’ambito di operativita’ dei
connettivi alle funzioni proposizionali.
In generale, data un’ espressione A(x1 , . . . , xn ) contenente delle variabili xi , e dato un
dominio di oggetti D (dominio di variabilita’ per la variabili), essa si dira’ una funzione
proposizionale (brevemente, una f.p.) relativa al dominio D se comunque si sostituiscano
in A al posto delle variabili dei nomi o espressioni denotanti oggetti di D, si ottiene una
proposizione. In termini matematici astratti, nella logica classica, si potrebbe dire che
A descrive una funzione da Dn verso i valori di verita’ {0, 1}.
Se A(⃗x), B(⃗y ) sono f.p. relative al dominio D i connettivi proposizionali si estendono
nella maniera piu’ naturale: per esempio A(⃗x) oppure B(⃗y ) e’ per definizione quella
⃗ f⃗ denotanti oggetti di D fornisce la
f.p. la quale, dati comunque nomi o espressioni d,
⃗
proposizione A(d)oppure
B(f⃗).
Qualcosa di simile capita quando si definisce la somma f + g di sue funzioni reali,
dicendo che su qualunque numero reale a, il suo valore é f (a) + g(a).
Si tratta in effetti di una estensione dell’ applicabilita’ dei connettivi: una f.p. senza
variabili non e’ altro che una proposizione.
La cosidetta quantificazione,”per ogni—, per qualche—” a sua volta e’ un’ altra
maniera di ottenere f.p. a partire da f.p. . Se A(x, ⃗y ) e’ una funzione proposizionale
relativa a D, allora G(⃗y ) =”per ogni xA(x, ⃗y ) ” e’ quella funzione proposizionale delle
variabili ⃗y relativa a D cosi’ definita: dati comunque d⃗ che denotino elementi di D,
⃗ sia vera o falsa, e la definizione e’ che
bisogna essere in grado di determinare se G(d)
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⃗ sia vera se e solo se, quale che sia l’oggetto di D denotato da a, la proposizione
G(d)
⃗ e’ vera.
A(a, d)
Similmente H(⃗y ) :=”per qualche xA(x, ⃗y )” sara’ quella f.p. che, dati comunque d⃗ come
⃗ che e’ vera sse per qualche oggetto di D denotato
sopra, fornisce la proposizione H(d)
⃗ e’ vera.
da a, si ha che la proposizione A(a, d)
E’ decisivo che ”per ogni xA(x, ⃗y ) ” ( e similmente la ”per qualche xA(x, ⃗y )”) ha per
cosi’ dire perso ∫la variabile x,
∫ tanto che essa e’ la stessa cosa che ”per ogni zA(z, ⃗y ) ” (
come in analisi f (x)dx = f (z)dz.)
Una f.p. contenente variabili puo’ produrre una proposizione sia sostituendo alle variabili ”vive” nomi di oggetti sia premettendo abbastanza quantificatori sulle sue variabili.
Ben presto troveremo comodo abbreviare ”per ogni x—” e ”per qualche x —” con i
classici segni dei quantificatori di Peano: ∀x, ∃x.
Tornando al nostro esempio, la f.p. ”x e’ primo ” sul dominio degli interi non negativi
risulterebbe riscritta come segue:
”(x ≥ 2) ed inoltre ∀y∀z se (x = y.z) allora (y = 1 oppure z = 1)”.
in cui si vedono all’ opera connettivi tra f.p. e quantificatori.
Questa decomposizione ha senso a patto che si diano per note le nozioni di eguaglianza
tra numeri interi, di ≥ tra numeri interi, e di moltiplicazione di interi. In altre parole, la
f.p. ”x e’ primo” si puo’ reggere benissimo come sta, oppure si puo’ scrivere in quell’ altra
forma, e tutto dipende da quali ”nozioni primitive” – meglio potremmo dire a questo
punto, funzioni proposizionali primitive – sono date nel dominio di interpretazione D.
Dobbiamo infine focalizzare la nozione di ”espressione denotante”: puo’ trattarsi di
una costante o nome proprio che denota un preciso elemento del dominio (per esempio, 24 + 1 nel dominio degli interi, o ”Socrate” nel dominio degli uomini, etc); e’ pero’
conveniente estendere la nozione ad espressioni denotanti contenenti variabili. Nel secondo caso , affinche’ l’ espressione a(x1 , . . . , xn ) contenente la variabili ⃗x sia chiamata
denotante e’ necessario che, sostituendo comunque al posto delle variabili ⃗x dei nomi od
espressioni denotanti oggetti del dominio D, ( come ”valori delle variabili”) si ottenga
un’ espressione o un nome per un oggetto di D.
Per esempio a(x, y) potrebbe essere 2x +y, oppure b(x, y, z) potrebbe essere z x +y. Nel
dominio dei numeri naturali, secondo le usuali convenzioni, sia a che b sono espressioni
denotanti, ed anzi il valore 17 si ottiene da a assegnando ad x, y rispettivamente i valori
4, 1; e si ottiene da b assegnando a z, x, y i valori 2, 4, 1.
Il fatto che in questi esempi di espressioni denotanti si usino simboli di funzioni non
e’ casuale. Anche nel linguaggio comune, si hanno due tipi di espressioni denotanti: i
nomi propri (”Socrate”, ”il Sole”,...), e le espressioni che descrivono univocamente un
oggetto. Nel secondo caso si tratta sempre di avere l’ applicazione di una funzione a uno
o piu’ oggetti; per esempio: ” la capitale d’ Italia ” si ottiene applicando la funzione
”la capitale di...” sull’ argomento ”Italia”. oppure ”la media tra 3 e 9 ” si ottiene dalla
funzione ”la media tra x ed y” applicata agli argomenti 3 e 4.
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Anche qui, pertanto torna utile considerare le variabili e le espressioni denotanti contenenti variabili, le quali, propriamente, denotano un oggetto solo quando alle variabili
si sostituiscano appropriati nomi o descrizioni di oggetti. Sulle espressioni denotanti
torneremo nel capitolo slla logica del primo ordine.
Ordine superiore [[MANCA]]
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