Debito pubblico e redistribuzione 21 gennaio 2017 - Come è noto al vertice di Davos, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), ha silenziosamente ammesso il fallimento delle politiche liberiste esortando i governi occidentali a “mettere in campo una maggiore redistribuzione dei redditi rispetto a quanta ne abbiamo oggi”. Il che ha subito esaltato i keynesioti che confondono la giustizia basata su una equa distribuzione della ricchezza prodotta, cioè dei redditi, con lo sperpero di denaro pubblico. Un conduttore televisivo, che può anche restare ignoto perché è solo il portavoce di una ampia schiera, ha preso la palla al balzo per incitare i sempliciotti a seguire senza indugio il consiglio della signora Lagarde, anche a colpi di patrimoniali se necessario, come se di patrimoniali che ricadono sui poveri non non avessimo già abbastanza. D’altro canto, il vento politico che soffia in Europa e negli USA, con il desiderio della destra economica di cavalcare i cosiddetti populismi, è assolutamente impermeabile al concetto di recupero dei redditi mal distribuiti. Caso mai accetterebbe un aumento del debito pubblico, che consente di dare a chi è stato tolto senza recuperare da chi ha preso. Proprio quel che è accaduto in Italia quando la paura dei cosiddetti comunisti alimentava dentro i partiti di centro e financo di destra la linea del deficit - spending. Politica che ha portato a un debito pubblico di oltre 2.100 miliardi di euro, per di più in continua crescita. Il problema vero per il nostro Paese, al di là delle questioni legate al consenso, è quello di chiedersi se sia fattibile un’ulteriore politica redistributiva basata sul debito, e concepita solo in termini di distribuzione del prelievo fiscale. La mano pubblica intermedia oltre metà del Pil nazionale, eppure la diseguaglianza continua a crescere, e il debito anche. Un liberale considererebbe in via di principio tremendamente distorsivo l’attuale livello di controllo delle risorse operato dalla stessa mano pubblica, che ha regalato concessioni a vita e oltre, e diritti economici e finanziari che consentono ai già ricchi di arricchire sempre di più. E poiché è noto che i poveri spendono più dei ricchi, in percentuale, questa ridistribuzione del reddito verso i già ricchi ha causato decenni di scarsa crescita economica, guarda caso in perfetta coincidenza con il calo delle tutele sui bassi redditi, e il crollo delle tutele sui diritti. Dimenticando che, oltre alla redistribuzione del reddito attuale, va anche considerato il pagamento del debito per ridurlo, che richiede ulteriore pressione fiscale. Figuriamoci cosa accadrebbe se si decidesse di incrementare un livello di spesa pubblica, ancora a debito, con il furbesco intento di rallentare la crescita della diseguaglianza senza gravare su chi di questa diseguaglianza gode da decenni. E’ scontato che una riduzione del debito pubblico passi per una riduzione dei consumi, ma non è affatto scontato che debbano essere ridotti i consumi della parte più povera della popolazione, anzi. Così come non è affatto scontato che debbano essere ridotti gli investimenti. Combattere le diseguaglianze è perfettamente compatibile con una diminuzione dei consumi della fascia più ricca della popolazione, a cui va aggiunta una ulteriore diminuzione per finanziare gli investimenti. E ciò, al di là delle opinioni, sembra storicamente confermato dai numeri e dai nessi causali. Su questo piano possiamo prendercela con l’evasione, con la moneta unica o l’organizzazione chiamata Unione Europea che non è una Unione certamente, e che dimentica più di metà dell’Europa. Organizzazione che ci impone sì di ridurre il debito, e vuole anche imporci come ridurlo, ma che ha perfettamente ragione sul fatto che debba essere ridotto. Tuttavia, soprattutto all’interno di una moderna economia di mercato, attivare meccanismi di redistribuzione che non recuperino da chi ha già preso troppo, significa continuare a spingere una quota di soggetti ad arricchirsi con redditi eccessivi e chiaramente parassitari, con profitti da capitale che dovrebbero remunerare il rischio senza aver corso nessun rischio personale né patrimoniale, con pensioni da nababbi conseguenti a redditi da nababbi, con i sussidi dello Stato e delle banche alle imprese, con redditi finanziari tassati con la “cedolare secca” quanto quelli dei poveri, e con una sistema di aliquote fiscali pesante verso i poveri e leggero verso i ricchi. Questo non può che distruggere le principali risorse di una nazione, ovvero le risorse umane, trasformando un popolo di produttori in una massa passiva di consumatori sfruttati da una minoranza di redditieri. Tutto questo, in ultima istanza, serve molto a far crescere la ricchezza concentrata nell’1% delle mani, ma non certamente il complessivo valore aggiunto del sistema economico. Riflettiamoci.