Perché hanno ucciso Matteotti?

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IL MISTERO
SCOMODO
DI GIACOMO
MATTEOTTI
Macchia della Quartarella (Riano,
vicino Roma), 16 agosto 1924. Viene
ritrovato il corpo di Matteotti in
avanzato stato di decomposizione
Nuovi studi ripropongono il dramma dell’omicidio del deputato
socialista nel 1924 ma, come già in passato, l’individuazione
delle responsabilità, man mano che si sale di livello, si fa ancora
difficile. Chi volle la morte di Matteotti? Davvero andava ucciso
e non solo «bastonato» a mo’ di avvertimento? Quali carte
portava con sé al momento dell’aggressione? E che fine hanno
fatto? Più che la denuncia dei brogli alla recenti elezioni, forse
faceva più paura a qualcuno la possibile esplosione di alcuni
scandali finanziari e affaristici
di Aldo A. Mola
STORIA IN RETE
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Luglio-Agosto 2012
D
opo
quasi
novant’anni,
il rapimento
e l’assassinio
di Giacomo
Matteotti
rimangono
un macigno
della storia italiana del Novecento.
La vicenda è stata sviscerata sin
dall’istruzione e dibattimento dei
processi di Roma-Chieti (1924-1926)
a carico degli esecutori materiali
(approdata alla condanna per omicidio
preterintenzionale) e, nuovamente,
in Corte d’Assise a Roma (1947) nel
processo concluso il 4 aprile 1947
Luglio-Agosto 2012
con la condanna all’ergastolo per
omicidio premeditato di Amerigo
Dùmini, capo della cosiddetta «Ceka
del Viminale», la banda organizzata
dal capo della polizia e comandante
della Milizia Volontaria di Sicurezza
Nazionale, generale Emilio De Bono,
d’intesa con il capo dell’ufficio
stampa di Mussolini, Cesare Rossi,
collusi con altri uomini del regime (da
Giovanni Marinelli, amministratore
del PNF, a Filippo Filippelli,
direttore del «Corriere italiano»,
noto
intrallazzatore
nell’ascesa
del regime). Naturalmente in quel
quadro accusatorio, per la vulgata
Mussolini (la cui responsabilità
non fu mai provata nelle aule) non
solo «non poteva non sapere» ma
impartì personalmente le direttive
criminali, culminate nell’assassinio
di Matteotti: un marchio d’infamia
dal 1947 impresso in via definitiva
sul suo nome e sulla sua memoria
sia in sede giudiziaria, sia da
copiosissima letteratura, assunta a
base (necessaria e sufficiente) anche
di rappresentazioni teatrali e filmiche
del «delitto Matteotti», col tempo
divenuto un vero assioma, così
imperioso da sconsigliare a chiunque
di accostarglisi se non per ribadirlo.
Ma perché Mussolini avrebbe
ordinato alla Ceka del Viminale la
eliminazione di Matteotti? Una tesi
semplicistica, mai sorretta da prove
convincenti. Essa non rispose né
risponde alla domanda fondamentale
che ci si deve porre dinnanzi a un
delitto. Cui prodest? Dall’assassinio
di Matteotti Mussolini non poteva
sperare di trarre alcun vantaggio
politico o parlamentare. Come egli
stesso disse un po’ cinicamente a
Paulucci de Calboli, semmai avrebbe
fatto assassinare Filippo Turati. La
«squadraccia» capitanata da Dùmini,
era sorta per infliggere aggressioni
e «bastonature in stile» non solo di
antifascisti notori, ma anche a fascisti
dissidenti. Fu il caso del deputato
del partito repubblicano, Ulderico
Mazzolani, di Alfredo Misuri, tra
i pionieri del Fascismo in Umbria,
ma poi capo dell’ala nazionalisticomonarchica dei fascisti umbri (come
documenta Leonardo Varasano in
«Umbria in camicia nera, 19221943», Rubbettino), e Cesare Forni,
«fascista revisionista», vittima
di una bastonatura feroce, che lo
lasciò agonizzante.
Nel corso del tempo al «caso Matteotti» sono state dedicate molte e
importanti opere. Ne ha tracciato
recentemente un bilancio Gianpaolo Romanato in «Un italiano diverso. Giacomo Matteotti» (Longanesi).
Come solitamente accade, sono state
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