Verso la Neoestetica: Un pellegrinaggio disciplinare

Aesthetica Preprint
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Verso la Neoestetica
Un pellegrinaggio disciplinare
Sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Palermo
di Luigi Russo
Centro Internazionale Studi di Estetica
©
Aesthetica Preprint
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è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Estetica a integrazione del periodico Aesthetica Preprint©. Viene inviata agli studiosi im­pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle
maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.
Il Centro Internazionale Studi di Estetica
è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo
di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente
Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale,
organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole
rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il periodico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università
degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.
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30
Dicembre 2013
Centro Internazionale Studi di Estetica
Il presente volume viene pubblicato col contributo del Miur (prin 2009, coordinatore
scientifico prof. Luigi Russo) – Università degli Studi di Paler­mo, Dipartimento di
Scienze umanistiche.
Luigi Russo
Verso la Neoestetica
Un pellegrinaggio disciplinare
A Lucia
senza parole
Indice
Premessa
7
L’orbita spezzata
9
La fine dell’eternità
15
Il miraggio del bello
25
Benedetto Croce e la storia dell’estetica
35
Una vecchia questione
Una storia suis generis
Un’aberrazione prospettica
Una nascita travagliata
Postilla a mo’ di conclusione
Bibliografia
37
49
79
105
149
153
Per eccesso e per difetto: Croce e la storia dell’estetica
173
Cesare Brandi esthéticien
187
La storia dell’estetica in Italia nel secondo dopoguerra
221
Guido Morpurgo-Tagliabue: un marziano in estetica
231
Rosario Assunto e il paesaggio dell’estetica
241
Władysław Tatarkiewicz e la storia dell’estetica
249
Ermanno Migliorini e il cielo vuoto dell’estetica
263
Notte di luce. Il Settecento e la nascita dell’estetica
269
Neoestetica: un archetipo disciplinare
289
Indice dei nomi
303
Premessa
Questo libro aspira a essere testimonianza. Una testimonianza
dell’essere dell’Estetica attraverso il cammino di un suo appassionato
cultore.
Varcata la soglia impegnativa dei settant’anni ho provato a vedere
le ragioni che hanno alimentato la mia vita scientifica in un arco più
che trentennale e il filo rosso che la regge. Arco apertosi nella stagione
della “crisi dell’estetica”, la quale ha imperversato per un ventennio
negli anni Sessanta-Ottanta del Novecento, e che si è chiusa ai nostri
giorni, col nuovo assetto polimorfico e inquietante assunto dalla disciplina che ho chiamato Neoestetica.
Mettendo insieme questi testi sparsi, composti nelle occasioni più
varie, vi ritrovo infatti una linea di forza, che ha agito come chiave
di volta della progressiva conversione epistemica compiuta. Si tratta
della consapevolezza che per comprendere l’estetica nel suo senso più
intimo, la logica disciplinare cioè che ha fatto sorgere questa forma di
sapere nella cultura occidentale e svilupparsi in tutte le sue numerose
stagioni attraverso tanti scarti cognitivi, bisogna attingere al suo doppio,
ossia a quel sapere parallelo e speculare offerto dalla storia dell’estetica,
essenziale ed euristico per la configurazione dell’universo estetologico.
Rivolgersi alla storia dell’estetica, indagare spassionatamente le tradizioni storiche della disciplina e riconoscerle nella loro specificità, non
significa quindi adorarne le ceneri ma rianimarne il fuoco per accendere
la possibilità di nuove imprese conoscitive.
Da questa intuizione, del resto, è lievitato gran parte dell’impegno
da me profuso nel Centro Internazionale Studi di Estetica, diventato
per decenni luogo ideale di sperimentazione estetologica a tutto campo,
culminata nei tanti volumi (finora 206) pubblicati nelle collane editoriali
“Aesthetica” e le correlate “Aesthetica Preprint” e “Aesthetica Preprint
Supplementa”.
Tengo a ricordare che il travagliato percorso che qui ho cercato di
documentare, compiuto con la dedizione del pellegrino, è stato sorretto dall’esempio e il conforto di tanti maestri e amici, che sono stati
mercuriali compagni di strada e di cui venero la memoria, primi fra
tutti: Cesare Brandi, Rosario Assunto, Ermanno Migliorini.
7
Ho lasciato immutati i testi, tranne per l’emendazione di qualche,
per altro raro, refuso; mentre non ho mancato di omogeneizzare le referenze bibliografiche e di farne un discreto aggiornamento.
Naturalmente nel volume sono presenti ripetizioni e riprese, ma
confido che valgano come spia di riformulazione problematica e affinamento progressivo della ricerca.
8
L’orbita spezzata
*
All’inizio di quell’aureo saggio intitolato Breviario di Estetica Benedetto Croce scrive: «Alla domanda: – Che cosa è l’arte? – si potrebbe
rispondere celiando (ma non sarebbe celia sciocca): che l’arte è ciò
che tutti sanno cosa sia» 1.
Alla data in cui Croce scrisse questa boutade – correva l’anno 1912
– tutto sommato le cose stavano, sia pure con qualche non piccola
né trascurabile approssimazione, davvero così. L’arte poteva ancora
sembrare, perché di fatto era ancora in larga misura, cosa identificabile
un po’ da tutti; un oggetto di cui si poteva parlare con sufficiente attendibilità. L’arte costituiva una pratica culturale specializzata, istituita
– sembrava – saldamente e completamente riconoscibile, sia a livello
epistemico che socioculturale.
Dell’arte infatti esistevano gli oggetti specifici: le opere d’arte appunto; c’era sufficiente chiarezza oramai sugli individui designati alla
sua produzione: gli artisti; non mancavano i suoi divulgatori e commentatori ufficiali: i critici; esistevano infine i luoghi deputati nei quali
l’arte – le opere d’arte, quelle e non altre – venivano gelosamente conservate e, a tempo e modo opportuno, fruite: cioè i musei e le gallerie.
L’arte dunque era iscritta, e nello stesso tempo regolava, una compatta circolazione di ruoli, funzioni e istituti intimamente integrati
nell’ordine societario. Tracciava un’orbita perfetta. Ecco allora come e
perché nell’arte, con l’arte, attraverso l’arte la civiltà – diciamo meglio:
l’Occidente o le culture prenovecentesche, che potremmo anche chiamare “culture storiche” – s’identificava senza residui. Grazie all’arte
conosceva e riconosceva se stessa. Siccome, per altro, aveva ben capito
e teorizzato già Hegel: l’arte come manifestazione sensibile dell’Idea.
In quelle che abbiamo chiamato “culture storiche”, a evidenza,
la cultura esisteva come privilegio di pochi e contrassegno di classe;
otium, cioè pratica elitaria disgiunta dalla quotidianità ed esercitata,
come ritualità mitica o cultuale, esclusivamente da parte di pochi iniziati. In questo universo socioculturale l’arte costituiva il fiore all’occhiello, ma anche il gradiente più perspicuo. Elemento essenziale proprio in ragione della sua apparente suntuarietà. L’arte era sì – come
è stato giustamente criticato – appena “domenica della vita”; ma at9
tenzione: quel modello di vita acquistava senso e spessore grazie alla
domenica, all’arte come domenica.
Per questo – e tante altre ragioni, naturalmente, sulle quali non ci si
può soffermare – l’arte è stata concettualizzata, in varia guisa e misura,
in positivo o in negativo, come separatezza pur emblematica, specificità
per eccellenza, Bene o Valore Supremo e Assoluto. Ancora per Heidegger, un filosofo contemporaneo curiosamente in bilico fra passato
e futuro, l’arte è la condizione e il fondamento (nel senso pregnante di «originarietà», «messa in opera della Verità», «apertura epocale
dell’Essere») del Mondo. In questo giro di pensiero mi piace ricordare
quello che Cesare Brandi ha fascinosamente scritto, per esempio, di un
Masaccio: «Masaccio è il cielo che si apre: una nuova civiltà nasce» 2.
Ecco allora che in fondo, da un certo punto di vista, Croce non
stravedeva nel considerare solo una parziale boutade il topos che l’arte
tutti sanno cosa sia. Malgrado prima, durante e dopo quella disinvolta
dichiarazione fossero già comparsi o stessero per comparire nel mondo
artistico eventi, a dir poco, scomodi e ingombranti; malgrado fossero
già pervenute a maturazione situazioni eversive irreversibili; malgrado
cominciassero già a fare e parlare, sonoramente, personalità maiuscole,
che possiamo senz’altro chiamare i Lenin dell’artisticità – può non stupire, o non stupire molto, che agli occhi compassati del filosofo, aduso
a fissare i ritmi dell’eternità e non dare troppo peso alle cronache mutevoli della cultura militante, come anche all’occhio dell’uomo medio
mitteleuropeo, diciamo: della coscienza corrente, all’occhio quasi di
tutti, l’arte era stata, e poteva sembrare che fosse rimasta, cosa chiara,
trasparente, appunto: «ciò che tutti sanno cosa sia».
Ma oggi, settant’anni dopo, le cose stanno ancora cosi? Sappiamo
davvero cos’è l’arte? Cos’è divenuta per noi l’arte? Ci sentiamo di
rispondere con tranquillità a questa, solo apparentemente ingenua, domanda? Eppure è questa – mi pare – una domanda assolutamente pregiudiziale anche per potere solo indagare, come suggerisce il titolo del
nostro seminario, se oggi l’arte è un carcere, in che senso lo è o non lo
è, e via dicendo. È, comunque, domanda pregiudiziale a ogni discorso
“filosofico” – e pronuncio la parola sommessamente, incatenandola con
apice doppio e dubitativo – sull’arte. Non, per carità, alla ricerca di
una ennesima, più o meno nuova e originale, plastica, aderente, più
flessibile e comprensiva “definizione dell’arte”. Questione, questa della
definizione dell’arte, di cui credo siamo un po’ tutti consapevoli quanto
abbia poco senso, o senz’altro nessun senso, riproporre, almeno nei
termini consegnatici dalla tradizione. Semmai, invece, mette conto chiedersi cos’è l’arte per vedere se è ancora possibile, come fu in passato,
dare un senso all’arte; indagare cioè se l’arte è ancora oggi, in qualche
modo, una pratica sociale che continua a toccare i nostri sensi, che ci
stimola e ci impegna, ci fa capire noi stessi e la realtà che ci circonda.
Oggi non è più epoca di certezze. Forse per questo ci si chiama
10
tanto per nome e corre facile il “tu”; chissà: per essere sicuri di essere
sicuri quando ci incontriamo. Anche sull’arte non c’è più certezza.
Adorno osservava addirittura: «È diventato un’ovvietà il fatto che nulla
di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo rapporto coll’intero, nemmeno il suo diritto a esistere» 3.
Presi da siffatte perplessità, può esserci però d’aiuto un’indicazione
di Dino Formaggio, che inizia il suo noto volume intitolato Arte con
l’affermazione: «L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» 4. Può
sembrare designazione tautologica e prossima a quella crociana ricordata prima; e non lo è, per ragioni che non possiamo approfondire.
Ci contenteremo del fatto che può esserci d’aiuto per tanti motivi; e
anzitutto perché non si tratta di una definizione metafisica che pretenda di rivelare l’essenza dell’arte, ma propone di guardare l’arte come
fatto storico mobile e scorrevole, «legato alle condizioni di sviluppo
di una società e di una cultura» 5.
Dobbiamo allora domandarci quali sono, se ci sono, le condizioni
di possibilità necessarie e sufficienti a praticare ancora la nozione di
arte nella nostra epoca. E giacché un punto fermo e indubitabile è
costituito dal fatto che l’arte è stata, almeno, il nostro passato, per capire se e come essa graviti ancora nel presente, bisogna chiedersi cosa
rappresenti per noi il passato.
Viviamo in un’epoca di trasformazioni profonde, radicali e universali quali mai sono state nella storia. Noi stessi siamo talmente trasmutati che il passato ci appare remoto, come un’era geologica. Possiamo
abbracciarlo con l’immaginazione e l’intelletto e farne scienza; ma non
possiamo più abitarvici. Abbiamo coscienza della nostra alterità. Abbiamo coscienza, cioè, che i nessi di continuità con ciò che cronologicamente sta prima di noi si sono enormemente diluiti, allentati fino al
punto da costituire un solco, una frattura netta e irreversibile.
Il senso complessivo di questa cesura epocale è stato recentemente
ben espresso da Lyotard come «condizione postmoderna» 6. L’utilità di
questa designazione, certo discutibile come un po’ ogni designazione,
sta nel fatto di focalizzare una peculiarità unica della nostra congerie
di cultura, che la eccettua totalmente da quelle che l’hanno preceduta.
Il postmoderno, infatti, consegue e non continua ciò che l’ha preceduto.
Fermiamoci un momento qua.
In passato, ogni cultura storica si è istituita a condizione di proseguire e sviluppare, affermando o negando, più sovente selezionando e
riplasmando, quelle che l’avevano preceduta. La cultura storica è stata
sempre un accumulo lento, stratigrafico e sedimentario. Un continuum
che, in qualche modo, includeva e incorporava sempre il passato: in
esso si radicava e da esso veniva fondato. Proprio per questo è stato
plausibile teorizzare l’evoluzione storica come dilatazione progressiva,
più o meno armonica o contrastiva, di un progetto unitario. Un arco
aperto all’infinito, che inanellava passato, presente e futuro.
11
Oggi l’orbita si è spezzata. Il ritmo evolutivo si è iperaccelerato,
la continuità si è bruscamente interrotta e siamo usciti fuori dalla storia. Nel senso che il passato non è più fondativo del presente: non
lo in-forma; e, per converso, il futuro è entrato in crisi contraendosi
nell’oggi. Il passato dunque non ci appartiene più, mentre il futuro ci è
interdetto. Possediamo solo il presente. Viviamo, cioè, entro un’orbita
spezzata.
Quando l’orbita si spezza, i corpi si scontrano ed esplodono in una
miriade di frammenti infuocati: trema la terra e si oscura il cielo. Scende
il Caos. Ma non è il caso di preoccuparsi; almeno non di preoccuparsi
troppo. Perché non esiste il Caos. Il Caos, in definitiva, è la trasformazione basica e continua della materia, la sua più naturale metamorfosi.
Scandisce semplicemente il passaggio da un antico assestamento a una
più fresca articolazione dei fenomeni. Ed è chiaro che la nuova orbita
che si determina statuisce sue nuove legalità. Ridisegna un universo non
più retto, ad esempio, dalla legge della circolarità ciclica ma della ellissi
vagabonda; non dal continuum ma dalle crepe del discreto; un sistema
la cui programmabilità non può contare sul prevedibile ma affidarsi
all’eruzione stocastica e alla deriva interna.
In altre parole, ci siamo inoltrati in un territorio vergine, che non
nasce ex nihilo ma tuttavia sorge ex novo. E di cui quindi è necessario
fissare una nuova mappa mundi che ne sveli le possibili, pur se instabili, coordinate. Occorre cioè elaborare categorie teoriche e operative
capaci di decifrare la nuova conformazione assunta dalla Terra, per
cercare di renderla ancora una volta vivibile.
Ora è un fatto attestato che un tempo l’arte fu tormento creativo,
estasi, colloquio col dio. Ma questo canale privilegiato si è dapprima
inaridito e infine dissolto. Negli ultimi decenni ciò che impropriamente
si continua a chiamare arte, a fruire come arte è diventato evento dubbioso, oggetto ansioso, silenzio. Anche questo è un fatto che ognuno
può attestare. Che vuole dire ciò? Che tipo di spiegazione suggeriscono le cose?
Sommariamente e con larga approssimazione, direi che non tanto e
non solo le funzioni dell’arte sono cambiate con l’avvento della società
di massa e dell’era tecnotronica, ma che questa trasformazione che ha
investito intimamente il nostro modo di essere, di vivere, di pensare,
trasformazione profonda e radicale come una mutazione genetica, ha determinato un decentramento polifunzionale dell’antica esperienza unitaria dell’arte. Accogliamo dunque serenamente il fatto che l’arte è morta
davvero, come aveva preconizzato Hegel, anche perché dalle sue ceneri
sono rinate le arti. Cioè una nuova costellazione, a dominante estetica,
di pratiche culturali multiple e differenziali, pur se depotenziate.
E d’altra parte perché scandalizzarsi, dov’è la ragione di stupore?
Non dimentichiamo che l’arte non è antica quanto l’uomo, ma un
prodotto storico abbastanza recente. L’arte, cioè il moderno sistema
12
dell’artisticità, la figura dell’artista come creatore di professione, quella
del critico in quanto intellettuale specializzato, e infine le gallerie e i
musei quali chiesa della teologia estetica sono infatti, tutte, istituzioni
culturali costituite appena negli ultimi duecento anni. Sono l’intenso
brillare e il repentino oscurarsi di una meteora.
L’arte storica, l’arte del passato, inanellava nella sua orbita omnicomprensiva ricerca e catarsi, piacere sensuale e conoscenza, testimonianza storica e propaganda ideologica. Tutto insomma era racchiuso,
fuso e decantato in quella sfera purissima di cristallo. Sfera magica che
costituiva, misteriosamente ma indubitabilmente, un equilibrio stabile
e perfetto: l’ombelico del mondo. È umano, di tanta purezza perduta, avere nostalgia. Ma troppo umano rimpiangere i mitici sentieri
freschi, intrecciati di luce e di aria nei quali ci conduceva per mano
l’ispirato sacerdote delle Muse. Al limite chi ci garantisce che la stessa
proposta di Zabala, Oggi, l’arte è un carcere non possa, e forse non
debba, leggersi anche in chiave ottativa? Che, in qualche modo, non
sia anch’essa una manifestazione inconsapevole, anelito a uno spazio
chiuso come l’universo carcerario, ma sentiero sicuro entro un recinto
sacro? E però – lo stesso Heidegger lo riconosceva – ci aggiriamo in
«sentieri interrotti».
Allora quello che mi ha spiccatamente colpito in questa esperienza di Zabala, come del resto mi pare rivelativo in tante altre ricerche
estetiche contemporanee, è il tipo di spiazzamento che esse procurano.
Ossia il loro modo altamente significativo di proporsi come pratiche
de-significanti, ma l’essere tuttavia “pratiche artistiche”. Se preferite, di
realizzare il grado zero (valutazione questa, se mi è concesso il bisticcio,
che non è “di valore”) dell’artisticità.
Che voglio dire con pratica artistica a grado zero di artisticità? Che
l’operazione di Zabala, tecnicamente parlando «operazione a dominante metaoperativa» nell’accezione introdotta da Garroni 7, stabilisce
una precisa ritualità concettiva, stimolativa, fruitiva che però cade fuori
dall’ambito tradizionale del rituale realizzato dall’arte storica.
Possiamo facilmente verificare ciò visitando questa sorta di mostra,
parallela al seminario, delle risposte raccolte da Zabala al suo questionario Oggi, l’arte è un carcere. Che non è una mostra, nel significato
consegnatoci dalla tradizione, in quanto non implica il tipo di esercizio
dell’arte e sull’arte richiesto da, e imposto a, l’arte storica. Si tratta, al
contrario, di una operazione sostanzialmente diversa e rivelativa della
ostensività integrale procurata dalle pratiche artistiche contemporanee.
Proprio in quanto “pratiche artistiche” e non più “arte”. Qui abbiamo
davvero, letteralmente e soprattutto unicamente, una mostra. Nel senso
di luogo fisico e percettibile, in cui si mostra il mostrabile e si vede il
visibile; e però si liquida completamente l’invisibile. Si denega cioè e
si vanifica la possibilità di ogni incrostazione metafisica, di quel fondamento magmatico e illusorio che sta alla base del rituale mitico e stava
13
anche alla base dell’arte storica. O, altrimenti detto, l’aura di benjaminiana memoria. Questa è divenuta un «valore d’uso senza valore» 8.
Insomma visitando la mostra della collezione di Zabala non partecipiamo a nessuna funzione cultuale, non celebriamo nessun mito.
Si è invece eseguita una ritualità umana e culturale, che è simulacro,
effettualità totale, rito senza mito 9.
Mi pare allora si possa concludere – naturalmente con tutta la provvisorietà che l’argomento e l’occasione impone – che mai forse l’arte
è stata così libera e liberatoria come oggi, che è diventata un carcere.
* Pubblicato nel volume Oggi l’arte è un carcere?, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 85-91.
Il volume raccoglieva gli interventi presentati nell’omonimo Seminario promosso dal
Centro Internazionale Studi Estetica (Palermo 15-16 marzo 1981), che aveva preso occasione e mutuato titolo da una operazione di mail art realizzata nel 1976 da Horacio Zabala,
dal titolo appunto Oggi l’arte è un carcere, e i cui esemplari furono presentati in mostra
nell’ambito del Seminario.
L’orbita spezzata, o meglio The ]agged Orbit (trad. it., La Tribuna, Piacenza, 1976), è
titolo di un importante romanzo di fantascienza scritto da John Brunner. Tale prestito non
stupirà se si pone mente al fatto che sovente la science fiction degli ultimi anni ha condotto
analisi estremamente illuminanti della contemporaneità.
1
B. Croce, Breviario di Estetica, in Nuovi saggi di Estetica, Bari, Laterza, 19584, p. 3.
2 C. Brandi, A passo d’uomo, Milano, Bompiani, 1970, p. 132.
3 Th. W. Adorno, Aesthetische Theorie (1970), trad. it. Teoria estetica, Torino, Einaudi,
2009, p. 3.
4
D. Formaggio, Arte, Milano, Isedi, 1973, p. 9.
5
Ibidem.
6 J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris, Minuit, 1979; trad. it. La condizione
postmoderna, Milano, Feltrinelli, 200415.
7
Faccio un uso alquanto elastico di questa importante nozione elaborata da Emilio
Garroni in Ricognizione della semiotica, Roma, Officina, 1977.
8 F. Masini, Metacritica dell’«aura», in Aa. Vv., Orizzonte e progetti dell’estetica, Parma,
Pratiche, 1980, p. 213.
9 Per la nozione di “simulacro” adoperata in questo contesto rinvio a Mario Perniola,
La società dei simulacri, Cappelli, Bologna, 1980; con Perniola sono in obbligo anche per la
problematica del “rito senza mito”, qui appena adombrata, che mi ha però portato a esiti
diversi da quelli da lui propugnati.
14
La fine dell’eternità
*
Arte e tecnocultura alla fine del postmoderno – invitato a regolare
il mio intervento interpretando liberamente il tema, dico subito che è
proprio questo titolo, i termini in esso in gioco, la loro significazione
e le dinamiche cognitive che innescano il loro accostamento, i percorsi insomma di una possibile loro relazione ottimale, quello che ha
calamitato il mio interesse. E sono fiducioso che questo mio interesse
possa senz’altro essere da voi condiviso. Non mi pare infatti in discussione la constatazione che “arte”, “tecnocultura”, “postmoderno” non
sono termini innocenti e trasparenti, di cui servirsi senza il rischio di
gravi scotti conoscitivi. Talché non è azzardato ritenere che una loro
revisione strategica, che ne analizzi l’intersezione in uno stesso campo
concettuale – come mi propongo di fare – possa portare qualche utile
elemento di riflessione all’economia dei nostri lavori.
Non occorre dedicare molto spazio a ribadire la problematicità
della nozione di “arte”. Che è parola certo fortemente radicata nella
cultura occidentale; ma per così dire alimentata al plurale. Attraverso
cioè spiccatissime varianti semantiche, anzi spesso prospettive teoriche
pienamente difformi, che non ne hanno consentito una codificazione
pienamente omogenea. Mai insomma è stato possibile fissare una nozione di “arte” pacificata dal consensus omnium.
Del resto, se siamo lontani dai dispositivi di pensiero che in antico
portarono alla celebre condanna decretata da Platone, non siamo però
più usciti fuori dall’orizzonte aperto da Hegel con il riconoscimento
della “morte dell’arte”. Non può infatti consolare che quella morte vada – correttamente – interpretata in senso ontologico: ciò che muore,
o meglio ciò che è pervenuto a dissoluzione, non è l’arte come pratica
culturale bensì lo statuto ontologico che l’aveva precedentemente fondata. Confermando l’analisi hegeliana che l’arte non è più la manifestazione sensibile dell’Idea, il bisogno supremo dello Spirito, il modo più
alto in cui la Verità si dà esistenza, noi dobbiamo conseguentemente
constatare che essa da uno stato di fondazione assoluta è precipitata
in una condizione – come oggi usa dire – di “sfondamento”, cioè di
mancanza di fondamento. È a partire da lì che si è aperto – e tuttora
permane aperto – il gravoso problema di trovare legittimità a una pra15
tica culturale destituita, cioè deprivata dell’antico statuto metafisico. E
dunque la necessità di elaborare modelli di rifondazione ad hoc, sempre
problematici perché contingenti, votati a rapida obsolescenza, logorati
dall’orizzonte mondano in cui insistono, dal valore di scambio acquisito
dall’arte, ossia un valore d’uso senza valore, continuamente corroso
dall’onda delle progressive mode culturali.
Il fatto dunque che ancora dell’arte continuino a prodursi manifestazioni indiscutibili non pone in discussione la profetica sentenza
hegeliana, questa al contrario pone le condizioni di possibilità della
stessa discussione dell’arte, ma a patto di renderla teoricamente incandescente. A condizione cioè di costituirsi come riflessione limite, aperta
e flessibilissima, sì da riuscire a decifrare la nuova natura nomade contratta dall’arte, quelle sue profonde e ricorrenti mutazioni genetiche
che la spingono in un transito incessante, privo di meta, in uno stato
di consunzione protratta sine die, al di là della storia, in un tapis roulant che gira su stesso come entro l’orbita di un buco nero. E però
questa condizione dell’arte, come entità proteiforme sempre sul punto
di scomparire, traumatizza la riflessione teorica, e l’estetica si trova
impossibilitata ad assumere in presa diretta la smodata fenomenologia
delle manifestazioni artistiche odierne, costituendo un campo unitario
d’intelligibilità. L’arte spiazza la sua teoria dal proprio livello di pertinenza, la mette fuori gioco costringendola a una impasse metodologica.
Così la teoria dell’arte è oggi costretta a un percorso obliquo, a un
duplice approccio di tipo metaforico: o appiattirsi quasi senza residui
sulla cornice d’intelligibilità procurata non dall’arte ma dalla critica,
e dunque divenire una “meta-critica dell’arte”; oppure scavalcare il
suo sito istituzionale volgendosi alla ricerca di più comprensive significazioni, transartistiche e antropologiche generali, e divenire dunque
una “meta-teoria dell’arte”. L’arte, in conclusione, tende comunque a
sfuggire dal vaglio di una puntuale riflessione teorica e s’impone come
scandalo gnoseologico: una conturbante atopia noetica.
Chiediamoci ora: l’accostamento dell’arte, di questa nozione storica
divenuta così problematica e disperante nella nostra epoca, al recentissimo conio “tecnocultura” è un accostamento davvero euristico, capace
cioè d’illuminare la sua fantomatica natura? L’arte, l’arte storica, cioè
l’arte della storia dell’arte, non è sempre stata una peculiare forma di
tecnocultura? Del resto, non è insito nel concetto di arte quello di
tecnica, e viceversa?
In verità, i legami fra arte e tecnica sono stati storicamente per
lungo tempo molto stretti. Addirittura arte, dal latino ars, e tecnica,
dal greco téchne, sono due esiti linguistici che insistono nella stessa
area semantica. Per dire sbrigativamente: sono la stessa cosa. E anche quando, nel moderno, queste due pratiche culturali hanno preso
vie divergenti ciò non ha rotto l’antica solidarietà concettuale. Arte e
16
tecnica poi sono state, nel nostro secolo, un’insegna dinamica, rimarcabile anche in senso ideologico, che sovente ha assunto il valore di
un dittico compiutamente reversibile.
Tuttavia si sostiene che la nozione di tecnocultura, come dimensione specifica della nostra epoca, indica qualcosa di più, e di sensibilmente diverso dal ruolo tradizionale che in epoche passate ha svolto la
tecnica, per il semplice fatto che mai nella storia dell’umanità l’intera
cultura, come oggi avviene, tende a identificarsi, o senz’altro s’identifica, con la tecnica. Così l’intera nostra epoca dovrebbe integralmente
leggersi sub specie technicæ. Un fenomeno siffatto, insomma, secondo
questa prospettiva, non inciderebbe in misura meramente quantitativa
nell’economia dei processi socioculturali, ma donerebbe alla tecnica
contemporanea il potere di comporre una configurazione epocale assolutamente originale.
Confesso di non essere insensibile a questa prospettiva teorica; e
però non mi pare che questa posizione illumini in maniera apprezzabile il nostro tema specifico. Anche riconoscendo che la tecnica dei
nostri giorni ha innescato profondi meccanismi di trasformazione –
talmente radicali che l’uomo contemporaneo non è semplicemente
un individuo più abbiente ma, proprio grazie al salto di potenziale
assicurato dalla tecnica, un nuovo esemplare antropologico, il frutto
di una vera e propria mutazione genetica dell’antica specie dell’homo
sapiens – anche in una prospettiva siffatta, il nesso arte-tecnocultura
non appare soddisfare appieno la nostra interrogazione sull’arte. Certo,
se la tecnica ha riplasmato il nostro mondo in modo senza eguali a
nessuna epoca storica, modifiche così sostanziali non possono non interessare anche l’arte. Se insomma la tecnocultura costituisce il nostro
sfondo epocale, nel quale insieme a tutte le manifestazioni culturali
s’inscrive anche l’arte, lo stretto rapporto fra arte e tecnocultura è del
tutto ovvio. Meno ovvio è invece articolare questo rapporto in modo
pertinente. Se infatti manteniamo alla nozione di arte una qualche valenza concettuale, riconoscendola un modo peculiare e inconfondibile
attraverso cui si articola e si esprime l’esperienza del mondo, è chiaro
che essa rappresenterà e simbolizzerà volta a volta il proprio orizzonte
mondano, ma dialettizzandolo e non sciogliendosi in esso passivamente e senza residui. Arte e tecnocultura hanno sì un punto materiale
d’intersezione in una topica intitolabile “tecnocultura dell’arte”, ma
questa è una topica eteronoma, preartistica o extrartistica, che pone
l’arte sul piano indistinto di qualunque altra pratica culturale. Laddove
l’arte esprime la propria funzione autonoma solo letta in una topica
intitolabile, esattamente all’opposto, “arte della tecnocultura”, come
quella nella quale essa realizza il suo precipuo modo di essere nella
nostra congerie di cultura.
Non vorrei essere frainteso. Non sto affermando che la tecnocultura
non sia la sfera entro cui debbano essere formulati i modelli esegetici
17
dell’arte contemporanea. Al contrario, ritengo che il riconoscimento di
questa relazione sia assolutamente pregiudiziale per ogni congrua lettura dell’arte. Si pensi, per fare un solo esempio trasparente, a come sia
metabolizzata l’immagine artistica, trasformatosi il suo saliente formale
dall’asse della rappresentazione naturalistica a quello della simulazione
cibernetica. Quindi il punto non è questo. Il punto è che l’analisi delle
nuove strutturazioni dei codici artistici in chiave di tecnocultura può
inscriversi solamente nel tipo di semantizzazione che chiamavo prima
“metacritica dell’arte”, cioè a ridosso della fenomenologia delle forme
elaborata dai linguaggi critici. In tal modo continua però a sfuggirci
il significato complessivo da attribuire all’arte nella nostra episteme,
significato un tempo assicurato dalla “teoria generale dell’arte”, ma che
oggi, secondo quanto abbiamo detto prima, postuliamo sia indagabile
solo da una “metateoria dell’arte”.
Può allora riuscire perspicuo riconsiderare questi temi in più ampio
quadro metateorico, quale appunto quello intitolato al “postmoderno”.
Ma quale scenario prospetta la “fine del postmoderno”? In che senso
possiamo raffigurarci la fine del postmoderno? Non rischiamo d’inciampare in una sterile dissonanza cognitiva? Sarà opportuno, anche
qui, operare qualche chiarimento.
Il postmoderno è stato una nozione che ha largamente tenuto campo nel dibattito umanistico degli ultimi anni. Una nozione quanto mai
polivalente, che si è insediata in ogni dove: nella critica delle arti e in
filosofia, in sociologia e nel costume, ma è dilagata finanche a livello
delle mode culturali. Come sappiamo, a essa ha arriso una opposta
fortuna: è stata nozione che ha assunto il rango di pilota in importanti
contesti analitici, ma insieme è decaduta a etichetta superficiale, sulla
quale non a torto si è appuntata sovente la spilla dei critici. Nessuno
può negare che il postmoderno è stato sovente forzato a veri e propri
abusi concettuali e linguistici, come ad esempio è avvenuto in stravaganti proposte di certa critica architettonica o letteraria. Ma accanto a
queste utilizzazioni, ripeto sicuramente gratuite e parassitarie, il postmoderno è stato anche qualcosa di profondamente diverso.
A partire dall’iniziale proposta di Lyotard, il postmoderno ha infatti rappresentato un modello concettuale di non trascurabile forza
speculativa. È stato infatti il modello attraverso cui si è sviluppata negli ultimi anni quell’istanza di riflessione filosofica, che ha attraversato
continuamente il nostro secolo assumendo volta a volta nomi diversi,
come quelli di “pensiero negativo” o di “teoria critica”. E, tutto sommato, la denominazione di postmoderno, per quanto anch’essa discutibile, come è per qualsiasi definizione, mi pare che qualifichi il fronte,
diciamo pure “di punta”, dell’odierna ricerca teorica meglio di altre
designazioni concorrenti oggi in circolazione, come per esempio quella
di “pensiero debole”.
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La mia preferenza per la designazione di postmoderno discende
in particolare dal fatto che essa focalizza con la massima nettezza una
condizione unica della nostra congerie di cultura, che la eccettua totalmente da tutte quelle che l’hanno preceduta. Se ha senso parlare
di postmoderno, se cioè affidiamo al postmoderno una valenza strettamente conoscitiva e non appena consolatoria, lo è a condizione di
riconoscere che il postmoderno “consegue e non continua” ciò che
l’ha preceduto. Chiarisco questa definizione, osservando che in passato
ogni cultura storica si è istituita a condizione di proseguire e sviluppare, affermando o negando, più sovente selezionando e riplasmando,
quelle che l’avevano preceduta. La cultura storica è stata sempre un
accumulo lento, stratigrafico e sedimentario. Un continuum che, in
qualche modo, includeva e incorporava sempre il passato: in esso si
radicava e da esso veniva fondato. Proprio per questo è stato plausibile teorizzare l’evoluzione storica come dilatazione progressiva, più o
meno armonica e contrastiva, di un progetto unitario. Un’arco aperto
all’infinito, che inanellava passato, presente e futuro. Il postmoderno
constata che l’antico ritmo evolutivo si è iperaccelerato, la continuità
si è bruscamente interrotta e siamo usciti fuori dalla storia. Nel senso che il passato non è più fondativo del presente: non lo informa;
e, per converso, il futuro è entrato in crisi contraendosi nell’oggi. Il
passato dunque non ci appartiene più, mentre il futuro ci è interdetto:
possediamo solo il presente. In altra occasione, ho indicato questa
condizione ricorrendo all’immagine di “orbita spezzata”: viviamo entro
un’orbita spezzata. In questo scenario metateorico, di globale revisione
antropologica, mi pare che acquistino una collocazione più acconcia
anche le tematiche, sia della tecnocultura che dell’arte, sulle quali andiamo riflettendo.
Proprio la tecnocultura ci fa toccare con mano che viviamo in
un’epoca di trasformazioni profonde, radicali e universali quali mai
sono state prima nella storia. Ciò importa la necessità d’istituire un
nuovo rapporto col passato. Noi siamo talmente trasmutati che il passato ci appare remoto, come appartenere a una lontana era geologica.
Possiamo abbracciarlo con l’immaginazione e l’intelletto, farne arte
e farne scienza, ma non possiamo più abitarvici. Abbiamo coscienza
della nostra alterità. Abbiamo cioè coscienza che i nessi di continuità
con ciò che cronologicamente sta prima di noi si sono enormemente
diluiti, allentati fino al punto di costituire un solco, una soglia netta
e irreversibile. E abbiamo bisogno di scoprire le nuove legalità che
reggono l’ordine del mondo. Un universo, per esempio, non più retto
dalla legge della circolarità ciclica bensì della ellissi vagabonda; non
dal continuum ma dalle crepe del discreto; un sistema la cui programmabilità non può contare sul ragionamento ma affidarsi al computo
statistico, all’eruzione stocastica e alla deriva interna. Ci siamo inoltrati
in un territorio vergine, pieno di promesse ma ricco d’insidie, che non
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nasce ex nihilo ma tuttavia sorge continuamente ex novo. Un territorio
di cui è indispensabile fissare, se non una impossibile mappa compiuta
e definitiva, almeno pur precarie coordinate d’orientamento. In definitiva, siamo intensamente impegnati a elaborare categorie teoriche
ed operative capaci di decifrare le nuove conformazioni tecnematiche
assunte dalla Terra, per renderla ancora una volta vivibile a misura
umana.
Sub specie imaginis anche l’arte, ovviamente, partecipa di questa
nuova gravitazione antropologica. Un tempo l’arte fu tormento creativo, estasi, colloquio col dio. Ma per noi quel canale privilegiato fra
umano e divino si è completamente inaridito, e ne sopravvivono solo
vaghissime tracce. L’arte, totalmente desacralizzatasi, lungo i decenni
che arrivano sino a noi è diventata evento dubbioso, oggetto ansioso,
silenzio. Le sue funzioni si sono talmente metamorfosate da porre in
questione lo stesso concetto unitario di arte. Probabilmente, non tanto
e non solo le funzioni dell’arte sono cambiate con l’avvento della nuova
specie umana forgiata dalla tecnocultura, ma le profonde trasformazioni
che hanno investito intimamente il nostro modo di essere, di vivere, di
pensare, hanno determinato un decentramento polifunzionale dell’antica esperienza unitaria dell’arte. Accogliamo dunque serenamente il fatto
che l’arte è morta davvero, come aveva preconizzato Hegel, anche perché dalle sue ceneri sono rinate le arti. Cioè una nuova costellazione, a
dominante estetica, di pratiche culturali multiple e differenziali, pur se
depotenziate e non più sorrette dall’antica trama metafisica.
Se lo scenario che, con larghissima approssimazione e in modo compendiario, ho appena abbozzato possiede qualche attendibilità, inevitabilmente incalza la domanda di come possa interpretarsi l’indicazione
“fine del postmoderno”. Se infatti il postmoderno è la presa di coscienza della nostra condizione epocale, indizia cioè la consapevolezza dei
macroprocessi strutturali di trasformazione che in atto vanno forgiando
l’era della tecnocultura, e insieme costituisce il tentativo più aperto di
tematizzarli con rigore concettuale, a che titolo si può parlare della sua
fine? Non è asserzione prematura, o addirittura priva di senso?
Qual è la genesi del postmoderno? La risposta è pacifica: il moderno. Specifichiamo: quella plurisecolare vicenda di autoconsapevolezza
intellettuale che attraversò largamente la cultura europea dalla fine del
Seicento agli inizi dell’Ottocento, portando del resto a maturazione
istanze già avvertibili nel Rinascimento. Per intenderci: dalla Querelle
des Anciens et des Modernes alle polemiche fra classici e romantici.
Il dibattito si concluse di fatto col Romanticismo tedesco, che riuscì
a guardare al passato liberandosi dalle catene frapposte dalla pietas
classicistica. Venne allora posta l’antinomia fra classico e moderno, ma
attraverso una continuità funzionale fra i due poli. Anche per il teorico
più radicale del problema, Friedrich von Schlegel, infatti la classicità
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dell’antico s’invera nel moderno ed è parimenti classico il divenire
del moderno attraverso l’antico. Così il moderno riconosce e legittima se stesso, ma solo in quanto “post-antico”. E però – si badi – qui
il “post” non indica solo consecuzione cronologica ma prosecuzione
effettuale. In altre parole, il riconoscimento del moderno come postantico partecipa di una progettualità schiettamente utopistica impegnata
a recuperare il passato per costruire il futuro. È proprio la possibilità
di questo movimento progressivo, globalizzante passato-presente-futuro
che, come illustravo prima, decade col riconoscimento della condizione
postmoderna. Ma ciò rende problematico parlare di fine, nel senso di
conclusione terminale, per ognuna di queste figure: antico, moderno,
postmoderno.
La consapevolezza del salto epocale, che caratterizza noi postmoderni, si costituisce difatti attraverso un processo non di frattura tissulare ma di mera presa di distanza. Abbiamo la percezione dell’antico
come attraverso una distanza cosmica, come di una epoca aliena di
cui stentiamo a decifrare i segni. I bronzi di Riace hanno impressionato tutto il mondo, ma forse anche perché sono emersi dall’acqua
conturbanti come astronauti marziani! Eppure, a rigori, non possiamo
parlare di “fine dell’antico”. In verità sappiamo che l’antico ha procreato il moderno, e non è peregrino immaginare che la catena delle
metabolizzazioni sia discesa fino a noi. Ma non è, propriamente, nostro
possesso: appartiene forse al nostro codice genetico ma non arriva a
impegnare la nostra sensibilità.
Ma anche la presa di distanza dal moderno, il disagio di riconoscerne l’incalzante opacità, i contrassegni dell’arcaico, non ci consente
di celebrarne la fine. Certi critici hanno preferito al conio di postmoderno quello di tardomoderno. Anche questa flessione offre qualche
vantaggio, perché marca il carattere di consecuzione, anche se non di
prosecuzione, che il postmoderno intrattiene col moderno. Il postmoderno è una profonda mutazione del moderno, ma ancora classificabile all’interno della stessa tassonomia storica. Perciò siamo entro un
segmento di consecuzione, di cui avvertiamo l’esaurimento, ma non
abbiamo certezza che sia anche il segmento terminale che prelude a un
nuovo mondo. Chi ci garantisce che la svolta entro la quale versiamo,
la nostra scomoda posizione di stallo, si sia compiuta o addirittura sia
in vista di un compimento? Chi insomma ci assicura che dietro l’ombra
di questa torsione traumatica già si distenda il sentiero di una nuova
epoca? La tecnocultura non è anche una sirena? Le profonde, anzi le
sconvolgenti contraddizioni, che crocifiggono i nostri giorni possono
ben farlo dubitare. Non c’è ancora un inizio, e dunque non c’è ancora
una fine. Questo è il postmoderno!
Se non mi sento di accreditare la fine del postmoderno, esiste tuttavia un’altra entità metateorica, largamente entrata nel giro del no21
stro discorso, di cui è opportuno evidenziarne la dissoluzione. Di cosa
avvertiamo la fine nella nostra congerie di cultura? Diciamolo senza
pathos: finisce l’eternità. Mi rendo conto – e me ne scuso – che si
tratta di una formula a effetto, un ossimoro di sapore barocco. Ma “la
fine dell’eternità” può essere uno slogan utile a calamitare l’attenzione
su di un tema che ho finora sfiorato, ma che giudico centrale anche
al nostro dibattito.
Pensiamo a Orazio: exegi monumentum ære perennius: ho elevato
con le mie Odi un monumento più duraturo del bronzo, cioè un’opera eterna. Non è una testimonianza di arroganza individuale. Davvero
l’arte è stata, storicamente, una delle tre modalità assolute attraverso
cui l’eternità si è temporalizzata, e il transeunte ha conquistato la soglia
dell’Essere. L’arte storica inanellava nella sua orbita onnicomprensiva ricerca e catarsi, piacere sensuale e conoscenza, testimonianza collettiva e
propaganda ideologica. Tutta l’esperienza del mondo era racchiusa, fusa
e decantata in quella sfera purissima di cristallo rappresentata dall’opera
d’arte. Sfera magica che costituiva, misteriosamente, un equilibrio stabile e perfetto: l’ombelico del mondo, lo specchio dell’Assoluto. Quel
prodigioso equilibrio ai nostri giorni è svanito come un miraggio, ma
per secoli è stato conosciuto e teorizzato.
La chiave fondativa dell’eternità antropologica è stata articolata in
una metafisica a tre funzioni interdipendenti, quegli attributi dell’Essere che nel Medioevo furono chiamati trascendentalia: Verum, Pulchrum,
Bonum. È proprio la nozione di Bello, il sostrato metafisico che la
alimentava, ciò che ha assicurato la dimensione extratemporale, eternizzante dell’arte storica. È di grande interesse, a questo riguardo, studiare la storia dell’estetica moderna, che costituisce uno straordinario
test di controllo. Mi limito a ricordare che alla bellezza è intitolata l’Inquiry di Hutcheson, che nel 1725 getta le basi del primo traliccio teorico di stretta pertinenza estetica; dieci anni dopo, nelle Meditationes
Baumgarten conia la parola “æsthetica”, eponima di una scienza della
sensibilità che trova la sua perfezione nella pulchritudo; e, per non fare
un’inondazione di citazioni, mi fermerò osservando che un’altra diecina d’anni dopo Charles Batteux può impiantare il moderno sistema
delle arti, ma qualificandole “belle arti”. E così continuarono tutti i
grandi filosofi tedeschi: Kant, Schelling..., fino a Hegel, che scardina
l’antica comunione fra arte e bellezza. Abbiamo già visto che morte
dell’arte significa per Hegel la sua deontologizzazione. Vale precisare
che questo processo travolge non l’arte in generale in quanto pratica
culturale, ma specificatamente “l’arte bella”, l’arte cioè come enclave
terrestre dell’Eterno, il luogo in cui l’Assoluto si dà esistenza sensibile.
Proprio la fine dell’eternità, dunque; o meglio l’inizio della fine.
Già nel primo Ottocento si posero le condizioni, percorse per tappe
sempre più incalzanti verso i nostri decenni, giù giù fino alle avanguardie storiche e l’odierna dissipazione ecumenica, perché l’arte, gli artisti,
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non più officianti dei misteri del Bello, ispirati interpreti del di-vino,
musageti, ma proclamatisi produttori liberi, operatori autonomi, disinibiti artefici dell’artificiale, indagatori inquieti e sovrani dei mondi delle
apparenze, si emancipassero completamente dall’antica tutela metafisica.
Non ha scoraggiato che senza quell’ancestrale garanzia divenisse problematica la stessa possibilità di esistenza dell’arte, che venisse vaporizzata,
unitamente al sostrato ontologico, anche la sua qualifica trascendentale.
La nuova arte che si è protesa fino al postmoderno, arte tout court e
non più arte bella, dunque la condizione dell’arte dopo la morte dell’arte, è stata quella di essere mondana e secolare, fisiologica e corruttibile,
nomade, scientifica e sperimentale, iscritta nei circuiti del consumo e
della produzione di massa, lucidamente cosciente della sua obsolescenza, della sua durata effimera: di appartenere alla fine dell’eternità.
Concludiamo allora da dove abbiamo iniziato, evocando la sentenza hegeliana della morte dell’arte. Riconosciamo che è stato un grave
passaggio, questo, aperto dal moderno, e le cui catene di effetti si sono
allargate, moltiplicandosi, fino a noi. Un grave passaggio, e forse anche
gravoso: abbiamo perduto l’Infinito e rinunciato all’Assoluto. La fine
dell’eternità è l’insegna del nostro orizzonte, completamente immerso
nella temporalità come limite della nostra finitudine. E naufraghi, tentiamo la sopravvivenza elaborando strategie del naufragio, noi postmoderni, che dall’eternità ci allontaniamo senza voltarci indietro.
* Relazione presentata al Congresso internazionale Arte y tecnocultura en el final del
postmoderno promosso dall’Associazione Internazionale dei Critici d’Arte e dal Centro de
Arte y Comunicación (Buenos Aires, 2-8 ottobre 1988).
La fine dell’eternità (The End of Eternity, trad. it. Mondadori, 1987) è titolo di un
romanzo di fantascienza di Isaac Asimov.
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Il miraggio del bello
*
1. Per la nostra coscienza refrattaria, decadente, postmoderna, il
Bello – l’esperienza percettiva, concettuale del Bello, il riconoscimento della sua valenza fondativa, predicativa, veritativa, quell’esperienza
antica che sta alla base della nostra tradizione culturale e ha fondato l’Occidente nella sua globalità, quel sostrato talmente radicato da
fungere da ombelico del mondo – il Bello per noi ha perso completamente significato: è svaporato come un profumo prezioso al contatto
dell’aria, è precipitato al di fuori del nostro orizzonte.
Poche divinità possono vantare una teologia tanto numerosa e documentata come il Bello. Del Bello possiamo agevolmente perseguire
per intero la traiettoria luminosa, dalle sovrane ipostasi primitive alle
sinuose epifanie esibite nel mondo moderno. Qui però, quasi all’improvviso, questa storia gloriosa, incredibile dictu, si arrestò come fulminata, misteriosamente intaccata da un cancro che la consunse senza
scampo dall’interno. L’apparizione, l’immagine del Bello si dissolse nel
regno dell’antimateria, svanì come al risveglio un’immagine onirica.
Il luogo in cui – disseccandosi repentinamente per aree progressive, come il bagnato che asciuga – si era ristretta in ultimo l’onnivora
planimetria del Bello, il luogo dell’estetico, dove il Bello, pur a prezzo di drastiche limitazioni dell’antica esaustività, si era acconciato alla
rappresentanza di una sola dimensione specifica, quella dell’artisticità,
anche lì, da questo ambito riduttivo e residuale, il Bello è stato insidiato, posto in causa, rovesciato, scacciato.
Così il Bello ha abbandonato la terra. Come un dio sdegnato si è
precluso ai nostri occhi. E noi, non più irradiati dalla sua luce, divenuti
ciechi al Bello, possiamo solo configurarcelo con un mero atto dell’immaginazione, nella sua privatività; siamo costretti a pensarlo come un
non-luogo di cui s’è persa la traccia, un sentiero il cui accesso non è
più conosciuto da nessuna mappa: davvero sentiero irrimediabilmente
interrotto. Alieno come una parola arcaica, flatus vocis, il Bello si pone
come lontananza remota, che insiste solo nella nostra memoria preistorica: un rimosso che non ci appartiene più.
2. Eppure, quando si presentò alla ribalta, in quella che sarebbe stata la sua ultima magistrale performance, all’esordio del mondo
25
moderno, nel Settecento, il Bello si pose con l’immutata perentorietà
con cui aveva sempre governato l’esistente. È infatti il Bello, la sua
privilegiata comunione con l’artistico, che presiede alla nascita dell’estetico. In verità il Bello informa entrambi i due versanti primari della
complessa gestazione dell’estetica moderna: quello critico-militante,
degli esthéticiens, suggellato da Batteux nel sistema delle arti, in quanto
appunto «belle arti»; e quello concorrente, di ascendenza più strettamente filosofica, impersonato da Baumgarten che epistemizza l’estetica
come «perfectio cognitionis sensitivæ», in quanto «pulchritudo» 1.
Può destare stupore (ma solo per chi non sia stato provato dalle
prodigiose capacità metamorfiche del Bello) come da questa soglia
specifica, muovendo da un sapere particolare, quindi da una situazione
che umiliava le sue ubiquitarie polivalenze originarie, dribblando rigidi
steccati, attraverso uno spettacolare gioco a rialzo, il Bello sia riuscito
nuovamente a conseguire le sue trame di dominio, a soggiogare l’unità
del mondo.
Il caso più smagliante di tale inaudito recupero fu quello di Kant.
Si sa come con giovanile insofferenza egli avesse rifiutato la malia del
Bello: lo aveva relegato in un recesso soggettivo e marginale, praticamente dichiarato fuori gioco. Ma in età matura anche Kant crollò,
sedotto dalle sue avances. Surdeterminò il Bello fino al punto da assicurargli una costituzione trascendentale: «È bello ciò che piace universalmente senza concetto […] La bellezza è la forma della finalità di un
oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di
uno scopo [...] Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come
oggetto di un piacere necessario» 2.
Contemplazione pura, disinteresse e libertà, finalità senza scopo,
tesaurizzando questo capitale fortunosamente ricomposto il Bello riguadagnò, implacabilmente, posizioni su posizioni, toccando il culmine
di una rifondazione assoluta. Ricordate Schelling? «L’infinito espresso
in modo finito è la bellezza. Il carattere fondamentale di ogni opera
d’arte, che in sé comprende i due precedenti, è dunque la bellezza, e
senza la bellezza non vi è opera d’arte» 3. Matrimonio perfetto, arte
e bellezza fusi come fratelli siamesi. Ancora una volta, come in principio, il Bello ombelico del mondo. Così fino a Hegel, che riconosce
«la realtà dell’idea del bello come ideale dell’arte», che nomina il bello
«parvenza sensibile dell’Idea» 4. Apparizione dell’Assoluto, apparizione
assoluta: l’estrema apparizione, l’ultima teofania del Bello.
Perché è da qui, da queste vette nuovamente conquistate e nuovamente incommensurabili, saldamente insediata in un panopticon metafisico, che l’apparizione del Bello comincia a divenire lattiginosa,
si opacizza e scompare in un abisso senza fondo. Ironia vuole che è
proprio il nesso vitale, e rivitalizzante, del Bello con l’arte a rivelarsi
mortifero. Se l’arte «è e rimane per noi un passato» 5, come proclama
Hegel, quale sarà il futuro del Bello; anzi: potrà esserci futuro per il
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Bello? Il tentativo messo in atto dal Bello per assicurare la sua sopravvivenza nel mondo moderno, quello d’incorporarsi nell’arte, dimostrò
di essere un errore fatale. Travolto dalla deontologizzazione dell’arte
il Bello perse quota epistemica, rimase senza copertura teorica, venne
de-stituito; talché, privo di un proprio statuto, fu respinto ai margini
del sapere, degradato a livello psicologico e fisiologico.
Il colpo letale fu dunque quello inferto dalla dissociazione dall’arte. Frattura irreversibile, che cadde nel mondo della cultura con la
ultimatività di una pietra tombale. Konrad Fiedler, per esempio, con
aforistica freddezza ma tempestivo realismo, ne stilò il certificato di
divorzio osservando:
Il prôton pseûdos nel campo dell’estetica e della teoria dell’arte consiste nell’identificazione dell’arte con la bellezza [...]; è da questo primo errore che derivano
tuttigli altri equivoci. [...] Servire la bellezza, cercare la bellezza, tendere alla
bellezza, pare effettivamente qualche cosa di molto elevato, mentre di fatto non
si eleva di molto sopra tutte le banali consuetudini dell’uomo che si originano
semplicemente dall’intento di rendere la vita piacevole. In fondo il bello e il
buono si lasciano ridurre al gradevole e all’utile. Di fronte a tutto ciò, solo la
verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna dell’uomo, e se si vuol
assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze dello spirito, occorre indicarle
come fine solo lo slancio alla verità, la spinta al conoscere 6.
Non era un semplice programma, progetto teorico tutto da verificare, bensì una profetica presa d’atto, sanzione di tipo notarile. Che
non la cogenza dei concetti ma la forza delle cose, l’inesorabile processualità del reale avrebbe pienamente autenticato. L’arte stessa, infatti,
gli artisti, non più officianti dei misteri del Bello, ispirati interpreti
del divino, musageti, ma proclamatisi produttori in proprio, operatori
autonomi, disinibiti artefici dell’artificiale, indagatori inquieti e sovrani
di ogni flessione dei fenomeni, avrebbero violentemente, senza appello,
respinto l’annoso zeugma di arte e bellezza. A cominciare dalla contrapposizione di antico e moderno, ingenuo e sentimentale, classico e
romantico, giù giù fino alle avanguardie storiche e l’odierna dissipazione ecumenica, nessun prezzo è sembrato troppo elevato per squarciare
la funesta camicia di Nesso con la quale l’apparizione del Bello aveva
surrogato la vita dell’arte.
Né scoraggia che la scissione dell’arte dal Bello depotenziasse e
facesse problematica la stessa possibilità di esistenza dell’arte, che venisse vaporizzata, unitamente al sostrato metafisico, la sua condizione
trascendentale, e non potesse che porsi all’insegna risicata della “morte dell’arte”. Era lo scotto lancinante ma necessario affinché l’arte si
emancipasse dal plagio perpetrato su di essa dal Bello, da quella costante ipoteca che l’arte storica (l’arte nel suo sviluppo storico, l’arte
della storia dell’arte) aveva subìto a garanzia metafisica della sua esistenza. La nuova arte, arte tout court e non più arte bella, liberata dai
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gravosi condizionamenti ontologici del Bello, dunque la condizione
dell’arte dopo la “morte dell’arte”, sarà di essere mondana e secolare,
fisiologica e corruttibile, nomade, scientifica e sperimentale, iscritta nei
circuiti del consumo e della produzione di massa, consapevole, lucidamente cosciente della sua obsolescenza, della sua durata effimera.
Per contro il Bello, spiazzato da questo improvviso abbandono, sradicato dal fertile terreno dell’arte, minato all’interno del recinto sacro
in cui si era trincerato, dopo una plurimillenaria vicenda d’ininterrotto
splendore si è progressivamente contratto in se stesso, si è rarefatto
sparendo dal nostro campo visivo. Come un buco nero. Così noi, oggi,
nominiamo il Bello senza poterlo più esperire. Privi della sua luce, viviamo della sua ombra.
3. Cosa vogliono dire queste metafore: il Bello ha abbandonato la
terra, viviamo all’ombra della sua luce? Quale vantaggio può procurare
analizzare la condizione di tramonto del Bello, il suo collasso epocale?
Chiediamoci allora se la storia del Bello, già anche solo colta – come
si è fatto qui per brevità – nel suo segmento terminale, e segnatamente
l’identificazione di sparizione del Bello e scissione di arte e bellezza,
non offra ulteriori elementi euristici di riflessione. E addirittura se, piuttosto che di divorzio fra arte e bellezza, non convenga pensare a un
più complesso processo di solidarietà sincronica per il quale la moderna secolarizzazione dell’arte si sia realizzata insieme, e attraverso, una
qualche laicizzazione disseminativa del Bello stesso. A questo proposito,
osservava opportunamente Adorno:
L’identificazione dell’arte con il bello è insufficiente, e non solo perché troppo
formale. In quel che l’arte è diventata, la categoria del bello rappresenta solo un
momento, e per di più un momento che è cambiato profondamente: con l’assorbimento del brutto, il concetto di bellezza si è in sé trasformato, benché l’estetica non possa comunque farne a meno. Nell’assorbimento del brutto, la bellezza
è sufficientemente forte per ampliarsi grazie alla propria contraddizione 7.
Per verificare ciò, tuffiamoci un momento all’indietro, nell’era dell’impero del Bello. Tematizzando l’apparizione del Bello in quanto evento fondante dell’Occidente, constatiamo che la sua olisticità agglutinante
(Pulchrum-Verum-Bonum) non è ostensiva della struttura del reale, ma
che invece postula una riduzione, identitaria esclusivamente a livello
del sostrato metafisico, della pluralità multiforme e chiaroscurata del
mondo. Se il Bello tutto illumina (e dove non penetra la sua luce è il
non-essere) è solo perché tutta la realtà, negata nella sua eterogeneità
costitutiva, è stata forzosamente ricondotta allo specifico potenziale
radiante del Bello. Il Bello ha cioè funzionato come catalizzatore di
ogni sintesi del reale, come luogo di tutti i punti, ma in quanto tutti i
punti sono stati preventivamente forzati e orientati a ricevere la sua incorruttibile luce. Laddove, se penetriamo nel nucleo della gravitazione
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concettuale del Bello e ritagliamo all’interno della sua ipostatica polisemicità identitaria un profilo formale omogeneo, cioè il Bello in quanto
sorgente storica dell’estetico, ci accorgiamo che la storia del Bello, già
nell’antichità, accusa il disagio di interni scompensi, di segmentazioni
non pienamente suturate. Visto in caleidoscopio, il Bello appare lambito
da sigle categoriali sì sinonimiche e/o vicarianti, dal Bello disciplinate
e subordinate, e però mai del tutto stabilizzate, che sembrano ambire
a un possesso in proprio, autonomo e concorrenziale.
Esemplare, a questo riguardo, è la vicenda del Sublime. Esemplare, perché già in antico, nella teorizzazione dello Pseudo Longino, il
Sublime, seppure si presenti alla ribalta come un potenziamento retorico, ossia il grado più alto del Bello, assume però la fisionomia di un
limite che tende ad abolire la forza centripeta. Rimaniamo alla famosa
definizione del ix capitolo: «il sublime è l’eco di una grande anima» 8.
Questa definizione non ha più misura metafisica, dimostra invece che
il vecchio equilibrio di rapporti micro e macro strutturali che fondava
il Bello si è esaurito, e che si vada costituendo una nuova regolarità,
una ulteriorità eslege, totalmente aperta all’umano. Sta proprio tutta in
questo rovesciamento, in questo trapasso da ontologico ad antropologico, da onnivoro a polivalente, da descrittivo a funzionale, la perspicua
valenza teorica – la carica di trasgressione, l’eversività – del Sublime.
Un saliente che nasce sì come flessione interna, ma al primo vagito si
rivela un cuneo, un corpo estraneo che intacca la compatta struttura
del Bello. Se volete: il Sublime come Differenza.
Questa Differenza – o comunque il Sublime come antagonista del
Bello – si dipana come un filo rosso che attraversa tutto l’Occidente
tallonando il Bello senza tregua, impegnandolo in una millenaria contesa. Certo, il Sublime come virus del Bello ebbe incubazione lentissima;
per lunghe epoche si eclissò tanto da far pensare alla sua completa
esorcizzazione. Ma era astuta tattica di guerriglia. L’archeologia del
sapere (e penso soprattutto ai recenti studi di Costa, di Mattioli 9) ce
ne ha rivelato la presenza in tempi e luoghi insospettati, e molto prima
di Boileau e dello stesso Robortello. Già nel primo Cinquecento, per
esempio, il Sublime esce dalla fase di latenza e squinterna le simmetrie
tracciate dal Bello. Oggi sappiamo che attraverso il Sublime dobbiamo
rileggere il Rinascimento e il Barocco. Risultato clamoroso: ripensare
Michelangelo, rivedere Caravaggio, rileggere Tasso...
Ma non è questo – che pure è tantissimo – che qui interessa. Poco
importa infatti (beninteso da un punto di vista squisitamente filosofico)
in nome di che o in quale terreno o sotto quale insegna o attraverso
quali traccianti questa diuturna battaglia venga combattuta, ovvero
quali istanze diverse, via via nel corso della storia, l’emergenza del
Sublime impersoni. Poco importa a livello teorico, perché dovunque
si affermi il Sublime andiamo sempre constatando l’emergenza di un
Novum, la messa in crisi della sordina metafisica e compare una lace29
razione, vorrei dire tissulare, dell’ideale umanistico del Bello. Talché,
incursione dopo incursione, arrivati al Settecento la stagione era diventata matura per l’attacco diretto o frontale. Il Sublime esce allo
scoperto e si oppone al Bello direttamente nella rivendicazione di una
completa autonomia pienamente distintiva e contrastiva. Edmund Burke tematizzerà con assoluta lucidità l’ormai irreversibile opposizione di
Bello e Sublime. Anzi (e l’inversione è densa di significato) di Sublime
and Beautiful. «Il bello e il sublime sono davvero idee di diversa natura, essendo l’uno fondato sul dolore e l’altro sul piacere, e per quanto
possano scostarsi in seguito dalla diretta natura delle loro cause, pure
queste cause sono sempre distinte tra loro» 10.
È questo un momento (1757, il passo che ho letto compare già nella
prima edizione della Philosophical Enquiry) di fondamentale importanza nella storia del Bello. Qui per la prima volta l’estetico non è più
giudicato un luogo unitario, racchiuso dal Bello in una falda liscia e
continua, bensì territorio intrinsecamente discontinuo, alla cui determinazione concorrono categorie plurime, disgiuntive, alternative e infine
annichilative del Bello. Con l’affermazione del Sublime, attraverso una
radicale revisione dei fondamenti dell’estetico, viene esorcizzata la pretesa del Bello di una primazia assoluta sull’artistico. Il Sublime, sorto
come antica gemmazione interna, si staglia ormai totalmente emancipato, tiene in iscacco il Bello e lo emargina fino a farlo svaporare.
Subito dopo Burke, infatti, Kant riconoscerà pienamente nel Sublime la positività del negativo. E se per Kant il Brutto (diversamente
dallo stesso Burke, che gli riconosceva «un certo rapporto con l’idea
di sublime» 11) è ancora l’opposto contraddittorio sia del Bello che del
Sublime, via via, da Friedrich Schlegel a Solger, a Hegel e i suoi epigoni, questo processo di scaglionamento progressivo procederà a ritmo
accelerato 12. Se per Weisse sono le condizioni oggettive del materiale
sensibile che costringono il Bello a una deformazione reale e positiva,
rovesciandosi nel suo contrario, il Brutto; per Vischer, più radicalmente,
non è in questione solo l’esteriorizzazione del Bello, ma il Brutto diventa un momento interno dello stesso Bello. È utile ribadire la funzione
costante svolta dal Sublime in questa corrosione interna dell’ideale del
Bello. Kuno Fischer, per esempio, intenderà il Brutto appunto come
rovescio del Sublime, e ne affermerà la «verità estetica»; talché il brutto
diventa il destino del sublime entro il concetto del bello e nella storia
dell’umanità.
Il punto saliente è proprio la finitizzazione, la secolarizzazione, nella sequenza Bello-Sublime-Brutto, assunta dal principio del Bello. Il
limite di guardia posto da Rosenkranz – «il Bello, come il bene, è un
assoluto, e il brutto, come il male, è solo un relativo» 13 – è proprio
il limite che viene colmato nella trasmigrazione dal Bello al Brutto,
trasmigrazione oramai indispensabile per rendere intelligibile l’arte moderna. Relativismo, che altro non è se non la mutazione genetica finale,
30
per la quale il Bello, da principio di radiazione unica e uniforme, è trapassato alla funzione di campo radiante, e in quanto Sublime diventa
sintonizzabile con tutte le frequenze d’onda emesse dall’arte moderna.
Al Sublime si appellerà Victor Hugo nella Préface de Cromwell per
evidenziare il nuovo sfondo definitorio dell’arte moderna, rappresentato per lui dal Grottesco come Sublime del Sublime. Questo Sublime
del moderno è ormai radicalmente diverso dal Bello dell’antichità.
Il bello, umanamente parlando, non è altro che la forma considerata nel suo
rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più
intima con il nostro organismo. Quindi ci offre sempre un insieme completo,
ma limitato come noi. Ciò che invece chiamiamo il brutto è un particolare di
un grande insieme che ci sfugge e che si armonizza non con l’uomo ma con
l’intera creazione 14.
Non mi soffermerò, dinanzi a questo capitale manifesto dell’arte
moderna, sull’estetica del Sublime come Brutto. Vorrei invece chiudere
questi rilievi sulla solidarietà che intercorre fra il processo di sparizione
del Bello, che si dissolve alimentando i modelli operativi delle estetiche
moderne e postmoderne in nome del Sublime, con una puntualissima
osservazione di Adorno:
Dopo il crollo della bellezza formale, nel corso di tutta la modernità tra le
idee estetiche tradizionali è rimasta solo quella del sublime [...] L’ascendenza
del sublime coincide con il costringere l’arte a non ignorare le contraddizioni
principali, ma a combatterle in sé fino in fondo; la conciliazione per loro non
è il risultato del conflitto; è ancora unicamente il fatto che essa trova un linguaggio 15.
4. Vorrei fermarmi qui. Mi pare infatti di avere adempiuto all’impegno di tracciare, pur a volo d’uccello, la trama metateorica che ha
portato la cultura dell’Occidente dal Bello al Sublime, da un principio
metafisico onnivoro e fondante a... A cosa? Voglio dire: cosa è per noi,
oggi, il Sublime? Esiste ancora il Sublime? Non è domanda capziosa.
Tranne pochissime, per quanto autorevoli eccezioni – per tutte Antonio Banfi 16 – nella cultura italiana degli ultimi decenni al Sublime
non è stato più riconosciuto diritto di cittadinanza filosofica. La liquidazione celebratane da Benedetto Croce è suonata definitiva 17. Uno,
per altro insigne, studioso, Nicola Abbagnano, ha potuto intitolare un
suo articolo proprio L’eclisse del “sublime” 18.
In verità la communis opinio ritiene – ha ritenuto fino a ieri – che il
Sublime sia faccenda di stampo ottocentesco, che s’impone con Kant e
va declinando lungo l’arco del secolo. Giusto fino a Schopenhauer; ma
già in Nietzsche il Sublime si acquatta. In realtà questo giudizio sfiora
solo la superficie delle cose. Bloom, per esempio, ha riconosciuto nel
saggio sul Perturbante (e soprattutto in Al di là del principio del piacere) la teoria freudiana del Sublime 19, e non manca chi ha riportato al
31
Sublime l’aura di Benjamin 20; del resto gli stessi rapporti fra Nietzsche
e il Sublime credo che vadano attentamente ripensati.
Assistiamo in questi anni a un pieno rigoglio del Sublime nell’area
anglosassone e in quella francese. Anche l’Italia sembra finalmente
avere contratto il contagio. E il dibattito già tende a straripare. Chissà
che da qui a qualche anno non si dovrà stilare un’apposita anagrafe,
come fu per la parola “struttura”, per chiarire gli usi e significati del
termine sublime. Ma non è mia intenzione concludere con una rassegna dell’odierna fortuna scientifica del Sublime.
Con grande finezza, Giuseppe Sertoli ha scritto: «Oggi, sublime è
la vista di uno scoiattolo, non quella delle Alpi. Sì, anche il passo degli
uccelli selvatici può essere sublime – perché essi pure sono, per noi
(come nel film di Altman Quintet), i segni della nostra fine. Ovunque
l’io si avvicini [...] al limite del proprio spegnimento, lì è il sublime» 22.
È uno scenario suggestivo, al cui fascino non mi nego; ma preferisco
rimanere sul versante di Burke.
Kantianamente il Sublime riscatta l’individuo dalla sua finitudine,
consentendogli di contenere l’illimitato. Ma già Leopardi venne a stigmatizzare questo infinito come vanità inabitabile, un mare nel quale
non si può che naufragare. È poi dolce questo naufragio? Certa poesia,
intimizzandosi sempre più, continuerà in effetti a cantare l’allegria di
naufragi. A evidenza, però, ciò è meramente consolatorio; soprattutto
è ineffettuale, inadeguato. Mentre il vero problema mi pare sia quello
di elaborare una strategia del naufragio; cioè la sopravvivenza nella
condizione di naufrago, la condizione di noi postmoderni. E qui il
Sublime può divenire uno strumento prezioso per ritagliare il limite
della nostra finitudine, nel senso di s-fondare l’infinito, cioè riconoscere che l’infinito non ha fondamento al di là del nostro orizzonte.
Così l’infinito si finitizza a misura umana perché è il nostro orizzonte, e
della stessa morte ci possiamo appropriare perché è la nostra morte 23.
* Pubblicato nel volume Da Longino a Longino. I luoghi del Sublime, Palermo, Aesthetica, 1987, pp. 149-59. Il volume raccoglieva i testi presentati nel relativo Seminario promosso
dal Centro Internazionale Studi di Estetica (Palermo 10-11 aprile 1987), che accompagnava
la pubblicazione di una nuova edizione italiana curata da Giovanni Lombardo di Pseudo
Longino, Il Sublime, Palermo, Aesthetica, 20073. Il testo è stato successivamente pubblicato
in tedesco col titolo Die Fata Morghana des Schönen, in D. Kamper & Ch. Wulf (a cura di),
Der Schein des Schönen, Göttingen, Steidl, 1989.
1
Cfr. Ch. Batteux, Les Beaux-Arts réduits au même principe (1746), trad. it. Le Belle
Arti ricondotte a unico principio, Palermo, Aesthetica, 20024; e A. G. Baumgarten, Æsthetica
(1750), trad. it. L’Estetica, Palermo, Aesthetica, 2000.
2 Il riferimento iniziale è naturalmente alle kantiane Beobachtungen über das Gefühl des
Schönen und Erhabenen (1764), trad. it. Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime,
in Id., Scritti precritici, Bari, Laterza, 1982; le citazioni che seguono sono tratte dalla Kritik
der Urteilskraft (1790), trad. it. Critica del giudizio, Bari, Laterza, 19635, rispettivamente
alle pp. 62, 81, 86.
32
3
Fr. Schelling, System des transzendentalen Idealismus (1800), trad. it. Sistema dell’idealismo trascendentale, Bari, Laterza, 19653, p. 294.
4
G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik (1836-38), trad. it. Estetica, Milano,
Feltrinelli, 1963, pp. 397 e 151.
5 Ivi., p. 18.
6
K. Fiedler, Aphorismen (1914), trad. it. Aforismi sull’arte, Milano, Tea, 1994, pp. 6
e 10.
7
Th. W. Adorno, Aesthetische Theorie (1970), trad. it. Teoria estetica, Torino, Einaudi,
2009, p. 369.
8
Pseudo Longino, Il Sublime, cit., p. 39.
9
Cfr. i due saggi di E. Mattioli, Il sublime e lo stile: suggestioni cinquecentesche, e di
G. Costa, Pietro Vettori, Ugolino Martelli e lo Pseudo Longino, nel volume Da Longino a
Longino. I luoghi del Sublime, cit.
10
E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and
Beautiful (1757), trad. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, Palermo, Aesthetica, 201210, p. 136.
11
Ivi, pp. 131-32.
12 Il riferimento impegna globalmente l’importantissimo dibattito teorico sul Brutto,
sviluppatosi fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento nell’area tedesca, per
il quale cfr. almeno: Fr. Schlegel, Über das Studium der griechischen Poesie (1797), trad. it.
Sullo studio della poesia greca, Milano, Mimesis, 2008; K. W. F. Solger, Erwin (1815) e Vorlesungen über Ästhetik (1829), trad. it. Lezioni di Estetica, Palermo, Aesthetica, 1995; G. W. F.
Hegel, cit.; Ch. H. Weisse, System der Ästhetik als Wissenschaft der Idee des Schönen (1830);
Fr. Th. Vischer, Ästhetik oder Wissenschaft des Schönen (1846); K. Ruge, Neue Vorschule der
Ästetik (1837); K. Fischer, Diotima. Die Idee des Schönen (1849); K. Rosenkranz, Ästhetik
des Hässlichen (1853), trad. it. Estetica del Brutto, Palermo, Aesthetica, 20043.
13
K. Rosenkranz, cit., p. 36.
14 V. Hugo, Préface de Cromwell (1827), trad. it. in M. Mazzocut-Mis, Mostro. L’anomalia e il deforme nella natura e nell’arte, Milano, Guerini, 2013, p 204.
15
Th. W. Adorno, cit., p. 264.
16
A. Banfi, Introduzione a Pseudo Longino, Sul Sublime, Milano, Minuziano, 1949; ora
in Id., Filosofia dell’arte, Roma, Editori Riuniti, 1962, pp. 161-71.
17 La classica liquidazione di Croce, che come è noto condanna il Sublime come concetto «pseudoestetico», rimonta all’Estetica (1902), Bari, Laterza, 195810, p. 96 ss.
18
N. Abbagnano, L’eclisse del “sublime”, “La Stampa” (Torino), 9 dicembre 1965.
19
H. Bloom, Agon (1982), trad. it. Agone, Milano, Spirali, 1985, p. 110.
20
Cfr. N. Hertz, Lecture de Longin, “Poétique”, 15 (1973), pp. 301-02.
21 Cfr. intanto le interessanti osservazioni di S. Givone, Il sublime e il tragico, negli atti
del convegno Il sublime: creazione e catastrofe nella poesia, Modena, Mucchi, 1985, pp. 55-63.
22
G. Sertoli, Edmund Burke e la parabola del sublime, “Aesthetica Preprint”, 13 (1986),
pp. 70-71.
33
Benedetto Croce e la storia dell’estetica
*
Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine, anche qui come altrove se ne avrebbe
una visione quanto mai chiara.
Aristotele, Politica, i, 2, 1252a
Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere
allo scopo attraverso un’analisi dello stesso.
Inavvertitamente “l’Uomo” si configura alla
loro mente come una æterna veritas, come
un’entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo
enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che
una testimonianza sull’uomo di un periodo
molto limitato. La mancanza di senso storico
è il difetto ereditario di tutti i filosofi.
Nietzsche, Umano, troppo umano, ii, 2
La perfezione di un filosofare sta (per quel
che mi vuol parere) nell’aver superato la forma provvisoria dell’astratta “teoria“, e nel
pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata.
Croce, Contributo alla critica di me stesso
* Pubblicato col titolo Una Storia per l’Estetica in “Aesthetica Preprint”, 19, marzo 1988.
Una vecchia questione
È una vecchia questione (ma diciamo subito: per nulla invecchiata) se l’estetica sia disciplina antica o moderna. Fu questione, come
si sa, vecchia già, agli inizi del Novecento, per un Benedetto Croce,
che con essa aprì la parte storica della sua Estetica, e che nondimeno
lo impegnò non poco nel corso di tutta la sua attività successiva 1. È
questione che anche in seguito non ha mancato d’impegnare attenzione ed energie variamente orientate. Ma, in definitiva, è questione che
non può non imporsi, a onta della sua patina di antico, anche a una
riflessione oggi pensosa della controversa natura (e dunque dei fondamenti, delle pratiche d’uso, ma diciamo pure un po’ enfaticamente:
dei “destini”) dell’estetica. È di tutta evidenza infatti che sotto quella
domanda, al di là della stessa domanda e di quella sua formulazione
storicamente determinata, giacciono temi di grosso peso, che mettono
in gioco questioni assolutamente centrali. Decidere se l’estetica sia disciplina antica o moderna comporta, com’è chiaro, prendere per esempio preventivamente partito intorno a cosa sia, come sia configurabile,
a quali condizioni sia possibile un discorso intorno alla stessa estetica.
Tutte questioni maiuscole e ben meritevoli di continua rimeditazione,
aggiornamento e approfondimento.
E però non sono le questioni nelle quali è impegnato, o meglio:
direttamente impegnato, il presente studio. Non, ripetiamo, per una
qualche forma di scetticismo o d’insensibilità verso di esse, che anche
noi non possiamo non riconoscere centralissime e cruciali. Ma perché
siamo, in questa occasione, interessati a un ordine di problemi, se
non disgiunto, certo di segno diverso. Riproponendo la questione se
l’estetica sia scienza antica o moderna non miriamo all’approdo di una
riconsiderazione dell’estetica, nel senso della sua definizione, di un
rigoroso statuto teorico che le pertenga, et similia. C’interessa invece
conseguire qualche lume intorno ai termini messi in gioco allorché si
evoca, talvolta sbrigativamente, quasi fosse un atto meccanicamente
scontato, un fatto evidente e aproblematico, la nozione di “storia dell’estetica”. E dunque affrontare interrogativi del tipo: secondo quali regole
si costituisce il discorso scientifico che formula la storia dell’estetica
come proprio oggetto, quali modelli teorici vi vengono impegnati, che
grado di attendibilità e di rigore vi si realizza. Interrogativi non solo
37
legittimi, ma mi pare non meno cruciali dei precedenti, giacché non
sembra dubitabile, già in prima approssimazione, che «ogni disciplina
è la propria stessa storia, variamente incrociata con la storia di altre
discipline, o il campo operativo che essa di volta in volta determina» 2;
o, detto in termini altrimenti specialistici: «l’Estetica giunge al riconoscimento della propria ontologia regionale attraverso la consapevolezza
di tutta la propria storia» 3.
Se dunque è la storia dell’estetica, in quanto tale, assunta cioè direttamente nella sua specifica valenza problematica, il tema in discussione, ben si vede come la questione se l’estetica sia scienza antica o
moderna non è faccenda pur importante, ma di riflesso, in termini di
repertorio disciplinare, di completezza di dottrina, o come una sorta di
analisi strategica incoativa alla trasparenza metodologica, alla purezza
teorica dell’estetica. Diventa, al contrario, tema squisitamente centrale,
immediatamente decisivo, da tematizzare in tutta la sua (come oggi
un po’ terroristicamente si dice) radicalità, perché si possa aprire un
qualunque discorso rigoroso intorno all’esistenza (le sue condizioni di
legittimità, il suo piano tematico e topologico, la cornice d’autonomia
e di produttività) della storia dell’estetica.
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, vale forse però la pena
d’interrogarsi se sia il caso – scusate il bisticcio – di fare un caso della
storia dell’estetica. Si potrebbe obiettare: la storia dell’estetica, come
che sia, nel bene e nel male, non costituisce una realtà di fatto sostanzialmente scontata, pacificata nella sua acquisizione, cioè un istituto
disciplinare stabilmente acquisito dalla comunità scientifica, entro la
quale oramai può vantare una solida e consolidata tradizione culturale?
Parrebbe sicuramente così. Nessuno potrebbe negare che non mancano libri intitolati “storia dell’estetica”, che all’insegna di questo nome
vengono condotte indagini foriere d’importanti risultati scientifici, che
esistono infine anche insegnamenti universitari (segnatamente in Italia,
oggi) esplicitamente intitolati a questa denominazione. La storia dell’estetica, insomma, può vantare oramai un corpus talmente consolidato,
in tutti i sensi consolidato, che si potrebbe dubitare sia necessario, o
addirittura sia opportuno, invocare ulteriori vagli critici. Cui prodest?
Si consenta una voce di perplessità: sospetto che le cose non stiano così, o almeno non stiano del tutto così. Non si tratta solo della
constatazione generale, e di principio, che nulla debba considerarsi
acquisito in via definitiva, sia talmente cristallizzato da ritenersi inemendabile, e dunque sconsigliare come superflue e inopportune ulteriori revisioni critiche. Il mio timore, squisitamente specifico, è invece
che l’acquisizione istituzionale della storia dell’estetica, indiscutibile in
via di fatto nella nostra congerie di cultura, possa non poggiare su di
un impianto metodologico corrispettivamente solido, possa cioè non
essere informata a un grado adeguato di consapevolezza storiografica.
Perché – francamente – ogni proclama di trionfalistico orgoglio di38
sciplinare può lenire, ma affatto rimuovere, il disagio che solleva, per
esempio, un noto “critico” quando afferma della storia dell’estetica: «È
una storia in cui la fluidità del concetto rende estremamente difficile
la determinazione di un filo conduttore univoco e quindi la trattazione
organica dell’argomento. I vari motivi si rivelano nella loro eterogeneità e interferiscono tra di loro in modo da non consentire la riduzione a
una tematica unica. Il che vale in gran parte a spiegare la mancanza di
opere di storia dell’estetica alle quali possa farsi ricorso per un sicuro
orientamento» 4. È facile, fin troppo facile rifiutare un punto di vista
siffatto, respingerlo in quanto giudizio genericissimo e superficiale; o
più puntualmente, per esempio, osservare che esso enfatizza difficoltà
e distorsioni probabilmente reali della storia dell’estetica, ma parimenti
presenti in ogni ambito di ricerca storiografica in quanto limite interno, e per fortuna mobilissimo, del discorso scientifico in quanto tale;
o che, in definitiva, codesta non è una critica ma una liquidazione brutale, tanto più discutibile in quanto sostanzialmente improduttiva. Ma
riconosciuto largamente tutto ciò, si può però negare che finanche una
critica così estrema – che abbiamo riportato come esemplare, proprio
per la sua negatività – non affondi lo stiletto in zone realmente molli
e decomposte, che sfiori nervature effettivamente deboli dell’assetto
disciplinare tuttora vigente nella storia dell’estetica?
È comunque un fatto che i problemi metodologici della storia dell’estetica sono un tema particolarmente disertato dagli studiosi. Del
resto, mentre non mancano studi dedicati ad autori, periodi o questioni
particolari, storie dell’estetica, generali e non, in qualche modo legittimate a portare questo nome (ma anche antologie e profili a finalità
didattiche, e sia in Italia che all’estero) non sono molto numerose, a
fronte almeno di lavori paralleli e similari, straripanti in altri ambiti
disciplinari. Ma c’è di più. Anche più impegnativi manuali e sillogi
di storia dell’estetica (ricordiamo per l’area italiana, in quanto particolarmente meritori, la pubblicazione collettiva Momenti e problemi
di storia dell’estetica e il più recente Trattato di estetica di Dufrenne e
Formaggio) completamente prescindono da una qualche considerazione
metodologica sull’oggetto della loro trattazione. Finanche la più nota e
celebrata Storia dell’estetica degli ultimi lustri, quella di Tatarkiewicz,
che dedica una diecina di pagine introduttive ai criteri che informano
l’opera, e dove pur non mancano osservazioni interessanti, non produce
chiarificazioni sufficienti. Insomma, può cominciare a costituire un problema già la mancata problematizzazione della storia dell’estetica nella
cultura contemporanea. E tale lacuna appare tanto più sorprendente in
quanto s’inscrive, per contro, in un contesto epistemico che negli ultimi
decenni ha investito profondamente sia il senso che i modi di fare storia,
e riguarda inoltre una costellazione scientifica, nell’ambito della quale,
per esempio riguardo alla storia della filosofia nella sua globalità, anche
in Italia da gran tempo è stato attivo e vivace un ampio dibattito 5.
39
Tuttavia, a ben considerare, questa situazione può essere molto meno sorprendente di quanto non appaia a prima vista. Probabilmente,
ciò è pianamente spiegabile soprattutto alla luce di due rilievi. Il primo
è tutto interno all’estetica, anzi alla stessa storia dell’estetica, cioè alle
vicende della costituzione moderna dell’estetica come scienza e al suo
controverso assetto disciplinare. Ora proprio quella sua costituzione
storica e la susseguente controversia sul suo assetto disciplinare, hanno
portato a privilegiare quasi esclusivamente l’aspetto teorico-speculativo,
piuttosto che il profilo teorico-storiografico della disciplina, finendo col
considerare la storia dell’estetica non un ambito di ricerca intrinsecamente dotato di una propria autonomia, bensì un supporto interno o
una integrazione radicante della teoria estetica. In tal modo si è determinato un sistema di attenzioni e di aspettanze scarsamente motivato,
e di conseguenza poco attrezzato, verso le ragioni epistemiche della
storia dell’estetica.
Il secondo motivo, parzialmente al primo connesso, è ancora più
trasparente, e porta un nome e cognome: Benedetto Croce. L’autore
a cui si deve tanto delle fortune novecentesche dell’estetica come disciplina filosofica, come si sa, è anche autore di una storia dell’estetica
giustamente famosa e che ha grandemente influito sulla storiografia
estetica contemporanea. Il volume Estetica di Benedetto Croce è infatti
un “classico” della scienza estetica ma ugualmente un “monumento”
della storia dell’estetica. Ed è un volume assolutamente organico e coerente, nel senso che le due parti in cui è suddiviso, “Teoria” e “Storia”,
costituiscono un insieme “potente“, proprio in quanto intrinsecamente
unitario e omogeneo. Non però equipollenti. La concezione crociana –
vedremo e preciseremo – tende sostanzialmente a svalutare la prospettiva storiografica, o meglio la svuota della sua pertinenza in quanto la
concepisce solo alla luce, in funzione della teoria. È il limite, del resto
e più in generale, di ogni teoria della storiografia filosofica d’ispirazione idealistica. Se non che il limite della storia dell’estetica crociana, in
quanto discendente da una unilateralità indubbiamente lineare, ma che
veniva tuttavia a colmare un grave vuoto culturale, oltre ovviamente che
possedere meriti intrinseci e tuttora apprezzabili, paradossalmente, è
divenuto ragione della grande fortuna di quel modello storiografico. La
forza davvero magnetica del modello storiografico crociano è dimostrata dal fatto che, malgrado numerose e violente ripulse della sua teoria
estetica, la correlata impostazione storiografica, specie nei suoi esiti maturi, tutto sommato, ha continuato, praticamente fino ai nostri giorni,
ad avere corso, o comunque a contare su forme di acquiescenza. Non,
naturalmente, che anche contro la storiografia filosofica crociana siano
mancate critiche, e talora severe. Ma quelle contestazioni o si riferivano,
comunque, alla concezione della storiografia crociana in generale, senza
dunque avanzare rilievi specifici apprezzabili per la storiografia estetica,
che non ne veniva di fatto direttamente inficiata, ma appena lambita 6;
40
oppure hanno prodotto circoscritti e limitati rilievi intorno ad alcuni
giudizi crociani, attraverso critiche per così dire “dal basso”, che soddisfatta l’esigenza contingente che le suscitava di emendare valutazioni
particolari, prescindeva dal mettere in questione la logica storiografica
che le aveva prodotte. Non è allora forse azzardato ritenere che la forza
e la persistenza, diciamo pure “congiunturale”, del modello crociano
ha finito col limitare, o addirittura inconsciamente inibire successivi
scandagli di metodo. Così la storia dell’estetica crociana, a ragione, è
entrata stabilmente nel patrimonio di ogni studioso di estetica come
una sorta di repertorio obbligato, un “classico” da compulsare immancabilmente, accogliendo o semmai “aggiornando” valutazioni parcellari, integrando o allargando le prospettive storiografiche con nuove
aperture di campo e tematizzazioni anche diversamente orientate, ma
sostanzialmente senza suscitare una problematizzazione organica dello
schema storiografico che l’ha generata, al quale dunque, tout malgré,
si tende col rimanere ancorati.
Per amor di paradosso, si potrebbe osservare che la persistente
predominanza della storiografia estetica crociana è un esito non crociano: al limite, è frutto di una situazione maturata contro gli auspici
dello stesso Benedetto Croce! Il quale, trent’anni dopo la pubblicazione della sua “Storia”, rivendicato che «procurai con ogni zelo ed
industria di richiamare le menti alla storia dell’Estetica», riteneva dover lamentare che «in questa parte gli effetti sono stati scarsi. Le mie
teorie, certamente, hanno avuto fortuna; le mie parole hanno molto
risonato e risuonano ancora molto; ma al mio cenno di guardare indietro, di legare conoscenza e conversazione con la lunga schiera dei
pensatori che nelle meditazioni e indagini sull’arte mi hanno preceduto, di amare e venerare quelli che più aiutarono all’avanzamento
delle idee, di seguire con simpatia gli sforzi da altri di essi tentati, se
anche non coronati di buon successo; a quel mio cenno nessuno si è
voltato, nessuno ha obbedito» 7. Insomma, la stagnazione che circonda
la storia dell’estetica, il disinteresse per i suoi modelli di costituzione,
la scarsa percezione dell’importanza che riveste la storiografia per le
problematiche estetiche nel loro complesso, questo sì, potrebbe dirsi,
è sicuramente uno stereotipo anticrociano!
Non vorrei essere equivocato. Ciò di cui avverto il disagio non è
la mancanza, dopo Croce, di studi di storia dell’estetica nella cultura
italiana. Tutt’altro! Testi alla mano, anche in questo campo l’Italia può
anzi vantare, a cospetto di altri ambiti disciplinari, e nel panorama internazionale, una sicura posizione di spicco, una fiorente tradizione.
Nessuno può coltivare dubbi sul fatto che almeno tre generazioni di
studiosi postcrociani hanno in questo campo prodotto lavori di grande
rilevanza scientifica. Citando a caso, da un elenco che impegnerebbe
un’apposita bibliografia numerosissima, rimanendo alle monografie e
letteralmente: exempli causa, si dovrebbe cominciare dagli studi di An41
ceschi sulle poetiche letterarie e di Formaggio sul fondamentale nesso
storiografico dell’hegeliana “morte dell’arte”, a quelli di Pareyson su
Kant e i grandi romantici tedeschi, di Morpurgo-Tagliabue sul Barocco
(e su tanto di altro, ma come dimenticarne L’esthétique contemporaine?) e di Assunto sull’estetica medievale e la neoclassica, di Dorfles
sull’estetica del mito; e poi gli studi giovanili di Vattimo su Aristotele
(e poi su Nietzsche) e di Eco sull’estetica medievale e di Barilli sulle poetiche, le letture kantiane di Garroni, le ricerche di Fanizza, gli
studi di Givone, le analisi sulla “dimensione utopica” di Zecchi, le
proposte a diverso scaglionamento storiografico di Perniola, i lavori
settecenteschi di Migliorini e quelli paralleli e non di Piselli, di Fubini sull’estetica musicale, quelli sulla poetica e la retorica di Mattioli,
di Vicentini su Pirandello, di (se posso citarmi) Russo su Freud, di
Scaramuzza sull’estetica del brutto, di Scolari sulle estetiche positivistiche, il profilo della Marcialis sulla “Querelle”; e, via via, di Ravera sui
posthegeliani, Bollino e Torrigiani su Batteux, di Modica su Diderot,
di Franzini su Leonardo, di Cometa sui grandi romantici, di Moretti
su Klages, per non dire del recupero storiografico di notevoli studiosi
“rimossi”, come è stato per Jochmann da parte di D’Angelo, o per Ast
da parte di Ravera, Vercellone e Griffero; e un inventario non meno
straripante andrebbe fatto per gli studi sul contemporaneo (a cominciare dalla diagnosi italiana di Rossi) 8. Sarebbe poi improbo registrare
la strabocchevole letteratura pubblicata su riviste specialistiche e non;
e un discorso a parte, infine, meriterebbero le numerose edizioni di
“classici” della storia dell’estetica, che vanno apparendo numerose negli
ultimi anni 9. E se si aggiunge la considerazione che, al di là di pur
quanto inequivocabilmente attestino numeri di elevatissimo esponente
e felicità di risultati, anche la ricerca estetica italiana di natura più
strettamente teorica è stata, per regola, sempre attenta e scrupolosa
del dato storiografico, non è proprio possibile dubitare che di storia
dell’estetica in Italia non abbiano difettato studi e studiosi. Il punto
dunque non è questo.
Il punto invece si pone proprio a partire, e in qualche misura in
ragione, di una piena maturità conseguita sul campo, della realtà di un
fervore rigoglioso di studi che spaziano pressoché in ogni segmento
storiografico e impegnano un po’ tutto lo scibile estetico. In breve:
per effetto della stessa crescita complessiva e oramai definitivamente
affermatasi della ricerca estetica in Italia. Questa situazione impone
nuove responsabilità ulteriori, che mi pare non possano non passare
anche attraverso una riconsiderazione del rapporto epistemologicamente corretto che deve intercorrere fra teoria e storia nel campo delle
problematiche estetiche. Non si tratta della, pur non biasimevole ma
astratta, esigenza di conseguire trasparenza di relazione fra le dimensioni nucleari, teorica e storica appunto, che, come quello della ricerca
filosofica in generale, articolano anche il campo della ricerca estetica.
42
Il fatto è che una ricerca storiografica non sufficientemente consapevole della propria vocazione scientifica, da un lato è impossibilitata
a esprimere appieno il proprio potenziale virtuale, d’altro rischia di
non essere in grado nemmeno di fornire motivi stimolanti alla stessa
speculazione.
Abbiamo esordito evocando la “vecchia questione” se l’estetica sia
scienza antica o moderna. Tale problema, com’è noto, si è specificatamente posto riguardo alla presunta “nascita” settecentesca dell’estetica.
Ed è problema che, pur se non pare riscuotere molta attenzione fra gli
studiosi odierni 10, riveste un interesse strettamente “attuale”; e intanto
è davvero esemplare per evidenziare la pericolosa situazione di equivoco in cui versa il nesso teoria-storia in estetica. Il discorso sulla “nascita
dell’estetica”, la controversia se l’estetica sia scienza antica o moderna,
è in realtà un intreccio molto meno banale o secondario di quanto non
possa sembrare a prima vista. O meglio, esso può sembrare che rivesta
una secondaria importanza per il piano della riflessione, che potrebbe
ritenerlo non determinante ai propri fini conoscitivi, e quindi, al limite,
espungerlo come di non stretta pertinenza al proprio piano di lavoro,
considerarlo quasi una incombenza fastidiosa, perché ineffettuale. Può
insomma ritenersi che la speculazione sia in grado di organizzare le
proprie strategie conoscitive a prescindere da questo tema, e comunque
esorcizzarlo di fatto, potendo, parrebbe indifferentemente, regolare e
riallineare le proprie formulazioni alla diversa risposta che potrà venir
data al tema. E però, anche se così fosse in sede teorica, in sede storiografica è pacifico che la “nascita” sia un grave problema, anzi un
problema assolutamente centrale della storia dell’estetica, in quanto,
sgravato il termine da incrostazioni metafisiche e da valenze emotive,
concretamente esso assume la funzione storiografica decisiva di terminus a quo, di un punto che è imprescindibile determinare, in quanto
solo a partire da esso diventa possibile costituire la realtà storiografica;
diventa insomma l’evento primario, periodizzante, che rende possibile
l’intera costruzione storiografica. Si profila allora nettamente, in tutta
la sua cogenza, in questa già rimarchevole divaricazione fra teoria e
storia, divaricazione che non può certo lasciarsi concettualmente insanata, il bisogno di una approfondita messa fuoco delle relazioni che
intercorrono fra le due dimensioni nucleari dell’estetica. E proprio a
vantaggio della disciplina nel suo insieme: di teoria e storia. Siamo
infatti così sicuri che questo tema, che sembra marginale, “appena”
di pertinenza strettamente storiografica, sia davvero irrilevante per la
stessa riflessione teorica?
Ai fini della chiarificazione propugnata, in questa disamina esplorativa abbiamo preferito condurre un’indagine preliminare, per così dire,
in medias res. Vale a dire di non affrontare direttamente una revisione
formale delle categorie storiografiche, ma di cominciare coll’esaminarle
43
nell’uso che di esse è stato concretamente realizzato, nel vivo cioè della
pratica storiografica. In questo primo approccio, dunque, la riconsiderazione epistemologica della storia dell’estetica si verrà qualificando
attraverso la critica di una sua esemplare proposta storiografica. Si è
infatti scelto come referente incoativo privilegiato l’opera di Benedetto Croce nel campo della storiografia estetica, e segnatamente la sua
“Storia“ del 1902, nella quale nel modo più rigoroso è stato esplicitato
e realizzato il, diciamo “primo”, modello crociano. La scelta è determinata da numerose ragioni, e per quanto già si è detto, in buona
parte ovvie.
Quella di Croce è l’unica, (non attardiamoci in “distinguo”, diciamo:) la più famosa storia dell’estetica, “unitaria” e “generale”, del nostro secolo 11. Non foss’altro per questo, essa s’impone come referente
primario e sicuramente “forte” di una analisi interessata alle regole di
costituzione della storia dell’estetica. Diversamente detto, la rilevanza
“attuale” della “Storia” crociana, anche in direzione di una revisione
metodologica, è quella stessa che ne fa un “classico” storiografico. A
condizione d’intendere il “classico” non, naturalmente, in modo retorico e vagamente umanistico, come metafisica immutabilità, ma piuttosto
dalla sua capacità di «evolvere (nel senso di muoversi) che non dalla
sua immutabilità. Infatti la sua onnitemporalità non risiede affatto in
un’eternità, ma nella sua possibilità di essere costantemente riattivato,
riattualizzato» 12; ossia ripensato e riformulato anche profondamente
in virtù degli elevati elementi d'intelligibilità che esso possiede.
Ma questa è la prima e più immediata ragione della scelta. Proporre una riconsiderazione epistemologica attraverso una riflessione sulle
categorie storiografiche che hanno sostanziato la “Storia” crociana, non
mira – non guasterà precisare – a rendere Croce una “testa di turco”,
sulla quale infierire impunemente, secondo certe pratiche non esaltanti,
di anticrocianesimo viscerale, alle quali abbiamo assistito in Italia in un
non lontanissimo passato 13. Le ragioni sono strettamente funzionale ai
fini e alla natura del presente saggio. Anzitutto, è a Croce, nella tradizione estetologica novecentesca, che risale essenzialmente la tendenza
a elaborare la storia dell’estetica in funzione speculativa, a considerarla
cioè come un momento interno della riflessione teorica, e quindi a praticare una storiografia, per intrinseca vocazione, altamente tributaria agli
interessi teorici. Segnatamente nella “Storia” crociana del 1902 questa
vocazione è esplicitata e resa operante con alto grado di coerenza, e in
quanto tale quindi consente di scrutare con la massima nettezza sia le
modalità di costituzione di questo congegno operativo sia, soprattutto,
i limiti storici, e dunque le conseguenze storiografiche, che discendono
da un pur implicito o inconsapevole mantenimento anche parziale di
quel modello, e più in generale di modelli siffatti, malgrado in apparenza diversissimi da quello crociano.
La seconda, e progressiva, ragione riposa nel fatto che, se a Croce
44
è riportabile il conio di quel modello storiografico (ma questa affermazione verrà precisata meglio in seguito), o comunque fu lui a riformularlo e realizzarlo con la più grande linearità, spregiudicatezza
ed efficacia, quel tipo d’impostazione storiografica, pur nel professato
distacco dalla speculazione crociana, e malgrado l’affermarsi di prospettive di ricerca sensibilmente diverse, meno dogmatiche e più prismaticamente aperte, non è tuttavia rinserrabile in un passato remoto,
ma si è imposto più o meno massicciamente negli studi successivi. A
ben vedere, anzi, l’impianto metodologico di fondo della storiografia
estetica crociana, o meglio alcuni elementi costitutivi, mai sono del
tutto usciti fuori corso, e tuttora sopravvivono, magari per leggerezza
o pigrizia, attraverso fossili metodologici, talvolta solo fastidiosi, ma
che talvolta minacciano d’inficiare o snaturare intenti intitolati a programmi e metodologie completamente diverse; e finiscono comunque
con l’appesantire di ombre inopportune questioni di rilevante interesse, teorico oltre che semplicemente storiografico. Per l’ovvia ragione
che dal solco tracciato da Croce a partire dal 1902 si è sviluppata la
tradizione estetologica italiana, la quale il disegno crociano ha accolto,
respinto o emendato (e probabilmente, variamente, un po’ tutto ciò
insieme), ma che con esso si è confrontato; e dunque esso rimane, in
positivo e/o in negativo il passaggio obbligato attraverso cui la nostra
stessa tradizione di studi va storicizzata e capita.
Del resto, mi pare che la cultura estetica italiana abbia maturato la
consapevolezza della ineluttabilità del confronto con questo “scomodo
antenato”, e acquisito sufficiente distacco per un approfondimento
spassionato dell’inesorcizzabile presenza crociana. Oggi nessuno può
dubitare che Croce è «un autore che è stato non solo importante in
senso assoluto, ma anche e soprattutto determinante nella delineazione
del nostro orizzonte culturale, magari non saputo, ma spesso ancora
operante anche nei casi apparentemente più improbabili. […] oggi,
non è più quasi-obbligatorio, finalmente, difendere o attaccare o censurare Croce. Il compito del tutto naturale è invece di “storicizzarlo”,
come si usa dire, o piuttosto di situarlo nella giusta costellazione di
problemi, in modo di capirlo meglio e, insieme a lui, di capire meglio
gli stessi problemi che attualmente ci occupano» 14. Il che poi rientra
nelle dinamiche di una logica culturale autentica, alla quale sarebbe
assurdo non partecipasse proprio il campo estetologico.
Vale appieno infatti, anche per Croce storico dell’estetica, quanto
un acutissimo storico dell’idealismo italiano osservava ai nostri giorni, facendo un bilancio generale dei complessi rapporti che la cultura
italiana è andata intrattenendo con l’opera crociana: «Per un verso,
infatti, il “sistema”, la “filosofia dello spirito” (e magari la “filosofia
delle quattro parole”), ossia le teorizzazioni scandite in schiere di ragionamenti dall’apparenza molto rigorosa – le formule, per intendersi,
che vanno così bene nei manuali, e nei “panorami”, e piacciono tanto
45
“ai professori” – erano entrate in crisi profonda ben prima degli anni
Venti […]. Per un altro verso, invece, un “metodo”, un modo di affrontare i problemi filosofici e di profilare la loro storia, era penetrato
a fondo in molteplici settori d’indagine. Impostazioni e conclusioni
avevano condizionato interlocutori e avversari. Non solo i dialoghi, ma
anche le polemiche più aspre avevano dovuto adottare un linguaggio e
accettare il terreno così dell’incontro come dello scontro. Perciò, dopo
la guerra […] dovunque, le parole di Croce continuarono a riemergere
di continuo, e liberarsene non fu un’operazione né breve né facile […].
Gramsci aveva ragione: di Croce la cultura e la vita italiana dovevano
“liberarsi”, ma non “rifiutandolo”, bensì facendone tesoro, appropriandosi le sue conquiste, utilizzando le sue indicazioni, ma per mutare cose
e idee attraverso un rigoroso giudizio storico del suo significato e della
sua opera. […] era sul terreno delle ricerche particolari che la sfida del
vecchio pensatore consentiva di mettere in evidenza limiti, e di aprire
la strada a nuove impostazioni». 15
A questo riguardo, una bella pagina crociana scritta nel settembre
del 1909 appare singolarmente stimolante per la critica nei suoi stessi
confronti: «Essendo io giunto alla filosofia dai problemi particolari
[…] ho una grande predilezione per le critiche particolari. Cioè: vorrei
che i miei libri, in cui mi sono studiato di ridurre a unità una folla di
questioni particolari, dessero luogo a un riesame particolare di queste,
per confermare o miei resultati o andare oltre essi» 16.
Privilegiare la lettura di Croce, e appunto le “questioni particolari”
che intessono la sua “Storia”, per una sorta di test case metodologico,
non solo dunque offre all’economia del presente lavoro il notevole vantaggio di concentrare l’indagine su di un referente omogeneo e universalmente noto, evitando il pericolo di una polverizzazione della ricerca,
ma offre anche la chance di criticarlo crocianamente, storicizzarlo per
procedere oltre di lui. Per giungere a tanto, e realizzare condizioni ottimali per la migliore decantazione delle ragioni della storia dell’estetica,
vale la pena allora di scontare il rischio di fare di Croce una “comoda
testa di turco”.
1 Croce 1902, p. 169 : «È stato parecchie volte oggetto di controversia se l’Estetica sia
da considerare scienza antica o moderna; venuta al mondo per la prima volta nel secolo
decimottavo o formatasi già nel mondo greco-romano». Com’è noto, e come vedremo, sulla
questione Croce tornò numerose volte nei suoi lavori successivi. Ricordo appena che Una
vecchia quistione è anche titolo di una nota giovanile di Croce (1886) dedicata ai rapporti
fra arte e morale.
2 Garroni 1986, p. 15.
3 Formaggio 1982, p. 288.
4 Spirito 1958, p. 227.
5
Com’è noto, nel Novecento il dibattito sulla storiografia filosofica è stato in Italia molto
attivo e vivace, ed ha conosciuto due fasi. La prima si può fare iniziare con la famosa prolusione palermitana del 10 gennaio 1907, e testi coevi e successivi, di Gentile (1907, 1907b,
46
1916) e della scuola attualistica (per la quale ricordiamo almeno anche Fazio Allmayer: 1920,
1952; e sulla quale rimandiamo agli studi di Rossi 1956, Giganti 1959, Garin 1966, Bellezza
1968, Negri 1972, Franchini 1980), e vide numerosi interventi di Croce (1909, 1917, 1938b,
1940; e sui quali rimandiamo, oltre ai già citati Rossi 1956 e Garin 1966, ad Antoni 1955,
Raggiunti 1955, Bausola 1965, Corsano 1965, Capanna 1966, Franchini 1966, Radetti 1967,
Sasso 1967 1976, Vitiello 1968, Negri 1982, Tessitore 1985), gli indirizzi storiografici espressi
dalla scuola neoscolastica (per i quali rimandiamo al bilancio conclusivo di Olgiati 1944, e alla
disamina sopra ricordata di Rossi 1956), e l’apporto di studiosi pur isolati come Banfi 1933,
Galli 1933, Guzzo 1938. La seconda fase si attivò negli anni ’50 e fu caratterizzata, da un
lato, dalla revisione dei modelli storiografici precedenti (o, come scrisse Preti, 1956, p. 359:
«fare i conti con quella che è stata la metodologia dei nostri padri e maestri»), e dall’apertura
verso nuove prospettive storiografiche. In quegli anni vi furono numerose iniziative-pilota:
una raccolta di saggi curata da Banfi (Problemi di storiografia filosofica, 1951) con contributi
di Banfi, Dal Pra, Preti e Rossi; un fascicolo dell’“Archivio di filosofia” dedicato nel 1954 da
Castelli a La filosofia della storia della filosofia, con testi di Castelli, Dempf, De Corte, Del
Noce, Garin, Gouhier, Gueroult, Gusdorf, Husserl, Lombardi, Valori, Wagner (per altro,
“replicato” vent’anni anni dopo col volume La filosofia della storia della filosofia. I suoi nuovi
aspetti, con contributi di Castelli, Filiasi Carcano, Verra, Bianco, Dorfles, Del Noce, Casini,
Olivetti, Vattimo, Derossi, Antiseri, Carsetti); una pubblicazione collettanea (Verità e storia.
Un dibattito sul metodo della storia della filosofia, 1956) con contributi di Abbagnano, Antoni,
Calogero, Cantoni, Frondizi, Geymonat, Garin, Lombardi, Mondolfo, Paci e Spirito, che
raccolse i testi di un ciclo di conferenze promosso dalla Società filosofica romana nell’anno
accademico 1953-54 per iniziativa di Lombardi; un convegno di studi sulle categorie fondamentali della storiografia filosofica, tenutosi il 29-30 aprile 1956 presso l’Università di Firenze
con relazioni di Garin, Dal Pra, Paci, ed interventi di Preti, Bobbio, Facchi, Rossi e Vasa
(pubblicati nelle annate 1956 e 1957 della “Rivista critica di storia della filosofia”), Corsano,
Luporini, Oggioni, Viano, Alessio, Insolera; ed infine nel “Giornale critico della filosofia
italiana” (nel quale, per altro, Spirito 1956 aveva pubblicato in parallelo il suo interessante e
provocatorio saggio elaborato in occasione del ricordato dibattito romano su Verità e storia)
apparve un importante articolo polemico di Garin (1959) a cui fecero seguito numerosissimi
interventi (di Saitta, Guzzo, Corsano, Piovani, Semerari, Bontadini, Paci, Lugarini, Mathieu,
Verra, pubblicati nella stessa annata della Rivista, e di Preti, Vasa, Morpurgo-Tagliabue, Franchini, l’anno successivo) e una replica dello stesso Garin; a queste iniziative si accompagnò
un’ulteriore e numerosa saggistica, fra la quale ricordiamo almeno Pareyson (1952), Lombardi
(1953) e Massolo (1955), oltre che la pur precedente ma significativa traduzione italiana del
noto saggio di Hartmann (1943). [Sul convegno fiorentino del ’56 cfr. l’interessante nota stesa
a caldo da Morpurgo-Tagliabue (1956, pp. 319-34) e una curiosa testimonianza di Faucci
(1981, p. 255: «per la storia dei fatti: a porte chiuse»), mentre molto significativa, sia su tale
convegno che più in generale sul movimento del “razionalismo critico” che lo promosse, è
l’autotestimonianza che si legge ora in Dal Pra 1985, pp. 35-92; sulla storiografia filosofica
italiana postidealistica rimando a Mathieu 1978, Tessitore 1985, e alla nota centrata sugli
anni ‘50 della Del Torre 1984, pp. 701-17.] Negli anni successivi non sono mancati ulteriori
contributi (per esempio: Antoni 1964, Gentile 1964, Piovani 1965), ma, in un più articolato
e disteso clima culturale (una prova, per esempio, ne è stato il xxv congresso nazionale di
filosofia promosso a Pavia nel 1975 dalla Società filosofica italiana, e dedicato proprio a Filosofia e Storia della Filosofia, e di cui segnaliamo particolarmente le relazioni introduttive di
Mathieu 1975, Alfieri 1975 e Barone 1975), l’attenzione si è decisamente andata spostando
verso la stessa storia della storiografia filosofica con interventi d’interesse specifico (per esempio: Del Torre 1976, Malusa 1977, Rizzo Celona 1982), opere collettanee di vasto impegno
(come quella promossa da Santinello 1979-81), e nuove messe a punto metodologiche (come,
per esempio, quelle condotte nel Colloquio internazionale “Problemi e metodi per una storia
della storiografia filosofica”, tenutosi a Padova nei giorni 22-23 ottobre 1981, con relazioni di
Dal Pra, Garin, Braun, Geldsetzer e Santinello, pubblicate in volume l’anno successivo col
titolo La storiografia filosofica e la sua storia).
6 Per esempio Garin (1956, p. 207), in un importante intervento dedicato a una critica
serrata della utilizzazione idealistica della categoria della “unità“ nella storiografia filosofica,
ha pure affermato: «Quasi esemplare è in proposito la “storia dell’estetica” del Croce, in cui,
assunto coerentemente il “concetto che si ha [che lo storico ha] di questa scienza... come
misura o termine di paragone”, se ne inferisce che una storia dell’estetica non può cominciare
prima del secolo xviii, e che, per esempio, “le dottrine del Medioevo... hanno valore piuttosto
47
per la storia della cultura”. Né è difficile trasferire l’argomento a tutta la filosofia in genere».
Ora anche un tale rilevo, pur puntuale ed importante per la storiografia estetica, sia per il
suo carattere di esemplificazione contingente, sia per il contesto, la sede e l’occasione che
l’hanno motivato (cfr. la precedente n. 5) non fu tale da esercitare conseguenze avvertibili.
7 Croce 1933, pp. 104-05. Mi pare che un po’ troppo estensivamente Contini (1966, p. 32)
riferisca questa lamentazione al «crocianesimo corrente», che «era asserzione ed applicazione
di tesi, quasi di verità piovute dal cielo, ancora sprovviste naturalmente delle necessarie implicazioni, ma soprattutto affermate fuori e sopra la storia». La lamentazione crociana sembra
invece più direttamente indirizzata alla condizione presente (e futura!) degli studi italiani di
estetica. Ciò appare confermato da un passo analogo, ed ancora più esplicito, scritto negli
stessi anni da Croce (1933a, p. 58), nel contesto di una polemica con Lionello Venturi: «Conforme a quel che altre volte ho scritto e predicato, vorrei che alcuno, invece d’inventare nuove
Estetiche e Filosofie dell’arte, come tuttodì vediamo, sterilissime e inutilissime, avesse il buon
proposito d’imparare e studiare sul serio l’Estetica, e, perciò, anzitutto, la storia dell’Estetica,
della quale io rimango, non so perché, fra i teorici, l’unico cultore».
8
Il presente elenco, ripeto, è meramente esemplificativo e non ha nessun intento di
organicità e di completezza; comunque, per le opere-campione alle quali si allude cfr.: Anceschi 1936 1972; Formaggio 1962; Pareyson 1950 1968 1974; Morpurgo-Tagliabue 1960 1987;
Assunto 1961 1967; Dorfles 1967; Vattimo 1961 1974; Eco 1956 1959; Barilli 1969; Garroni
1976 1984; Fanizza 1986 1986a 1987; Givone 1974 1978; Zecchi 1984; Perniola 1971 1980;
Migliorini 1966 1974 1986; Piselli 1969 1974 1986; Fubini 1964; Mattioli 1983; Vicentini
1970; Russo 1983; Scaramuzza 1986; Scolari 1984; Marcialis 1970; Ravera 1978; Bollino 1976;
Torrigiani 1984; Modica 1987; Franzini 1987; Cometa 1984; Moretti, 1985; D’Angelo 1985;
Ravera-Vercellone-Griffero 1987; Rossi 1976.
9
Anche qui, senza nessuna illusione di completezza, cfr.: Batteux 1746 (a c. di E. Migliorini), 1748 (a c. di F. Bollino); Baumgarten 1735 (a c. di P. Pimpinella e S. Tedesco;
Bettinelli 1769 (a c. di A. Serra); Brunetière 1890 (a c. di P. Bagni); Burke 1757 (a c. di G.
Sertoli e G. Miglietta); Coleridge 1816 (a c. di F. Nasi); Combarieu 1907 (a c. di D. Iotti);
Dessoir 1906 (a c. di L. Perrucchi e G. Scaramuzza); Diderot 1751 (a c. di F. Bollino, a c.
di E. Franzini); Gracián 1648; Hennequin 1888 (a c. di G. Ghini); Hölderlin (a c. di R.
Ruschi); Hutcheson 1725 (a c. di E. Migliorini); Laugier 1753 (a c. di V. Ugo); Pseudo Longino (a c. di G. Lombardo); Rosenkranz 1853 (a c. di S. Barbera); Schleiermacher 1919 (a
c. di P. D’Angelo); Schelling 1802-03 (a c. di A. Klein); Spencer 1852-57 (a c. di D. Drudi);
Wackenroder (a c. di E. Fubini).
10
Un’eccezione sono il recente articolo di Modica 1984 e le considerazioni ad hoc di
Garroni 1986, part. p. 202 ss.
11 È lecito non condividere, ma non si può non prendere atto, per esempio, di un autorevole giudizio come questo di Wellek 1955, p. 279: «Una storia dell’estetica che, mentre è
incentrata sui precursori delle idee di Croce, è tuttavia la migliore esistente».
12 Châtelet 1976, p. 38.
13 In un denso saggio di Contini (1966, p. 31), che l’autore dichiara steso a caldo in
una “circostanza crociana“ nel 1951, si dà una calibratissima testimonianza, e valutazione
insieme, del clima di quegli anni: «Riuscire postcrociani senza essere anticrociani fu lo sforzo
di quegli anni, che non è forse immeritevole di essere ricordato tra coetanei abbandonati a
un anticrocianesimo rigorosamente postumo e juniores fruenti di alcuni risultati postcrociani
quando ormai erano trapassati in moda, senza loro sudore».
14 Garroni 1982, pp. ix-xi.
15 Garin 1985, pp. 19-21.
16 Cit. ivi, p. 22.
48
Una storia sui generis
Il 12 ottobre del 1899 Giovanni Gentile, scrivendo a Benedetto
Croce che da circa un anno era intensamente impegnato in studi di
estetica, augurava e profetizzava «pel frutto che ne uscirà, e per le
utilissime discussioni che ne potranno derivare in Italia» 1. In effetti,
quando nell’aprile del 1902 comparve l’Estetica l’avvenimento suscitò
grande interesse. Testimoniato, fra lo stesso anno e quelli successivi, in Italia e all’estero, in importanti sedi di stampa quotidiana e in
riviste scientifiche, da non meno di 35 recensioni, molte delle quali
stese da studiosi di primo piano, che hanno sfidato l’oblio dei posteri:
da Vossler a Gentile, da Lalo a Lombardo Radice, da Spingarn ad
Aliotta, da Santayana a Cesareo 2. A fronte della rilevanza, subito e
comunque, riconosciuta alla prima parte (“Teoria”) dell’opera, la seconda parte (“Storia”) passò però quasi inosservata. E la cosa in fondo
non stupisce. La comparsa di una teoria estetica, di sicuro spicco e
originalità, come era indiscutibile fosse quella crociana, non poteva
non fare aggio su una trattazione storiografica che a essa si accompagnava. Eppure, anche questa seconda parte dell’Estetica non meritava
la scarsa attenzione che ci fu al suo apparire, e che è continuata nei
decenni successivi 3.
Vero è che da una cinquantina d’anni, a partire da Zimmermann
(1858), autore della «prima storia generale dell’Estetica, degna del
nome» 4, non erano mancate storie dell’estetica; e vero è che Croce
dichiarando per esempio, con ammirevole serietà, di avere incluso in
bibliografia, per comodità dei lettori, anche titoli che non aveva potuto
consultare 5, poteva dare l’impressione di un lavoro alquanto sbrigativo, o senz’altro di seconda mano. Al riguardo, anzi, la stessa orgogliosa
rivendicazione dell’autore sul carattere di novità della sua trattazione («Una storia generale dell’Estetica, dal punto di vista rigoroso del
principio dell’espressione, non è stata, prima d’ora, tentata» 6) poteva
indurre a giudicarla un profilo troppo personalizzato, e dunque a sottovalutarne i meriti. Ma non è meno vero che erano già passati dieci
anni dall’ultima storia dell’estetica di Bosanquet (1892) e quasi venti da
quella di Menéndez Pelayo (1883); non è meno vero che questa “Storia” presentava, a confronto della tradizione storiografica precedente,
spiccati e indiscutibili caratteri di novità; per non dire, infine, che certi
49
meriti storiografici della fatica crociana, quali anzitutto la scoperta e
rivalutazione dei teorici italiani sei-settecenteschi, erano patenti 7, e ben
avrebbero meritato il calore almeno dei recensori italiani 8.
Fra questi tanti motivi di novità, uno balza subito agli occhi. Su di
esso attira l’attenzione il fatto che, in quest’opera, la trattazione storica segue e non precede quella teorica. È un fatto che attira, perché
i precedenti muovevano in senso perfettamente contrario. Già i grandi filosofi tedeschi avevano collocato all’inizio della loro trattazione il
confronto con i loro predecessori: così aveva fatto Schleiermacher, così
Solger, così Hegel. Ma soprattutto, il primo storico della disciplina,
quello Zimmermann tanto apprezzato dallo stesso Croce, che fu per lui
e rimane anche per noi un punto preciso di riferimento, aveva tenuto a
ben distinguere storia e teoria, pubblicando in due libri distinti il suo
dittico: prima, la Geschichte, e solo anni dopo, l’Allgemeine Ästhetik 9;
e similmente avevano fatto Schasler e Hartmann. La posposizione che
effettua Croce, della “Storia” alla “Teoria”, non era dunque in linea
con la tradizione degli studi di estetica, ma costituisce un episodio
pienamente anomalo. È dunque un preciso indizio che vale la pena
approfondire. Ma indizio di che cosa?
Ora, il frontespizio dell’Estetica recita: «i. Teoria. ii. Storia.» 10. E il
volume si apre con la frase: «Questo volume è composto di una parte
teorica e di una parte storica, ossia di due libri indipendenti, ma destinati ad aiutarsi a vicenda» 11. Inequivocabilmente, dunque, un’opera
composta da due parti distinte, anzi “indipendenti”, anche se ovviamente correlate a uno scopo comune. Ma questa limpida presentazione
dell’opera viene subito resa variamente problematica, perché caratterizzata via via dall’autore in modi sconcertanti.
Poco più avanti, infatti, nella medesima “Avvertenza”, si precisa:
«[…] se il tentativo teorico fatto da lui [cioè dallo stesso Croce] e,
meglio ancora, l’esposizione storica con la quale l’ha accompagnato,
gioveranno ad acquistare amici a tali studii, spianando ostacoli ed indicando vie da percorrere; […]» 12. A una lettura frettolosa, potrebbe
sembrare non solo che le due parti posseggano uguale dignità scientifica e autonomia reciproca, ma addirittura che la seconda debba servire lo scopo animatore del volume “meglio ancora” della prima; ma
sarebbe conclusione precipitosa. Desta infatti perplessità, e dunque è
saliente, la dichiarazione che immediatamente segue, secondo la quale
la “Storia” «ha accompagnato» la “Teoria”. Se si sottolinea la rilevanza
specifica della “Storia” per i fini generali perseguiti dal volume, perché
si dichiara, in che senso si dichiara che essa “accompagna” la prima?
Non è banale la spiegazione che la imputi a un modo di dire impreciso, o magari a una contingenza editoriale? O altrimenti, se la “Storia”
accompagna davvero, in senso forte e letterale, la “Teoria”, può concepirsi che tale trattazione possegga autonomia scientifica, si muova
cioè entro una propria orbita metodologica, rigorosamente intrinseca
50
al proprio oggetto, e non perché così contrassegnata dall’esterno, semplicemente per una ripartizione meccanica della materia? Perplessità,
come si vede, non di scarso peso, e anzi decisive per qualificare la
“Storia” crociana. Che dunque consigliano di prendere seriamente in
considerazione l’ipotesi che le due parti di cui si compone l’Estetica
non costituiscano un effettivo, paritetico tandem. In realtà – andremo
verificando – il testo, al di là della sua pur esibita distinzione materiale, costituisce un continuum molto stringente, in cui non esiste
possibilità di profili eteronomi anche se coordinati di ricerca; esso è
insomma, al contrario, un unicum serratissimo, nel quale la “Storia”
in tanto “accompagna” in quanto si pone esclusivamente in funzione
della “Teoria”.
Questa interpretazione viene confortata da numerosi elementi testuali altamente probatori. Entriamo subito nel cuore della questione,
leggendo quanto scritto ad apertura dell’“Appendice bibliografica”: «La
bibliografia della parte teorica è, com’è facile intendere, la stessa parte
storica del nostro volume» 13. È dichiarazione sorprendente. Riesce infatti forte ammettere che la storia di una disciplina possa costituire la
bibliografia della sua teoria. Riesce forte, beninteso, se assegniamo un
qualche significato di peculiarità metodologica alla funzione storiografica. Laddove, l’indicazione crociana diventa molto più piana nel caso
in cui la dominante del lavoro filosofico non sia informata a soddisfare
questa funzione. Se è in gioco una ricerca di tipo puramente teorico,
è pacifico vi sia l’affermazione di una istanza scientifica diversamente
orientata, e pienamente legittimata a operare una strutturazione dei materiali storiografici adeguata alle sue esigenze. Certo, una teoria si radica
e matura all’interno della propria tradizione disciplinare, a cospetto della propria storia; e però la teoria, in linea di principio, ha tutto il diritto
di attingere liberamente a tale tradizione: dove, quando e come vuole.
In questo contesto, nel contesto d’ipotesi di una teoria e non di una
storia, un’affermazione come quella crociana può diventare del tutto
pacifica. Perché, mentre non è accettabile che la storia di una disciplina
costituisca la bibliografia della teoria, cioè che la funzione storiografica
sia, per così dire, in funzione della funzione teorica, in quanto entrambe
le funzioni sono in realtà dotate di un rango epistemico equipollente e
non gerarchico, non fa invece problema ammettere un uso discrezionale
della tradizione storiografica, fino al punto che – è opportuno precisare
– non “la” ma “una”, storia di una disciplina costituisca appena, non
“la” ma “una”, bibliografia, non “della” ma “di una”, teoria.
A queste condizioni può non scandalizzare neanche la confessione
crociana, riportata sopra, che la bibliografia della sua “Storia” includa
«opere che non gli è stato possibile avere tra mano», non essendo
strettamente indispensabile, al lavoro teorico, oltre alla consapevolezza
storica dei problemi che indaga, anche una conoscenza storiograficamente esaustiva della letteratura disciplinare. Anzi, la stessa consape51
volezza storica dei problemi che il teorico studia si articola, di solito,
secondo continui e personali attraversamenti del piano storiografico,
corrispondenti alle particolari esigenze della ricerca, la quale si definisce attraverso preferenze e rimozioni, minute focalizzazioni e scivolamenti prospettici, elezione di segmenti temporali e classificazione
promozionale di consentaneità speculativa, secondo insomma un registro storiografico strettamente personale, la cui validità non è configurabile in termini storiografici, nei cui confronti mantiene unicamente
il carattere di esortazione, suggerimento o consiglio. Come Croce, per
altro, a conclusione dell’appendice bibliografica della parte teorica del
volume non manca di fare, riguardo alle sue scelte di lettura 14. Ma
se ciò è vero, lo è, appunto, solo nel riconoscimento che la “Storia”,
nell’Estetica di Croce, non persegue finalità conoscitive a dominante
storiografica, bensì compiti di servizio teorico o, come si diceva un
tempo, ancillari della teoria crociana. Questo rilievo però impone la
domanda se i modelli storiografici consequenti dal tipo d’interesse che
muove la ricerca crociana siano tali da assicurare sufficienti garanzie
di correttezza scientifica alla sua trattazione storica.
La cogenza del quesito viene rafforzata da ulteriori elementi testuali. Per esempio, da quanto si legge poco più avanti, nell’“Appendice”
della parte storica: «Nella parte storica, pure evitando il più possibile
le polemiche dirette, ha cercato [lo stesso Croce] di condurre l’esposizione in modo che questa implicasse sempre una critica delle vedute
diverse od avverse» 15. Tanto, non può che accrescere le perplessità.
Come può, una critica storica, ammettere «vedute diverse», condurre
“polemiche indirette”, riconoscere posizioni «avverse»? Chiediamoci:
queste impegnative asserzioni sono compatibili con un criterio genuinamente storiografico? E, in ogni caso, a quale criterio sono esse
riportabili? In altre parole, qual è il criterio che informa la “Storia”
crociana? Ma prima di affrontare questo tema impegnativo, registriamo
altri elementi di riflessione.
Soffermiamoci un momento, ancora nella sezione dell’“Appendice”
relativa alla parte storica, a osservare la posizione che Croce assume
nel giudicare la storiografia che l’aveva preceduto. Si è detto dell’apprezzamento complessivo dell’opera di Zimmermann, «ragguardevole
per la solidità delle ricerche e la lucidezza dell’esposizione». Più interessante però è ponderare quali sono le ragioni dei limiti che le vengono attribuiti. Questi sono sì «la trascuranza di tutto il movimento estetico al di fuori del greco-latino e del tedesco», ma il difetto più grave
viene imputato all’essere «condotta dal punto di vista herbartiano, […]
punto di vista per noi erroneo» 16. I “gravi difetti” della “Storia” di
Zimmermann non sono dunque di avere assunto “un punto di vista”,
con l’inevitabile pericolo delle deformazioni prospettiche che ciò comporta, ma che il punto di vista da lui adottato, in quanto difforme da
quello crociano, è “erroneo”. Dello stesso tenore, anche se molto più
52
limitativo, è il giudizio di Croce sulla Storia critica di Schasler. Ma,
anche qui, non è in discussione il fatto che «l’autore concepisce la
sua storia come preparazione per la teoria: “per guadagnare, cioè, un
altissimo principio per la costruzione di un nuovo sistema”»; essa è sì
«meno solida e più compilatoria» di quella di Zimmermann, ma ciò
che soprattutto le nuoce è di essere «condotta dal punto di vista della
metafisica hegeliana» 17. Il dissenso, come si vede, s’impone essenzialmente in termini di contrapposizione fra “punti di vista”, tra fronti
teorici contrapposti. Talché non stupisce che l’Historia di Menéndez
Pelayo, che pure presenta «buone trattazioni di argomenti tralasciati di
solito nelle altre storie», soffra «dell’incertezza del punto di vista teorico dell’autore» 18. O, parimenti, l’appunto che il libro di Bosanquet,
benché «sobrio e ben ordinato lavoro d’insieme», sia tuttavia «condotto da un punto di vista eclettico» 19. Così tutta questa disamina, invece
della prevedibile critica dei modelli storiografici precedenti, della loro
capacità euristica e applicazione d’uso, perviene solo a propiziare un
proprio “punto di vista”, ossia la trionfalistica conclusione: «Una storia
generale dell’Estetica, dal punto di vista rigoroso del principio dell’espressione, non è stata, prima d’ora, tentata» 20.
È sicuramente importante, è stato sicuramente importante, per la
ricerca estetica, in genere per la cultura umanistica del nostro secolo,
una “storia generale dell’Estetica, dal punto di vista rigoroso del principio dell’espressione”, come questa crociana. Ciò su cui è lecito coltivare dubbi è tuttavia l’applicabilità, in senso stretto, a essa, della parola
storia. Ed è lecito dubitarne proprio nella misura in cui viene acclarato
che la “Storia” crociana è duplicemente tributaria alla “Teoria”: sia in
quanto informata rigidamente a un “punto di vista” di natura teorica,
sia in quanto tale “punto di vista” mira alla promozione di una teoria
estetica particolare. Similmente, e simmetricamente, a quanto Croce
osservava per la storia dell’estetica di Schasler («preparazione per la
teoria»), la sua ci si viene sempre più rivelando come una sorta di
“dimostrazione inverante”, una curiosa intensificazione, propugnata
per via storiografica, della sua teoria. Ciò è pienamente documentabile
anche sulla scorta di fonti autobiografiche ed esterne al testo, di grande interesse, anzi, perché ci permettono di osservare come in vitro la
genesi dell’Estetica e gli intenti di questa crociana “Storia” sui generis.
Fino a non molti anni fa, documenti significativi intorno all’esordio
di Croce nel campo dell’estetica, e dunque utilizzabili per approfondire
le ragioni della “Storia” sulle quali indaghiamo, erano ben pochi. Di
sicuro, anzi, ci si poteva riferire a quel tanto detto nell’“Avvertenza” posta in apertura delle Tesi fondamentali, dove è scritto: «Questa
Memoria è destinata a formar la prima parte di un volume, che nella
seconda parte conterrà la Storia dell’Estetica. In questa prima parte,
teorica, mi sono perciò astenuto da qualsiasi citazione di scrittori, aven53
do preferito di presentare e discutere le varie opinioni e tendenze in
forma affatto impersonale» 21. A ciò poteva accostarsi qualche accenno
presente nel più tardo scritto autobiografico Contributo alla critica di
me stesso, nel quale si legge: «All’abbozzo della parte teorica sarebbe
dovuta seguire la parte storica del libro; ma […] ripigliai e condussi a
termine nel settembre [dell’anno successivo: 1901] il volume di teoria
e storia dell’Estetica, che nel novembre fu inviato in tipografia e venne
alla luce nell’aprile del 1902» 22. Notizie, come si vede, che limitandosi
appena a confermare che già al momento della pubblicazione delle
Tesi (maggio 1900) era previsto che la futura Estetica si componesse di
due parti, una teorica e una storica, e che ci fu un ritardo di carattere
esistenziale nella stesura della parte storica, la quale venne composta
in parallelo con la revisione di quella teorica, non illuminano molto.
L’unico elemento apprezzabile per la nostra investigazione, semmai, è
che la “Storia” venne comunque materialmente stesa dopo la “Teoria”.
Laddove oggi, che possiamo leggere le lettere scritte da Croce a
Gentile a partire dal 1896, anno iniziale del loro lungo e travagliato
sodalizio, su questo esordio abbiamo conseguito sufficiente chiarezza 23. Queste lettere, che «costituiscono senza dubbio la più rilevante
fonte inedita che sia stata pubblicata dalla morte di Croce per quanto
concerne la sua attività fino al 1900» 24, sono infatti di straordinario
interesse. In quanto offrono una massa nutritissima di dati, specificatamente preziosi per conoscere obiettivamente e “dal di dentro”, proprio
intus et in cute, le motivazione e le modalità dell’evoluzione di Croce,
dalla fase giovanile della ricerca storico-erudita e letteraria, e dei primi
saggi teorici, al dilatarsi verso le problematiche filosofiche, compiutosi
proprio attraverso un impegno sistematico e intensissimo nella ricerca estetica. Qui troviamo anche importanti elementi di chiarificazione
intorno alla sua “Storia”.
Intanto è bene fare un passo indietro, e cominciare col precisare che
l’attrazione per l’estetica compare nella biografia intellettuale di Croce
in epoca molto precoce. Già nel “giovane Croce”, men che ventenne,
la curiosità per le problematiche estetiche è infatti rilevabile, e rilevante,
all’interno degli studi storico-eruditi iniziali 25. Di singolare interesse
è infatti una breve recensione del 1886 ai Saggi di Critica di Antonio
Tari, pubblicati quell’anno. Accanto ad alcune valutazioni chiaramente
“datate”, delle quali Croce si disfarà qualche anno dopo 26, vi troviamo
infatti manifestate le prime, pur schematiche ed embrionali, convinzioni
intorno alla disciplina. «L’Estetica è una scienza tutta tedesca; perché,
sebbene le scienze non abbiano nazionalità, hanno luoghi di nascita.
Un tedesco di Berlino, il Baumgarten, le impose il nome; il Kant […]
le dié, nella Kritik der Urtheilskraft, coscienza dei suoi problemi; la
filosofia posteriore, varia di tendenze ma derivante tutta da Kant, la
rielaborò, svolgendo or l’uno or l’altro degli indirizzi possibili dopo la
critica kantiana. I due principali indirizzi, che rispondono alla natura
54
stessa del problema estetico, furono rappresentati, l’uno da Giorgio
Hegel, l’altro da Federico Herbart; ai quali si riattacca tutto il lavoro
estetico da cinquant’anni in qua» 27. Si registra dunque il possesso da
parte di Croce di un chiaro modello esplicativo, genetico e storiografico insieme, della configurazione del campo dell’estetica. E anche se si
deve riconoscere che tale modello non costituisce molto più di un topos
genericissimo, corrente nell’Ottocento, e che quindici anni dopo Croce, proprio nella “Storia”, procurerà di emendare, esso è sicuramente
apprezzabile, per gli anni e il contesto culturale cui ci riferiamo, oltre
che naturalmente in considerazione della giovane età del recensore. Ma
non meno interessante è registrare, fin da ora, l’affermazione, da parte
del giovane studioso, che «bisogna guardare a tutto il corso dell’Estetica» 28. Già qui, insomma, registriamo come la “nativa” sensibilità
crociana per un radicamento storico dei fatti culturali, esplicata negli
anni giovanili come pratica erudita e sviluppatasi nella maturità in una
metodologia ben più articolata e densa di spessore filosofico, avanzi
l’esigenza di una precisa istanza di storicizzazione disciplinare, quale
condizione necessaria della messa a fuoco teorica dell’estetica.
Dopo aver reso merito al Tari del tentativo d’introdurre «tra noi
i risultati ai quali è giunta la scienza estetica in Germania» (merito
rimarchevole in quanto non si potrà «fare cosa di buono, se non intenderemo a pieno le loro ragioni psicologiche e storiche»), la recensione
si chiude con l’affermazione di circostanza che «se un giorno sorgerà
di nuovo in Italia qualche amante degli studî estetici, dalle opere del
Tari bisognerà che prenda le mosse» 29. Croce non prenderà le mosse
dal Tari e il suo avvio teorico, come si sa, sarà tutto all’insegna del
magistero del De Sanctis 30; ma il suo auspicio che l’estetica potesse
rinascere in Italia grazie a “qualche amante degli studî estetici”, un auspicio pronunciato in senso forte 31, acquista, ai nostri occhi di posteri,
quasi il sapore di una divertente autoprofezia. Perché, anche se non
difetta una qualche presenza delle problematiche estetiche nell’attività
crociana degli anni successivi, segnatamente nell’accezione d’epoca di
“estetica della letteratura” 32, gli eventi maturati nell’arco di una diecina d’anni, nell’ultimo lustro del secolo, faranno rinascere l’estetica
in Italia proprio grazie all’opera di quel recensore, e come vedremo
tra poco, lo convinceranno addirittura «che si tratta di un ramo di
studi da creare» 33.
È giocoforza sorvolare sugli altri scritti giovanili, nei quali pur maturano significativi “fermenti” teorici 34; ma passando a considerare i
«primi scritti filosofici» 35, troviamo due testi variamente cruciali per il
futuro (prossimo) esito di Croce in direzione dell’estetica. Per i nostri
interessi attuali, è utile soffermarsi, più che sulla memoria intorno La
storia, sul secondo dedicato alla Critica letteraria. Di questo importantissimo lavoro, che «mise il mondo letterario a rumore, perché proponeva dubbî e agitava problemi ai quali non erano adusati i letterati
55
del tempo» 36, qui importa segnalare una sola, rilevantissima chiave
di lettura. Il proposito dello scritto è dichiarato all’inizio dall’autore
nel «cominciare a spargere qualche luce sulle molteplici quistioni che
sono sorte e sorgono» intorno alla nozione di critica letteraria, che «è
venuta ampliando il proprio significato e abbracciando una sequela di
operazioni svariate» 37. Un intento dunque circoscritto al compito di
fare chiarezza intorno a funzioni, significati, usi diversi praticati nella
critica letteraria, e le relazioni conoscitive che in essa s’intersecano;
dunque una decantazione metodologica che affronta sì «questioni teoriche», come indica il sottotitolo del saggio, ma parrebbe solo nel
quadro di una “estetica della letteratura”, secondo come fino ad allora
aveva operato Croce. E invece, nel corso della trattazione, assistiamo
a un lievitare problematico irresistibile che guadagna la soglia “alta”,
e più generale, di estetica.
La cosa è tanto più sorprendente in quanto Croce comincia col
distinguere, nel campo degli studi letterari, quelli che non riguardano
la concreta produzione letteraria ma «i principî della letteratura» 38. E
pone anzi ben netta la distinzione fra l’analisi dei singoli testi letterari,
nella loro concretezza, e la considerazione generale e astratta delle loro
condizioni concettuali di esistenza, ossia «la teoria della letteratura e
dell’arte e del bello, che, da oltre un secolo, dal Baumgarten in poi,
porta il nome di “Estetica”»; concludendo ovviamente: «L’estetica non
ha il compito di dirci che cosa sia l’arte di Dante o di Shakespeare,
perché solo suo ufficio è determinare le categorie universali, nelle quali
l’una e l’altra arte rientrano, prescindendo dall’individualità, dal proprio e caratteristico, di ciascuna» 39. Se non che, inopinatamente, sono
proprio queste categorie generali che finiscono col rientrare in gioco.
Chiarito infatti che la «critica estetica […] è […] la sola alla quale
spetti di pieno diritto il nome di critica ossia di giudizio (giudizio pratico o di valore, come è detto in talune filosofie)» 40, diventa inevitabile
una dislocazione problematica che acquisisce caratteri teorici sempre
più spinti, che scavalca cioè il piano relativo alla pura metodologia, alle
strategie di acquisizione critica delle singole opere letterarie, per investire tematiche, diciamo di grado superiore, squisitamente filosofiche.
L’identificazione della critica letteraria come critica estetica comporta
necessariamente di affrontare l’annosa questione, anzi le «difficoltà
assai gravi» che «concernono le possibilità e i limiti del giudizio estetico», e anzitutto la cruciale domanda: «esiste un criterio oggettivo
del gusto?» 41.
Non possiamo attardarci a osservare come Croce si aggiri in questa
piattaforma definitoria, a cospetto di Kant e dei non molti eterogenei studiosi dei quali mostra di avere conoscenza (Hartmann, Sully,
Ruskin, Zimmermann, Siebeck, Taine); del resto pochi anni dopo, già
nelle Tesi, giudicherà insoddisfacente quel suo tentativo 42. Importa,
invece, segnalare come la collocazione iniziale e naturale del saggio,
56
nell’ambito di un’“estetica della letteratura”, si sia di fatto trasformata
in un radiale allargamento all’estetica tout court. E importa, in secondo
luogo, dissipare il sospetto che tale consistente dislocamento possa
costituire episodio contingente, uno sconfinamento legato solo casualmente a questa circostanza occasionale. La polemica contro i “filologi e
letterati” del tempo, inclini al positivismo e all’evoluzionismo negli studi letterari, è in realtà anche il tracciante attraverso cui Croce consegue
l’insediamento in un nuovo luogo teorico. Insediamento, constatiamo
subito, estremamente significativo.
Dopo alcuni paragrafi, strettamente pertinenti al tema esplicito
del saggio, quello conclusivo s’intitola “Delle presenti condizioni degli studî letterarî in Italia e di una loro deficienza”. Qual è questa
deficienza? «La maggiore deficienza, che ora si avverta negli studî letterarî italiani è da riportare alla trascuranza dei problemi teorici» 43.
Osservazione che dovrebbe essere del tutto scontata, e perfettamente
in linea cogli intenti e gli argomenti del saggio miranti proprio a una
decantazione dell’“estetica della letteratura”, cioè al richiamo d’informare le pratiche della critica letteraria a una rigorosa teoria della letteratura. Afferma infatti Croce: «Accanto agli studî che si compiono
intorno alle opere letterarie concrete, bisogna che si formino gli studî
intorno ai problemi teorici attinenti sia alla letteratura secondo il suo
concetto, sia ai metodi da seguire» 44. Un’affermazione in carattere
con l’esortazione, per altro ricorrente nel Croce maturo, che la critica
diventi “sempre più filosofica”, e dunque propugnante anche la critica
letteraria come filosofia 45. Ma, a differenza dei lavori consimili successivi, qui la nota dominante non cade sulla filosoficità, in senso lato,
dell’esercizio critico, bensì sull’incidenza specifica, nella critica letteraria, proprio dell’estetica. Perché, mentre la storia letteraria rimanda
alla scienza dei fatti storici e sociali, «l’esposizione dell’opera letteraria
e l’opera letteraria stessa, rimandano a una teoria della letteratura e
questa all’Estetica generale» 46. La teoria della critica, o “estetica della
letteratura”, riconosce, in altri termini, come condizione necessaria la
sua fondazione nell’«Estetica generale». È corollario finale, codesto, sicuramente lineare, oltre che importante. E però questa asserzione conclusiva si carica, nelle pagine di questo ultimo paragrafo, di riferimenti
e connotazioni eccedenti l’esigenza logica che legittimamente la muove.
Anni dopo, Croce attribuirà questa accentuazione esclusivamente a una
ragione polemica 47. La quale è indubbia. Ma parimenti è indubbio
che, nel fervore della polemica, al di là degli stretti termini della polemica sulla critica letteraria, in questo saggio viene allo scoperto un
allargamento problematico ulteriore, sollecitato da referenti plurimi di
diversa natura. Ed è episodio per noi importante, in quanto grazie a
esso apprendiamo come dopo l’attrazione giovanile si sia oramai precisato, consolidandosi, in Croce il campo dell’estetica, e siamo altresì in
grado di valutare i segni di un suo pieno coinvolgimento personale 48.
57
Croce rappresenta la situazione dell’estetica in Italia in termini quasi
disperati: «[…] il più completo abbandono regna sempre nel campo
dell’Estetica» 49. Priva di solide tradizioni autoctone 50, solo il Tari,
educato dalla filosofia tedesca, ha sostanzialmente coltivato tali studi,
dei quali con la sua morte si è persa «ogni seria tradizione». E subito,
lasciata completamente alle spalle la polemica sulla critica letteraria, affiorano i nuovi oggetti polemici che premono a Croce. Mentre il vuoto
della ricerca estetica italiana non arriva a essere colmato da tentativi
volenterosi, come quelli di un Nicolò Gallo, «di tanto in tanto, si vedono comparire alcune opericciuole, che dell’“Estetica” prendono il
titolo: prodotti sporadici, proles sine matre creata, i cui autori si vantano
di far tutto da capo, di applicare a quella scienza i metodi delle scienze positive, di staccarsi risolutamente dalla vecchia estetica, metafisica,
idealistica, “cabbalistica”» 51. Contro questi abusivi “novatori”, Croce
dispiega una serrata apologia dell’estetica, una vibrante difesa condotta
come a titolo d’ufficio, nella quale viene rivendicata orgogliosamente
l’importanza culturale della disciplina, la consistenza della sua, oramai
storicamente consolidata, tradizione scientifica 52. Pur nella consapevolezza di taluni limiti di questa tradizione 53, il bilancio finale non può
che essere largamente positivo. Sicché, «io credo che prima condizione
per lavorare fecondamente nel campo dell’Estetica sia smettere ogni spirito d’impazienza e di superbia, e piegarsi alla dura fatica di spremere il
succo della copiosa letteratura creata dall’operosità germanica intorno
a quei problemi. […] la novità qui non può non consistere se non nel
continuare, trasformare, compiere e approfondire il già fatto da altri» 54.
Una lezione di orgogliosa modestia agli sprovveduti “novatori”, dunque. Ma anche molto di più: una dichiarazione d’intenti pienamente
consapevole, assolutamente lucida e motivata. Nello stesso momento in
cui mette fuori gioco questi sedicenti cultori, Croce infatti prende possesso, viene da dire, con piena consapevolezza dei domini dell’estetica,
tanto disertati in Italia. E ne prende possesso per ripercorrerli, sì, con
dichiarata umiltà; ma con non minore, e anch’essa dichiarata, convinzione che occorra ridisegnarli. È infatti «una materia assai ricca e feconda», quella della tradizione estetica, ma pienamente valorizzabile solo
da «chi si accinga a questi studi con mente fresca e con preparazione
diversa da quella solita negli estetici della vecchia scuola» 55. Non si
tratta solo di una garbata critica ai predecessori, ossia un’enunciazione
formulata solo in linea di principio, a mo’ d’indicazione metodologica
generalissima, in atto sgravata d’incidenza effettiva. L’estetologo italiano,
che qui esordisce, enuncia idee molto chiare, che immediatamente si
traducono in tesi operative. Prospetta già «un lavoro rivolto segnatamente intorno a questi due punti: a sbandire, cioè, dall’estetica una
serie di concetti, che vi si sono introdotti, e che all’estetica sono affatto
estranei e mantengono con la loro presenza una confusione invincibile;
e a trarre il concetto dell’arte e del bello fuori dei confini, in cui l’uso
58
linguistico l’ha arbitrariamente circoscritto, riconoscendo la connessione
intima dei cosiddetti fatti estetici ed artistici con altri della vita dello
spirito» 56. Idee e propositi che non rimarranno semplice enunciazione,
ma che i lettori futuri vedranno informare l’Estetica, addirittura sviluppare la Filosofia come scienza dello Spirito.
Anche rimanendo al presente, questo candido progetto è, in realtà,
molto più ambizioso e radicale di quello che non sembri a prima vista.
Perché questo modo rispettoso di continuare, rivitalizzandola “con
mente fresca”, la tradizione, procurerà «che ci troveremo ricondotti,
con nuova coscienza e col ricco corredo delle osservazioni accumulate
durante un secolo, al punto originario dell’Estetica moderna, alla scuola di Leibniz e del Wolff, e alla concezione del Baumgarten; il quale,
dalle necessità del sistema che elaborava, fu messo sulla retta via» 57.
L’esordiente studioso è così, più che un “novatore”, un vero e proprio
rivoluzionario. Si propone come il nuovo cartografo che, riconquistato
il “punto originario dell’estetica moderna”, procurerà di tracciarne la
“retta via”. E non stupisce, che all’attuazione di un cotale proposito
capitale, la tradizione che va “letta e meditata“, scontando la “dura
fatica di spremere il succo della copiosa letteratura creata dall’operosità filosofica”, la storia che una pagina prima rivendicava “esposta in
una serie di libri speciali”, costituisca tuttavia non più di un “ricco
corredo”, da utilizzare per riprendere la “retta via” dell’estetica, cioè
rifondarla teoricamente. Impresa per la quale, allora, si potrà, si dovrà,
persino giungere a pagare il costo – ma che, a ben vedere, costituisce
condizione necessaria –, come e più di quanto vanamente ciarlato dai
presunti “novatori” positivisti, di rendere l’estetica “un suolo sgombro
di ogni anteriore costruzione”.
Possiamo ben capire, a fronte di un impegno talmente enorme,
che il ventottenne studioso, «nei primi passi verso questi studi», possa
dubitare della corrispondenza delle sue forze, paventare che «l’opera
di un solo è timida ed incerta». Su una cosa non possiamo convenire
con lui: «Questo accenno, fatto così in poche parole, non può non
riuscire oscuro». Al contrario, tutto è chiarissimo in questi suoi propositi; perché, come continua la frase, davvero, limpidamente, «in esso
è contenuto un programma di lavoro» 58.
Metteva conto compiere questo rapido excursus, perché tra la fase
incoativa che abbiamo tratteggiato, per acquisire l’enunciazione di queste ultime impegnative dichiarazioni programmatiche, e i primi risultati conseguiti sei anni dopo, nelle Tesi, dove appare già realizzato il
primo nucleo compiuto del pensiero estetico crociano, c’era un vuoto
di conoscenza, uno iato che impediva di accertare attraverso quali
modalità fosse maturato questo processo speculativo. Modalità che, se
potranno giudicarsi di secondaria importanza per apprezzare l’estetica,
se si vuole “la prima” estetica, di Croce, probabilmente secondarie non
59
sono per chiarire il ruolo che in essa vi svolgono “Teoria” e “Storia”.
Tanto più che, come abbiamo visto, un qualche intreccio di storia e
di teoria, la coscienza di questo nesso, è avvertibile fin dagli esordi di
Croce in estetica.
Croce lamentava il deleterio isolamento a cui era costretto in Italia
lo studioso che intraprendesse studi di estetica 59. Un prezioso compagno che, soprattutto nei primi anni, accettò volentieri di fargli da cassa
di risonanza fu proprio Gentile, con il quale due anni dopo iniziò un
fitto scambio epistolare 60. Scambio estremamente rilevante per valutare l’evoluzione dell’impegno di Croce in estetica, anche perché esso
si colloca, quasi senza soluzione di continuità, strettamente a ridosso
delle così promettenti affermazioni prodotte, sul finire del ’94, nella
chiusa della Critica letteraria.
Come si sa, era infatti accaduto che il 27 aprile del 1895 Labriola
gli inviasse il suo saggio In memoria del Manifesto dei Comunisti per
averne un parere sull’opportunità di pubblicarlo in italiano 61. «Io lessi
e rilessi, e mi sentii di nuovo tutta accendere la mente, e non potei più
distogliermi da quei pensieri e problemi, che si radicavano e allargavano nel mio spirito. […] e mi detti per più mesi con ardore indicibile
agli studî, fin allora a me ignoti, della Economia» 62. È tutt’ora oggetto
di controversia stabilire se questo studio appassionato, che cade in un
periodo sicuramente cruciale della sua formazione, costituì un momento decisivo e primario di sviluppo della filosofia matura di Croce,
ovvero se le radici più profonde di essa siano da riferire esclusivamente
alla meditazione estetica 63. A noi basterà prendere atto che tale “appassionamento” due anni dopo andò scemando 64, ma diede a Croce
«occasione di tornare sui problemi filosofici». «Così […] si rinnovò
in me il bisogno di dare forma, prima d’imprendere altri particolari
lavori, alle vecchie mie meditazioni sull’arte, […] che nel corso dei
miei più recenti studî avevano perso il loro carattere isolato e monografico, entrando in relazione con gli altri problemi dello spirito. […]
E ardii formare il proposito di comporre una Estetica e una storia
dell’Estetica, per la prima delle quali mi andavo immaginando di avere
in pronto tutte o quasi le dottrine da esporre. Questo proposito formai
nell’autunno del ’98, ma lo dovei differire all’estate seguente per alcuni
strascici di lavori» 65.
In effetti Croce, in una lettera scritta a Gentile nel novembre del
1898, informandolo che i suoi studi attuali sono dedicati alla filosofia,
aggiunge: «Vi confesso che vorrei tra l’altro menare a termine un trattato di estetica, e perciò mi occorre di approfondire tutte le questioni
filosofiche che hanno relazione con l’estetica, ossia tutta la filosofia.
Questo ora sto facendo, e può darsi che fra qualche mese vi potrò
discorrere dei frutti raccolti». Un proposito molto severo di studio,
programmato a tempo pieno, tanto che aggiunge: «Non scriverò per
qualche tempo neanche un rigo: salvo la recensione del vostro libro» 66.
60
È questa la prima notizia in assoluto che possediamo sulla genesi dell’Estetica. La seconda segue in una cartolina postale di qualche giorno
dopo: «Io sto lavorando al mio Trattato di estetica. Se non incretinisco leggendo i grossi volumi dei metafisici tedeschi sull’Estetica, sarà
fortuna! Dividerò il mio lavoro in 3 parti: 1°) Teoria dell’Estetica; 2°)
Le deviazioni dell’Estetica; 3°) Storia dell’Estetica. Quando sarà più
progredito, ve ne mostrerò il piano particolareggiato per averne il vostro parere» 67. Il 25 gennaio successivo Croce si scusa del suo ritardo
epistolare coll’assorbimento procuratogli dall’impegno di questo lavoro,
e precisa: «in questi tre mesi mi sono occupato soltanto della storia
dell’Estetica, e non ho scritto un rigo, e appena ho leggicchiato qualche libro di estraneo argomento»; aggiunge: «ora viene la scadenza di
parecchi impegni, e dovrò interrompere di necessità» 68. Ma il 2 giugno
può comunicare all’amico: «ho ripreso il mio studio sull’estetica» 69.
Cosa che rallegra molto Gentile 70.
Da questi documenti viene dunque confermato quanto Croce racconterà una ventina d’anni dopo, sull’«aspro travaglio» che gli costò l’elaborazione dell’estetica 71. Ma qui vengono utilmente precisate
anche talune modalità peculiari di questo tanto travagliato itinerario.
Apprendiamo così che l’idea programmatica iniziale, adombrata come
s’è visto già nel saggio sulla Critica letteraria, e incentrata da un lato
nel ristabilire la purezza teorica dell’estetica e dall’altro nel porre in
relazione l’estetico con le altre forme dello spirito, al momento del suo
sviluppo organico, all’atto cioè dell’esercizio concreto di sistematizzazione dottrinaria, subisce un trauma operativo. Che è poi il trauma,
ben risaputo, che affronta ogni tentativo genuino di formulazione teorica: il trauma stesso della nascita del pensiero 72. Ma un aspetto, di quel
trauma crociano, ci preme sottolineare in questa sede. Il particolare
ruolo che, in ragione di questa emergenza, viene ad assumere la funzione storiografica. Le dichiarazioni di Croce lasciano supporre che il
suo proposito di partenza contemplasse una, diciamo così, “normale”
trattazione teorica, un “Trattato di Estetica” che, come abbiamo letto
sopra, comportava direttamente l’approfondimento della filosofia nel
suo complesso. È del tutto fisiologico che la messa a fuoco tematica,
l’affinamento teorico della trattazione si realizzasse nel suo naturale
luogo epistemico, cioè nel confronto con la “letteratura copiosissima”,
fruendo di quel consistente “corredo” storico che l’estetica poteva vantare di possedere. In questa impresa, le difficoltà emerse nell’organizzare la tessitura speculativa: saldare gli «sparsi concetti», colmare
le crescenti «lacune», «tenere ben ferme» le figure che minacciavano
di sfaldarsi, illuminare «problemi non sospettati», come si esprime lo
stesso Croce, lo portarono anzi a una intensificazione della funzione
storiografica, a una totale immersione del suo embrione speculativo
nella tradizione storica della disciplina. Appunto: “in questi tre mesi
mi sono occupato soltanto della Storia dell’Estetica”. È in questo alveo,
61
naturale come il grembo materno, che la sua estetica trae nutrimento e
giunge a definire le sue conformazioni specifiche. Un processo ovvio.
Meno ovvio, in questo lavoro di preliminare ricognizione storica
e speculativa, è il ruolo tutto particolare che va assumendo la critica
disciplinare. La tripartizione inizialmente pensata da Croce attesta che
la sua ricerca, da un lato mirasse a equilibrare il componendo libro
fra una elaborazione teorica e un pendant storiografico, ma dall’altro
preventivasse che la nuova proposta dottrinaria si sviluppasse attraverso una critica serrata, cioè una sistematica opera di demolizione e
rimozione delle “deviazioni dell’Estetica”. Impegno, quest’ultimo, che
del resto era stato uno dei due punti programmatici che abbiamo visto
dichiarato qualche anno prima, già nel saggio sulla Critica letteraria. E
però, a questo scopo polemico, Croce si proponeva di riservare appunto una sezione specifica del “Trattato”. Lo schema di lavoro che abbiamo visto comunicato a Gentile contemplava infatti, analiticamente,
una “Teoria” e una “Storia”, coordinate ma indipendenti l’un l’altra,
suturate da una zona intermedia, di carattere storico-teorico, rivolta
alla critica delle “deviazioni”, ossia una globale revisione dello sviluppo storico della disciplina. Uno schema dunque molto equilibrato e
che, grazie alla presenza di un luogo autonomo deputato alla polemica
disciplinare, manteneva in linea di principio integra, nel loro solidale
interscambio, la distinzione funzionale fra teoria e storia, il rispetto
delle due istanze differenti pur se convergenti che le animano.
Non è allora ovvio l’annuncio che Croce fa a Gentile il 14 giugno
1899 di «una memoria che vi manderò fra giorni, e che raccoglie il materiale di uno dei capitoli della Storia dell’Estetica, che accompagnerà il
Trattato» 73. Non c’interessa qui questa importante memoria, I trattatisti
italiani del concettismo e Baltasar Gracian [sic!], che riguarda certe pur
interessanti questioni (il seicentismo, il problema del contenuto) già entrate nelle discussioni dei due corrispondenti 74. C’interessa invece moltissimo registrare la stranezza che, pur in gravi difficoltà nell’organizzare
la “Teoria”, e dunque nel mettere a fuoco la propria lettura complessiva
dell’estetica, Croce parrebbe aver deciso d’impegnarsi nell’elaborazione
della “Storia”. Laddove, strano non sarebbe se postuliamo, in ipotesi,
che sia frattanto intervenuta una modifica del piano di lavoro iniziale.
Vale a dire che Croce si sia risolto per la soppressione della seconda
parte, preventivata per la critica delle “deviazioni dell’Estetica”, e abbia
deciso di affidare tale compito anfibologico, teorico e storico insieme, direttamente alla “Storia”. Se per avventura fosse così, preparando la polemica memoria sul concettismo e Gracián, Croce sostanzialmente non
avrebbe abbandonato il lavoro sulla “Teoria” per dedicarsi alla “Storia”
e, pur nella contingenza particolare che motiva l’anticipata messa a
fuoco di quei materiali, diventa anche più agevole comprendere e più
perspicuo inquadrare il taglio e le risultanze di quella disamina crociana.
Intanto ciò impone di relazionare in modo diverso “Storia” e “Teoria”,
62
e pensare che tale distinzione sia divenuta meramente funzionale, in
quanto mirata verso un identico processo cognitivo,“intimamente” (per
usare una parola cara a Croce in quegli anni) articolato in due parti; se
cioè, interpretando nel senso più letterale la parola “accompagnerà”,
pensiamo al componendo volume come a una trattazione squisitamente
unitaria, cioè a un dittico funzionale realizzato attraverso una integrale
reversibilità di storia e teoria. Il problema sarà di giudicare, in presenza
di un testo costituito secondo siffatte modalità strutturali, se si sia realizzato un accettabile equilibrio fra istanza teorica e istanza storica o,
altrimenti, se in una tale comunione di storia e teoria non si determini
una condizione ipertrofica, per cui una delle due attitudini, rivendicato
il ruolo dominante, prevarichi sull’altra.
Vediamo di accertare la fondatezza di tali supposizioni, e valutarne
le conseguenze, alla luce dei susseguenti documenti epistolari. Ritroviamo Croce che continua il suo lavoro molto alacremente, anche in
vacanza a Perugia dove si era recato il 15 luglio. Scrive a Gentile, in
una cartolina postale timbrata 10 agosto: «[…] mi trovo ora tutto
immerso nel mettere insieme l’ossatura del mio libro di Estetica […].
Credo di aver trovato bene la connessione sistematica delle teorie estetiche, ed anche per la storia dell’estet. che seguirà potrò svolgerla da
punti di vista che mi sembrano nuovi. In un volume da parte tratterò
poi la Storia dell’Estetica in Italia» 75. Apprendiamo così che Croce
è riuscito a dipanare la matassa problematica dell’estetica e già pone
l’impianto del suo libro. Ma soprattutto ci viene confermato che esso
è diventato “un solo” libro, una trattazione strettamente unitaria, nella
quale, scomparso il diaframma intermedio di sicurezza, cioè la progettata parte riservata alla critica delle “deviazioni dell’Estetica”, la
“Storia” è passata a costituire luogo di elaborazione speculativa non
meno della “Teoria”, un prolungamento funzionale della “Teoria”; in
cui insomma la “Storia” interagisce con la “Teoria” nella stessa misura
del rapporto che intercorre fra un testo e il suo apparato critico. E non
pare possano esserci dubbi che sia “la connessione sistematica delle
teorie estetiche” a fondare i “punti di vista nuovi” della storia. Lo si
evince già dal fatto di tenere “da parte” il progettato (e mai compiuto,
in questa forma) profilo dell’estetica italiana, al quale Croce assegnerà
compiti di più stretta critica storiografica, rivendicando come si sa
l’esistenza e la rilevanza della tradizione estetica italiana, fino a levare
a Baumgarten e assegnare a Vico l’onore di “scopritore” dell’estetica 76.
Ma lo si legge ancor più esplicitamente nella lettera del 21 agosto successivo: «Vado preparando il mio volume di Estetica; che comprenderà
una parte teorica , che io mi sforzo di fare interamente obiettiva, senza
citazioni e polemiche; ed una parte storica, in cui penso di scrivere a
modo mio una Storia Generale dell’Estetica, che non è stata ancora
scritta» 77; e aggiunge: «La migliore che finora si abbia è quella inglese
del Bosanquet: eppure lascia moltissimo da desiderare» 78.
63
In tutta evidenza, in questo componendo “Trattato”, “Storia” e
“Teoria” non solo interagiscono e s’integrano senza residui, ma conseguono da una elaborazione rigidamente unitaria, che giunge a decidere
d’invertire i codici normativi delle stesse funzioni analitiche: addirittura una “Teoria” «interamente obiettiva, senza citazioni polemiche»
e una “Storia” «a modo mio, [come] non è stata ancora scritta». Una
“Storia” dunque pensata insieme, in conseguenza della “Teoria”. Come
conferma il seguito della lettera: «Ho abbozzato la parte teorica; ma
ora sto penando nel raccogliere il materiale per la parte storica. Mi
conviene rileggere tutte le opere importanti negli originali; giacché le
esposizioni non aiutano» 79. Si tratta quindi di una “Storia”, possiamo
spingerci a dire, anticipata alla stessa ricerca storiografica, alla quale si
riserva appena il compito di controllo di qualche dubbio, di chiarire
qualche punto oscuro. E non sono, non sarebbero al di fuori di questa
“Storia” sui generis, “dubbi” di poco conto, quelli che riguardano «il
passaggio da Baumgarten a Kant: il rapporto di Baumgarten coi trattatisti del seicento, e col pensiero filosofico anteriore, e il rapporto di
esso col Vico, etc.; ecco le parti più oscure, e finora non esplorate» 80.
Ma ciò, l’accertamento storiografico, è realmente secondario, nel senso
che, letteralmente, può venire dopo, perché strettamente finalizzato
all’elaborazione teorica. O meglio, in tanto mostra assumere rilevanza,
e giunge a organizzarsi secondo tecniche scientifiche di verifica testuale, in quanto riesce a divenire asseverativo, a mo’ di supporter o
vicario, del “Trattato” nella sua progettuale globalità unitaria, componente operativo della sua partizione intrinsecamente speculare. Sicché,
confida Croce, «non vorrei cominciarne la stampa, se non dopo aver
compiuto la parte storica, e dopo avere scritto una serie di saggi da
pubblicare in un volumetto di appendice sull’Estetica in Italia» 81.
A metà settembre Croce è ancora immerso nel lavoro («Continuo
a lavorare alla mia Estetica»), ma l’elaborazione concettuale è molto
progredita. «Impressiona la rapidità con cui si è impadronito non del
materiale, ma dei problemi» 82. L’estetica crociana comincia già a profilarsi in tutta la sua originalità («mi vado sempre più convincendo
che si tratta di un ramo di studi da creare»), ne vengono individuate
infatti le prime capitali acquisizioni, quali l’identificazione di estetica
e linguistica, e la percezione dei rapporti intercorrenti fra estetica e
logica, etica ed economia, che suscitano le prime soddisfazioni dell’autore 83. Ma è rimasto immutato l’impianto del “Trattato” in un dittico
funzionale («Dopo la parte teorica […] tratterò […] la storia dell’Estetica»); e anzi esso si articola specificando vieppiù le funzioni ancillari
della “Storia”. Questa infatti, surrogando il compito originariamente
riservato a uno specifico rendiconto polemico delle «deviazioni dell’Estetica», ora assume l’onere di condurre «la critica delle singole scuole,
che nella parte teorica vengono accennate sempre come possibilità ed
obiezioni» 84. E, a ritmo davvero incalzante, il 6 ottobre, sul finire della
64
vacanze perugine, Croce scrive: «Io ho lavorato molto in queste due
ultime settimane: ho rimanipolato parecchie volte lo schema della parte
teorica del mio lavoro, e debbo ancora lavorarci. Mi metterò a stendere il lavoro appena tornato a Napoli, e lo scriverlo sarà cosa di poche
settimane, avendolo ora maturato nei minimi particolari. Non ho mai
lavorato con tanta intensità, o, per meglio dire, con tanta continuità
d’intensità». In effetti, un tour de force prodigioso. Pari alla dichiarata
ambizione «di contemplare tutte le questioni che si son presentate
nella storia dell’Estetica, e metterle al loro posto» 85.
Tornato a Napoli, Croce però può riprendere mano al “Trattato”
solo a fine novembre 86. E il 14 dicembre comunica: «Ho dovuto avviare quel mio benedetto lavoro di estetica, che ha sofferto parecchie interruzioni tra l’ottobre e il novembre. Ora ho scritto le prime pagine, e
spero di tirare innanzi senza ostacoli. Mi era difficile trovare il punto di
partenza dell’esposizione» 87. In effetti, nel febbraio dell’anno successivo
tutta la parte teorica è già abozzata, e Croce decide di farne un preprint
da sviluppare nel volume definitivo 88. Sono le famose Tesi fondamentali, che per il bisogno di obiettivare l’elaborato presenta all’Accademia
Pontaniana nelle tornate del 18 febbraio, 18 marzo e 6 maggio 89. Come
suole, non mancarono dubbi e ripensamenti, e finanche al momento
di mandare il testo in tipografia ci furono indugi e riformulazioni 90.
Finalmente, il 27 aprile il testo è avviato per la tipografia 91; e il 28
maggio scrive a Gentile: «La mia Memoria è stampata» 92.
In questo travaglio conclusivo la “Storia”, che pure abbiamo visto
presente e partecipe a tutto l’iter evolutivo dell’estetica crociana, viene
relegata sullo sfondo, come eclissata. A marzo Croce progetta sì «di
mettermi fra un mese a lavorare alla storia dell’Estetica: per la quale
ho già raccolto bastante materia», ma nel quadro della revisione della
“Teoria”, per completare il volume ai fini della pubblicazione 93. Invece
nei mesi successivi lo troviamo unicamente interessato alla ricezione
delle Tesi, impegnato a ritoccarle e farne la «critica» e soddisfatto del
giudizio entusiastico di Gentile 96. Solo il 28 giugno scrive a Gentile
di aver «cominciato a lavorare al sommario storico dell’Estetica» 97.
Ma non sembra proprio che, questo derubricato “sommario storico”,
rappresenti ai suoi occhi un impegno particolarmente impellente; tanto
meno che possegga una “urgenza” lontanamente paragonabile a quanto era stato, due anni prima, la concezione del “Trattato”. In realtà,
sappiamo che durante l’estate del 1900, rimasto a Napoli, Croce si
riposò «alquanto in altre letture e lavori»; da metà settembre a fine
ottobre fece un lungo giro turistico in varie città del Norditalia (Stresa, Torino, Pistoia, Perugia…) 98; e al ritorno a Napoli fu distratto da
varie faccende e debilitato dall’influenza 99. Comunque il 2 novembre
informa Vossler: «In questi giorni mi son rimesso al mio volume di
Estetica e spero di poter pubblicare presto, in un solo volume, la Teoria e la Storia generale dell’Estetica» 100. Se non che («quando stavo
65
per raccogliermi in quella storia») accadde che in novembre, a seguito
di uno scandaloso processo, venne sciolto il consiglio comunale di
Napoli e Croce non poté sottrarsi al dovere di coadiuvare il commissario straordinario, assumendo per sei mesi, fino al maggio seguente,
l’incarico di reggere le scuole della città: «passando l’intera giornata
in ufficio dalle otto del mattino alle otto della sera» 101. L’ennesimo,
disperante sursis…
Nata sotto pessimi auspici, fra tanti disguidi, attraverso modalità e
secondo motivazioni particolarissime, la “Storia” ricompare nella biografia crociana, improvvisamente, solo nella seconda metà dell’anno
successivo. Durante la consueta vacanza estiva a Perugia, il 19 agosto
del 1901 Croce scrive a Gentile: «Da tre giorni mi son messo a scrivere
la storia dell’Estetica, il lavoro procede facile, e spero di finir tutto nel
corso di settembre» 102. La pianificazione di un vero e proprio rush. Di
fatto, comunica il 24 successivo di essere totalmente impegnato nella
“Storia”, di essere «abbastanza contento del lavoro che riesce sobrio,
ma chiaro e completo. Ho trovato un ordinamento molto naturale e
perspicuo»: comunica di avere scritto in una settimana già centoventi
pagine 103. Dieci giorni dopo, malgrado una fastidiosa indisposizione
catarrale, il lavoro procede alacremente, e Croce dichiara la sua soddisfazione per aver risolto «di trattare nella storia dell’estetica anche
delle critiche di teorie erronee» 104. Il 3 ottobre, con esemplare puntualità, annuncia: «Oggi ho terminato il mio libro». Si badi: l’intero
volume dell’Estetica! La parte teorica è stata riscritta da capo, utilizzando parti già stampate, ma facendo molte aggiunte e sciogliendo i
nodi che lo avevano tormentato in primavera, e conferendo all’insieme
«un ordine più rigoroso e insieme più semplice»; ma addirittura «la
parte storica era già finita da un paio di settimane. […] debbo compiere alcune ricerche quando sarò tornato a Napoli, e riempire delle
lacune». Viene da chiedersi: come, a quali condizioni è riuscito Croce
a compiere un tale exploit, di scrivere fra il 19 agosto e il 3 ottobre
ben «700 pagine»? Può soddisfare la spiegazione: «vedete un po’ cosa
vuol dire la vita tranquilla» 105?
Delle tante notizie che abbiamo ricavato da queste lettere di Croce
a Gentile, due elementi mi appaiono, in conclusione, particolarmente
meritevoli di attenzione. Il primo è la clamorosa “scoperta” crociana di
Schleiermacher, che maturò proprio in quelle settimane, e costituisce
sicuramente uno dei meriti storiografici più cospicui della “Storia”.
Croce racconta che, messo sulle tracce di Schleiermacher dalle severe
censure espressegli da Zimmermann e dalla cattiva luce con cui lo
presentava Hartmann 106, la lettura delle Vorlesungen über die Ästhetik
nell’edizione postuma di Lommatsch gli diede «la piacevole sorpresa
di far la conoscenza […] col maggior estetico tedesco del secolo xix,
superiore di molto allo Hegel» 107. Ma è d’obbligo domandarsi fino
66
a che punto questa “scoperta” critica sia stata indipendente, per così
dire slegata, dalla congiunta ammissione: «Lo Schleiermacher è davvero importantissimo. Mi ha fatto piacere di trovare in lui enunciate e
dimostrate alcune cose che credevo di avere trovato io» 108. Proprio in
presenza di un risultato incontestabilmente positivo, e anzi un merito
encomiabile della “Storia”, non può non sollevare perplessità, riguardo
al piano generale della sua prospettazione storiografica, il tipo di approccio procurato da una disamina talmente partecipativa. Infatti se un
altro autore, pur apprezzabile per qualche rispetto, ma che non possa
invocare una consimile, a questa di Schleiermacher, vera o illusoria che
poi essa possa giudicarsi, o comunque una qualche fisionomia teorica
crociana, quale sarà il destino a cui andrà incontro in questa “Storia”?
La “scoperta” crociana di Schleiermacher può allora assumere la
valenza di un test case e rimarcare il tema di fondo, che abbiamo abbondantemente tratteggiato, della funzione svolta dalla “Storia” nei
confronti della “Teoria” nell’ambito del “Trattato”. Scritta come in un
flash, dopo la “Teoria” e in funzione della “Teoria”, la “Storia” possiede
autonomia scientifica? In essa vengono rispettate condizioni sufficienti
per la piena realizzazione dell’istanza storiografica?
Di tale problematico nesso, fra riflessione teorica e analisi storiografica, ancor prima di leggere, come poi fece in dicembre, il volume in
prime bozze di stampa, in quelle settimane di cronaca cruciale in cui
Croce gli partecipava il lavoro in progress sulla soglia della conclusione
finale, si prese pensiero lo stesso Gentile. Che scrisse a Croce: «Credo
che abbiate fatto benissimo a occuparvi anche delle teorie erronee e
della loro critica; perché a me pare che, senza questa parte, la storia si
confonda appunto con la teoria. Gli errori sono la vita storica, per così
dire, della verità; e, considerati così, non sono più assoluti errori. Dal
lungo e laborioso rimuginare che avete fatto, questa materia, son certo
che uscirà netta la visione della reale formazione della scienza» 109.
Una certezza, invece di una più prudente dichiarazione di auspicio,
da parte del giovane filosofo siciliano, in questa fase iniziale dei loro
rapporti ancora in intima affiliazione crociana. Laddove molta cautela,
e qualche seria preoccupazione, sul pericolo di “confondere storia e
teoria” e di non rendere una “netta visione della reale formazione”
storica dell’estetica – pericolo pur evocato da Gentile, ma senz’altro
esorcizzato – avrebbero meritato la decisa dichiarazione crociana che la
“Storia” doveva servire «a mostrare quale folta selva di errori occorre
sgombrare per far valere la verità» 110.
Il manoscritto dell’Estetica «nel novembre fu inviato in tipografia
e venne alla luce nell’aprile del 1902» 111.
1
Gentile 1886-1900, p. 211.
67
2
Lo stesso Croce ne stilò un elenco in una nota finale apposta all’Appendice bibliografica
della seconda edizione del volume (1904, p. 521); l’elenco comprende: Vossler, Gentile, Lalo,
Lombardo Radice, Pilo, Spingarn, Neri, Garoglio, De Roberto, Faggi, Bianchi, Arréat, Mele,
Leone, Pica, Cesareo, Vorluni, Cesca, Bertana, Santayana, Farinelli, Segond. Alle critiche di
Faggi e Bertani, così come al saggio di Aliotta 1904, Croce rivolse una replica (1902c, 1903,
1904a). Cione 1956, pp. 306-69, ha registrato altre 9 recensioni apparse nel 1903 (Benn, Murri,
Muret), nel 1905 (Dauriac, Poppe, Zeitung) e nel 1906 (Eisler, Umret, Ogden). Non ho notizia
di uno studio d’insieme sulla prima ricezione dell’Estetica, a parte quello di Cordié 1967, limitato però alle sole recensioni di Faggi 1902, Bianchi, e Neri 1902 (la prima e l’ultima vi vengono
integralmente riprodotte), e non esente da una svista: queste recensioni non sono state registrate
«per la prima volta» in Castellano 1920, p. 33, ma, come visto sopra, già da Croce 1904).
3 L’assenza di un apprezzamento specifico della “Storia” è un dato costante della ricezione crociana, nella quale essa appare sostanzialmente rimossa, completamente assorbita
dalla “Teoria”. A titolo di esempio, cinquant’anni dopo la pubblicazione, un pur attentissimo
studioso dell’estetica crociana (Attisani 1950, p. 292) le riserva questa sola frase: «l’aggiunta
di una parte storica». Cade pertinente l’osservazione di Menzione 1967, p. 71: «Negli studi
crociani generalmente si trascurano purtroppo le parti propriamente storiografiche delle sue
singole opere».
4 Il giudizio è dello stesso Croce già nella prima edizione (1902, p. 517) e mantenuto
immutato in tutte le successive.
5 La precisazione crociana («Circa la bibliografia, che segue, l’aut. dichiara che ha incluso
in essa, per comodo dei lettori, anche i titoli di alcune opere, che non gli è stato possibile
avere tra mano»), presente nella prima (1902, p. 515) e seconda (1904, p. 504) edizione, è
stata successivamente espunta.
6 Croce 1902, p. 519. Si tratta di una rivendicazione che Croce manterrà in tutte le edizioni del libro (solo, a partire dalla seconda edizione, p. 508, la parola “espressione“ acquisterà
l’iniziale maiuscola).
7 Segnalo soprattutto questo, in quanto frutto meritorio specifico delle ricerche condotte
nell’ambito dell’Estetica, che lo stesso Croce (1902, p. ix) tenne a rivendicare: «specie in questa Italia, le cui tradizioni estetiche, come a suo luogo verrà mostrato, sono fra le più nobili».
Per tutti, ricordo il giudizio professato su Antonio Conti (ivi, p. 249), che «col travaglio del
pensiero e con la ricerca del meglio, si mantiene al più alto livello della speculazione estetica
europea di allora (fatta sempre eccezione del solitario Vico), livello al quale si trovava in
Germania anche il Baumgarten». Laddove il giovane Croce (1886, p. 478), condividendo la
generale disistima degli studiosi stranieri per il lavoro estetico fattosi in Italia, riteneva che «il
Tari fosse l’unico che in Italia coltivasse gli studî di Estetica filosofica […]. Antonio Tari non
si riattaccava a tradizioni di studî italiani, perché, sarà forse spiacevole, ma nel campo da lui
coltivato queste tradizioni mancavano». E ancora otto anni dopo (1894, pp. 160-61) scriveva:
«Da noi […] il più completo abbandono regna sempre nel campo dell’Estetica. L’Italia, anche pel passato, non ha abbondato di estetici notevoli e originali; dopo i precettisti oraziani
e aristotelici, può presentare solo una serie di semplici espositori e divulgatori dell’estetica
francese (Batteux), e dell’estetica inglese (Burke, Hogarth), e dell’estetica tedesca (Kant, Hegel). Nel nostro secolo, la filosofia tedesca educò un gruppo di filosofi, per molti rispetti,
notevole; ma essi si rinchiusero nel problema del Conoscere e dell’Essere (come lo Spaventa
e i suoi scolari), e taluno soltanto si estese anche ai problemi etici e religiosi. All’estetica si
rivolse Antonio Tari, eco di molti sistemi filosofici tedeschi, da lui alquanto bizzarramente
conciliati e combinati. Morto il Tari, è con lui morta in Italia ogni seria tradizione estetica»;
e aggiungeva in nota: «Varrebbe la pena di fare un lavoro complessivo su tutti gli estetici
italiani, ma in modo molto conciso, come si conviene allo scarso valore della produzione
italiana in questa parte». Cosa che, appunto, lui stesso avrebbe fatto dopo qualche anno nella
“Storia” (dove rifuse anche i suoi primi lavori sull’estetica vichiana: 1901 e 1902a), nei lavori
di quel periodo (1899, 1901b, 1901c, 1901d, 1902b, 1903b, 1905) poi raccolti in Problemi di
Estetica (1910) col titolo complessivo di “Per la storia dell’Estetica italiana”, e in tanti altri
seriori, giungendo a ben diverse conclusioni. Nell’Aesthetica in nuce (1929, pp. 36-38), per
esempio, argomenterà che in pratica a partire dal Rinascimento tutta l’estetica moderna, e
dunque per lui l’estetica in senso stretto, ha un’impronta italiana – Croce, fra l’altro, farà sua
la tesi dell’«origine italiana dell’Estetica romantica» – culminata in Vico. È ben nota inoltre la
positiva influenza esercitata da Croce in questo campo, nel quale, piuttosto che il volume di
Rolla 1904, criticato a fondo da Croce 1905, sul piano dei giudizi storiografici oltre che sul
metodo, mi piace segnalare i profili successivi di Caramella 1924 e Cesareo 1924.
68
8
A quanto si sa, la ricezione italiana della “Storia”, dove ci fu, fu strettamente protocollare (Faggi 1902, p. 459: «merito va reso a Benedetto Croce, il quale ha anche […] fatto
seguire alla parte teorica una storia dell’Estetica, che, per ciò che concerne le teorie estetiche
italiane, così facilmente da noi dimenticate come tutto ciò che è pensiero italiano, ha una vera
importanza»); nel vuoto, si lascia apprezzare qualche osservazione di Neri 1903, pp. 465-66:
«La Storia del C. si rappresenta lo svolgimento dell’Estetica come scienza dell’espressione,
scienza moderna, di cui le prime linee già si disegnano nell’opera universale del Vico; nondimeno il C. riprende brevemente lo studio delle teoriche dell’arte nell’antichità. Riconosciuto
il valore di questa ricca e densa rassegna, non sta ora in noi rilevare o aggredire alcuni giudizj
e alcune vedute particolari; ma da un’osservazione non sappiamo tenerci, poiché ci pare che
il Kant e lo Schopenhauer n’escan più depressi che non si convenga, in una storia appunto
della scienza intuitiva: l’intuizione, quale mezzo conoscitivo necessario e indipendente, entra
davvero nel dominio scientifico col Kant. È, più che altro, una questione di proporzioni: il
C., dopo la scoperta del Vico, ha reagito anche troppo contro i pensatori tedeschi. […] La
Storia del C. ha sulle precedenti il merito di tener conto e di trattar più da vicino di certe
opere critiche, ch’erano state prima escluse o trascurate, ritenute quasi estranee all’estetica
propriamente detta: ad es. le Poetiche del Cinquecento. E uno dei più vibrati capitoli di tutto
il libro è quello sul De Sanctis, argomento carissimo al C.; il quale anche riconosce – ciò che
davvero non gli accade di frequente – un grande valore negli scritti di due estetici, l’Hanslick
e il Fiedler, che sono appunto due critici».
9 Zimmermann pubblicò la Geschichte der Ästhetik als Philosophischer Wissenschaft nel
1858 e l’Allgemeine Ästhetik als Formwissenschaft nel 1865. Vale la pena ribadire questo punto,
perché stranamente equivocato. Addirittura, la recente (1973) ristampa anastatica del dittico
estetico di Zimmermann titola sbrigativamente la copertina: Geschichte der Ästhetik, vol. 1 e 2!
10 Nel corso delle varie edizioni questo frontespizio ha ricevuto modifiche solo formali.
Nella seconda edizione sono stati eliminati i numeri romani («Teoria e Storia.»), nelle successive si è riscritto tutto in maiuscoletto eliminando il punto finale («teoria e storia»); è
dunque rimasta, per quanto meno marcata tipograficamente, la presentazione originale del
volume in due parti distinte.
11 Tale inizio, a partire dalla terza edizione (1908, p. vii), è stato mutato nel modo seguente: «Questo volume è composto di una parte teorica e di una parte storica, ossia di due
libri indipendenti, ma che si aiutano a vicenda».
12 Croce 1902, pp. viii-ix. A partire dalla seconda edizione (p. viii) la frase verrà definitivamente modificata in «se il tentativo teorico qui esposto e l’illustrazione storica con la
quale è accompagnato».
13 Croce 1902, p. 513. Nelle prime due edizioni Croce ha ordinato l’appendice bibliografica in due sezioni simmetriche alle due parti del volume; a partire dalla terza ha unificato
l’appendice, eliminando sia quella relativa alla parte teorica sia i primi due capoversi di quella
storica, alla quale sono stati progressivamente aggiunti integrazioni ed aggiornamenti.
14 Croce 1902, pp. 514-15: «Quando si è percorsa faticosamente, e spesso errando, la via
che conduce al punto cui si mirava, nasce, insieme col vano desiderio di tornar sul passato, e
ripercorrere quella in modo più razionale, il desiderio, forse non vano di mettere a profitto
l’esperienza acquistata, indicando altrui la via più breve e sicura. L’autore ardisce, dunque,
di dare un suggerimento a coloro che imprenderanno a lavorare in séguito nel campo dell’Estetica. Ed il suggerimento è, di non cacciarsi, sul principio, nella sterminata ed intricata
letteratura dell’argomento, ma limitare la meditazione e lo studio a quattro libri capitali: la
Poetica aristotelica, la Scienza nuova del Vico, la Critica del giudizio del Kant, e le Lezioni
di estetica dello Schleiermacher; adoprando la prima col commento del Butcher, e la terza
col saggio critico del Basch. A questi sarà bene accompagnare alcuni libri di critici d’arte
filosofi, come quelli italiani del De Sanctis, e tedeschi dell’Hanslick e del Fiedler. In seconda
linea, si potranno studiare tre libri del secolo xviii, che mostrano l’Estetica come scienza
nella ingenuità della sua infanzia: le Réflexions del Du Bos, l’Aesthetica del Baumgarten (o,
in sostituzione, gli Anfangsgründe del Meier), ed infine il Laocoonte del Lessing (nell’ediz. del
Blümner). Per farsi un’idea dell’estetica metafisica tedesca, sarà da prescegliere la Filosofia del
Bello dell’Hartmann, che la presenta nel suo massimo svolgimento e può tenere il luogo di
tutte le altre trattazioni simili». Ho riportato per intero questo interessantissimo passo anche
perché, come già detto nella nota precedente, l’appendice della parte teorica, da cui è tratto,
a partire dalla terza edizione è stata espunta dal Croce.
15
Croce 1902, p. 516.
16 Croce 1902, p. 517. Anche il passo da cui si è citato ha subito i consueti rimaneg-
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giamenti. La redazione finale è: «L’opera, condotta secondo i concetti dello herbartismo, è
ragguardevole per solidità di ricerche e lucidezza d’esposizione. Ma il criterio errato e la trascuranza di tutto il movimento estetico che non sia greco-latino e tedesco, la rendono difettosa».
Segnalo fin d’ora, come elemento significativo e ricorrente, sul quale mi soffermerò in seguito,
la sostituzione della locuzione «punto di vista» con «concetto» e «criterio».
17 Croce 1902, pp. 517-18. Anche questo passo ha subìto rimaneggiamenti seriori; la
modifica più significativa è costituita dalla sostituzione della frase «È condotta dal punto di
vista della metafisica hegeliana» con «L’autore, che è seguace dell’hegelismo, concepisce la sua
storia […]». È appena il caso di ricordare che ancora negli anni della prima edizione dell’Estetica non si era ancora realizzato l’incontro di Croce con la filosofia hegeliana. Egli stesso
ha chiarito (1915, pp. 344-5) che «Il lievito dello hegelismo sopraggiunse nel mio pensiero
assai tardi […] mercé l’amicizia e la collaborazione col Gentile […]. E quando (e fu nel 1905)
m’immersi nella lettura dei libri dello Hegel, […] nemmeno in quel periodo fui “hegeliano”».
18 Croce 1902, p. 518. Nelle riformulazioni successive, a parte la posposizione di questo
passo su Menéndez Pelayo a quelli dedicati agli autori d’area inglese (Bosanquet, Knight,
Saintsbury) e all’ungherese Jànosi, si registra la caduta della locuzione «punto di vista» e la
frase diventa: «di questa incertezza teorica dell’autore».
19 Croce 1902, p. 518. Anche qui, la locuzione «condotto da un punto di vista eclettico»
diventerà successivamente «condotto con un criterio eclettico». In questa prima edizione, Croce si limita a indicare le referenze bibliografiche dell’opera di Knight, che non sembra abbia
potuto consultare, laddove una valutazione circostanziata ne verrà data a partire dalla seconda
edizione (1904, p. 506), nella quale (p. 507) verrà ricordato anche il lavoro «inaccessibile»
dell’ungherese Jànosi. Per altro, già nella prima (1902, p. 519) viene data una estimazione
pertinente dell’opera di Saintsbury.
20 Croce 1902, p. 519. Il passo verrà in seguito così formulato: «Una storia generale dell’Estetica, secondo il principio dell’Espressione, non è stata, prima di questa nostra, tentata».
21 Croce 1900, p. 4. Com’è noto, si tratta della celebre memoria preliminare (letta all’Accademia Pontaniana di Napoli nelle tornate del 18 febbraio, 18 marzo e 6 maggio del 1900,
e fisicamente finita di stampare alla fine di maggio), che Croce, per ragioni che si esamineranno più avanti, quasi a titolo di prova più che di anticipazione, volle far circolare prima
di chiudere il volume che verrà pubblicato due anni dopo col titolo di Estetica. In verità (a
parte quanto lo stesso Croce andrà dichiarando nelle successive edizioni dell’Estetica, e che
considereremo a parte, in un altro momento), esisteva anche una breve nota intitolata Di
alcune leggi di storia delle scienze (Croce 1901a, pp. 193-99), interessantissima per il tema
complessivo della nostra ricerca, in quanto vi vengono dichiaratamente esplicitati da Croce
i criteri con i quali, «occupato nello scrivere un sommario di storia dell’Estetica», sta procedendo. A questa egli rimanda, per altro, solo – e la cosa non è senza significato – nelle prime
due edizioni dell’Estetica (1902, p. 520; 1904, p. 508). E però anche questa nota, sulla quale
ci soffermeremo specificatamente più avanti, non offre elementi significativi per il problema
particolare che in atto indaghiamo.
22 Croce 1915, pp. 332-33.
23 Croce 1896-1924. Queste lettere (delle quali era stata anticipata nel 1969 nel “Giornale
critico della filosofia italiana” la pubblicazione relativa all’arco cronologico 1896-99) presentano, in generale, motivi di grande interesse per la conoscenza della cultura filosofica italiana
dell’epoca; ma sono poi assolutamente preziose per conoscere le fasi preparatorie e le modalità dell’inizio dell’impegno sistematico di Croce in estetica, e in particolare la composizione
dell’Estetica. Tanto più che è stata parallelamente realizzata anche la pubblicazione, in tre
volumi, delle corrispettive lettere di Gentile, che consente una visione organica dell’intero
carteggio epistolare.
24 Corsi 1972, p. 268. Tale giudizio si riferiva alla pubblicazione, citata nella nota precedente, delle lettere crociane degli anni 1896-99.
25 Rimando, globalmente, ai brevi testi scritti da Croce negli anni 1883-87, e successivamente raccolti e pubblicati col titolo “Iuvenilia” nel primo volume delle sue Pagine sparse.
Per altro, questa presenza “estetica” non mi pare specificatamente evidenziata negli importanti
studi di Corsi 1951 e Agazzi 1962. Laddove non era sfuggito ad Attisani 1950, p. 290, almeno
che «l’interessamento del Croce ai problemi di estetica risale agli anni della sua prima giovinezza, come si rileva da alcuni scritti composti fra i diciannove e i vent’anni e poi raccolti
nell’opuscolo Iuvenilia». Ma sulla vocazione filosofica giovanile di Croce, cfr. anzitutto quanto
da lui stesso precisato, sia nel Contributo (1915, p. 322 ss.) che nelle postume Memorie, p.
12 ss.; per quest’ultimo scritto rimando alle osservazioni di Parente 1967.
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26
Segnatamente, che mancasse in Italia una tradizione di studi di estetica, e l’apprezzamento di Tari, per questi Saggi e la precedente Estetica Ideale, come importante cultore
di essi.
27
Croce 1886a, p. 479. Non è chiaro quali fossero state, a questa data, le letture crociane
dell’estetica tedesca. Da alcune lettere di Antonio Labriola (1885-1904, pp. 4 e 8) a Croce
del gennaio 1886, periodo in cui egli lo avviava alle letture filosofiche e gli dava consigli
bibliografici, apprendiamo: «Lo Zimmermann vi fu spedito l’altra sera. Per ora vi consiglierei
di non leggere altri libri di Estetica. […] Lo Schasler non lo conosco per niente. Quando lo
avrete letto me ne saprete a dire qualcosa. Il Siebeck è un buon libro, che conosco da molti
anni. La storia dell’estetica del Loewe si cercherà». Notizia da correlare con quanto Croce
dirà nelle postume Memorie, pp. 15-16: «Fin dal 1885 nel ritirarmi a Napoli avevo formato
il proposito di studiare la scienza estetica, ed avevo acquistato perciò molti volumi tedeschi
sull’argomento (avevo imparato il tedesco nel 1883 e 1884); ma la mancanza d’indirizzo, il
non avere compagni di studio, la tormentosa erroneità di quegli operosi tedeschi, e il non
contentarmi di capire a mezzo o di accettare sull’autorità altrui le verità filosofiche, mi fecero, dopo alcuni mesi, intermettere quegli studii, ai quali per altro pensai sovente come a un
debito da pagare verso me stesso».
28 Croce 1886a, p. 480.
29 Ibidem.
30 Lo stesso Croce (1915, p. 343) indicherà questa sua condizione giovanile come «idealista desanctisiano in estetica». Tari, per altro, appare da lui ridimensionato già nel saggio
sulla Critica letteraria (1894), dove nondimeno gli verrà mantenuto il riconoscimento di aver
rappresentato in Italia «ogni seria tradizione estetica», cioè idealistica (meglio di esponenti
successivi, come Gallo 1880); manifestazioni, che soprattutto in termini di simpatia umana,
continuarono anche in seguito (cfr. l’Estetica, pp. 407-11), e che nel 1911 si concretarono nella
raccolta a sua cura dei Saggi di estetica e di metafisica, di quel Tari (come si legge nell’Avvertenza di Croce 1911b, p. 226) che «filosofo di professione e uomo di dottrina enciclopedica,
era, nonostante la sua grande perizia filosofica, la sua sterminata dottrina e il suo molto acume,
soprattutto un bizzarro artista».
31 Croce 1886a, p. 480: «Questa è la strana condizione della cultura in Italia: con la morte
di uno studioso, muore anche il ramo di studio che egli coltivava. E, con lo Spaventa, è morta
la filosofia speculativa, col Fiorentino, la storia della filosofia, col De Sanctis la critica estetica,
col Tari l’Estetica. Che se (quod absit) domani morissero il Carducci, l’Ascoli o il Bonghi,
morirebbero tutt’insieme la poesia, la glottologia e gli studi platonici».
32 Forse più di oggi, era allora abbastanza netta la distinzione fra “estetica” come filosofia
dell’arte e il lavoro pur teorico nel campo delle arti definito con locuzioni quali “critica estetica” o “estetica della letteratura”. In questo quadro, Labriola (1885-1904, p. 9) in quegli anni
scriveva a Croce frasi del tipo: «Non ho mai saputo che Macaulay fosse inventore e esperitore
di teorie critiche nel senso vostro, che vi occupate di estetica della letteratura, e specie della
poesia» (corsivo di Labriola). Per esempio, il decreto ministeriale di conferimento della libera
docenza a Nicolò Gallo (riprodotto in Filippi 1986), datato 9 maggio 1884, recita: «Estetica
intesa come disciplina filosofica applicata allo studio della Letteratura».
33 Croce 1896-99, p. 86. Corsivo dell’autore.
34 Per i quali cfr. il fondamentale studio di Corsi 1951 e ulteriori osservazioni di Agazzi
1962. Uso la parola “fermenti” nella stessa accezione adoperata da Croce, a partire dalla terza
edizione (1908, p. 213 ss.) della “Storia”.
35 Tale distinzione rimonta allo stesso Croce 1915, p. 343; nelle Memorie, p. 16, viene
precisato che: «Da allora in poi, [dopo la «mia prima memoria filosofica» La Storia] volente
o nolente, non ho potuto più abbandonare gli studi filosofici».
36 È un commento prodotto anni dopo dallo stesso Croce (1943, p. 102), che ragguaglia
anche sulle polemiche suscitate dallo scritto. Nel Contributo (1915, p. 328), a questo riguardo aveva scritto: «quasi a dar forma più ampia e precisa a una discussione che avevo avuta
durante la villeggiatura con un amico professore di filologia, scrissi sul finire del ’94, rapidamente, in un paio di settimane, un libricciuolo polemico sul metodo della Critica letteraria e
sulle condizioni di essa in Italia, che mise a rumore quel piccolo mondo e mi cacciò in molte
brighe, le quali durarono parecchi mesi».
37 Croce 1894, pp. 77 e 75.
38 Croce 1894, p. 83.
39
Croce 1894, p. 84.
40 Croce 1894, p. 91.
71
Croce 1894, p. 97.
Croce 1900, p. 18: «Nel mio libro sulla Critica letteraria, […] nel criticare il falso
oggettivismo, inclinavo verso il relativismo estetico»; corsivi dell’autore. E nel 1918, nella
“Prefazione“ alla ristampa del lavoro nei Primi saggi, p. xiv osserverà ancora: «finivo col
disconoscere la valutazione estetica negandole validità oggettiva, la qual cosa era conseguenza
dell’averla resa herbartianamente astorica o antistorica».
43 Croce 1894, p. 158.
44 Croce 1894, p. 159.
45 La citazione è tratta dal saggio La critica e la storia delle arti figurative e le sue condizioni presenti (1919, p. 274); laddove La critica letteraria come filosofia (1918) è titolo di
un’altro noto saggio crociano.
46 Croce 1894, p. 159.
47 Croce affermerà nel 1918, nella già ricordata “Prefazione“ alla ristampa del saggio,
pp. xii-xiii: «Filologi e letterati si comportavano in quel tempo a mo’ di positivisti ed evoluzionisti della storia letteraria; e io, che vivevo in loro compagnia, mi rivolsi contro di essi,
rimproverandoli di trascurare la logica della loro disciplina e di attenersi a rozzi equivoci e
contraddittorî concetti, e inculcando una ripresa delle indagini logiche circa la teoria della
Critica letteraria, e soprattutto lo studio della Logica della fantasia o Estetica».
48 Questo motivo di rilevanza della Critica letteraria non è sfuggito a Caracciolo 1948,
pp. 18-19: «Lo scritto interessa in quanto […] fa esplicitamente valere la necessità di un
universale concetto dell’arte, cioè di un’estetica, per la comprensione della concreta opera
d’arte. Dall’esame dunque della metodologia critica e storiografica il Croce giunge a postulare
la necessità di una estetica […]. È significativo il fatto che lo scritto che esamina appunto
il processo critico si chiuda con una hortatio ad Aestheticen e con una promessa di lavoro
in tal campo».
49 Croce 1894, p. 160.
50 Come già ricordato, Croce modificherà ben presto radicalmente questo corrente (pre)
giudizio.
51 Croce 1894, pp. 161-62, prosegue: «come dice uno di codesti estetici, Paolo Mantegazza; ma, in verità, della vecchia Estetica, ch’essi aborrono e disprezzano, non sanno nulla
di nulla e forse scambiano per positivismo ciò ch’è, in fondo, pigrizia intellettuale bella e
buona». Il durissimo attacco, oltre che a Mantegazza 1891, è esteso anche a Pilo 1894.
52 Croce 1894, p. 162: «Può mai venire sul serio in mente, che una scienza, intorno alla
quale, da un secolo a questa parte, si sono affaticati uomini che si chiamano Kant e Hegel,
Herbart e Schopenhauer, Lotze e Hartmann, ossia alcuni degli intelletti maggiori che abbia
prodotti il mondo europeo; una scienza che conta una letteratura copiosissima, frutto del
lavoro intellettuale di parecchie generazioni di studiosi; una scienza, che ha avuto le sue
lotte, i suoi contrasti, un’intera storia, che si può trovare esposta in una serie di libri speciali;
può mai saltare in mente che non sia altro che un gran vento di chiacchiere e un ammasso
d’inutile carta stampata? e che non valga la pena nemmeno di degnarla di uno sguardo? e
che servirebbe solo a far perdere tempo, e che giovi perciò cominciare da capo, con nuovo
metodo, sopra un suolo sgombro di ogni anteriore costruzione?».
53 Croce 1894, p. 163: «Certo, quei molti volumi tedeschi sono assai oscuri e difficili;
certo, essi hanno in genere un peccato d’origine, essendo nati non tanto da spontanee e
dirette ricerche sull’arte e sul bello, quanto dal bisogno di riempire una casella nei sistemi
filosofici, che rapidamente si seguirono in Germania dopo le tre Critiche, onde sono turbati
dalla continua mescolanza di speculazioni metafisiche. E concederò ancora volentieri che
alcuni di essi rappresentino nient’altro che grosse assurdità. Ma tra le oscurezze, i pregiudizî
sistematici e le metafisicherie e gli assurdi, pur vi abbondano le vedute geniali, le osservazioni acute, i pensieri scientifici veri e proprî. E rappresentano, nel loro complesso, un gran
lavoro, che non può andare perduto». In realtà Croce manterrà sempre un sentimento di
ambivalenza nei confronti dei «volumi tedeschi» di estetica che aveva faticosamente studiato in giovinezza (cfr. la precedente n. 27). Dal curriculum vitae incluso nelle Memorie, p.
16, sappiamo che aveva imparato il tedesco nel 1883 e 1884, cosa che gli aveva consentito
di verificare la «tormentosa erroneità di quegli operosi tedeschi» in estetica. Similmente si
esprime nel Contributo (1915, p. 325): «Mi provavo a leggere, in certi ritorni su me stesso,
qualche libro di filosofia (quasi sempre tedesco, perché la fede nel “libro tedesco” mi era stata
inculcata dallo Spaventa e rafforzata dal Labriola), ma non l’intendevo bene e mi scoraggiavo,
persuaso che il non intendere fosse sempre mio difetto e non mai intrinseca inintelligibilità e
artificiosità di quei sistemi». Gli è che nella “Storia” dell’Estetica i «vecchi estetici tedeschi»
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sono pesantemente trattati; e di ciò Croce farà ammenda nella quinta edizione (1922, pp.
viii-ix): «Ora renderei […] migliore giustizia ai pensatori precedenti, […] specie tedeschi.
[…] spetta all’opera degli studiosi tedeschi, così nel campo dell’Estetica come in tanti altri
campi, il merito d’aver voltato e rivoltato il terreno e provato d’inserirvi i più varî semi e condurvi le più varie culture, con tenacia eroica se anche talvolta di eroica pedanteria». E però
in una più tarda nota (1943, pp. 88-89) tirerà questo bilancio conclusivo: «La superstizione,
che mi era stata inculcata nella mia giovinezza, della serietà e profondità dei libri tedeschi, li
aveva fatti prendere anche a me, per qualche tempo, sul serio; ma, quando alfine operarono
sul mio intelletto, non operarono altrimenti che da rivulsivi»; ribadito fino all’ultimo (1950,
p. 10): «Che cosa m’importavano i metodi, i concetti, la dottrina dei molti trattati tedeschi
d’estetica, pieni dei ricordi di tanta superba filosofia, nei quali tuttavia non era mai còlto il
proprio dell’arte, il punto delicatissimo e saldissimo di ogni ragionamento intorno all’arte?».
54 Croce 1894, p. 163.
55 Croce 1894, p. 164.
56 Ibidem.
57 Ibidem. A questa data, tuttavia, Croce non conosceva ancora direttamente i testi di
Baumgarten.
58 Croce 1894, p. 165. In verità, successivamente Croce (1915, p. 328) sembrò assegnare
una funzione alquanto limitata a questo intervento. Indicherà che «quel libricciuolo doveva
essere nella mia intenzione un mezzo per definire a me stesso la metodica della storiografia
letteraria, come già avevo fatto per storia in genere: un atto insomma di liberazione personale, e non l’inizio di una professione di filosofo dell’arte: tanto che, non ancora sedate le
polemiche, già io era tornato alle indagini ispano-italiane, e […] tentavo il vasto pelago del
Seicento». E però, nello stesso luogo (p. 331), il contesto dà indicazioni più articolate, in
quanto, pur riportando alla fine del ’98 «il proposito di comporre una Estetica e una storia
dell’Estetica», esso viene motivato con la spiegazione che «si rinnovò in me il bisogno di dare
forma […] alle vecchie mie meditazioni sull’arte, che fra tante interruzioni e distrazioni mi
avevano pur accompagnato costantemente già dagli anni del liceo in cui leggevo le pagine del
De Sanctis, e che nel corso dei miei più recenti studî avevano perso il loro carattere isolato
e monografico, entrando in relazione con gli altri problemi dello spirito».
59 Croce 1984, p. 165: «[…] la condizione degli studî di estetica, in Italia, non è lieta.
[…] Donde la generale trascuranza, nella quale essa giace; e lo studioso, che si dà a tali indagini e meditazioni, è costretto a vivere in una sorta di solitudine intellettuale, che non solo
priva l’animo di ogni incoraggiamento, ma, quel ch’è peggio, aggrava le difficoltà, togliendo
l’aiuto della feconda disputa».
60 La prima missiva di Croce a Gentile è una cartolina postale, con timbro Torre del
Greco 27 giugno 1896, nella quale egli ringrazia il giovanissimo studioso (ancora studente
alla Normale di Pisa) dell’invio del suo saggio fresco di stampa Delle commedie di Anton
Francesco Grazzini detto il Lasca (1896).
61 Labriola 1885-1904, p. 65: «A proposito dell’articolo mio: mi permettete di mandarvene il manoscritto? Vedrete voi se sia il caso che io ne faccia un opuscolo italiano». Labriola
aveva già inviato il suo «lungo articolo-monografia» alla neonata rivista marxista francese
“Devenir Social”.
62 Croce 1915, p. 329. Nel saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia,
scritto in occasione della pubblicazione della Concezione materialistica della storia di Labriola
e, a partire dalla sesta edizione, posto come appendice al Materialismo storico, Croce 1938,
p. 282, racconterà così l’episodio: «[…] infiammato dalla lettura delle pagine del Labriola,
preso dal sentimento di una rivelazione che si apriva al mio spirito ansioso, non posi tempo
in mezzo e mi cacciai tutto nello studio del Marx e degli economisti e dei comunisti antichi e
moderni, studio che dovevo proseguire intensamente, per oltre due anni». Ivi Croce raccontò
distesamente anche le vicende dell’affettuosa amicizia che lo legò a Labriola, alla morte del
quale ne aveva già tracciato uno schizzo biografico (Croce 1904b).
63 È indiscutibile l’importanza complessiva dell’incontro di Croce con il marxismo, testimoniata tra l’altro dalla serie di saggi raccolti in volume col titolo Materialismo storico ed economia marxistica (1900), e i numerosi giudizi di apprezzamento da lui espressi in vari luoghi (per
esempio, 1921, ii, pp. 217-18: «La storiografia italiana non poteva risollevarsi dalle bassure, in
cui s’attardava malcontenta, se non per virtù di una risoluta scossa filosofica […] la cosiddetta
concezione materialistica della storia»), ma per determinati suoi meriti culturali piuttosto che
teorici. Eccede del tutto gli scopi del presente lavoro partecipare tuttavia all’annosa polemica
sulla valutazione di tale incidenza. Segnaliamo appena che essa ha visto, a un estremo, la tesi
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interpretativa di Garbari 1949, che sostiene la centralità esclusiva delle problematiche estetiche nella formazione e lo sviluppo del pensiero crociano, e, dall’altro, quella di Agazzi 1962,
che postula un nucleo interpretativo essenzialmente determinato dal materialismo storico; fra
questi due estremi esiste un arco esegetico variegato, per il quale cfr. almeno: Mautino 1941,
Sgroi 1947, Caracciolo 1948, Antoni 1950, Segre 1950, Corsi 1951, Pagallo 1952, Sainati 1953,
Abbate 1955, Garin 1955, Rossi 1957, Bruno 1958, Mossini 1959, Mastroianni 1961, Rossi
1964, Franchini 1966, Marramao 1969, De Castris 1978, Rizzo Celona 1982.
64 Croce 1896-1924, p. 34, in una lettera scritta a Gentile il 23 novembre 1898 confiderà:
«Quanto al materialismo storico, vi annunzio che non voglio più occuparmene. […] Nell’anno
prossimo penso di riunire i miei varii scritti sul marxismo, […] vi farò una prefazione; e li
comporrò in un volume... come in una bara. Dal marxismo ho ricavato ciò che mi occorreva».
65 Croce 1915, p. 331.
66 Croce 1896-1924, p. 37. Il riferimento di Croce è alla dissertazione di laurea di Gentile
Rosmini e Gioberti, pubblicata inizialmente nel 1899 (in estratto nel 1898) nel xxiii volume
degli “Annali della R. Scuola Normale di Pisa”, e che Croce (1899b) recensirà nella “Rassegna
critica della letteratura italiana”, iv (1899).
67 Croce 1896-924, pp. 39-40. Corsivo dell’autore.
68 Croce 1896-924, p. 45.
69 Croce 1896-924, p. 51.
70 Gentile 1896-1900, lett. 12 giugno, pp. 179-80: «Sento con molto piacere che avete ripreso e proseguite alacremente i vostri studj di estetica; di cui spero di veder prossimi i frutti.
Giacché il vostro libro potrebbe richiamare l’attenzione di chi studia in Italia su questo genere
di questioni, che sole possono rinsanguare e rinvigorire la nostra languente critica letteraria».
71 Croce 1915, p. 331: «Quando mi accinsi all’opera e cominciai a raccogliere i miei sparsi
concetti, mi ritrovai ignorantissimo: le lacune si moltiplicarono al mio sguardo; quelle stesse
cose, che credevo tenere ben ferme, ondeggiarono e si confusero; problemi non sospettati
si fecero innanzi chiedendo risposta; e per cinque mesi quasi non lessi nulla, passeggiai per
lunghe ore, passai mezze giornate e giornate intere sdraiato sul sofà, frugando assiduamente
in me stesso, e segnando sulla carta appunti e pensieri, dei quali l’uno criticava l’altro».
72 Probabilmente, in questo caso, si trattò anche di più. A considerare nosologicamente
la sintomatologia di questo «aspro travaglio», pur dagli scarsi accenni dati nel Contributo
(cfr. n. precedente), esso fa pensare infatti a quella condizione clinica che già Novalis chiamò
«ipocondria sublime», e che Ellenberger 1970, ha individuato nella biografia di altri grandi
pensatori, e col nome di «malattia creativa» ha descritto in questi termini (pp. 515-16): «Una
malattia creativa segue a un periodo dominato da un’idea e dalla ricerca di una certa verità. Si
tratta di una condizione polimorfa che può presentarsi in forma di depressione, di nevrosi, di
sofferenze psicosomatiche, o anche di psicosi. Quali che siano i sintomi, essi vengono sentiti
dal soggetto come penosi, se non tormentosi, con periodi alterni di sollievo e di peggioramento. Nel corso della malattia il soggetto non perde mai il filo della sua preoccupazione
dominante, che spesso è compatibile con una normale attività professionale e con la vita di
famiglia. Ma anche se il soggetto mantiene le sue attività sociali, egli è quasi interamente assorbito da sé stesso; soffre di sensazioni di isolamento assoluto […]. La conclusione è spesso
rapida e segnata da una fase di buon umore. Il soggetto esce dalla sua ordalia trasformato
permanentemente nella propria personalità e con la convinzione di aver scoperto una grande
verità o un nuovo mondo spirituale».
73 Croce 1896-924, p. 52. Corsivo dell’autore.
74 Croce 1896-924. La memoria, presentata all’Accademia Pontaniana (Croce 1899) fu
poi ristampata (con l’accentazione del nome di Gracián, che manca anche nelle prime tre
edizioni dell’Estetica!) nei Problemi di Estetica. La lettera di Croce proseguiva: «voi troverete
accennata di nuovo la questione del seicentismo del contenuto. Ho fatto una palinodia in
tutta regola, e ho detto che debbo a voi l’avermi invitato a rimeditare sulla questione. La
memoria s’intitola: I trattatisti italiani del concettismo e Baltasar Gracian, In essa troverete
la genesi storica di quella distinzione, che ahimè! non era neanche originale, avendola ora
ritrovata nello Sforza Pallavicino, nel Marchese Orsi, nel Muratori, nel Parini, nel Corniani,
e in tanti altri vecchi scrittori che ora nessuno legge. Ed ho trovato anche che quella distinzione era già bravamente confutata dai sostenitori del secentismo, i quali avevano elaborato
sull’opera di Aristotile la fondamentale distinzione della persuasione dialettica dalla persuasione
rettorica. Vedrete». Il 30 giugno Gentile (1896-900, pp. 188-9) risponde: «Vi ringrazio della
interessantissima memoria sui Trattatisti del concettismo, e della cortese menzione che fate
del mio nome. Ora mi pare che siate perfettamente nel vero, pigliando per forma tutte quelle
74
mere nobili buffonerie, di cui parlava il Pellegrini. Mi è piaciuto vedere la storia di codesta
inesatta distinzione di vizj di contenuto e vizj di forma, che può aver luogo soltanto nella
teoria estetica dello Zumbini».
75
Croce 1896-1924, p. 57.
76 Il progetto crociano di una «Storia dell’Estetica in Italia» ritorna più volte anche nelle
sue lettere successive (21 agosto, p. 58; 15 settembre, p. 61). Esso, nel “Piano di studii” steso
nell’aprile del 1902 (Memorie, p. 29) verrà definito dal proposito di raccogliere alcuni lavori
già pubblicati, «e corregendoli e aggiungendo molti altri da scrivere pubblicare un volume
di Contributi alla Storia dell’Estetica». Infine il progetto si concretò (cfr. la precedente n. 7)
nell’apposito capitolo “Per la storia dell’Estetica italiana” dei Problemi di Estetica, volume
preventivato nel “Nuovo piano di studii” steso il 30 aprile 1907 (Memorie, p. 34).
77 Croce 1896-1924. Corsivi dell’autore. Garin 1966, p. 1291, sulla base di una lettera
di Croce ad Alessandro D’Ancona scritta il 14 dicembre 1899, nella quale egli informava
di essere occupato a stendere un «trattato di estetica» a cui doveva far seguito «una storia
dell’estetica», ha supposto che il proposito iniziale di Croce fosse una ricerca in due distinti
volumi, a differenza del «volume unico che riuniva teoria e storia» pubblicato nel 1902.
D’altro canto Simona Giannantoni, curatrice delle lettere di Gentile a Croce, commentando
la lettera scritta da Gentile il 26 agosto 1899, nella quale replica alle comunicazioni fattegli
da Croce il 21 precedente, ha osservato (p. 199): «Il Croce parlandogli dello schema del suo
volume sull’Estetica (ora parla di un volume unico diviso in una parte teorica e una storica
che sarà poi quello effettivamente adottato, mentre nella cart. cit. del 10 agosto sembrava
pensare a due testi distinti) […]». In realtà, da un attento esame della corrispondenza CroceGentile si evince: a) già alla fine del 1898 Croce progettava la futura Estetica come un’unica
trattazione distinta in parti, delle quali una teorica e una storica, inframmezzate da una terza
dedicata alle «deviazioni dell’Estetica», poi lasciata cadere e assorbita da quella storica; b),
pertanto, nella comunicazione del 15 giugno, preannunciando a Gentile l’invio della memoria I trattatisti italiani, «che raccoglie materiale di uno dei capitoli della Storia dell’estetica,
che accompagnerà il Trattato», siamo tenuti a intendere che Croce con “accompagnerà” si
riferisse a una trattazione unitaria articolata in due parti strettamente coordinate; c) questa
disposizione del componendo volume viene confermata anche dalla cartolina del 10 agosto,
dove Croce distingue «la storia dell’estet. che seguirà» e «un volume da parte» riservato alla
storia dell’estetica italiana; d) in ogni caso, è intenibile ritenere che nel dicembre del 1899
Croce potesse pensare a due volumi distinti di teoria e storia dell’estetica.
78 Evidentemente a questa data Croce non aveva ancora approfondito la Storia di Zimmermann, autore che pure viene nominato nei suoi lavori degli anni precedenti, sia per
l’Allgemeine Ästhetik (Croce 1893, 1894) che per la Geschichte der Ästhetik (Croce 1894),
laddove nella parte storica dell’Estetica Bosanquet verrà alquanto ridimensionato e il primato
passerà allo Zimmermann. A fronte di questi riscontri testuali, debbo tuttavia avvertire che in
una, pur molto più tarda, lettera personale inviata a Bosanquet nel 1920, Croce (1914-35, p.
45) racconta: «Nel 1892 (ventott’anni fa) io ero ancora assai giovane e viaggiavo volentieri e
venni anche a Londra. E uno dei primi libri che vidi esposti nella bottega di un libraio, alla
quale mi soffermai il giorno del mio arrivo, fu la sua History of Aesthetics [sic!], della quale
subito feci acquisto. Allora ero tutto immerso negli studî di erudizione storica e letteraria;
ma di tanto in tanto tornavo a meditare sull’arte, e dal suo libro molto imparai e mi fu un
ristoro dopo le pesanti storie dello Schasler e dello Zimmermann».
79 Croce 1896-924, p. 58. Il testo prosegue: «Per esempio, posseggo 4 storie dell’estetica,
ciascuna con un capitolo sul Baumgarten; una storia della psicologia tedesca, con un cap. sul
Baumgarten; una monografia speciale sullo stesso autore; e una storia dell’origine dell’Est.
moderna, in cui si parla a lungo del Baumgarten. Eppure alcuni capitoli mi restano oscuri.
Per fortuna, il Farinelli mi ha promesso di provare ad acquistare una copia del Baumgarten,
o di farmela avere in prestito dalla Germania; e così potrò chiarire i miei dubbi».
80 Ibidem.
81 Ibidem. Gentile (1896-1900, pp. 198-200), in data 26 agosto, risponde: «Mi congratulo
vivamente dei progressi della vostra Estetica, che ardo dal desiderio di vedere. So bene che vi
toccherà per la parte storica lavorare assai e studiarvi dei grossi volumi […]. Sento con gran
soddisfazione che farete una parte notevole al nostro Vico, tanto trascurato dagli stranieri,
e dai nostri così inesattamente apprezzato. Leggerò con gran piacere il manoscritto che mi
promettete per la fine di settembre».
82
Corsi 1972, p. 284.
83 Croce 1896-1924, p. 61: «L’estetica tedesca ha sempre confuso insieme due ordini di
75
ricerche diversissime e di grado diseguale: la teorica della forma, e la teorica dell’edonistica
(che spesso diventa edonistica-moralistica), ossia una ricerca d’indole spirituale con una ricerca
d’indole psicologica. Di qui i maggiori pasticci. Il male appare allo scoperto ora che in Germania prevale il cosiddetto indirizzo psicologico dell’estetica. La mia idea fondamentale è, che
l’estetica sia una linguistica, o meglio che la linguistica sia un caso speciale dell’estetica generale;
e che come il linguaggio non è un fatto meramente psicologico, così il fatto estetico generale
non si può risolvere in leggi psicologiche e nell’associazionismo. Cercar l’origine dell’arte è
tanto assurdo come cercare l’origine del linguaggio, della coscienza, ecc.; dico, proporsi queste
ricerche come ricerche meramente storiche. Ho potuto fare curiosissimi e fecondi raffronti
tra l’estetica e la logica; tra i rapporti che legano la prima con la seconda, e quelli che legano
l’economica con l’etica; criticare a fondo i cosiddetti belli di contenuto, di cui non nego l’esistenza ma mostro la natura meramente psicologica; rifare la teorica del bello di natura; mostrar
l’assurdità del problema della classificazione delle arti, etc. etc. Insomma ho escogitato molte
cose che mi sembrano nuove; ma prima di pubblicarle, lascerò sbollire il mio entusiasmo!».
Corsivi dell’autore. Gentile (1896-1900, pp. 208-09) il 24 settembre risponde: «Mi congratulo
dei passi che fanno i vostri studj sull’estetica. I cenni fugaci che me ne fate, m’accrescono ed
acuiscono il desiderio del lavoro, che spero d’aver tra mano presto».
84 Croce 1896-1924, p. 61. Corsivi dell’autore. Croce continua riconfermando: «In un
volume da parte, pubblicherò una serie di monografie sugli estetici italiani».
85 Croce 1896-1924, p. 62. Di rimando, il 12 ottobre Gentile (1896-1900, pp. 210-11) dichiara il dispiacere di non potere subito «conversare un poco con voi, – specialmente intorno
alla vostra Estetica. Della quale tutto ciò che mi venite dicendo m’acuisce sempre più il desiderio. Intendo bene quel che vi costi di lavoro intellettuale; ma me ne riprometto altrettanto
bene pel frutto che ne uscirà, e per le utilissime discussioni che ne potranno derivare in Italia,
dove tutte le cose vostre sono sempre studiate e ricercate».
86 Il 25 novembre Croce (1896-1924, p. 64) informa Gentile: «Ho passato un brutto mese
di novembre, tra continue indisposizioni, con un’influenza noiosissima. Ora ho ripreso il mio
lavoro»; e nella stessa data scrive nella prima lettera (Croce 1899-1949, p. 2) a Vossler: «son
tornato a Napoli con l’illusione che avrei avuto un periodo di lavoro intenso; ma finora ho
concluso poco o nulla. Tra gli altri guai, da parecchie settimane ho addosso una noiosissima
influenza che mi ha mezzo istupidito. Ora mi sembra che me ne vada liberando. Così sia».
87 Croce 1896-99, p. 66. Il 22 dicembre Croce (1899-1949, p. 5) scriveva parallelamente
a Vossler: «Io vado stendendo da circa una settimana il libro che Ella sa. Ma ho purtroppo
qui a Napoli continue interruzioni».
88 Croce 1896-1924, p. 78: «In questa settimana ho abbozzato tutta la parte teorica dell’Estetica. Di essa farò presto una pubblicazione in poche copie come saggio. Così la vedrete;
conto poi di svilupparla più a lungo nel volume completo».
89 Croce 1896-1924, p. 79: «Sto dando l’ultima mano alla parte teorica della mia Estetica.
Ne farò una memoria per la Pontaniana, una grossa memoria di 120 o 140 pagine, credo: è
divisa in 8 capitoli e suddivisa in un’ottantina di paragrafi. […] Voi mi domanderete perché
mi risolvo a stampare così questa parte teorica. 1°) Ho bisogno di sentire il giudizio di qualche
amico. 2°) Ho bisogno di acquistare una certa libertà verso le idee da me esposte: il che non si
può ottenere se non pubblicandole. Solo più tardi potrò tornare sullo schema per rimpolparlo
di qualche esempio e di qualche polemica o questione secondaria ora tralasciata».
90 Croce 1896-1924, p. 81: «Debbo consegnare in tipografia la mia memoria sull’Estetica:
e non ne ho ancora cavato le mani. Anche ieri mi sono accorto che certe cose messe a principio dovevano andare in fine; e ho dovuto rifondere il lavoro. Ora mi pare che stia bene; e
nel corso di questa settimana prossima spero che sarà tutto passato in tipografia». Similmente
Croce (1899-1949, p. 9) informerà Vossler: «Ora mi sto sbrigando della I parte dell’Estetica.
Ho avuto molte interruzioni; e tra queste il cambiamento di casa»; e il 7 maggio (p. 10): «Ho
in tipografia la prima parte dell’Estetica, e spero che sia stampata fra qualche settimana».
91 Croce 1896-1924, p. 83: «Io sono stato occupato in quest’ultima settimana a menare
a termine la mia memoria sull’Estetica. Ier sera, ho finito. Debbo ora soltanto correggere e
copiare. Lunedì spero di dare in tipografia una buona parte del manoscritto. Del resto, non
credo che questa memoria supererà le 80 o 90 pagine in 4°».
92 Croce 1896-1924, p. 88.
93 Croce 1896-1924, p. 79.
94 Croce 1896-1924, p. 89: «Da parecchi mi si scrive ch’è oscura, e il Labriola continua
a scrivermi che egli non ne capisce nulla, malgrado che abbia riletto, e che questo suo non
capire mi deve preoccupare. A me comincia a parere che dovrebbe preoccupar lui!». In una
76
postilla pubblicata quarant’anni dopo, Croce 1940c, pp. 46-47, riferirà in pubblico dei giudizi negativi espressi da Labriola (1885-1904, lettere del 3 e 5/6 giugno 1900, pp. 339-41)
sul «primo abbozzo della mia Estetica». Per altro Vossler (1899-1949, p. 12) il 24 ottobre
lo informò che «Farinelli mi scrive che non è in tutto d’accordo colle sue Tesi di estetica».
Ritengo che l’incomprensione, o il non pieno apprezzamento delle Tesi, da parte di amici
come Labriola e Farinelli, non meno che l’ostilità manifestata da altri, abbia giocato qualche
ruolo anche nella successiva composizione della “Storia”.
95 Croce 1896-1924, p. 90: «Ho ricominciato a lavorare all’Estetica, ossia a far la critica
di ciò che ho scritto. Vedo la necessità di ritoccare alcune parti».
96 Il 27 giugno Gentile 1896-1900, p. 297, gli aveva scritto: «Ho pensato e ripensato sulle
vostre tesi fondamentali di estetica; e mi sono sempre più confermato nella prima impressione;
che per voi questa scienza si mette sulla sua via». L’indomani Croce 1896-1924, p. 91: «Mi ha
fatto molto piacere che abbiate trovato buono l’indirizzo della mia Estetica. Nello scriverla,
pensavo spesso all’impressione che voi ne avreste avuta».
97 Croce 1896-1924, p. 91.
98 La citazione è tratta dal Contributo (Croce 1915, p. 332), le altre notizie sono desunte
dalla corrispondenza con Gentile.
99 Cfr. Croce 1896-1924, p. 104.
100 Croce 1899-1949, pp. 12-3. Nel seguito della lettera non mancano talune affermazioni
molto interessanti: «Seguirà poi un volume di saggi su singoli punti di teoria e di storia. Ho
piacere ch’Ella s’interessi a questi studi, e che si confermi sempre più nella persuasione della
verità della dottrina da me esposta: anche io comincio a diventare seguace di me stesso! Nei
cinque mesi passati dalla pubblicazione dell’opuscolo [scilicet: le Tesi] l’ho più volte riletto
e rimeditato come l’opera di un estraneo, e ho visto che resiste alla critica. Non dovrò mutare se non nelle parti secondarie e laterali, e, specialmente, dovrò aggiungere ed allargare.
Anche la storia dell’Estetica mi viene di un disegno del tutto diverso da quello delle storie
finora scritte».
101 Croce 1915, p. 332. Nelle Memorie, p. 22, l’episodio è così riferito: «Dal novembre
1900 al maggio 1901 fui collaboratore del R. Commissario del Comune di Napoli comm.
Guala, come subcommissario col carico della pubblica istruzione, ufficio che mi assorbì quasi
del tutto per sei mesi. Di ciò che feci in quel periodo stesi una relazione nel maggio 1901,
allorché il Guala dette le dimissioni, e noi, suoi collaboratori, lo seguimmo».
102 Croce 1896-1924, p. 108.
103 Ibidem.
104 Croce 1896-1924, p. 109.
105 Croce 1896-1924, p. 111.
106 Cfr. Zimmermann 1858, pp. 608-34, e Hartmann 1886, pp. 156-69.
107 Croce 1896-1924, p. 108. Nella “Storia”, come già si è visto (cfr. infra, n. 14), l’Estetica di Schleiermacher è, insieme a quelli di Aristotele, Vico e Kant, uno dei «quattro libri
capitali» che Croce consiglia come introibo all’estetica.
108 Croce 1896-1924, p. 109.
109 Gentile 1901-6, p. 13. Corsivo mio.
110 Croce 1896-924, p. 109.
111 Croce 1915, p. 333. Nelle Memorie, in data 10 aprile 1902, p. 22, l’intero iter di
composizione dell’Estetica fu riferito così: «Dal novembre 1898, con pochi intervalli e con
lunghi periodi di attività continua nell’inverno 98-99, dall’autunno 1899 fino all’estate del
1900, e poi di nuovo dal giugno 1901 al dicembre dello stesso anno, ho lavorato alla mia
opera sull’Estetica, ora prossima ad uscire in luce». E in nota aggiunse: «La stampa è durata
dalla metà del nov. 1901 fino a questo aprile 1902».
77
Un’aberrazione prospettica
Abbiamo già dichiarato – ma giova ripetere – che lo scopo del presente studio non è di raccogliere “elementi di prova” per ottenere una
sorta di condanna scientifica della “Storia” di Benedetto Croce. Sarebbe, codesta, operazione tanto bislacca da costituire un’inutile perdita
di tempo.
Le precedenti manovre di avvicinamento, e gli approcci che ora
andremo procurando, piuttosto che propiziare una più nitida prospezione materiale del testo, sono rivolti a cogliere le condizioni formali
che l’hanno determinato. L’inquadramento della “Storia” che a noi
preme non è strettamente storiografico quanto epistemologico. O altrimenti detto: ciò cui miriamo non è di controllare, alla luce degli
studi successivi, la fondatezza e l’efficacia dei giudizi espressi da Croce
nella “Storia”, cioè condurne un’analisi storiografica “al quadrato”, in
termini, come oggi si dice, di “storia della storiografia”. A soddisfare
quell’esigenza, a noi accomoda, e possiamo riconfermare almeno nelle
grandi linee, l’acquisizione corrente, sufficientemente consolidata, della
significatività, comunque argomentata e quantificata, di quella fatica
crociana.
Per tacere di meriti storico-culturali generali, quali il salto complessivo di qualità che ha assicurato al clima intellettuale della sua epoca,
e in particolare il vuoto colmato della cultura italiana in un campo
d’insorgente prestigio scientifico, è certo fuor di dubbio, pur con tutte
le riserve che i posteri possono e debbono sempre avanzare intorno ai
loro predecessori, lo straordinario contributo dato dalla “Storia” alla
ricerca estetica. A nessun patto se ne può ignorare o minimizzare il
contributo all’approfondimento di importanti tematiche disciplinari, e
il merito della valorizzazione di alcuni autori sicuramente di non secondaria importanza. Si pensi, per questi primari contributi crociani,
ancor più che al topos di Vico “rivoluzionario scopritore della scienza
estetica” 1, all’intero capitolo riservato a Schleiermacher 2. Tuttavia, ciò
cui il presente studio è interessato non è la decantazione dello spessore
storiografico, ma l’enucleazione della problematica metodologica che lo
informa. Insomma, pienamente riconosciuta l’importanza della “scoperta” crociana di Schleiermacher, interessa poi conoscere quale sia l’ordine
problematico che ha determinato le condizioni di quella “scoperta”; e
79
dunque interessano ancor di più le ragioni di non meno significative,
anzi clamorose, corrispettive rimozioni liquidatorie di autori celebri della
storia dell’estetica, quali ad esempio Gracián o Batteux o Burke 3, in
grande fama pervenuti sino a Croce, e tutt’oggi riconfermati, secondo
diverse ottiche di ricerca, “classici” assolutamente cruciali 4.
Per altro la debolezza complessiva di questa “Storia”, o come abbiamo preferito dirne il carattere “sui generis”, è una valutazione da
tempo acquisita 5. Ancor prima che rinfacciatogli dai suoi oppositori,
fu questo un dato largamente riconosciuto, buon “critico di se stesso”,
da Croce in persona. Il quale, a partire dalla terza edizione dell’Estetica
(1908), approfondendo e riformulando ripetutamente la parte teorica, si
sforzò di attenuare, alleggerire e potare anche certe asprezze e sbilanciamenti contenuti in quella storica; ma ha anche preso progressivamente
le distanze dal suo elaborato, con dichiarazioni esplicite disseminate
in più luoghi, e anzitutto nelle avvertenze alle successive edizioni. Già
nella seconda (1904), la locuzione «esposizione storica» viene sfumata
in « illustrazione storica» 6. Nella terza (1908), la presa di distanza
viene celebrata attraverso il tentativo, in vero alquanto depistante, di
sganciarla dalle funzioni di servizio teorico, e circoscriverla al fatto che
«le condizioni dell’Estetica mi costrinsero ad aggiungere alla teoria una
storia abbastanza ampia di quella scienza» 7. Ma è soprattutto nella
quinta edizione (1922), che Croce conduce fino in fondo l’autocritica,
riconoscendo apertamente le atipiche finalità della sua “Storia”. Confessa infatti: «Del resto, il fine di quella parte storica non era tanto storico
quanto polemico, e di una polemica che assai volentieri si coloriva di
satira: Antonio Labriola, quando la lesse, me la definì scherzevolmente,
ma pure non senza qualche verità, un “camposanto”» 8. In una lettera
scritta in quegli anni a Bosanquet, riconoscerà che «l’Estetica, specie
nella parte storica, è troppo cruda e recisa nei giudizî» 9. Ma anche
prima, per esempio nel Contributo alla critica di me stesso (1915), aveva
pubblicamente indicato, fra le «insostenibilità» dell’Estetica, il «modo
alquanto crudo in cui era lumeggiata la storia di quella disciplina» 10.
Sono cose ben note, sulle quali non vi sarebbe costrutto di ritornare. Se non fosse che malgrado, come abbiamo appena visto, Croce
in persona abbia segnalato certi limiti del suo lavoro, e addirittura la
natura non limpidamente storiografica della sua “Storia”; malgrado,
come vedremo subito, intorno a essa espliciterà pur importanti “distinguo” metodologici; e malgrado, infine, si spingerà successivamente fino
a disegnare configurazioni storiografiche diversamente orientate 11 – di
regola, la ricezione della “Storia” ha prodotto una communis opinio
strettamente ancorata ai suoi espliciti gradienti storiografici, ponderati
nel loro limite essenzialmente quantitativo. Laddove, ciò che probabilmente è tuttora interessante della “Storia” è soprattutto la sua natura di
dispositivo genetico, di luogo teorico nel quale vengono intricati nodi
epistemologici decisivi per la configurazione della storia dell’estetica.
80
Sono in questione, in altre parole, le categorie formali che presiedono alla stessa costituzione della storia dell’estetica, quelle che, in senso
funzionale, sono le strutture profonde del suo impianto metodologico.
Uno di questi nodi strutturali, la fragilità della sua applicazione nella
“Storia”, venne per tempo colto e attentamente considerato dallo stesso
Croce. È il problema, per esprimersi con un gioco di parole, del “problema”, o, fuor di equivoco, della categoria storiografica dell’“unità”.
Su ciò, nell’Avvertenza alla quinta edizione dell’Estetica (1922) ricordata prima, Croce operò questa importante «rettificazione»: «la storia
della filosofia (e dell’Estetica in quanto filosofia) non è trattabile come
storia di un problema unico sopra cui gli uomini si siano affaticati e si
affatichino nei secoli, ma di una molteplicità di problemi particolari e
sempre nuovi, e via via risoluti e sempre prolifici di nuovi e diversi» 12.
È un tema – è appena il caso di accennare – questo della storiografia
filosofica come “storia di un unico problema”, assolutamente cardinale, e non a caso su questa categoria, e altre che a essa strettamente si
coniugano, quali quella di “progresso” e di “superamento”, da tempo
come si sa, si è sviluppato un accesso e nutritissimo dibattito sul quale, in questa sede, non è il caso di soffermarsi 13. Ne sottolineiamo la
rilevanza solo per precisare che esso è uno dei pilastri fondativi anche
della “Storia”, nella quale si radica e si sviluppa a raggiera, attraverso
tutta una serie di principî determinativi dell’intera maglia storiografica.
Cominciamo intanto col dire che la prima posizione di questo principio fu compiuta da Croce nella “Teoria”, all’interno di un argomento
rivolto alla chiarificazione del «criterio del progresso» riferito alla storia
artistica e letteraria. Qui egli ne negava l’applicabilità alla storiografia
artistica, ma, in ragione della «diversità stessa che corre tra il fatto
estetico e lo scientifico», riconosceva la legittimità di utilizzarlo per
la storia della scienza. Per inciso, avvertiamo che in questo contesto
specifico (ma, più in generale, nella posizione crociana di quegli anni)
“scienza” equivale ancora a “filosofia”. Affermava Croce: «Noi possiamo
rappresentare tutta la storia della scienza su un’unica linea di progresso
e regresso. La scienza è l’universale, e i suoi problemi sono collegati,
subordinati e coordinati, unificati in un unico vasto sistema, o problema
complessivo. [...] La differenza tra la storia artistica e letteraria e quella
della scienza si potrebbe anche formulare così: la scienza è una sola opera d’arte, alla quale tutta l’umanità collabora da secoli; e perciò forma
un unico ciclo progressivo: le altre opere d’arte hanno ciascuna il loro
problema e il loro ciclo» 14. Già nella terza edizione dell’Estetica (1908)
Croce manifestò dubbi sulla fondatezza di tale distinzione 15, dubbi a
evidenza collegati alla profonda ristrutturazione tematica in progress,
iniziata nella Logica, perseguita in Teoria e storia della storiografia 16, e
continuata nella sua attività successiva 17.
Nell’avvertenza di questa quinta edizione, Croce racconta inoltre che
della fallacia di quella impostazione iniziale ebbe «inquieta ma oscura
81
coscienza» non appena portato a termine la sua trattazione, per la quale
invoca l’attenuante di essere «condotta sullo schema consuetudinario
che ancor oggi prevale nella storiografia filosofica» 18. Anzi, aggiunge
che fu questa esigenza che lo spinse a fargli concludere la “Storia” con
«il lungo capitolo (xix) sulla “storia delle dottrine particolari”». Non
ha molta importanza osservare, come si potrebbe, che in realtà questo
capitolo non apre nessuna diversa problematizzazione storiografica,
essendo appena una «critica scientifica degli errori particolari» 19.
È saliente invece l’esplicita ammissione da parte di Croce che quello scorretto impianto metodologico procura «una certa aberrazione
prospettica» alla sua “Storia”. E non è ammissione di poco conto, se
si pone mente al fatto che la “Storia” è tutta costruita sul “problema”
della nascita dell’estetica, in quanto moderna scienza filosofica, come
«scienza dell’attività espressiva», e in relazione a questo, che non è
“un”, ma appunto “il” problema dell’estetica, tutta la sua tradizione storiografica viene commisurata, apprezzata, graduata, rimossa. È insomma
questa categoria storiografica che fonda quel “punto di vista”, rigidamente applicato da Croce, che lo porterà ad affermare, e linearmente
praticare, la sentenza: «Fuori di questo punto di vista noi, per nostro
conto, non sappiamo scorgere se non deviazioni ed errori». Non ci si
può allora limitare alla considerazione che «questo concetto erroneo
conferisce una certa crudezza alla Storia dell’Estetica» di Croce 20. Una
siffatta “aberrazione prospettica” è immancabilmente letale, scardina e
non può non inficiare profondamente il profilo di qualsivoglia trattazione storiografica.
Liquidare allora la “Storia”, tout court, in quanto scientificamente
intenibile? Cedere al «disagio di fronte a tale modello», e rimuoverla
dal patrimonio attivo della ricerca estetica 21? E, per quanto immediatamente ci riguarda, arrestare qui questo lavoro, che minaccia di connotarsi sempre più come una pratica ultraspecialistica, una superflua
“archeologia crociana”? Pensiamo di no, per numerose e serie ragioni.
Non c’entra la pietas disciplinare, anche se è un fatto che la “Storia”, malgrado le sue confessate “aberrazioni prospettiche” e altre rimarchevoli deformazioni procedurali, ha potentemente consolidato la
tradizione disciplinare, aprendo profondi squarci di luce alla ricerca
estetica e consolidando autentiche pietre miliari. E nessun Korpergeist
alimenta la constatazione che, già poco dopo la pubblicazione della
“Storia” 22, e sistematicamente nei decenni successivi 23, Croce ha preso
a indicare e praticare moduli storiografici fortemente emendativi di
quelli lì enunciati e applicati. Gli è che anche noi, in qualche misura,
siamo ancora dentro alcuni profondi intrecci tematici lì da Croce formulati. Esemplifichiamo.
Croce, concludendo la sua autocritica, rivendicava tuttavia che quelle
“aberrazioni prospettiche” «ho cercato altrove di correggere». Il rinvio
è ai Nuovi saggi, e in particolare alla memoria Inizio, periodi e carattere
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della storia dell’Estetica, lì ristampata. E in effetti vi leggiamo «di non
togliere in iscambio ciò che si chiama il “problema estetico” con un
problema “unico”, e di non prendere alla lettera la denominazione
abbreviata onde si designa un inesauribile ordine di problemi svariati
e sempre nuovi. Se il problema fosse davvero unico, accadrebbe di
necessità o che esso venisse sciolto, e in questo caso la scienza estetica
morirebbe perché avrebbe conseguito a pieno il suo fine; o che esso
non potesse risolversi mai, e sarebbe segno di problema mal posto,
ossia non di problema ma di equivoco; o che esso si risolvesse solo in
parte, per successive approssimazioni, senza mai raggiungere la pienezza della soluzione, e si tornerebbe al caso precedente, perché una
verità a mezzo non è verità, e un problema non a pieno risolubile è
problema mal posto. Ma, quando a quel nome collettivo si sostituisce
la realtà che esso insieme accenna e copre, si vede che l’Estetica, e la
filosofia tutta, è sempre e non è mai, ossia vive, e che i problemi sono
bensì di volta in volta risoluti, ma che ciascuno, risoluto, ne genera
altri da risolvere» 24. È un passaggio giustamente famoso, poiché tocca
una rettificazione metodologica sicuramente rimarchevole. Che scioglie
l’impianto legnoso e settario della “Storia” a una flessibilità conoscitiva
lì impensabile. Flessibilità che può aprire, per esempio, il riconoscimento che «non è lecito negare il concetto, anzi l’altissimo concetto della
poesia e dell’arte, che reggeva i giudizi dei greci e dei romani, [...] quel
ragionare da fini intenditori che ancora si ammira in tante opere e parti
di opere del pensiero greco-romano, nella commedia di Aristofane e nei
dialoghi platonici, nei trattati poetici e rettorici di Aristotele, di Cicerone
e di Quintiliano, nell’autore del De oratoribus e nell’altro che investigò
lo Stile sublime» 25. Un’apertura talmente a tutto campo che arriva a
riconoscere lecito persino «scrivere intorno all’“Estetica” del tale o del
tal altro autore antico, medievale e del Rinascimento, o, addirittura,
intorno all’Estetica di quelle varie epoche» 26.
E però, si può ritenere che, anche qui, certe delicate questioni di
fondo siano state pienamente soddisfatte? Questa manifesta flessibilità metodica ha conquistato una totale spregiudicatezza di ricerca? O
risulta inscritta in una più ampia e comprensiva, certo, ma comunque
astratta categoria, che ancora filtra e scherma la progressione storica
della disciplina; una cornice per cui l’estetica come “scienza dell’attività espressiva”, resa sì più duttile nelle sue movenze teoretiche e
rivitalizzata nel suo percorso storico, rimane pur sempre rigidamente
calcolata nell’orbita, tracciata per linee ancora metafisiche, della “filosofia dello spirito”? Torna calzante l’osservazione che Croce in realtà si
muova «piuttosto nell’ambito di determinazioni negative e polemiche
(mostrando che cosa non è l’arte, che cosa non è il diritto), riducendo il positivo a sistemazioni classificatorie (l’arte è conoscenza, è la
conoscenza dell’individuale, è intuizione), rischiando di precludersi,
con la profonda radice unitaria delle distinzioni, il processo del reale,
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senza per questo individuare, nelle loro nervature, piani e strutture
dell’esperienza» 27.
Per esempio, fino a che punto è davvero euristica la nuova specificazione, delle stagioni antica e moderna dell’estetica in «scienza empirica»
e «scienza filosofica», se pur tuttavia essa porta ancora alla conclusione
che «nel periodo che va dai greci al secolo decimosettimo, l’Estetica
propriamente detta non ebbe luogo», e tutto il lavoro che precede «il
sei e il settecento [...] non appartiene alla storia, ma, tutt’al più, alla
preistoria dell’Estetica, della quale mostra solo, qua e là, alcun barlume
e accenno» 28? Ecco, spero basti aver sfiorato questo tema centralissimo, della “nascita dell’estetica”, sul quale torneremo con agio più
avanti, per convincerci che certe strutture profonde della “Storia” non
sono “archeologia crociana”, perché in realtà sono consegnate a tutta la
successiva riflessione di Croce. Ma, soprattutto, perché sono temi che
travagliano ancor’oggi, anche a noi.
Anche se non è un’anacronistica condanna scientifica della “Storia”,
ciò a cui si mira, ma si persegue l’intento di cogliere e trarre profitto
dalle sue valenze metodologiche, è tuttavia opportuno, con pieno disincanto, non sorvolare né sfumare, insomma non coltivare illusioni
giustificazionistiche riguardo all’intensità della “crudezza” che la anima,
e soprattutto i portati della sua riconosciuta “aberrazione prospettica”.
Un puntuale riconoscimento di tali condizioni, al contrario, sospettiamo
possa divenire foriero di non secondarie acquisizioni.
Conviene quindi osservare come, strettamente costruita sul “punto
di vista” definitorio dell’estetica “scienza dell’attività espressiva”, rigorosamente informata a questo partito teorico, la lettura crociana non
può sottrarsi al rischio di diventare grossolanamente violentatrice, proprio perché inevitabilmente rende la tradizione storiografica luogo di
proiezione della “scoperta” crociana dell’estetica e costringe il passato
a modellarsi sulle esigenze teoriche attuali. Si determina così un’unica
possibile lunghezza d’onda alla quale tutti i materiali storiografici vengono sintonizzati; in ragione di essa, ogni evento e segmento della storia
dell’estetica acquista senso o diventa insignificante, vengono fissati inizi e
arrivi, ritmi di periodizzazione, principi d’individuazione determinativa,
regolarità sintagmatiche, opacità epocali ed emergenze individuali 29.
È questo il carattere più vistoso e, perché no?, “spettacolare” della
“Storia”. Da qui la sua intonazione quasi biblica, che si propaga come
dalla notte dei tempi, una voce che illumina eccezionali, limitatissime
figure concettuali, emergenti dalla nebulosa noetica dell’estetica grazie
al possesso di un fortunoso contrassegno crociano, e fa precipitare
in un inappellabile abisso epistemico i molti, vien da dire, peccatori
devianti: intere epoche, scuole, pensatori. Proprio un “cimitero”, come si
esprimeva Labriola, di cadaveri, non eccellenti ma dissacrati, totalmente
disentificati.
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Ora è bene ribadire che questa natura, francamente terroristica,
della “Storia” discende linearmente proprio dai compiti di “servizio
teorico” alla quale essa è stata esplicitamente intenzionata. Abbiamo
già visto infatti come, al momento della genesi dell’Estetica, Croce avesse pensato a uno schema espositivo tripartito, del quale un membro
era dedicato alla critica delle «deviazioni dell’Estetica», ma poi abbia
risolto per un dittico strettamente funzionale: «una parte teorica, che
io mi sforzo di fare interamente obiettiva, senza citazioni e polemiche,
ed una parte storica, in cui penso di scrivere a modo mio una Storia
Generale dell’Estetica, che non è stata ancora scritta» 30. E in verità
mai è stata scritta una storia dell’estetica siffatta, proprio perché mai
una storia dell’estetica è stata, in modo così programmatico, rivolta
non tanto a circoscritti scopi polemici, quanto a una totale demolizione
storico-critica, pilotata da una intrinseca finalità speculativa. La vis polemica della “Storia”, quindi, la sua animosità che si tinge ora di satira
ora di acrimonia, tanto eccedente il distacco consegnato normalmente
a un esame storiografico, alla forma della decantazione storica, è da
ricercarsi in questo cordone ombelicale che la uniforma alla “Teoria”,
di cui interpreta e agisce le più intime tensioni. E come la “Teoria”
dà il codice di lettura della “Storia”: i temi di giudizio, le griglie interpretative, i tassi di valutazione, parimenti a essa trasferisce e assegna il
compito impegnativo di sviluppare le proprie ragioni di contestazione
scientifica. Assunta la funzione “inverante” la teoria crociana, la “Storia” diventa in tal modo “veritativa”, e dunque giudiziaria in senso
tribunalizio, piuttosto che criticamente giudicante.
È stato ben osservato che l’estetica crociana si configura «come una
serie di grandi eliminazioni», in cui la pars destruens è, «almeno quantitativamente, soverchiante. Croce espunge dalla sua estetica il problema
dell’origine dell’arte e del linguaggio, la considerazione dei concetti che
egli chiama pseudoestetici (comico, tragico, sublime, ecc.), il compito di
distinguere e classificare le arti e i generi letterari, il problema dello stile
e delle categorie retoriche: elimina, cioè, quasi tutto ciò che costituiva
la materia dei trattati di estetica correnti ai suoi tempi e il dominio,
entro certi limiti pacifico, della disciplina» 31. Parallelamente, e conseguentemente, la “Storia” adempie all’identico compito, esplicitando
nell’ordine storiografico, sovente ad personam, le “grandi eliminazioni”
impegnate dalla “Teoria”.
Segnatamente nella prima edizione del 1902, la “Storia” presenta
una progressione davvero impressionante. Nessuno è al riparo da nulla
e tutto può accadere, in una suspense incalzante. Per cominciare, «dubbio onore di padre dell’Estetica», è quello attribuito a Platone 32; e se
«i tentativi dell’Estetica schietta e realistica, dell’Estetica della rappresentazione od espressione, risalgono invece ad Aristotile, [...] messo in
via per scoprire il fantastico puro, [...] restava a mezzo del cammino,
incerto e perplesso» 33; e la riflessione antica nel suo complesso viene
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sostanzialmente liquidata, con espressioni del tipo: «nessun altro germe
di verità si può raccogliere dagli scrittori antichi» 34. L’intero Medioevo,
ancor peggio, e alla sua ruota anche il Rinascimento, vengono schiacciati in uno sfondo di quasi malefica inintelligibilità: «Quasi tutti gli indirizzi viziosi [sic!] dell’estetica antica furono continuati per tradizione o
riapparvero per genesi spontanea nei secoli del medioevo», che pertanto
hanno «valore piuttosto per la storia della coltura in quel tempo che
per la storia generale della scienza. Ed il medesimo parrebbe doversi
dire pel periodo del rinascimento» 35. Giunti agli albori dell’età moderna, si continua a far piazza pulita, constatando, per esempio, che «il
cartesianesimo non poteva avere dunque un’estetica della fantasia» 36; e
che, non essendosi salvato da «un invincibile intellettualismo», bisogna
«correggere le idee estetiche di Leibniz» 37. Persino Baumgarten, di cui
Croce con grandi disagio e fatica si era procurato i volumi estetici e
aveva ristampato le Meditationes 38, che pure per la prima volta scrisse
«la parola Estetica come nome di una scienza speciale», non merita «il
nome di padre, non putativo, ma effettivo, dell’Estetica», avendo dato
«alla nascitura un anticipato battesimo» 39.
Scavalcato Vico e i successori di Baumgarten, «un guazzabuglio
d’idee disparate si trova in altri scrittori di estetica del secolo xviii,
che pur ebbero non poca celebrità ed efficacia» 40; ed è un elenco che
comprende nomi del calibro di Batteux, Hogarth, Burke, Home... E
che dire di Kant, il quale «non solo in questa parte non raggiunse il
vero, ma non riuscì neppure a dare ai suoi pensieri il necessario sistema e la necessaria unità» 41? E, sorvolando sulle contestazioni mosse
ai grandi filosofi idealistici, Hegel incluso, anche «presso lo Schopenhauer l’arte beatifica non meno che presso gli idealisti suoi predecessori» 42; né si salva nemmeno un maestro di Croce, negli anni giovanili:
«l’Herbart [ ... ] del pensiero di Kant prende tutto il falso e lo riduce
a sistema» 43. Ma il primo Ottocento tedesco, scremato pour cause di
Schleiermacher, è tutto una foresta in cui la scure crociana affonda i
suoi colpi senza risparmio: «Con pena, con fastidio, quasi con disgusto
si passa da quella scienza che illumina la mente a qualcosa che oscilla,
purtroppo, tra la fantasticheria e la ciarlataneria, tra l’ubbriacatura di
vuote parole e formole, e il tentativo professorale di ubbriacarne gli
altri. A qual pro ingombrare una storia generale dell’Estetica (che certo
non può non tener conto delle aberrazioni del vero, ma deve considerare quelle soltanto di esse che hanno alcunché di rappresentativo
degl’indirizzi e delle epoche) con le teorie dei Krause, dei Trahndorff,
dei Weisse, dei Deutinger, degli Oersted, degli Zeising, degli Eckhardt,
e di tanti altri manipolatori di manuali e sistemi [...]?» 44. E anzi se,
«malgrado le sue molte e gravi colpe», il movimento filosofico tedesco dalla fine del Settecento a metà Ottocento è, «nel suo insieme,
imponente», la contemporanea produzione estetica delle altre nazioni
si pone a livelli infimi. La contestazione si estende a uno scenario,
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verrebbe da dire, di scala planetaria: «La Francia, tutta in preda al
sensualismo del Condillac e della sua scuola, non era in grado [...] di
valutar convenientemente la creatrice funzione dell’arte» 45; «In Inghilterra continuava [...] la psicologia associazionistica, inetta ad uscir
davvero dal sensualismo e a comprendere la fantasia» 46; e nemmeno
la carità di patria salva l’Italia («non si può dire che l’estetica ricevesse
adeguato trattamento nel risveglio della speculazione filosofica italiana,
che accadde per opera del Galluppi, del Rosmini e del Gioberti» 47),
se non ci fosse stata la salvifica, solitaria eccezione di De Sanctis. Il
quale nondimeno, a scanso di equivoci sulla collocazione prospettica,
è giudicato: «Pensiero vivo, che si rivolge ad uomini vivi, pronti ad
elaborarlo e continuarlo» 48.
Via via che la soglia temporale si abbassa agli immediati precursori e contemporanei di Croce, la “Storia” s’incattivisce fino a toccare
forme di scherno, autentiche punte di sadismo. Così, di Zimmermann,
che pure allora e anche in futuro Croce considererà il padre fondatore
della storia dell’estetica, la sua estetica, nata sotto «cattivi auspicii»,
ci trasporta ai «sette cieli» e «fece ridere il pubblico» 49; Schasler è
autore di una «antimetodica definizione» che «s’argomenta vanamente
di attingere il concreto» 50; lo stesso Hartmann, «l’ultimo importante
estetico della scuola metafisica tedesca», tanto apprezzato da Croce
qualche anno prima, ora «atterrisce con la mole come tutti gli altri di
quella scuola, presso la quale sembrava fosse rito che dell’arte non si
potesse scrivere se non in volumoni di migliaia di pagine. Ma chi non
ha paura dei giganti e le si fa dappresso, trova un Morgante grosso
e bonaccione, pieno dei più comuni pregiudizii, e come Morgante,
malgrado la forza apparente, un granchiolino basta a ucciderlo!» 51.
Dilaga proprio un furor necandi, che rende completa terra bruciata.
Così, per esempio, si dovrebbe parlare di Ruskin, «se a trattar del
Ruskin nella storia di una scienza non si provasse qualche imbarazzo»,
giacché qualsiasi esposizione si faccia del suo pensiero estetico «non
può non rivelarne la povertà, l’incoerenza, l’inconsistenza» 52; e anche
la lunga presentazione del Tari non può fare a meno di concludere nella (ma, questa volta, almeno campanilisticamente bonaria) irriverenza:
«Quale miglior modo di prender commiato senza troppo disgusto ed
eco fastidiosa dall’Estetica metafisica di tipo tedesco, che il ricordare questa bizzarra riduzione, quasi vernacola, che ne faceva il buon
vecchietto Tari, “ultimo giocondo sacerdote di un’Estetica arbitraria
e confusionaria”?» 53.
Con «le stelle del misticismo metafisica e le stalle del positivismo
e sensualismo» (queste ultime colmate dall’opera degli Spencer, Sully,
Taine, Fechner, Grosse, Guyau, Lombroso, Lipps, Groos...), la “Storia” si conclude sfumando in un vuoto teorico, come al fondo di un
imbuto disciplinare, rischiarato appena dal barlume di luce apportato
da due scrittori «di arti particolari», Hanslick e Fiedler, e «l’acuto
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analista francese, H. Bergson [...], ma peccante egualmente nel concepire la funzione artistica» 54. La speranza di un futuro per l’estetica
è consegnata solo in Italia, dove, si precisa, «nell’ultimo decennio è
ricominciata la feconda indagine della natura dell’arte, indagine che ha
preso le mosse dalla questione della natura della storia» 55.
Questo centone compendiario può bastare, per cogliere dal vivo la
misura dell’inusitata asprezza di giudizio della “Storia”, di una sommarietà, finanche di un’arroganza, completamente eccedente il piano di
una serena disamina storiografica, anzi di un qualsivoglia confronto/
scontro scientifico. Ancorché tributaria di uno “stile” polemico ottocentesco, che non difettò ai suoi predecessori – Zimmermann, per
primo, non fece eccezione – che conobbe durezze anche verbali oggi
fuori moda, una così sistematica opera di demolizione dissacratoria,
perpetrata a freddo, presenta connotati talmente atipici, così esorbitanti, che non pare potersi spiegare con una semplice vis polemica dell’autore. Vis polemica, gusto dell’ironia, fantasia di satira, che sicuramente
non fecero difetto in Croce, ma che mai si espressero, se non andiamo
errati, in forme così crude e insistite. Siffatta durezza è eccezionale,
proprio unica, in e per, Benedetto Croce. Il quale del resto ne fu ben
consapevole, e subito dopo la pubblicazione, come s’è visto, non mancò di chiederne venia in vario modo e occasione. E però la cosa merita
rilievo, perché induce al sospetto che vi sia in gioco qualcosa di più
consistente di una mera idiosincrasia personale, e probabilmente molto
di più anche di una, per così dire semplice, “aberrazione prospettica”.
Un acuto lettore della “Storia”, concesso che «appare certo indispensabile che l’autore si definisse rispetto ai responsabili, positivi e negativi,
della sua cultura viva», non ha potuto fare a meno di chiedersi: «Ma
l’intera ricerca, per preziosa che sia, è rigorosamente necessaria all’assunto? [...] la raccomandazione, e didascalica e teoretica, che il teorico
s’imbandisca e assaggi tutta la storia della teoria, fino all’esaurimento
dell’elenco – dell’elenco, bisognerà pur dire, delle possibili occasioni
di necessità –, non interpreta dopotutto in modo esterno la storicità
del sapere, non contraddice l’interpretazione crociana del discepolo,
del rapporto con la verità altrui?» 56.
Abbiamo già introdotto, nelle pagine precedenti, l’ambito in cui
crediamo possa trovarsi la risposta, segnalando la funzione di servizio
nei confronti della “Teoria” che la “Storia” adempie. Aggiungiamo ora
che la misura di questa funzione, a cui riteniamo sia imputabile la fisionomia “sui generis” della “Storia”, la si può intendere, e in pieno
apprezzare, solo se la si correla direttamente al disegno complessivo
che ha prodotto l’Estetica. Disegno complessivo, appunto, nel quale –
conviene ricordare – il piano iniziale di lavoro prevedeva addirittura
una parte indipendente, riservata alla contestazione delle “deviazioni
dell’Estetica”, poi assorbita dalla “Storia”. Insomma l’Estetica fu molto
di più, per Croce, della proposta, in senso per così dire routinario, di
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una nuova teoria estetica. Rappresentò invece la scoperta di un nuovo
continente scientifico, scoperta resa possibile e propiziata attraverso
una mirata riesplorazione della tradizione storica, che gli consentì di
ridisegnare il piano epistemico col quale l’estetica veniva messa sulla
“retta via”. Se abbiamo tenuto a sottolineare l’interesse di uno studio
“giovanile” come la Critica letteraria; se abbiamo, apparentemente, indugiato alquanto a esaminare la corrispondenza di Croce con Gentile,
è perché in quei documenti sono le chiavi di lettura non solo e non
tanto per guadagnare lo spessore teorico dell’Estetica ma per cogliere
il particolare spirito, mi si perdoni il bisticcio, “crociato” che sta alla
base dell’impresa e il senso che l’operazione rivestiva per il suo autore.
Si ricorderà: l’estetica come «ramo di studii da creare» 57. A questa
creazione, all’affermazione polemica e al consolidamento di questa
creazione, è intimamente partecipe la “Storia”, congiunta per endiadi
alla “Teoria”.
Giunto al termine della sua fatica storiografica, Croce manifestò
quali fossero stati gli intenti che l’avevano mosso all’impresa e la prospettiva nella quale egli la situava. Il suo bilancio finale, dopo avere
«passato in rassegna i travagli e i dubbii, attraverso i quali si pervenne
alla scoperta del concetto estetico; le vicende di oblio e poi di reviviscenza [...]; le varie oscillazioni e manchevolezze [...]; il risorgere
trionfale ed invadente dei vecchi errori», è infatti «che di estetica scientifica, anche nei due secoli ultimi di intensificazione di tali ricerche,
se n’è avuta ben poca» 58. Non è affatto la palinodia delle “grandi
eliminazioni” appena perpetrate, bensì la posizione del nuovo fronte,
sì scientifico ma nello stesso tempo polemico, che l’estetica crociana
aveva aperto. Se infatti la «scienza estetica non è più da scoprire [...]
essa è ancora ai suoi inizii» 59. Sono corsivi dell’autore. Affermazione
decisamente impegnativa, come subito chiariremo, ma intanto importante per comprendere le ragioni della precipua carica contestativa con
la quale Croce andò accompagnando la sua proposta teorica. Nel momento in cui offre il suo contributo al potenziamento conoscitivo della
disciplina, e nella misura in cui ne marca il carattere di innovazione
epistemica, Croce procura di assicurare le condizioni ottimali della sua
affermazione. Condizioni essenzialmente polemiche. Afferma infatti:
«La nascita di una scienza è come la nascita di un essere vivo: il suo
sviluppo ulteriore consiste, come ogni vita, nel lottare contro le difficoltà e gli errori, generali e particolari, che da ogni lato l’insidiano» 60.
Una visione forse realistica, ma sicuramente drammatica, della sociologia della conoscenza. E però a questo compito di attiva difesa, di fermo presidio delle conquistate regioni dell’estetica, attraverso un’azione
capillare di rappresaglia preventiva che mini alla base l’evenienza di
un suo contraddittorio, facendo «un suolo sgombro di ogni anteriore
costruzione», è segnatamente intenzionata la “Storia”. Da qui la sua
“crudezza” e la sua “asperità”, la sua “aberrazione prospettica”, le sue
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intemperanze e le sue eccedenze; da qui, naturalmente, anche le sue
stesse aperture. Certo, è proprio questo elemento cromosomico che
oggi appare caduco e devitalizzato, un momento storicamente “datato”. Ma è motivo che va, anzitutto, oltre che datato insieme esplicitato
all’interno della peculiarissima congerie storica che lo determinò, alla
quale partecipano vari ordini di motivazioni. Due soprattutto, convergenti, che sorressero e accompagnarono la costituzione dell’estetica di
Croce, vogliamo additare.
Più volte Croce ha ragguagliato sul suo stato d’animo, i suoi intenti, la sua condizione intellettuale in quel decisivo decennio d’esordio
filosofico che va dal 1893 al 1902, cioè dalla memoria La storia ridotta
sotto il concetto generale dell’arte al volume sull’Estetica, in cui gettò le
fondamenta del suo pensiero filosofico. Di singolare interesse, già per
la precocità della data, ma anche per la franchezza e la significatività
delle asserzioni prodottevi, è una vivace intervista redatta da Luigi Ambrosini e Renato Serra, e pubblicata 1’11 ottobre 1908 sul “Marzocco”.
Croce, illustrando il proprio itinerario intellettuale, racconta come gli
fosse giunta eco della questione sollevata da Villari se la storia fosse arte
o scienza. Molto interessato al tema, preparò la memoria sulla Storia
sostenendo che essa fosse scienza. Già composta in tipografia e pronta
per la stampa, all’improvviso «in un lampo di luce» gli «scoppiò nella
mente la soluzione nuova del problema», e cioè che la storia fosse arte.
«Corsi in tipografia. Scomponete! Era tutto il mio passato che scomponevo. Ma, per edificare, nulla è più necessario che distruggere. Per
veder nuove cose bisogna volgersi da un’altra parte. Io era, allora, al
termine inziale del mio nuovo cammino e me ne resi conto non tanto
da quello che allora scoprivo davanti a me quanto dal lasciar che facevo
dietro di me il mio passato senza rimpianto. E quello fu veramente il
germe onde s’è svolta tutta la vita del mio spirito» 61. Questa dichiarazione, e le altre che la seguono 62, sono sicuramente importanti per
cogliere geneticamente la nascita del pensiero in Croce, le modalità
particolari con le quali si organizzavano i suoi ordini di conoscenza,
per così dire la sua meccanica concettuale. Ma il convincimento che
“è necessario distruggere per edificare”, che del resto è un tratto tipico
rinvenibile in tutto l’arco dell’opera crociana, si colora, in questo autoesame, di talune connotazioni rimarchevoli ai nostri fini.
Per esempio, la risolutezza sulla strada «da battere per giungere
dove son giunto, senza lasciarmi intimidire dagli altrui timori a mio riguardo, senza fermarmi quando suonavano gli ammonimenti dei maestri
e degli amici» 63. È facile sciogliere l’accenno al maestro col nome di
Antonio Labriola, mentre per l’amico è verosimile pensare a un Farinelli. Abbiamo già accennato nel capitolo precedente a talune dinamiche
psicologiche di grande intensità che intervennero nel crogiolo creativo
da cui si originò il pensiero estetico, e da lì in generale il sistema filosofico, di Benedetto Croce 64. L’argomento meriterebbe un serio appro90
fondimento, anche in termini di analisi psicobiografica, che in questa
occasione non possiamo procurare. Qui basterà richiamare l’attenzione
sul fatto che l’opera crociana (probabilmente tutta l’opera crociana,
sicuramente tutta quella prima fase conclusasi con la pubblicazione
dell’Estetica), si è mossa all’insegna di una continua e radicale azione
di contestazione scientifica. A parte le primissime prove giovanili, che
richiamarono attenzione benevola e suscitarono consensi unanimi intorno al giovane erudito napoletano, a partire dalla prima memoria “filosofica” sulla Storia tutti gli interventi crociani successivi caddero come
una pietra nello stagno, sollevando e spargendo molto in largo spruzzi
d’acqua rovente. Fuor di dubbio la rilevanza di quegli interventi, non
interessano qui le ragioni estrinseche, di carattere storico-culturale e
socio-culturale, dell’effetto da essi prodotto sui contemporanei. Interessa invece rilevare che, in tutte queste prove dell’arco 1893-1902, c’è
qualcosa di eccessivo e di eccedente. Sia sul piano dell’espressione che
in quello dei contenuti. Lo stesso Croce, del resto, non ha mancato di
riconoscerlo adducendo diverse giustificazioni. Così, per esempio, nella
Logica, ha reso conto delle sensibili correzioni di tiro apportate alle
rigide posizioni esposte nella memoria sulla Storia 65; parimenti, molte
decise convinzioni espresse nella memoria sulla Critica letteraria verranno in seguito profondamente emendate, o addirittura lasciate cadere
quali manifestazioni di «quasi puerizia» giustificabili solo nel quadro
dei dibattiti dell’epoca 66; più complessa, e tutt’ora questione aperta,
sono i saggi sul marxismo, ma dei quali comunque Croce suggerirà in
seguito particolari chiavi di lettura e contesti di riferimento 67; sarebbe
ridondante, infine, ritornare sull’insoddisfazione crociana per la formulazione iniziale delle Tesi e della stessa prima versione dell’Estetica, la
cui parte teorica rimaneggerà profondamente nella terza edizione del
1908, e la cui parte storica, già lì alleggerita e potata, verrà dopo riconosciuta sostanzialmente insoddisfacente, e virtualmente emendata dai
suoi studi successivi 68.
Ciò su cui mi pare utile richiamare l’attenzione non è l’eccedenza
concettuale dei contenuti, dico il frettolosamente pensato o mal pensato, e più adeguatamente ripensato in seguito dallo stesso Croce. Invece, per così dire, l’asprezza del pensiero quo talis tipica del “giovane”
Croce, e di cui è allora manifestazione pienamente rivelativa la stessa
eccedenza verbale, quella vis polemica che anima il piano dell’espressione dei suoi testi. Croce non ha avuto problema di riconoscere tutta una
serie di eccedenze verbali contenute nei suoi Primi saggi: ne ha stigmatizzato la «baldanza», ha ammesso che «tutto pieno di questa dolcezza
di verità, che intanto mi saziava, io non scorgevo», fino a deplorare
«la impetuosa e persino furiosa censura» rivolta alle posizioni diverse
dalla sua 69. Tanto ha messo in carico, anzi direttamente imputato al
suo bisogno di soddisfare una superiore esigenza di moralità scientifica.
Venticinque anni dopo concluderà, sulle questioni e gli autori travolti
91
in modo tanto acceso: «Che tale regresso e impoverimento dovesse
accadere, e a suo modo fosse benefico con l’aprire il campo ad altre
forme di operosità, tutto ciò ho scorto poi; ma allora non era il tempo
di siffatte considerazioni storiche, che richiedono anzitutto la vittoria
sul partito avverso, vittoria che sola procura la serenità necessaria a
riandare il passato e a comprenderlo. Allora io volevo distruggere, o
almeno scuotere e mettere sopra nuova via, ciò che mi era presente; e
perciò mi colpivano principalmente gli aspetti negativi del presente» 70.
E questa non è sicuramente un’affermazione limitabile ai Primi saggi.
Nell’intervista del 1908, ricordata prima, c’è, a questo riguardo un riferimento specifico, davvero prezioso per il nostro argomento: «Dovessi
scrivere ora il volume sull’Estetica, lo scriverei molto diverso. Ma allora
ero al principio del cammino, di necessità dovevo vedere le cose da un
particolar punto di vista; e le mie stesse affermazioni dovevano avere
un non so che di risoluto e di spiccato. Ora, più mi allontano dai miei
primi principi e più sarei portato a predicarli con mitezza. Ma come
si fa? La verità non è solo una scoperta, è anche una battaglia. Una
battaglia con sé stesso e con gli altri » 71.
In questo scenario mentale va però considerata non solo l’ostilità
degli avversari, ma anche, e non secondariamente, l’incomprensione
proprio di figure amiche come Farinelli, e segnatamente del suo «antico
e sempre amato maestro», come si espresse Croce, Antonio Labriola.
Se non poco sostennero l’«aspro travaglio» della nascita dell’estetica
crociana la comprensione e l’entusiasmo giovanili di Gentile 72, se molto
gratificarono Croce le lunsinghiere attestazioni di Vossler 73, il mancato
apprezzamento di Labriola per la sua “scoperta” lo toccò molto dolorosamente 74. Sicché è del tutto saliente il cenno crociano visto prima,
“agli altrui timori a mio riguardo” e “gli ammonimenti dei maestri” che
non valsero a scoraggiare la sua inflessibile “battaglia per la verità”. È
saliente perché non sembra costituire un dato banalmente biografico.
Non può non colpire infatti come, ancora quarant’anni dopo, l’episodio mostri mantenere in Croce una eco vibrante e faccia intravedere il
risvolto d’intensissimi investimenti psichici. «Nel continuo lavoro che
è la vita, nel succedersi degli eventi e nelle nuove condizioni spirituali
che si formano, accade di dimenticare quanti ostacoli s’incontrarono,
quanti sforzi si dovettero compiere per porre in chiaro alcune verità che
appaiono poi facili e sono generalmente ammesse e persino sottintese.
Pensavo a questo rileggendo alcune lettere di Antonio Labriola del
1900, dell’anno in cui pubblicai il primo abbozzo della mia Estetica» 75.
Labriola gli scrisse che dell’estetica a lui «non importava nulla » e lo
accusò «di non aver cavato un ragno dal buco». Croce racconta «che
io non mi persi d’animo per questo poco incoraggiante saluto [...]; e,
continuando a ricercare, a dimostrare e a discutere, finii col vedere
riconosciute come sensate le cose che avevo dette e che al Labriola
suonavano insensate, e accettate universalmente come ovvie quelle che
92
sembravano dapprima mere stravaganze» 76. Di tale testimonianza colpisce non la pacificata soddisfazione di esser riuscito a far riconoscere
le proprie ragioni scientifiche ma l’esibizione della cicatrice mnestica
procurata dall’accusa, anche da parte dello stesso Labriola, e scontata
nel timore, di aver detto “insensatezze” e “stravaganze” per rimettere
l’estetica sulla “retta via”; e dunque di dover combattere una durissima
battaglia solitaria “in nome della verità”. Ritornando sullo stesso tema,
in una nota coeva, ancora più apertamente, Croce fece suo un motto
di Pestalozzi: «Per lunghi anni mi si è giudicato un imbecille, ma io
non ci ho creduto» 77.
Segnalo l’episodio perché spesso si tende a sottovalutare, o giudicare senz’altro irrilevante, l’incidenza di queste dimensioni nel lavoro
scientifico; lavoro che, se certo non si realizza in ragione delle tensioni psichiche del ricercatore, è nondimeno peculiarmente determinato
dalla presenza di esse e dalla loro natura. La questione è piuttosto di
decidere se la “eccedenza”, la “crudezza”, in una: la vis polemica della
“Storia”, che abbiamo identificato come una sorta di suo elemento cromosomico, in quanto riferibile alla particolare congerie psicobiografia
attraversata da Croce, sia da considerare una mera manifestazione di
nevrosi scientifica, ovvero non possieda motivazioni solidali più intrinseche, da riportare a specifiche figure concettuali 78, vale a dire al modello
teorico investito dal disegno complessivo dell’Estetica.
Fatto è che l’eccedenza storiografica della “Storia” è strettamente
commisurata alla radicalità speculativa della “Teoria”. Si è già detto
delle “grandi eliminazioni” storiografiche, in quanto tematiche e cioè
teoretiche, perseguite dall’Estetica crociana. Ma è il caso di specificare
che la teoria proposta da Croce, nel 1900 e nel 1902, non è solamente
in dichiarato disaccordo con gran parte della precedente tradizione
disciplinare, pone anche e marca polemicamente una completa dissociazione da essa, investendo profondamente la natura dei problemi
costitutivi, e dunque la stessa identità scientifica, dell’estetica. Siamo
in presenza non di una nuova, seppur accesa, controversia disciplinare
(che del resto è stata una condizione pressoché endemica, a partire
dal Settecento, da Baumgarten e la “nascita dell’estetica” fino a Kant,
Schelling, Hegel e i suoi epigoni, e ancora nel Novecento, fino ai dibattiti odierni), sullo stato di esistenza dell’estetica, o come anche si
dice il suo “statuto”, e la sua proiezione progettuale, in termini di
rigore scientifico e articolazione di campo epistemico. Ciò che Croce
mette fuori gioco – e fu agli inizi del secolo, e in fondo rimane, la cifra
perspicua della sua teoria – è proprio l’assetto complessivo, il paradigma disciplinare “aperto” dell’estetica, ambiguo in verità e polivalente,
che si era andato stabilizzando nel corso dell’Ottocento, portando alle
estreme conseguenze talune anomalie che ne erano già venute affiorando. Si può anzi supporre, a questo proposito, che probabilmente la ragione dell’inedita predilezione di Croce per Schleiermacher, al di là di
93
talune trasparenti consentaneità speculative particolari, sia in ragione
della forte istanza paradigmatica innovativa, in termini di problematicità aporetica, che caratterizza la sua originalissima riflessione estetica 79.
Ma non per nulla Schleiermacher non fu capito e l’Ottocento lo aveva
completamente rimosso 80. E dunque il caso di Schleiermacher può
non essere emblematico anche per intendere l’atteggiamento di Croce
su cui andiamo investigando.
In definitiva, l’ottica congrua all’inquadramento dell’Estetica di Croce, storicizzando la percezione programmatica del suo autore, e dunque
il corrispettivo investimento polemico, nonché la funzione di servizio
da lui assegnata in quell’ambito alla “Storia”, è allora quella del modello esplicativo intitolato alla “rivoluzione scientifica”. E, come è stato
felicemente osservato, «ogni rivoluzione scientifica altera la prospettiva
storica» 81, proprio per determinare se stessa in un diverso quadro paradigmatico, e procura profondi mutamenti di prospettiva che impongono
nuove orientazioni storiografiche.
Del bisogno emotivo, ma anche dell’opportunità strategica, di accendere fuochi di guerra per propiziare la nascita e l’affermazione della
sua estetica, Croce fu consapevole e, post factum, come abbiamo visto,
chiese ampiamente venia degli eccessi consumati. Parimenti, fu consapevole dell’atipicità complessiva della sua “Storia”. E anche di ciò
chiese venia, spingendosi ad ammettere che fosse «troppo polemica e
negativa, e troppo esclusivamente indirizzata a considerare unicamente
i principi delle varie estetiche conformi o difformi dal principio [...]
della intuizione od espressione» 82. Ma quello che interessa il presente studio non è la ricaduta in termini strettamente storiografici della
“Storia”, invece il suo gradiente metodologico.
Il 2 novembre del 1900 Croce scriveva a Vossler che «anche la storia
dell’Estetica mi viene di un disegno del tutto diverso da quello delle
storie finora scritte» 83. È proprio questo “disegno” ciò cui siamo direttamente interessati, la logica che lo sottende, i criteri che lo informano,
al di là della sua contingente “aberrazione prospettica” complessiva.
Altrimenti detto: come l’estetica crociana ponga il paradigma della storia
dell’estetica.
1 Croce 1902, p. 228: «Il rivoluzionario che, mettendo in disparte il concetto del verisimile e intendendo in modo nuovo la fantasia, penetrò l’indole vera della poesia e dell’arte e
scoperse così pel primo la scienza estetica, fu l’italiano Giambattista Vico». Corsivi dell’autore.
[È il caso di segnalare che nella stampa delle prime due edizioni dell’Estetica (Sandron 1902
e 1904) si fece uso del carattere corsivo per evidenziare parole o frasi, mentre, a partire dalla
terza edizione (Laterza 1908), tale funzione venne realizzata spaziando i caratteri.] Com’è
noto, Croce manterrà sempre ferma la sua attribuzione di questo “primato” a Vico, anticipata
alla stessa pubblicazione dell’Estetica nel saggio del 1901, appunto intitolato Giambattista Vico
primo scopritore della scienza estetica. Nella monografia dedicatagli un decennio dopo (1911,
pp. 47-48) articolerà cosi il suo giudizio: «L’Estetica è da considerare veramente una scoperta
94
del Vico: sia pure con le riserve onde s’intendono sempre circondate tutte le determinazioni
di scoperte e di scopritori, e quantunque egli non la trattasse in un libro speciale, né le desse
il nome fortunato col quale doveva battezzarla, qualche decennio più tardi, il Baumgarten.
Del resto, giova notare che nella terminologia della Scienza nuova s’incontra un nome simile
ad alcuno degli equivalenti che il Baumgarten passava in rassegna per l’Estetica: quello di
Logica poetica. Ma, in fondo, il nome importa poco, e assai importa la cosa».
2 Croce 1902, cap. xi, pp. 329-42. Schleiermacher condivide solo con Vico, Kant e De
Sanctis l’onore di avere riservato un’intero capitolo della “Storia”; e ancora molti anni dopo
Croce (1935) gli dedicherà un nuovo nutrito saggio. Ma cfr. la recentissima prima edizione
italiana dell’Estetica di Schleiermacher e le osservazioni introduttive di D’Angelo 1988, ivi
contenute.
3 Croce 1902 menziona Gracián frettolosamente e in modo assolutamente opaco alle pp.
194, 196, 200; a Batteux dedica poco più di una pagina molto superficiale (pp. 269-70), che
si conclude: «È difficile mettere insieme un più leggiadro mazzolino di contraddizioni»; e
meno di una paginetta è riservata a Burke, che viene liquidato insieme a Hogarth con la frase:
«classici, e tali sono davvero nel genere sconclusionato» (ma a p. 301 aggiunge anche questa
stilettata: «contro il Burke e simile genia»). Mette conto tuttavia di aggiungere che, almeno
su Burke, in seguito Croce (1934, pp. 116-17) ne riequilibrerà la valutazione: «Il Burke, per
esempio, che sembra poco filosofo e molto empirico, e, come psicologo empirico, versante
nel fisiologico, stabilisce tuttavia (e in ciò è ottimo filosofo) il disinteresse del piacere estetico, la sua diversità dal giudizio di fitness o di finalità e da quello della perfezione della cosa
secondo il suo fine, l’amore (love), affatto contemplativo, proprio della bellezza, a contrasto
dell’appetito (desire), che è degli affetti sensuali e che cerca il possesso; e simili».
4 Per l’interesse odierno su Gracián, cfr. la Presentazione di Perniola 1986 alla recente
prima edizione italiana de L’Acutezza, nonché gli interessanti contributi di autori vari (Batllori,
Hidalgo-Serna, Egido, Blanco, Pelegrín, Bodei, Runcini, Perniola, Morpurgo-Tagliabue, Fanizza) contenuti nel volume Baltasar Gracián: Dal Barocco al Postmoderno, e segnatamente quello
di Fanizza 1987. Per Batteux, oltre agli studi di Migliorini 1966, Bollino 1976, Torrigiani 1984,
Modica 1987, cfr. la Presentazione di Migliorini 1983 all’edizione italiana delle Belle Arti e l’Introduzione di Bollino 1984 a quella delle Lettere. Per Burke, e più in generale la rivitalizzazione
attuale in Italia della problematica del sublime, cfr., oltre le recenti edizioni italiane di Pseudo
Longino e Burke, la Presentazione ai rispettivi volumi di Lombardo 1987 e Sertoli 1985, e la
Postfazione longiniana di Bloom 1987; e ancora Sertoli 1986 e Russo 1987 e 1987a, nonché
gli studi di autori vari compresi nelle tre importanti sillogi: Il sublime. Contributi per la storia
di un’idea (Laurenti, Capizzi, Gigante, Riverso, Casertano, Puglisi, Franchini, Vasoli, Santucci,
Di Vona, Tessitore, Cotroneo, Rigobello, Negri, Masullo), Il sublime: creazione e catastrofe
nella poesia (Bloom, Raimondi, Almansi, Givone, Franci, Fortunati, Melandri, Most, Mattioli,
Brown, Valesio, Fink, Destro, De Paz, Colombo, Colaiacomo), Da Longino a Longino: I luoghi
del Sublime (Laurenti, Lombardo, Mattioli, Costa, Santangelo, Sertoli, Morpurgo-Tagliabue,
Franci, Russo, Grassi); segnalo infine l’utile rassegna interpretativa di Mattioli 1987.
5 È molto calzante riferirvi una sottile osservazione di Piovani 1973, p. 1572: «chiarificazione implacabile, favorita dal prestigio di una prosa sottilmente semplificatrice, il rispetto delle
ragioni intime delle varie conoscenze, pur indagate nei loro aspetti fondamentali, è impossibile:
la loro ragione non potrà essere in loro, bensì nella filosofia che le giudica».
6 Croce 1904, p. viii. Tale variazione è stata mantenuta nelle edizioni successive.
7 Croce 1908, p. x. Anche questa frase è stata successivamente modificata («le condizioni in cui versavano gli studi di Estetica mi persuasero ad aggiungere alla teoria una storia
abbastanza ampia di questa scienza»).
8 Croce 1922, p. xiii.
9 Croce 1914-35, p. 45. A pensarci bene, rappresenta solo una manifestazione di signorilità
scientifica l’incipit dell’Inizio, periodi e carattere... (Croce 1916, p. 91): «Altra volta, scrivendo
alcuni cenni di storia dell’Estetica [... ]»? Corsivo mio.
10 Croce 1915, p. 348.
11 Mi riferisco, più che al complesso dell’intensa attività di storiografia estetica sviluppata
da Croce dopo la composizione della “Storia”, alla pubblicazione, quarant’anni dopo, della
sua Storia dell’Estetica per saggi. Come si sa, essa raccoglie e dispone cronologicamente una
scelta di testi significativi già pubblicati in altra sede. L’interesse del volume non è tanto nei
singoli lavori, già conosciuti e apprezzati prima e dunque indipendentemente da questa raccolta; ma, per cosi dire, l’idea in sé della raccolta, il progetto che la sottende, mosso da un
intento esplicito di revisione metodologica. Una “Avvertenza”, firmata dall’Editore, ma chia-
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ramente scritta o ispirata da Croce (1942, p. 5), infatti dice: «Il Croce dette già nel suo libro
dell’Estetica una larga rassegna della storia di questa disciplina; ma, come egli avvertiva nella
prefazione alla quinta edizione, la trattazione gliene parve poi troppo polemica e negativa,
e troppo esclusivamente indirizzata a considerare unicamente i principi delle varie estetiche
conformi o difformi dal principio da lui propugnato della intuizione od espressione. Perciò
con molti saggi speciali, che sono ora sparsi nei suoi volumi filosofici e letterari o nella sua
rivista la Critica, è venuto lumeggiando alquanto diversamente, e meglio particolareggiando, lo
svolgimento della Estetica; e una raccolta completa e una coordinazione che di essi si facesse
darebbe una nuova e più positiva e più varia esposizione della storia della disciplina». Questa
silloge è quindi di grande interesse in quanto si pone dichiaratamente come un’emendazione
della “Storia”, e se non proprio una nuova storia dell’estetica, costituisce, pur in grandissima
approssimazione, il traliccio di come Croce avrebbe voluto fare, e secondo lui si dovrebbe
fare, storia dell’estetica. Ma a questo punto intervengono motivi ulteriori, che esorbitano
il piano di lavoro del presente studio e si allargano alle concezioni del Croce maturo sulla
storiografia in genere, sul fare storia e le storie “particolari”, le eventuali e discusse differenze
(cfr. ad esempio le opposte posizioni interpretative di Parente 1952 e Antoni 1955) fra storia
artistica e storia filosofica.
12 Croce 1922, p. xiii. L’approdo finale di questa revisione metodologica sarà (1940b,
p. 216): «La fallace idea del cosiddetto “problema filosofico” (o “problema filosofico fondamentale”), e l’altra che da essa discende della “filosofia definitiva”, prendono origine nello
scambio tra “problema particolare” e “ordine di problemi”. Un problema particolare si risolve
quando è posto bene (e del resto, se non è posto o è posto male, non può considerarsi problema); ma un ordine di problemi non è dato risolverlo cioè esaurirlo, perché corrisponde a
una categoria spirituale, a una delle eterne forze spirituali che reggono la storia e pongono e
risolvono i problemi particolari. Ecco la ragione ultima per la quale nessuna filosofia è mai
definitiva, investendo sempre ciascuna problemi particolari e non già la totalità dei possibili
problemi, che varrebbe metter termine al filosofare e al pensare».
13 Rimando, comunque, alla nota 5 del primo capitolo (“Una vecchia questione”) di
questo studio; e più specificatamente ad Aa. Vv. 1951 1954 1956 1974, Abbagnano 1954,
Alfieri 1975, Antoni 1964, Banfi 1932, Bobbio 1956, Corsano 1965, Dal Pra 1956, Del Torre
1984, Franchini 1980, Garin 1955 1956 1959 1966, Guzzo 1938, Lombardi 1953, Massolo
1955, Mathieu 1978, Mondolfo 1957, Morpurgo-Tagliabue 1956 1960, Negri 1972, Paci 1956,
Pareyson 1952, Piovani 1956, Preti 1951 1956 1960, Radetti 1967, Raggiunti 1956, Rossi 1956,
Rossi 1957, Rossi-Viano 1955, Sasso 1966, Spirito 1956.
14 Croce 1902, pp. 136-39. Assente nelle Tesi, questo passo è rimasto immutato nella
seconda edizione (1904, pp. 135-38); tale posizione è rappresentata in termini consimili anche
nella coeva memoria Lineamenti di logica (1904-05, p. 242): «Come ogni lavoro storico, la
storia della scienza presuppone idee teoriche, e, quindi, convinzioni determinate intorno a
quella parte della scienza, di cui prende a investigare le vicende nel tempo. Come storia della
scienza, non concerne la forma letteraria in cui appaiono le idee, ma le idee per sé prese. E,
giacché la scienza è ricerca dell’universale, la storia della scienza, – diversamente da quella
dell’arte e della poesia, – può presentarsi come la storia di un unico problema, a cui tutte le
menti umane han lavorato e lavorano».
15 Croce 1908, p. 155, presenta questa sensibile riformulazione del passo, rimasta immutata in tutte le successive edizioni: «Si suole rappresentare tutta la storia della scienza
su di un’unica linea di progresso e regresso. La scienza è l’universale, e i problemi di essa
sono collegati in un unico vasto sistema, o problema complessivo. [...] Se ciò sia vero o no
per la scienza, sarebbe lungo qui ricercare». Segnaliamo: (a) la diversa intonazione iniziale
(«Noi possiamo rappresentare» invece di «Si suole rappresentare»); (b) l’inserzione della frase
dubitativa («Se ciò sia vero o no»); (c) l’espunzione di tutto il passo, riportato nel testo, sul
confronto fra storia artistica e letteraria e storia della scienza.
16 Per evidenziare tale quoziente di approfondimento e di chiarificazione, riporto un
passaggio crociano apertamente autocritico (1917, pp. 131-33): «Conviene rifiutare altresì
un pregiudizio assai comune e radicato (al quale noi stessi altra volta siamo parzialmente
soggiaciuti [in nota Croce rimanda, appunto, al cap. xvii della prima parte dell’Estetica],
onde si verrebbe senz’avvedersene a reintrodurre l’universalità d’immaginazione: ossia che
tra le storie speciali, costituite secondo le varie forme dello spirito (e generali e unitarie solo
in quanto ogni forma dello spirito è tutto lo spirito in quella forma), alcune ve ne siano che
comportano una trattazione universale, e altre solo una trattazione monografica. Il caso tipico
che si suole recare è la differenza tra la storia della filosofia e la storia della poesia o dell’arte,
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della prima delle quali il subietto sarebbe il grande ed unico problema filosofico degli uomini
tutti e della seconda i problemi sentimentali-fantastici dei singoli momenti, o tutt’al più dei
singoli artisti; e perciò la prima sarebbe continua, la seconda discontinua, la prima capace
di una visione complessiva e universale, la seconda solo di una sequela di visioni particolari.
Ma un più “realistico” concetto della filosofia toglie a lei questo privilegio di fronte alla storia dell’arte e della poesia o ad ogni altra storia speciale; giacché, nonostante le apparenze,
non è punto vero che gli uomini si siano travagliati sopra un unico problema filosofico, cui
soluzioni successive, e sempre meno inadeguate, formerebbero un’unica linea di progresso,
e darebbero la storia universale dello spirito umano, sostegno e unificazione delle altre storie
tutte. Vero è l’opposto: che i problemi filosofici che gli uomini hanno trattato o tratteranno,
sono infiniti, e ciascuno sempre particolarmente e individualmente determinato; e l’illusione
del problema unico è nata da uno scambio logico, aiutato da contingenze storiche [...]. Anche le storie “universali” della filosofia, al pari delle altre tutte, esaminate con buona lente,
si dimostrano o storie particolari del problema che occupa il singolo filosofo-storiografo, o
costruzioni sforzate e arbitrarie, o prospetti e raccolte di molteplici e diverse serie storiche,
a mo’ di manuale ed enciclopedia di storia filosofica. [...] Insomma, la cosa procede né più
né meno come nella storia della poesia e dell’arte, nella quale ciò che è veramente trattazione
storica viva e piena è la critica o pensamento delle singole personalità poetiche; e il resto,
la collezione delle critiche, è prospetto formato per contiguità di tempi e di luoghi o per
affinità di materia o per somiglianze di temperamenti o per gradi di eccellenza artistica. [...]
Il problema metodologico dei nostri tempi è, invece, di dare alle storie della poesia e dell’arte
struttura sempre più snodata ed elastica, e libera da tirannie intellettualistiche, sociologiche o
concettuali, e avvicinare poi le storie della filosofia alla forma, così perfezionata, delle storie
della poesia e dell’arte».
17 Nella Poesia (1936, pp. 323-24) la questione verrà così riformulata: «Circa la falsa idea
del progresso, trasferita dal movimento complessivo della storia al singolo atto sì da immaginare un progresso nella qualità di questo, e pertanto un progresso della categoria spirituale,
si avverta che contro di essa ha reagito la comune coscienza del vero [...]. Donde il rinnovarsi
del riconoscimento che “in arte non v’ha progresso” [...]. Vero è che si suole aggiungere [...]
che diversamente accade nelle scienze, dove le cognizioni sempre si accrescono e si sommano;
ma così dicendo, si compie un salto logico, perché in questione non è già il sempre crescente
numero delle cognizioni o la sempre crescente loro complessità storica (come non è in questione il sempre crescente numero delle opere d’arte [...]), ma l’atto per se stesso del conoscere,
nel quale è evidente che la mente comincia anch’essa ogni volta da capo, ogni volta ricadendo
nel buio e riergendosi alla luce, e che il vero e il falso si oppongono con lo stesso volto ora
come nel passato, e con lo stesso volto si opporranno nell’avvenire».
18 La posizione matura di Croce (1929, pp. 13-14) sarà: «L’Estetica, che è la scienza
dell’arte, non ha, dunque, come s’immagina in certe concezioni scolastiche, l’assunto di definire una volta per tutte l’arte e svolgere la correlativa tela di concetti, in modo da coprire
tutto il campo di quella scienza; ma è soltanto la continua sistemazione, sempre rinnovata
e accresciuta, dei problemi ai quali, secondo i vari tempi, dà luogo la riflessione sull’arte, e
coincide del tutto con la risoluzione delle difficoltà e con la critica degli errori che porgono stimolo e materia al progresso incessante del pensiero. Ciò posto, nessuna esposizione
dell’Estetica, [...] può mai pretendere di trattare ed esaurire gli infiniti problemi che si sono
presentati o si presenteranno nel corso della storia dell’Estetica».
19 In realtà la faccenda è un po’ più complessa. Nelle prime due edizioni, la “Storia”
si componeva di 18 capitoli, numerati in cifra romana e senza titolo (ma i singoli paragrafi
avevano già titoletto a margine); a partire dalla terza, Croce assegnò un titolo complessivo
a ogni capitolo, e scisse in due il cap. xvii (che divenne: xvii “Positivismo e naturaIismo
estetico” e xviii “Psicologismo estetico e altri indirizzi recenti”, quest’ultimo aumentato),
sicché il cap. xviii, rimasto immutato, divenne il “nuovo” cap. xix col titolo “Sguardo alla
storia di alcune dottrine particolari”.
20 Attisani 1924, p. xviii . De Ruggiero 1950, p. 3, ha osservato (riguardo al volume
Ciò ch’è vivo e ciò ch’è morto nella filosofia di Hegel, ma l’osservazione vale vieppiù per la
“Storia”): «I quattro volumi della sua “Filosofia dello Spirito” sono, nel tempo stesso, una
soluzione speculativa e una ricostruzione storica dei massimi problemi del pensiero umano.
Ivi la dottrina propria del Croce appare come l’epilogo e il coronamento di una serie di
sforzi speculativi, che progressivamente si avvicinano alla loro meta [...] questo procedimento
storiografico rivela, insieme col grande pregio di vivificare le filosofie del passato collocandole al foco d’interessi mentali contemporanei, anche il corrispondente rischio di mutilarle
97
e di sostituire a una certa critica interna di esse una critica in qualche modo esterna, che le
misura dall’alto».
21 Bagni 1984, p. 16.
22
Cfr. le numerose osservazioni di metodo prodotte già nella Logica (per esempio, a p.
206, l’avvertenza che «nel narrare la storia, ai giudizi logici, che sono, in quanto tali, giudizi
di valore, si accompagni il meno possibile di quelle forme enfatiche, negative e desiderative,
che, innanzi al presente o passato prossimo, hanno la loro giustificazione, perché indicano le
vie del futuro, ma che, innanzi al passato remoto, riescono, di solito, superflue e vuote. [...]
la storia non si giudica, ma si narra; e dovrebbe dirsi più esattamente che non si giudica con
le categorie con cui si giudicano le azioni degli individui, dialettizzabili in buone e cattive,
perché altra è l’azione dell’individuo e altro è l’avvenimento storico»), e segnatamente, ivi,
la “teoria dell’errore”.
23 Un esempio per tutti (1924, p. 350): «Nella storiografia – ecco un principio metodologico che ho più volte inculcato – non valgono i giudizi negativi (salvo, beninteso, che la
forma negativa non sia puramente metaforica ossia verbale), ma solo i giudizi affermativi. Si
dice in essa: “è accaduto a, b, c”, e non già “è accaduto non-a, non-b, non-c”. Questi secondi
giudizi negativi non avrebbero senso nella storiografia, della quale sarebbero la distruzione,
asserendo non quello che è accaduto, ma quello che non è accaduto, e che perciò non forma
oggetto di conoscenza».
24 Croce 1916, p. 104.
25 Croce 1916, pp. 91-92.
26 Croce 1916, p. 96. Né meno significative saranno, in verità, ulteriori aperture metodologiche successive. Per esempio, Croce (1929, p. 33) arriverà a sostenere: «Se la storia dell’Estetica
deve essere integrata nella storia totale della Filosofia, questa storia medesima dev’essere, per
altro rispetto, allargata fuori dei confini, nei quali d’ordinario è mantenuta e nei quali si usa
farla coincidere con la serie delle opere dei filosofi cosiddetti di professione e delle trattazioni
didascaliche che si chiamano “sistemi di filosofia”. I nuovi pensieri filosofici, o i loro germi, si
ritrovano spesso vivi ed energici in libri che non sono di filosofi professionali, né sistematici
nell’estrinseco: [...] per l’estetica, in quelli dei critici d’arte, e via dicendo».
27 Garin 1966, p. 1287.
28 Croce 1916, pp. 96 e 100.
29 Può essere illuminante una più generale osservazione di Garin 1966, pp. 1289-90: «È
indubbio che Croce parta sempre da un’indagine determinata [...]. Questa è la sua forza. D’altronde, fra lo strumento concettuale, fra le stesse regole generali del metodo e i dati particolari,
concreti, accertati, egli non cura, anzi respinge, la determinazione di un tessuto costante, di
linee di sviluppo, di trame, di “figure”, suscettibili di essere razionalmente determinate e studiate. Tutto questo è, sul terreno storiografico, uno “schematismo sociologico” da rifiutare. [...]
Questo il limite di Croce, da lui vinto solo per incongruenza felice e genialità nativa, attraverso
osservazioni e analisi singole, che si inseriscono fra la molteplicità dei fatti, e i quadri generalissimi offerti dai “concetti puri” e si costituiscono come specifiche interpretazioni della realtà».
30 Croce 1896-1924, p. 58. Il corsivo di «a modo mio» non è dell’autore.
31 D’Angelo 1982, pp. 43-44.
32 Croce 1902, p. 165.
33 Croce 1902, pp. 171-73.
34 Croce 1902, p. 177.
35 Croce 1902, pp. 178-82. L’aggettivo «viziosi» fu espunto a partire dalla terza edizione.
36 Croce 1902, p. 221.
37 Croce 1902, p. 217.
38 Dalla corrispondenza con Gentile sappiamo degli sforzi di Croce, nella fase di preparazione dell’Estetica, per potere leggere direttamente le opere di Baumgarten. Nella lettera del
21 agosto 1899 (Croce 1896-1924, p. 58) gli scrive: «Il Farinelli mi ha promesso di provare
ad acquistare una copia del Baumgarten, o di farmelo avere in prestito dalla Germania»; e il
14 dicembre (ivi, p. 66): «Per mezzo del Farinelli, ho potuto avere fino a Napoli, e leggere e
farmene estratti, le opere della scuola Baumgartiana, cioè del Baumgarten stesso e del Mayer
[sic!]. Sarà una curiosa pagina della mia storia dell’estetica». Croce si fece editore di una
ristampa delle Meditationes già l’anno seguente. Gentile (1896-1900, p. 336) il 23 ottobre del
1900 gli scrive: «Vi ringrazio prima di tutto del bell’opuscolo del Baumgarten, che sto leggendo. Chi sa che diranno i tedeschi a vedere ristampato in Italia da un italiano un loro libro!».
(Ma Vossler, 1899-1949, p. 11, il 24 ottobre del 1900, ricevuto il volume, si limitò a scrivere:
«Mille grazie di quel graziosissimo volumetto del vecchio Baumgarten».) Decenni dopo, Croce
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(1933) scrivendo un nuovo saggio sul Baumgarten, dove ne da un giudizio più articolato di
quello espresso nella “Storia”, racconterà (p. 105): «nel 1900, con pietà di lontano discepolo,
lontano per tempo e per luogo, ristampai in Napoli, meis impensis, in un elegante opuscolo,
le Meditationes (e delle poche copie che ne misi in commercio, neppure una trovò chi la
comprasse, sicché finii col donarle tutte, né credo che, tra i donatari, esse trovassero mai alcun
lettore)». Nicolini 1960, p. 337, ha così riferito la vicenda: «Mentre preparava la sua Estetica, il
C. riuscì a procurarsi un esemplare del rarissimo opuscolo del Baumgarten nel quale apparve
per la prima volta, coniata appunto da quest’ultimo, la parola Aesthetica, cioè le Meditationes
philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus. Pertanto nel 1900 ne pubblicò a sue spese
una ristampa in pochi esemplari fuori commercio, aggiungendovi di suo una prefazione e talune note. Trentadue anni dopo [...], dopo decenni di ricerche, riusciva a procurarsi anche i due
volumi (1750 e 1758) del medesimo Baumgarten nel cui frontespizio, oltre il nome dell’autore
e le indicazioni bibliografiche, non si legge alcuna parola se non appunto Aesthetica». C’è da
aggiungere che nel 1936, in occasione del settantunesimo compleanno di Croce, un gruppo
di estimatori e amici gli dedicò una ristampa dell’Æsthetica, alla quale egli aggiunse alcune
note di carattere storico e bibliografico. Sulle Meditationes, e in genere la fortuna delle opere
baumgarteniane, cfr. Piselli 1985 e 1986.
39 Croce 1902, pp. 219-21. Non a Baumgarten, ma a Vico (cfr. la prec. n. 1), spetterebbe
dunque per Croce l’onore di «padre effettivo» dell’estetica. Non guasta però segnalare che
in una postrema nota crociana (1951, p. 223) si trova una riformulazione alquanto ambigua:
«Raccolse il pensiero del maestro [Leibniz] l’acuto Baumgarten in una nuova scienza, che
egli chiamò Estetica, e della quale determinò il posto che le spettava nella vita dello spirito».
40 Croce 1902, p. 269.
41 Croce 1902, p. 286.
42 Croce 1902, p. 323.
43 Croce 1902, p. 328.
44 Croce 1902, p. 354.
45 Croce 1902, p. 371.
46 Croce 1902, p. 373.
47 Croce 1902, p. 376.
48 Croce 1902, p. 392. Corsivo mio.
49 Croce 1902, pp. 394-96. In verità, lo scarso apprezzamento di Zimmermann come
teorico era stato manifestato già un decennio prima da Croce (1893, pp. 10-11): «Roberto
Zimmermann, propugnatore dell’interpretazione strettamente formalistica, [...] prese a costruire
un intero sistema di estetica sui principi dello Herbart [...]. E noi siamo pienamente d’accordo
con lo Hartmann nel giudicarla: “l’artificiosa costruzione di un acume perfettamente sterile”».
50 Croce 1902, p. 401.
51 Croce 1902, p. 405. Più volte Croce (p. es. 1893), negli anni precedenti, aveva espresso
estimazione per Hartmann («acuto», «notevole», ecc.), sia per la Die deutsche Ästhetik seit
Kant che per la Philosophie des Schönen.
52 Croce 1902, p. 406. Ruskin era già stato definito da Croce (1894, p. 101n): «fantasioso
teorico dell’arte ».
53 Croce 1902, p. 411.
54 Croce 1902, p. 443.
55 Croce 1902, p. 445.
56 Contini 1966, p. 42.
57 Croce 1896-1924, p. 61. Corsivo dell’autore.
58 Croce 1902, p. 477. Il passo è rimasto sostanzialmente immutato in tutte le edizioni
successive.
59 Croce 1902, p. 448. A parte una realizzazione tipografica leggermente diversa, il passo
è rimasto sostanzialmente invariato.
60 Ibidem.
61 Croce 1908a, pp. 207-08.
62 Ibidem. Il passo continua: «Da quel primo problema risolutivo altri problemi a uno a
uno scoppiarono, e le soluzioni loro si tennero dietro e s’ingranarono in un numero presso
che infinito di altre soluzioni; e così a poco a poco, con allargarsi continuo, il mio mondo
dello spirito si formò. Nel qual mondo, appunto, le idee si richiamano e si accennano le
une le altre, e ognuna splende non tanto della sua luce propria quanto dei mutui raggi che
muovon dalle altre; e in ognuna di esse, per quanto piccola, è rispecchiato il tutto insieme. In
ogni problema di filosofia è tutta la filosofia. Delle volte basta un’idea sola per costruire tutto
99
un sistema. Bastano due punti per tracciare una retta infinita. Chi abbia poi, come io ho, il
bisogno di fare e rifare continuamente i conti con se stesso, di rendersi ragione dei propri
dubbi, di seguire sino in fondo il cammino delle proprie affermazioni, è spinto ad allargare
continuamente intorno a sé il proprio mondo. È come l’astronomo che scopre ogni notte un
astro nuovo sotto l’arco del suo cielo».
63 Croce 1908a, p. 209.
64 Cfr. infra, p. 74, n. 72.
65 Cfr. Croce 1909, pp. 226-27. Sulle aspre polemiche sollevate dalla memoria crociana
sulla Storia, rimando particolarmente all’attento studio di Rizzo Celona 1982.
66 Cfr. Croce 1918a, pp. vii-xv.
67 Cfr. Croce 1938, pp. 279-322; ma cfr. anche infra, p. 73, n. 63.
68 Croce (per esempio: 1940e, p. 314) protesterà sempre di non guardare ai suoi «concetti
filosofici attenendosi unicamente alla mia vecchia Estetica del 1900 (che fu soltanto l’inizio,
l’ancor giovanile inizio della mia opera filosofica), e punto non raccogliere il frutto dei quarant’anni di lavoro che l’hanno seguita e che, per quel che si riferisce all’estetica, si trovano
esposti nei Nuovi saggi di Estetica, negli Ultimi saggi e nel libro sulla Poesia, né darsi per inteso
dell’altro e più cospicuo svolgimento che ha ricevuto la teoria della storiografia, quale in particolare il legame che è stato approfondito dell’indagare e conoscere storico con la vita pratica
e morale comprende intero il processo del proprio conoscere ed esaurisce sostanzialmente il
cosiddetto problema gnoseologico».
69 Per avere un’idea di questa «furiosa censura», basta considerare l’implacabile trattamento riservato da Croce a Zumbini, a quel tempo stimato «gran successore e integratore del De
Sanctis», nella chiusa del paragrafo riservatogli («Intorno ai saggi critici del prof. Zumbini»)
nella Critica letteraria (1894 p. 153): «Non mi tratterrò sulla sua forma di scrivere, perché,
sebbene egli sia stato lodato come prosatore e come artista, a me pare scrittore corretto bensì
e accurato, ma fiacco, stentato e incolore; e, tirando la somma, concludo che lo Zumbini, come
teorico dell’arte, val nulla; come espositore delle opere d’arte, poco; come critico estetico,
pochissimo; e che egli si presenta recando in mano solo un manipoletto di ricerche storiche,
che abbiamo visto come sia composto»; e riporta in nota l’inizio di una descrizione del golfo
di Napoli, invero allucinante, che apriva il saggio zumbiniano su Vittoria Colonna.
70 Croce 1918a, pp. xiv-xv.
71 Croce 1908a, p. 210. Già nella coeva Logica (1909, pp. 223-24) Croce tematizzerà questo
tratto: «[...] filosofia e critica della filosofia sono la cosa medesima; ogni affermazione è negazione, ogni negazione è affermazione. Il lato critico o negativo è inscindibile dalla filosofia, la quale
è sempre, sostanzialmente, una polemica, come si può vedere analizzando qualsiasi scrittura
filosofica. Si raccomanda volentieri, dalla gente che ama la pace, di astenersi dal polemizzare,
e di esprimere, nel filosofare, in modo positivo le proprie idee. Ma, senza polemica, solamente
l’artista può esprimere il suo animo, che è qualcosa che non consiste d’idee. Le idee sono sempre armate di lancia e scudo; chi vuole introdurle tra gli uomini, deve lasciarle guerreggiare»;
e vi ritornerà anche in seguito (1924, p. 350): «[...] “male”, “errore” e “simili”, hanno senso,
quando ci collochiamo nel mezzo della realtà che si fa, quando partecipiamo al suo farsi, come
attori, perché il farsi della realtà ossia il processo e lo svolgimento spirituale, è unità che in
perpetuo si distingue, e perciò in perpetuo si oppone, e si riunifica attraverso la distinzione e
l’opposizione. È una lotta, una battaglia (la «battaglia della vita»); e nelle battaglie si avanza e
s’indietreggia, si sopraffà e si è sopraffatti, si vince e si perde». Per altro, l’apprezzamento per
la polemica scientifica è un tratto presente in Croce fin dall’adolescenza (1882, p. 427): «Lo
spirito di contraddizione [...] eccita tutta l’attività del pensiero, e perciò avvisa nuove idee e
nuovi rapporti, dove la cieca imitazione lascia il mondo stazionario».
72 Le lettere di Gentile (1896-1900 e 1901-16) a Croce sono in verità disseminate di apprezzamenti, a cominciare dal suo annuncio che stava lavorando a un «Trattato di Estetica»,
fino alla pubblicazione delle Tesi e poi dell’Estetica, come si è accennato nel capitolo precedente. Ed è molto interessante registrarne l’effetto prodotto su Croce. Gentile, di passaggio
da Napoli ai primi di giugno del 1900, aveva ricevuto brevi manu da Croce le Tesi appena
stampate. Giudicò subito la memoria «bellissima e importantissima» (1896-1900, p. 291), e
gliene scrisse più volte a lungo nelle settimane successive, fino a concludere: «Ho pensato e
ripensato sulle vostre tesi fondamentali di estetica; e mi sono sempre più confermato nella
prima impressione; che per voi questa scienza si mette sulla sua via» (ivi, p. 297). Croce (18961924, p. 91) l’indomani 28 giugno rispose a Gentile: «Vi ringrazio delle osservazioni che mi
fate sul mio opuscolo, e vi sarò grato se me ne verrete comunicando delle altre, via via che
avrete tempo, in questi mesi prossimi. Mi ha fatto molto piacere che abbiate trovato buono
100
l’indirizzo della mia Estetica. [...] E non senza trepidazione vi detti l’opuscolo un mese fa,
quando passaste per Napoli. In questioni così sottili, e nelle quali si è tanto errato, è difficile
sentirsi sicuri». Nel dicembre del 1901, leggendo le prime bozze di stampa dell’Estetica, Gentile (1901-06 p. 25) si congratulò con Croce «del bellissimo lavoro che avete fatto. È un’opera
veramente filosofica come in Italia non se ne vede più da un pezzo, e che resterà a fare onore
a voi e agli studi nostri». Croce (1896-1924, p. 115) apprezzò molto questi elogi e gli confessò:
«ne traggo conforto: conforto di cui ho bisogno perché da un pezzo si sviluppa in me sempre
maggiore l’ipercritica»; e in una lettera del 16 settembre 1902 (ivi, pp. 123-34), pigliando
occasione della recensione stesa da Gentile all’Estetica [in corso di pubblicazione nel “Gior.
nale storico della letteratura italiana”, xxii (1903)], aggiunse: «non è della sola recensione
che io debbo da un pezzo ringraziarvi; sibbene di avermi straordinariamente giovato, forse
senza accorgervene, con la vostra conversazione epistolare ed orale. E quel: che cosa ne dirà
l’amico Gentile? era un ammonimento e uno sprone durante il mio lavoro: giacché, è inutile,
noi approfondiamo meglio i nostri pensieri quando sentiamo di avere dei giudici. L’ambiente
ostile e indifferente fa gli uomini leggeri».
73 All’arrivo del «volumino» delle Tesi, Vossler (1899-1949, p. 11) il 12 settembre 1900
scrisse a Croce: «Mi son immediatamente posto alla lettura e lo leggo col più vivace interesse,
anzi con un “gusto matto”. Il Suo lavoro mi pare Epochemachend nel più serio significato
della parola e me ne rallegro con Lei di tutta l’anima. [...] Aspetto con impazienza la continuazione dei suoi studi». Il 25 marzo 1902 dichiara: «Non vedo l’ora di avere il suo volume
sull’Estetica. Farò quel che posso per allargargli la strada qui in Germania» (ivi, p. 18); e a
giugno: «La pubblicazione della Sua Estetica per me è stata una festa. Per ora sto rileggendo
e ripensando la parte teoretica, e finisco di chiarirmi con l’aiuto suo un sacco di idee confuse. L’approvazione e la gratitudine di color che pensano non Le mancherà di certo. Spero
di poterne far un resoconto su qualche periodico» (ivi, p. 19). Croce (1899-1949, p. 20) il
28 giugno rispose di essere «ben contento dell’interesse che vi ha destato il mio volume di
Estetica. Questo interessamento degli studiosi serii è per me la maggiore soddisfazione». L’1
agosto successivo Vossler comunica: «Ho finito adesso un resoconto abbastanza lungo della
Sua Estetica, che più la leggo e più l’ammiro. Per la storia del pensiero è un avvenimento di
somma importanza l’opera sua. [...] Il mio resoconto è diventato un articolo e si stamperà
in agosto o in settembre sulla Wissenschaftliche Beilage zur Allgemeinen Zeitung di Monaco,
forse il meglio conosciuto giornale della Germania. S’intende che le manderò una copia»
(ivi, pp. 22-23). Croce, contentissimo «dell’annunzio», rimase in attesa «con desiderio» della
recensione, pubblicata il 10 settembre, e appena avutala, il 14 settembre, scrisse subito: «Ho
ricevuto stamattina il vostro articolo, che, dirò francamente, mi ha fatto un grandissimo piacere. La vostra esposizione delle mie idee, cosi fedele, intelligente e succosa, mi ha mostrato
quanto interesse voi abbiate preso ad esse, e come le abbiate meditate e assimilate. Ed ecco
una prima ragione di piacere. Per opera vostra, mercé la vostra benevola e lunsinghiera presentazione, il mio libro vien reso noto nei circoli scientifici tedeschi: il che desideravo molto;
ed ecco una seconda ragione di piacere» (ivi, p. 24); e lo stesso giorno scrisse a Gentile (18961924, p. 123): «Il Vossler ha pubblicato sulla Beilage dell’Allg. Zeit. un lungo articolo, assai
ben fatto, intorno alla parte teorica della mia estetica, che comincia con l’annunciare habemus
pontificem, e termina col dire che è debito di onore per la Germania tradurre presto un libro,
che mostra una così larga conoscenza delle cose tedesche». Come documenta il loro carteggio,
Vossler continuò a interessarsi dell’estetica di Croce, sia parteggiando per lui dinanzi ad
alcune recensioni sfavorevoli sia seguendo con partecipazione le vicende dell’edizione tedesca
dell’Estetica apparsa nel 1905.
74 Come dimostrano ampiamente le lettere di Labriola (1885-1904) a Croce, la sua “prima
estetica”, cioè le Tesi fondamentali, comparve in una fase nella quale, pur nel mantenimento di
rapporti improntati ad affettuosità, si era determinato da un paio d’anni un clima di tensione
fra i due, causato dagli scritti crociani sul materialismo storico che avevano deluso e amareggiato Labriola. Labriola, nel corso di lunghissime contestazioni epistolari, accusò Croce, tra l’altro,
di essere un «epicureo che mediti sulle forme del pensiero, ignaro della vita» (ivi, p. 266), un
«critico letterario e atto agli studi della storia, con ampio corredo di cognizioni filosofiche»
(ivi, p. 267), e gli prognosticava un futuro di «accurato scrittore di cose storiche» (ivi, p. 268).
Alle rimostranze di Croce, il 3 marzo 1898 precisava: «Io persevero nella mia antica opinione
di distinguere i filosofi e scienziati dai letterati. In questa categoria tanto per farti capire che
non intendo di offenderti, come ci metto te ci metto nientedimeno anche Voltaire, Diderot,
Lessing e via discorrendo. Niente toglie che un letterato sia anche un genio, e un gran pensatore. Ma ciò non toglie che Voltaire, se anche gli avessero offerto il Sacro Romano Impero
101
non avrebbe saputo scrivere, né un trattato di Logica, né un manuale di Estetica. Un letterato
può empire di centomila osservazioni vere i suoi scritti, senza avere l’attitudine a sistemarle, né
obbiettivamente né subiettivamente. Un letterato può essere anche un inventore di idee (p. e.
Goethe), ma se si mette a fare della scienza diventa più pedante degli scienziati di professione,
e zoppica sempre nello spirito della conseguenza» (ivi, pp. 268-69). Due anni dopo, alla vigilia
della pubblicazione delle Tesi, scriveva: «Aspetto la tua neo-estetica la quale non mi farà certo
arrabbiare» (ivi, p. 338); ma al loro arrivo, il 3 giugno 1900, commentò: «L’estetica te l’abbandono tutta. Non m’importa di avere nessuna idea mia propria in proposito. E può darsi che
tu abbia da fare in proposito delle scoverte. Uno può avere ragione in un ordine di cognizioni
anche quando non trovi la maniera adeguata di esprimersi. Ma quanto a quella maniera, tu mi
sembri un Wolfius redivivus» (ivi, p. 339). Alle proteste di Croce, aggiunse due giorni dopo:
«Che cosa vuol dire che occorre l’estetica per capire la logica, e l’una e l’altra per arrivare
alla psicologia – e che concetti estetici, logici, economici e tecnici formano serie? o non so
che altra forma di continuità! lo ti confesso che non ci capisco niente, e mi pare di sognare.
Si tratta di un nesso reale causale – o di una successione ideologica? Nel primo caso partendo dall’estetica capiremo meglio (realiter) come facciamo a raddrizzare l’immagine capovolta
della retina, o come sia nata la schiavitù nel processo della produzione? E nel secondo caso
riusciremo meglio (idealiter) a dimostrare il principio della ragion sufficiente, o le vicende del
profitto e del salario? In questo mondo sublunare non troverai due professori di filosofia che
siano capaci d’intendere perché l’estetica illustri la logica, e come ci sia continuità tra i valori
estetici ed i valori tecnici. In tutti i modi io ti sarò grato che tu mi spieghi tutto ciò in una
prosa accessibile alla mia povera intelligenza, giacché sai ciò che i filosofi dovrebbero sapere»
(ivi, pp. 340-01). E «Continuando la lettera di ieri [...]. Ho riletto lo scritto e continuo a non
capire. Ciò dovrebbe farti impressione» (ivi, p. 341).
75 Croce 1940c, p. 46. Il passo continua (pp. 46-7): «Il Labriola mi scrisse subito che a lui,
veramente, dell’Estetica non importava nulla; cioè ebbe la franchezza di dire aperto ciò che di
solito gli altri professori di filosofia pensavano e facevano, o ancora pensano e fanno, ma non
dicevano e non dicono. E mi accusò di non aver cavato un ragno del buco [...]. Il Labriola
attestava una situazione di fatto: “In questo mondo sublunare non troverai due professori di
filosofia che siano capaci d’intendere perché l’Estetica illustri la Logica e come ci sia continuità
tra i valori estetici e i valori etici”. Purtroppo, la cosa stava così: i professori di filosofia non
intendevano questi problemi e non avevano mai meditato sulle pagine della Scienza nuova,
dove sono già oscuramente ma vigorosamente enunciati».
76 Croce 1940c, p. 47.
77 Croce in una nota coeva (1940a, p. 85), riportato nuovamente il giudizio di Labriola,
osservò: «Il che ora potrei quasi quasi commentare con certe parole che il Clausewitz udì
in conversazione, nel circolo di Coppet, dal buon Pestalozzi, a proposito delle sue dottrine
pedagogiche dapprima rifiutate e beffate: “Per lunghi anni mi si è giudicato un imbecille,
ma io non ci ho creduto”».
78
Nel Croce maturo (1925, pp. 372-74) la confutazione polemica diventerà «il generale
principio ermeneutico della interpretazione storica»: «Per intendere una proposizione filosofica
conviene sempre investigare contro quale altra proposizione sia rivolta. E anche ciò risponde
a una legge generale d’interpretazione storica [...]. Il significato e valore di una proposizione
filosofica è dato, dunque, da ciò che essa confuta; il che si fa evidente a chi rifletta che ogni
progresso, ogni passo innanzi nella ricerca scientifica è condizionato dall’inquietezza, dal malcontento, che si chiama “dubbio”, e il dubbio nasce appunto dinanzi a proposizioni che si sentono inadeguate all’aspetto del reale al quale la nostra mente è stata richiamata per effetto del
corso storico, dei nuovi accadimenti, delle nuove vicende. Il progresso accade col trasformare
quel dubbio, quel malcontento, quella inquietezza in problema, e, risolvendo esso problema,
col confutare la proposizione preesistente mercé un’altra proposizione che la corregge e sostituisce. [...] E questo ricercare dentro la proposizione affermante la proposizione negata, che è
insieme ricercare il problema storico a cui l’affermazione risponde, esso solo dà l’intelligenza
dei pensieri del passato, ed esso solo rende possibile di discernere i veri dai falsi pensieri, i
pensieri dai non pensieri, la scienza dalle chiacchiere, delle quali ci è stato sempre al mondo
maggior copia che non di pensieri. Le teorie, i sistemi, i concetti, le dissertazioni di tutti coloro
che nella scienza si chiamano dilettanti, mestieranti, vanesi, ignoranti e via qualificando, sono
dimostrati nella loro nullità appunto dalla mancanza in loro di problemi effettivamente reali,
dalla mancanza di qualcosa che venga effettualmente confutato».
79 Cfr. la recentissima prima edizione italiana dell’Estetica di Schleiermacher 1819, ed ivi
sia la Presentazione di Garroni 1988 che l’Introduzione di D’Angelo 1988.
102
80
Croce 1934, p. 125: «Né quella vera e propria cellula dell’attività estetica, su cui Baumgarten aveva posto l’occhio e che più profondamente il Vico aveva indagata e altri pensatori
in certo modo intravista, trovò chi prendesse a considerarla tra gli estetici postkantiani, salvo
lo Schleiermacher, appunto perciò rimasto senza efficacia».
81 Kuhn 1962, p. 12.
82 Croce 1942, p. 5; ma cfr. la prec. n. 11.
83 Croce 1899-1949, p. 13.
103
Una nascita travagliata
Benedetto Croce ha tenuto a evidenziare chiaramente il modello
metodologico che ha informato la sua “Storia”. Lo pose già nel celebre
incipit: «È stato parecchie volte oggetto di controversia se l’Estetica sia
da considerare come una scienza antica o moderna: nata per la prima
volta dopo il rinascimento, o esistente già nel mondo greco-romano.
La questione, com’è facile intendere, non è una semplice questione
di fatto: vi entra un elemento valutativo: il risolverla in un modo o in
un altro dipende dall’idea che ciascuno si è formato dell’indole della
scienza estetica, e che adopera come misura e termine di paragone. Il
nostro punto di vista è che l’Estetica sia la scienza dell’attività espressiva (rappresentativa, fantastica). Essa quindi, secondo noi, non sorge
se non quando vien definita scientificamente la natura della fantasia,
della rappresentazione, dell’espressione, o come altro si voglia chiamare quell’atteggiamento dello spirito, ch’è bensì teoretico, ma non
intellettuale, produttore di conoscenze ma di conoscenze dell’individuale, non dell’universale. Fuori di questo punto di vista noi, per nostro conto, non sappiamo scorgere se non deviazioni ed errori. […]
Onde, dovendo noi qui prender partito nella controversa questione se
l’estetica sia una scienza antica o moderna, non possiamo non metterci
dalla banda di coloro che ne sostengono recisamente la modernità» 1.
È un esordio a tutti noto. Probabilmente, meno noto è che questo
passo costituisce uno dei luoghi più tormentati dell’intera opera crociana. Da un’edizione all’altra Croce l’ha infatti riscritto e riscritto di
continuo, operando riformulazioni che sono, alcune, naturalmente solo
stilistico-formali, miranti a una maggiore nettezza ed efficacia di dettato;
ma anche, altre, squisitamente concettuali, che attengono alle categorie operative con cui è stata elaborata la “Storia”. Sono spie davvero
euristiche del travaglio del pensiero crociano anche intorno a questo
tema. Converrà dunque per prima cosa considerare attentamente tali
variazioni. E per affinare la percezione delle differenze, e non smarrirsi
subito in un ginepraio di varianti, sceglieremo due test di riferimento,
riportando in successione l’assestamento testuale realizzato nella terza
edizione (1908) e nella settima (1941), la cui ristampa è sostanzialmente
quella in circolazione nei nostri anni.
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È stato parecchie volte oggetto di controversia se la Scienza Estetica sia da
considerare antica o moderna; nata per la prima volta nel secolo xviii, o affermatasi già nel mondo greco-romano. Questione, com’è facile intendere, che
è, non solo di fatti, ma di criterî: risolverla in un modo o in un altro dipende
dall’idea che ciascuno si forma dell’indole dell’Estetica, e che adopera poi come
misura e termine di paragone. Il nostro punto di vista è che l’Estetica sia la
scienza dell’attività espressiva (rappresentativa, fantastica). Essa, quindi, secondo
noi, non sorge se non quando vien determinata scientificamente la natura della
fantasia, della rappresentazione, dell’espressione, o come altro si voglia chiamare
quell’atteggiamento dello spirito, ch’è bensì teoretico, ma non intellettuale; produttore, cioè, di conoscenze, ma dell’individuale, non dell’universale. Fuori di
questo punto di vista, per nostro conto, non sappiamo scorgere se non deviazioni
ed errori. […] Onde, dovendo noi qui prendere partito nella controversia se
l’Estetica sia scienza antica o moderna, non possiamo non metterci tra coloro
che ne affermano la modernità 2.
È stato parecchie volte oggetto di controversia se l’Estetica sia da considerare
scienza antica o moderna; venuta al mondo la prima volta nel secolo decimottavo o formatasi già nel mondo greco-romano. Questione, com’è facile intendere,
che non è solo di fatti ma di criterî: risolverla in un modo o in un altro dipende
dal concetto che si ha di questa scienza, e che si adopera poi come misura e
termine di paragone. Il nostro concetto è che l’Estetica sia scienza dell’attività
espressiva (rappresentativa, fantastica). Essa, quindi, secondo noi, non sorge se
non quando viene determinata in modo proprio la natura della fantasia, della
rappresentazione, dell’espressione, o come altro si voglia chiamare quell’atteggiamento dello spirito, ch’è bensì teoretico ma non intellettuale, produttore di
conoscenze, ma dell’individuale, non dell’universale. Fuori di questo concetto,
per nostro conto non sappiamo scorgere se non deviazioni ed errori. […] Onde,
dovendo noi qui prendere partito nella controversia se l’Estetica sia scienza
antica o moderna, non potremmo non metterci tra coloro che ne affermano
la modernità 3.
In questo passo, come si vede davvero ricchissimo, e nelle oscillazioni squisitamente semantiche attestate dalle tre versioni riportate,
gravide d’impegnative implicazioni concettuali, vi è dunque la chiave
di costruzione della “Storia”, il suo reticolo epistemico. E immediatamente, già in primissima approssimazione, si constata la crucialità che
il problema della “nascita”, e cioè la questione se l’estetica sia scienza antica o moderna, riveste per il paradigma costitutivo della storia
dell’estetica. Riconosciuto che l’estetica è una scienza filosofica, la sua
storia, il problema dunque del paradigma storiografico a essa pertinente, si pone infatti proprio a partire dallo scioglimento della questione se
essa sia antica o moderna. Non solo. La soluzione del problema della
“nascita”, antica o moderna, è allo stesso tempo decisiva per stabilire
il significato da attribuire all’estetica come scienza.
Sono dunque significative le continue riformulazioni condotte da
Croce di quest’arco tematico. Già è più di una sfumatura l’oscillazione
fra “scienza estetica” ed “estetica scienza antica o moderna”; la precisazione di “nata per la prima volta dopo il rinascimento” o “nel secolo
xviii”; e l’opposizione fra “nata” o “venuta al mondo”, e “esistente” o
106
“affermatasi” o “formatasi” “già nel mondo greco-romano”. Ma è del
tutto saliente che decidere di ciò “non è semplice questione di fatto” o
“di fatti”; “vi entra un elemento valutativo”, “è questione di criterii”; la
soluzione “dipende dall’idea che ciascuno si è formato dell’indole della
scienza estetica” o “dell’estetica”, oppure del “concetto che sia ha di
questa scienza”, che “si adopera come misura e termine di paragone”.
In tal modo, il paradigma storiografico conseguente allo scioglimento
del dilemma fra scienza antica o moderna viene consegnato alla libera
opzione teorica dello studioso, a una sua valutazione arbitraria, appunto all’idea o al concetto che egli professa dell’estetica; vale a dire a
una scelta la quale, anticipata all’accertamento dell’ordine dei fatti che
hanno storicamente determinato l’estetica come sapere, diventa essa
stessa misura della loro determinazione storiografica. Cosa infatti può
sorreggere questa elezione discrezionale? Solo, come dichiara coerentemente Croce, “il nostro punto di vista” o “il nostro concetto” – altra
riformulazione degna di attenzione, nella storia ancora non scritta della
critica testuale dell’Estetica. E poiché l’opinione crociana è che “l’Estetica sia la scienza” o “sia scienza dell’attività espressiva”, conseguentemente essa non sorge “se non quando vien definita scientificamente” o
“viene determinata scientificamente” o “determinata in modo proprio”
la natura di tale attività. Col che la controversia se l’estetica sia scienza
antica o moderna si chiude, certo, linearmente. Essendo, questa volta
sulla base dei fatti, inoppugnabile che il sapere estetico cominci a configurarsi secondo le conformazioni prescritte dal punto di vista crociano
solo nel moderno, intorno al Settecento, è irrecusabile mettersi, insieme a Croce, “nella banda di coloro che ne sostengono recisamente la
modernità”, e riconoscere, “fuori di questo punto di vista” o “fuori di
questo concetto”, fuori (cioè: prima, durante e dopo) di questa modernità veritativa dell’estetica, solo “deviazioni ed errori”. Sul piano del
rigore argomentativo, tale prospettazione non appare inficiabile.
A Croce si potrebbe semmai muovere l’appunto, parlando di estetica come scienza moderna, di non specificare il carattere riconosciuto,
di norma, precipuo all’estetica moderna, ossia l’essere scienza filosofica
“autonoma”. Ma Croce avrebbe giudicato ridondante tale petizione, in
quanto il carattere di autonomia è coessenziale alla stessa attribuzione
all’estetica del rango di scienza, mentre è costituzionale la sua definizione in termini di “scienza dell’attività espressiva”. Sarebbe quindi
critica più pertinente, in quanto interna all’impostazione crociana,
quella di osservare che neanche l’estetica moderna, post-settecentesca,
potrebbe ascriversi in blocco all’insegna della teoria dell’espressione:
non lo ritiene neppure Croce. La scienza estetica, dunque, in quanto
“scienza dell’espressione”, piuttosto che moderna sarebbe propriamente un fenomeno contemporaneo. A Croce, naturalmente. Ma Croce
non avrebbe difficoltà ad accogliere come suo, tale rilievo, e avrebbe
buon gioco nel dimostrarne la paternità, rinviando alla chiusa della
107
sua trattazione dove – lo si è visto nel capitolo precedente – opportunamente precisava: «la scienza estetica non è più da scoprire; ma
[…] essa è ancora ai suoi inizii» 4. La nascita dell’estetica, in senso
forte e pieno, considerata non come oscuro inizio ontogenetico bensì
acquisizione di consapevolezza speculativa, di formulazione di modelli
analitici adeguati alla tematizzazione di piani disciplinari pertinenti,
non è dunque evento antico o moderno, ma sarebbe un episodio contemporaneo a Croce, nel senso che sostanzialmente coincide con, e
si risolve nella comparsa dell’estetica crociana. Conclusione estrema
e provocatoria, ma ineccepibile. A condizione, naturalmente, che il
significato complessivo dell’estetica sia riducibile alla soglia tematica,
e dunque strettamente identificato con quello di “scienza dell’attività
espressiva”, crocianamente intesa. A questa condizione – fair-play a
parte – acquista dignità conoscitiva anche la “Storia” crociana, storia
rigorosa dell’estetica in quanto storia lineare della teoria dell’attività
espressiva. E pertanto necessitata a costituirsi essenzialmente come
storia negativa, scontando cioè il proprio rigore epistemico nel contatto empirico con la tradizione culturale dell’estetica, ascientifica o
prescientifica, ribelle e finanche anarchica nel gioco della sua sedimentazione storica. Ecco allora che la “Storia” crociana non può non divenire racconto di una gestazione lenta e travagliata, talvolta addirittura
estrauterina, del principio euristico dell’espressione; periegesi solitaria
votata all’attenta ascultazione dell’affiorare delle prime tracce dei suoi
legittimi fermenti vitali, commossa scoperta dei suoi primi “barlumi”,
precorrenti l’avvento crociano, frammezzo a un “cimitero” epistemico,
costellato di “deviazione ed errori”.
E però le conclusioni a cui conducono questo modello, e in verità
alcuni passaggi costitutivi del suo stesso processo argomentativo – come
già si era visto nella loro traduzione operativa, in termini storiografici
– innescano numerose dissonanze cognitive. Lo stesso Croce, come abbiamo visto, riconosceva nella “Storia” un’«aberrazione prospettica». In
realtà un paradigma siffatto non solo deprime l’istanza conoscitiva che
si definisce in termini storiografici fino a svuotarla di rappresentatività,
ma al limite vanifica il significato della medesima realtà storica. In questa posizione crociana del 1902 non è tanto che la storia sia mossa da
un interesse conoscitivo in quanto contemporaneo, quanto invece che la
storia dell’estetica, stricto sensu, si riduce a essere sostanzialmente solo
spiegazione del presente, ossia giustificazione genetica dell’asse teorico
venuto alla luce con la speculazione crociana. In altre parole, la storia
dell’estetica, prosciugata dalla nascita della dottrina crociana dell’espressione, si contrae in un segmento molto tenue e di ridottissime latitudini
spazio-temporali, tracciato in uno sfondo opaco o neutro o vuoto, una
sorta di non-luogo privo di pertinenza disciplinare storiograficamente
accertabile. Croce, come vedremo, tematizzerà questa condizione ricorrendo alla nozione di “preistoria”.
108
Piuttosto, essendo ineffettuale contrapporre “punto di vista” a
“punto di vista”, è proprio, in qualche modo, sul piano dei “fatti” che
bisogna verificare la congruità del paradigma crociano. Non sicuramente
coltivando l’ingenua convinzione che una realtà paradigmatica sia meccanicamente costituita dall’aggregazione di fatti materiali, in quanto i
fatti materiali diventano propriamente realtà storiografica solo a condizione di tramutarsi in fatti cognitivi, grazie all’organizzazione loro
assicurata da un paradigma storiografico. Ma, a sua volta, il paradigma
storiografico non può sottrarsi al vaglio dei fatti, al controllo cioè della
sua capacità di potenziare, arricchendola e approfondendola, la lettura
del reale consegnato nella storia.
Prima di proseguire in questa indagine, incentrata sul tema della
“nascita dell’estetica” che giudichiamo assolutamente cardinale, anzi un
po’ il filo rosso del paradigma della storia dell’estetica, dobbiamo però
riconoscere di aver trascurato alcuni elementi non secondari, riguardo
ai criteri storiografici enunciati da Croce nell’incipit della “Storia”, da
cui abbiamo preso le mosse. Di essi in realtà non potremo condurre
un approfondimento adeguato: vuoi per limiti di spazio, vuoi perché
si collocano in ambiti sensibilmente emendati in seguito da Croce,
vuoi perché impegnano questioni eccedenti, non solo il nostro tema
specifico di ricerca, ma il complesso problematico della storiografia
estetica. Nondimeno, pur a titolo di rapida notazione inventariale, è
bene acquistarne profitto.
A supporto dei postulati metodologici espressi ad apertura della “Storia”, in nota Croce rimanda a un paragrafo del capitolo xvii
della “Teoria”, intitolato “Il criterio del progresso e la storia” 5. È un
paragrafo molto rappresentativo della teoria storiografica che informa
la “Storia”, e che dunque conviene tenere presente anche nella nostra
disamina.
Croce sostiene che ogni configurazione di storia umana si fonda
sul concetto di “progresso”, inteso non come legge metafisica e metastorica, che con forza irresistibile guiderebbe gli esseri umani verso
sconosciuti destini, ma il concetto stesso dell’attività umana, che agisce sulla materia fornitale dalla natura sottomettendola ai suoi scopi.
«Questo concetto del progresso […] è il punto di vista dello storico
dell’umanità. Uno storico, che non sia semplice raccoglitore di fatti
disparati, semplice ricercatore o semplice cronista, non può mettere
insieme la più piccola narrazione di fatti umani, se non ha un punto
di vista determinato, ossia una sua idea del modo in cui doveva risolversi il problema umano di cui fa la storia» 6. Questo indispensabile
“punto di vista” costituisce l’«appercezione» che rende possibile allo
storico di ritagliare nel caos dei fatti bruti una rappresentazione determinata. Così «Lo storico di un movimento sociale deve conoscere il
fine al quale quel movimento si riferisce: lo storico di una nazione ne
109
descriverà i progressi e i regressi rispetto agli ideali della civiltà umana:
lo storico di una scienza i progressi e i regressi di questa rispetto alla
convinzione ch’egli si è fatta della verità di quella scienza» 7. Croce
tiene a rimarcare «la necessità e l’immancabilità di questo criterio subiettivo», ineliminabile da ogni narrazione storica, e precisa che esso
non mortifica la correttezza filologica, l’adesione fedele al documento
storiografico; anzi tale criterio «si concilia con la massima obiettività ed
imparzialità e scrupolosità nella riferenza dei dati di fatto» 8. E ha buon
gioco nell’osservare che ogni storico degno di questo nome, in ogni
tempo e in ogni luogo, proprio in ragione del suo valore professionale, ha sempre condotto la sua trattazione secondo un proprio punto
di vista. La storia è sempre partigiana, nel senso che non esiste uno
storico “puro”, senza attributi, privo di proprie convinzioni; altrimenti
«lo storico dovrebbe diventare un eunuco, politico o scientifico; e la
storia non è mestiere da eunuchi» 9.
A questa necessità strutturale del lavoro storiografico, di costruire lo
sviluppo delle azioni umane secondo un proprio punto di vista definito
da una personale scala di progresso incrementale, partecipa pienamente
anche la storiografia filosofica. Come vi sono storici liberali e reazionari, razionalisti e cattolici, così vi sono storici metafisici, empiristi, scettici, idealisti, spiritualisti. Anche tra «gli storici della filosofia, dall’Hegel
che pel primo la sollevò a grande altezza, al Ritter, al Zeller, al Cousin,
al Lewes, al nostro Spaventa, quale di essi non ha avuto il suo criterio
di progresso?» 10. Croce non trascura di ricordare la storia dell’estetica.
Troviamo anzi qui, teorizzata come criterio metodologico, la spiegazione dell’atteggiamento di critica storiografica, espresso da Croce nei
confronti dei suoi predecessori, che ci aveva colpito in precedenza. Si
ricorderà: Croce, nell’Appendice della “Storia”, critica Zimmermann,
Schasler, Menéndez Pelayo e Bosanquet unicamente perché dissente,
giudicandolo erroneo o inadeguato, dal “punto di vista” da loro propugnato 11. «Nella stessa storia dell’estetica, vi è forse una sola opera
di qualche valore che non sia fatta dal punto di vista di questa o quella
estetica metafisica (hegeliana o herbartiana), o da un punto di vista sensualistico, o da un punto di vista eclettico?» 12. È una presa d’atto della
quale Croce non si sogna di negare, in linea di principio, la legittimità.
Il criterio soggettivo, che coincide col punto di vista dell’autore, cioè
il concetto di progresso da lui perseguito, è infatti la condizione formale anche dello storico dell’estetica, condizione inevitabile in quanto
intrinseca all’attività storiografica medesima. Solo a partire da questo
riconoscimento si potrà elaborare una critica storiografica, come appunto quella mossa da Croce ai suoi predecessori, ma informata alla
ragione che, non potendosi sfuggire dal criterio soggettivo, il meglio
che si possa fare è «di procurarsene uno buono al possibile. E a questo ciascuno tende, con tutte le sue forze, allorché forma lentamente e
seriamente le proprie convinzioni» 13. Si deve allora concludere che il
110
criterio “buono al possibile”, per fare storia dell’estetica, non è quello
dei predecessori di Croce, ma che da lui possono essere criticati perché
le loro “convinzioni” non contemplano una storia dell’estetica come
scienza dell’attività espressiva, siccome propugna la teoria crociana!
È il caso di sottolineare l’importanza rivestita da queste pagine crociane. Immediata per il nostro studio, anzitutto, perché vi troviamo
esplicitamente teorizzato il compito dello storico della scienza (e l’estetica, badiamo, per Croce a questa data, è ancora una “scienza”) nel
professare una propria convinzione di “verità scientifica”, un proprio
telos veritativo, rispetto al quale graduare storiograficamente il “progresso” incrementale di una scienza e stigmatizzarne le manifestazioni
giudicate di “regresso”. Già sappiamo che è il criterio “recisamente”
applicato e sviluppato da Croce nella “Storia”, esaltando i pochi vertici
giudicati progressivi (Vico, Schleiermacher, De Sanctis), prendendo in
varia modalità atto delle “deviazioni”, e perseguendo con durezza gli
“errori”. Ma su questo, e su quanto discende da quella concezione paleocrociana di “scienza”, diremo fra poco.
Vorrei invece ora segnalare (molto rapidamente: d’accordo) l’interesse complessivo rivestito da queste pagine crociane. Sono un testo
che mi risulta trascurato dagli studiosi della teoria storiografica di Croce, laddove esso si colloca in un momento di passaggio molto delicato
del suo iter. Questo inciso di metodologia storiografica cade infatti
a ridosso delle sue «giovanili scritture filosofiche», ma è già molto
avanti all’incoativa memoria sulla Storia (lì, per dare un solo esempio,
parafrasando una famosa affermazione di Ranke, «La storia ha un solo
ufficio: narrare fatti; e quando si dice narrare fatti, s’intende altresì
che i fatti debbono essere esattamente raccolti e mostrati quali sono
realmente accaduti, ossia ricondotti alle loro cause […]» 14), e insieme
ancora al di qua del decisivo assestamento conseguito qualche anno
dopo nei Lineamenti e nella grande Logica. Sono proposizioni ancora
pre-hegeliane, nel senso di un Croce che ancora conosce poco Hegel,
e mediato da autori come Spaventa, Hartmann e Marx, e che non
si è cimentato nel diretto confronto aperto nel 1905 15. È un Croce
che si muove ancora alquanto entro il quadro mentale di fine secolo, partecipe delle forme di pensiero segnate dall’Historismus e dalla
stessa cultura positivistica contro la quale aveva profuso i suoi strali
polemici. Vuoi per l’attivazione della nozione di progresso, in quell’ottica di fondo comtiana che costituì «la fede media dell’intellettualità
europea» del secondo Ottocento 16, ma qui fecondata dall’incontro
col materialismo storico e l’apporto di Labriola 17; e concezione della quale Croce rappresentò sì, anche nel nuovo secolo, il più tenace
assertore, ma nell’orbita di ulteriori istanze umanistiche e con ben diverse motivazioni speculative 18. Vuoi per l’idea del radicamento dello
storico nella soggettività giudicante, contrapposta alla “oggettività da
eunuchi”, che costituisce un preciso remake di Droysen 19, ma anche la
111
base sulla quale evolverà il Croce maturo; anzi il Croce che si appresta
poco dopo, nel 1903, a tenere al “Congresso internazionale di scienze
storiche” di Roma la famosa «noterella sulla soggettività e oggettività
nella storiografia» 20.
Un punto, semmai, potrebbe essere motivo di delusione non trovare chiarito nel giro di questo supporto metodologico. Si tratta di
un argomento importante e delicato che vale la pena di considerare.
Croce, nell’Avvertenza della quinta edizione dell’Estetica (1922), motivò l’«aberrazione prospettica» della “Storia” anche col fatto di essere
stata «condotta sullo schema consuetudinario che ancor oggi prevale
nella storiografia filosofica» 21. Nel 1901, quando finisce di stendere la
sua opera, ancora al di qua delle discussioni, le polemiche, i continui
approfondimenti che gli procureranno nei decenni successivi il tema
della storiografia filosofica, a cosa è riferibile lo “schema consuetudinario” adottato per la “Storia“? Il passo che andiamo considerando non
ci dà nessun lume, mentre un chiarimento su questo punto sarebbe di
non trascurabile utilità.
In verità sappiamo che il problema della storiografia filosofica, il
problema cioè della storia della filosofia e del tipo di relazioni che essa
debba intrattenere con la filosofia, che è uno degli argomenti più celebri del Croce della maturità e della vecchiaia, è entrato nell’orizzonte
degli interessi crociani negli ultimi anni dell’Ottocento. Ne troviamo
attestazione nel carteggio epistolare col Gentile, che lo introdusse a
tema di un contrastato dibattito 22. Ma fu appena l’inizio della messa
a fuoco di una questione che avrebbe solo alcuni anni dopo acquistato
grande e divergente rilevanza, sia in Croce che in Gentile, ma a quell’epoca ancora non compresa nel piano di lavoro attuale, per entrambi
impegnato verso altre direzioni; e comunque ancora lontanissima da
una traduzione operativa in termini di schemi storiografici. In quegli
anni, l’attenzione di Croce è rivolta, dapprima, al problema della natura della storia, e subito dopo, in conseguenza degli impegnativi studi
intrapresi sul materialismo storico, alla metodologia della storia delle
scienze. In mancanza di documenti diretti, può allora forse acquistare
rilevanza una citazione che fa Croce nell’Estetica, molto curiosa.
Proprio all’inizio della “Storia”, subito dopo l’incipit che abbiamo
riportato prima, passando a sviluppare storiograficamente il suo criterio
per “deviazioni ed errori”, egli dichiara di adottare una tassonomia
«seguendo la distinzione e la dicitura di cui in un caso analogo fece uso
un sommo filosofo italiano» 23. E cita in nota Rosmini e il suo Nuovo
saggio sull’origine delle idee. Quivi, effettivamente, Rosmini procede a
una classificazione delle teorie della conoscenza distinguendole «per
difetto» e «per eccesso», come fece appunto Croce 24. Ma in un’opera
avarissima di citazioni a pie’ di pagina, com’è l’Estetica, questa solitaria
menzione suona alquanto anomala; sembra esorbitare l’occasione diretta
e indiziare ulteriori contiguità. Certo, Rosmini è un autore sicuramente
112
presente a Croce in quegli anni, per la precisa ragione che a Rosmini e
Gioberti è dedicato il primo lavoro filosofico di Gentile (fu la sua tesi
di laurea), recensito molto favorevolmente da Croce e divenuto argomento dei loro scambi epistolari. Ma l’accostamento di Croce a Rosmini
è molto accattivante, se si pone mente al fatto che Rosmini, come ha
chiarito egli stesso a più riprese, è anche colui «che intende per opera
storica in filosofia quella che pone in raffronto i sistemi filosofici tra di
loro riguardo alla verità cui tutti hanno guardato e che si serve della
classificazione proprio per stabilire i diversi gradi di verità» 25. Ciò è
molto prossimo al modo di connettere “Storia” e “Teoria” nell’Estetica. E non si può non pensare alla “Storia” crociana, a cospetto della
constatazione che anche gli scritti di Rosmini che «si qualificano come
storie, e in particolare la Storia comparativa e critica intorno al principio
della morale ed il Saggio storico-critico sulle categorie […] sono lavori a
carattere teoretico […] preoccupati anzitutto di raccogliere ed ordinare
dati e riferimenti secondo una maggiore o minore vicinanza all’idea di
verità professata dall’autore» 26. In assenza di documenti diretti, non mi
sento, naturalmente, di affermare che sia stata la storiografia filosofica
rosminiana fonte metodologica della “Storia” crociana e identificare in
essa lo “schema consuetudinario” al quale alludeva Croce 27. Ma tale
accostamento, di Croce a Rosmini, in quanto autorizzato da una dichiarazione esplicita dello stesso Croce, in termini di analogia su un delicato criterio di strumentazione storiografica, è un altro motivo utile a
illuminare, foss’anche solo di riflesso, i caratteri specifici della “Storia”.
Prima di ritornare alla questione della “nascita dell’estetica”, e anzi
proprio per ritornarvici in modo lineare e stringente, c’è una seconda
fonte crociana, espressamente dedicata alla metodologia della “Storia”,
che è indispensabile considerare. È una breve nota altamente significativa e poco frequentata, o addirittura poco conosciuta. Non nel testo
né nelle note al testo, ma nella sezione dell’Appendice bibliografica
riservata alla parte storica, Croce scrive: «Sulla metodica della storia
dell’Estetica si vedano le osservazioni accennate in Teoria, pp. 134137 – cosa che abbiamo appena fatto –, e B. Croce, Di alcune leggi
di storia delle scienze, in Rivista di filosofia di Bologna, vol. iv, aprile
1901» 28. Questa autocitazione è stata cassata, a partire dalla terza edizione dell’Estetica 29, e ciò ne ha precluso la notizia alla gran parte dei
lettori. Eppure la rilevanza di questo testo è subito acclarata dall’attestazione crociana d’apertura: «Occupato nello scrivere un sommario di
storia dell’Estetica, e nell’esaminare le diverse e spesso opposte concezioni degli autori della materia (quali lo Zimmermann, lo Schasler, lo
Hartmann, Ed. Müller, il Bosanquet, ed altri), per risolvere i non facili
problemi cui quella storia dà luogo, mi è accaduto di dover ripensare
ad alcune leggi che reggono la storia delle scienze» 30.
Come espressamente manifestato dall’autore, questa nota metodo113
logica non nasce dunque a diretta esplicitazione dei «non facili problemi» ai quali dà luogo la storia dell’estetica, a elaborare la quale,
come abbiamo visto, in quei mesi Croce era impegnato; nasce invece
dall’intento “economico” di estendere taluni approfondimenti metateorici, fissati nel configurare i principî determinativi della “Storia”, sul
tavolo delle accese discussioni intorno al materialismo storico e l’economia pura, delle quali Croce era in quegli anni vivamente partecipe 31.
Croce parla genericamente di “alcune leggi che reggono la storia delle
scienze”, ma quale sia il referente primario delle sue riflessioni lo si
evince dal fatto che l’unico coinvolgimento attuale, unica lunga nota
del breve testo, è rivolto a due articoli metodologici di storia delle dottrine economiche 32. E però, malgrado questa finalità strumentale, o
forse proprio in ragione di questo uso indiretto, troviamo qui espresso
con la massima chiarezza, in assoluta souplesse, il paradigma crociano
della storia dell’estetica.
La riflessione crociana è organizzata analiticamente in quattro proposizioni, ciascuna corredata da un commento esplicativo e accompagnata da una esemplificazione metodologica mutuata dalla problematica
della storia dell’estetica. Le proposizioni recitano: «i – La storia di una
scienza non può farsi se non muovendo da un determinato convincimento
teorico intorno ad essa scienza. […] ii – La storia di una scienza è da
distinguere dalla storia delle verità isolate riferibili ad essa scienza. […]
iii – Alla storia del principio scientifico ed a quella delle verità isolate
precede la preistoria delle une e delle altre, che è caratterizzata dal farsi
vive delle contraddizioni e dal porsi dei problemi. […] iv – Allorché si
parla di principî scientifici o di singole verità s’intende sempre di principî
e verità riflesse e conscie» 33. Delle quattro, la prima proposizione è in
realtà quella fondamentale e pone le condizioni costitutive dell’intero
paradigma, le altre sono corollarie. Per apprezzarne appieno il valore
e il significato, è opportuno chiarire preventivamente i suoi termini
nucleari: “scienza” e “storia della scienza”.
Come si sa, il giovane Croce intendeva genericamente per «scienza quella disciplina che si occupa di principi e di idee. […] In certa
misura egli indica col termine “scienza” ciò che chiamerà negli anni
successivi “filosofia”» 34. Al suo esordio filosofico, nella memoria sulla
Storia del 1893, si registra la prima messa a fuoco del tema: «Chi voglia dare alla funzione scientifica significato preciso, si accorderà con
coloro che distinguono la scienza dalla conoscenza in genere, dicendo
che la prima cerca sempre il generale e lavora per concetti. Dove non
è formazione di concetti, non è scienza. La filosofia stessa, somma tra
le scienze – se pur le scienze hanno tra loro gerarchia – non è, secondo
la bella definizione herbartiana, se non l’elaborazione dei concetti che
le scienze particolari lasciano confusi e tra loro contraddittorî» 35. Approfondimenti significativi maturano ben presto, in conseguenza delle
imprese teoriche intraprese da Croce. Rispondendo a Bernheim, che gli
114
aveva rimproverato di negare il carattere scientifico della storia perché
muoveva da un concetto troppo stretto di scienza e troppo largo di
arte, Croce oppose «(per dirla alla tedesca) che ogni Wissen (sapere)
non è Wissenschaft (scienza). Ogni sapere non è sapere scientifico. […]
la scienza consiste nel cercar la natura delle cose, ossia nell’elaborarne
i concetti» 36. Ma la conclusione crociana esigeva un chiarimento del
Wissen che appartiene alla storia come arte, e dunque la distinzione
interna fra storia e arte (e della inclusione di questa nel «dominio del
conoscere»), e della stessa Wissenschaft, ossia di affrontare il problema
generale della classificazione dello scibile.
A ciò Croce dedica una importantissima nota specifica nel 1895. Egli
comincia col far sua la famosa distinzione delle scienze in tre gruppi,
avanzata da Dilthey nell’Einleitung: «scienze teoretiche o di concetti»,
che classificano il mondo dell’esperienza riducendo le cose ai loro concetti, come la metafisica, le matematiche pure o la zoologia; le «scienze
storiche o di fatti», che descrivono l’evoluzione delle cose nel tempo,
come la geologia o la storia; e infine le «scienze pratiche o di valori»,
che illuminano gli ideali umani e le regole da seguire per raggiungere
fini determinati, come l’etica, l’estetica e la medicina. E però giudicando, da un lato, che esprimere giudizi di valore non è atto scientifico,
perché la scienza non valuta né agisce ma conosce, e, dall’altro, che
anche le scienze del terzo gruppo non compiono atti mentali diversi
dalle prime, ma sono ugualmente «scienze di concetti, o di relazioni
di concetti tra loro», Croce riformula profondamente la classificazione
diltheyana. Distingue così solo «due grandi categorie di conoscenze, le
scienze di concetti e le scienze descrittive, […] e tra le prime sono […]
la scienza dei principî della realtà, le matematiche, la meccanica, la fisica,
la chimica, le cosiddette scienze naturali, […] la logica, l’etica, l’estetica
[…]; e tra le seconde, la descrizione e la storia del globus naturalis non
meno che del globus intellectualis» 37. Solo al primo gruppo spetta a
rigore il nome e «la dignità» di scienza; o altrimenti, per mantenere una
terminologia uniforme, è il caso di distinguere fra «scienze proprie» e
«scienze improprie». Distinzione, com’è noto, che diverrà foriera, dieci
anni dopo, della qualificazione delle scienze naturali come «edifizii di
pseudoconcetti» 38, e della loro netta divaricazione dalla filosofia considerata «il solo pensiero» 39, comportando un profondo riesame della
stessa problematica della classificazione delle scienze 40.
Il sapere filosofico s’identifica dunque col sapere scientifico in senso
stretto, cioè scienza di concetti astratti e universali, rivolta a indagare
la natura e la genesi delle cose e le loro relazioni noetiche. Identificandosi con la scienza, la filosofia perde tuttavia il suo carattere unitario,
«il posto solitario» che prima assumeva nel piano dello scibile. Era
il luogo dell’antica metafisica, depositaria di una suprema legge della
realtà che «si confonde con la fede religiosa, e si ribella affatto ai metodi del conoscere critico» 41. «Può esistere il filosofare, per indicare un
115
grado alto di elaborazione scientifica, ma non la filosofia come scienza» 42; nel senso che «la filosofia è ora un gruppo di scienze particolari;
logica, etica, estetica, psicologia, e via dicendo» 43.
Pienamente riconosciuta l’estetica come scienza filosofica, qual è
il «fatto primo […], l’elemento irriducibile» 44, che costituendo il suo
specifico oggetto epistemico ne garantisce l’autonomia e ne fa una
scienza indipendente? In quel lasso di tempo in cui affina i suoi strumenti analitici nei saggi sul marxismo, e nello stesso anno 1898 in cui
informa Gentile del suo proposito di scrivere un trattato di estetica,
Croce presenta una memoria dedicata a De Sanctis, nella scia del cui
insegnamento viene fissato (credo per prima volta) il profilo crociano
dell’estetica come scienza. Postosi alla «ricerca del principio dei fatti
estetici», procedendo come «il fisico o il chimico che scompone e analizza» e raggiunge elementi «che pone come irriducibili», egli individua
«un principio indipendente […]. Il principio della espressione o della
forma dà al mondo estetico la sua autonomia» 45. Questa fondamentale
“scoperta” viene ribadita e radicalizzata nelle Tesi: «per noi l’Estetica o è
scienza dell’Espressione, o non trova posto in nessun luogo. […] una materia che sia propria dell’Estetica, fuori dell’Espressione, a nostro parere,
non esiste» 46. Identificazione che passerà a costituire la cifra peculiare
dell’estetica crociana: scienza filosofica in quanto scienza dell’espressione.
Ora cosa identifica la storia della scienza, e dunque la storia della
filosofia, o meglio la storia dell’estetica in quanto scienza filosofica?
Nell’arco cronologico impegnato dal nostro tema, si assiste in Croce
a un assestamento problematico di grande momento e conseguenze.
Particolarmente significativi, anche sotto questo riguardo, sono i saggi
da lui dedicati al materialismo storico, disseminati di spunti e considerazioni metodologiche rilevanti. Già nel primo di essi, recensendo le Dilucidazioni preliminari di Labriola, Croce riconosce che «la storia della
genesi della verità scientifica viene anch’essa rischiarata dal materialismo
storico, che tende a mostrare l’efficacia delle condizioni di fatto sulle
scoperte e sullo svolgimento stesso della mente umana» 47. Una prima
asserzione molto impegnativa, che anche se tiene a salvaguardare la
purezza concettuale del sapere scientifico dal tarlo dello scetticismo 48,
rende pieno riconoscimento del radicamento storico della stessa verità
«extratemporale» della scienza. Né meno rilevanti sono le osservazioni
contenute nella martellante demolizione delle tesi marxistiche di Loria,
che seguono a ruota. Basterà ricordare la netta distinzione di metodo
fra “fatti” e “teorie”, e i termini della loro interazione in sede storiografica. Croce comincia a rimproverare a Loria «la curiosa incapacità
[…] a porre e mantenere la distinzione tra il fatto e l’idea, o meglio, tra
il fatto particolare e il concetto del fatto: operazione elementare senza
la quale ogni disputa scientifica è impossibile» 49; affonda il colpo rilevando che mentre è inefficace invocare i fatti «come prova delle teorie,
perché i meri fatti non provano e hanno bisogno di essere spiegati»,
116
la conoscenza storica deve presentare e chiarire i fatti «secondo il loro
ordine reale», e non «disposti secondo categorie prestabilite, e spesso
[…] genericamente e indeterminatamente enunciati» 50; e lo liquida con
la bolla di avere architettato «un poco legittimo miscuglio di analisi
astratta e di dati storici» 51. Una severa, ma limpida, lezione di metodo.
Questa così avvertita sensibilità, per le diversità che intercorrono
fra dimensione teorica e dimensione storica, che studia appunto di
comporle in un quadro di riconoscimento della diversa legittimità che
le informa, tocca la sua massima decantazione a cospetto dell’annoso
problema dell’interpretazione dei testi di Marx. Croce si chiede: «Conviene dunque intendere alla lettera le sue parole, correndo il rischio di
dar loro significato diverso da quello che avevano nell’intimo pensiero
dello scrittore? O conviene interpretarle con larghezza, con l’altro rischio di ottenere un significato teoricamente forse più accettabile, ma
storicamente meno genuino?» 52. Pur ristretto al piano della testualità,
come si vede qui si tocca il cuore della questione delle due diverse
dimensioni di significato, elaborate da storia e teoria. Croce conclude
con ineccepibile acume ermeneutico: «l’interprete deve procedere con
cautela: fare il suo lavoro caso per caso, libro per libro, proposizione
per proposizione, mettendo bensì i varî testi in relazione l’uno con l’altro, ma tenendo conto dei varî tempi, delle circostanze di fatto, delle
impressioni fuggevoli, degli ambiti mentali e letterarî; e deve rassegnarsi a riconoscere le incertezze e le incompiutezze, dove sono le une e
le altre, resistendo alla tentazione di accertare e compiere di proprio
arbitrio» 53. Queste precisazioni sono tanto più rilevanti in quanto si
collocano nel contesto di alcuni dubbi manifestatigli da Gentile, sia
sulla lettura data del pensiero di Marx ed Engels sia più in generale
sul metodo stesso dell’interpretazione crociana. Croce si spinge ad ammettere: «Riconosco volentieri che, nei miei due scritti precedenti, non
è chiaramente indicato il punto preciso in cui finisce la interpretazione
dei testi e comincia la parte propriamente teorica; la quale esposizione
teorica solo poi per congettura, e nel senso sopraindicato, si può dire
conforme al pensiero intimo del Marx e dell’Engels» 54. Ammissione che propizia un’apertura decisamente adeguata alla problematicità
dell’attività storiografica e a una sua corretta correlazione ai modelli
teorici: «Tutte le leggi scientifiche sono leggi astratte; e fra l’astratto e
il concreto non c’è ponte di passaggio, appunto perché l’astratto non
è una realtà, ma uno schema del pensiero, un nostro modo di pensare,
direi quasi, abbreviato. […] Se poi dalle leggi astratte e dai concetti
passiamo all’osservazione della realtà storica, noi troviamo, di certo,
i punti di congiungimento dei nostri ideali con le cose; ma entriamo
anche in quelle previsioni e congetture, nelle quali resta sempre non
eliminabile […] la varietà delle opinioni e delle tendenze» 55.
Non è il caso di spingere più a fondo lo scrutinio di questi iniziali
orientamenti crociani intorno alla storia della scienza, e il suo nesso
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con la teoria, che abbiamo voluto richiamare proprio per la trasparente difformità con le tesi crociane successive e più conosciute. Ci basti
aggiungere che però subito dopo, già nel 1899, Croce modifica completamente il suo approccio. Passa a chiedersi: «Che cosa significa domandarsi quale sia il pensiero di uno scrittore? Uno scrittore ha creduto di
pensare tutto ciò che ha scritto e che dicono le sue parole: osservazioni,
ragionamenti, ghiribizzi sentimentali e fantasticherie. Ma quando noi
diciamo: “Il vero pensiero di Aristotele fu...”, o “Il vero pensiero del
Kant fu...”, facciamo una scelta, oltrepassando la materialità della parola: abbandoniamo una parte come scoria, e cerchiamo, non ciò che
lo scrittore ha creduto di pensare, ma ciò che ha realmente pensato
per la forza delle premesse da cui muoveva. […] Questa distinzione tra
pensiero reale ed elementi estranei è nota a tutti coloro che indagano
la storia delle scienze, e non potrebbe scriversi storia di scienza senza
valersene» 56. Un mezzo terremoto di prospettiva metodologica.
L’anno prima Gentile aveva pubblicato la sua monografia dedicata a
Rosmini e Gioberti nella quale, oltre a dare una precoce enunciazione
della famosa dottrina del “circolo” fra storia e filosofia, aveva distinto
una “storia speculativa” ed una “storia erudita” della filosofia. Croce
manifestò subito il suo dissenso, sia in privato che in pubblico. Recensendo il volume scrisse: «A noi pare che si farebbe bene a togliere
questa opposizione o distinzione (per alcuni è opposizione, per altri
distinzione) di una storia speculativa e di una storia puramente erudita,
giacché di storie, a nostro parere, non vi ha che un sol genere, intendiamo un sol genere buono, che non è né solo speculativo né solo erudito.
E ciò che il G. chiama storia speculativa della filosofia saremmo disposti a chiamarla la vera e propria storia della filosofia, ossia “storia di
ciò che è lotta e progresso intorno ai veri e proprî problemi filosofici”.
Il resto, che concerne la psicologia degli autori e l’involucro politico
o religioso, letterario o morale, della loro attività mentale, appartiene
piuttosto alla biografia ed alla storia sociale, politica, letteraria, ecc.,
che non alla storia della filosofia in quanto tale» 57.
All’ultimo scorcio del secolo, allorché è impegnato a elaborare il suo
“Trattato di Estetica”, entro cui si va configurando una particolarissima
cornice paradigmatica della storia dell’estetica, Croce ha quindi maturato il convincimento che vi sia “un sol genere buono” di storia della
filosofia. E anche se non ama quella dizione di “storia speculativa”, di
ascendenza hegeliana, alla quale il futuro avrebbe riservato successi e
polemiche, la storia dell’estetica come scienza filosofica dell’espressione viene da lui concepita, al meglio, come “storia di ciò che è lotta e
progresso intorno ai veri e proprî problemi filosofici”.
Appare dunque del tutto perspicuo il paradigma crociano, formulato
nel 1901, della storia dell’estetica. In quanto scienza, la sua storia non
può che condursi a partire da un determinato convincimento teorico che
118
si ha di essa, ed è dunque storia di questo convincimento, alla luce del
quale si definisce la verità e il progresso disciplinare. La storia di una
scienza è infatti essenzialmente, anzi unicamente, «storia d’idee», quindi
presuppone sempre, preventivamente, «la conoscenza della scienza, ch’è
poi la scienza senz’altro» 58. Ovviamente, essa è una storia concettuale,
ossia una storia del puro pensiero, giacché «consiste nella storia del
fondamento o principio particolare della scienza» 59. Dunque non può
essere neppure storia di «verità isolate riferibili ad essa scienza», proprio
perché queste possono essere scoperte prima, o dopo, o indipendentemente e senza collegamento con lo specifico principio epistemico che
la fonda come scienza filosofica autonoma; le “verità isolate” entrano
nell’orbita della scienza, acquistano cioè valenza propriamente scientifica,
solo quando «vengano non più semplicemente riconosciute, ma scientificamente dimostrate, come illazioni di quel principio» 60. Costituiscono
delle condizioni di possibilità che, nel suo progresso incrementale verso
il disvelamento del principio filosofico costituzionale, una scienza ha
«assorbite, togliendole appunto dalla condizione d’isolamento, che ne
faceva verità imperfette, imprecise ed empiriche» 61. Vieppiù costituisce
solo un’illusione psicologica, e dunque non posseggono rango scientifico,
proposizioni di “verità” isolate ma che non siano «riflesse e conscie»,
ossia verità che si ritiene potere trarre dai «fatti concreti, nei quali sarebbero “immanenti” le verità scientifiche. Bisogna considerare quasi
un bel giuoco di parole lo scambiar l’oggetto da spiegare con le teorie
della spiegazione» 62. Per Croce, in definitiva, per fare storia dell’estetica
è imprescindibile soddisfare la condizione pregiudiziale di avere un convincimento individualizzante il suo principio costituzionale, ossia sapere
«di che cosa si fa la storia». Dacché «lo storico senza convincimenti
proprî, che mal si chiama storico “obiettivo“, si costituisce da sé nella
poco invidiabile condizione dell’asinus portans mysteria dell’apologo.
Invece di riferir lui, relata refert» 63.
Questa netta impostazione crociana del paradigma storiografico
della storia dell’estetica merita subito alcune prime considerazioni.
Intanto il riconoscimento della sua rilevanza storica, sia intrinseca che
estrinseca. Questa prospettiva di “storia speculativa”, o come Croce
preferirà dire in futuro di “storia ideale”, caratterizza infatti intimamente la storiografia filosofica crociana; e, pur all’interno di quadri
teorici ulteriori, anche sensibilmente modificati, Croce ha tenuto a ribadirla lungo tutto l’arco della sua opera. Così essa è divenuta, se non
la sola, sicuramente una delle più influenti fonti che hanno alimentato,
nel Novecento, un costume di lavoro spesso poco attento, scarsamente
motivato, alle ragioni epistemiche della storiografica e al contributo che
essa può offrire alla ricerca filosofica. Fino al paradosso di non tematizzare la domanda del «perché mai nasca e s’imponga quel desiderio
del “capire” storico, che ha poi per “oggetto” proprio il “costruire”
teoretico dei filosofi del passato e del presente» 64.
119
Sicché, come andiamo sempre più chiarendo, attraverso l’esame del
paradigma della storia dell’estetica formalizzato da Croce nel 1901, la
“Storia” che lo esplicita e gli dà corpo storiografico, al di là di taluna
“aberrazione prospettica” pur riconosciuta dallo stesso Croce, agisce
strutture profonde della metodologia storiografica crociana, e, almeno
per quanto limitabile all’estetica, funziona come imprinting dell’attività
successiva. Se nel 1902 la critica di Croce ai suoi predecessori era motivata, all’interno della logica istitutiva della realtà storiografica in forza
di un qualche convincimento teorico, dal rifiuto del “punto di vista” da
loro professato, intorno a questo postulato si manifestò anche in futuro
una continua e inflessibile ortodossia di Croce verso le sue antiche posizioni. Due casi esemplari, in un’arco pluridecennale.
Nel 1904 Alfredo Rolla pubblicò una Storia dell’estetica italiana.
Questa opera costituiva di fatto, a parte le menzioni esplicite, anche
un significativo riconoscimento della nuova svolta storiografica impressa
dagli studi crociani intorno all’estetica italiana. Croce la recensì l’anno
dopo manifestando, insieme agli apprezzamenti d’ufficio, una malcelata
delusione. Non tanto per rilevi storiografici particolari, ma proprio per
l’«astensione teorica» ivi professata. Ribadisce: «Condizione fondamentale per una buona storia delle singole scienze filosofiche e della filosofia
in genere […] è che lo storico possegga in chiaro concetto teorico delle
questioni delle quali prende a esporre la storia» 65. Riconobbe già allora
che ciò era divenuto quasi il suo leit-motiv, una perorazione ricorrente;
ma non poteva trattenersi di elevare una protesta per l’«abbassato senso
filosofico» che la sua inosservanza attestava e le gravi conseguenze che
comportava in sede storiografica. Certo, alquanto ingenuamente Rolla
aveva tra l’altro lamentato «il guaio, che i limiti e l’oggetto di questa
scienza non sono per anco ben fissati» e confidava nell’accordo «di
tutte le persone competenti in materia» 66. Croce ha buon gioco dunque
nel professare stupore: «Come mai il possesso d’idee chiare e precise
potrebbe offendere l’imparzialità della storia? Si reca offesa alla storia
col cercar d’intenderla? E si può fare una storia senza intenderla?» 67.
Sono domande retoriche; ma sono anche domande aperte, che Croce
non ammetterà mai di soddisfare diversamente. Più avanti rimprovera
Rolla per «la credenza che lo storico possa trascurare il fondamento
teorico della sua indagine storica» 68. Ma non si sta riferendo al fondamento teorico dell’atto storiografico, bensì alla fondazione teorica della
disciplina, al cui interno è istituibile la conoscenza storiografica solo
come momento di decantazione autotelica. Rimane, il convincimento
teorico, la condizione fondamentale di un sapere annichilativo della
realtà storiografica come indagine conoscitiva autonoma.
Trentacinque anni dopo, recensendo «la pregevole» A History of
Aesthetics di Gilbert e Kuhn, Croce replicherà sostanzialmente la critica volta a Rolla. Infatti «la manchevolezza della metodologia» da loro
impiegata si rivela nel fatto che «alla conclusione della loro storia […]
120
essi si rifiutano a dire ciò che per loro conto pensano dell’arte e della
bellezza» 69. Ma il “rifiuto” dei due studiosi americani, che lamenta
Croce, in realtà ha, a differenza del caso di Rolla, un solido fondamento scientifico, informato a un diverso e più flessibile paradigma
disciplinare. Essi affermavano: «La lezione della storia è la storia stessa,
nel suo racconto di indagini, lotte, scoperte, sviamento e crescenza.
Questa lezione non è, e non può essere, univoca e chiara. La storia del
pensiero, decifrata a pieno, cioè letta al lume di un’ultima conoscenza, cesserebbe di essere storia» 70. Torneremo fra poco sulla rilevanza
di quest’ultima frase: “cesserebbe di essere storia”. E ricordiamo en
passant che lo stesso Croce – lo abbiamo riportato qualche pagina
prima – nel 1896, alle sue prime prove sul materialismo storico, aveva
affermato qualcosa di molto prossimo 71. Ora invece, in coerenza col
paradigma fissato nel 1901 che stiamo studiando, dichiara di accettare
l’ironica riformulazione «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in
historia», ma per contrapporre leibnizianamente «nisi intellectu ipse»,
sì da poter ribadire «che il concetto dell’arte e della bellezza è nella
mente che raccoglie tutta la storia di quel concetto al lume di sé stessa,
indagatrice e integratrice di quel concetto» 72.
Non sono solo, semplicemente, prospettive difformi, questa di Croce e di Gilbert e Kuhn; sono difformi in quanto pongono in gioco, in
modo perfettamente antitetico, un elemento di fondamentale incidenza
metodologica, che è appunto il riconoscimento di due “figure” epistemiche autonome che concorrono ad alimentare l’ideale scientifico della
ricerca estetica. Questione ben focalizzata dagli americani: «La storia
riguarda il ricercatore piuttosto che il possessore di verità. Come approccio alla verità, basta a sé stessa e insieme ammette un supplemento.
Altro è definire la bellezza, altro descrivere il processo di definirla. Ma
i due lavori servono allo stesso intento» 73. Ma è proprio questo il punto cruciale, la distinzione funzionale di storia e teoria, in cui si marca
una irrimediabile alterità, una incompatibilità col paradigma crociano
dell’estetica. Infatti, alla luce di questo, l’operare degli studiosi americani
«commette il grave errore di staccare l’“indagatore” dal “possessore”
della verità, foggiando la doppia inconcepibile personalità di un “indagatore”, che non possiede il vero, e di un “possessore”, che non lo
indaga, cioè non lo pensa. Il vero e compiuto storico e filosofo pensa
la storia al lume della sua nuova verità; dopo di che, rientra esso stesso
nella storia» 74.
Se non che si può ironizzare sulla distinzione fra “indagatore” e
“possessore”, e immaginare un possessore che non indaga e un indagatore che non possiede solo in virtù del convincimento che l’attività di
ricerca viva su di un piano monodimensionale, quello della pura teoria.
Ma a parte che una teoria non è mai “pura” (non nasce storicamente
“pura”, semmai lo diventa), il teorizzare è una modalità, sicuramente
perspicua, ma punto solitaria, del conoscere. Il conoscere, l’atto di
121
attribuzione di senso alla realtà, non si esaurisce nel teorizzare; né lo
stesso teorizzare è, per altro, concepibile in assenza di qualcosa, ateoretico (non ancora teorizzato), che diventa appunto teoria. Storia e teoria
sono funzioni strutturali del conoscere in quanto tale. Un possessore
che non indaga e un indagatore che non possiede sono fantocci polemici, caricature e non figure epistemiche. Non è, diremo crocianamente,
questione di fatto, e non è, diremo diversamente da Croce, questione di valutazione discrezionale. È istanza squisitamente metodologica
riconoscere un possesso teorico aperto che si nutre di una indagine
continua, e, corrispettivamente, una indagine storiografica aperta che
si nutre di un continuo rimpossessarsi teorico. Naturalmente, per fare
storia bisogna conoscere ciò di cui si parla; ma è ugualmente vera la
proposizione inversa, che si conosce ciò di cui si parla perché se ne
fa storia. Insomma, è illusorio porre una frattura fra storia e teoria, in
quanto la ricerca estetica vive e si sviluppa in forza di una continua
solidarietà fra queste due dimensioni nucleari della conoscenza. Sicché,
mentre è opportuno distinguere la diversa funzione conoscitiva a cui
esse assolvono, e riconoscere le conseguenti modalità di realizzazione
che a esse pertengono, è sterile comporle in una sorta di gara concorrenziale e non in vista di un esito al quale entrambe collaborano; ed è
poi pericoloso e improduttivo contrarle in una sola dimensione focomelica. Non è, da un punto di vista epistemico, una “doppia inconcepibile
personalità” proprio quella del “vero e compiuto storico e filosofo”? In
realtà, “pensare la storia al lume della sua nuova verità” può servire ad
arricchire, fortificare e, perché no?, gratificare il teorico del suo travaglio
speculativo; non serve invece a far storia disciplinare, una storia che
non si restringa a essere cronaca ideale della propria verità.
Tra le critiche che Croce muoveva a Rolla c’era anche quella che
la mancanza di criteri teorici ai quali informare la storia dell’estetica
impediva di darle «forma viva e drammatica, quale spetta al racconto
di un processo e di un progresso mentale» 75. Ma perché dovrebbe
spettare alla storia dell’estetica, in quanto “racconto di un processo
e di un progresso mentale”, “forma viva e drammatica”? È una domanda che merita approfondimento. Come merita considerazione il
già ricordato rilievo di Gilbert e Kuhn: «La storia del pensiero, decifrata a pieno, cioè letta al lume di un’ultima conoscenza, cesserebbe
di essere storia» 76. Due osservazioni disposte su differente versante,
ma che insistono sullo stesso, importante plesso problematico, che ora
cercheremo di evidenziare, ritornando al paradigma crociano della storia
dell’estetica formulato nell’importante nota dedicata nel 1901 alle leggi
della storia della scienza.
Abbiamo visto che la storia dell’estetica come scienza filosofica può
essere, rigorosamente, solo storia del suo puro principio costituzionale.
In quanto tale essa ovviamente, per definizione, è astratta ed extratem122
porale. Allora è inevitabile porsi l’inquietante, esiziale, domanda di
quale sia la legittimità posseduta da una storia siffatta; o addirittura, se
sia sensato riconoscere, a tale indagine, il nome stesso di storia. Non
può infatti non apparire fondato il rilievo che questa proposta crociana
di storia della scienza perpetri «un disconoscimento della storia, della
storicità dei concetti: il fatto, il divenire, la storia, non stanno per lui
alla base dello stesso processo di elaborazione dei sistemi concettuali
costituenti le varie scienze, bensì sono una specie di medium attraverso
il quale “si rifrange” nella realtà empirica l’essenza universale, l’elemento irriducibile intuito, più che elaborato, nel concetto scientifico» 77.
Il rigorismo metodologico di Croce non lascia davvero vie d’uscita, esclude ogni margine operativo a una prospettiva storiografica
diversamente orientata. Egli non è disposto, fuori di una storia filosofica intesa strettamente come storia del fondamento costituzionale
dell’estetica, ad ammetterne una qualsivoglia altra accezione; nemmeno
una forma secondaria o seconda, degradata e di natura integrativa,
come aveva suggerito Gentile con la distinzione fra storia speculativa e storia erudita. Croce invece esclude fermamente la possibilità di
una «storia filosofica o interna» distinta da un’altra, di tipo satellite e
subordinato, condotta secondo altri parametri conoscitivi: «La distinzione giusta non è tra storia e storia; ma tra storia da una parte, ed
erudizione dall’altra» 78. Ritiene che al di fuori di tale storia esista solo
raccolta di fonti, silloge dossografica, quanto in seguito designerà col
nome di «storia filologica» 79. Ma questa storia, in quanto storia unica
e unitaria per così dire, la storia della scienza cioè così prospettata,
arriva a soddisfare l’istanza storiografica? Se la storia della scienza
viene rigorosamente perseguita come progresso incrementale della verità scientifica, ossia individuazione del suo principio fondamentale e
dispiegamento delle sue strutture veritative, siamo in presenza di un
processo conoscitivo di tipo puramente logico e pertanto extratemporale, configurabile in termini storiografici esclusivamente per ossimoro.
La vita del pensiero, colta nella sua pura essenza noetica, è acronica e
atopica: è fuori dalla storia.
Annotiamo dunque, per inciso, che la “Storia” crociana che avevamo designato “sui generis”, dapprima per il rilievo della “disarmonia
prestabilita” commessavi alla funzione storiografica, e riconfermata tale
in presenza del riconoscimento della sua “aberrazione prospettica”, ci
appare ora esser tale in senso pieno, proprio in quanto consegue istituzionalmente da una opzione metateorica radicalmente “sui generis”.
Questa istituisce il paradigma dell’estetica fissandone la storiografia
come lettura di una topica intradisciplinare rigidamente ristretta alla
dimensione noetica, il che traumatizza la parallela figura, parimenti
epistemica, di un conoscere come “storia”.
Croce è naturalmente consapevole di questa grave difficoltà e l’assume per esorcizzarla. E diciamo subito che centra in pieno il bari123
centro del paradigma storiografico dell’estetica, il luogo metodologico
decisivo, perché determina, per così dire, il ritmo cardiaco del modello
proposto. Lo fa ponendosi super partes nella disputa metodologica fra
due storici dell’economia, Pantaleoni e Montemartini. Del primo accredita la proposta, del resto manifestatamente di marca anche crociana,
che la storia scientifica si debba scrivere alla luce degli interessi attuali, o meglio si debba scrivere secondo la consapevolezza dottrinaria
conseguita dal picco inverativo raggiunto dallo studioso; ma accoglie
anche il rilievo del secondo (ed era stato un motivo rimarcato in quegli
anni anche da Gentile) che la storia non si restringa alla narrazione
soltanto del processo della verità disciplinare, ma anche a quello degli
errori che hanno accompagnato il conseguimento di tale verità. Argomenta infatti Croce che se «dalla storia si tolgono accuratamente tutti
gli incidenti tra i quali passano le verità, come l’ignoranza, il fraintendimento, l’oblio, l’errore, l’incertezza, l’approssimazione al vero, e così
via, la storia cessa d’essere storia, e diventa teoria» 80. Ineccepibile.
Lo ritenevano, come si è visto, anche Gilbert e Kuhn; lo riteniamo
anche noi. E però così la questione, vista in ottica crociana, si colora
di paradosso.
Ragioniamo. Una storia della pura verità scientifica, cioè del suo
fondamento o principio costituzionale, ha già un suo nome e un suo
statuto, appunto quello di teoria. Una storia della teoria, in senso stretto, è un nonsenso concettuale, al meglio una ridondanza semantica.
Proprio perché tale storia, in quanto storia del «mero concetto, ossia la
scienza, ch’è, per definizione, sciolta dei vincoli di tempo e spazio» 81,
coincide totalmente e s’identifica con la teoria. Si apre un bivio, le cui
strade sono entrambe senza uscita. La storia dell’estetica condotta in
modo rigoroso, cioè rigorosamente informata alla sua cifra epistemica,
coincide con la sua teoria, dunque non è storia ma senz’altro teoria.
Per converso, una storia dell’estetica che non sia storia del principio
scientifico identitario, della sua verità disciplinare, anch’essa non è storia, non è classificabile in termini di storia della scienza. Ma se l’estetica
è una scienza, cos’è allora, per Croce, storia dell’estetica?
La soluzione crociana ha un suo fascino paradossale e innesca meccanismi di metodologia storiografica di grande importanza, anche perché
si manterranno sostanzialmente inalterati anche nel successivo pensiero
di Croce; e, più o meno consapevolmente, e pur in forma diversa,
emendata, alterata, metamorfosata, influiranno non poco nella cultura
estetologica del Novecento. La storia dell’estetica insiste in una soglia
virtuale, nel senso che disegna un punto ideale di pienezza e congruità
epistemica, verso il quale oscuramente si muove la ricerca predisciplinare, ossia un movimento per onde lente e lunghissime che solcano il
pelago della storia della cultura, attraverso il travaglio di singoli pensatori, in mezzo e per mezzo di barlumi ed oblii, emergenze e rimozioni
attraversati da intere epoche storiche, un magma conoscitivo insomma,
124
ora aconcettuale ora preconcettuale ora quasi-concettuale, che costituisce volta a volta condizioni d’instabilità noetica o di decantazione
intellettuale, una sorta di entelechia disciplinare che perviene al suo telos
veritativo. Questa soglia, l’esito finale di questo tormentato processo e
progresso, il conseguimento del fondamento disciplinare, ciò, e solo
ciò, è propriamente storia dell’estetica. La storia dell’estetica s’istituisce
dunque al momento e all’atto della sua nascita scientifica. E però tale
nascita, disvelante l’estetica come disciplina scientifica, e dunque saturantela come sistema teorico, fa svaporare la dinamica fra noesis e fysis, e
perciò stesso ne inibisce la possibilità di sviluppo. Il big-bang epistemico
è un lampo che eccede in intensità, tocca una pienezza speculativa non
consolidabile in termini di durata temporale e che si sublima in un’altra
scala di misura, quella segnata dal puro pensiero. Qui il tempo, ossia
il tempo storico e cioè la storia, si esaurisce nell’atto in cui si compie,
cristallizza in una scala aperiodica realizzandosi in un eterno presente.
Secondo questa concezione, paradossalmente dunque la storia, la
storia come narrazione dell’umana vicenda, nella quale anche l’attività
cogitante concretamente s’intreccia e intimamente partecipa, attraverso
molteplici gradi di mediazione e di corrispondenze, al generale fare
umano, non arriva a toccare questa soglia limitare, che svanisce al momento in cui faticosamente viene attinta, che disintegra in un ba-gliore
così luminoso da oscurare l’orizzonte del reale. In altre parole ciò che
più prossimo possiamo significare come storia, è allora proprio la nonstoria dell’estetica, cui spetta “forma viva e drammatica”, ossia quella
travagliata vicenda di “precorrimenti ed errori” che tuttavia hanno
posto le condizioni del sorgere e maturare e disvelarsi del principio
veritativo dell’estetica, del conseguimento di quanto costituisce propriamente la sua storia epistemica, ma che in quanto tale trapassa ipso
facto in teoria.
Vengono finalmente in chiaro, in tutta la loro pregnanza, le peculiarità compositive della “Storia”, non riportabili, complessivamente,
solo a mera “aberrazione prospettica”, ma a un preciso e organico paradigma disciplinare. Come del resto già leggemmo nella frase con cui
Croce, nell’epistolario con Gentile, accompagnò la conclusione della
stesura della “Storia”: «mostrare quale folta selva di errori occorre
sgombrare per far valere la verità» 82. Ma su ciò mi pare superfluo ancora soffermarsi. Ben più importante è invece considerare quale sia lo
statuto di questa storia, anzi crocianamente in senso stretto non-storia,
eppure preziosa per porre con la necessaria evidenza, pur a guisa di
preambolo e piano di fondo, la nascita dell’estetica come scienza.
Croce lo fissa nella terza delle leggi enunciate nel 1901: «Alla storia
del principio scientifico ed a quella delle verità isolate precede la preistoria
delle une e delle altre, che è caratterizzata dal farsi vive delle contraddizioni e dal porsi dei problemi» 83. Ma cosa intende Croce per “preistoria”?
Come sappiamo, egli istituisce un duplice grado di verità scientifica:
125
quella del fondamento o principio costituzionale della scienza, e quella
realizzata da verità isolate, cioè parziali e non collegate col primo. Di
entrambe si dà preistoria. C’è una preistoria del principio fondamentale,
e c’è preistoria delle singole verità scientifiche, e finanche dei teoremi
particolari di queste. Una importante avvertenza va tuttavia salvaguardata: «Bisogna però guardarsi dall’immaginare la preistoria di una scienza
o di una singola verità come una condizione determinante, dalla quale
debba di necessità uscire la scienza o la singola verità. Il dubbio, ch’è
condizione di sapienza, si consuma talvolta e si spegne in sé stesso, prima che da esso si sprigioni la scintilla del vero» 84. La preistoria è dunque un anello metodologico importante nella ricostruzione della catena
incrementale verso il conseguimento del piano epistemico, ma nel senso
della condizione e non della determinazione; nel senso cioè che seppure
senza di essa non si pongono le possibilità per l’affermazione del principio scientifico, nondimeno questo non vi consegue necessariamente.
Luogo di dubbio e di crisi salutare, la preistoria rappresenta dunque la
condizione dell’estetica prima della configurazione propriamente storica
definita dalla sua nascita moderna come scienza. Nella preistoria, in
questo lungo lasso di latenza disciplinare, si registrano fasi alternanti
di consapevolezza, barlumi intensi e obnubilamenti, conseguimento di
teoremi o senz’altro verità parziali della scienza estetica e loro svanire,
insomma una vicenda pulsante che, appunto, solo “una forma viva e
drammatica” può descrivere. È, in verità, codesta preistoria, proprio il
mondo della storia, luogo di continuità solidale fra ordo idearum e ordo
rerum, composizione empirica in quanto umana, dunque un opinabile
storicamente circostanziato che si distende per trame imprevedibili e
discontinue. Fra Platone e Aristotele, per esempio, si diede epoca di
travaglio conoscitivo intorno al modo d’intendere scientificamente la
nozione di mimesi; ma questo, e consimili possessi parziali e privativi,
questa storia preistorica decadde con la decadenza del mondo antico,
e un oscuro vuoto epistemico vi campeggiò fino all’apparire del Rinascimento. Nuovi bagliori aurorali portarono «infine alla scoperta del
principio estetico, che si effettuò nel primo quarto del secolo decimottavo: donde comincia la storia, propriamente detta, dell’Estetica come
scienza» 85. Riconosciamo lo schema compositivo della “Storia”.
Se la preistoria è l’unica forma di storia concepibile per una vicenda
paradisciplinare non ancora pervenuta alla propria identità concettuale,
è il caso di chiedersi qual è la storia concettuale della stessa nozione
crociana di preistoria. Una risposta si può trovare in un testo crociano molto più tardo, nella Storia del 1938, ma che risulta particolarmente pertinente perché Croce vi chiarisce il significato di preistoria
riportando la nozione alla sua genesi ottocentesca, anzi proprio alle
dispute sollevate intorno a essa nella seconda metà del secolo scorso.
Croce ricorda la diffidenza degli storici per la preistoria e il malcelato
disprezzo che ne professavano (Mommsen ne ironizzava con l’epiteto
126
di scienza «analfabetica»), e ne ricerca la ragione. La sua spiegazione
è che al fondo della concezione di preistoria era il proposito di arrivare a condurre una ricerca storiografica capace di registrare i tassi di
socializzazione dei popoli primitivi, ai quali si adatta «una conoscenza
per medie e per tipi», come quella condotta dall’etnologia. Così però
si qualificava la preistoria col carattere della scienza naturale, che può
solo repertare e classificare ma non realizzare conoscenza propriamente
storica; e dunque qui riposa la ragione della ripugnanza degli storici
per la preistoria: «nei fatti, così come li offriva la preistoria, essi non
intravedevano solitamente alcun legame coi problemi attuali della vita
umana […]. La preistoria si presentava a loro come una raccolta o
anche un prospetto di notizie, materia di innumeri congetture, e spesso di pure immaginazioni intorno a cose che rimanevano estrinseche,
indeterminate e inanimate perché senza risonanza nell’anima nostra;
onde essi le volgevano le spalle» 86. Croce non pregiudica, in linea di
principio, la possibilità che anche per le epoche preistoriche possa porsi
«una particolare domanda di genuina qualità storica», e cita l’opera di
Vico: in questo caso «la preistoria diventa storia, come ogni altra congerie di fatti che provvisoriamente giaccia inerte» 87. E però «convertire
la preistoria in storia non è cosa frequente, né lavoro da ognuno» 88.
Infatti, a rigore, malgrado la materiale contiguità spazio-temporale, non
c’è omogeneità fra storia e preistoria, indici di operazioni conoscitive
che posseggono fisionomie epistemiche completamente difformi: la preistoria raccoglie reperti umani reificati, e li classifica e compone per tipi
omogenei; la storia invece conosce il genere umano nella concreta realtà
individuale, irriducibile e non tipizzabile. In conclusione, malgrado fra
storia e preistoria vi sia un coinvolgimento non negabile, malgrado fra
di loro scorra una congiunzione materiale «intrinseca», non è concepibile una loro equiparazione; e la preistoria, pur nell’eventualità di un
possibile, ma improbabile, recupero di talune sue limitate componenti
in chiave storica, delinea un orizzonte antropologico irrimediabilmente oscuro perché rimosso, di cui conserviamo un ricordo pallidissimo
come «quello di quando eravamo nelle fasce» 89.
Come che sia, l’ipotesi di una pur risicata conversione della preistoria in storia resta esclusa per l’estetica. Nella logica del piano epistemico disegnato da Croce, infatti, ogni accrescimento conoscitivo che si
procuri della preistoria dell’estetica può investire esclusivamente verità
parziali o teoremi interni di esse, e non mai elevarsi alla purezza della
storia, qualificata solo dalla “scoperta” del principio o fondamento
identitario che la istituisce come disciplina scientifica. Abbiamo quindi pienamente raggiunto, e tocchiamo per così dire a cuore aperto,
la chiave di volta del paradigma crociano della storia dell’estetica: la
nascita moderna dell’estetica come scienza.
È, questo tema della nascita moderna dell’estetica, della nascita
crociana dell’estetica come moderna scienza dell’espressione, un asse
127
disciplinare che attraversa costantemente la dottrina crociana. Se la
“Storia” si apre all’insegna della “recisa” affermazione della modernità
dell’estetica, quindici anni dopo Croce riconfermerà in pieno «la comune sentenza che l’Estetica sia scienza affatto moderna, sorta fra il sei e
il settecento e cresciuta rigogliosamente negli ultimi due secoli» 90. È
una conferma, diciamo pure, solenne perché Croce l’accompagna con
la precisazione che a essa è pervenuto dopo una continua messa in discussione di questa sentenza, sicché ritiene meriti solo «approfondirla»
e «renderla più persuasiva». Va preso atto che il rigorismo professato
nei primi anni del Novecento in questa nuova versione appare attenuato, disponibile a più flessibili esigenze di ricerca. Croce infatti tiene a
precisare, per esempio, che il suo giudizio che «mancasse la scienza
estetica, non vuol già dire (come alcuni hanno creduto) che agli uomini,
allora vissuti, mancasse il concetto della poesia o dell’arte in genere» 91.
Ma non bisogna coltivare equivoci sulla rilevanza attribuita al possesso
del “concetto della poesia o dell’arte in genere”; esso, tradotto linearmente nella terminologia crociana del 1901, si colloca ancora entro
il limite lì definito delle “verità particolari” o dei suoi “teoremi”. Le
strutture paradigmatiche dell’estetica non sono per nulla considerate
in maniera sostanzialmente diversa; è cambiato, con la terminologia, il
quadro metateorico crociano del concetto di scienza e il suo confronto
coi saperi filosofici, ma tanto non comporta nuovi ripensamenti del paradigma storiografico. Rimanendo, l’estetica presettecentesca, «scienza
pratica o empirica dell’arte», Croce non può che ribadire coerentemente: «nel periodo che va dai greci al secolo decimosettimo, l’Estetica
propriamente detta non ebbe luogo. […] l’Estetica appartiene ai tempi
moderni, perché in questi solamente i germi sparsi nei tempi anteriori
attecchirono, e in questi solamente fu inteso il valore di quegli accenni precorritori» 92. Siamo insomma in presenza di attenuazioni linguistiche, addolcimenti semantici ma non di una revisione dell’impianto
paradigmatico. L’assenza dell’estetica, malgrado eufemizzata dall’ornato
“propriamente detta”, mantiene sempre il significato storiografico che
le epoche anteriori al Settecento non appartengono «alla storia, ma
tutt’al più, alla preistoria dell’Estetica, della quale mostra solo, qua e là,
alcun barlume e accenno» 93. Ed anzi questa lectio viene riconfermata
entro maglie periodizzanti più rigidamente determinate, che impongono «una partizione della storia dell’Estetica […] in una preistoria che
comprende i duemila e più anni che precedono la critica e la filosofia
del secolo decimosettimo, e in una storia, che dal secolo decimosettimo
viene fino ai nostri giorni» 94.
Questo schema continua a mantenere agli occhi di Croce una inflessibile forza conoscitiva. Lo ritroviamo pienamente confermato da
lui ancora altri quindici anni dopo: «risponde non solo ad opportunità
espositiva ma a verità storica, la comune sentenza che l’Estetica è una
scienza moderna. L’antichità greco-romana non speculò, o assai poco,
128
sull’arte, ma intese soprattutto a creare la didascalia di essa: non la sua
“filosofia”, si potrebbe dire, ma la “scienza empirica” dell’arte» 95. E
la ragione riposa sempre nel fatto che prima del Settecento non venne
posto «un principio propriamente estetico». Ma se ci fosse ancora bisogno di dimostrare che siamo in presenza di una “struttura profonda”
del pensiero crociano, basterà un ultimo controllo testuale. Nel gennaio
del 1941, licenziando la settima edizione dell’Estetica, Croce continuerà
a parlare del Settecento come «l’età in cui questa scienza veramente
nacque con una spontaneità e una freschezza che più tardi s’incontrano di rado, e formò i suoi problemi e i suoi concetti capitali» 96. Non
si danno, come si vede, rettifiche o rielaborazioni significative, ma il
paradigma storiografico fissato nel 1901 viene pienamente confermato
nella sua perspicua valenza metodologica, consegnata nella nascita settecentesca dell’estetica come scienza moderna.
Qual è la genesi del paradigma storiografico della “nascita dell’estetica”? Bisogna riandare non alla preistoria dell’estetica ma alla genesi della stessa storiografia estetica. Considerare cioè i nodi intrecciati nella fascia di latenza disciplinare che seguì la proposta teorica di
Baumgarten e il suo conio della parola “æsthetica” per designare un
autonomo sapere filosofico.
I termini di novità consegnati nella teoria di Baumgarten stentarono
a essere recepiti, non incontrarono immediatamente successo, vennero
ignorati e spesso contestati. Ben diversamente dalla parallela e pressoché coeva proposta di un “sistema delle belle arti” avanzata da Batteux,
che incontrò dovunque, e segnatamente nella patria di Baumgarten,
grande favore. Ancora vivente Baumgarten e poi il suo allievo Meier
dovettero non poco adoprarsi e polemizzare per fare accettare la nuova denominazione di estetica e l’ordine disciplinare che essa istituiva.
Compito oggettivamente non facile, perché la nuova organizzazione di
sapere attrezzata intorno al nome di estetica poneva tutta una serie di
gravi e complesse questioni, sia riguardo all’articolazione interna del
proprio piano epistemico sia alla conseguente ridistribuzione dell’intera
mappa cognitiva. Problemi apertissimi e quanto mai controversi, sia
allora che dopo che tutt’oggi, e che eccedono l’ordine del giorno di
questo saggio. Che invece è impegnato a perseguire un diverso ordine
di difficoltà innescato dalla proposta di Baumgarten.
L’introduzione dell’estetica come scienza filosofica autonoma, o
particolare o speciale, poneva la domanda su come correlare questa
nuova cornice concettuale a un fondo dottrinario antichissimo, plurimo
ed eterogeneo, variamente tematizzato nel corso delle diverse epistemi
storiche, all’insegna della speculazione sul bello e sull’arte. Domanda
che veniva ulteriormente incalzata dal fatto che, nella stessa epoca di
Baumgarten, una continua spinta aggregante, culminata in Batteux,
aveva dato una riformulazione organica e “potente” di quell’antica rete
129
di saperi, all’insegna della nozione di “belle arti”, disciplinate “scientificamente” in un “sistema” organizzato intorno “a un solo principio”
esplicativo 97. Si trattava insomma di giustificare la legittimità del nuovo
conoscere moderno in termini di “estetica”, sia rispetto all’antico teorizzare di bello e di arte, sia rispetto al teorizzare moderno, abaumgarteniano, che si andava affermando all’insegna della nozione di “teoria
delle belle arti”. Il progetto di estetica come «scientia cognitionis sensitivæ», elaborato da Baumgarten, poneva una prospettiva olisticamente
aperta, nella quale, proprio attraverso l’iniziale distinzione fra aisthetá e
noetá 98, si conseguiva il riassorbimento della trama degli antichi saperi
variamente classificata. Poetica e retorica, per esempio, divenivano casi
particolari dell’estetica, scienza generale. La specificazione dell’estetica
come «theoria liberalium artium», nella quale si assume programmaticamente una nobile denominazione plurisecolare, non a caso è la prima
a essere proposta nella prima sentenza dei prolegomeni all’Æsthetica 99.
Baumgarten insomma marcava la continuità con la tradizione e non
propugnavava fratture epistemiche. Ciò però non era sufficiente a vincere le difficoltà della posizione; poteva, anzi, costituire un argomento
a carico. Infatti, marcare la continuità fra riflessione antica e riflessione
moderna rischiava di rendere ridondante l’adozione della nuova designazione disciplinare, e in ragione degli equivoci e delle difficoltà ai
quali dava luogo consigliava di abbandonarla; all’opposto, rimarcare
la cesura col passato imposta dalla nuova prospettiva, causava insostenibili dissonanze cognitive. Era dunque aperta la questione fino a che
punto la nuova nozione di “estetica” e quella tradizionale di “teoria
del bello e dell’arte”, e ormai dopo Batteux di “belle arti”, fossero
sovrapponibili o coordinabili. E se, comunque, convenisse adottare a
preferenza il disegno epistemico propugnato dall’estetica.
Possiede notevole interesse esemplificativo, perché ben rappresenta
il polso della situazione, una prolusione accademica tenuta da Georg
Will nel 1755 col titolo emblematico di Oratio solemnis de Æsthetica
veterum, volta a dimostrare che la nuova scienza non era del tutto nuova, e che il grande merito di Baumgarten e di Meier consisteva nell’aver
riorganizzato con metodo scientifico “moderno” i principî e le regole
già conosciuti e applicati dagli antichi auctores 100. Una mediazione. Di
fatto, per molti anni, si determinò un’oscillazione semantica, che attesta
la tentazione di una possibile interscambiabilità, ma nello stesso tempo
il sospetto, fra la nuova e la tradizionale denominazione. È sintomatico
che, anche accettando le nuove vedute e includendo la parola estetica
nel lessico filosofico, alle “belle arti” e non all’“estetica” sono intitolate le trattazioni del tempo. Così farà lo stesso prosecutore diretto di
Baumgarten, Georg Meier (1748-50, 1757), e il successore di questi ad
Halle, Johann Eberhard (1783); e similmente, nell’onda della fortuna
arrisa in Germania all’opera di Batteux, si comporteranno i numerosissimi trattatisti del secondo Settecento, inclusi studiosi rimarchevoli
130
come Mendelssohn (1757), Herder (1769) e Sulzer (1771-74). È solo
nell’ultimo decennio del secolo che la nuova denominazione mostra
prendere piede, mezzo secolo dopo il suo debutto. Se nel 1790 Kant,
grande estimatore di Baumgarten, a cui aveva assegnato lo smagliante
epiteto di vortreffliche Analyst, pur mantenendo riserve sulla correttezza
del nuovo conio 101, intitola la sua estetica Kritik der Urtheilskraft (e
ancora dieci anni dopo Herder gli farà eco metacritica col titolo Kaligone), lo stesso anno Heydenreich titola System der Ästhetik, e cinque
anni dopo le Lettere di Schiller sono appunto intitolate all’educazione
estetica. Diventa allora istruttiva l’evoluzione terminologica attestata per esempio dagli scritti di Eberhard, che nell’arco di vent’anni
(1783/1803) dismette la dizione di “teoria delle belle arti” per adottare
senz’altro quella di “estetica”. Ma oramai, incamminatosi l’Ottocento,
tranne qualche sempre più rara eccezione come la Philosofie der Kunst
(1802-03) di Schelling, l’estetica guadagna il frontespizio delle opere di
Schleiermacher (1819) e di Solger (1829). E soprattutto di Hegel, che
fa il punto definitivo della questione. Aprendo le sue lezioni di estetica, egli rende manifeste le perplessità ancora provate a usare questa
intrigante parola. Confessa che per l’oggetto della sua trattazione «il
nome di Estetico non è completamente appropriato, poiché “Estetica” indica più esattamente la scienza del senso, del sentire»; prende
quindi in considerazione altre alternative, come quella di usare «Callistica», ma anche questo termine gli appare insufficiente, in quanto
egli non considera il bello in generale ma puramente il bello artistico;
sicché, precisato che il «vero e proprio termine della nostra scienza
è “filosofia dell’arte”, e più specificamente “filosofia della bella arte”»,
si rassegna al «nome di Estetica, giacché come semplice nome è per
noi indifferente, e del resto è così entrato nel linguaggio comune che
può essere conservato come nome» 102. Così, obtorto collo, col nome
tenuto a battesimo da Baumgarten, l’estetica si afferma celebrando i
suoi trionfi idealistici.
Questi cenni, per quanto compendiari, possono tuttavia bastare per
introdurre il tema che sta a cuore al presente studio: il costituirsi del
paradigma della storia dell’estetica. A metà dell’Ottocento, a oltre un
secolo dall’apertura disciplinare procurata da Baumgarten e dopo una
spettacolare affermazione, soprattutto ma non esclusivamente tedesca,
delle problematiche estetiche, che arricchirono in misura rilevante la
cultura filosofica e umanistica in genere, è del tutto ovvio che maturasse l’esigenza di stilarne un bilancio storiografico, di fare cioè storia
dell’estetica. Ma porre la disciplina a oggetto di storia poneva gravi e
delicati problemi. Qual è l’oggetto della storia dell’estetica? Vennero
al pettine i nodi postisi e non sciolti ai tempi di Baumgarten. Infatti,
rigorosamente considerando, restando cioè a ridosso del nome e dell’istanza conoscitiva che il nome rappresenta, della costituzione di un sapere sistematico in forma di scienza filosofica, prosperato nei cent’anni
131
precedenti con o senza il nome di estetica, la storia dell’estetica non
poteva non contemplare come unico oggetto pertinente e specifico altro
che la vicenda disciplinare moderna inaugurata da Baumgarten. Al di
fuori di questo giro problematico, prima cioè dell’avvento di Baumgarten, di estetica non si poteva parlare, né di nome né di fatto, e dunque
non si poteva assumere a oggetto di un esame storiografico. Tuttavia,
a parte la ripugnanza che dava liquidare una tradizione di elevatissimo
prestigio culturale, che vantava sovrane ascendenze araldiche, e a parte
il fatto che la stessa tradizione disciplinare non poteva farsi sorgere
dal nulla, l’estetica come scienza filosofica aveva sì soppiantato l’antica
teoria del bello e dell’arte, ma si era anche posta in continuità tematica con essa, e aveva incorporato la stessa riformulazione moderna in
chiave di “belle arti” nel proprio piano epistemico, di cui costituiva
elemento nucleare. Come regolare questa discontinua continuità? Era
una matassa ingarbugliata, ma che era indispensabile dipanare per dare
alla storia dell’estetica identità scientifica.
Dato per scontato che l’estetica, l’estetica moderna, non poteva in
un qualche modo non raccordarsi con la precedente teoria del bello
e dell’arte, ne conseguiva che la storia dell’estetica dovesse abbracciare tutto l’arco bimillenario della cultura occidentale, nel quale arte e
bellezza erano state oggetto di riflessione filosofica; ma all’interno di
quest’arco bisogna attivare un criterio disgiuntivo, capace di evidenziare le differenze insorte nel corso della sua evoluzione. Bisognava
dunque trovare come dicotomizzare, con nettezza e insieme plausibilità, la continuità storica in due distinti quadranti storiografici, uno
antico, in cui la teorizzazione del bello e dell’arte era sprovvista di
profilo autonomo, e uno moderno, in cui essa aveva raggiunto configurazione disciplinare. Il telaio di questa storia bipolare poteva poggiare
su alcune personalità cardinali, anzi una coppia endiadale: Platone e
Aristotele per l’antico, Baumgarten e Kant per il moderno. La verifica
dell’impianto, la bontà del tipo di connessione realizzata, era consegnata nell’avvio che si procurava al congegno storiografico attraverso
la figura del “padre” o “fondatore” dell’estetica. Furono i problemi
di fondo che si trovarono ad affrontare i primi storiografi, e anzitutto
Robert Zimmermann.
Ora Zimmermann, riguardo al primo segmento della istituenda storia dell’estetica, trovò una tradizione storiografica già consolidata, e che
aveva avuto pochi lustri prima la sua più autorevole trattazione nella
monumentale Geschichte der Theorie der Kunst bei den Alten (183437) di Eduard Müller. Questi tracciava un profilo dell’estetica antica
che si apriva con Omero per concludersi con (Pseudo) Longino; ma
i due volumi di cui consta l’opera avevano ciascuno un protagonista:
Platone e Aristotele. A entrambi Müller riporta la “nascita dell’estetica”. «Plato ist es, der zuerst, so viel wir wissen, alle die Künste, die wir
schöne Künste nennen, unter einen Begriff zusammenfaßte und somit
132
eine Theorie der Kunst erst möglich machte. Auch Plato in det That
schon die Grundlinien zu einer Theorie der Kunst gezogen, und ist
insofern als der Begründer der Aesthetik oder Kunstphilosphie zu betrachten» 103. Tale paternità ha però un’ombra nel fatto che «aber nicht
als ein abgesondertes Gebit menschlicher Thätigkeit erweckte die Kunst
sein Interesse, sondern von seinem ethischpolitischen Standpunkte aus
würdigt er ihre Leistungen, und eine reinigende und beschränkende
Einwirkung ist es, welche er demgemäß gegen sie ausübt» 104. Limite
colmato da Aristotele, che assurge al rango integrante di cofondatore dell’estetica: «Keiner unter den Denkern des Alterthumus hat eine
vollständige Theorie der Kunst entworfen und durchgeführt. War aber
einer auf dem Wege dazu, so war es Aristoteles, der die Kunst nicht
wie Plato lediglich vom ethisch-politischen Standpunkte aus beurtheilte,
sondern an sich selbst zum Gegenstande eindringender untersuchungen
machte» 105. A evidenza, però, una tale valutazione non motivava le
ragioni di una nascita moderna dell’estetica.
Zimmermann intraprese la sua impresa storiografica con notevole
orgoglio disciplinare e l’eccitazione del pioniere, ma chiara percezione
dello status quæstionis. E chiaro è il suo intendimento, esplicitato fin
dal titolo, di fare sì Storia dell’Estetica, però als philosophischer Wissenschaft. Una storia siffatta, egli nota, non è stata ancora tentata né
in tedesco né in francese né in inglese. Ciò costituisce «eine fühlbare
Lücke» della letteratura filosofica che è necessario colmare, proprio
perché grazie all’idealismo la scienza estetica ha conseguito un ruolo di
assoluta centralità, e l’intera filosofia è divenuta sempre più estetica 106.
E però come impiantare questa storia?
Non c’erano precedenti storiografici cui appoggiarsi. A eccezione
di un Entwurf pubblicato nel 1799 da un tal J. Koller, che Zimmermann dichiara di non aver potuto consultare. (Croce invece se lo fece
comodamente inviare in prestito da München, dove il raro testo è
tutt’ora consultabile, per mezzo del suo amico Farinelli.) Questo brevissimo saggio (centosette pagine, incluso l’indice dei nomi, in ottavo
piccolo), fra tante ingenuità e inesattezze (per esempio, cita: Betinelli
[sic!]; laddove il dizionario di Sulzer aveva già riportato il nome correttamente 107), ha tuttavia il pregio di realizzare (parrebbe per la prima
volta) un pionieristico schema di storia dell’estetica. Una brevissima introduzione di otto paginette esaurisce l’estetica antica, greca e romana,
liquidata nella frase d’apertura: «Name, und Form einer allgemeinen
Theorie der schönen Künste, und Kritik des Geschmacks war den Alten noch unbekannt» 108; da qui si salta al mondo moderno, risolto in
sei pagine dove si elencano pochi autori italiani, inglesi e francesi attivi
fra il Cinque e il Settecento, e inizia la vera e propria Geschichte und
Literatur der Ästhetik. Aperta da una citazione tratta dal leibniziano
Bülffinger 109, l’estetica moderna viene inquadrata così: «Die Epoche
der Theorie nimmt, wie wohl niemand läugnen wird, ihren Anfang
133
von Baumgarten, dem wir wenigstens das Verdienst nicht absprechen
können, daß er zuerst den Gedanken einer auf Vernunftgrundsätzen
ruhenden, und vollständig durchgeführten Aesthetik festhielt, und
nach den Mitteln, die ihm seine Philosophie darboth, zu realisieren
versuchte» 110. Si aggiunga che uno speciale rilievo di dieci facciate
viene dato a Kant.
A giustificazione del titolo della sua Storia, Zimmermann tiene a precisare che una storia dell’estetica «eigentliche» può iniziare solo con la
sua nascita «als besondere Wissenschaft». Come e perché si può, allora,
fare storia anche di un’estetica non ancora nata, l’estetica antica? «Da
die ästhetischen Begriffe aber älter sind die Ästhetik, und diese sich
auf dieselben stets wieder bezihet, so hat Verfasser es für zweckmässig
gehalten, die zerstreuten Erörterungen über ästhetische Gegenstande,
welche der systematischen vorangigen [...] voranzuschicken» 111. Esiste
dunque un’epoca di riflessione filosofica intorno agli stessi concetti di
arte e bellezza propri dell’estetica moderna, e nondimeno epoca della
quale, pur se impropriamente appartiene all’estetica dacché non pervenne a una organizzazione sistematica specifica di quei saperi, la storia
dell’estetica non può non tener conto e deve in qualche modo inglobare
in sé. Quell’epoca, per altro, va circoscritta al solo mondo antico, ancorata sostanzialmente intorno ai nomi di Platone, Aristotele e Plotino.
Dopo, dal iii al xviii secolo, vi fu «eine grosse Lücke» 112, finalmente colmata nel 1750 dalla comparsa del primo volume dell’estetica di
Baumgarten, «der Gründer der Ästhetik als besonderer philosophischen
Disciplin» 113. In che modo la storia dell’estetica può assimilare concettualmente, integrandola nel proprio tessuto storiografico, quell’epoca
primitiva e eslege dell’estetica? La risposta di Zimmermann fu: «als
“Vorgeschichte” der “Geschichte”» 114.
All’insegna della “preistoria”, nasce così il primo paradigma storiografico dell’estetica. Va riconosciuto, a questo esperimento incoativo,
il tratto di brillante soluzione a una incomponibile iunctura rerum. Ma
non più di tanto. Oggi avvertiamo che «troppi fatti “preistorici” […]
sono in effetti “storici”. D’altro canto, inoltre, è molto grossolano lo
schema che poggia sulla collocazione nell’età moderna del sorgere della
“scienza” in senso autentico (cioè nel senso in cui noi intendiamo questo termine). Tale schema non vale ad esempio né per la matematica
né per l’astronomia, il cui costituirsi come scienze è assai più remoto.
[…] Così, le scienze antiche mettono in forse lo schema di sviluppo
dalla “preistoria” alla “storia” della scienza. Né credo gioverebbe dire
che tale schema va inteso come proprio dello sviluppo di ogni singola
scienza; dato che non pare riuscire il tentativo di ricavarlo induttivamente da tali sviluppi, in quanto esso stesso è piuttosto il presupposto
generale attraverso cui li si vuole interpretare» 115. In verità, qualificare
preistorica la riflessione estetica presettecentesca, relegandola in un remoto passato, per di più deprivato di nessi di continuità col presente
134
storico, appare essere solo un espediente, con cui adempiere a una
ineludibile necessità storiografica servendo ragioni conoscitive di marca
ideologica. Il disegno cioè di magnificare, senza ombre e intralci, la
nascita disciplinare dell’estetica come evento irriducibilmente moderno.
Pur riconosciuta l’esistenza di un’estetica antica, in quanto asistematica
a essa non viene riconosciuto un grado epistemico equipollente a quello
dell’estetica moderna. In questa speciosa riformulazione della querelle
fra antichi e moderni, la soluzione è implicita già nella costruzione
della domanda. Giocata l’alternativa fra antico o moderno in termini di
preistoria o storia, non ci sono margini d’esitazione: l’estetica è esclusivamente moderna, la sua nascita è settecentesca.
Elaborato per non ignobili fini di affermazione disciplinare (ma anche geneticamente propiziatori di un proprio progetto teorico), questo
vizio d’origine inficia però l’antico paradigma storiografico di Zimmermann. Il cui limite, gravido di letali conseguenze, è proprio quello di
non essere un paradigma genuinamente storiografico, adeguato cioè
a tale istanza conoscitiva. Invece di procurare un allargamento e un
approfondimento della conoscenza storica, inibisce infatti il possesso
di intere epoche storiche: risulta incapace di decifrarle, e le rimuove
o degrada, per la ragione che ovviamente esse sono costituite secondo
concezioni epistemiche diverse dal concetto di scienza costruito dal moderno. Fino all’assurdo di contemplare una storia non storiograficamente analizzabile. Ciò produce catene d’incomprensione che determinano
un sostanziale sabotaggio del gradiente storiografico. Verso l’estetica
antica, anzitutto, ma in generale nei confronti di tutta la vicenda presettecentesca dell’estetica. Basterà, a questo proposito, ricordare come
già nel 1893 Walter protestasse che la lettura che Zimmermann e successori avevano fatto dell’estetica antica non ne coglieva lo sviluppo, ne
appiattiva il significato storico e mancava di evidenziarne la peculiare
fisionomia 116; e l’anno prima Bosanquet aveva posto le condizioni del
recupero alla storiografia estetica del tardoantico, del medievale e del
premoderno, secondo quel tipo di ricerca che sarà chiamato in seguito
di «estetica implicita» 117. Del resto, un decennio avanti, Menéndez
Pelayo aveva sciolto linearmente l’artificioso dilemma di estetica antica
o moderna: «la Estética es al mismo tiempo una de las ciencias más antiguas, y una de las ciencias más modernas y más atrasadas todavía» 118.
La conseguenza più paradossale, procurata dalla chiave interpretativa zimmermanniana, è che dona una visione sfocata e scorretta della formazione della stessa estetica moderna, della quale le sfuggono
elementi sostanziali di gestazione. Come si è accennato, alla neoformazione disciplinare concorse la saldatura di apporti plurimi. Fra di
essi, importanza essenziale, certamente non inferiore alla progettualità
baumgarteniana, riveste la teorizzazione del “sistema delle belle arti”
di Batteux. Essa costituisce l’esito apicale di quel complesso crogiolo tassonomico presente già nel mondo antico 119, ininterrottamente
135
continuato sino alle soglie del moderno insieme all’evoluzione della
nozione di “arte” 120, e che trovò nella codificazione di Batteux la «sua
forma pressoché definitiva» 121. Codesta codificazione (al di là dell’apprezzamento discrezionale che si voglia dare del valore che possiede
il suo spessore speculativo 122, apprezzamento che sicuramente non è
appiattibile sulla miopia critica di Zimmermann e di Croce) possiede
dunque una funzione strategica decisiva per la determinazione topica
dell’estetica moderna 123, proprio nei suoi motivi più strettamente filosofici. Del resto, come ha benissimo mostrato Cassirer, il processo
di unificazione delle arti intorno a un solo principio è un processo
“epocale” che muove anche da una precisa istanza filosofica, portando
a maturazione il nuovo ideale della conoscenza propugnato da Cartesio 124. In Cartesio, dunque, Batteux siccome Baumgarten. E comunque,
il nesso Baumgarten-Batteux, in quanto intersezione che rappresenta
in misura eminente le complesse trame che sostanziarono il qualificarsi
della moderna riflessione estetica, costituisce una polarità storiograficamente euristica, della quale è impossibile prescindere. «Quindi sembra
un errore il voler proseguire a considerare l’estetica, questa disciplina
dal nome intrigante, come dottrina unica e procedente verso un solo
fine. La storia in qualche modo è complice di questo inganno, perché
da Kant a Hegel, pur continuandosi a chiamare “estetica”, seguì più
la via segnata da Batteux che quella indicata da Baumgarten» 125. Di
questo “errore” e di questo “inganno”, prime responsabili sono proprio
le insufficienti condensazioni storiografiche di padre Zimmermann.
Croce, nella “Storia”, farà integralmente suo il paradigma storiografico di Zimmermann. Ne assumerà le categorie operative e, segnatamente, la sua dominante speculativa. Anzi, inquadrandolo nell’orbita
della “rivoluzione scientifica” da lui propugnata, lo irrigidirà ulteriormente, corroborandolo di una carica polemica volta all’affermazione
della sua particolare teoria estetica: scienza filosofica ma in quanto
scienza dell’espressione. Ciò, irrimediabilmente, non poté che acuire
i rimarchevoli limiti di prospettazione storiografica scontati già nella
versione originale del modello. E Croce divenne prigione di una gabbia metodologica. Una gabbia della quale – bisogna riconoscere – più
volte, dopo il 1902, si è adoprato a piegare le sbarre, ma senza riuscirvi: senza potere riuscirvi. Gli capiterà anche di criticare ed emendare
Zimmermann, ma potrà rettificarne – rimanendo invariato l’asse paradigmatico – solo specifiche applicazioni storiografiche 126.
L’ottica posteriore, nella quale noi oggi versiamo, ha maturato, intorno ai vari problemi che siamo andati esaminando nel presente saggio, prospettive sensibilmente difformi da quella crociana. L’estetica,
intesa come autonoma disciplina filosofica «sembra ormai essere un
passato» 127. La tensione speculativa, ridefinendo nella sdefinizione di
un certo corredo storico, si appunta proprio a mostrare che l’estetica è
136
una «filosofia non speciale» 128. E la più autorevole storia dell’estetica
in circolazione si arresta al di qua di Baumgarten 129, e nessuno si sogna
d’inficiarne la legittimità disciplinare; né gli studi, ancora purtroppo
non frequentatissimi, di estetica antica si mettono più sulle tracce di
un’estetica dell’intuizione presso gli antichi 130. I caratteri dell’attuale rivitalizzazione della problematica del “sublime“ stanno a dimostrarlo 131.
In uno scenario tanto mutato, la nascita settecentesca dell’estetica
non può non apparire nozione svaporata: è diventata un mito storiografico, che a luogo di essere esplicativa risulta essa stessa bisognosa
di esplicazione. E nondimeno è importante decifrarla, proprio per
prendere distanze consapevoli da quanto di obsoleto convoglia la tematizzazione condottane dalle filosofie postidealistiche tedesche e da
quelle neoidealistiche italiane 132, in ragione di particolari investimenti
teorici 133. È di pacifica circolazione la constatazione che «l’estetica è
stata praticata assai prima che le si desse un nome» 134; né si enfatizza
più l’importanza della stessa coniazione della parola “estetica” 135. Sicché lo stesso tema del “padre” o “fondatore” dell’estetica moderna (sia
il designato Baumgarten 136, Kant 137, o addirittura Schelling 138), un dì
rovente oggi appare smagato ed esplicita la sua natura di saliente teorico. Lo prova, ad esempio, l’interessante tentativo di contrapporre alla
cesura crociana una contiguità problematica fra due di questi massimi
eroi disciplinari: Vico e Baumgarten 139. Laddove, in sede storiografica, esso ha assunto la preziosa valenza metodologica di evidenziare le
diverse topologie che hanno concorso alla costituzione della moderna
teorizzazione estetica.
Una curiosa distrazione ha portato Croce a citare, sia nella corrispondenza privata che in tutte le edizioni dell’Estetica, la Storia di
Bosanquet come of Aesthetics 140. Eppure quel volume non è intitolato all’estetica; anzi vuole essere, dichiaratamente, History of “estetico”
(Aesthetic). Una distrazione che non, ripeto non, può essere elevata a
capo d’accusa specifico contro Croce, se è vero, come è vero, che si
ritrova identica nientemeno che nella Storia di Tatarkiewicz. Ma tale
lapsus, in Croce, pare possedere la natura di un sintomo profetico. È
infatti all’estetico, alla individuazione della coscienza estetica, delle modalità con cui questa ha conseguito il traguardo della consapevolezza
speculativa, nelle forme e secondo le logiche proprie alle varie epistemi
succedutesi nella storia, sono da più parti rivolti gli sforzi degli studiosi. Si constata altresì «che l’Estetica, lungi dal segnare la mera scoperta
e messa in opera di alcuni concetti logico-gnoseologici, e tra questi, in
particolare, di quello di “gnoseologia inferior”, che pure è connesso al
suo essere, si ricollega invece ad un più vasto e complesso movimento
di mediazione socioculturale» 141. Circola, insomma, il convincimento
che l’estetica è una formazione storica, resa possibile da un ininterrotto
accrescimento politopico del proprio piano epistemico, costruito dalla
“tradizione estetologica”, talché soltanto tracciando “carte di naviga137
zione” adeguate, congegnate ad hoc in sede storiografica, è possibile
astringerla nella complessa realtà della sua concretezza disciplinare.
In conclusione, va riconosciuto che il criterio di scientificità di una
disciplina, come del resto quello più in generale di validità scientifica, muta e assume diversa intelligibilità nelle varie epoche storiche. È
pertanto impossibile omogeneizzare tali eterogenee entità concettuali,
partecipi di più complesse concrezioni storico-culturali, a un criterio
unico, a uno schema unitario di razionalità, sovrastorico e astrattizzante. Laddove, attraverso una spregiudicata meditazione delle “differenze”, il compito della storiografia estetica appare quello di delineare una
cornice flessibile e aperta, nella quale sia possibile istituire collegamenti
euristici fra i vari criteri di scientificità disciplinare, sì da definire un
tracciato di continuità/discontinuità, capace di esprimere l’evoluzione
storica dell’attività qualificata, o qualificabile secondo un qualche indice conoscitivo, col termine di estetica.
Uno degli ultimissimi scritti crociani è dedicato a stendere un bilancio, cinquant’anni dopo l’esordio della sua estetica compiutosi con le
Tesi fondamentali. Una fine in nome dell’inizio. Croce infatti commenta:
«L’Estetica, della quale discorriamo, sorgeva sopra una storia di questa
scienza, che era poi questa scienza stessa, vista nella sua genesi: storia
che si è venuta elaborando e affinando insieme con essa» 142. Dopo
mezzo secolo, l’impianto disciplinare dell’estetica appare sostanzialmente
immutato, ancorato ancora al paradigma formulato ai primi del Novecento, in cui la storia dell’estetica è assorbita e fatta coincidere con
la teoria estetica in quanto scienza, vista nella sua genesi. Lo schizzo
storico che Croce in quest’ultima occasione ne disegna, certo più pacato,
anzi pacificato, riecheggia però ancora lo schema della “Storia”. Più
avanti, con inesausta vis polemica (questa volta ha di mira «i tentativi
di professori ignoranti e dispettosi e di dilettanti di varia sorta» 143),
rivendicando la “giovinezza” del suo pensiero, il vecchio pensatore
inopinatamente aggiunge che «bisogna inculcare il rispetto per il passato» 144. Il passato dell’estetica, la storia dell’estetica, naturalmente. Ma
anche la ricerca estetica crociana, come “nostro passato”? E, se così,
come “rispettare” questo nostro passato?
È il tema, questo dell’indispensabile e pur problematico confronto col passato, di una famosa pagina crociana: «Noi siamo prodotto
del passato, e viviamo immersi nel passato, che tutt’intorno ci preme.
Come muovere a nuova vita, come creare la nostra nuova azione senza
uscire dal passato, senza metterci di sopra di esso? E come metterci di
sopra del passato, se vi siamo dentro, ed esso è noi? Non v’ha che una
sola via d’uscita, quella del pensiero, che non rompe il rapporto col
passato ma sovr’esso s’innalza idealmente e lo converte in conoscenza.
Bisogna guardare in faccia il passato o, fuori di metafora, ridurlo a
problema mentale e risolverlo in una proposizione di verità, che sarà
138
l’ideale premessa per la nostra nuova azione e nuova vita. […] Le età
in cui si preparano riforme e rivolgimenti sono attente al passato, a
quello del quale vogliono spezzare i fili, e a quello di cui vogliono riannodarli per continuare a intesserli» 145. Ma siamo davvero inchiodati
in un fermo orizzonte di verità? La nostra condizione giudicante è
condannata all’alternativa brutale “del tessere o dello spezzare”? Non
c’è possibilità di sciogliere tale antinomia? Al fondo di essa non giace
un’umanistica logica “del mantenere e del conservare”? Dico la logica
della memoria, della ricerca di senso, che si compie riconoscendo gli
infiniti fili della trama storica da cui discendiamo filamenti tutti virtualmente vitali; e che dunque può assicurare gli estremi della conoscenza
come convivenza nella, attraverso, per mezzo della diversità.
Il rispetto del passato, di cui parlava Croce, è una forma di commiato, celebrato del passato «proprio per poterlo abbandonare e cangiare» 146. L’ottica in cui ci muoviamo noi, anche se probabilmente non
del tutto e necessariamente acrociana, è però diversamente orientata,
e mira al conoscere e al riconoscere. Ciò spinge a chiedersi se ritenere davvero conosciuta, ai fini della presente ricerca di un paradigma
della storia dell’estetica adeguato alle esigenze della nostra episteme,
la prospettiva crociana osservata, come qui s’è fatto, solo nel giro di
alcune considerazioni suggerite pur da un testo esemplare come la sua
“Storia”. Ne può suscitare il sospetto un’acuta riflessione gariniana,
che ricorda come Croce riconoscesse «che il suo trattato del 1902 era
stato largamente superato da lui stesso, ed era vero: solo che, come
non aveva dato la nuova “metodica storica” che sostituisse la da lui
respinta filosofia della storia, così non aveva dato quei trattati in cui si
particolarizzasse il progresso della sua riflessione, e alla genericità delle
originarie categorie si sostituissero strumenti adeguati e funzionali. I
saggi e le note che via via scriverà sulla liricità dell’arte, sulla poesia,
sulla letteratura, sull’oratoria, si potranno connettere con le sue ricerche storiche (sul “barocco”, sulla “poesia popolare”, e così via), ma
non si scioglieranno mai completamente dai presupposti generali fissati
nel 1902, né chiariranno i loro rapporti con quei presupposti, e quindi
non consentiranno la formulazione di quelle nuove vedute che pure si
sentono urgere di continuo nelle pagine crociane» 147.
È allora da chiedersi se nell’enciclopedia crociana, negli anfratti di
una produzione dilagata lungo tutta la prima metà di questo secolo,
nella sua “ricerca senza fine” e negli “affinamenti” da lui rivendicati al
suo incessante teorizzare, nelle stesse polemiche aperte da quest’opera
immane, e negli stimolanti contraddittori che essa ha suscitato, non
riposino elementi importanti anche per il nostro argomento. Lieviti
di quelle “nuove vedute che pure si sentono urgere di continuo nelle
pagine crociane”, vedute che forse sono le stesse che noi ricerchiamo.
Ma questo è un altro discorso. Anzi: un altro libro.
139
1
Croce 1902, pp. 157-59. Croce, a partire dalla terza edizione (1908), nella quale come
è noto rimaneggiò profondamente la “Teoria”, produsse modifiche anche nella “Storia”, e
particolarmente sensibili nei passaggi che interessano direttamente il nostro esame. In assenza
dell’edizione critica, faremo uso sempre e solo della versione originale, salvo segnalare variazioni successive suscettibili d’interesse.
2 Croce 1908, pp. 175-77.
3 Croce 1941, pp. 169-71. Aggiungo che in questa ultima edizione il titoletto a margine
del passo, che nella prima era: «Punto di vista di questa Storia dell’Estetica», diventa: «Concetto di questa storia dell’Estetica».
4 Croce 1902, p. 448. Corsivi dell’autore. Le citazioni si potrebbero agevolmente moltiplicare; per es., ivi, p. 515: «[…] tre libri del secolo xviii, che mostrano l’Estetica come
scienza nella ingenuità della sua infanzia».
5 Croce 1902, pp. 134-36. Anche questo paragrafo è stato sensibilmente rimaneggiato
nella terza edizione (le modifiche successive sono di carattere formale); annoteremo via via
le variazioni per i singoli passi citati nel testo.
6 Croce 1902, pp. 134-35. Nella terza edizione (1908, p. 153) il passo è cosi formulato:
«Siffatto concetto del progresso […] è il punto di vista dello storico dell’umanità. Chiunque
non sia semplice raccoglitore di fatti slegati, puro ricercatore o incoerente cronista, non può
mettere insieme la più piccola narrazione di fatti umani, se non ha un punto di vista determinato, ossia una sua propria convinzione circa il concetto dei fatti di cui assume di fare la
storia». Infine (1941, p. 147), è stata eliminata la locuzione «punto di vista» o sostituita con
«criterio»: «Da siffatto concetto del progresso […] muove lo storico dell’umanità. Chiunque
[…] se non possiede un suo criterio determinato […]».
7 Croce 1902, p. 135. Qui le modifiche sono sostanziali già nel 1908, p. 153: «Lo storico
di un’azione pratica deve sapere che cosa è economia e che cosa è morale; lo storico delle
matematiche, che cosa sono le matematiche; quello della botanica, che cosa è la botanica;
quello della filosofia, che cosa è la filosofia. O se queste cose non le sa davvero, deve almeno
illudersi di saperle; altrimenti non potrà neppure illudersi di raccontare una storia».
8 Croce 1902, p. 135. Corsivi dell’autore.
9 Croce 1902, p. 136. Corsivo dell’autore.
10 Croce 1902, p. 135. Corsivo dell’autore.
11 Cfr. infra, pp. 52-53.
12 Croce 1902, pp. 135-36. Corsivi dell’autore. Nel 1908, p. 154, il passo diventa: «Nella
stessa storiografia dell’Estetica, si ha forse una sola opera di qualche valore che non sia condotta dal punto di vista di questo o quello indirizzo (hegeliano o herbartiano), da un punto di vista sensualistico o da uno eclettico e via dicendo?»; nel 1941, p. 148: «Nella stessa storiografia
dell’Estetica, si ha forse una sola opera di qualche valore che non sia condotta secondo questo
o quello indirizzo storico, hegeliano o herbartiano, sensualistico, eclettico, e via dicendo?».
13 Croce 1902, p. 136. Corsivo dell’autore. È molto suggestiva la chiusa del paragrafo:
«Non si dia credito agli storici che professano di voler interrogare i fatti, senza mettervi
dentro niente di proprio: è quella una loro ingenuità ed illusione: l’alcunché di proprio, se
sono storici per davvero, ve lo metteranno sempre, anche senz’accorgersene; o crederanno di
averlo evitato solo perché vi avranno accennato per sottintesi, ch’è poi il modo più insinuante
e penetrativo».
14 Croce 1893, pp. 18-19; e ancora poco dopo, nella Critica letteraria (1894, p. 116),
affermava: «la frase, che dovrebbe essere il motto d’ordine dello storico puro: “Spiego, non
giudico”».
15
Croce 1915, pp. 345-46: «E quando (e fu nel 1905) m’immersi nella lettura dei libri
dello Hegel, mettendo da banda scolari e commentatori, mi parve d’immergermi in me stesso
e di dibattermi con la mia stessa coscienza. Senonché, appunto per essere io venuto a quello
studio con varia esperienza di cultura e con una sistemazione già delineata della filosofia e
con la già eseguita critica di talune dottrine hegeliane sostituite da altre più valide, nemmeno
in quel periodo fui “hegeliano”. […] Comunque, studiare lo Hegel e giovarmi di lui doveva
essere, nel 1905, insieme un criticarlo e dissolverlo».
16 Sasso 1984, p. 145.
17
Cfr., ad esempio, il saggio crociano Sulla concezione materialistica della storia (1896,
part. pp. 7-8), che è una lunga recensione al coevo Del materialismo storico di Labriola.
18
Cfr. come viene articolata la nozione di progresso, per esempio, ne La Storia come
pensiero e come azione (1938b, part. p. 37 ss.) e in due note posteriori (rispettivate 1940b,
p. 219, e 1948, p. 324): «Senza il concetto del progresso, il quale, riconoscendo che niente
140
va perduto dell’opera umana, considera ogni nuova storia, quali che ne siano le sembianze
e le apparenze, muoventesi o travagliantesi di necessità sopra un piano più alto della storia
precedente perché include questa in sé, la storia certamente sarebbe inintelligibile e impensabile, un fare e disfare, un creare e annientare, che alla mente si configurerebbe come una
cronaca incoerente e alla pratica non porgerebbe alcun filo per l’azione»; «il progresso non
è altro che il ritmo dello spirito stesso, col quale soltanto si può interpretare e intendere la
storia, e verso la quale soltanto si può e si deve indirizzare la vita morale».
19 Cfr. Droysen, pp. 300-01: «Io non so che farmi di codesta sorta di oggettività da eunuchi. Io non voglio sembrar di avere di più, ma neanche di meno che la verità relativa del mio
punto di vista, quale mi hanno consentito di conseguire la mia patria, le mie convinzioni politiche e religiose, il mio serio studio. Ciò è ben lontano da quella pretesa di un’opera che duri
eterna, è invece cosa sotto ogni aspetto unilaterale e limitata. Ma bisogna avere il coraggio di
ammettere tale limitazione e consolarsi al pensiero che ciò che è limitato e particolare è più
ricco e sostanzioso del generale e del generalissimo». Croce andò maturando la revisione della
concezione inizialmente professata dell’obiettività della storia (cfr. supra, n. 14) a partire dal
primo dei suoi saggi sul materialismo storico, dove affermava (1896, p. 10): «È appena necessario rammentare come si venga via via superando l’ingenua credenza comune dell’obiettività
dello storico; quasi che le cose parlino e lo storico stia ad ascoltare e a registrare le loro voci.
Chi si mette a comporre storie ha innanzi documenti e racconti, ossia piccole parti e segni di
ciò che è realmente accaduto; e, per provarsi a ricostruire l’intero processo, gli è necessario
ricorrere a una serie di presupposti, che sono le idee e le notizie che egli possiede delle cose
della natura, dell’uomo, della società. I pezzi necessarî per compiere l’oggetto, di cui non ha
innanzi se non frammenti, li deve ritrovare in sé stesso; e nell’esattezza dell’adattamento si
manifesta il valor suo, la sua genialità di storico».
20 Il riferimento è alla partecipazione di Croce al “Congresso internazionale di scienze
storiche”, tenutosi in Roma dall’1 al 9 aprile del 1903, nel quale egli presentò due memorie:
la prima, Per la storia della critica e storiografia letteraria, venne poi ristampata nei Problemi
di Estetica; la seconda, Soggettività ed oggettività nella storiografia, nelle Pagine sparse. Ma
il tema della soggettività storica continuò a essere costantemente ripensato da Croce, già a
partire dai Lineamenti, pp. 92-93.
21 Croce 1922, p. xiii.
22 Gentile, proprio all’inizio del suo sodalizio con Croce, nel 1897, ne recensì la memoria
sulla Storia, dove cominciò a introdurre il tema dei rapporti fra filosofia e storia della filosofia, ripreso l’anno seguente nella Prefazione al suo volume Rosmini e Gioberti, a sua volta
recensito da Croce, dove si trova una precoce enunciazione della dottrina del “circolo” tra
storia e filosofia. A partire da questa pubblicazione, il tema entrò nella loro corrispondenza
(lettera di Croce 1896-1924, p. 28, del 18 ottobre 1898, che manifestò le prime perplessità
per le vedute gentiliane – «come allora voi unificate filosofia e storia della filosofia?»; corsivo
dell’autore – sviluppate nella corrispondenza successiva). Su ciò cfr. Sasso 1976, part. p. 897
ss., Bruno 1983 e Rizzo Celona 1983.
23 Croce 1902, p. 158.
24 Rosmini 1836, p. 5: «Si possono distinguere quasi tre periodi della filosofia: nel primo periodo v’ha una filosofia volgare, indulgente con se medesima, che o non vede o vede
oscuramente le difficoltà, e che perciò le spiega con delle ipotesi grossamente o almeno
confusamente da lei immaginate: nel secondo periodo la filosofia si è resa dotta, e ha già ben
sentite le difficoltà che si attraversano alle prime sue ipotesi; quindi disdegna le antiche e
volgari teorie; e questo è il tempo nel quale si fabbricano de’ sistemi ingegnosi e difficili, ma
che solitamente peccano per eccesso, come i primi peccavano per difetto». Rosmini, classificando le teorie della conoscenza, intitola la terza sezione del suo trattato (ivi, pp. 15-186)
«Teorie false per difetto, cioè perché non assegnano alle idee una sufficiente cagione», e vi
include Locke, Condillac, Reid, Stewart; e la quarta «Teorie false per eccesso, cioè perché
assegnano alle idee una cagione soverchia», e vi include Platone, Aristotele, Leibniz e Kant.
25 Malusa 1977, p. 21.
26 Malusa 1977, pp. 20-21.
27 Annoto che, pur in relazione a un aspetto particolare di metodologia, Croce (1899c, pp.
168-69) ha manifestato, in quegli anni, il suo apprezzamento per alcuni modelli storiografici
italiani: «Che cosa significa domandarsi quale sia il pensiero di uno scrittore? Uno scrittore
ha creduto di pensare tutto ciò che ha scritto e che dicono le sue parole: osservazioni, ragionamenti, ghiribizzi sentimentali e fantasticherie. Ma quando noi diciamo: “Il vero pensiero
di Aristotele fu...”, o “Il vero pensiero del Kant fu...”, facciamo una scelta, oltrepassando la
141
materialità della parola: abbandoniamo una parte come scoria, e cerchiamo, non ciò che lo
scrittore ha creduto di pensare, ma ciò che ha realmente pensato per la forza delle premesse
da cui muoveva. […] Questa distinzione tra pensiero reale ed elementi estranei è nota a tutti
coloro che indagano la storia delle scienze, e non potrebbe scriversi storia di scienza senza valersene. In Italia abbiamo due modelli di storie condotte a questo modo: gli scritti di Bertrando
Spaventa sulla filosofia italiana dal Rinascimento al Risorgimento, e la Storia della letteratura
italiana di Francesco de Sanctis, che un criterio analogo adoperava nel dominio estetico, e i
poeti considerava non secondo ciò che vollero fare, ma secondo ciò che obiettivamente fecero.
Nostra vergogna non pregiare abbastanza questi libri, e non averli additati agli stranieri come
frutti, tra i più degni, dell’ingegno italico».
28 Croce 1902, p. 520.
29 Cfr. infra, p. 69, n. 13.
30 Croce 1901a, p. 193.
31 Più precisamente, questa nota va inquadrata nell’orbita del dibattito scientifico e metateorico sul materialismo storico, e i congiunti temi della filosofia della storia e la teoria
dell’economia, al quale sono dedicati alcuni famosi lavori stesi da Croce sul finire del secolo,
poi raccolti in Materialismo storico ed economia marxistica, e segnatamente: la recensione a
Stammler (1898b), la polemica con Racca (1899c), le due lettere a Pareto (1900b) e la coeva
recensione a Gobbi (1901e).
32 Croce 1901a, pp. 194-95, n. 1. I due articoli sono: Dei criteri che debbono informare la
storia delle dottrine economiche (1898) di Pantaleoni, e Una questione di metodo nella storia
delle dottrine economiche (1899) di Montemartini.
33 Croce 1901a, pp. 193-99. Trascrivo in corsivo le proposizioni crociane avvisando che,
nella realizzazione tipografica del testo originale, sono composte in carattere spaziato.
34 Corsi 1951, pp. 4-5. Corsi collega l’accezione che si trova nei primi lavori crociani al
magistero di Vera 1896, p. 5: «Quello che vale a costituire una scienza è un complesso di
principi coordinati sistematicamente; ovvero è il pensiero che intorno a un dato obietto sa
donde parte e dove vuol giungere, e che percorre metodicamente tutti i punti intermedi tra
il principio e la fine. In altre parole, considerando la cosa da un punto di vista subiettivo o
del pensiero che diviene e si eleva alla scienza, la scienza non è possibile senza un tutto ben
coordinato, un insieme di principi, di cui il pensiero ha acquistato una chiara coscienza».
35 Croce 1893, p. 16.
36 Croce 1894b, p. 51. La conclusione del passo è: «La semplice notizia, o descrizione o
narrazione o rappresentazione delle cose, per importante che sia, scienza non è. E perciò la
storia sarà tutto quello che si vuole, ma non è scienza».
37 Croce 1895, p. 64. Croce riporta questa sua distinzione «alle due grandi forme del
sapere nel Vico: la Filosofia e la Filologia. «La Filosofia contempla la Ragione, onde viene la
Scienza del Vero: la Filologia osserva l’Autorità dell’Umano Arbitrio, onde viene la Coscienza
del Certo». Va registrato che molti decenni dopo Croce (1945, p. 187) parlerà dello «scarso
vigore» di Dilthey, che gli «apparve quando giovane lesse la Einleitung in die Geisteswissenschaften. Il merito vero del Dilthey è nelle sue squisite indagini di storia». Sui non lineari
rapporti di Croce con Dilthey cfr. Tessitore 1985, pp. 287-308.
38 Croce 1904-5, pp. 208-10: «Le scienze naturali non son altro che edifizii di pseuconcetti,
come può persuadersi chiunque si faccia ad esaminare una qualsiasi di esse. […] Le scienze
naturali vogliono essere, e sono, scienze di fenomeni, cioè scienze di ciò che non è oggetto di
scienza, fuorché per atto di volontà; ed esse riducono le rappresentazioni alla forma concettuale
con gli stessi metodi persuasivi, coi quali si acciuffa la gente per il collo e si caccia in prigione».
39 Croce 1904-05, p. 231: «[…] la filosofia e le scienze naturali hanno fondamenta diverse, ed è tanto dannoso il procedere del naturalista, applicato ai problemi filosofici, quanto
quello del filosofo, applicato ai problemi naturalistici. […] La filosofia non sorpassa, con un
pensiero superiore, quello, inferiore, delle astrazioni naturalistiche; ma è il pensiero, il solo
pensiero, di fronte a ciò che non è pensiero».
40 Croce 1904-05, p. 238 ss. Annoto che il nucleo di questa critica della classificazione
delle scienze si trova già anticipato in un commento crociano al libro di Trivero La classificazione delle scienze, contenuto in una lettera a Gentile del 3 dicembre 1899 (1896-1924, p.
65): «Egli non si propone punto il problema preliminare: se sia possibile una classificazione
delle scienze. Se se lo fosse proposto, si sarebbe accorto che una classificazione scientifica delle
scienze, importa che la Scienza abbia risoluto tutti i suoi problemi; nel qual caso non c’è
neanche bisogno di classificar le scienze perché queste han cessato di esistere!».
41 Croce 1896b, p. 29.
142
Croce 1896-1924, p. 28. Corsivo dell’autore.
Croce 1896b, p. 29.
44 Croce 1899c, pp. 175-76.
45
Croce 1896, p. 205. Corsivi dell’autore.
46 Croce 1900, p. 109. Corsivi dell’autore.
47 Croce 1896, p. 18.
48 Ibidem: «La geometria è nata, di certo, in date condizioni, che importa determinare;
ma non per questo le verità geometriche sono qualcosa di relativo e contingente».
49 Croce 1896c, p. 31.
50 Croce 1896c, p. 39.
51 Croce 1896c, p. 46.
52 Croce 1897, 82.
53 Croce 1897, pp. 82-83.
54 Croce 1897, p. 83n.
55 Croce 1897, pp. 101-02.
56 Croce 1899c, pp. 168-69.
57 Croce 1899b, p. 33.
58 Croce 1901a, p. 194.
59 Croce 1901a, p. 196.
60 Ibidem.
61 Ibidem.
62 Croce 1901a, p. 198.
63 Croce 1901a, p. 194.
64 Sasso 1966, p. 51,
65 Croce 1905, p. 402.
66 Cit. in Croce 1905, pp. 403-04.
67 Croce 1905, p. 403.
68 Croce 1905, p. 404.
69 Croce 1940d, p. 290.
70 Gilbert e Kuhn 1939, p. 550. Per omogeneità riporto questa, e le citazioni successive,
nella trad. it. di Croce.
71 Cfr. infra, p. 116 ss.
72 Croce 1940d, p. 290.
73 Gilbert e Kuhn 1939, p. 550.
74 Croce 1940d, p. 290. Per altro, questo è un punto fermo della storiografia filosofica
crociana, ribadito in data coeva (1940, pp. 60-61): «Alla figura dello storico, vuoto di filosofia,
succede l’altra, ben diversa, del filosofo, che in funzione del suo proprio pensiero è storico, e
il solo degno storico, del pensiero umano. Prima la filosofia era consegnata nelle mani, che si
stimavano incontaminate e pure, dei non filosofi, i quali non sapevano che cosa ella fosse e le
muovevano obiezioni e accuse da incompetenti o addirittura da barbari; ora, non si ammette
per lei altro giudizio che quello dei pari. E, in verità, solo chi ha veramente portato innanzi
un punto qualsiasi di dottrina rifà o intende la serie storica che ha preparato quel progresso».
75 Croce 1905, p. 407.
76 Gilbert e Kuhn 1939, p. 550.
77 Agazzi 1962, pp. 498-99.
78 Croce 1901a, p. 194.
79 Croce 1917, pp. 19-21: «Costruire una storia con cose esterne è semplicemente impossibile, per isforzi che si facciano e industrie che si adoperino. […] La storia filologica si
riduce al travasamento di più libri o di più parti di varî libri in un nuovo libro: operazione
che reca anche nel linguaggio corrente un nome appropriato, e si dice “compilazione”. Le
quali compilazioni sono di frequente utili, perché risparmiano la fatica di maneggiare più
libri d’insieme; ma non contengono alcun pensiero storico. […] la storia filologica può essere
bensì corretta, ma non già vera (richtig, e non wahr). E, come è priva di verità, così essa è
priva di vero interesse storico, ossia non reca luce intorno a un ordine di fatti che risponda
a un bisogno pratico ed etico».
80 Croce 1901a, p. 195.
81 Ibidem.
82 Croce 1896-1924, p. 109. Mette conto riportare Cassirer 1932, p. 382: «Anche tutto ciò
che, considerato in sé, potrebbe sembrare una deviazione e un errore entro l’estetica del secolo xviii, ha la sua parte diretta nel sorgere e nella definitiva determinazione di questa forma».
42
43
143
Croce 1901a, p. 197.
Ibidem.
85 Ibidem.
86
Croce 1938b, p. 292.
87 Ibidem.
88 Croce 1938b, p. 293.
89 Croce 1950, p. 184. La citazione è tratta da una nota ancora più tarda, nella quale Croce riproporrà il tema della preistoria, ma pur valorizzando maggiormente il congiungimento
materiale fra storia e preistoria ne ribadirà la sostanziale alterità: «Noi abbiamo bensì negato
l’equiparazione e l’esterno accostamento delle trattazioni preistoriche a quelle storiche, ma
non già la congiunzione intrinseca che vive nelle cose stesse. La risoluzione dei nostri svariati
problemi storici richiede che noi tocchiamo e facciamo risonare molteplici tasti e i riferimenti
ai più varî dati di fatto che concorrono e si annodano in essi, tra i quali non possono mancare
quelli della preistoria con parte più o meno larga secondo la qualità dei problemi trattati
[…]. – Ma niente più di questo? – si dirà. – Una storia a sprazzi? La pienezza delle relazioni
storiche, quale l’abbiamo per la storia antica, medievale e moderna, non l’avremo per l’età
preistorica? – Mi par difficile, perché troppo il genere umano ha distanziato quelle condizioni
primitive e non ne serba il ricordo, come noi non serbiamo quello di quando eravamo nelle
fasce, e appunto solo a sprazzi l’altro degli anni dell’infanzia» (ivi, pp. 183-84).
90 Croce 1916, p. 91.
91 Ibidem.
92 Croce 1916, p. 97.
93 Croce 1916, p. 100.
94 Croce 1916, p. 113.
95 Croce 1929, p. 34.
96 Croce 1941, p. xi.
97 Batteux 1746, p. 33: «Imitiamo i veri fisici, che accumulano esperienze e poi fondano
su queste un sistema che le riconduce a un principio».
98 Baumgarten 1735, p. 93: « Sono dunque i noetá da conoscersi mediante la facoltà
conoscitiva superiore, oggetto della logica; e gli aisthetá oggetto della scienza estetica, ovvero
Estetica».
99 Baumgarten 1950-58, § 1: «Aesthetica (theoria liberalium artium, gnoseologia inferior, ars pulcre cogitandi, ars analogi rationis,) est scientia cognitionis sensitivæ».
100 Si tratta di una notizia ritrovata da Croce (1935b, pp. 334-40) in un ragguaglio contenuto in un raro testo del 1756, intitolato “Saggio critico della corrente letteratura straniera”
e pubblicato a Modena dal gesuita veneziano Francesco Antonio Zaccaria come appendice
alla sua rivista letteraria intitolata “Storia letteraria d’Italia“, nella rubrica “Notizie d’altri
libri. P. I. Libri di belle lettere”. Lo Zaccaria, integralmente riportato da Croce, riferiva tra
l’altro: «Ora il signor Giorgio Andrea Willio per andare incontro alla stitichezza di coloro
che torcono il naso a tutto ciò che porta il carattere di nuovo, ha impreso […] a dimostrare,
che i precetti di quest’arte sono antichissimi, e si trovano seminati ne’ libri di molti eccellenti
scrittori, non avendo que’ due moderni nominati Autori altro merito, il quale non è picciolo,
che d’averli raccolti insieme, posti in ordine e dimostrati scientificamente, onde anche alla
loro Aesthetica danno il titolo di scienza. Né in ciò è convenuto al nostro valente Professore
durare molta fatica, giacché tutti quelli, che hanno filosoficamente trattato della Poetica e
Oratoria del buon gusto, e del bello di queste due Arti, si possono, anzi si devono ridurre
all’Aesthetica, che anche Scienza del bello viene chiamata».
101 Kant 1781, pp. 66-67: «I tedeschi sono i soli, che si servano al presente della parola
estetica per indicare ciò che gli altri chiamano critica del gusto. La ragione sta nella fallita
speranza dell’eccellente analista Baumgarten, il quale credette di ridurre a princìpi razionali
il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza. Ma codesto sforzo è vano. […]
È perciò ragionevole o abbandonare di nuovo questa denominazione […]; oppure assegnare
la parola sia alla filosofia speculativa sia all’estetica, prendendola ora in senso trascendentale,
ora in senso psicologico».
102 Hegel, p. 5. Corsivi dell’autore.
103 Müller 1834-37, i, p. 27.
104 Ibidem.
105 Müller 1834-37, ii, p. 1.
106
Zimmermann 1858, pp. viii-x.
107 Sulzer 1771-74, i, p. 203.
83
84
144
Koller 1799, p. 9.
Bülffinger 1725, § 268: «Vellem existerent, qui circa facultatem sentiendi, imaginandi,
attendendi, abstraendi et memoriam præstarent, quæ bonus ille Aristoteles, adeo hodie omnibus sordens, præstitit circa intellectum, hoc est, ut in artis formam redigerent, quicquid ad
illas in suo usu dirigendas, et iuvandas pertinet, et conducit, quemadmodum Aristoteles in
organo logicam sive facultatem demonstrandi redegit in ordinem, neque enim ista impossibilia
putem, aut inutilia».
110 Koller 1799, pp. 27-28.
111 Zimmermann 1858, pp. xii-xiii.
112 Zimmermann 1858, p. 147.
113 Zimmermann 1858, p. 154.
114 Zimmermann 1858, p. xiii.
115 Barone 1975, pp. 50-51.
116 Walter 1893, pp. v-vi.
117 Bosanquet 1892, pp. 77-8: «It is only the simple truth if we say that no speculative
thinker of at all the same calibre as Aristotle existed again before the time of Descartes, no
formatrivc artist singly on a level with Praxiteles before the time of Giotto, no poet having the
strictly poetic greatness of the Athenian dramatist before the time of Dante. And if we were
resolved to take account of nothing but the supreme moments of the aesthetic consciousness,
and the clearest crystallizations of the thought that reflects upon it, we should at this point be
forced to the salto mortale of 1,600 years to Dante, or 2,000 to Burke or Lessing. But such
a procedure could only be justified if it were the fact, or if it were conceivable that after this
immense interval, wich would then be inexplicable, the thread of reflection and production
had been taken up again from the point at which it was dropped. Now the fact is, on the
contrary, that in this interval the aesthetic consciousness had traversed an enormous distance
from its Hellenic origin, partly as latent in the general movement of mind and history, but
partly also in its own shape as art and literatrure and critical or speculative reflection upon
beauty». Tatarkiewicz 1970, p. 10, ha così motivato la nozione di “estetica implicita”: «Se lo
storico dell’estetica dovesse desumere il suo materiale unicamente dagli studiosi di estetica, non
sarebbe in grado di fornire un quadro completo di ciò che fu in passato il pensiero sull’arte
e sul bello. […] Intesa nel senso più ampio, la storia dell’estetica non contiene soltanto le
enunciazioni esplicite degli studiosi della materia, ma anche quelle implicite nel gusto corrente
o nelle stesse opere d’arte. Non dovrebbe comprenddere soltanto la teoria estetica, ma anche
quella pratica artistica che la rivela. Lo storico può venire a conoscenza di alcune delle teorie
estetiche del passato semplicemente leggendo libri e manoscritti, ma altre dovrà ricavarle dalle
opere d’arte, dalla moda, dai costumi».
118 Menéndez Pelayo 1883-91, p. 4. La formula di estetica “antica e moderna” è stata
recentemente riattivata da Modica 1984 e Garroni 1986.
119 Tatarkiewicz 1961.
120 Venturi 1929; Kristeller 1951-52; De Mauro 1960.
121 Kristeller 1951-52, p. 277. Annoto che De Mauro 1960, pp. 374-75n, ha dimostrato
l’origine linguistica italiana, e non francese, della locuzione “belle arti”, in sviluppo da quella
di “arti del disegno”, adoperata dal Vasari. Tatarkiewicz, 1963, ha rintracciato nel Cours
d’Architecture (1675) di François Blondel elementi che parrebbero anticipare pienamente
Batteux, tranne per la dizione di “belle arti”, ancora assente. Blondel infatti mette insieme le
tre «arti sorelle» architettura, scultura e pittura, e a esse aggrega eloquenza, poesia, musica,
e danza, cioè tutte le arti successivamente sistematizzate da Batteux; inoltre, esse sarebbero
accomunate da un piacere «fondé sur le même principe»: «l’unité d’harmonie»; con solidi argomenti però Bollino, 1976, p. 173, ha ridimensionato l’episodio riconfermando “il primato”
di Batteux. Riporto infine Folkierski, 1925, pp. 130-31: «Nous avons trouvé au xviiie siècle
deux tendances parallèles pour ramener les arts à un seul principe: l’une d’elles s’appuyait sur
le concept de belle nature, l’autre sur la méthode historique; la première fut celle de Batteux,
la second celle de Vico, Warburton et Condillac».
122 Bollino 1976, p. 83, ha osservato: «nella postulazione di una omogeneità fondamentale del campo garantita da un principio unico (e non inficiata dalla molteplicità di regole,
techniche e poetiche particolari), si determinano le condizioni idonee affinché la riflessione
sulle belle arti si disponga su un piano propriamente teorico»; Modica 1987, p. 68, ritiene
invece «che il rilievo assegnato all’esthéticien debba essere ridimensionato». In nome del
“nemo profetas patriæ”, e nella scia di ruggini antiche, a “ridimensionare” Batteux sono in
prima fila, anche se in scarsa compagnia, certi suoi conterranei odierni. Per esempio, lungo
108
109
145
tutto il volume di storia dell’estetica del Bayer (1961) Batteux è ricordato solo una volta
di passaggio (p. 160), in un inciso molto limitante e in mera funzione di Mendelssohn; nel
più recente volume di Todorov, 1977, p. 164, poi viene “apprezzato” con queste parole: «Il
ragionamento di Batteux è degno di nota per la sua cecità».
123 Torrigiani 1984, p. 24: «Con i Beaux-Arts si delinea dunque per la prima volta in modo
netto quella provincia della cultura che oggi chiamiamo estetica. Gli autori che successivamente
si avvicineranno a questo ambito di problemi conserveranno sostanzialmente le strutture batteuxiane; magari si cercherà di rafforzare le connessioni, si muterà qualche elemento, lasciando
sempre invariato l’assetto strutturale»
124 Cassirer 1932, pp. 385-86: «Come la natura sottostà con tutte le sue forme a determinati principi e come il compito supremo della sua conoscenza consiste nell’impadronirsi di
questi principi e nell’esprimerli con chiara certezza, così anche l’emula della natura, l’arte, è
legata al medesimo compito. Come esistono leggi universali e inviolabili della natura, devono
esistere leggi della stessa specie e della stessa dignità anche per la “imitazione della natura”.
Infine tutte queste leggi parziali si devono poter inserire e subordinare a un principio unico
e semplice, e a un assioma dell’imitazione in genere. Il Batteux espresse questa convinzione
fondamentale fin dal titolo della sua opera principale. “Les beaux arts réduits à un même
principe”: questo è il titolo e si direbbe che vi si annunci il raggiungimento di tutte le mète
metodiche dei secoli xvii e xviii».
125 Migliorini 1986, p. 29.
126 Per esempio, Croce nel 1934, p. 120, criticherà l’«eine grosse Lücke» della storia
dell’estetica proclamata da Zimmermann: «una lacuna nella quale è compreso (poiché non se
ne tiene conto) tutto l’alacre lavoro sulla teoria della poesia, della letteratura e dell’arte, che,
muovendo appunto da Aristotele e dagli altri trattatisti antichi, fu compiuto nel Rinascimento
e nei secoli decimosesto e decimosettimo, segnatamente in Italia, ma anche in Francia e in
Ispagna e altrove». E affermerà: «Qui si travagliava e cresceva la vera e propria Estetica».
127 Formaggio 1979, p. 266.
128 Garroni 1986.
129 Tatarkiewicz 1970b, p. x: «Terminare questo volume con l’anno 1700 può sembrare
arbitrario. Tale data è stata scelta […] anche nella convinzione che questa data costituisca
uno spartiacque nella storia dell’estetica. […] Solo dopo il 1700 incontriamo il termine “estetica”; solo allora viene fatto il tentativo di trasformare l’estetica in una disciplina autonoma.
[…] L’estetica “moderna” in questo ultimo senso non è l’argomento della presente Storia
dell’estetica».
130 Ovviamente, il riferimento è al classico studio omonimo, di marcata ispirazione crociana, di Rostagni 1920, pp. 356-57: «[…] che presso i [...] Greci e Romani fossero dottrine
capaci di definire l’Arte nella sua essenza e nella sua funzione, dottrine corrispondenti a
quelle che l’Estetica moderna considera come le sue più gloriose ed ardue conquiste; che, in
particolare, vi fosse qualcuno il quale, con precisa coscienza, superasse la maggior parte di
quei concetti pseudoestetici, di quelle categorie e classificazioni e qualifiche contro le quali
noi ancor oggi combattiamo: questa è cosa che suppongo nuova e che intendo illustrare e
dimostrare».
131 Su questa rivitalizzazione cfr. infra, p. 95, n. 4.
132 Banfi 1955, p. 1039: «L’estetica nasce, di fatto, romantica e idealistica come disciplina
filosofica, e questo suo carattere d’origine si mantiene attraverso più di un secolo, sino a
raggiungere la sua forma più dogmaticamente astratta ed ingenua nell’estetica dell’idealismo
italiano». Effettivamente, sul problema della nascita dell’estetica si può parlare, in generale,
di soluzione dell’estetica idealistica, in quanto riguardo a questo punto vi fu un completo
appiattimento sulle posizioni di Croce da parte di Gentile 1943, p. 306: «L’estetica filosofica
è nata nell’età moderna, perché gli antichi ignorano il mondo in cui l’arte ha il suo posto, e
quindi tutte le affermazioni, che i filosofi antichi ebbero occasione di fare intorno all’attività
artistica e al bello, appartengono alla preistoria, non alla storia dell’estetica. […] In quella
preistoria si possono trovare felici e vaghi presentimenti, ma nulla che sia dedotto da un
concetto coerente al principio e al metodo della filosofia».
133 Fanizza 1983, pp. 67-68: «Secondo la ricostruzione crociana, l’Estetica, costituitasi
come “scienza” tra il ’600 e il ’700, si sarebbe per ciò stesso posta al seguito ed insieme al
culmine di un vasto processo che si potrebbe definire dell’unificazione e, comunque, della
coagulazione moderna dei vari discorsi sull’arte; ciò, peraltro, con la conseguenza molto
importante che lo stesso mondo delle arti, prima d’allora, disperso nella molteplicità irrelata delle artes, costituendosi invece appunto nel “sistema moderno delle arti”, avrebbe in
146
questo modo cominciato a darsi un suo proprio unitario e specifico linguaggio: quasi che la
coscienza artistica, ormai divenuta a pieno titolo coscienza estetica, non avesse più bisogno,
per parlare di sé, di ricorrere ad altri lessici esterni o estranei. Pertanto, sempre secondo la
prospettiva crociana, sarebbe così avvenuto che la realtà epistemologica dell’Estetica sarebbe
via via coincisa con la fondazione di una omogeneità teorica, sulla cui base avrebbero peraltro ottenuto legittimazione e finanche valorizzazione tutte le precedenti dottrine sull’arte
e sulla poesia, tutte le intuizioni e le anticipazioni, che, invece, sino a quel momento, erano
dovute rimanere o nell’anomia che è propria dei pensieri immaturi o nell’indeterminatezza
dei semplici precorrimenti. Ora, se è così, è evidente in qual misura, in Croce l’intera sua
operazione ricostruttiva abbia avuto carattere eminentemente filosofico, o, meglio, quanto i
risultati di tale operazione debbano al reinvestimento rigorosamente teoretico dei fatti messo
in atto dalla particolare filosofia del Croce».
134 Dufrenne 1982, p. 12.
135 Tatarkiewicz 1970, p. 8: «Se la storia dell’estetica dovesse essere limitata a ciò che
apparve sotto tale nome, dovrebbe cominciare molto tardi, poiché fu Alexander Baumgarten
che, nel 1750, usò per la prima volta questo termine. Gli stessi problemi furono però dibattuti
assai prima sotto altri nomi. Il termine “estetica” non è importante e persino dopo che fu
coniato, non tutti lo accettarono».
136 L’attribuzione a Baumgarten del titolo di “padre” dell’estetica è stata sempre controversa. A fronte delle valutazioni positive di Zimmermann e Croce, che già abbiamo avuto occasione di ricordare, si può opporre, a titolo di esempio, quello molto limitativo di Menéndez
Pelayo, 188391, p. 1060: «A este feliz hallazgo del nombre de una ciencia, a la cual esperaban
luego tan altos destinos, se reduce toda la originalidad del descrubrimiento de Baumgartenn
cuya Estética apenas contiene idea alguna que pueda sernos útil en el actual estado de las
ideas». Divergenza che è continuata anche presso gli studiosi successivi. A titolo campionario:
Cassirer 1932, pp. 461-62, giudica che Baumgarten «gettò le basi filosofiche dell’estetica»;
Valjavec 1961, p. 267 registra che nel Settecento «sorse una teoria estetica in sé compiuta:
tale è il nome che essa ha ricevuto, come disciplina autonoma, dal suo fondatore Alexander
Baumgarten»; laddove Banfi 1947, pp. 197-98, ritiene che l’Aesthetica di Baumgarten «ha
la sua importanza proprio come uno dei più tipici aspetti della rivalutazione della sensibilità nel pensiero moderno contro il razionalismo, rivalutazione in cui la considerazione del
campo propriamente estetico e artistico ha un’influenza decisiva, mentre in questo stesso
campo tale rivalutazione corrisponde a un nuovo gusto, un nuovo senso critico e una nuova
concezione dell’arte. Le considerazioni estetiche del Baumgarten, nei loro particolari, benché
ricche di acute osservazioni rimangono disorganiche e non escono dai quadri dell’estetica
contemporanea».
137 Lukács 1954, p. 115: «L’opera estetica principale di Kant (Critica del giudizio) rappresenta una svolta nella storia dell’estetica. L’analisi filosofica dell’attività del soggetto estetico
viene posta al centro del metodo e del sistema, sia per quanto concerne il comportamento
estetico produttivo del soggetto, sia per quanto concerne il momento ricettivo del soggetto
stesso»; Gadamer 1960, p. 81: «La riflessione kantiana su un apriori del giudizio giustifica
bensì le pretese del giudizio estetico, ma fondamentalmente non permette la costituzione
di una estetica filosofica nel senso di una filosofia dell’arte (Kant stesso dice che alla critica
non corrisponde qui alcuna dottrina o metafisica)»; Garroni 1986, p. 25: Kant è «l’autentico
fondatore dell’estetica moderna».
138 Morawski 1982, p. 85: «Schelling cambia profondamente il modo di riflessione dichiarando che è il campo dell’arte che costituisce la quintessenza di ogni ricerca filosofica. È in
quel momento che l’estetica diventa filosofia dell’arte e comincia ad occuparsi dell’aisthesis
nella sua relazione diretta con l’opera d’arte».
139 Hogrebe 1982, p. 205n: «La polemica sulla priorità nella scoperta dell’estetica è
del tutto vana: dietro Baumgarten e anche un po’ dietro Vico c’è Leibniz; tuttavia ciò non
sminuisce minimamente l’originalità di entrambi e soprattutto il genio di Vico, di gran lunga
superiore a Baumgarten»; e p. 207: «L’archeologia filologica delle strutture culturali di Vico
(la natura comune dei popoli) e la protologica psicologica di Baumgarten fondano dunque
un nesso significativo per la storia delle idee […] istruiti dall’affinità tra Vico e Baumgarten,
considereremo l’estetica come una disciplina filosofica che ha a che fare con la natura comune dei
popoli di Vico nella misura in cui questa natura, sulla scorta di Baumgarten, è gnoseologicamente
accessibile» (corsivo dell’autore).
140
Nei testi crociani trovo riportato correttamente tale titolo solo nel saggio giovanile
sulla Critica letteraria (Croce 1894, p. 162 n. 2); laddove la svista, oltre che in tutte le edizioni
147
dell’Estetica, è presente anche nella già ricordata lettera scritta da Croce (1914-35, pp. 45-46)
a Bosanquet il 20 gennaio del 1920.
141 Fanizza 1972, p. 75.
142
Croce 1951, p. 222.
143 Croce 1951, p. 225.
144 Croce 1951, p. 226.
145 Croce 1938b, pp. 31-32.
146 Croce 1951, p. 226.
147 Garin 1966, p. 1297.
148
Postilla a mo’ di conclusione
Abbiamo iniziato questo saggio evocando la “vecchia questione”
se l’estetica sia scienza antica o moderna e in che senso sia legittimo
parlare di nascita dell’estetica. L’interesse di fondo che agiva tale rosa
problematica era quello, esplicito e del resto esplicitato, di chiarire se
nella nostra congerie di cultura, da tempo variamente intitolata alla
“fine della storia” (per ricalcare il titolo del noto volume omonimo
di Lefebvre), e nelle condizioni odierne della ricerca estetica, che da
decenni annovera un polimorfismo così spinto e divaricante di saperi
che minaccia di far deflagrare l’unità di campo della disciplina, abbia
tutt’ora senso, e a quali condizioni di rigore, configurare un discorso
scientifico intitolato alla storia dell’estetica.
È interrogazione, codesta, probabilmente non grossolana ma che
s’impiglia in archi tematici complessi, che non è agevole abbracciare
nella loro globalità. Se in astratto, comunque, l’esigenza di una messa a
fuoco storiografica si pone con non discutibili contrassegni di legittimità;
probabilmente la stessa situazione odierna, le pratiche defraglative che
attraversano il campo tradizionalmente attribuito all’estetica in quanto
sapere filosofico segnalano l’opportunità di una più calibrata considerazione della dimensione storiografica. In altri termini, se non è illusoria
la percezione del rischio di una grave impasse che, paradossalmente in
ragione della crescita rigogliosa dell’estetica, ne può insidiare l’evoluzione disciplinare, la domanda intorno alla forma di sapere chiamata
“storia dell’estetica” assume cogenza attuale, e merita attenzione maggiore di quanto, per regola, le sia stata finora riservata. Non si tratterà
infatti di consolarsi con la mera delibazione del passato, per evadere
dalle difficoltà del presente. Piuttosto di rimeditare, attraverso una spregiudicata considerazione dei diversi paradigmi storici della disciplina,
il costituirsi e l’intricarsi di nodi decisivi della riflessione estetica, che
minacciano di iugularne il futuro.
A questa (ri)apertura d’attenzione hanno voluto contribuire queste prime riflessioni, rivolte a indagare alcuni elementi significativi del
modello storiografico elaborato nella “Storia” del 1902 di Benedetto
Croce. E, come si conviene alla sede che ospita questo lavoro, arrestiamo qua la presente comunicazione preliminare. Pausa contingente
– precisiamo – in attesa, sia di concludere l’esame dei modelli della
149
storiografia estetica crociana, approfondendo i temi già toccati e integrandoli con gli interventi successivi e i dibattiti ai quali hanno dato
luogo, sia di presentare il risultato complessivo del più vasto raggio di
analisi metodologica nel quale siamo impegnati.
A mo’ di conclusione, in questa postilla, possono però già enuclearsi alcune prime risultanze, pur provvisorie. La concezione sottesa alla
nascita settecentesca dell’estetica è quella di progresso incrementale
del lavoro scientifico, ossia di uno sviluppo teorico conseguito per accumulazione consecutiva di conoscenze e linearizzato attraverso una
postulazione preventiva dell’identità dell’estetica come scienza filosofica,
determinabile secondo specifiche opzioni dottrinarie. Questo schema,
delineato a metà dell’Ottocento dal primo storiografo, lo Zimmermann,
nell’orgoglio disciplinare tributato al fiorire dell’estetica moderna, postbaumgarteniana e soprattutto postkantiana, fu accolto e potenziato da
Croce nella “Storia”, e ivi piegato a particolari esigenze teoriche e strategiche, richieste dalla sua radicale riformulazione paradigmatica dell’estetica. E però, assunto uno schema siffatto di esplicazione storiografica,
conseguono gravi inconvenienti.
Il primo, è d’identificare il sapere estetico con la forma di scienza filosofica resa possibile dall’episteme moderna, e quindi di dicotomizzare
rigidamente la tradizione disciplinare in due distinti segmenti, epistemici
e temporali, definiti in termini di “storia” e “preistoria”, che posseggono non una funzione analitica bensì una connotazione (s)valutativa. Il
secondo, è che diventa inevitabile una vanificazione della stessa istanza
storiografica, o almeno un suo depotenziamento che riduce la storia a
cronaca, alla mera tabulazione di materiali, che in quanto demarcati e
quindi privi di senso intrinseco, diventano pertinenti, e quindi possono
essere apprezzati o condannati o respinti, solo a condizione della loro
virtuale congruenza alla scala incrementale postulata. In questa prospettiva, infatti, lo scaglionamento temporale che individua la realtà storica
nella sua fattualità, in quanto definito dalla casualità delle combinazioni,
dagli intrecci accidentali da cui scaturiscono nuove acquisizioni conoscitive, svolge un ruolo di ridondanza o all’opposto di neutralizzazione
semantica, insomma un effetto cornice, potendosi indifferentemente,
gli accrescimenti disciplinari giudicati significativi, realizzarsi attraverso
salti e discontinuità epocali, o addirittura attraverso una consapevole
rimozione di segmenti storiografici portatori di una incompatibile marca
teorica.
In realtà, proprio l’Estetica di Croce, il ruolo rivestitovi dalla “Teoria” e la funzione assegnatavi alla “Storia”, smentiscono la plausibilità e
la produttività di un siffatto impianto storiografico. L’estetica di Croce
non nacque per accumulo conoscitivo, ma come ogni teoria originale, diciamo pure “rivoluzionaria”, attinti i propri nuclei genetici dalla
tradizione disciplinare e riformulatili nella plaga acronica del pensiero,
compiendo una frattura epistemica del paradigma precedente. L’esisten150
za di questa frattura, le strategie (teoriche e storiografiche) messe in
atto da Croce per propiziare la salvaguardia e l’affermazione del nuovo
paradigma disciplinare da lui determinato, risultano incomprensibili
se non si assuma un’ottica di comprensione che articoli nella sua genuina produttività l’istanza storiografica. Diversamente detto: la stessa
“Storia” di Croce risulta inintelligibile, rimane un arbitrario e irritante
pamphlet polemico, se non si provvede ad applicare anche alla sua decifrazione una lettura spassionatamente (meta)storica.
Allora, se ha senso fare storia dell’estetica, lo è se riconosciamo che
senza una tale storia l’estetica non ha senso. Se cioè riconosciamo che
non si potranno esplicitare i significati che la teoria estetica ha formulato, senza il riconoscimento del mutevole valore storico assunto dalla
loro incidenza conoscitiva. E dunque la funzione storiografica non potrà
essere degradata al compito di tabulare livelli di acquisizione teorica
sgranati nella linea di un qualche progresso incrementale. Essendo evidente che: (1) non esiste “il” progresso incrementale, ma tanti progressi
incrementali quante sono le opzioni teoriche degli studiosi, che in tanto
possono esplicarsi positivamente a condizione di rimuovere segmenti
storiografici giudicati “arbitrariamente” non-progressivi, negativamente
progressivi (nel significato, linguisticamente corretto e concettualmente
inquietante, di “progresso” attribuito all’aggravarsi morboso che conduce alla morte); (2) il progresso incrementale delle conoscenze, comunque
lo si voglia configurare, è intrinsecamente atemporale, e dunque cade
al di fuori delle possibilità di determinazione storiografica; (3) infine,
l’ordo et connexio idearum non si dispone, nella storia, per ascensione
gerarchica verso il compimento di una “verità” speculativa, ma si disloca
stocasticamente, secondo emergenze variabili di anomalia disciplinare,
all’interno dei paradigmi epocali e nell’intreccio intersettivo dell’acquisizione liberamente condottane dalla logica dei sopravvenienti saperi.
La storia dell’estetica, una storia dell’estetica consapevole del suo
proprio ruolo epistemico e delle esigenze attuali, abbandonata l’atopica
ricerca di una mitica “verità” disciplinare, è opportuno che rivolga il
suo impegno all’intelligenza del “senso” determinato dalla ricerca estetica nelle diverse soglie epistemiche, e del “significato” che ha assunto
entro tali soglie il suo teorizzare, indagando le modalità e la misura con
cui esso ha, via via, rappresentato e interpretato la propria esistenza
paradigmatica.
151
Bibliografia
Nel presente regesto sono riportate esclusivamente le voci alle quali si
è fatto riferimento nel testo e nelle note. Per la referenza delle opere di
Croce, si è quasi sempre seguita la bibliografia di Borsari 1964.
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Per eccesso e per difetto: Croce e la storia dell’estetica *
Per eccesso o per difetto è, come si sa, una tipica formula della storiografia estetica crociana, che celebra il suo trionfo analitico nell’Estetica del 1902. Ho voluto richiamarla, in occasione del presente convegno
dedicato al centenario della pubblicazione di quel libro capitale e dedicarvi qualche rapida riflessione – ma rimodulandola in “per eccesso
e per difetto” – perché essa può ben prestarsi a cogliere, come in un
flash, le dinamiche che alimentano quell’opera, e nello stesso tempo
consentire di partire da lì per ponderare alcuni rilevanti assestamenti
teorici che si distendono nella successiva operosità crociana, con i quali
anche la nostra contemporaneità è tenuta a fare i conti, o come si dice:
a “confrontarsi”. Anzi – vedremo – commentare questa formula (avvisiamo subito: decisamente paradossale), ci consentirà di compiere, a
nostra volta, un paradosso, e, in ragione di taluni singolari esiti crociani, giudicarla non eccedente, non esorbitante, appunto per eccesso o
per difetto, secondo le parole crociane, bensì dissimilando quell’endiadi,
riqualificarla in modo positivo. Insomma, proveremo a rinnovare la
valutazione della storiografia estetica crociana intercettandola, dapprima, nel 1902, appunto “per eccesso”, ma dopo, negli assestamenti del
Croce maturo, all’opposto, “per difetto”.
Chi oggi legge l’Estetica – ma come non domandarsi: chi oggi legge
l’Estetica di Croce? che acquisizione consente la sguarnita ristampa
in circolazione, e in assenza dell’edizione critica, per pochi libri indispensabile come per questo travagliato testo, che l’autore nell’arco
ventennale di cinque edizioni, ha riformulato, riorganizzato, aperto
attraverso integrazioni e aggiornamenti, ma nello stesso tempo oscurato
o addirittura reso sibillino – non può non notare, tanto è macroscopicamente esibito all’inizio della seconda parte del volume, che nel 1902
s’intitola esplicitamente Storia dell’estetica, il personalissimo criterio
storiografico attivato da Croce. «È stato parecchie volte oggetto di
controversia se l’Estetica sia da considerare come una scienza antica o
moderna: nata per la prima volta dopo il rinascimento, o esistente già
nel mondo greco-romano. La questione, com’è facile intendere, non
è una semplice questione di fatto: vi entra un elemento valutativo: il
risolverla in un modo o in un altro dipende dall’idea che ciascuno si è
173
formato dell’indole della scienza estetica, e che adopera come misura
e termine di paragone. Il nostro punto di vista è che l’Estetica sia la
scienza dell’attività espressiva (rappresentativa, fantastica). Essa quindi,
secondo noi, non sorge se non quando vien definita scientificamente la
natura della fantasia, della rappresentazione, dell’espressione, o come
altro si voglia chiamare quell’atteggiamento dello spirito, ch’è bensì
teoretico, ma non intellettuale, produttore di conoscenze ma di conoscenze dell’individuale, non dell’universale. Fuori di questo punto di
vista noi, per nostro conto, non sappiamo scorgere se non deviazioni
ed errori»; e subito dopo, passando a sviluppare il suo criterio di “deviazioni ed errori”, dichiara: «seguendo la distinzione e la dicitura di
cui in un caso analogo fece uso un sommo filosofo italiano, saremmo
inclini a dire che avvengono per difetto o per eccesso» 1.
Il “sommo filosofo italiano” viene indicato in Rosmini e nel suo
Nuovo saggio sull’origine delle idee 2. Ci torneremo. Ma intanto osserviamo che qui, nel giuoco pendolare “per difetto” e “per eccesso”,
sta la chiave della storiografia estetica crociana. Croce infatti, alla luce
di questo modello ermeneutico, si sente autorizzato a bollare “per
difetto”, come deviazione negativa, da condannare senza appello, ogni
prospettiva che nella storia dell’estetica non abbia riconosciuto «una
speciale attività estetica e fantastica». Parimenti, bolla “per eccesso”
chiunque abbia costruito la dimensione estetica su un’attività diversa
da quella fantastica, sia che questa surroghi diversamente sia che pretenda di sostituirla o integrarla.
Egli rivendica che «Una storia generale dell’Estetica, dal punto di
vista rigoroso del principio dell’espressione, non è stata, prima d’ora,
tentata» �3. È indubbio. Solo che tale storia, rigorosamente, anzi rigidamente, filtrata con la formula “per eccesso o per difetto”, atteso che
quasi nessuno – appena Vico, felicemente da lui richiamato dall’oblio
ed elevato a padre dell’estetica 4, e l’«ideale maestro» De Sanctis, eletto a suo prossimo precursore 5; e l’elenco positivo si chiude subito
col pur sorprendente recupero di Scheiermacher 6, la manifesta propensione per Hanslick e Fiedler 7 e un contenuto apprezzamento di
Bergson 8 – quasi nessuno ha costruito una teoria estetica assimilabile
al principio crociano dell’intuizione-espressione, la storia dell’estetica
per Croce diventa una storia vuota (tecnicamente, in termini crociani,
è addirittura una “preistoria”), o meglio completamente svuotata del
lavoro estetologico compiuto dall’intera tradizione occidentale. Nei
confronti della quale egli si abbandona a una spettacolare opera di
rimozione, con tanta vis necandi che nessuno studioso – ma proprio
nessuno, non dico Batteux o Burke, ma neanche Kant, Hegel… – si
salva, e celebra quegli spettacolari nefasti, che portarono il mentore
Labriola all’ironico commento, con autoironia ricordato in seguito dallo stesso Croce, di averne fatto un «camposanto» �9.
Su questa terra, in verità non consacrata ma proprio profanata,
174
avendo mostrato «quale folta selva di errori occorre sgombrare per far
valere la verità» �10, Croce intanto può con disarmante innocenza propiziare la conclusione che «di estetica scientifica, anche nei due secoli
ultimi di intensificazione di tali ricerche, se n’è avuta ben poca» �11, e se
«la scienza estetica non è più da scoprire […] essa è ancora ai suoi inizi» 12, mentre in Italia «nell’ultimo decennio è ricominciata la feconda
indagine della natura dell’arte, indagine che ha presso le mosse dalla
questione della natura della storia» �13. Viene in tal modo legittimato
il suo monumento teorico, presentato come «Estetica nuova». Dove
“nuova” non vuole significare una nuova dottrina estetica, ma come
la “scienza nuova” di padre Vico un Novum, cioè la scoperta di un
orizzonte epistemico totalmente innovativo.
Uno scenario siffatto è tanto inaudito da non sottrarsi al sospetto di
essere in qualche misura sintomatico, e consiglia di guardare al volume Estetica come un’impresa complessa e ad altissimo coinvolgimento
personale, attraverso la quale il giovane filosofo affrontò l’«aspro travaglio» del varco delle colonne d’Ercole di fine secolo per approdare
al Novecento. Ciò comporta di pensare alla teoria estetica crociana
secondo il paradigma della rivoluzione scientifica, della rottura epistemica, e giacché, come insegna Kuhn, «ogni rivoluzione scientifica altera
la prospettiva storica» 14, non bisogna prendere troppa meraviglia dagli
effetti materiali, pur se dissacranti, che discendono da tale condizione.
Non posso, in questa occasione, soffermarmi sulle ragioni profonde
dell’impresa crociana, le attrezzature di cui disponeva, le spinte che
lo guidavano 15, anche se su qualcosa dovremo fra poco far luce. Al
momento importa badare al fatto che, compiuto quel passaggio, già
poco dopo Croce prese a condurne una spassionata autocritica che
continuerà ininterrotta nei decenni successivi. Così, mentre l’Estetica si affermava nella comunità scientifica internazionale e imponeva
un solido dominio intellettuale – in Italia durato generazioni – il suo
Autore la ridimensionava, sia nel senso di una sensibile sua riscrittura
(segnatamente nella terza edizione del 1908) sia rimandando agli sviluppi procurati nelle opere successive.
Di questa azione limitativa e ridimensionante, la seconda parte del
volume, la storia dell’estetica, è quella che maggiormente patisce. Croce non manca occasione per attenuare, giustificare, prendere le distanze da essa. Se nel 1908, nell’Avvertenza alla terza edizione dell’Estetica,
si limitava a dire: «le condizioni in cui versavano gli studî di Estetica
mi persuasero ad aggiungere alla teoria una storia abbastanza ampia di
questa scienza» �16, già nel 1915, nel Contributo alla critica di me stesso,
riconosceva il «modo alquanto crudo in cui era lumeggiata la storia di
quella disciplina» �17; e quattro anni dopo nell’Avvertenza dei Nuovi
saggi, manifesta che il saggio “Inizio, periodi e carattere della storia
dell’Estetica” ha «l’intento di correggere quel che di troppo negativo
si nota nella parte storica del predetto trattato» 18; ma soprattutto nella
175
quinta edizione dell’Estetica (1922) riconoscerà apertamente: «il fine
di quella parte storica non era tanto storico quanto polemico, e di una
polemica che assai volentieri si coloriva di satira» �19. Non volendovi
seppellire di citazioni, mi limiterò all’approdo conclusivo raggiunto
nell’Avvertenza della Storia dell’Estetica per saggi, collazionata nel 1942:
«Il Croce dette già nel suo libro dell’Estetica una larga rassegna della
storia di questa disciplina; ma, come egli avvertiva nella prefazione
della quinta edizione, la trattazione gliene parve troppo polemica e
negativa, e troppo esclusivamente indirizzata a considerare unicamente
i principî delle varie estetiche conformi o difformi dal principio da
lui propugnato della intuizione od espressione. Perciò con molti saggi
speciali, che sono ora sparsi nei suoi volumi filosofici e letterarî o nella
sua rivista la Critica, è venuto lumeggiando alquanto diversamente, e
meglio particolareggiando, lo svolgimento della Estetica» �20.
Insomma la storia dell’estetica del 1902 è come messa in liquidazione dallo stesso Croce, che pur senza poterne ritirare la paternità la
pose, per così dire, fuori catalogo e dichiarò di riconoscersi pienamente
solo nelle confezioni successive. E però tale disamore – mette conto
sottolinearlo – non comporta disimpegno per la storia dell’estetica.
Tutt’altro. Alimenta invece un’attività impegnativa, costante, che la riconfigura continuamente e senza tregua rimette a punto i suoi piani
tematici. E diventa, a sua volta, in misura tipicamente crociana, appello
polemico. Nel 1933 arriverà a lamentare: «procurai con ogni zelo ed
industria di richiamare le menti alla storia dell’Estetica […] ma al mio
cenno di guardare indietro, di legare conoscenza e conversazione con
la lunga schiera dei pensatori che nelle meditazioni e indagini sull’arte mi hanno preceduto, di amare e venerare quelli che più aiutarono
all’avanzamento delle idee, di seguire con simpatia gli sforzi da altri
di essi tentati, se anche non coronati di buon successo; a quel mio
cenno nessuno si è voltato, nessuno ha obbedito» 21; ed esprimerà un
desiderio: «vorrei che alcuno, invece d’inventare nuove Estetiche e Filosofie dell’arte, come tuttodì vediamo, sterilissime e inutilissime, avesse
il buon proposito d’imparare e studiare sul serio l’Estetica, e, perciò,
anzitutto, la storia dell’Estetica, della quale io rimango, non so perché,
fra i teorici, l’unico cultore» �22.
Perché allora continuare a guardare alla Storia del 1902, se non per
mere ragioni inventariali? Perché, nonostante le avvertenze esplicite
dell’Autore, e a fronte dell’intensa sua produzione storiografica successiva ben diversamente orientata, mantengo tout malgré la convinzione
di una persistenza della sua iniziale eccedenza metateorica, e giudico
anche le successive prospettazioni crociane dello statuto dell’estetica
pensate parimenti “per eccesso”? Ma perché, se fosse così, mi sento
però di rovesciare questa valutazione e attribuire alla storiografia estetica crociana anche una positività più piena, fino al punto, all’opposto,
da ritenere che essa arrivi a sottostimarsi “per difetto”?
176
Vorrei toccare questi tre punti cruciali, e mi scuso in anticipo se
potrò farlo solo in modo compendiario.
È appena il caso di ricordare che lo stesso Croce rilevò per tempo
un grave vizio del suo impianto metodologico, che procura una «certa aberrazione prospettica» alla Storia del 1902. Talché nella quinta
edizione del 1922 introdusse un’importante «rettificazione»: «la storia
della filosofia (e dell’Estetica in quanto filosofia) non è trattabile come
storia di un problema unico sopra cui gli uomini si siano affaticati e
si affatichino nei secoli, ma di una molteplicità di problemi particolari e sempre nuovi» �23. Ciò mette in mora la scientificità del testo di
vent’anni prima, il cui profilo, come abbiamo visto, viene ora appunto
rubricato come «non tanto storico quanto polemico». Egli imputa questo errore nell’avere adottato lo «schema consuetudinario che ancor
oggi prevale nella storiografia della filosofia». Sono cose note. Meno
noto è invece un più esplicito chiarimento offerto altri vent’anni dopo,
in una nota del 1944. Qui Croce precisa che l’errore di prospettiva
della sua giovanile storia dell’estetica «veniva dall’adozione che allora
mi accadde di fare di un criterio (che nell’introduzione ricordai) del
Rosmini, il quale giudicava i sistemi filosofici secondo che pecchino
per eccesso o per difetto, commisurati alla verità filosofica. Ma la verità filosofica (e questo rimaneva nascosto alla mente non storica del
Rosmini) non è un concetto che si possa fissare per sé distaccandolo
dalla sua realtà che è la storia, la cui misura sta non fuori o sopra di
lei ma in lei stessa» 24. Sono, del resto, gli stessi anni nei quali Croce
pubblica la Storia dell’estetica per saggi…
Perché allora mantengo d’attualità la Storia del 1902? Perché, nonostante l’incisiva decantazione metodologica che la seguì e consentì
straordinarie rimodulazioni dell’indagine storiografica, la struttura profonda dell’orizzonte estetologico lì fissata, e la funzione che in esso
riveste la storia dell’estetica, continua a informare fino alla fine l’opera
di Croce.
Pigliamo un bilancio esemplare steso da Croce poco prima della
morte, nel 1951: «Si è compiuto un cinquantennio dalla prima trattazione da me data in Italia della mia Estetica, che è la memoria delle
Tesi fondamentali, seguita dopo circa due anni dal volume compiuto; […] l’autore […], a dir vero, non ha mai cessato, in questi cinquant’anni, di ripensare i problemi già risoluti della Estetica, e di porne
di nuovi […]; sicché il suo primo trattato, pubblicato completo nel
1902, rimane come uno schema di ciò che l’Estetica è poi diventata,
arricchita di tutti gli elementi posteriormente aggiunti, che bisogna ricercare negli altri volumi dell’autore, né solo in quelli che prendono
nome dall’Estetica» 25.
Croce dunque rivendica la continuità del suo pensiero. E, senza
scendere in distinguo di dettaglio, non si può non dargli complessiva177
mente ragione. Piuttosto, per quello che qui interessa, conviene meditare sulla sua indicazione di «schema di ciò che l’Estetica è poi diventata»
e chiarirla subito, precisando che nell’Estetica del 1902 è fissata “l’istruzione genetica”, il dispositivo biologico dell’estetica crociana
Cogliamo a pieno sole questo dispositivo se badiamo al primo elemento vistoso del volume, ossia la sua ripartizione in “Teoria” e “Storia”, presentata così nelle righe d’apertura: «Questo volume è composto
di una parte teorica e di una parte storica, ossia di due libri indipendenti, ma destinati ad aiutarsi a vicenda» �26. Attira attenzione già il
fatto che questa distinzione non è routinaria, al contrario rovescia la sequenza standard mantenuta dagli studiosi precedenti; ma è soprattutto
saliente che si tratta di una scelta euristica, dettata non da estrinseche
ragioni materiali, bensì da un’intrinseca opzione metateorica. Si tratta,
certo, di un insieme “potente” e altamente produttivo, che assicura
al volume esaustività disciplinare e omogeneità scientifica. Non però
equipollenza. “Teoria” e “Storia” ivi “si aiutano” nel disegnare l’orizzonte crociano dell’estetica, ma non convergono autonomamente nella
costituzione di questo orizzonte, perché il loro intreccio è per grado
gerarchico, secondo un ordine ancillare, che attraverso un inflessibile
zeugma funzionale impone alla “Storia” l’ufficio di creare e propiziare
le condizioni della “Teoria”.
È esattamente questo trauma della funzione storiografica il male
oscuro che pervade la Storia del 1902, il cancro che scatena quella
inappellabile condanna d’intonazione biblica che disentifica, che fa precipitare in un abisso epistemico l’intera tradizione estetologica occidentale. Sono i compiti di servizio imposti dalla trama teorica, e dalla radicalità di questa trama, che costringono il passato (ma anche il futuro!)
a plasmarsi sulla sua lunghezza d’onda: il «punto di vista» che elegge
l’estetica a «scienza dell’attività espressiva», la delegittimazione di ogni
diversa progettazione disciplinare, la scansione della vita dell’estetica
esclusivamente lungo il filo rosso della sua moderna nascita vichiana,
attraverso bagliori intermittenti stabilizzatisi solo con l’aurorale apparizione di De Sanctis, nunzio dello stesso Croce.
È sicuramente importante che Croce abbia preso netta distanza da
questo scenario da incubo. Ed è non meno importante che ciò gli abbia consentito solari sviluppi. E però tutta la successiva evoluzione del
suo pensiero, pur in presenza di chiarimenti e revisioni rimarchevoli,
di slargamento di vedute e flessibilità a tutto campo, di veri e propri
assestamenti tellurici, non è valsa ad affrancarlo dalla primordiale ipoteca della “Teoria” sulla “Storia”. Questa struttura profonda rimane
tetragona: semmai si metabolizza e si sposta di livello, ma rimane il
baricentro formale che sempre insidia il pensiero crociano.
Ma verifichiamo la questione a caldo, chiamando in gioco il Croce
più genuino, l’implacabile polemista che per esempio, nel 1940, recensendo «la pregevole», così riconosce, A History of Aesthetics, rim178
provera tuttavia a Gilbert e Kuhn il fatto che «alla conclusione della
loro storia […] essi si rifiutano a dire ciò che per loro conto pensano
dell’arte e della bellezza» 27. In realtà quel “rifiuto” è linearmente fondato da un paradigma disciplinare “aperto” che li aveva fatto concludere: «La lezione della storia è la storia stessa, nel suo racconto di
indagini, lotte, scoperte, sviamento e crescenza. Questa lezione non è,
e non può essere, univoca e chiara. La storia del pensiero, decifrata a
pieno, cioè letta al lume di un’ultima conoscenza, cesserebbe di essere
storia» 28. Ma è proprio questo paradigma, la distinzione funzionale di
storia e teoria, il riconoscimento di due “figure“ epistemiche autonome
che concorrono ad alimentare la ricerca estetica, che marca l’incompatibilità con la prospettiva crociana. Per gli studiosi americani è pacifico
che: «La storia riguarda il ricercatore piuttosto che il possessore di
verità. Come approccio alla verità, basta a sé stessa e insieme ammette
un supplemento. Altro è definire la bellezza, altro descrivere il processo di definirla. Ma i due lavori servono allo stesso intento» 29. Agli
antipodi, Croce ironizza, addebitando a quell’impianto di: «commette
il grave errore di staccare l’“indagatore” dal “possessore” della verità,
foggiando la doppia inconcepibile personalità di un “indagatore”, che
non possiede il vero, e di un “possessore”, che non lo indaga, cioè non
lo pensa. Il vero e compiuto storico e filosofo pensa la storia al lume
della sua nuova verità; dopo di che, rientra esso stesso nella storia» �30.
Sarebbe del tutto anacronistico controbattere, per esempio, che
un possessore che non indaga e un indagatore che non possiede sono
solo fantocci polemici e non figure epistemiche; e ritorcere, dente per
dente, che è figura non meno caricaturale quella del vero e compiuto
storico e filosofo che rientra nella storia. Se questi… non fosse Benedetto Croce in carne ed ossa, che questo estremo ideale conoscitivo è
stato capace d’impersonare in modo inimitabile, nel bene e nel male,
donando di gran lunga più bene che male. Secondo la sua sentenza
finale: «L’Estetica, della quale discorriamo, sorgeva sopra una storia di
questa scienza, che era poi questa scienza stessa, vista nella sua genesi:
storia che si è venuta elaborando e affinando insieme con essa» 31.
Ma non voglio soffermarmi più di tanto su questo tema travagliato,
e tutt’oggi travagliante, del dibattito estetologico. Non lo faccio, anzitutto, perché non c’è tempo; poi, perché su di esso ho preso posizioni
inequivoche, alle quali nulla ho da aggiungere; ma infine perché, volendo riservare il fiato che rimane al problema evocato dal mio titolo,
posso chiudere con una citazione esemplare di Gennaro Sasso, che
ha segnalato acutamente il paradosso di non tematizzare la domanda
«perché mai nasca e s’imponga quel desiderio del “capire” storico, che
ha poi per “oggetto” proprio il “costruire” teoretico dei filosofi del
passato e del presente» �32.
In un’altra citazione esemplare, Garin ha osservato come anche se
179
Croce ha riconosciuto «che il suo trattato del 1902 era stato largamente superato da lui stesso […] i saggi e le note che via via scriverà
[…] non si scioglieranno mai completamente dai presupposti generali
fissati nel 1902, né chiariranno i loro rapporti con quei presupposti, e
quindi non consentiranno la formulazione di quelle nuove vedute che
pure si sentono urgere di continuo nelle pagine crociane» 33. Eppure
come fare a meno di quei saggi e di quelle note? Ma come tesaurizzare
quelle “nuove vedute”? Penso sì ai, del resto celebri, saggi di spicco del
Croce diciamo pure “riformato”, che so: a “Inizio, periodi e carattere
della storia dell’Estetica” o all’“Iniziazione all’Estetica del Settecento”,
e a quanto in profondità fanno ripensare l’ambito disciplinare la massa
di volumi che accompagnò le nuovi edizioni dell’Estetica. Ma penso
soprattutto alle centinaia e centinaia di note, testi brevi, recensioni,
scritti d’occasione in cui il lettore viene di continuo provocato ed eccitato, blandito, messo in questione. È l’immenso pelago crociano, un
autentico laboratorio sperimentale a cielo aperto, sempre in fermento,
che a getto continuo analizza, scava, affina, riprospetta. È impossibile
nuotarvi in apnea e non finire in qualche modo con l’esserne contagiati.
Questi testi “minori”, per lo più disertati, mostrano l’incredibile vitalità
di Croce, lo sforzo caparbio di fare suo anche, per così dire, il “nuovo
nuovo”, di proiettarsi in avanti a scavalcare la metà del Novecento, e
restare nell’eternità disciplinare nella quale era entrato.
Eppure si andava aprendo un quadrante che si dislocava inevitabilmente al di là di Croce. E in nulla finiva con l’incidere che spie di
questo quadrante, alcune sue ragioni forti, potessero essere già affiorate
anche nel pelago crociano. Nel Croce, dico a titolo d’esempio, che nel
già nel 1928 aveva scritto: «Se la storia dell’Estetica deve essere integrata nella storia totale della Filosofia, questa storia medesima dev’essere per altro rispetto, allargata fuori dei confini, nei quali d’ordinario
è mantenuta […]. I nuovi pensieri filosofici, o i loro germi, si ritrovano
spesso vivi ed energici in libri che non sono di filosofi professionali, né
sistematici nell’estrinseco: […] per l’estetica, in quelli dei critici d’arte,
e via dicendo» �34; e nel 1934 addirittura: «Nella storia del pensiero
non bisogna guardare soltanto ai concetti formati, ma anche all’inquietudine, alla brama, all’impulso verso un certo ordine di concetti,
sia pure soltanto intravisti o imperfettamente o contraddittoriamente
espressi» �35.
Anche in Italia la storiografia estetica si emancipava da Croce.
Personalità, per esempio, come Guido Morpurgo-Tagliabue e Rosario
Assunto, che da Croce erano partiti e di lui si erano dichiaratamente
nutriti, negli anni ’50 e ’60 intraprendevano altre vie, che se non erano
necessariamente anticrociane sicuramente erano postcrociane 36. Per
non dire, più in generale, delle ben differenti prospettive di ricerca
che impegnavano il dibattito internazionale, che troverà nel 1960 il
protagonista della storia dell’estetica del secondo Novecento in uno
180
studioso polacco nato una generazione dopo Croce, e che talora viene
additato come suo contraltare: Władisław Tatarkiewicz 37.
Croce e Tatarkiewicz: un bel tema per un convegno di estetica 38.
Ma è un altro convegno; mentre oggi, per andare a concludere, vi
propongo un test case.
Guardiamo la Storia dell’estetica per saggi (beninteso: l’edizione crociana del 1942 e non la sciagurata ristampa editoriale del 1967). Croce
vi raccoglie il fior da fiore di quello che ha scritto dopo la Storia del
1902, e con larghezza, generosamente scontando squilibri e disomogeneità. Eppure non ci si sottrae dall’impressione che quella selezione,
per tanti versi fatta “per eccesso”, sconti ancora un residuo retaggio
metodologico dell’opera incoativa di quarant’anni prima, e si sottostimi
“per difetto”. Vi manca infatti almeno un saggio, uno dei più bei saggi
dell’intera storiografia estetica crociana.
Diciotto anni prima, nel 1924, Croce era stato invitato a Londra
per tenere un discorso in una Società scientifica che l’aveva nominato presidente onorario. Croce non si accontenta di fare un discorso
cerimoniale e decide – «io italiano e napoletano» – di parlare «di un
insigne filosofo e scrittore inglese, il quale in Italia, e proprio nella mia
Napoli, passò gli ultimi suoi anni, in studî e meditazioni [...] e presso
di noi chiuse la nobilissima sua vita» �39. Il non breve discorso, subito
pubblicato a Cambridge, poi passato nella “Critica” e infine incluso
dieci anni dopo nel volume La critica e la storia delle arti figurative,
s’intitola: “Shaftesbury in Italia”.
Diciamo subito che, nonostante l’occasione, non si tratta di un disimpegnato “scritto d’occasione” bensì della lettura illuminante di un
pilastro della storia dell’estetica, da Croce opacizzato nel 1902; dunque
un risarcimento, come tanti altri che egli aveva già fatto e continuerà
a fare negli anni successivi. Sicché a questa impegnativa rivisitazione
si era preparato, secondo suo solito, severamente. Non solo sui tre volumi delle Characteristics, ma anche sulla lettura di lettere e frammenti
pubblicati agli inizi del Novecento e di altro materiale inedito degli
Shaftesbury Papers consultati direttamente a Londra.
È risaputo che Croce ha avuto, fra i tanti doni di natura, anche
quello di re Mida: di far diventare oro tutto ciò che toccava. Ma questa volta quel dono si manifesta in misura abbagliante. Egli scandaglia
un arco temporale ristretto: dal 15 novembre 1711, quando Shaftesbury arriva a Napoli per lenire l’asma e le affezioni polmonari che lo
affliggevano, al 15 febbraio 1713, quando «l’anima sua pura» abbandonò il corpo infermo per spaziare «pei floridi campi della Verità e
della Bellezza». Appena quindici mesi. Ma cosa non è capace Croce
di tirare fuori da quei quindici mesi! Non è solo la bravura del grande scrittore nel darci una panoramica completa di luoghi, ambiente,
relazioni, personaggi. Grazie alla quale, per altro, veniamo catturati
nel mondo di Shaftesbury: dove abitò (il palazzo Mirelli), le sue fre181
quentazioni intellettuali (non Vico, ma Giuseppe Valletta, un erudito
avvocato bibliofilo precursore di Gerardo Marotta), gli agi della vita
quotidiana (il viceré conte Borromeo lo teneva in palma di mano), il
suo lavoro intellettuale. Veniamo a sapere tutto; e veniamo a sapere,
se mi consentite l’iperbole, più di tutto.
L’importanza di questo postremo soggiorno napoletano di Shaftesbury nasce dal suo improvviso interesse, maturato proprio in quei mesi
a Napoli, a contatto diretto con l’arte italiana e la quotidiana frequentazione di Paolo De Matteis (artista colto, lettore dei classici, col quale
conversava in francese, e spesso lavorava e s’intratteneva a colazione),
per le problematiche della pittura. Interesse iniziato dalla necessità di
«studî più leggeri» intrapresi per «piacere e intrattenimento» e dalla
commissione a «un eminente pittore di questo paese e che ora è il migliore d’Italia» di un quadro di storia, il famoso Giudizio di Ercole, per
il quale fornì una minuta memoria iconologica, poi pubblicata in inglese e acclusa con la tavola di De Matteis in tutte le successive edizioni
delle Characteristics. Ma questi studi gli prendono la mano. Scrive a
un corrispondente: «io cominciai questa ricerca col chiamare la pittura
una scienza volgare; ma ora voi vedete che son andato così oltre, e che
mi sono così profondamente impegnato in essa che quasi sono presso a
dimostrare che questa è ben altro che una scienza volgare o bassa» 40.
Così Shaftesbury stende fitti appunti per un ampio saggio dal titolo
Plastics che conta di aggiungere alle Characteristics.
Croce, da par suo, passa a setaccio questi frammenti e ne sprizza
tutti i tesori racchiusi con una smagliante illustrazione dei suoi gradienti di novità. E conclude: «Tali cose lo Shaftesbury meditava assiduamente in Napoli, mentre i malanni fisici, pur con brevi tregue e
respiri, lo corrodevano e lo stremavano e lo avvicinavano alla tomba.
E non poté condurre a termine le sue indagini e a perfezione i suoi
pensieri, e non poté formarne il libro che si proponeva di scrivere» 41.
Ora quello che sbalordisce è il tasso di comprensione dei nuovi
temi e problemi sbocciati in Shaftesbury in quei cruciali quindici mesi
napoletani che Croce è capace di farci acquisire. Certo, non manca di
rappresentare con grande nitore il pensiero estetico di Shaftesbury e
assicurare le ragioni che ne fanno un pilastro della storia dell’estetica.
Ma fa anche molto di più. Ci fa toccare con mano l’intoccabile, l’apice
virtuale della storia dell’estetica: come nasce l’estetica, come prende
forma e acquista esistenza lo stesso teorizzare.
Ecco, che un tale miracolo d’intelligibilità, che avrebbe bramato
di scrivere ogni storico dell’estetica – immagino anche Tatarkiewicz
– sia formalmente espunto dai titoli ufficiali della storiografia estetica
crociana, mi pare inequivocabile segno della valutazione “per difetto”
della sua ricezione.
Il fatto è che, in estetica, non è questo – il Croce seriore, il Croce di Shaftesbury, cifra esemplare della pregnanza maturata dalla sua
182
storiografia – il Croce che “ha fatto storia”. Al contrario, in ragione
della sua grandissima carica d’attrazione, della capillare diffusione e
l’enorme influenza esercitata, è stata, e passivamente a lungo rimasta,
l’Estetica del 1902 – e con essa la struttura profonda del suo primitivo
impianto di storia dell’estetica – che si è imposta alla comunità scientifica con la forza di un imprinting. Talché è avvenuto, anche a prescindere dall’adesione all’orizzonte scientifico crociano, contro ogni plausibilità metodologica, nell’insensibilità alle gravi ragioni metateoriche
in gioco, addirittura contro gli avvisi dello stesso Croce e ignorando i
suoi ricorrenti tentativi di profondamente emendare, che il più letale
operatore del paradigma del 1902 – la subordinazione della “storia”
alla “teoria” e la mancata percezione della loro autonomia funzionale –
ha trovato disparate forme d’acquiescenza e si è trascinato per inerzia
intossicando la ricerca estetologica. E solo molto lentamente, a fatica,
da quell’esiziale ipoteca ci si è andati liberando in Italia.
Vent’anni fa, cogliendo un po’ tutti di sorpresa, Emilio Garroni ha
sostenuto che Croce è un autore «anche e soprattutto determinante
nella delineazione del nostro orizzonte culturale», e suggeriva «di capirlo meglio e, insieme a lui, di capire meglio gli stessi problemi che
attualmente ci occupano» �42. Aveva ragione. E dunque abbiamo ragione
anche noi, che siamo oggi qui riuniti a ricordare il centenario dell’Estetica, libro davvero capitale, che agli inizi del secolo scorso ha spalancato
nuovi orizzonti di ricerca con i quali, anche agli inizi di questo terzo
millennio, dobbiamo continuare a fare i conti.
* Il presente testo riprende e integra la relazione tenuta nelle Giornate di studio Cent’anni dall’Estetica di Benedetto Croce. Filosofia, Estetica e Linguistica promosse dal Dipartimento
di Studi Filosofici ed Epistemologici dell’Università di Roma “La Sapienza” (Roma, 12-13
novembre 2002) e successivamente pubblicata in “Studi di estetica”, 26, 2002, pp. 23-40.
1 B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. i. Teoria. ii. Storia., Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1902, pp. 157-58, corsivi dell’Autore. Questo notissimo esordio costituisce uno dei luoghi più tormentati dell’intera opera crociana. Da
un’edizione all’altra Croce l’ha infatti riscritto di continuo, operando riformulazioni che
sono, alcune, naturalmente solo stilistico-formali, miranti a una maggiore nettezza ed efficacia
di dettato; ma anche, altre, squisitamente concettuali, che attengono alle categorie operative
con cui è stata elaborata la “Storia”. Sono dunque spie euristiche del travaglio del pensiero
crociano. Ma su questo tema, e più generale sulle questioni della storiografia estetica crociana alle quali faccio riferimento, rimando al mio saggio Una Storia per l’Estetica, “Aesthetica
Preprint”, 19 (1988), qui ristampato col titolo Benedetto Croce e la storia dell’estetica.
2 Ivi, p. 158, nota 1: «Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, sez. iii e iv, per
classificare le teorie sulla conoscenza».
3
Ivi, p. 519.
4 Ivi, p. 228: «Il rivoluzionario che, mettendo in disparte il concetto del verisimile e
intendendo in modo nuovo la fantasia, penetrò l’indole vera della poesia e dell’arte e scoperse così pel primo la scienza estetica, fu l’italiano Giambattista Vico». Corsivi dell’Autore.
5 Ivi, pp. 380-92 : «L’indipendenza dell’arte riceveva […] una magnifica affermazione
nell’opera critica di Francesco De Sanctis […]. Ma il De Sanctis stesso non riuscì mai a
183
fissar la sua teoria con rigore scientifico. Le sue idee estetiche restarono quasi abbozzo di
un sistema non mai ben connesso e dedotto. […] Pure […] serba poi l’attrattiva di quegli scrittori che, oltre ciò che danno essi, additano e fanno intravvedere una ricchezza da
conquistare. Pensiero vivo, che si rivolge ad uomini vivi, pronti ad elaborarlo e continuarlo».
Corsivo mio.
6
Ivi, pp. 341-42: «Nell’orgia metafisica del suo tempo, in quel costruire e disfare di
sistemi più o meno arbitrarii, il teologo Schleiermacher, con vero sguardo di filosofo, appuntò l’attenzione su ciò che ha di veramente caratteristico il fatto estetico, e ne distinse le
proprietà e le relazioni». Corsivi dell’Autore.
7
Ivi, pp. 438-41: «Due scrittori assai notevoli dettero teorie di arti particolari. Ma,
giacché, come sappiamo, leggi e teorie estetiche di arti particolari non son concepibili, le
osservazioni fatte da essi non potevano non essere, come son difatti, osservazioni generali
di estetica. È il primo l’arguto critico boemo Eduardo Hanslick, che pubblicò nel 1854 un
libro Del bello musicale […]. L’altro estetico specialista è Corrado Fiedler, autore di parecchi
scritti sulle arti figurative, e, tra gli altri, sull’Origine dell’attività artistica (1887)».
8
Presentato, ivi, p. 443, come «l’acuto analista francese, H. Bergson, che, nel suo libro
sul Riso, espone una teoria dell’arte in gran parte simile alla teoria del Fiedler».
9
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria. e Storia.,
5ª ed. riv., Bari, Laterza, 1922, p. viii: «Antonio Labriola, quando la lesse, me la definì
scherzevolmente, ma pure non senza qualche verità, un “camposanto”».
10
Id., Lettere a Giovanni Gentile, Milano, Mondadori, 1981, p. 109.
11 B. Croce, Estetica, 1902, p. 446.
12
Ivi, p. 448.
13
Ivi, p. 445.
14
Th. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions (1962), trad. it. La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 19784, p. 12.
15 Per le quali rimando al mio saggio Benedetto Croce e la storia dell’estetica, cit.
16
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Teoria. e Storia.,
3ª ed. riv., Bari, Laterza, 1908, “Avvertenza”, p. x.
17
Id., Contributo alla critica di me stesso (1915), in Id., Etica e politica, Bari, Laterza,
19674, p. 348.
18 Id., Nuovi saggi di estetica (1919), Bari, Laterza, 19584,“Avvertenza”, p. v.
19
Id., Estetica, 5ª ed. riv., 1922, “Avvertenza”, p. xiii.
20
Id., Storia dell’Estetica per saggi, Bari, Laterza, 1942, “Avvertenza”, p. v.
21
Id., Rileggendo l’«Aesthetica» del Baumgarten, in Id., Ultimi saggi, Bari, Laterza,
19633, pp. 104-05.
22
Id., Sul «colore» nella storia dell’estetica (1933), in Id., La critica e la storia delle arti
figurative. Questioni di metodo, Bari, Laterza, 1934, p. 226.
23
Id., Estetica., 5ª ed. riv., cit., p. viii.
24 Id., Note di estetica: Winckelmann (1944), in Id., Discorsi di varia filosofia, ii, Bari
Laterza, 1945, pp. 102-03. Si tratta di una recensione al volume antologico di W., Il bello
nell’arte: scritti sull’arte antica, curati da F. Pfister e pubblicati nel 1943 (Torino, Einaudi).
25 Id., Stato degli studi estetici in Italia, in Id., Indagini su Hegel, Bari, Laterza, 1952,
pp. 222-24.
26 Id., Estetica, 1902, “Avvertenza”, p. vii.
27 Id., Dottrine estetiche (1940), in Id., Pagine sparse. III, Postille-Osservazioni su libri
nuovi, Bari, Laterza, 1943, p. 290.
28 K. E. Gilbert – H. Kuhn, A History of Aesthetics, New York, 1939, p. 550.
29
Ibidem.
30 B. Croce, Dottrine estetiche, cit., p. 290.
31 Id., Stato degli studi estetici in Italia, cit., p. 222.
32 G. Sasso, Intorno alla storia della filosofia e ad alcuni suoi problemi, in Id., Passato e
presente nella storia della filosofia, Bari, Laterza, p. 51.
33
E. Garin, Rinascita e tramonto dell’idealismo, in Id., Storia della filosofia italiana, iii,
Torino, Einaudi, 1966, p. 1297.
34 B. Croce, Aesthetica in nuce, in Id., Ultimi saggi, cit., p. 33.
35 Id., Un estetico ungherese del Settecento, in Id., Ultimi saggi, cit., p 138.
36 Il riferimento è, segnatamente, a G. Morpurgo-Tagliabue, Il concetto dello stile, Milano, Bocca, 1951; e a R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medievale, Milano, Il Saggiatore, 1961.
184
37
W. Tatarkiewicz, Historia estetyki, voll. i-ii 1960, vol. iii 1967, trad. it. Storia dell’estetica, Torino, Einaudi, 1979-80, 3 voll.
38
Rimando intanto alla mia nota Tartakiewicz e la storia dell’estetica, postfazione a
W. Tartarkiewicz, Storia di sei Idee, Palermo, Aesthetica, 20138, pp. 375-87, ristampata in
questo volume.
39
B. Croce, Shaftesbury in Italia, in Id., La critica e la storia delle arti figurative, cit.,
p. 100.
40
A. Shaftesbury, cit. in B. Croce, Shaftesbury in Italia, cit., p. 124.
41
B. Croce, Shaftesbury in Italia, cit., p. 138.
42
E. Garroni, Prefazione, in P. D’Angelo, L’estetica di Benedetto Croce, Roma-Bari,
Laterza, 1982, pp. ix-xi.
185
Cesare Brandi esthéticien *
La presentazione più lusinghiera del Carmine o della Pittura di Cesare Brandi, composto fra il 1939 e il 1943 e pubblicato a Roma nel
1945 1, fu certa­mente quella offerta da Benedetto Croce con le parole:
«Questo libro è da racco­mandare agli studiosi della teoria dell’arte così
per le molte cose giuste e calzanti che dice come per lo spirito che
l’anima» 2. Giudizio che ancora oggi non si può non condividere e semmai giudicarlo, a sua volta, singolarmente profetico. Sen­za immaginarlo,
registrava infatti l’evento più significativo che in Italia si rea­lizzava nella
teoria dell’arte, dopo l’opera dello stesso Croce 3, e teneva a battesi­mo
un testo che si è imposto come un classico dell’estetica del Novecento.
Era la prima recensione in assoluto, questa di Croce, che veniva
pubblicata dell’opera con cui il “giovane” (era nato quarant’anni prima, nel 1906) Brandi esordiva in estetica. Giovane studioso di estetica
sì, ma che aveva già conseguito solida reputazione nel campo degli
studi storico-artistici 4; e che in quegli anni aveva intrapreso un’impresa, la direzione dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, che gli
avrebbe valso meriti e riconoscimenti mondiali. Non è senza si­gnificato
– vedremo – la piena coincidenza, nel 1939, dell’inizio della stesura
del Carmine e della fondazione dell’Istituto Cen­trale del Restauro. Ma
dicevamo della recen­sione di Croce. E su di essa con­viene soffermarci
perché consente di cogliere con la maggiore nettezza, come in vitro, la
carica innovativa che Brandi introduceva nell’estetica italiana e, nello
stesso tempo, essa ben rappresenta i termini di un equivoco interpretativo che ha a lungo viziato una genuina lettura del Carmine.
Riconosciuto il valore del volume, il vecchio Maestro tuttavia si
preoc­cupava di precisare la natura di quelle “cose giuste e calzanti”
che vi erano dette: «Non che contenga concetti o avviamenti fondamentalmente nuovi in quella teoria, perché esso si muove (né poteva altrimenti) nella cerchia segnata e col­tivata dal lavoro italiano
di estetica, continuo e intenso nell’ultimo mezzo secolo, e lavora su
quei concetti»; parimenti «lo stesso spirito animatore, che è quello del
carattere, come si suol dire, “ideale”, e meglio si direbbe “astorico”
del­l’arte, è di tutta questa estetica». Il dimensionamento delle “cose
giuste e cal­zanti” proposto al lettore è dunque nella loro complessiva
187
rispondenza alla teo­ria estetica elaborata dallo stesso recensore, entro il cui alveo si ritiene non possa non muoversi la nuova proposta
teorica. A lenire la crudezza di questa ipoteca di lettura, che tanto
appiattisce il nuovo sul vecchio da suonare come un sostan­ziale ridimensionamento della novità dell’opera, il fair play impone al recen­sore
la consolatoria osservazione che «Per altro, il Brandi non ripete, ma
riporta e riespone a modo suo quei concetti e quelle critiche acquisite,
e così li ripresenta rinfrescati». Il che, al di là di un formale attestato
di estimazione, a ben vedere non significa molto di più della scrupolosa presa d’atto di un episodio sicura­mente degno di nota, ma in fin
dei conti sempre di routine, che merita rubricare nelle cronache della
cultura artistico-filosofica a beneficio d’inventario.
Nondimeno, si farebbe torto all’onestà intellettuale di Benedetto
Croce se non si facesse attenzione al fatto che, dopo questa dichiarazione d’apertura, nel prosieguo della nota il recensore manifesta perplessità sull’adeguatezza della sua stessa valutazione. Il dubbio comincia ad affiorare considerando un aspetto in apparenza secondario, o
comunque non essenziale, dell’opera brandiana: la sua ve­ste letteraria.
Il Carmine, infatti, non è un trattato, un testo cioè scritto secon­do la
costruzione sistematica che la tradizione moderna ha ri­servato alla ricerca filosofica ma rinverdisce l’antica téchne classica, e poi medievale,
progressiva­mente disertata nella modernità, dell’esposizione dialogica,
in cui il Magister (Eftimio nei dialoghi di Brandi) disciplina e guida
l’accesso alla verità da parte del Discipulus (i vari interlocutori principali che danno nome ai dialoghi bran­­­diani). In effetti la predilezione
di Brandi per la forma dia­lo­gata, in cui sono scritti i suoi primi testi
di estetica raccolti entro la cornice intitolata Elicona, ha dato luogo
a controverse valutazioni 5 e merita di ritornarci, perché non si tratta
di questione irrilevante. Croce intanto osserva: «Forse avrebbe fatto
meglio a scegliere altro modo letterario di esposizione che non sia il
dialogo». Ma l’ap­punto crociano non è così neutrale, né tocca aspetti
di superficie o irrelati, come si potrebbe credere. Infatti continua:
«Tanto valeva adottare la diretta forma dottrinale, la quale lo avrebbe
vantaggiosamente indotto a citare metodicamente la letteratura dell’argomento». È su­perfluo precisare che “la letteratura dell’ar­gomento”
è, naturalmente, quella prima chiamata “lavoro italiano di estetica”,
cioè l’estetica crociana, postulata quale sfondo unitario, e soprattutto
re­ferente unico, della disamina di Brandi. E però la critica della forma
letteraria di questa disamina, il dialogo appunto, non discende da una
stima d’ordine tecnico, non riguarda cioè ottimizzazione di let­tura,
bensì il fatto specifico che una diversa formulazione, quella dottrinale,
avrebbe consentito di «mettere in rilievo dove egli la svol­ga [la letteratura dell’argomento] e dove se ne discosti e la cor­regga». Ma allora
le proposizioni crociane iniziali che, come ab­biamo visto, riferivano
188
le “cose giuste e calzanti” nonché “lo spi­rito” che animava il libro di
Brandi uni­camente alla “cerchia segnata e coltivata dal lavoro italiano
di estetica”, ricono­scendogli in de­finitiva solo il merito della riformulazione rinfrescante “quei concetti e quelle critiche acquisite”, vengono
sensibilmente ridimensionate. Anzi, se mi si con­­sente il bisticcio, il
ridimensionamento che opera Croce del pro­prio (ri)dimensionamento
della novità dell’opera brandiana, ammettendo appunto che essa possa
sì “svolgerla”, la sua estetica, ma an­che discostarsene e correggerla,
induce al sospetto che non solo l’estetica di Brandi non sia del tutto
conforme all’estetica dello stesso Croce, come invece egli aveva prima
prospet­tato, ma che si possa trattare addirittura di una neo-estetica.
Ossia una proposta teorica innovativa e, in punti sostanziali, divergente proprio dalla “cerchia segnata e coltivata dal lavoro italiano di
estetica”. È più di un sospetto o di un’ipotesi pur logicamente fondata. Croce infatti prosegue: «In verità, le censure che egli le muove
[alla letteratura dell’argomento] non mi paiono giustificate; ma non mi
estenderò in ciò, perché troppo ho discusso e polemizzato in questa
materia e vorrei per questa parte riposarmi». Conclusione sorprendente, che in mo­do spettacolare ribalta l’isomorfismo teorico inizialmente
assicurato e prende atto di una chiara divaricazione differenziale, fino
a ri­conoscere la presenza di “censure” meritevoli di discussione e di
polemica con le quali tuttavia si pre­ferisce non aprire un confronto.
Per chiunque abbia qualche confidenza con i testi crociani, una posizione siffatta appare strana: questo Croce che si esibisce così tollerante col diverso, che constata turbative nel “lavoro italiano di estetica”,
“censure” rivoltegli ingiu­stificate, eppure sceglie il riposo. E questa
stranezza non viene smentita dalla decisione di offrire almeno «un piccolo esempio a chiarire il mio pensiero». Per­ché si tratta appena della
parca osservazione che la critica mossa da Brandi alla teoria dell’arte
come «liricità», a vantaggio della qualifica di «figuratività», non sarebbe fondata in quanto egli non ha mai trascurato «l’immagine in cui la
liri­cità, superando il sentimento, si concreta». Sarebbe facile commentare che Croce in tal modo stempera la specifica teoria brandiana della
figuratività dell’im­ma­gine artistica in una generica teoria dell’immagine
estetica, alla cui tipologia appartiene, insieme a gran parte dell’estetica
contemporanea, anche la teoria crociana: solo a queste condizioni si
può far passare che vi sia conformità fra la concezione dell’immagine
di Croce e quella di Brandi 6. Il che dimostra, anzi riconferma ancora
una volta 7, l’attitudine di Croce, dinanzi a posizioni teoriche distanti
e anche dalle sue diversissime, ma ai suoi occhi interessanti per una
qualche ragione, di ridurle a sé con una sorta di pastorizzazione concettuale; o nel nostro caso, come è stato argutamente osservato, quanto
la sua lettura dell’estetica di Brandi sia stata «accaparrante» 8. Ma non
è questo che qui inte­ressa. Dicevamo invece che un siffatto accenno di
189
contraddittorio è davvero troppo esiguo, almeno per quello studioso la
cui alta fama scientifica non ha mancato di essere accompagnata, come
si sa, da una non minor famigerata vis polemica 9.
In realtà l’antico guerriero non ha ceduto al riposo (non ne du­
bitavamo) ha solo scelto, per chiudere l’imbarazzante contrasto col
giovane esordiente così tanto dotato, invece di attardarsi in un confronto diretto attraverso «parecchi ri­lievi particolari», di ribadire le
proprie ragioni oggettivandole in un topos esemplare, un luogo teo­rico
cioè massimamente pertinente e da lui compiuta­mente disciplinato,
in cui non si possa dar spazio per alcun contenzioso, e pertanto l’incipiente divergenza si sciolga senza clamore per ovvia, ne­cessitante,
potenza intrinseca della sua dottrina. Difatti prosegue: «Piuttosto mi
soffermerò per qualche istante su un problema col quale il libro del
Brandi si apre e si chiude, quello del ritratto e della somiglianza». E
viene subito da pensare che se il libro “si apre e si chiude” col problema del ritratto e della somiglianza questo in realtà non sia appena
un problema, ma più verosimilmente il problema, o comunque un
problema centrale dell’intero volume. Talché non è peregrino ri­tenere
che tale problema possa mettere in giuoco questioni d’importanza
fon­damentale per la teoria estetica, e magari meglio precisare la realtà
dei rapporti che intercorrono fra l’Esordiente e il Maestro. D’altronde,
se non fosse in qual­che modo così, perché solo su questo problema
Croce, qui tanto riluttante ad in­crociare le armi, non ha ritenuto di
potere sorvolare?
Come si apre il libro di Brandi? Con quest’affermazione: «Il discorso nacque dal ritratto di Ernesto: non uno che non ce l’avesse
riconosciuto, e tut­tavia nessuno n’era soddisfatto». È il resoconto che
fa Carmine ad Efitimio di una discussione avuta il giorno prima nel
loro sodalizio (Giulio, Enea, Antonio, Eliante) con un amico Critico
molto stimato. Questi era rimasto in silenzio per tutta la discussione,
salvo interloquire alla fine «asserendo che faceva ingiuria all’opera
d’arte seguitarne a parlare come fosse una fotografia». Sono oltremodo
interessanti le ragioni del Critico e conviene ascoltarle in presa diretta:
«Che riferimento ha ormai questa tela con Ernesto? Voi che conoscete le circostanze di cronaca per cui codesta pittura è nata, potete
ancora credere che vi sia un nesso reale fra Ernesto e quella tela: ma
fra cent’anni [...] chi vorrà in questa tela resuscitare un tale Ernesto,
vedrà prodursi, almeno fra le persone di cultura, lo stesso spazientimento di quando ancor og­gi si trova chi nella Madonna Sistina o nella
Donna velata ricerca, a dispetto di quella certa idea che confessava
Raffael­lo, le sembianze appannatocce della Fornarina. Insomma, attenetevi alla pittura: ritratto o no, questa vale per quanto vi ha messo
di se l’artista, e non per una so­miglianza che non s’è mai saputa definire». È quindi un problema banale, anzi banalmente mal posto, in
190
estetica, par­lare di ritratto e di somiglianza, domande improprie nella
valutazione dell’arte proprio perché riguardano la cronaca, al più la
storia o addirittura la preistoria dell’opera d’arte, non la dimensione,
uni­ca pertinente, dell’artisticità. Sono semmai indice di un problema sì
importante, ma che giace su di una diversa orbita concettuale, inconiugabile con quella este­tica. Per cui il Critico conclude: «Non vi accorgete infatti che sotto sotto si na­sconde una questione ben più grossa?
Quella della realtà del mondo esterno. La somiglianza irraggiungibile
è la dimostrazione che un mondo esterno non c’è, e per questo non è
possibile conoscerlo». Ma questa spiegazione, rac­conta Carmi­ne, «fece
spazientire tutti» perché appariva scontata, e dunque insoddisfacente
nella sua rigida ovvietà, laddove non si può liquidare il problema della
rassomi­glianza «con quattro parole, e sufficienti per giunta».
Il Carmine dunque si apre con la testimonianza di una generale
insoddi­sfazione dei cultori di cose d’arte per la «lezioncina di estetica» propinata dal Critico, insoddisfazione oramai maturata in forme
di aperta ribellione. Ma se il Critico così poco suasivo è (e rimarrà)
innominato, le idee da lui professate han­no trasparente e inequivoco
nome e cognome: Benedetto Croce, che proprio sul te­ma del ritratto
e della somiglianza aveva promulgato una precisa disciplina. Fin dai
tempi dell’Estetica, in un saggio corollario del 1907, distinguendo nel
ri­tratto l’aspetto artistico da quello storico e giudicando pertinente in
estetica ov­viamente solo il primo, Croce aveva liquidato il problema
per il fatto che «ogni opera d’arte si giustifica solamente per l’energia
con cui vi è espressa l’anima dell’artista, ossia una certa impressione
o sentimento che egli ha provato [...] l’artista ritrae sempre il proprio
sentimento e non mai il modello»; parimenti ne era della somiglianza,
giacché «tutti i ritratti (posto che siano ritratti e non mere fantasie)
sono somiglianti. La relazione non è da porre tra il ritratto e un assurdo e indeterminabile individuo fisso, ma tra il ritratto e una delle
tante manifestazioni e aspetti della persona ritratta. Se il ritratto coglie
bene uno di questi aspetti, è somigliante» 10. Inoltre a ruota, nella Logica, elaborando il con­cetto dell’individuale come concetto empirico,
aveva fissato le condizioni for­mali che chiudevano definitivamente la
que­stione del ritratto 11. Sono le tesi che il Critico replica meccanicamente nelle prime battute del Carmine. E riman­gono le posizioni
che Croce tiene puntigliosamente a ribadire ancora nella re­censione
brandiana 12. E però posizioni verso le quali oramai, come abbiamo
visto, è apertamente maturata la diffusa insofferenza testimoniata da
Carmine. Per riqualificare e pacificare la questione si muove Eftimio,
il portavoce di Brandi.
Leggiamolo questo impegnativo esordio, che Eftimio consegna a
Carmine: «Però, stando a quel che mi dici, il vostro amico non aveva espresso alcuna ere­sia, rispetto alla fede corrente, e non capisco
191
perciò, come, applicando, sia pure alla lesta, una teoria divenuta di
generale suffragio, almeno fra di voi, abbia su­scitato tanto risentimento. Ancora ieri, da voi che l’apprezzavate, ne sentivo di­scorrere, per
me che poco l’apprezzavo, come di una persona estremamente col­
ta in fatto di arte e di estetica. Ed ora ho dovuto sentire il rovescio
della meda­glia; non solo tu, che del resto sei stato assai misurato, ma
Giulio, Enea, Anto­nio, suoi ferventi estimatori, me n’hanno detto di
peste, stamani stesso: e tutti, a onore del vero, con tali argomentazioni
confuse, che dovevo in cuor mio dare ancora ragione al critico sufficiente, pedante, circoscritto, ma per lo meno chiaro nei suoi limiti».
Già da questa primissima entrata in scena di Eftimio chiaramente
appare il costume nuovo che Brandi introduce nel dibattito estetologico. È rilevante certo e anzitutto la netta, marcata presa di distanza che
viene esercitata nei confronti delle tesi crociane, ma è anche saliente
che ciò avvenga attraverso un atteggia­mento critico e pensoso, e non
velleitariamente polemico, che cioè non deprime per partito preso
le ragioni di Croce, ma le intercetta drammaticamente in me­dias res,
nell’espletamento concreto della loro funzione conoscitiva, per poterle
quindi falsificare attraverso un ripensamento rigoroso, non emotivo
e lucida­mente razionale. Così Brandi “non se la prende” con Croce
(e Croce ha equi­vocato, o più probabilmente ha giuocato sull’equivoco, allorché nella sua recen­sione fa mostra di sospettarlo: «[...] se
il sottoscritto è l’autore, che egli [Brandi] giudica “critico sufficiente,
pedante, circoscritto, ma per lo meno chiaro nei suoi limiti” [...]») ma
con il Critico senza nome. Vale a dire che Croce, per Brandi, sta al di
là del fronte della polemica, essendo un “classico” con cui confrontarsi per così dire a livello alto, ciò che va direttamente impattato è
invece la “fede cor­rente”, la cultura estetica italiana in senso lato, che
largamente con­tinua a identificarsi in sterili ritualità crociane. Ossia il
Croce divenuto articolo di fede, impersonato appunto dal Critico senza no­me, che verrà subito dopo non a caso bollato come «ripetitore
mec­canico di idee non sue». È insomma il crocianesi­mo mummificato
e supponente, epigonale, incapace di evolvere e metaboliz­zarsi, che ha
ridotto la teoria estetica, la stessa estetica crociana, a un formulario
dogmatico, a un repertorio di figure essiccate non più capaci di dare
rappre­sentanza conoscitiva ai problemi cogenti che lo sviluppo della
cultura estetica ha evidenziato.
Acclarato dunque che la strada per un indispensabile rinnovamento del­l’estetica, che la renda nuovamente capace di rispondere alle
domande del pro­prio tempo, non è quella d’imbastire un’ennesima
polemica contro l’estetica crociana, teoria per altro meritoria, alla quale ripetutamente Brandi non lesina riconoscimento, nella misura in cui
essa ha svolto egregiamente il suo ruolo storico (Eftimio arriverà ad affermare: «è stata la più alta del nostro tempo»), il campo d’azione non
192
può essere che quello di andare oltre Croce. Ridare cioè alla teoria
estetica completa libertà di movimento al di là dell’ipoteca delle tesi
cro­ciane e porla in sintonia, attraverso una rimeditazione per così dire
genealogica della stessa estetica cro­ciana, e dunque dell’intera tradizione dell’estetica moder­na, con le nuove prospettive di ricerca emerse
nella cultura contemporanea. An­dare oltre Croce significa ugualmente
non rimanere ancorati alle ragioni del­l’anticrocianesimo viscerale, a
un’opposizione a Croce di tipo ideologico o di principio, prigioniera
perciò di logiche di schieramento meramente reattive, le quali, appagandosi del contraddittorio non apportano nuove acquisizioni teori­che
e paradossalmente rischiano di far regredire, nell’offuscamento creato
dalla polemica, a un livello speculativo inferiore a quello conseguito
dalla stessa dot­trina crociana. Tanto da far preferire a esse, al limite,
lo stesso crocianesimo scolastico “per lo meno chiaro nei suoi limiti”.
Né con Croce né contro Croce 13, lasciandosi alle spalle questa sterile
polarizzazione che tanto e tanto a lungo ave­va mortificato il dibattito
estetologico in Italia, l’estetica di Brandi esordisce, a metà degli anni
Quaranta, in piena autonomia, con un titolo pressoché unico: una
estetica postcrociana.
D’altra parte, se Croce a fronte delle inquietanti novità del libro
di Brandi ha cercato di salvaguardare almeno la propria teorizzazione del ritratto non è stato certo per senile vanità dottrinale. Cro­ce
sapeva benissimo, al di là dell’incidenza diretta che il tema possiede
nella teorizzazione della pittura, delle sue radicali e globali innervature
nella teoria estetica generale. Nel tema, apparentemente marginale e
di gravitazione per così dire locale (le arti figurative, la pittura), del
ritratto si gioca infatti, e si pone anzi con inflessibile nettezza, come
d’altronde evidenzia il corollario della somiglianza, una questione di
fondo che ha percorso la riflessione occidentale già a partire dalla
cultura antica, ben prima che col Set­tecento si configurasse un sapere
specializzato nella forma disciplinare del­l’Este­­tica, ossia il problema
dello statuto dell’opera d’arte. L’arte, attività umana pecu­liarissima,
come è possibile? O, il che è lo stesso, come s’inscrive nell’ordine del
reale, in che rapporto si pone con la natura? O, infine, per usare l’immaginosa espressione di un Batteux, come “fuoriesce dalla natura”?
Come ognuno vede, è il grosso problema dell’imitazione artistica, che
da Platone e Aristotele (ma anche prima) fino a Croce e oltre (pensiamo in particolare all’ultimo Lukács) è stato l’oggetto pregiudiziale,
e banco di prova, di ogni teoria estetica.
Tutto ciò, naturalmente, lo sa bene anche Brandi, che appunto
sceglie la polemica sul ritratto come test case paradigmatico per consumare la sua uscita dal crocianesimo e costruire le fondamenta di una
nuova prospettiva estetica. Carmine lo dichiara del resto apertamente,
già nelle prime battute del Dialogo: «Insomma era scoppiata, immatu193
ra e impreparata, una discussione sull’essenza stessa dell’arte, e noi, a
sentirsi ripetere che l’arte è intuizione, che l’intuizione è espressione,
che l’espressione è espressione di un sentimento, ma che questo sentimento non si sa, in fondo, che cosa sia, si rimase scontenti, irritati e
con una voglia matta di sapere perché il ritratto di Ernesto, somigliando ad Ernesto, per essere un’opera d’arte non si deve piú sapere che è
il ritratto di Ernesto, o, sapen­dolo, far finta di non saperlo, e con ciò,
che non si possa determinare critica­mente, che cosa sia un ritratto, e
che, per l’estetica corrente, si sia, volere o no, in­capaci di stabilirlo.
Questa conclusione, mi dirai, non c’era bisogno del ritratto di Ernesto
per sa­perla: ma di arrivarci di colpo, per la rigida dialettica dell’amico
pe­dante, fece effetto a tutti; e se io ora ne riparlo con te, è perché
penso se ne possa discutere senza bisogno del ritratto di Ernesto, e
con piú calma, sotto questo pla­tano e nel pomeriggio quasi senza fine
dell’estate». Intuizione, espressione, sen­timento: in poche essenziali e
fulminanti battute, l’estetica crociana viene stig­matizzata nei suoi limiti
conoscitivi e riconosciuta fuori giuoco. Da questa og­gettiva constatazione si apre la necessità di un nuovo orizzonte estetologico.
Metteva conto condurre questo approfondimento della recensione
crociana del Carmine, perché segnatamente a partire da qui è lievitata
una genericissima vulgata interpretativa, insieme un po’ miope, un
po’ frettolosa e un po’ interes­sata, che con pochissime eccezioni 14,
mancando abbondantemente di cogliere il profilo e la portata innovativa della proposta teorica introdotta da Brandi, da va­ria estrazione,
e pur naturalmente con diverso spessore, sovente l’ha confinata entro l’ambito crociano 15, nella scia dell’apprezzamento che ne aveva
dato lo stesso Croce tenendone a battesimo l’incipit 16. Lo sviluppo
dell’estetica bran­diana ha valso, con la forza dei fatti, a falsificare del
tutto quell’iniziale valuta­zione 17. Conviene comunque ribadire senza
equivoci che tale vulgata non è più di una vacua leggenda ermeneutica 18 smentita, come abbiamo visto, da inoppugnabili dati testuali e
quindi totalmente da sfatare, sia per stabilire la verità delle cose, ma
soprattutto guadagnare una calibrata messa a fuoco della ri­flessione
brandiana. In definitiva, è conclusione spassionata arrivare persino a
riconoscere elementi di ragione alla stima crociana, secondo cui Brandi
“si muo­ve (né poteva altrimenti) nella cerchia segnata e coltivata dal
lavoro italiano di estetica”, ma ciò va inteso solo nel senso puntuale e
problematico che individua in Croce un antefatto speculativo, quindi
di un Brandi che «riscoperto Croce, lo ha piegato, nelle sue valide
esigenze, entro una prospettiva non crociana» 19.
Qual è questa nuova prospettiva che sotto un platano di platonica
memo­ria, in un lungo pomeriggio d’estate, azzerata la “fede corrente”, Eftimio dispiega a Carmine? Ma prima chiediamoci in che modo
194
il novello teorico ha potuto ri­popolare, con le “molte cose giuste e
calzanti” raccomandate dallo stesso Croce, il suolo natio dell’estetica
dopo averlo reso una tabula rasa. Cosa, quale attrezza­tura, in altre parole, ha consentito a Brandi di operare lo sfondamento della “cer­chia
segnata e coltivata dal lavoro italiano di estetica”, della quale pur si
era nu­trito, per guadagnare le sue nuove mete speculative?
Oggi è fin troppo facile individuare lo specifico dell’estetica brandiana, la sua misura di originalità, patente fin dal Carmine, e che proprio
da qui ha proli­ferato in una incredibile espansione, sia per la radiale
rosa di tiro che è riuscita ad assicurarsi sia per la rigorosa coerenza che,
pur nel suo rigoglioso sviluppo, ha testimoniato lungo l’arco di quasi
mezzo secolo. Ma l’individuazione del suo retroterra concettuale – un
vero e proprio albero genealogico – ha dovuto atten­dere alcuni lustri
prima che si arrivasse a circoscriverla nella sua complessità. In realtà
l’estetica brandiana si è costituita a partire da un nutritissimo pool gene­
tico, il quale, assorbita e trapassata la cultura italiana (crociana), si è
direttamente alimentato alla fonte di una basilare adesione al pensiero
di Kant (e tutto quello che Kant suggella ed esprime della tradizione
estetica della modernità), artico­lato da innesti plurimi e molto vitali. Sono, questi, o per meglio dire quelli più marcatamente incidenti,
sia l’approfondimento delle istanze più vitali della teo­ria della “pura
visibilità” (e di Konrad Fiedler, in particolare) sia la meditazione di
alte sponde filosofiche del primo Novecento, foriera d’intensi stimoli
specu­lativi mutuati in particolare dall’esistenzialismo di Heidegger e
dalla fe­nome­nologia di Husserl e di Sartre 20.
Anche ristretto a questo essenziale schema esegetico, si tratta sicuramente di un fronte tematico ampio e multiforme, eterogeneo, e
davvero, sulle prime, riesce difficile comporlo in una cornice uni­taria.
Vieppiù al tempo del suo esor­dio, nella metà degli anni Quaranta, che
una siffatta circolazione di idee esorbita­va dall’orizzonte della cultura
italiana. Ciò fa giustificare talune recezioni sfo­cate, e pressoché tutte
incomplete, dei primi lettori del Carmine. Così in modo impreciso
e insoddisfacente, come s’è detto, è stato acquisito il rapporto con
Croce, e al momento non venne debitamente apprezzata nemmeno la
grande portata dell’attivazione del criticismo kantiano 21. Se più agevole fu poi avver­tire la presenza di Heidegger 22, giacché l’esistenzialismo
era giunto alle porte d’Italia e si apprestava a dilagarvi, più tardivo fu
rendersi conto del confronto aperto da Brandi con Sartre 23. A lungo,
infine, mancata o sfocata è stata la per­sonalissima e geniale attivazione
che Brandi condusse della fenomenologia 24, che pure è stata il primo,
e forse rimane an­cor oggi il modulo meno inadeguato (fenomenologia
della creazione artistica 25) per classificare la sua riflessione estetica.
E però la questione delle fonti di Brandi, il rapporto cioè di Brandi
con le proprie fonti, fin dal Carmine plurime e in seguito ancor più
195
straboccanti, è questione interessante, non perché possa far dubitare
della sua indubitabile ori­ginalità speculativa, bensì per­ché, consentendo
di entrare nel suo laboratorio mentale, può far apprezzare senza margini di equivoco lo spessore e l’incon­fondibile “stile” della sua estetica.
Il fatto è che Brandi ha sempre intrecciato con le proprie fonti un
rapporto pregnante e singolarissimo. Come avviene per ogni autore originale, attraverso accurate indagini filologiche è possibile quasi sempre
individuare in sede storiografica l’ascendenza di una linea di ricerca, lo
spunto di una sequenza con­cettuale, il luogo incoativo di una proposizione teorica. Ep­pure quel­la stessa proposizione, nella misura in cui è
stata assunta dall’autore originale, non è più la stessa, si è sottilmente
metabolizzata e ha assunto nuove valenze speculative. Brandi ha avuto
in misura rimarchevole il dono di questa prensilità mentale, capace
di rivitalizzare posizioni teoriche di diversa estrazio­ne e farle proprie.
Questa attitudine, che sta agli antipodi del sincretismo o di corrive
forme di criptoamnesia, nasce in Brandi proprio da una nativa vo­
cazio­ne al “dialogo”. Infatti il dialogo, la forma dialogata del Carmine
e dei Dialoghi che seguirono, ben prima di una desueta veste letteraria
è propriamente, in Brandi, la traduzione di una disciplina mentale, il
suo modo peculiare di orga­nizzare il proprio universo concettuale,
costruito attraverso una compenetra­zione intensa, una lettura prensile
e assorbente degli autori funzionali alla pro­pria elaborazione teorica.
In questo senso, la dimensione del “dialogo”, la voca­zione al dialogo come costante rapporto in cui immergere e arricchire le pro­prie
idee, appartiene a tutti i momenti progressivi dell’itinerario estetico di
Brandi, fino alla Teoria generale della critica. Con illuminante boutade
Argan ha definito, per esempio, «dialogo senza personaggi» un’opera
trattatistica come Le due vie. Varrà portare qualche esemplificazione.
Ritengo, e l’ho anche scritto altra volta 26, che il principio ispiratore
del Carmine, e più in generale di tutta l’estetica di Brandi, sia racchiudibile in questo smagliante aforisma del Fiedler: «Come l’arte si
origini nella natura spirituale dell’uomo è la prima domanda, e la più
importante, che si presenta alla tratta­zione filosofica dell’arte: dalla sua
risposta dipendono tutte le ulteriori rifles­sioni» 27. Ep­pure con Fiedler
(ma anche con Wölfflin) e la teoria della “pura visibilità”, matrice
indubbia di tanti suoi percorsi cognitivi, e sulla quale è stato talvolta
appiattito, Brandi ha sviluppato un atteggia-mento talmente libero e
di­sinibito che il chiarimento di questi rapporti è costretto a situarsi in
una banda di oscillazione, scalata fra il riconoscimento di una sostanziale opposizione 28 ov­vero di un ap­profondimento talmente personale
da richiedere precise chiose espli­cative 29. Questa spregiudicatezza intellettuale Brandi l’ha sempre praticata con tutti gli autori con i quali
è entrato in contatto. Anche con Kant. Il ricorso a Kant è proprio la
sorgente della sua estetica, la pietra angolare che egli ha sempre tenuto
196
a ribadire fino alla fine 30. Né solo per quanto al criticismo kantiano
deve, in Carmine, la definizione capitale dell’arte come «realtà pura»,
se si pen­sa alla funzione essenziale che da qui andò svolgendo nello
sviluppo del suo pensiero, prima nel Celso e nell’Eliante, e poi continuamente a partire da Segno e Immagine, il ripensamento della nozione kan­­tiana di «schematismo trascen­dentale»; ma infine genuinamente
“trascendentale” è l’ispirazione dell’intera ricerca teorica di Brandi
nella misura in cui ha sempre perseguito il compito di formulare le
condizioni di possibilità dell’esperienza artistica. Eppure questa ri­
presa del criticismo, ben lungi dal costituire una assunzione scolastica
e depau­perante, è stata una «attenta e scavante lettura di Kant» 31,
capace di interpreta­zioni autonome, e finanche di “rovesciamenti” 32 di
notevole incidenza siste­matica. Concludo queste esemplificazioni con
una testimonianza personale. Tempo fa con Rudolf Arnheim, a cui mi
legava grande dimestichezza, discussi francamente delle utilizzazioni
che Brandi ne aveva fatto negli anni Ses­san­ta 33. Arnheim mi confidò
che non si riconosceva per nulla nelle utilizzazioni di Brandi. E aveva
ragione: ciò che aveva fatto Brandi a partire da Arnheim è tutta opera
di Brandi. Insomma Brandi ha preso da tanti, e continuerà ancor di
più anzi, dopo il Carmine, ad attingere da un più largo fronte tematico di raggio internazionale (per tutti, ricordo il confronto, che passò
anche attraverso una buo­na amicizia personale, con Roland Barthes)
ma tutto ciò che ha pre­so è di­ventato suo e solo suo.
Oggi, dicevo, è fin troppo facile cogliere ciò, decantatesi le situazioni ed enormemente accresciutisi i dati di conoscenza. Bisogna semmai guardarsi da movimenti di segno opposto, cioè letture orizzontali
agglutinanti che spingono, al di là degli intenti degli stessi studiosi,
per intrinseca logica pianificatoria, nel­l’esigenza legittima e senz’altro
commendevole di rendere un quadro organico dell’estetica contemporanea, a elaborare unità di campo, talora forzose e per così dire
a tutti i costi, entro le quali è facile appiattire e demarcare uomini e
idee. Oggi l’estetica di Brandi può rischiare una siffatta omologazione
intellet­tuale. E il Carmine, proprio per la sua rigorosa carica fondativa,
la sua provo­catoria posizione di extratemporalità, esibita fin dall’imposizione della remota forma dialogata, di un dialogato agito come
palestra esemplare, luogo di elevato eser­cizio mentale e non improvvisata polemica di giornata, forse più di ogni al­tra opera brandiana
scoraggia da ogni tentazione di facile consumabilità intellet­tuale. Come
da ogni sbrigativa sistemazione classificatoria. Certo, è sempre pos­sibile
stabilire una qualche ipotesi di raffronto e giungere a reperire «tanti
spunti affini, per non dire convergenti» 34 fra alcuni esiti dell’estetica
novecentesca e la riflessione brandiana, soprattutto nelle riformulazioni
successive al Carmine. Ma al di là di una generica, e non suscettibile
di discussione proprio in quanto generica, e dunque aspecifica, utilità
197
inventariale, accostamenti siffatti rimango­no in superficie, e se talvolta
possono servire a comprendere qualche tratto rile­vante 35, più di sovente portano a equivocare. Che cosa, facendo un esempio per tutti,
se non una facile assonanza terminologica e qualche scontato elemento
d’intersezione concettuale, può coniugare Cesare Brandi e un Galvano
della Vol­pe 36?
Per cogliere la fisionomia precipua dell’estetica di Brandi vale invece insi­stere proprio sul «carattere isolato e solitario» 37 della sua
riflessione. Voglio di­re che questa condizione materiale, la solitudine
di Brandi ai tempi del Carmine, può diventare anche indice di una
caratterizzazione positiva che non induce a collocare Brandi ai margini
del dibattito estetologico, al contrario gli rende un posto centrale e
inconfondibile, addirittura unico nell’estetica del Novecento. Ci chiediamo se non si sia costretti, per intendere ciò, a immaginare una
inau­dita soglia inventariale, costruita ad hoc. Che so: parlare di “brandianesimo”. Che significherà mai tale eterodossissima designazione?
Ma abbiamo corso troppo: prima di argomentare queste impegnative asser­zioni bisognerà misurarci con altre questioni. E intanto è doveroso rendere qual­che velocissima considerazione sui termini costitutivi
della proposta dottrinaria del Carmine. Considerazione velocissima,
perché un’analisi puntuale occupe­rebbe troppo spazio e costringerebbe
a entrare in approfondimenti specialistici che l’occasione presente decisamente sconsiglia, e non è, del resto, in­dispensabi­le, perché il testo
non mi pare abbisogni ai nostri giorni di particolari istruzioni di lettura. Quanto, al suo apparire, era forse troppo innovativo e quindi di
non facile o immediata comprensione, per mancato possesso dei suoi
referenti teorici e la non completa percezione delle dinamiche conoscitive messe in giuoco, oggi non fa più problema. Gli studi che hanno
accompagnato il Carmine, e lo stesso fiorente sviluppo successivo della dottrina brandiana, che ripetutamente intor­no ai concetti nucleari
qui coniati è ritornata per arricchirli, approfondirli e ri­plasmarli di
continuo, hanno anche creato la loro migliore cornice d’intellegibi­lità.
Basteranno dunque pochi cenni di sinossi.
Va sottolineato, anzitutto, la nuova ottica potente che il Carmine
introdu­ce. Qui non si guarda più all’arte come realtà di fatto, opera
già compiuta dal­l’artista, le cui modalità, dissoltesi nel fuoco della
creazione, rimangono di ne­cessità nebulose, costringendo ad assumere l’arte come cosa fra le cose, oggetto non-naturale eppure mon­
danizzato, di cui rimane pertanto vaghissima la parti­colare na­tura.
La prospettiva brandiana pone invece un livello analitico radicale, direttamente mirato a cogliere la genesi dell’arte, cioè a definire le sue
condizio­ni di possibilità problematizzando l’evento della creazione. È
come studiare la nascita dell’arte al microscopio. Osservando paziente198
mente, come al rallentato­re, i processi della coscienza umana, coscienza intenzionale, si scopre una sua ca­pacità peculiare di attingere alla
natura, che si fa strada in un intreccio ricco di al­ternative e opzioni
possibili, pervenendo a porre se stessa come immagine ar­tistica attraverso un percorso specifico, segmentabile nelle due polarità funzio­nali
di «costituzione d’oggetto» e «formulazione d’immagine». La prima è
«la costituzione del simbolo col quale la totalità dell’uomo, espressa
nella coscienza, pone se stessa come immagine»; la seconda è «l’atto
in cui la libertà uma­na fon­da se stessa, come creazione autonoma e
singola di realtà pu­ra». Nasce in tal gui­sa un’entità, ciò che storicamente chiamiamo arte, che possiede caratteri propri e irriducibili,
confrontabile ma non confondibile sia col mondo empirico sia con atti
diversamente elaborati dalla stessa coscienza. Questa modalità peculiare del­la co­scienza umana di configurare se stessa come immagine
artistica le dona allora uno status unico, quello di «realtà pura», cioè
una real­tà priva di esistenza empirica. L’arte appare così essere la più
al­ta real­tà conseguibile dall’uomo, «l’unica pura realtà che competa al­
la no­stra conoscenza, condannata al fenome­no e respinta dall’essere».
Questa capitale acquisizione impone un nuovo registro di definizione del­l’intera dimensione artistica, riformulando le nozioni e i
parametri consegnatici dalla tradizione estetologica o introducendone
di più adeguati. Per esempio, la costituzione dell’arte come im­magine
consiglia di qualificare la sua peculiarità come «figuratività», e dunque
ogni arte è figurativa. Ciò non significa che tutte le arti siano ridotte
alla condizione della pittura, bensì che in ogni arte spazio e tempo
sono le condizioni formali che «si dovranno trovare alla radice medesi­
ma della formulazione d’immagine, come condizioni dell’inflessione
stessa del­la forma, che, nella cornice del­lo spazio e del tempo ideali,
si organizza in realtà pura». Questa fusione molecolare di spazio e di
tempo, che presiede alla «co­sti­tuzione originaria» dell’artisticità, Brandi la nomina riattivando la classica no­zione di «ritmo». Per converso,
l’assunzione formale del­lo spazio e del tempo quali condizioni strutturali della figuratività dell’immagine, rimuove, rideter­minandola alla
radice, la celebre di­stinzione delle arti inaugurata da Lessing: “ar­ti del
tempo” e “arti dello spazio”. Mancato il riconoscimento della peculiarità strutturale dell’immagine artistica, cioè forma spazio-temporale
fondata dal rit­mo, quella distinzione fu costretta a riferirsi «necessariamente, non già all’opera d’arte in quanto realtà pura, ma all’opera
d’arte in quanto fa parte, per la fisicità della sua formulazione, della
realtà esistenziale». La distinzione delle arti, senza misconoscere che
esse fanno tutte capo al medesimo processo intenzionale della coscienza, è invece assicurata dal riconoscimento delle autonome flessioni
con le quali può diversamente strutturarsi la figuratività dell’immagine
artistica, flessioni singolarmente analizzabili per via fenomenologica.
199
Così il Carmine, pur fondando una rigorosa teorica della pittura, non
per questo restringe la sua valenza conoscitiva diventando un’estetica
particolare. All’opposto, si pone in­vece come teoria generale dell’essere dell’arte attraverso una sua modalità preci­pua, un suo modo interno
di esistenza, e dunque come sistematica aperta che mira alla costruzione di una enciclopedia delle arti, Elicona, alla comprensione cioè
dell’intera morfologia dell’arte.
Piuttosto che attardarci in un lungo elenco dei rilevantissimi contributi prodotti dal Carmine, che ognuno può agevolmente rubricare,
vorrei invece rac­comandare, seguendo questa sottilissima e pervasiva
analisi fenomenologica dell’universo artistico, di non farsi sfuggire la
portata complessiva del volume nel suo martellante conseguire una
globale rifondazione delle problematiche ba­silari della tradizione estetica moderna. Voglio dire che se qui si verifica la mi­sura postcrociana dell’estetica di Brandi, che non procede nel rigetto pregiudi­ziale
di Croce, ma a un suo sottile smantellamento, o, come oggi si dice,
alla decostruzione puntuale dei suoi pilastri fondativi (la nozione di
immagine e di liricità, la dottrina del sentimento e della fantasia, la
concezione dell’arte come bellezza...), si può verificare passo passo
come tale decostruzione parimenti si eserciti in un ripensamento radicale dell’intera estetica moderna (la teoria del­l’arte come giuoco e
come sogno, quella del Kunstwollen, la no­zione di forma, di stile e
di decorazione, la teoria della bellezza e dell’amore, l’estetismo e la
mo­ralità dell’arte, la questione delle arti applicate, il problema dei
generi artistici, la querelle sull’attualità dell’arte, l’esercizio della critica
e della storia dell’arte...).
Il Carmine dispiega in tal modo un completo orizzonte conoscitivo,
origi­nalissimo e profondamente innovativo, anzi rivoluzionario, che
apre compiu­tamente all’estetica del secondo Novecento. E viene da
non crederci, che tanto sia avvenuto in un pomeriggio d’estate, sotto
l’ombra di un platano, nella di­scussione sorta quasi per caso fra Carmine ed Eftimio intorno al ritratto di Erne­sto. Un pomeriggio davvero
memorabile per la cultura contemporanea. E i fuo­chi speculativi lì
accesi non si spensero col sopraggiungere delle tenebre ma le illuminarono a lungo. Per tanti e tanti altri pomeriggi, quei fuochi verranno
in­stancabilmente alimentati da Eftimio, negli altri tre Dialoghi che lo
metteranno in scena, e poi, senza me­diazione, direttamente da Brandi
nei suoi libri succes­sivi.
Il presentimento di questo lavoro futuro si può intravedere in una
tur­bativa che, al momento del sipario, procrastina la conclusione del
Carmine. È un arrivo inatteso, quello di Leone, rumoroso perché «giunge facendo scricchio­lare le scarpe più della ghiaia», ma anche perché
impugna contro la dottrina ap­pena promulgata esigenze rumorose di
«modernità»: «Ancora parlare di pittu­ra! Ma se ormai agonizza. [...]
200
Naturalmente non è che sia morta; è morta solo in quell’aspetto tradizionale di pittura che a noi non dice più nulla. In realtà è vi­vissima con
un’altra fisionomia [...] è il cinematografo, che è la forma attuale, vi­va,
la palingenesi in cui la pittura trionfa». È un pezzo di bravura, questo
epi­logo del Carmine, che proprio sul finire riaccende di carica attuale la
tensione del­l’intera trattazione. Ma su di esso non possiamo indugiare.
Lo abbiamo evo­cato solo perché propizia una osservazione conclusiva.
Una qualità preziosa del Carmine, qualità da cui anzi discende la
stessa fe­racità dell’estetica brandiana, è di essere non solo una sistematica aperta verso l’universo dell’arte, ma aperta anzitutto nei confronti
di se stessa, di essere cioè capace di riconoscere e integrare i limiti conoscitivi che la sua progressione possa far emergere. Il caso del cinema
ben si presta a evidenziare la natura di questi limiti e rende ragione
della molla che ha animato l’attività successiva di Brandi teorico. Non è,
ovviamente, in questione la finezza della lettura brandiana del cinema,
che rimane ancor oggi una delle più lucide riflessioni su elementi no­dali
della settima arte 38. È in questione l’aspirazione brandiana a perseguire
in maniera olistica tutte le stratificazioni e le articolazioni dell’esperienza
artistica, radicandole nei processi della coscienza intenzionale secondo i
termini della teoria dell’immagine fondata nel Carmine. Brandi dovette
prendere atto, poco dopo, che a quel modello sfuggiva la presa su
talune configurazione significative di quell’esperienza, come il cinema
appunto 39. La ragione non stava nella sco­perta che quel modello fosse
scorretto, ma che era di legittimità per così dire ristretta, nel senso che
prospettava una strutturazione della coscienza rivelatasi sommaria, e
pertanto non di validità universale. Insomma la strada intrapresa dal
Carmine non portava a un vicolo cieco, era anzi via aurea, ma aveva
in­filato un abbrivio. Pago del rovesciamento compiuto della tradizione
estetologi­ca, la quale aveva postulato la spontaneità dell’immagine, la
sua originarietà, Brandi, ricostruendo fenomenologicamente i processi
della complessa costru­zio­ne dell’immagine artistica, non si era avveduto
che l’immagine non è un’ela­borazione primaria, ma uno stadio ulteriore
di ristrutturazione della coscienza umana, che non nasce come immagine ma si apre come «schema preconcettua­le», matrice sia dell’immagine
che del segno. Questa scoperta capitale comportò la revisione del modello del Carmine 40 e da quella revisione è lievitata tutta la successiva
riflessione brandiana, volta alla definizione di modelli analitici sem­pre
più raffinati e inclusivi dell’esperienza artistica.
Il lettore odierno, sia che si accosti per la prima volta al Carmine
sia che ap­profitti della presente edizione per una rilettura, ha il di­ritto
di porre almeno due domande, abbastanza scontate invero, ma non
per questo indegne di consi­derazione. Per prima cosa, essendo ovvio il
carattere incoativo del Carmine, di “cominciamento”, con i conseguenti
201
diritti di primogenitura e il congiunto ca­rattere di rappresentanza, ha
tuttavia il diritto di chiedere quale ruolo ha finito per svolgere questo
testo nell’economia dell’estetica brandiana, di un pensiero cioè mobilissimo che si è enormemente accresciuto in un arco più che trenten­nale,
riconfigurandosi sensibilmente, sulla base della revisione procurata dalla nozione di «schema preconcettuale», in relazione alle diversissime
congerie di cultura che ha attraversato. Insomma: vale la pena, oggi,
(ri)leggere il Carmine; esso è davvero ancora essenziale per acquisire
l’estetica brandiana? Non è suf­ficiente, o addirittura preferibile, rivolgersi a qualche opera successiva, crono­logicamente centrale del suo
percorso evolutivo, come Le due vie 41, o senz’al­tro la summa finale di
Teoria generale della critica?
La seconda domanda, ancora più radicale o addirittura brutale, è di
decidere se l’estetica brandiana, come si è configurata a partire proprio
dal Carmine, fatti salvi i suoi non discutibili meriti storici, costituisca
una presenza tuttora attiva nell’attuale dibattito estetologico, «in tempi
di pensiero debole che in arte ha visto affermarsi la transavanguardia
e il post-moderno, ossia quanto dire il non-pensiero e la non-arte» 42.
Una posizione teorica “forte”, come quel­la brandia­na, che ha posto
il modello dell’arte come «realtà pura», e poi come «astanza», non
ripugna intimamente alla congerie nella quale versiamo, non è condannata a essere fuori giuoco? E, comunque, come convertire in interesse
presente, co­me sintonizzare le sue modalità così spiccatamente personali, come inquadrare Brandi e il Carmine nell’orizzonte della ricerca
estetica contemporanea?
Il Carmine, come abbiamo già riferito, non fu una ricerca isolata,
ma inau­gurava un impegnativo progetto estetologico di cui Brandi fece
partecipe i letto­ri, nel 1945, con un annuncio che si limitava a dire: «Il
Carmine o della Pittura è il primo di una serie di dialoghi, dedicati alle
Arti, che l’Autore raggruppa sotto il nome di Elicona». Nel 1956, il
risvolto di copertina del volume che pubblicava Arcadio o della Scultura e Eliante o dell’Architettura, precisava che si trattava «di una serie,
o piuttosto ciclo, rigorosamente pensato e armonicamente costrui­to»
di cui, oltre quello già apparso sulla Pittura e quello imminente sulla
Poesia, sarebbero stati pubblicati «gli ultimi due, dedicati alla Musica
e al Teatro, chiu­dendo così la trattazione e coprendo l’intera fenomenologia artistica» 43. L’anno dopo, nel risvolto di copertina del Celso o
della Poesia, si avvisava che ivi si tro­vavano «sviluppi acuti e fecondi»
dell’interpretazione brandiana del processo creativo e che «è in questa
nuova opera che la riflessione estetica dell’autore compie le sue prove
più ardue e sottili». L’opera teorica successiva, quel gioiello analitico
che è Segno e Immagine (1960), nondimeno non si pone nella linea di
quella dichiarata continuità progettuale. L’elemento più vistoso è che
cade la for­ma dialogica, alla quale Brandi non affidò più la trasmis202
sione del suo pensiero (e anzi non pubblicò più i promessi dialoghi
sulla musica e il teatro: l’impegno di teorizzare queste ma­terie verrà
mantenuto solo molti anni dopo, nel 1974, nella Teoria generale della
critica), e nel giro della sua riflessione compaiono as­sunzioni tematiche
e varianti terminologiche che, pur evolvendo lungo la linea anteriormente tracciata, approdano ad acquisizioni che sembrano debordare
dal­l’ottica del Carmine. Questo fatto, con­fermato e acuito dai caratteri
della produzione seriore (Le due vie, Struttura e architettura...), ha
ingenerato l’im­pressione che nel corso dell’itinerario brandiano si sia
determinata una frattura interna del primitivo ordine concettuale, il
sanamento della quale ha potuto prodursi solo attraverso una sorta di
“superamento” delle primitive acquisizioni del Carmine. Ciò consiglierebbe di rappresentare lo sviluppo dell’estetica di Brandi scaglionato
in due momenti elaborativi, due fasi successive, distinguibili appunto
dall’opera-cerniera, Segno e Immagine, e che hanno ai due estremi,
da un lato il Carmine, e dall’altro la Teoria generale della critica. La
questione da decidere è se tale modello bifasico sia euristico, se risulti
cioè davvero esplicativo dell’evoluzione dell’estetica brandiana e ne
assicuri una fedele intelligenza, ov­vero invece interpreti male la natura
delle sue dislocazioni temporali e le va­riazioni terminologiche che le
caratterizzano, rischiando di fraintendere i suoi assi di scorrimento e
finendo inevitabilmente col darne una rappresentazione errata. Sciogliere questa alternativa metodologica non è senza conseguenza nel­le
pratiche di lettura. Nel primo caso, il Carmine, quale che sia il suo
gradiente spe­culativo, rappresenta appena una prima e arcaica manifestazione del pensiero brandiano, una condizione iniziale e per così
dire fetale di questo pensiero, cui conviene certo correlare quanto
è seguito, ma non molto di più che per ragioni di completezza e di
correttezza filologica; nel secondo caso, il Carmine co­stituisce il fulcro
dell’estetica brandiana, e dunque contiene la sua pe­culiare chiave di
let­tura, sia nel senso che a partire da esso, dalla sua espansione concettuale, vanno acquisite e capite le formulazioni se­riori, sia nel senso
che nel giuoco interno di queste ricorrenti espansioni va colto nella
sua specificità complessiva l’estetica di Brandi.
Può gettare lumi sul dilemma cominciare a interrogare lo stesso
Brandi. Nel 1962, quando il Carmine venne ripubblicato da Einaudi,
egli stese una nota introduttiva in cui diede «quelle notizie che possono giovare alla comprensione e alla situazione nell’opera che si ripubblica, rispetto al momento in cui fu ela­borata e all’economia di quanto
l’ha seguita nel tempo». In quella sede affermò che nel Carmine «sta il
nucleo del suo pensiero sull’arte», nel senso che lì «erano state poste
le basi di una fenomenologia della creazione», e che i saggi teorici
che l’hanno seguito «rappresentano [...] una continuazione, se non un
ap­profondimento, delle tesi sostenute nel Carmine». Continuò con un
203
riepilogo dei punti teorici più importanti introdotti nelle trattazioni
posteriori, riferendoli sostanzialmente alla «ripresa dello schematismo
kantiano», da cui discende an­zitutto la teoria del linguaggio esposta nel Celso, «che veniva naturalmente ad integrare, nella specificità
della parola, le tesi svolte nel Carmine sulla costitu­zione di oggetto
e la formulazione d’immagine». Infine segnalava che negli svi­luppi
nati da questo incontro col pensiero kantiano venne la soluzione del
problema annoso dell’architettura come di «arte senza oggetto» e la
trattazione di Segno e Immagine, che anch’essa «integra e non sposta
la fenomenologia del­la creazione quale fu esposta per la prima volta
nel Carmine» 44. Una illustra­zione, come si vede, tutta all’insegna della
continuità del suo pensiero. È il caso di dare credito a Brandi?
Atteniamoci a un paradigma indiziario e prendiamo in considerazione al­cune “spie” d’ordine linguistico, dacché le variazioni terminologiche sono un elemento macroscopico, e sicuramente significativo,
dell’evoluzione del pensie­ro brandiano. Ci sono due termini chiave
privilegiati, nel lessico di Brandi, che designano la qualificazione irriducibile dell’artisticità, la sua essenza: «realtà pu­ra» e «astanza». Il
primo è al cuore del Carmine, il secondo campeggia nella Teoria generale della critica. Come apprezzare tale dissimilazione? Questo vi­
stoso mutamento terminologico comprova un corrispettivo mutamento
concet­tuale, e dunque conferma l’opportunità di riconoscere due fasi
distinte dell’iti­nerario estetico brandiano? A scoraggiare tale ipotesi,
anche senza procedere a un approfondimento degli ambiti concettuali
in cui agiscono le due formula­zioni, che qui non è possibile condurre,
può bastare riflettere sulla constatazione che fra il Carmine e la Teoria
generale della critica passano trent’anni, scalati da tutto un grappolo di
testi intermedi, l’esame dei quali dimostra l’esistenza di una progressiva evoluzione, terminologica e concettuale, per nulla identificabile
come frattura. Per esempio in altra opera-cerniera, Le due vie (che, a
sua volta introduce una ennesima variazione terminologica, quella di
«fenomeno-che-fenomeno-non-è» 45), «i termini “realtà pura” e “astanza” si alternano e tendo­no alla sinonimia» 46. Questi motivi inducono
allora a ritenere che la definizio­ne dell’arte come «realtà pura» e come
«astanza» sia, insieme, una stessa e una diversa definizione. La stessa, nel senso che entrambe le formulazioni sono ri­volte a soddisfare
una medesima esigenza definitoria, secondo la prospettiva speculativa
fissata nel Carmine; ma anche diversa, nel senso che trasmutatasi in
«astanza» la nozione di «realtà pura» as­solve a funzioni definitorie non
prima previste, e solo latenti nel Carmine, e che nella Teoria generale
della critica im­pegnano valenze filosofiche di grado metafisico, e cioè
metateorico.
Del resto, di formulazioni o riformulazioni che hanno acquisito
incidenza analitica o riattivazione teorica nel corso del presunto se­
204
condo momento del­l’estetica brandiana è facile registrarne la pre­senza
anche nel lessico delle prime opere, ancora all’interno della stagione dei Dialoghi. Per esempio in un testo brandiano molto bel­lo, La
fine dell’avanguardia (1950), e un po’ sacrificato per­ché mal servito
editorialmente 47, eppure rilevante anche per la conoscenza di Brandi teorico, e anch’esso anzi in certo modo “cerniera”, termini come
“fla­granza”, “astante”, “partecipazione dello spet­­tatore”, “integrato”
hanno larghis­sima e fattiva circolazione. Insomma un attento esame
impone di riconoscere che a partire dal Carmine esi­ste una continua
evoluzione fisiologica della rifles­sione brandiana, d’ordine insieme lessicale e concettuale, non imputabile a una in­crinatura interna dell’asse
teorico ma riferibile a dislocazioni concettuali de­terminatesi, in un
continuo lavoro di riscrittura, per ragioni di posizione. Con la vaga
dizione di “ragioni di posizione” voglio sottolineare la necessità della
sto­ricizzazione del pensiero brandiano, che non è nato né vissuto in
apnea, ma al contrario si è continuamente arricchito, e sempre più
arricchito nel corso del suo sviluppo, nel confronto, proprio “in dialogo”, con le proposte via via emergenti nel dibattito estetologico. È
sicuramente istruttivo registrare queste dislocazioni e può essere utile
ritagliarle in soglie tematiche caratterizzate da una qualche do­minante
concettuale, ma con la precauzione di avvertire che non si tratta di
gradi fasici, cioè momenti noetici distinti, bensì di accentuazioni stimolate dai cangianti referenti con i quali Brandi non ha mai cessato di
commutare il suo pensiero. D’altronde, di una consimile metodologia
anche noi ci stiamo avva­lendo parlando di “opere-cerniera”. Si potranno anche, per comodità di esame, cristallizzare queste dislocazioni, per
altro numerose, e segmentarle in due qua­dranti generalissimi, quali,
all’inizio della vicenda teorica di Brandi, la cultura crociana e, alla
fine, la cultura strutturalistica e semiotica (ma in mezzo rimane tan­to
di altro), e in relazione a essi apprezzare specificamente il Carmine o
met­tiamo Le due vie. E però sono stime d’interesse storico-culturale,
esterne al gra­diente teorico vero e proprio, cioè al fondo speculativo
di Brandi, nel senso che tali temperie culturali hanno occasionato il
suo sviluppo procurandogli ragioni di approfondimento, e dunque
rappresentano stazioni importanti del suo itine­rario, ma non ne hanno
alterato il profilo identitario.
Piuttosto, dietro l’ipotesi intenibile di “un primo” e “un secondo” mo­mento dell’estetica brandiana sospetto che possa celarsi altra
equivocazione, cui in qualche misura può aver contribuito lo stesso
Brandi. Nella nota introduttiva al Carmine del 1962, che ab­biamo
prima richiamato, Brandi oltre ai chiarimenti già riportati preannunciava anche che «alla fine della ricognizione panoramica delle ar­ti,
l’autore intende approfondire il secondo aspetto che com­pete al­l’arte
non più come creazione artistica in atto, ma in quanto viene ri­cevuta
205
come opera d’arte. E se, da questo punto di vista, l’autore ha già dovuto trattarne nella Teoria del restauro (che sta per uscire in volume)
dove si presenta come l’elaborazione e lo svolgimento dei cenni già
anticipati a questo riguardo nel Carmine, non ri­tiene affatto di avere
esaurito l’argomento, che implica l’esame del­l’opera d’arte, non più
come creazione ma come comunicazione» 48.
Comprensibilmente soddisfatto e impaziente di tenere a battesimo
l’ultimo nato (la Teoria del restauro, alla quale Brandi teneva moltissimo, uscirà l’anno dopo, nel 1963), tutto preso dai fermenti che aveva
in gestazione, Brandi, mentre ha ben servito i lettori de­gli anni Sessanta (ricordiamo che Segno e Immagine era stato pubblicato nel 1960, e
la riflessione sull’arte come comunicazione sarà la chiave di volta de
Le due vie, pubblicato nel 1966), non è stato forse ugual­mente felice
nel rappresentare l’evoluzione del suo pensiero ai lettori futuri. In­fatti,
mentre si preoccupava di precisare che «la teoria del segno e dell’immagine integra ma non sposta la fenomenologia della creazione quale
fu esposta per la prima volta nel Carmine», riguardo al secondo versante analitico della sua feno­menologia artistica, quello della recezione
dell’opera d’arte, promettendo tratta­zioni future (Le due vie) e indirizzando l’attenzione verso l’imminente pub­blicazione della Teoria del
restauro, si limita ap­pena ad alludere ai «cenni già anticipati a questo
riguardo nel Carmine». Il che, naturalmente, è vero: il tema centrale
del Carmine è la fondazione dell’arte come realtà pura. Cionondimeno
la fon­­dazione di questo tema centrale implica parimenti la determinazione del versante della recezione, anche se lì tale versante non ha
sviluppo teorico, ma è indicato appunto per “cenni”. Cenni significativi
del resto: «l’opera si stacca dal suo creatore, chiusa e perfetta, sottratta
al divenire eppure continuamente attrat­ta nel presente dalla coscienza
che l’accoglie in se»; o ancora: «l’opera d’arte gode di una realtà pura,
che si rivela come tale solo alla coscienza che l’accoglie in sé». Che
la teorizzazione della recezione dell’opera d’arte sia stata sviluppata
da Brandi solo dopo il giro d’esplorazione fondativa compiuto nei
Dialoghi, una ventina d’anni dopo il Car­mine, e dunque nei termini
linguistici e problematici che caratterizzarono quelle stazioni del suo
itinerario, secondo angolazioni colo­rate da diversi referenti concettuali
e mutati contesti culturali, autorizza sì a parlare di una svolta significativa del suo pensiero ma non interpretando questa svolta come un
“secondo” momento dal “primo” differenziale. La seconda via de Le
due vie, per così dire, era stata tracciata già nel Carmine, all’interno
del­l’originario progetto di una fenomenologia globale dell’artisticità,
ossia una cir­cum­navigazione fondativa che desse integrale ragione dell’esperienza estetica.
Che le cose stiano effettivamente così è dimostrato, oltre che da
precise con­siderazioni testuali, anche da non equivocabili indici esterni.
206
Uno, in particolare, è di grande rilevanza. Come è noto, la Teoria del
restauro è una raccolta organica di scritti dedicati alla conservazione
delle opere d’arte. Il carattere antologico del testo e il fatto che, come
sempre in Brandi, disquisizioni teoriche vi siano fram­miste a considerazioni legate direttamente all’operatività, ha sacrificato di regola, presso gli studiosi di estetica, l’apprezzamento della sua importantissima
valenza teorica. Orbene il primo capitolo del volume, di grandissimo
spessore speculativo (il restauro, tra l’altro, vi viene definito «il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua
consistenza fisica e nella sua du­plice po­larità estetica e storica, in vista
della sua trasmissione al futuro» 49) e che impronta l’intera trattazione
s’intitola “Il concetto di restauro”. È scontato trovare qui oramai pienamente aperta la via della recezione: «qualsiasi compor­tamento verso
l’opera d’arte, ivi compreso l’intervento del restauro, dipende dall’avvenuto riconoscimento o no dell’opera d’arte come opera d’arte» 50.
Me­no ovvio è però riflettere che tale testo era stato già pubblicato col
titolo di “Il fondamento teorico del restauro” nel 1950 51. Una data
davvero eloquente per stabilire la precocità della riflessione di Brandi
intorno ai temi della recezione. Ma c’è ben di più. Uno studio attento
ha accertato che tale data va ulteriormente anticipata, addirittura al
1942 52. Il che dimostra che nel 1939, quando Brandi as­sunse l’incarico
di fondare e dirigere l’Istituto del Restauro e contempo­ra­nea­mente intraprese la ricerca che avrebbe portato al Carmine, estetica e teoria del
restauro nacquero da un intreccio di pensieri strettamente correlati; ma
sopra­tutto dimostra «come Brandi, fin dalla prima impostazione della
sua estetica, avesse affrontato il problema dell’opera d’arte in entrambi i “versanti” del suo rapporto con la coscienza, cioè sia in quanto
creazione in atto sia “in quanto vie­ne ricevuta come opera d’arte”» 53.
Tutta una serie di ragioni, insomma, sulle quali non mette conto
di di­lungarsi oltre, propizia dunque la conclusione che l’estetica di
Brandi è un sistema unitario fortemente centrato sul Carmine ma nel
contempo aperto a continue acquisizioni progressive. Altrimenti detto,
l’estetica di Brandi è nata e si è sviluppata sulla base di un organico
progetto estetologico le cui linee maestre furono compiutamente fissate
nel Carmine e via via, con rimarchevole lineari­tà, continuamente sviluppate, arricchite e approfondite a cospetto delle eve­nienze teoriche
suggerite dall’evoluzione del dibattito estetologico, attraverso una calamitazione problematica caratterizzata da una sostanziale unità d’ispira­
zione 54. Questa tensione, questo stato di vigile ricerca, questo dialogo
in lotta continua è una costante dell’opera brandiana, votata a una
enciclopedia dell’ar­ti­sticità rigorosamente costruita come un planetario
sperimentale, dinamizzato dai dati nuovi che le sonde più eterogenee
consentivano di assimilare. Brandi è rimasto sempre fedele a se stesso,
ma allo stesso tempo non si è mai replicato: non barava coi lettori.
207
Ogni suo testo innovava sui testi precedenti, nel senso che rielaborava,
e sovente in profondità, le precedenti messe a fuoco teoriche. In real­
tà l’opera di Brandi è tutta attraversata da una costante e produttiva
“crisi di assestamento” dell’ordine concettuale posto dal Carmine. Una
crisi fu già il Cel­so (teoria del linguaggio e della parola, la poesia), lo fu
l’Eliante (teoria dell’ar­chitettura) e poi, continuamente, tutte le opere
successive, fino all’assestamento conclusivo (conclusivo per mere ragioni anagrafiche e biografiche) di Teoria ge­nerale della critica. Questa
riformulazione continua della propria sistematica per dare una sempre
più comprensiva e affinata legittimazione teorica dell’universo dell’arte,
questa instancabile messa in giuoco ad alto rischio della propria dot­
trina per tenerla sempre in linea con i tempi, scientificamente congrua,
è in ve­rità la caratteristica saliente e più affascinante della riflessione
di Brandi, la sua moralità di pensatore, la sua alta lezione di umanità.
C’è un’ultima domanda che siamo impegnati a raccogliere dall’odierno let­tore del Carmine, particolarmente delicata e impegnativa.
Concerne il nostro riconoscimento, esplicitato già in apertura, di questo testo come un classico del­l’estetica del Novecento; e di converso,
e più in generale, dell’estetica di Brandi, come una riflessione che,
per dire con Nicola Abbagnano, «segna una svolta nel­l’orientamento
dell’estetica contemporanea» 55. In che senso “segna una svol­ta”? E
che significa, alludendo al significato di questa svolta, l’indicazione che
abbiamo lasciato serpeggiare di “brandianesimo”?
Una notazione su Brandi dice: «Brandi non è un estetologo pu­
ramente teo­rico ma ha esperienza concreta, anche tecnica, di poesia, di
musica e delle varie arti» 56. Abbiamo usato le prestigiose parole di Eugenio Montale, ma a rappre­sentanza di una affermazione puntualmente
ricorrente, che attraversa tutta la letteratura sull’estetica brandiana. Dietro l’apparente ovvietà (è risaputo che Brandi non fosse un estetologo
di professione e, prima che teorico d’arte, era amatore, critico e storico
d’arte) una tale notazione non è ininfluente per la ca­ratterizzazione
dell’estetica di Brandi e merita decisamente di approfondirla. Facciamolo facendo tesoro di alcune osservazioni molto stimolanti. Per esempio
questa di Gianfranco Contini: in Brandi «le analisi fenomenologiche
prevalgono qualitativamente sul sistema» 57. Che significa che “le analisi fenomenologiche prevalgono qualitativamente sul sistema”? Può
chiarire e approfondire questo rilievo, da altro angolo di visuale, un
sottile giudizio di Emilio Garroni: «Non c’è in Brandi un’autotematizzazione del problema che la riflessione filosofica è a se stessa. Mirava
a una buona teoria, non alla comprensione della possibilità di una
teoria in genere. Mirava a capire, non a comprendere il capire» 58. Ma
se è vero che l’analisi fenomenologica dell’arte fa aggio, in Brandi,
sulla pura siste­matica dell’arte, come ben vedeva Contini, nel senso,
208
appunto esplicato da Gar­roni, che Brandi mirava alla costruzione di
una teoria, la sua teoria dell’arte, e non al teorizzare in generale, riesce
illuminante, per spiegare questa anomalia estetologica, richiamare altro
giudizio emesso sull’estetica di Brandi, e anzi su­scitato proprio dal
Carmine. Un giudizio davvero storico, perché espresso da Giulio Carlo
Argan nel 1946, all’unisono con quello di Croce: «Carmine rappre­senta
anzitutto l’integrità di una esperienza, e della più rigorosa e impegnata
esperienza che possa darsi dei fatti della pittura tanto impegnata e
rigorosa, ap­punto, da costituirsi necessariamente in una formulazione
teoretica. [...] nel con­testo dell’argomentazione gli enunciati concettuali
s’inseriscono con così abba­gliante vivezza d’immagine da non potersi
facilmente discernere, e di fatto sa­rebbe arbitrario distinguere, dove
l’esperienza del fatto artistico o la formulazio­ne critica del giudizio
facciano luogo alla meditazione filosofica» 59.
Un giudizio, dicevamo, storico e insieme lungimirante, perché ab
imis, fin cioè dall’esordio ha colto, come meglio non si potrebbe, quella cifra identitaria del Carmine che è anche il modo peculiarissimo
di essere di tutta la riflessione estetica di Brandi. Questa, a definirla
sommariamente in termini genetici, è il grado speculativo di una esperienza totalizzante dell’arte. Voglio dire non tanto, o non soltanto, che
all’esperienza dell’arte Brandi ha completamente dedicato la propria
esistenza personale, ma che tale esperienza si è concretata attraverso
un contatto con l’arte, le opere d’arte, per così dire assoluto, e quindi
necessitato a coglierne tutte le polivalenze. È questa eccezionalità della
pratica brandiana del­l’arte ciò che qua­lifica anche la sua capacità di
divenire analisi teorica, e dun­que de­termina lo statuto della sua teoria
estetica. Brandi ha avuto il dono di potersi dislocare senza residui all’interno del mondo dell’arte, in un contatto intimo di congiunzione,
proprio a-tu-per-tu 60. Questa straordinaria comunione con l’arte lo
ha allora impegnato a sviluppare tutte le possibilità di rapporto: sia di
fruirne sul piano del pu­ro godimento estetico sia di studiarla e descriverla come fatto storico e culturale; sia di analizzarla in quanto ma­teria,
comprenderla nelle sue componenti fisico-chimiche per preservarla e
consentirne la trasmissione al fu­turo, sia di astringerla nelle supreme
assisi del pensiero come essenza, manife­stazione radicale e irriducibile
della spiritualità umana: come fare dell’uomo e come epifania del divino. L’estetica di Brandi è dunque un grado, il grado con­cet­tualmente
estremo, della sua assunzione olistica del fenomeno arte. È questa unicità ciò a cui penso col termine di “bran­dianesimo”.
Il punto che rimane da capire, piuttosto, è se questa attitudine
personalis­sima di Brandi, la sua eccezionale visitazione del mondo
dell’arte, in quanto è stata capace di tradursi in fatti cognitivi interpersonali, rappresenti un fatto ri­marchevole unicamente per gli importantissimi effetti scientifici che ha pro­dotto, e fra questi segnatamente la
209
sua riflessione estetica, appunto il grado teori­co di questa visitazione;
oppure se le stesse eccezionali modalità di realizzazione che hanno
determinato i caratteri di questa riflessione siano rimarchevoli per ragioni ulteriori, che impegnano un diverso e più elevato livello, insieme
epi­stemico e storico-culturale.
Siccome il tema mette in giuoco grossissime questioni, per semplificarlo al massimo e conseguire rapidamente il risultato che inte­
ressa, è il caso di radica­lizzarlo proponendo un giuoco. Facciamo fin­ta
(non è molto scientifico, ma talo­ra serve) che il Carmine non sia stato
pubblicato nel 1945, ma due secoli prima: diciamo nel 1746. A quale
testo e quale autore penseremmo di attribuirlo? Non avrei dubbi a
nominare Le Belle Arti ricondotte a unico principio e Charles Bat­teux.
Per carità, non, ripeto non, sto dicendo che Brandi è Batteux (né,
per con­verso, che Batteux è Brandi), sto facendo un giuoco, e, se
cediamo agli impossibili confronti cui costringono le regole di questo
giuoco, non credo dubitabile pensare al “legislatore delle belle arti”.
Continuiamo il gioco. Posticipiamo la (retrodata) uscita del Carmine a
vent’anni dopo, al 1766. A chi possiamo pensare? Anche qui non avrei
dubbi, né credo trovare seri contraddittori se faccio il nome di Win­
ckelmann, colui che non solo ha da poco pubblicato la Storia dell’arte
nell’an­tichità (1764), inventandola la storia dell’arte, ma ha potuto far
ciò in quanto ha definito più generali condizioni metacritiche (e cioè
teoriche) dell’universo del­l’arte, come aveva ben capito (poi gli estetologi spesso l’hanno dimenticato) già He­gel. Ma perché non sfruttare
fino in fondo la data del 1766? In quell’anno, come ognuno sa, viene
pubblicato il Laocoonte di Lessing. Dio mio, Brandi due secoli dopo
ha dato il colpo probabilmente definitivo alla distinzione delle arti qui
teo­rizzata, ma portando avanti, nei termini resi possibili dalla nostra
congerie di cultura, la stessa esigenza analitica che muoveva Lessing,
di costruire un modello (meta)critico adeguato alla flessione delle diverse forme artistiche. Non credo che Brandi avrebbe negato la congruità del, pur impossibile, confronto: lui criticava solo chi giudicava
meritevole di stima. Ecco: il Carmine è tutto questo. Brandia­nesimo
allora significa anche il tentativo di registrare e capire la polivalenza
di una personalità multipla, e che a prima vista sembra aberrante sul
piano degli as­setti culturali, che è riuscita ad essere, e produrre come
se fosse, nello stesso tem­po, Batteux-Winckelmann-Lessing.
Sono alcuni degli autori che gettano le basi dell’estetica moderna,
senza per­ciò essere estetologi e tantomeno filosofi: nella terminologia
dell’epoca sono esthéticiens. Brandi è stato il più grande esthéticien
del Novecento. Non vorrei abusare, ma il giuoco non è finito. Perché
Brandi, se mi si consente ancora per un momento d’immaginarlo nel
secondo Settecento, è anche qualcosa d’altro, ha fat­to ben altro. Continuando nell’analogia settecentesca, è come se nella sua pro­gressione
210
speculativa avesse riassorbito la profonda lacerazione procurata, al na­
scente piano tematico dell’estetica, dall’opera di Burke, l’Inchiesta sul
Bello e il Sublime (1757). Proseguendo lungo le rotte aperte dal Carmine ha infatti svi­luppato un tragitto teorico, che esorbita la fisionomia
dell’esthéticien per impe­gnare piani concettuali sempre più articolati
e comprensivi, capaci di dare legit­timazione teorica a fatti artistici
prima inevasi (l’arte astratta e informale, il ci­nema e la fotografia...), e
soprattutto riassorbire l’esigenza valida variamente espressa negli anni
Sessanta-Settanta, seppure in forme che minacciavano la complessiva
opacizzazione della dimensione estetica, nei termini di teoria del­l’arte
co­me informazione, come messaggio, come comunicazione. Ma infine
ha coronato il suo itinerario non solo approdando a esiti di straordinaria rilevanza speculativa, ma, azione assolutamente impensabile in
un esthéticien, risalendo alla fonte, o meglio alla prima fonte perspicua
dell’estetica moderna, all’æsthetica di Baumgarten (1735, 1750), alla
genesi dell’estetico, ossia al supremo piano epi­stemico in cui si pongono le condizioni della sensibilità, alla radice dell’identità antropologica.
Il giuoco è finito, ma non l’abbiamo fatto per giuoco. Ci interessa
invece trarre una possibile “regola del giuoco”, che andando al di
là del giuoco stesso possieda una formalità esplicativa suscettibile di
utilizzazione. La domanda che traiamo da questo giuoco è: cosa ha
significato fare estetica negli ultimi duecen­tocinquanta an­ni, qual è
il profilo epistemico dello studioso di estetica? Non è una domanda
esorbitante perché la stiamo sollevando proprio per capire in che senso Brandi è stato un grande autore di questo ambito di conoscenze,
tanto da segnarne una svolta, e perché il Carmine è un classico dell’estetica del Nove­cento.
Siamo partititi da Batteux per finire a Baumgarten. Sono i due
padri del­l’estetica moderna (o meglio: lo sono, insieme a Burke, Winckelmann, Les­sing...), perché sono le due facce della stessa me­daglia,
l’estetica appunto, che è na­ta e si è sviluppata enormemente, negli
ultimi due secoli, con risultati di estrema importanza e incidenza nei
processi della cultura moderna, grazie proprio alla sua ambivalenza
costitutiva, a una polarità istituzionale che ne ha assicurato la produttività. Grazie cioè a un assetto disciplinare che è stato capace di
attrezzare e soddisfare una centralità, svolgere un ruolo strategico,
mediando i due versanti, distinti ed eterogenei, di filosofia e pratiche
artistiche. Non è, beninteso, un asset­to esaltante, in quanto a purezza
epistemica; ma vanta questo non trascurabile titolo di merito: ha funzionato. E funzionando ha potuto assolvere nella cultura moderna a un
essenziale e preziosissimo ruolo di chia­­rificazione concettuale. E però
questa origine è stata spesso vis­suta quasi come una nascita illegittima
da emendare. Così quell’unione è stata talvolta denegata, o misconosciuta, o si è ten­tato perfino di celebrarne il divorzio (ci provò, ancora
211
ai primi del Novecento, Max Dessoir). Ma la cosa non ha funzionato. Una pura estetica filosofica, nel sen­so di un sapere filosofico che
prescinda o smarrisca il suo nesso fondante col mondo dell’arte, che
pure tanto ha pontificato in passato, segnatamente nel seco­lo scorso,
all’epoca delle cosiddette estetiche sistematiche, ha fatto cilecca ed è
en­trata da tempo in crisi. La “crisi dell’estetica”, o addirittura la “mor­
te dell’esteti­ca”, che abbiamo tanto sentito raccontare negli ultimi tre
decenni, nel suo motivo di ammissibilità è stata proprio la presa d’atto
dell’esaurimento di una estetica fi­losofica siffatta. E l’estetica, di regola,
ha finito o per adagiarsi sulla soglia delle pratiche (cri­tica, metodologia
delle arti) o per attestarsi a livelli squisitamente me­tateorici. Contributi
importanti, e anche importantissimi, ovviamente non sono mancati,
e in entrambi i versanti. Quello che così è svaporato è però proprio
l’esercizio della funzione conoscitiva che la centralità dell’estetica aveva
nativa­mente conseguito, e che rimaneva necessario assolvere comunque a raccordo dei saperi costitui­tisi nella modernità. Centralità che
invano hanno preteso di con­quistare le voghe culturali degli ultimi due
decenni: la semiotica pri­ma, l’erme­neutica dopo. Tramontate da tempo
le pretese egemoniche dell’una, assistiamo oggi all’eclisse dell’altra. E
l’estetica è nuovamente chiamata al compito di scien­za pilota del pelago umanistico, a rinnovare quella strategia della conoscenza a cui la
cultura mo­derna l’ha intenzionata. A ricostruire cioè, nelle congiunture
del pre­sente, nella condizione postmoderna, quello spa­zio epistemico
il cui asse costitutivo è stato storicamente marcato, da un lato, da Bat­
teux e, dall’altro, da Baumgarten, eponimi emblematici.
È stato lo spazio occupato da Brandi. Uno spazio da lui scavato,
seminato e coltivato per tre lunghi decenni e con infinita cura fatto
vividamente rifiorire. Uno spazio magistralmente aperto dal Carmine
o della Pittura, e continuamente allargato e animato fino al­l’ul­timo approdo della Teoria generale della critica. Approdo terminale, ma che è
anche, si badi, una riqualificazione dell’inizio, la chiusura di un circolo
che lo attiva compiutamente. Talché diventa euristico, per astringere
questa vitale circolazione speculativa, operare una simmetrica inver­
sione della nominazione: Critica della teo­ria ge­nerale (dell’arte). Come
dire: da Batteux a Baumgarten, e da Baum­garten a Batteux, in una
dinamica ricorsiva straordinariamente produttiva, che instancabilmente
ha percorso e intensificato il genuino piano tematico dell’estetica. Un
percorso, l’estetica di Brandi, che, al di là degli stessi fondamentali
contributi di cui è stata capace, si pone allora come modello, come il
modello di fare estetica nel no­stro tempo.
Ecco perché Cesare Brandi ha determinato una svolta nell’estetica
contem­poranea, ecco perché il Carmine è un classico dell’estetica del
Novecento.
212
* Pubblicato come Prefazione alla quarta edizione di Cesare Brandi, Carmine o della
Pittura, Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. ix-liv, e successivamente ristampato in “Aesthetica
Preprint”, 51, dicembre 1997.
1
La conclusione del volume è datata: «Roma, 9 maggio 1943»; sappiamo (cfr. le attestazioni di Brandi riportate nelle successive note 17 e 24) che esso era stato iniziato nel
1939. Il primo fron­tespizio recita: «Elicona | I»; il secondo: «Cesare Brandi | Carmine
| o della Pittura | Enrico Scialoja Editore | Roma 1945». Seguiva l’avvertenza: «Il
Carmine o della Pittura è il primo di una serie di dialoghi, dedicati alle Arti, che l’Autore
raggruppa sotto il nome di Elicona. Nel piano generale dell’opera è previsto che ogni dialogo sia seguito da due saggi, preferibilmente rivolti a trattare, in relazione all’argomento
del dialogo, un soggetto antico e uno moderno. Tale trattazione è ritenuta indispensabile
dall’Autore per fornire l’esemplificazione, non la norma, del metodo critico propugnato nei
dialoghi stessi. Per il Carmine i saggi preparati vertono su Duccio e su Picasso, e verranno pubblicati insieme con il Dialogo nell’edizione che seguirà a questa, non appena sarà
possibile iniziare la stampa completa dell’opera». Il testo è composto con carattere Bodoni
in corpo 12/14, consta di 288 pagine (numerate dalla 9 alla 284) ed è concluso da queste
referenze tipografiche: «Di questo libro, finito di stampare il 25 luglio 1945 nella tipografia
di En­zo Pinci in Roma, sono state tirate centosettanta copie, delle quali settanta su carta
vergata nu­merate dall’1 al 70, e cento su carta uso mano di due qualità rispettivamente
numerate dal 71 al 140 e dal 141 al 170, queste ultime fuori commercio».
Fino ad oggi, del Carmine sono state pubblicate altre due edizioni: la prima (1947, Firenze, Val­lecchi) era corredata dai promessi saggi su Duccio e Picasso; nella seconda (1962,
To­­rino, Einaudi) tali saggi non furono riediti ma il Dialogo fu arricchito da un corredo
illustrativo. In una impor­tante nota introduttiva a questa ultima edizione, l’Autore, oltre
a rende­re conto delle ragioni di queste scelte editoriali, tiene ad assicurare che «a parte
una revisione ac­­curata» il testo è rimasto «immutato» e «senza un cambiamento rispetto
alla prima edizione». Mancano dati sulla fortuna editoriale del Carmine. Ho comunque
potuto accertare che l’edizione Einaudi, che fu quella che assicurò la maggiore diffusione
dell’estetica di Brandi (an­­che perché lo stesso Editore pubblicò gli altri dialoghi compresi
in Elicona: Arcadio o della Scultura. Eliante o del­l’Architettura, 1956; Celso o della Poesia,
1957), stampò cinquemila copie.
2
B. Croce, Rivista bibliografica, in “Quaderni della Critica”, 4, aprile 1946, p. 81; poi
in Id., Nuove pagine sparse, 2ª s., Napoli, 1949, pp. 66-68. Questa recensione, insieme ad
altra letteratura su Brandi, è stata ristampata da V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare
Brandi: antologia cri­tica, in “Storia dell’Arte”, 43, 1981, pp. 291-308.
3 «Che il dialogo Carmine di Cesare Brandi sia il libro di estetica più importante uscito
[...] dopo il Croce» è stato il giudizio, espresso già nel 1955, da G. Contini, Parere su un
decennio, ora in Id., Altri esercizi, Torino, 1972, p. 230.
4 Si cfr. la bibliografia generale di Brandi, a cura di V. Rubiu, pubblicata nel fascicolo
speciale della rivista “Storia dell’Arte” a lui dedicato (Studi in onore di Cesare Brandi, 3840, 1980, pp. 14-38).
5
A differenza di Croce, G. C. Argan recensendo a sua volte il Carmine [in “Belfagor”,
4, 1946, pp. 506-08; ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit. p. 292] felicemente osservava: «Il Brandi ricostruisce dall’interno, punto per punto, il processo spirituale
del prodursi della forma, fino al suo conclusivo disegnarsi e identificarsi nei limiti stessi
della coscienza: onde l’impossibi­lità anche per il critico di ridurla o riferirla a un orizzonte
che non sia, nello stesso tempo, l’oriz­zonte suo e dello spirito. Questo basta a spiegare la
mancanza di un’appariscente sistematica della trattazione ed il suo fluido svilupparsi in
un’incalzante continuità dialettica espressa come meglio non si potrebbe nell’alternativa
del dialogo, che sorprende l’idea nel suo prodursi, e continuamente assume e trascende,
come in una sovrapposizione di strati trasparenti le proposizioni precedenti nelle successive». Questa contrapposizione di giudizio ha accompagnato la comparsa di tutti i suc­cessivi
dialoghi di Brandi (Arcadio o della Scultura. Eliante o dell’Architettura, 1956; Celso o della
Poesia, 1957). Così per M. Cagiano de Azevedo [in “Paideia”, 1957; ora in V. Rubiu (a cura
di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., p. 296] il dialogo è «la strana, interessante, viva forma
del discor­so che consente al Brandi le scorribande piú varie nel campo della critica, senza
che il filo con­dutto­re ne soffra o si debba ricorrere a faticose note. La forma dialogica del
resto conviene singolarmente al temperamento discorsivo e polemico del Brandi, che, se
configura se stesso in Eftimio, non disdegna sovente regalare ad altri interlocutori scintillanti
213
osservazioni nella realtà sue»; mentre B. Zevi [in “L’Espresso”, 31 marzo 1957; ora in V.
Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., p. 296] giudica la «forma dialogica [...]
nociva alla chiarezza»; laddove per G. Ponti [in “Corriere della Sera”, 24 agosto 1957; ora
in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., p. 298] «Il dialogo consente poi
all’autore di manifestare gli opposti o diversi pareri, e tanto più opportuna­mente oggi che
ognuno tira diritto con le sue idee e non vuol sapere altro, mentre realtà è la co­noscenza
delle varie verità coesistenti». E se per R. Assunto [I dialoghi di Brandi, in “Il Punto”, 13
aprile 1967 p. 18] «La preferenza che Brandi ha accordato al procedimento dialogato [...]
non si motiva soltanto con le inclinazioni letterarie di un autore che alla competenza critica
ed alla preparazione filosofica, aggiunge non smentita vocazione alla poesia e le capacità di
prosatore [...] Il dialogo permette a chi legge una più aperta disponibilità, lo pone al riparo
dalla illusione, pressoché inevitabile nei trattati e nei saggi di estetica, di un totale risolversi
del gusto militante, con le sue predilezioni e le sue idiosincrasie»; P. Citati [in “Il Punto”,
23 novembre 1957; ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., p. 299] ha
osservato: «Quando uscí il Carmine, Croce, che lo recensí con grande favore, trovò a criticare la forma espositiva del dialogo a piú perso­naggi. Non aveva torto. E non perché anche
il Celso si trovi a mancare dei rinvii bibliografici. Ma Brandi rischia, qualche volta, di farsi
la partie trop belle». Particolarmente calibrato è il com­mento di G. Morpurgo-Tagliabue, L’esthétique contemporaine, Milano 1960, p. 445: «pages écrites pour un lecteur idéal et libre».
La mia opinione è stata [L. Russo, Itinerario dell’estetica di Cesare Brandi, in “Trimestre”, nn. 2 e 3-4, iii (1969), pp. 187-211 e 545-69], e nella sostanza rimane, che «Il dialogato [...] è l’elemento vettore che fa precipitare in un raro equilibrio di forma e pensiero
le notevoli doti di scrittore e di filosofo, in proprio, che Brandi possiede, dando spessore
a una tessitura speculativa fitta e prensilissima. La quale discerne e assume con sicurezza,
sotto nuova luce originale, i temi decisivi (tradizionali e non) della problematica estetica,
attivandoli in presa diretta; attenta a tutta la fascia significante dei problemi ritrovati, ma
ugualmente capace di evidenziare le singole sfac­cettature, inglobare ogni articolazione pur
appena potenzialmente sistematica; smagata infine nel non restare schiava delle proprie
tecniche di lavoro, ma agilissima a piegare la traccia basilare di raccordo, cioè il processo
intenzionale della coscienza creativa, alla puntuale comprensione dei più diversi fenomeni
estetici». Infine, ultimamente Garroni [Prefazione alla seconda edizione del Celso o della
Poesia, Roma, 1991, p. 13] ha rilevato: «I suoi dialoghi hanno la forma classica, antica o
rinascimentale, del dialogo, ma non sono in realtà dialoghi: sono la confutazione sistematica,
at­traverso la conversazione tra un maestro esperto e interlocutori infinitamente piú ingenui, di ciò che la sua teoria rigettava, al fine di far risaltare di questa il valore risolutivo.
Sono mirati quindi non tanto alla posizione di questioni, quanto all’esposizione della vera
dottrina».
6 A questo riguardo è molto calzante quanto osservato da G. Morpurgo-Tagliabue,
Maieutica di Brandi, in L. Russo (a cura di), Brandi e l’estetica, Palermo, 1986, p. 16: Brandi
elabora «una no­zione di “immagine” non lontana da quella di J.-P. Sartre: un “savoir imageant”. Salvo che mentre per Sartre (come già per Croce) tutto si risolveva in una spontanea
visitazione immaginaria: una vi­sione irreale innestabile (nemmeno necessariamente innestata)
su un corpo reale (pittura, scrit­tura...), per Brandi invece il problema consisteva proprio
nella complessità di quel rapporto: nel­l’operazione non semplice del “recidere il cordone
ombelicale con la realtà”».
7 Mi limito a ricordare un altro caso famoso e ugualmente illuminante: la lettura crociana del­l’estetica di Dewey, per la quale cfr. il mio La polemica fra Croce e Dewey e l’arte
come esperienza, “Rivista di studi crociani”, v (1968), pp. 201-16.
8 «Accaparrante interpretazione crociana» è la felice espressione usata da G. Contini,
L’influenza culturale di Benedetto Croce, 1966, ora in Id., Altri esercizi, Torino, 1972, pp.
40-41, per caratte­rizzare la lettura crociana del Carmine.
9
Ho avuto modo di analizzare, pur limitatamente a un segmento particolare dell’opera
crociana, sia l’entità della sua vis polemica che le sue, per altro non banali, motivazioni:
cfr. il mio Una Storia per l’Estetica, in “Aesthetica Preprint”, 19 (1988), qui ristampato col
titolo Benedetto Croce e la storia dell’estetica.
10 B. Croce, Il ritratto e la somiglianza (1907), in Id., Problemi di estetica, Bari, 19545,
pp. 261-66. L’articolo sul ritratto e la somiglianza fa parte di tutto un gruppo d’interventi
crociani intorno alla teoria delle arti figurative e nel quadro di una sua polemica con i
«nuovi critici e storici» italiani (Longhi, Venturi) d’orientamento purovisibilista, per i quali
214
rimando al mio De lineis et coloribus. Benedetto Croce e la pittura, in “Rivista di studi
crociani”, iv (1967), pp. 85-92.
11
B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, 1909, pp. 46-47.
12
B. Croce, Rivista bibliografica, cit., p. 291: «[...] il suo accenno [cioè dello stesso
Croce], che il tormento della non raggiunta somiglianza viene dal preconcetto della realtà
di un mondo esterno, il quale è irreale, si svolge e dimostra con una teoria che è nella sua
Logica (edizione sesta, pp. 41-43): cioè che l’antico detto che dell’individuo non si dia concetto è vero in quanto per concetto s’intende l’astratto concetto puro o l’astratta categoria,
perché in questo rapporto, dell’individuo non si dà concetto ma solo rappresentazione o
giudizio storico; ma non è vero riferito al concetto empirico. Questo concetto, come raccoglie e classifica e generalizza, sotto un nome, i pensieri e le azioni di un individuo, raccoglie
altresí e fissa i tratti della sua fisionomia corporea; e cosí si pone una fisionomia naturale
o normale che sia di Tizio o di Sempronio. Senonché questa fisionomia, essendo, come si
è detto, un concetto empirico, è vaga ed oscillante, ed ecco perché ragguagliandola con
la ben definitiva e certa opera d’arte del pittore, questa appare più o meno somigliante o
sempre più o me­no somigliante; e di qui dispute a perdifiato del volgo che non è esperto e
ben fermo nella logica del­l’arte e nella logica delle formazioni logiche e scarseggia di gusto
estetico. Ognuno possiede un certo suo concetto empirico circa la forma corporea della
propria madre, della propria figlia o di sé me­desimo, e se lo compone a suo modo, con una
scelta che compie nell’immaginazione, e perciò nessun ri­tratto di un pittore che sia artista
e poeta può mai soddisfarlo».
13
Probabilmente, non sopite passioni teoriche possono ancor oggi dettare a R. Barilli
un titolo co­me: L’estetica di Brandi: con Kant e contro Croce, in L. Russo (a cura di), Brandi
e l’estetica, cit., pp. 27-34.
14
È il caso dell’acuta recensione di G. C. Argan, cit., che ben colse la «novità dell’assunto teo­rico» del Carmine.
15
L’estremo di questa interpretazione è probabilmente quello toccato da M. Guerrisi,
Croce e le arti figurative, in F. Flora (a cura di), Benedetto Croce, Milano, 1954, pp. 23554, che arriva a giudicare l’estetica di Brandi appena come un tentativo «di perfezionare,
di raffinare il concetto intuizione-rappresentazione, per renderlo più elastico». Ma anche
uno studioso di ben altro calibro, attentissimo lettore del Carmine, e che ha il merito, tra
l’altro, di avere per primo rilevato le componenti fenomenologiche (Sartre, Husserl) della
riflessione brandiana, G. Morpurgo-Tagliabue, in fase di prima recezione [L’evoluzione della
critica figurativa contemporanea, in “Belfagor”, vi (1951), pp. 617-28] e sia pure in ordine a
un problema particolare (i rapporti con la reine Sicht­barkeit), è arrivato a suggerire «che si
può chiamare Brandi un crociano esistenzialista». Morpurgo-Tagliabue emenderà ad abundantiam questa prima valutazione [L’esthétique contempo­raine, cit., pp. 444-45; Maieutica di
Brandi, cit., pp. 15-26] ma qui l’abbiamo ricordata proprio in quanto indice, anche a livello
alto, di quella prima vulgata interpretativa del Carmine viziata da forti presupposizioni di
esegesi crociana.
16 P. D’Angelo, Realtà pura e astanza nell’estetica di Brandi, in L. Russo (a cura di),
Brandi e l’estetica, cit., p. 92, ha opportunamente osservato: «Che il referente della prima
riflessione este­tica di Brandi, quella del Carmine in primo luogo, e, in misura via via minore, di tutti i Dialoghi, sia da identificare in Croce, come pure si è detto, non va inteso ad
esempio nel senso che l’estetica, e più in generale la filosofia crociana siano la cornice entro
la quale Brandi elabora la sua estetica. Che Croce stesso vedesse nel Carmine una sostanziale ripresa delle proprie posizioni non deve, da questo punto di vista, suonare come una
prova: giacché è del tutto evidente che il filosofo ormai ottantenne preferisce sottolineare
quello che gli pareva una conferma delle proprie idee, piuttosto che insistere sui motivi di
novità: cosa che, del resto, difficilmente avrebbe potuto fare lasciando inalterato il giudizio
ampiamente positivo che dava del libro».
17
Lo stesso Brandi, del resto, già in testi immediatamente successivi al Carmine ha ri­
petuta­mente sottolineato la frattura da lui compiuta con l’estetica crociana. Per esempio nei
Quattro­centisti senesi (Milano, 1949, p. 167), due anni dopo l’uscita dell’edizione Vallecchi
del Carmine, scriveva: «Costituzione d’oggetto e formulazione d’immagine non sono espressioni metaforiche ma designano i due poli del processo creativo, che l’idealismo crociano
contraeva nella identità intuizione-espressione». Ma ancora più significativa è la precisazione
consegnata al Poscritto [ora ristampato in C. Brandi, Scritti sull’arte contemporanea, Torino,
1976, pp. 29-37] che nel 1952 appo­se alla seconda edizione della sua monografia su Morandi
215
(Firenze, 19522), inizialmente pubblicata nel 1941, perché oltre a ribadire la sua posizione
verso Croce offre preziose informazioni sulla gene­si dello stesso Carmine. «Tredici anni
sono trascorsi da quando il primo nucleo del saggio che precede fu pubblicato nella rivista
“Le Arti” (marzo 1939). Due anni dopo, nel 1941, precisato ed ampliato, figurò quale
prima edizione di questa monografia. Ma ora, ripubblicandolo, non crediamo di poterne
modificare la lettera, come facemmo, e in modo esteso, nel trapasso dalla rivista al volu­
me. In quei due anni era avvenuta in noi una sostanziale maturazione della problematica
estetica, che doveva condurci alla trattazione del Carmine o della Pittura e che continuerà
nei dialoghi successivi. Se lo studio su Morandi aveva rappresentato per noi il punto di
partenza, quando ci trovammo a doverlo riprendere per una nuova pubblicazione, già era
pienamente in vista, se pur non ancora toccato, il punto di arrivo, e noi dovemmo allora
imporre al testo precedente le varianti che, tanto rispecchiassero, quanto anticipassero il
nostro pensiero. Le dizioni che perciò vi introducem­mo, relativamente alla costituzione
d’oggetto e alla formulazione d’immagine, poterono apparire, alla critica disattenta o malevola, niente piú che un compiacimento d’ermetismo, mentre prelude­vano le tesi di una
nuova teoria estetica che chiaramente si distaccava, nell’individuazione del processo creativo,
dall’identità d’intuizione-espressione postulata dall’Estetica ormai corrente. Proprio perché
in seguito una non pretermessa meditazione sull’arte ci ha rafforzato nella direzione da noi
presa allora, non ci è parso giusto di ritoccare il testo del 1941, solo per introdurvi una
pun­tualità di termini ancora piú insistita».
18
Leggenda tuttavia dura a morire, se ancora per anni è continuata a circolare la fabula
di «una visione spiritualista ed idealistica [...] che da Benedetto Croce conduce, non senza
profondi ripen­samenti, fino ai recenti fondamentali contributi di Cesare Brandi», come sostiene G. Carbonara, La reintegrazione dell’immagine, Roma, 1976, p. 17.
19
E. Garroni, Arte e vita. Nota in margine all’estetica di Cesare Brandi, in “Giornale
critico della filosofia italiana”, xxxviii (1959), p. 124.
20
Non mi risulta che sia stato finora approfondito l’interessante suggerimento di M.
Cordaro [La teoria generale della critica di Cesare Brandi. Esegesi e dibattito globale, in “Bollettino degli Ingegneri, xxii (1974), 12, pp. 15-21, ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di
Cesare Brandi, cit., pp. 307-08]: «La ricerca delle “fonti” brandiane dovrebbe anche rivolgersi alle poetiche simboliste e alle riflessioni sull’arte del Joyce di Dedalus, ma soprattutto
di Proust».
21 Cfr., per esempio, la pur attenta lettura del Carmine di R. Raggiunti, Realtà esistenziale e realtà pura nel “Carmine” di Cesare Brandi, in “Giornale critico della filosofia
italiana”, xxix (1950), pp. 335-54; ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi,
cit., pp. 293-294.
22
Già nella più volte ricordata recensione al Carmine, G. C. Argan parlò di «posizione esi­stenzialistica» di Brandi, ben cogliendo l’attivazione di concetti heideggeriani quali
«l’Angst».
23
Il confronto con L’imaginaire di Sartre credo sia stato accennato solo da G. Morpurgo-Tagliabue nel suo articolo L’evoluzione della critica figurativa contemporanea (1951), cit.,
p. 620, prima di es­sere pienamente valorizzato da V. Rubiu nella sua tesi di laurea inedita
sull’estetica di Brandi, discussa nell’Università di Roma nel 1958.
24 In realtà G. Morpurgo-Tagliabue, nel già ricordato articolo L’evoluzione della critica
fi­gu­rativa contemporanea (1951), cit., pp. 618-620, avvertì chiaramente che Brandi si era
servi­to «di argomenti tratti dalla fenomenologia» ma li giudicò «approssimativi»; osservava
che «Il Brandi aveva utilizzato certe elementari considerazioni dello Husserl in funzione
polemica an­tivisi­bilistica. Ma nel far ciò aveva trattato di un tempo e di uno spazio fenomenologici, ossia sottoposti alla cosiddetta riduzione. Senza dire che noi dubitiamo egli
fosse indotto dalla sua cultura ideali­stica a confondere la riduzione (che è un processo di
astrazione riflessa, fi­losofico), con un momento costitutivo della coscienza estetica [...].
Niente vietava al Brandi di confinarsi in una analisi eidetica, dove spazio e tempo sono
sullo stesso piano, e trascurare la loro differenza. Ma fuori del­l’astrazione fenomenologica,
le cose stanno diversamente»; in seguito (L’esthétique contemporaine, cit., pp. 444-45) ha
osservato più sfumatamente che Brandi «a adopté le principe d’Husserl de la réduction
phénoménologique, de neutralisation de l’existence, en l’appliquant au désinteressement,
à l’abstraction et à la stylisation artistique. Sa­voir si cette application est légitime ou non,
necessiterait une longue étude»; infine (Maieuti­ca di Brandi, cit., p. 16) ha concluso che nel
Carmine «affiorava una ispirazione fenomenolo­gica (Husserl era stato introdotto da pochi
216
anni nella nostra cultura da A. Banfi) [...]. Brandi fa­ceva leva sul principio husserliano
dell’atto di neutralizzazione di esistenza – l’epoché fenom­enologica – trasferendolo in modo
personale nell’esperienza estetica». Ora, approfondendo la questione P. D’Angelo, Realtà
pura e astanza nell’estetica di Brandi, cit., pp. 92-93, ha no­tato, riguardo all’utilizzo della
terminologia fenomenologica da parte di Brandi, che «una ra­pida ricognizione sul terreno
dell’estetica fenomenologica può confermare che non si tratta af­fatto di un abuso, e nemmeno di una forzatura: non solo, infatti, un analogo spostamento verso la sfera estetica di
concetti originariamente sorti in ambito di teoria della conoscenza si ri­trova in autori che si
sono occupati di estetica in un orizzonte fenomenologico, per esempio in Ro­man Ingarden,
ma esso può essere attestato nelle stesse rapide e rare riflessioni di Husserl sul­l’estetica. In
un manoscritto husserliano del 1906-1907 – che certo Brandi, ai tempi del Carmine, non
poteva conoscere, essendo esso rimasto tra gli inediti dello Husserl-Archiv, e studiato più
tardi da S. Zecchi, che ne ha dato notizia in Italia – è proprio la epoché feno­me­nologica ciò
che caratterizza il fenomeno estetico: “noi abbiamo una intima affinità tra la vi­sione artistica
e quella filosofica [...]. L’artista che osserva e prende in esame il mondo, attin­ge da questo
materiale per le forme arti­stiche, si comporta con esso esattamente come il feno­me­nologo,
dunque non come un naturalista o un osservatore pratico”. Semmai bisognerà dun­que
osservare come Brandi precisi e modifichi il senso di questi riferimenti fenomenologici».
Può essere utile precisare che Brandi non pervenne alla fenomenologia per l’accesso,
ricordato da Morpurgo-Tagliabue, di Banfi, introduttore ufficiale di Husserl e la fenomenologia nella cultura filosofica italiana, ma per altra via del tutto autonoma. Brandi stesso lo
ha chiarito già nel novembre 1946 [nel suo saggio Sulla filosofia di Sartre, pubblicato nella
rivista da lui fondata e diretta «L’immagine”, i (1947), 4, p. 197] esplicitando apertamente
le fonti del suo pensiero: «Il nostro primo incontro con Sartre filosofo avvenne su un fascicolo della N.R.F. del 1939, in cui si dava conto di Husserl e dell’intenzionalità [si tratta
del famoso articolo Une idée fondamentale de la “Phénoménologie» de Husserl, l’Intentionalité]. Quella decisa presa di posizione contro l’inaridito idealismo, in questo caso di marca
francese, ci confortò: per conto nostro eravamo impegnati su una strada consimile, che dai
derivati del panlogismo hegeliano risaliva all’idealismo trascendentale di Kant, a Husserl e
a Heidegger. Questa rotta aberrante non doveva ricevere molti conforti, so­prattutto allora
che di Fenomenologia ed Esistenzialismo non si parlava, o appena in sordina, in Italia».
Oltre le Critiche kantiane, i tre primari referenti teorici del Carmine furono appunto: Sein
und Zeit di Heidegger, le Méditations Cartésiennes di Husserl, lette nell’edizione francese
apparsa a Parigi nel 1931, e L’imaginaire di Sartre.
25
Mi pare che il primo a designare la «théorie esthétique originale» di Brandi «une
phénomé­nologie de la création artistique» sia stato P. Philippot, nell’articolo appunto intitolato Une phénoménologie de la création artistique, in “Revue Internationale de Philosophie”, 26, 1953, pp. 392-99; ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., pp.
294-295. «Fenomenologia artistica» è la dizione che compare nel risvolto di copertina del
volume in cui furono pubblicati nel 1956 i due dialoghi Arcadio o della Scultura e Eliante o
dell’Architettura. Brandi accolse la de­signazione di «fenomenologia della creazione artistica»
nella nota introduttiva da lui premessa alla riedizione Einaudi del Carmine.
26 L. Russo, Itinerario dell’estetica di Cesare Brandi, cit., p. 51; e Omaggio a Cesare
Brandi, in Id. (a cura di), Brandi e l’estetica, cit., p. 8.
27
K. Fiedler, Aphorismen, trad. it. Milano, 1945, 38.
28 Cfr. E. Garroni, La definizione dell’arte e lo statuto trascendentale dell’estetica: immagine, se­gno, schema, in L. Russo (a cura di), Brandi e l’estetica, cit., p. 54: «Brandi – al di là
di talune asso­nanze isolate, che, per se stesse, non dicono assolutamente nulla – non è per
niente riducibile al puro­visibilismo, cui anzi, sotto profili rilevanti, addirittura si oppone».
29
Cfr. P. D’Angelo, L’opera d’arte come ricerca e come riuscita: La considerazione dinamica del processo artistico in tre estetiche post-crociane, in «Rivista di estetica”, 23 (1983),
13, p. 54, che ha osservato «come la stessa critica brandiana si configuri non tanto come un
ripudio (tale potrebbe pa­rere prendendo alla lettera i testi) quanto come un arricchimento
della metodologia derivata dalla reine Sichtbarkeit»; e G. Morpurgo-Tagliabue, Maieutica di
Brandi, cit., p. 17: «Nel Carmine [...] la nozione che la sua veduta gli imponeva di rettificare
era quella della Sichtbarkeit, del puro vi­sibilismo, della forma spaziale o immagine ottica
[...] egli rivendicava, contro il formalismo di Fie­dler, la presenza del tempo nell’ispezione
del fruitore. [...] ma possiamo considerare le sue discus­sioni un approfondimento più che
un rifiuto delle vedute della Sichtbarkeit».
217
30
In quello che probabilmente è il suo ultimo intervento d’incidenza estetologica, la
breve Pre­fazione alla riedizione di Segno e Immagine (Palermo, 1986, p. 7), Brandi ribadì la
«fedeltà, tuttora mantenuta, allo schematismo trascendentale kantiano» e sentì «la necessità
di riaffermare oltre al nome di Kant quello di Heidegger».
31
E. Garroni, La definizione dell’arte e lo statuto trascendentale dell’estetica: immagine,
segno, schema, cit., p. 66; ma cfr. tutta l’acutissima analisi di Garroni del trascendentale
nell’estetica di Brandi, part. pp. 66-71.
32 Cfr. P. Montani, L’ospite importuno del Carmine, in L. Russo (a cura di), Brandi e
l’estetica, cit., pp. 103-05.
33
Brandi lesse subito dopo la pubblicazione il volume di R. Arnheim Art and Visual
Perception (1957, trad. it. Milano, 19772) e ne fece uso per problemi particolari già a partire
dal 1958, in alcuni dei testi poi raccolti nella Teoria del restauro, Roma, 1963, pp. 46 e 155;
in Segno e Immagine, cit., p. 13, i «concetti percettivi» di Arnheim vengono invece direttamente richiamati ad impegnativa con­ferma dello «schema trascendentale», il che appunto
costituisce una personalissima estrapolazione.
34
R. Barilli, L’estetica di Brandi: con Kant e contro Croce, cit., p. 28. Barilli fa i nomi di
E. Cas­sirer e la sua allieva S. Langer, del New Criticism da Ransom a Brooks, di J. Mukarovsky, E. Vivas, e finanche di Peirce, Bergson e Dewey.
35
Cfr. per esempio le osservazioni di P. D’Angelo, L’opera d’arte come ricerca e come
riuscita, cit., pp. 52-67, dedicato a uno specifico confronto fra alcune posizioni di Brandi,
Contini e Pare­yson.
36
Per R. Barilli, L’estetica di Brandi: con Kant e contro Croce, cit., pp. 28-31: «Galvano
Della Volpe [è] forse l’estetologo italiano che più si avvicina, nelle conclusioni di fondo,
all’imposta­zione» di Brandi, per la sua proposta teorica «incentrata sul vocabolo raro e
prezioso di “aseità”, che dunque anche per questo aspetto fornisce un buon equivalente
dell’astanza di Brandi».
37
R. Barilli, L’estetica di Brandi: con Kant e contro Croce, cit., p. 27.
38 Cfr. P. Montani, L’ospite importuno del Carmine, cit., pp. 99-112.
39
La revisione della teoria del cinema fu assicurata da Brandi ne Le due vie, Bari, 1966,
pp. 141-57, all’interno della teorizzazione della fotografia.
40
Non è determinabile con esattezza la data alla quale far risalire l’inizio di questa
revisione. Essa è comunque sicuramente da riportare ai primi anni Cinquanta, nell’ambito
dei Dialoghi di Elicona, la cui composizione seguì a ruota la comparsa del Carmine. In
particolare il Celso o della Poesia (pubblicato nel 1957, ma le cui date di composizione sono
12 gennaio 1945/25 settembre 1953) comportò gli approfondimenti delle fasi del processo
creativo, «costituzione d’oggetto» e «formula­zione d’immagine», imposti dall’introduzione
della nozione di «schema preconcettuale»; introdu­zione che «concettualmente precede»
l’utilizzazione compiutane nell’Eliante o dell’Architettura, che pure venne pubblicato un
anno prima, nel 1956 (ma le cui date di composizione, settembre 1944/31 dicembre 1953,
s’intrecciano con quelle del Celso). Il terminale di questa prima significativa revi­sione del
modello del Carmine è costituito da Segno e Immagine, pubblicato nel 1960, compiutamente
fondato sulla distinzione esibita fin dal titolo.
41 Non è una domanda retorica: la recente presentazione dell’estetica di Brandi in
lingua france­se, ben servita dalla cura di P. Philippot, ha effettivamente scelto la traduzione
de Le due vie, pur integrata da passi scelti dal Carmine, dal Celso e dal Burri (Le deux voies
de la critique, Vokar, Paris e Bruxelles, 1989).
42
L’osservazione è dello stesso Brandi nella Prefazione alla ristampa di Segno e Immagine, cit., p. 7.
43 Può essere utile considerare che Brandi aveva già pubblicato due frammenti di Arcadio o della Scultura nella sua rivista “L’Immagine” (1949: 11, pp. 47-57, e 12, pp. 159-64).
44 C. Brandi, Nota introduttiva alla terza edizione del Carmine o della Pittura.
45
Per l’approfondimento di tale nozione cfr. E. Migliorini, Il fenomeno assente, in L.
Russo (a cura di), Brandi e l’estetica, cit., pp. 49-52.
46
P. D’Angelo, Realtà pura e astanza nell’estetica di Brandi, cit, p. 3.
47 Apparso dapprima nella rivista di Brandi (“L’Immagine”, 14-15, 1950, pp. 361-433)
venne poi ripubblicato nel suo volume La fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi, Milano, 1952.
48 C. Brandi, Nota introduttiva alla terza edizione del Carmine o della Pittura.
49 C. Brandi, Teoria del restauro, Roma, 1963, p. 34.
50 Ivi, p. 33.
218
51
C. Brandi, Il fondamento teorico del restauro, in “Bollettino dell’Istituto Centrale del
Re­stauro”, i (1950), pp. 5-12.
52
P. Petraroia, Genesi della Teoria del restauro, in L. Russo (a cura di), Brandi e l’estetica, cit., pp. 77-86. Petraroia, ricostruendo la genesi di questo primo fondamentale capitolo
della Teoria del restauro, precisato che “Il fondamento teorico del restauro” era anche il
«testo della prolusione te­nuta nel 1948 in apertura al corso Teoria e storia del restauro all’Università di Roma», consultando i verbali del Consiglio tecnico dell’Istituto del Restauro, ha
trovato che era anche «il titolo della “relazione fatta dal prof. Brandi nel Convegno dei RR.
Soprintendenti”» tenutosi a Roma l’11 ot­tobre 1942.
53
Ivi, p. 78. Sulla teoria brandiana del restauro rimando al mio Cesare Brandi e l’estetica del restauro, pubblicato negli Atti del Convegno Internazionale La teoria del restauro
nel Novecento da Riegl a Brandi, a cura di M. Andaloro, Nardini, Firenze, 2006, pp. 301-14.
54 Ha giustamente osservato R. Barilli, L’estetica di Brandi: con Kant e contro Croce, cit.,
p. 27, che Brandi si è mantenuto «ostinatamente fedele all’impostazione giovanile, offrendone, in sostan­za, una selva di varianti, di ripetizioni neppure tanto differenti, di verifiche
e di confronti con i contributi di una riflessione estetologica divenuta via via, con gli anni,
complessa e straripante. Tutt’al più, intervengono inevitabili modifiche terminologiche, del
resto già annunciate in qualche modo da quella specie di testo primigenio, [il Carmine,]
di matrice iniziale».
55
N. Abbagnano, Recensione a C. Brandi, Teoria generale della critica, in “Il Giornale”,
6 agosto 1974; ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., pp. 304-305.
56
E. Montale, Recensione a C. Brandi, Teoria generale della critica, in “Corriere della
Sera”, 14 luglio 1974; ora in V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi, cit., p. 303.
57
G. Contini, Parere su un decennio, cit., p. 230.
58
E. Garroni, Prefazione alla seconda edizione di C. Brandi, Celso o della Poesia, cit.,
p. 14.
59
G. C. Argan, Recensione a C. Brandi, Carmine o della Pittura, cit. p. 292.
60 “A tu per tu con l’opera d’arte” fu un fortunatissimo ciclo di 13 trasmissioni televisive, con testo di Brandi, andato in onda nel 1975.
219
La storia dell’estetica in Italia
nel secondo dopoguerra *
In una nota esemplare, stesa da Croce nel 1951 a bilancio della
sua opera si legge: «L’Estetica, della quale discorriamo, sorgeva sopra
una storia di questa scienza, che era poi questa scienza stessa, vista
nella sua genesi: storia che si e venuta elaborando e affinando insieme
con essa» 1.
Ho ricordato questo postremo testo crociano perché esso ben si
presta, anche formalmente, a segnare uno spartiacque metodologico.
Infatti proprio nel 1951 la cultura filosofica italiana prese ad aprirsi decisamente alla storiografia filosofica del secondo dopoguerra attraverso
un fervidissimo decennio di dibattiti, caratterizzato, da un lato, dalla
revisione dei modelli storiografici operanti nella prima metà del secolo
(che fu sostanzialmente, come scrisse uno degli attori, Giulio Preti, un
«fare i conti con quella che è stata la metodologia dei nostri padri e
maestri» 2) e dall’apertura verso nuove prospettive storiografiche. Comparve quell’anno una raccolta intitolata Problemi di storiografia filosofica, con saggi di Banfi, Dal Pra, Preti e Rossi 3; seguì tre anni dopo un
fascicolo dell’“Archivio di filosofia” dedicato a La filosofia della storia
della filosofia, con testi di Castelli, Dempf, De Corte, Del Noce, Garin,
Gouhier, Gueroult, Gusdorf, Husserl, Lombardi, Valori, Wagner; e
nel 1956 una pubblicazione collettiva, Verità e storia. Un dibattito sul
metodo della storia della filosofia, con contributi di Abbagnano, Antoni,
Calogero, Cantoni, Frondizi, Geymonat, Garin, Lombardi, Mondolfo,
Paci e Spirito, che raccoglieva i testi di un ciclo di conferenze promosso dalla Società filosofica romana 4. Inoltre, in quello stesso anno
si tenne a Firenze un importante Convegno sulle categorie fondamentali della storiografia filosofica, con relazioni di Garin, Dal Pra, Paci,
Preti, Bobbio, Facchi, Rossi e interventi di Vasa, Corsano, Luporini,
Oggioni, Viano, Alessio, Insolera, tutti pubblicati nelle annate 1956 e
1957 della “Rivista critica di storia della filosofia”. Mette conto infine ricordare, insieme a interventi specifici di Pareyson 5, Lombardi 6,
Massolo 7, almeno un provocatorio saggio di Spirito apparso nel 1956
nel “Giornale critico della filosofia italiana”; sede nella quale, infine, fu
pubblicato nel 1959 anche un importante articolo polemico di Garin,
seguito, nella stessa annata, da interventi di Saitta, Guzzo, Corsano,
Piovani, Semerari, Bontadini, Paci, Lugarini, Mathieu, Verra, e nel
221
1960 da ulteriori interventi di Preti, Vasa, Morpurgo-Tagliabue, Franchini, con una replica conclusiva dello stesso Garin.
Il dibattito sulla storiografia filosofica è continuato, come ognuno sa,
nutrito in Italia anche nei decenni successivi – basti ricordare, ancora
a titolo di esempio, gli studi di Antoni 8, Gentile 9, Piovani 10, Negri 11,
o il xxv Congresso nazionale di filosofia promosso a Pavia nel 1975
dalla Società filosofica italiana su Filosofia e Storia della Filosofia, o il
Colloquio internazionale Problemi e metodi per una storia della storiografia filosofica, tenutosi a Padova nel 1981 – ed è a sua volta divenuto
oggetto di studi specifici: e ricordo per tutti la nota monografia di Tessitore, Filosofia e storiografia 12. Con quest’ultima referenza tocchiamo
l’anno 1985, anno che cade già oltre il limite del nostro esame, che è
opportuno circoscriverlo entro le soglie temporali 1950-1980, grosso
modo un trentennio. Ciò, anzitutto, per ragioni intrinseche agli eventi
determinatisi entro quell’arco cronologico; ma anche perché al di là
di quella soglia ci siamo noi, e non mi pare possiamo porre noi a noi
stessi come entità storiografiche. Per altro ho il sospetto che gli storici
futuri il decennio Ottanta e questi primi anni Novanta saranno costretti
a rubricarli sotto altre voci, bisognose di diversi lumi analitici.
Come che sia, ritengo che la svolta decisiva per la storiografia estetica, e invero non solo per essa, la svolta appunto che qualifica propriamente il secondo dopoguerra, sia maturata nel cruciale decennio
1951-1960 che ho prima ricordato, e di cui proprio per questo mi
sono soffermato a tracciarne una mappa. Non perché – sia chiaro – la
storiografia estetica, in quanto tale, sia stata investita da quel dibattito,
nel quale invece compare direttamente molto di rado e solo per cenni o allusioni 13. Constatazione questa poi molto meno sconcertante
di quanto possa sembrare sulle prime, per il fatto che una puntuale
problematizzazione della storia dell’estetica è stata in pratica sempre
disertata dagli studiosi. Cenni anche importanti, dichiarazioni di principio illuminanti, segnalazioni operative molto utili non sono naturalmente mancate nel corso della tradizione disciplinare, ma l’accoglimento pieno di interrogativi cogenti, del tipo: secondo quali regole
si costituisce il discorso scientifico che formula la storia dell’estetica
come proprio oggetto, quali modelli teorici vi vengono impegnati, che
grado di attendibilità e di rigore vi si realizza, è evento talmente raro
da costituire una sorta di hapax legomenon. Sarebbe dunque anacronistico cercare nel secondo dopoguerra, e vieppiù negli anni Cinquanta,
una specifica riconsiderazione epistemologica della storia dell’estetica,
fenomeno assente anche in seguito, e che si è andato delineando solo
negli ultimissimi anni 14.
E però il dibattito degli anni Cinquanta, pur se investì nel suo complesso la storiografia filosofica, procurò sensibili ricadute anche nel terreno specifico della storiografia estetica, agendovi in misura sensibile.
Delle tante, ricorderò tre ragioni strettamente correlate. La prima attie222
ne ai referenti diretti del dibattito, ossia le grandi categorie storiografiche che avevano alimentato la storiografia filosofica del primo Novecento, le quali erano sostanzialmente omologhe o senz’altro le medesime
di quelle praticate nella storiografia estetica. Mi riferisco naturalmente
ai famigerati concetti metodologici di “unità”, di “precorrimento”, di
“errore”, di “superamento”, di “valore di verità”, di “storia ideale”,
in generale insomma ai canoni costitutivi della storiografia filosofica,
idealistica e non solo idealistica, la cui messa in crisi e liquidazione propiziarono l’affermazione di nuovi parametri storiografici intitolati, per
esempio, alla distinzione funzionale fra ricerca teorica e ricerca storica
in filosofia, e l’apertura a nuovi criteri, non-metafisici, di valutazione.
In secondo luogo ricorderei un fatto noto: il confronto internazionale. Ma non direi l’apertura verso le prospettive filosofiche attive fuori
d’Italia, come se prima fosse operante una vera e propria chiusura,
direi piuttosto l’affermarsi di una più spiccata sintonia, il desiderio di
confronto, di una più intensa frequentazione delle filosofie che erano
maturate o andavano maturando fuori d’Italia, sia di marca europea
come il marxismo, la fenomenologia e l’esistenzialismo, sia quelle di
marca angloamericana come gli indirizzi pragmatistici, analitici e semantici. Indice empirico di questo quadro in avanzata fase di rinnovamento fu, com’è risaputo, il fiorire di una intensa attività di traduzione,
sia di classici che di testi contemporanei. E mi piace ricordare, in campo estetologico, l’attività intrapresa già nel 1945 da una casa editrice,
piccolissima per mezzi ma grande per meriti culturali, promossa da
Luigi Rognoni, che col nome di “Alessandro Minuziano” introdusse
in Italia testi di grandissimo spessore scientifico.
Segno importante di questo costume nuovo di collaborazione furono nondimeno, due avvenimenti ufficiali di grande rilevanza: il iii
Congresso internazionale di Estetica, tenutosi a Venezia nel settembre
del 1956, e il Simposio internazionale di Estetica su tema Il giudizio
estetico, tenutosi sempre a Venezia nel settembre del 1958, in occasione del xii Congresso internazionale di Filosofia. Questi avvenimenti,
mentre sancirono formalmente la partecipazione della cultura italiana
postcrociana ai nuovi assetti che si andava dando nel dopoguerra la
cultura estetologica internazionale, nei quali l’Italia guadagnò quel
rango di testa di serie mantenuto per parecchi lustri, posero condizioni per un nuovo background disciplinare entro cui poterono evolvere
anche nuove prospettive storiografiche.
Va altresì osservato che faceva, per così dire, sponda a queste ragioni una generale presa di distanza dalla cultura filosofica d’anteguerra, segnatamente da quella crociana, e non solo dalla sua storiografia;
presa di distanza che in realtà non era stata assente neanche prima,
ma che cominciò a trovare in quegli anni condizioni più favorevoli e
dunque poté svilupparsi con più larghi consensi. Non interessa qui
esaminare intenti e percorsi di diaspora, è saliente invece registrare il
223
proposito di manifestare la propria originalità speculativa o di esibire comunque autonomia teorica. Emblematico a questo riguardo mi
pare un testo collettivo del 1953, curato da Stefanini col titolo La mia
prospettiva estetica 15.
In realtà l’accesa ridiscussione, o messa in discussione dell’estetica,
in tutte le sue dimensioni conoscitive e istituzionali, che si trascinò
per alcuni lustri e prese a esplodere nelle tantissime pubblicazioni che
cominciarono a fungare in quegli anni, passò anche attraverso, o comunque mise in giuoco pure importanti elementi di metodologia storiografica. La cosa è trasparente se si considerano, per esempio, le opere
prime dei tre maggiori esponenti dell’estetica accademica dell’epoca, in
questo senso eloquenti fin dal titolo: Morpurgo-Tagliabue e Il concetto
dello stile, Pareyson e la Teoria della formatività, Anceschi, di cui viene
pubblicata la seconda edizione di Autonomia ed eteronomia dell’arte,
che tiene a presentarsi come una «proposta di storiografia e di teoria
fenomenologica» 16. Ma un po’ dovunque, anche nelle zone della contestazione disciplinare più spinta, si assiste a una qualche interazione con
i gradienti storiografici. Per esempio, il famigerato Processo all’estetica 17
di Armando Plebe, che si collocò al margine più estremo della polemica
contro l’estetica filosofica, è anche una dichiarata ricognizione, partigiana e discutibilissima naturalmente, dell’estetica novecentesca; e fra i
saggi con i quali Ugo Spirito argomentò in quegli anni la sua radicale
Critica dell’estetica non si può prescindere da un testo intitolato “Lineamenti di una storia dell’estetica” 18, nel quale la problematizzazione
dell’estetica filosofica implica forti riconfigurazioni di talune questioni
centrali della storia dell’estetica, che viene fatta non a caso iniziare con
i Presocratici.
Ma, infine, è forse più utile far rifluire un po’ tutte le precedenti
osservazioni entro una cornice complessiva da caratterizzare in termini di sociologia della cultura. Negli anni Cinquanta l’area estetologica italiana fu investita da processi di profonda riorganizzazione
accademica, determinanti per il futuro dell’estetica perché le permisero progressivamente di acquistare autonomia disciplinare all’interno
dei saperi filosofici ed umanistici in genere. Vennero istituite le prime cattedre universitarie di estetica del dopoguerra e si costituirono
due poli accademico-scientifici egemoni, intorno ai quali si sviluppò
una fiorente attività di ricerca. La comparsa nel 1956 della “Rivista
di estetica”, che fu per lunghi anni sede ufficiosamente ufficiale della
cultura estetologica italiana, col proposito di «salvaguardare il carattere
filosofico dell’estetica, in un quadro che non voleva tuttavia essere in
alcun modo dogmatico, ma si apriva alla collaborazione più ampia
possibile, con particolare attenzione al dibattito internazionale», dà
la precisa misura di quella congerie. Pur se questa riorganizzazione
di campo non giunse a immaginare l’istituzione di un insegnamento
universitario specificamente intitolato alla Storia dell’estetica, siccome
224
avverrà negli anni Ottanta, il potenziamento del settore comportò, per
necessità intrinseca o per deriva interna, lo svilupparsi anche della
ricerca storiografica e il fiorire di una intensa e parallela attività editoriale a essa intitolata.
Non è mio desiderio appesantire ulteriormente questo rapporto con
un elenco bibliografico che sarebbe nutritissimo. Mi limiterò, a mo’
di test case, a poche visitazioni esemplari. E comincerò con un’opera
che chiude il decennio Cinquanta ed apre il successivo, datata appunto 1959-1961 e intitolata: Momenti e problemi di storia dell’estetica 19.
Opera rilevante anzitutto per la sua mole monumentale: quattro volumi per complessive 2017 pagine di grande formato, redatta da 18
autori in 21 capitoli spesso densi; ma significativa anche per i criteri
storiografici rappresentati. La prima cosa che salta all’occhio è il fatto di essere in presenza di una trattazione a tutto campo, che inizia
dalla po­etica omerica fino a toccare la prima metà del Novecento, sia
pure con grosse assenze e qualche comprensibile privilegiamento per
la cultura italiana. La seconda cosa che colpisce è però che l’opera
non si presenta come “storia dell’estetica”, tout court, ma genericamente come “momenti e problemi” di questa storia. La terza cosa
che stupisce è che in nessun luogo, in tutti e quattro i densi volumi,
quest’opzione venga motivata e siano indicati i criteri metodologici che
hanno presieduto alla silloge. Va detto che, a quanto si sa, l’opera non
nacque da un organico progetto scientifico, ma sortì da un’iniziativa
editoriale e solo a un certa fase ne assunse compiti di coordinamento
Luigi Pareyson, autore del capitolo conclusivo intitolato “I problemi
attuali dell’estetica”. In questo limpido testo che sviscera magistralmente il tema, affrontandolo a tutto campo e per minutissime analisi,
tuttavia non può non notarsi una sorprendente assenza tematica: la
stessa storia dell’estetica. Lumi indiretti si possono forse parzialmente
reperire nelle pieghe delle ricche considerazioni disciplinari condotte
dall’Autore, che osserva, per esempio, come il termine “estetica” «si è
via via allargato, sia per designare quelle teorie del bello e dell’arte che
sin dagl’inizi della storia della filosofia si sono presentate senza nome
specifico, sia per comprendere anche quelle più recenti teorie che non
solo non riconducono più né la bellezza alla sensazione né l’arte al
sentimento, ma nemmeno riconnettono l’arte alla bellezza [...] oggi
per estetica s’intende ogni teoria che in qualche modo si riferisca alla
bellezza o all’arte: comunque si delinei tale teoria» 20. Da ciò si arguisce
certo generale indicazione di apertura tematica riguardo all’oggetto
della storia dell’estetica ma nulla sui problemi costitutivi della sua metodologia. Ancora più deludente è sperare di conseguire ulteriori e più
stringenti indicazioni all’interno dei singoli testi i quali del resto, come
un po’ avviene in ogni composizione collettiva, mescolano pratiche
culturali e schemi di orientamento eterogenei. Così se, per esempio,
Plebe, autore del primo capitolo sull’estetica antica, introduce sottili
225
soglie distintive che lo portano a riconoscere la presenza nel mondo
greco dei «primordi dell’estetica occidentale» 21; Cataudella, che a ruota scrive sull’estetica cristiana, riconferma il giudizio crociano «che di
una estetica cristiana non si può propriamente parlare» 22; se Eco, a
cui si deve il capitolo medievale, con molta spregiudicatezza pone il
problema di «come le teorie estetiche abbiano costituito risposte efficaci agli interrogativi posti dalle esperienze di fruizione e produzione
del bello proprie all’uomo medievale; e come, e se, abbiano potuto
costituire stimolo e orientamento per realizzazioni pratiche» 23, a petto
di questo sfondamento metodologico, Alfieri inizia il cruciale capitolo
sul Settecento dichiarando «si è effettivamente costretti a riconoscere
al sec. xviii la vera nascita dell’estetica, e non soltanto perché all’inizio
del secolo giganteggia la figura di Giambattista Vico» 24.
Questa campionatura penso possa bastare, almeno per guadagnare
il giudizio che anche quest’opera meritoria, che fu nel secondo dopoguerra il maggiore sforzo compiuto dalla cultura italiana in direzione
della storia dell’estetica, pur avendo conseguito non trascurabili risultati
di svecchiamento ed aggiornamento storiografico, ha tuttavia mancato,
o meglio ha eluso, o comunque non ha ritenuto di porsi, l’obiettivo
primario e pregiudiziale. Vale a dire quello di affrontare la questione,
in Italia e dopo Croce, della storia dell’estetica, della natura della sua
specificità, dei suoi modelli di costruzione e, più in generale, di sciogliere il grave nodo del rapporto fra teoria e storia nel campo delle
problematiche estetiche.
Questa osservazione invoglia a un’altra. A ben considerare finisce
coll’apparire alquanto nevrotico il rapporto che la cultura estetologica italiana del secondo dopoguerra ha coltivato con la storiografia
estetica crociana. Si è assistito, in casi progressivamente sempre più
minoritari, a forme di rituale sopravvivenza di quella metodica ovvero, all’opposto, a manifestazioni finanche plateali di rigetto. E però le
grosse ragioni comunque poste da Croce sembra siano state ora eluse
ora scavalcate, ma mai (se posso un istante far uso di una pericolosa e
scredita parola:) “superate”, ossia davvero capite ed approfondite per
poterle metabolizzare. Questa mancanza di reale confronto ha posto,
e tutt’oggi pone, il pericolo di due distinti ed esiziali esiti. Il primo, di
non consentire una decantazione epistemica della storia dell’estetica,
che in modo produttivo la orienti verso i compiti posti dalla congerie
contemporanea, dall’epoca postmoderna; il secondo, di praticare paradossalmente una perversa acquiescenza verso la storiografia crociana,
perversa in quanto inconscia e meramente astratta, quale quella che
di fatto disconosce il gradiente storiografico e continua a subordinarlo
a propri dissennati usi teorici. Dico usi “dissennati”, proprio perché
depotenziando le virtualità conoscitive della storia si finisce col pregiudicare la possibilità di preziosi investimenti proprio in sede teorica.
Del resto opere complessive e “generali” di storia dell’estetica, che
226
pur senza proporsi come ricerca scientifica originale non si limitino a
compiti di mera illustrazione manualistica, non sono abbondate nel
secondo dopoguerra in Italia. Va immediatamente ricordata L’esthétique contemporaine, volume pubblicato direttamente in lingua francese
nel 1960 da Morpurgo-Tagliabue, che svolse una funzione molto importante, o addirittura decisiva nell’allargare il panorama estetologico
nostrano, e che in questa occasione tocca ricordare per la freschezza
d’impianto metodologico e, perché no, per l’ironia con cui si avvisò il
lettore di non aspettarsi un itinerario che l’avrebbe condotto alla dimostrazione di una tesi, alla teoria infallibile dell’autore 25. E poi una storia
antologica dell’estetica apparsa nel 1965 a cura di Plebe, che merita
registrare per il radicalismo metodologico professato, che sconfina in
un convenzionalismo assoluto 26.
In assenza dei chiarimenti di fondo, che di norma accompagnano o
attraversano le opere d’insieme, la storiografia estetica ha egualmente
fruttificato nel secondo dopoguerra, attraverso una selva di studi particolari. È materialmente impossibile darne resoconto. Eppure come non
ricordare, per esempio, La critica d’arte nel pensiero medievale del compianto Rosario Assunto, comparsa nel 1961, che rimane un classico della
nostra storiografia estetica, o i suoi studi successivi non meno rilevanti
sul Settecento e il Neoclassico; o L’idea di artisticità di Dino Formaggio
del 1962, che ridiede cittadinanza scientifica al capitale tema hegeliano della morte dell’arte; e le ricerche di estetica musicale di Fubini e
quella kantiane di Pareyson e poi di Garroni; un piccolo gioiello come
L’estetica di Pirandello scritto da Vicentini; o il percorso Da Bacone a
Kant guidato da Anceschi e le finissime analisi di Settecento condotte
da Ermanno Migliorini 27?
Vorrei chiudere con una data rotonda: il 1981. Esattamente trent’anni dopo la nota crociana da cui abbiamo preso le mosse, venne pubblicato un Trattato di estetica, curato da Dufrenne e Formaggio 28. Si tratta
di un compendio di carattere istituzionale, che ben serve lo scopo di
fornire uno strumento di lavoro, ricognitivo delle problematiche estetiche. Ne faccio menzione non solo per l’inusitata ampiezza prospettica
della parte storica, che contempla anche l’estremo Oriente e il mondo
arabo-islamico, ma per la sua articolazione in due distinti volumi: 1
Storia, 2 Teoria. Il fatto desta interesse perché ottant’anni prima Croce,
scrivendo l’Estetica, aveva sovvertito una ferma tradizione disciplinare,
facendo seguire la trattazione storica a quella teorica. Quell’anomalia,
naturalmente, propiziava la funzione di servizio teorico assegnata alla
storia dell’estetica. Che a questa rettifica si sia pervenuti, in Italia, dopo
ottant’anni può sembrare non molto. Forse lo è, ma è un buon segno
d’inizio.
227
* Relazione tenuta al Congresso “La storiografia filosofica italiana nel secondo dopoguerra” (Lecce 10-12 dicembre 1992) e successivamente pubblicata in: Aa. Vv., Il canto di
Seikilos. Scritti per Dino Formaggio nell’ottantesimo compleanno, Milano, Guerini, 1995.
1
B. Croce, Stato degli studî estetici in Italia (1951), in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, 1952, p. 222.
2
G. Preti, Continuità ed “essenze” nella storia della filosofia, in “Rivista critica di storia
della filosofia”, xi (1956), p. 359; ora in Id., Saggi filosofici, vol. ii: Storia della logica e sto­
riografia filosofica, Firenze, La Nuova Italia, 1976.
3
Aa. Vv., Problemi di storiografia filosofica, Milano, Bocca, 1956.
4
Aa. Vv., Verità e storia. Un dibattito sul metodo della storia della filosofia, Asti, Arethusa, 1956.
5 L. Pareyson, Unità della filosofia, “Filosofia»” iii (1952).
6
F. Lombardi, Concetto e problemi di storia della filosofia, Roma, Arethusa, 1953.
7
A. Massolo, La storia della filosofia come problema, Firenze, Sansoni, 1955.
8
C. Antoni, Il metodo nella storia della filosofia, in Id., Storicismo e antistoricismo,
Napoli, Morano, 1964.
9 M. Gentile, Se e come è possibile la storia della filosofia, Padova, Liviana, 1964.
10
P. Piovani, Filosofia e storia delle idee, Bari, Laterza, 1965.
11
A. Negri, Storia della filosofia ed attività storiografica, Roma, Armando, 1972.
12
F. Tessitore, Filosofia e storiografia, Napoli, Morano, 1985.
13
Cfr. per esempio il seguente riferimento di E. Garin, L’“unità“ nella storiografia filoso­
fica, “Rivista critica di storia della filosofia”, xi (1956), p. 207: «Quasi esemplare è in propo­
sito la “storia dell’estetica“ del Croce, in cui, assunto coerentemente il “concetto che si ha
[che lo storico ha] di questa scienza... come misura o termine di paragone“, se ne inferisce
che una storia dell’estetica non può cominciare prima del secolo xviii, e che, per esempio,
“le dottrine del Medioevo... hanno valore piuttosto per la storia della cultura“. Né è difficile
trasferire l’argomento a tutta la filosofia in genere: anche qui, presa come “misura o termine
di paragone“ la Filosofia, ossia una filosofia, la sua storia comincia con gli aurorali prean­
nunzi della sistemazione accettata».
14
Cfr. E. Garroni, Senso e paradosso, Roma-Bari, Laterza, 1986, e Id., Estetica. Uno
sguardo-attra­verso, Milano, Garzanti, 1992; M. Modica, Che cos’è l’estetica, Roma, Editori
Riuniti, 1987; L. Russo, Una Storia per l’Estetica, “Aesthetica Preprint”, 19 (1988), ora infra
col titolo Benedetto Croce e la storia dell’estetica; Aa. Vv., Antico e Moderno. L’Estetica e la
sua Storia, “Aesthetica Preprint”, 25 (1989); P. D’Angelo, A proposito di Croce storico dell’Estetica, “Rivista di estetica”, 33 (1990); L. Amoroso, Sul problema di una storia dell’estetica,
in Aa. Vv., Le grandi correnti dell’estetica novecentesca, Milano, Guerini, 1991.
15
Aa. Vv., La mia prospettiva estetica, Brescia, Morcelliana, 1953. Il volume pubblicava
un ciclo di conferenze tenuto con lo stesso titolo nell’Università di Padova.
16
G. Morpurgo-Tagliabue, Il concetto dello stile, Milano, Bocca, 1952; L. Pareyson,
Estetica. Teo­ria della formatività, Bologna, Zanichelli, 1954; L. Anceschi, Autonomia ed eteronomia dell’arte, Milano, Garzanti 19763.
17
A. Plebe, Processo all’estetica, Firenze, La Nuova Italia, 1959.
18 U. Spirito, Lineamenti di una storia dell’estetica (1957), in Id., Critica dell’estetica,
Fi­renze, Sansoni, 1964.
19 Aa. Vv., Momenti e problemi di storia dell’estetica, 4 vv., Milano, Marzorati, 1959-61.
20 L. Pareyson, I problemi attuali dell’estetica, in Aa. Vv., Momenti e problemi di storia
dell’estetica, cit., vol. 4, pp. 1806-7.
21 A. Plebe, Origini e problemi dell’estetica antica, in Aa. Vv., Momenti e problemi di
sto­ria dell’estetica, cit., vol. 1, p. 4.
22 Q. Cataudella, Estetica cristiana, in Aa. Vv., Momenti e problemi di storia dell’estetica,
cit., vol. 1, p. 81.
23 U. Eco, Sviluppo dell’estetica medievale, in Aa. Vv., Momenti e problemi di storia
dell’e­stetica, cit., vol. 1, p. 116.
24
V. E. Alfieri, L’estetica dall’Illuminismo al Romanticismo fuori d’Italia, in Aa. Vv.,
Momenti e problemi di storia dell’estetica, cit., vol. 2, p. 579.
25 G. Morpurgo-Tagliabue, L’esthétique contemporaine, Milano, Marzorati, 1960, p. xv:
«Tout d’a­bord, en suivant cette enquête ou panorama critique, qu’il ne s’attende pas à parcourir un itinéraire qui le conduira à la démonstration d’une thèse, à la théorie infaillible
de l’au­teur».
26 A. Plebe, Estetica, Firenze, Sansoni, 1965.
228
27
R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medievale, Milano, Il Saggiatore, 1961; Id.,
Stagioni e ragioni nell’estetica del Settecento, Milano, Mursia, 1967; Id., L’antichità come
futuro, Milano. Mursia, 1973; D. Formag­gio, L’idea di artisticità, Milano, Ceschina, 1962; E.
Fubini, L’estetica musicale dal Settecento ad oggi, To­rino, Einaudi, 1964; L. Pareyson, L’estetica
di Kant, Milano, Mursia, 1968; E. Garroni, Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica
del Giudizio”, Roma, Bulzoni, 1976; C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Mi­lano, Mursia,
1970; L. Anceschi, Da Bacone a Kant, Bologna, Il Mulino, 1972; E. Migliorini, Studi sul
pensiero estetico del Settecento, Firenze, Il Fiorino, 1966, e Id., Studi sul pensiero estetico di
Francis Hutcheson, Pa­dova, Liviana, 1974.
28
M. Dufrenne e D. Formaggio, Trattato di estetica, 2 vv., Milano, Mondadori, 1981.
229
Guido Morpurgo-Tagliabue: un marziano in estetica *
Chi ha conosciuto Morpurgo-Tagliabue sicuramente lo ricorda co­
me una persona molto fine, molto sensibile, arguta e spiritosa, anche
una sorta d’esempio antropologico, pensando a come ha gestito in
ma­niera disinvolta, addirittura simpatica il deficit che subì alle corde
vo­cali. Diciamo sommariamente – per chi non lo ha conosciuto – che
fu uomo di sensibilità e signorilità d’altri tempi. Quello che invece
direttamente ci riguarda è però capire le modalità con le quali siffatte
qua­lità abbiano alimentato, in apparenza in modo contraddittorio, la
sua personalità di studioso. Non è facile capirlo, e io – e non oggi
ma fin da quando ci siamo conosciuti oltre trent’anni fa – mi ci sono
impegnato tante volte senza successo. Finché ho trovato la formula che
vi ho proposto in quest’occasione, che mi sembra calzante, anche se
sulle prime può suonare un po’ strana: Morpurgo-Tagliabue era uno
scienziato marziano sceso a studiare il pianeta Terra.
È a partire da quest’alienità che, secondo me, si arriva a comprendere il suo sovrano distacco dinanzi a eventi, persone, fatti di studio,
dinamiche scientifiche, rapporti accademici. Non era, insomma, un
uomo insensibile e indifferente al vivere civile, un essere alienato dalle
realtà del mondo e dai codici comuni di comportamento, non era,
per così dire dis-umano, possedeva invece una differente natura: era
un alieno capitato sulla Terra. Per fortuna, nostra oltre che sua, aveva
una grande simpatia per il popolo che aveva scelto di studiare e presso
cui aveva preso a vivere, e riuscì ad appartenere a questo popolo, a
decifrarne le formæ mentis con un mimetismo assoluto, per cui veniva
scambiato per un terrestre.
Entrai in contatto con Morpurgo giovanissimo, con i primi articoletti che, come usa, si mandano agli studiosi autorevoli – siamo nella
seconda metà degli anni Sessanta – e lui rispose gentilmente, come
usa, con le solite due righe d’apprezzamento e d’augurio. Poi lo incontrai inopinatamente alla fine di quel decennio, e scoprii appunto
l’alieno. Ci trovammo accomunati in una strana operazione politicoaccademico-con­corsuale: un convegno d’estetica dello spettacolo messo su in maniera improvvisata da un Maggiorente per fini di bassa
cucina accademica e Morpurgo era stato, chiaramente, invitato a fini
231
d’adozione concorsuale. Parlò il Maggiorente, poi l’aspirante baronetto, e infine intervenne Mor­purgo. Per cantare imperturbabile al
Maggiorente, in poche secchissime battute, che il tema del convegno
non stava né in cielo né in terra e che il rampante avrebbe fatto bene
a mettersi a studiare prima di parlare. Una bomba: immaginatevi l’effetto... Capii già allora le ragioni della sua non popolarità all’interno
della corporazione accademica.
Ma posseggo tanti altri ricordi consimili. Per esempio, molti anni
dopo, un altro convegno in cui si presentavano le forze nuove dell’estetica italiana. Alla discussione sulle relazioni Morpurgo prese la parola e sparò a zero sui sedicenti “nuovi” estetologi, imperturbabile,
facendo morti e feriti sul campo, col suo tono martellante ma non
polemico: non era cattivo, era proprio un puro cervello pensante, un
os­servatore spassionato, che dall’esterno, dal pianeta Marte os­servava
con disincanto gli strani movimenti degli abitanti della Terra.
Fatto sta che la prima volta che lo invitai a Palermo – agli inizi delle attività del nostro Centro, sorto nel 1980, di cui fu socio onorario e
presenza costante – ricordo che mi si chiese con malcelata irritazione
perché lo avessi invitato: era persona non gradita. Era facile pen­sare –
e all’inizio l’ho pensato anch’io – che alla radice della sua impopolarità
nella corporazione estetologica ci fosse una ragione semplicemente,
diciamo, “caratteriale”; ma via via ho maturato la convinzione che le
cose non stiano solamente così, o per meglio dire che le sue anomale
manifestazioni d’interazione personale in realtà fossero conseguenza,
e fossero comunque in relazione, al suo modo singolare d’es­sere studioso d’estetica, ossia del modello estetologico da lui vissuto. Modello
che a partire dagli anni Cinquanta, quando lui entrò nell’agone scientifico, non poteva non essere profondamente dissonante col background
della cultura estetologica italiana. E dunque, potremmo dire: ordo et
connexio idearum idem est ac ordo et connectio rerum.
Toccherò fra poco questo, che è il punto centrale. Voglio prima
annotare qualche altro dato che contribuisca all’intelligenza del personaggio. Anzitutto l’indifferenza di Morpurgo. Indifferenza verso le
di­mensioni non noetiche del reale; ma, si badi, indifferenza anche
verso di sé, a cominciare dai suoi stessi scritti. Morpurgo era studioso
di lucidità assoluta: implacabile nell’argomentare, perentorio nell’affermare, mai banale, mai superficiale. Eppure tanto, per dirla con
Hjelmslev, era impegnato nel fissare la “sostanza del contenuto”, tanto
si disinteressava della “forma dell’espressione” e del destino della comunicazione. Era estensore impaziente, disordinato, anche ripetitivo;
trattava con fastidio la stesura delle note; e per dirla fino in fondo: era
un disastro come correttore di bozze. Di tutto ciò i suoi testi talvolta
ne risentono. Ma penso soprattutto al destino di tanti di questi suoi
testi: orfani abbandonati a se stessi. Non poneva nessuna cura – e lo
232
confessava candidamente – nel pianificare, amministrare e valorizzare
la sua produzione scientifica.
Così la sua vastissima produzione, che ha spaziato lungo il più va­
rio scibile umanistico, oltre che strettamente estetologico, oggi rimane
alquanto in ombra, sepolta in riviste e rivistine, incapsulata entro volumi collettanei improvvisati, di limitata o fantomatica circolazione, di
vaghissima registrazione. In realtà la bibliografia di Morpurgo, che solo
ora cominciamo a definire 1, è piena di sorprese. Per esempio quella di
scoprire, accanto a testi prevedibili, come, che so, Attualità dell’estetica
hegeliana, pubblicato in una rivista non di gran spicco quale “Il Pensiero”, quello su I problemi di una semiologia architettonica raccolto nel
“Bollettino del Centro internazionale di studi A. Palladio”, o i Canoni
sincronici della fruizione filmica presente nella sede “I Canoni letterari”,
o ancora Saba, e i vizi della lettura incluso nella silloge locale “Il punto
su Saba”, o ad­dirittura Metacritica del romanzo giallo, questo almeno,
dapprima latitante, ripresentato nel 1986 in una rivista in circolazione
come “Intersezioni”.
Posso offrire una testimonianza diretta. Giudicavo un peccato che
un saggio esemplare di Morpurgo fosse introvabile e non incidesse nei
dibattiti attuali, in un momento di rinnovato ed accesissimo interesse
per il tema. Mi riferisco al Barocco e alle discussioni che ne andavano
montando negli anni Ottanta del secolo scorso. Morpurgo nel 1955
aveva pubblicato un saggio dal titolo Aristotelismo e Barocco, nato
co­me relazione al Congresso internazionale di studi umanistici tenuto
l’anno prima a Venezia e i cui atti erano stati pubblicati da Enrico
Castelli. Il saggio era sì riportato nelle bibliografie ma, di fatto, ne era
rimasta memoria solo negli studiosi di quegli anni, al massimo veniva
citato di seconda mano: un testo euristico sostanzialmente rimosso.
Eppure quel testo indagava le origini umanistiche del Barocco, ripensandolo come categoria storica il cui indice specifico era costituito
dall’affermarsi di una nuova mentalità ed un nuovo gusto, e ne mostrava sottilmente la genesi da una deviazione deformante dell’eredità aristotelica. Era un’interpretazione assolutamente innovativa del Barocco,
che a me allora interessava anche per il suo gradiente metodologico,
che spazzava certe fumose letture che banalizzavano il contemporaneo
in termini di neobarocco. Ora, nel 1986 pubblicammo l’Agudeza y Ar­te
de Ingenio, e in quell’occasione promuovemmo un seminario internazionale dal titolo “Baltasar Gracián: Dal Barocco al Postmoderno”, nel
quale coinvolgemmo i maggiori studiosi, da Miquel Batllori a Benito
Pelegrín, e fra loro naturalmente Morpurgo-Tagliabue 2. Lui condivideva completamente le mie riserve sull’idea che il postmoderno fosse
un’età neobarocca, osservando che così si trasformava il Barocco «in
una categoria umorale vagamente esistenziale» (ma in privato dicevamo
sbrigativamente: “sciocchezze”!), e tenne un intervento intrigante che
233
faceva Perché non siamo e come siamo barocchi, puntuale e godibile
come sempre. Allora gli proposi di costruire un libro in cui riprendere il testo introvabile degli anni Cinquanta e attualizzare la problematica con quest’ultimo intervento. Riuscimmo a metterlo insieme e
pubblicammo Anatomia del Barocco, volume che ha richiamato molto
interesse, è molto circolato negli anni seguenti, tanto da doversene
fare una riedizione 3.
Ma questa è un’eccezione alla regola. In verità bisogna riconoscere
della non grande fortuna che riscossero altri, parimenti importanti,
studi pur approdati alla configurazione di libro, ma esiliati in recinti
specialistici. Penso per tutti all’originalissima riscoperta di Demetrio,
al Peri hermeneias, e all’abilità di Morpurgo nel ribaltarlo a fonte occulta della modernità, istituendo un gioco sottile, davvero “sublime”,
fra Demetrio e Longino 4.
Il caso più clamoroso è però rappresentato dalla sua intensissima
attività sull’estetica del Settecento, di cui è stato uno, dei tre o quattro
al mondo, lettori magistrali. Ma per quarant’anni non è esistito quel
libro, che sarebbe stato straordinario, sicuramente fondamentale, sulla
nozione di “gusto” nel Settecento, che pure lui materialmente aveva
composto. Il lettore se lo doveva ricostruire con l’immaginazione, a
partire, mettiamo, da tre articoli pubblicati sulla “Rivista Critica di
Storia della Filosofia”, due sulla “Rivista di estetica”, ed uno in quelli
introvabili, almeno per me, se non ci fossero stati gli estratti che me
ne mandava lui, “Annali della Facoltà di Lettere di Milano”, chiamati
con sapore ermetico acme.
Più volte Morpurgo, a voce e per iscritto, mi aveva manifestato il
desiderio che curassi di metterlo insieme ed aveva coinvolto parimenti
Giuseppe Sertoli, arrivando a stendere un sommario che distribuiva i
testi editi con qualche suturazione integrativa. Ma il progetto, in ragione dei consueti disguidi reciproci, non era andato in porto. Finalmente
l’anno passato, su ispirazione della Famiglia Morpurgo, Sertoli ed io
decidemmo di realizzare quel desiderio. E Il Gusto nell’estetica del
Settecento è oggi venuto alla luce nei nostri “Supplementa”, in tempo
per questo seminario che si tiene in occasione del conferimento del
“Premio Guido Morpurgo-Tagliabue” conferito dalla Società Italiana
d’Estetica al volume Fiat lux di Baldine Saint Girons.
Lasciatemi dire, anche a nome di Sertoli, che siamo molto soddisfatti di questo libro; ma averlo fra le mani sa per noi di miracolo. Perché
non è stata un’impresa difficile, come pure avevamo messo in conto,
ma disperante curarne la realizzazione! Mai, pur in una vita intensa
di libri, avremmo immaginato lo stato editoriale dei testi, nei quali
Morpurgo aveva proprio superato se stesso nel disordine del det­tato
e soprattutto nella scorrettezza delle centinaia e centinaia di citazioni
da lui intessute... Ma siamo sopravvissuti: è venuta fuori un’opera che
234
onora la cultura italiana, si pone come una pietra miliare degli studi
sull’estetica del Settecento e intanto animerà i lavori di questo Seminario. Ma prima d’iniziare, fermo questa linea di ricordi per guadagnare
rapidamente qualche altra osservazione più intrinseca.
Fra le tante dimensioni in cui eccelse l’opera di Morpurgo sarò
costretto a privilegiarne solo una, quella d’altra parte forse più conosciuta, che ne fa un classico ancor oggi frequentato: quella di storico
dell’estetica contemporanea. Per apprezzare appieno L’esthé­tique contemporaine, pubblicato nel 1960, bisogna però fare un passo indietro,
al 1951, quando uscì il primo rilevante saggio di Morpurgo in estetica:
Il concetto dello stile 5. È infatti già in quest’opera incoativa che si delineano alla radice le condizioni formali di quella personalità anomala
di studioso che ho chiamata “marziana”.
Un libro sulle prime sconcertante, Il concetto dello stile, a cominciare dalla sua tesi di fondo, come è noto, quella di risolvere l’estetica
in stilistica, sulla quale non mi posso soffermare; ma libro singolarissimo per numerose altre, impegnative, ragioni. Anzitutto l’impianto stesso del volume, diviso in tre parti, di cui la prima, di ben 177 pagine,
intitolata “Considerazioni sull’estetica italiana dell’ultimo ventennio”.
Morpurgo cioè fa precedere la presentazione della sua teoria estetica da una minuziosa disamina storiografica dell’orizzonte concettuale
dell’estetica italiana contemporanea, orizzonte che per altro si distende
e si articola nella seconda parte, interagendo con l’intera tradizione
estetologica, lungo un vettore non convenzionale dell’avventura estetica, come si esprimeva l’Autore, che da Aristotele rimonta sinuosamente fino a Croce. Quest’impianto non era affatto scontato; anzi non era
questo, nel 1951, il modello vigente nella letteratura specialistica. E ne
illustrerò fra poco le ragioni. Dirò prima di un suo indice empirico,
squillante, che colpisce ad apertura del libro.
«Nel trattare una questione di estetica non è possibile prescindere
dal pensiero di B. Croce, che domina questi studi da cinquant’anni.
Oltre che l’imporlo un dovere di deferenza, ossia l’obbligo di giustificare un punto di vista differente dal suo tale da condurre a conclusioni lontane da quelle alle quali egli ci ha abituati, lo richiede soprattutto la necessità di avere un riferimento critico-storico per capire le
ragioni di certi atteggiamenti contemporanei. Anche agli occhi di un
ico­noclasta B. Croce rimane un monumento nazionale, magari ingombrante, ma indispensabile per orientarsi nella città estetica» 6. Basta
que­sto incipit, dicevo, per cogliere la misura dell’esordiente studioso.
Lascia di stucco, infatti, la scioltezza, vorrei dire la surplace, con la
quale il giovane Morpurgo, in una stagione nella quale il dibattito
estetologico era ancora sostanzialmente condannato a schierarsi con
Croce e contro Croce, prende le distanze da questa “angoscia dell’in235
fluenza” e intraprende una strada nuova. Anticipando non meno di
una generazione, il confronto con Croce viene posto da lui come ovvio
colloquio con il classico disciplinare, e mentre ammette senza pregiudizi che “non è possibile prescindere dal pensiero di Croce” perché
egli è “un monumento nazionale indispensabile per orientarsi nella
città estetica”, lo configura come preziosa eredità, in attivo ma da
reinvestire, proprio per guadagnare “un punto di vista differente dal
suo”. L’estetica di Morpurgo, lasciato alle spalle ogni furor polemico
del passato, esordisce dunque positivamente sul filo della fisiologica
distanza da Croce, ossia come un’estetica, insieme, non crociana e
non anticrociana, bensì squisitamente “postcrociana”. Conosco un solo
altro studioso che, in Italia in quegli stessi anni, con la stessa serena
trasparenza sia arrivato a tanto: Cesare Brandi 7.
Che significhi in concreto “un punto di vista differente” da Croce,
ossia dove porti la strada postcrociana aperta da Morpurgo, lo verifichiamo subito nel tema di storiografia estetica che abbiamo ritagliato.
Si diceva dell’originalità d’impianto del Concetto dello stile. Lo stesso
Morpurgo ne era consapevole, tanto che sorregge lo spiazzamento
pro­curato al lettore con una prefazione molto eloquente, finanche didattica. Avvisa che «ricorreremo a un procedimento aporetico, che
difenda ogni volta l’esperienza e le sue illazioni di fronte ai problemi
che la riflessione e la cultura sollevano. In questo modo il patrimonio delle dottrine – tanto avventuroso nel nostro argomento – non ci
offrirà una materia da sistemare secondo un principio dialettico, ma
una serie di contributi, di incontri, di conflitti, fuori dei quali non vi
è completa riflessione» 8.
Sorvoliamo sull’originale apertura a tutto campo del fare teoria che
questa scelta metodologica consente. Leggiamo invece la sua decisiva
implicazione in storiografica: «Per questo motivo abbiamo fatto precedere la nostra ricerca da una critica culturale. Un’indagine analitica
non nasce da un esame delle dottrine esistenti, ma da un’esperienza;
tuttavia l’indagine culturale ne arricchisce la problematica e le offre
un controllo razionale (sempre che i dati della cultura si inseriscano in
un’analisi e ne facciano l’interna problematica, la necessaria autopolemica, e non la assorbano e la cancellino in una sintesi dialettica, ontologica o fenomenologica o sincretistica)» 9. Come si vede, l’opzione
di Morpurgo con assoluta nettezza taglia i ponti con le impostazioni
del passato e delinea una linea ricostruttiva del nesso fondante di
storia e teoria nella ricerca filosofica, nesso che in estetica era stato
variamente ipotecato dalla tradizione disciplinare con esiti di regola
angusti, quando non decisamente aberranti; e, in ultimo, era finito in
cortocircuito nella dottrina crociana.
Fermiamoci qua. Ricordiamo sbrigativamente che in tutto il primo Novecento italiano, fino appunto a Morpurgo, l’orizzonte della
236
storiografia estetica era stato dominato da un modello “forte”, quello
crociano, anzi quello del Croce dell’Estetica, il testo capitale del 1902.
Testo, che non sempre si bada al fatto che consta di due parti distinte:
la prima, famosissima e famigerata, “Teoria”, la seconda, molto più
in ombra, “Storia”. Ingiustamente in ombra. Perché, al di là dei suoi
in­discutibili meriti storici e degli stimoli paradigmatici, pur traumatici,
che offriva (era, per esempio, la prima storia dell’estetica composta in
Italia, vi si scoprivano i teorici italiani sei-settecenteschi, si elevava Vi­
co a padre dell’estetica al posto di Baumgarten), costituiva un perfetto
pendant funzionale della prima parte teorica. Importa tuttavia mettere
in chiaro che il modello cui è informata la storia dell’estetica crociana
ha esercitato un fascino unico su tutta la posterità, praticamente fino
a ieri, con qualche isolatissima eccezione. Un dominio metodologico
addirittura più pervasivo di quello esercitato dalla stessa teoria estetica
di Croce e che, curiosamente, si è esercitato anche nei versanti più
dichiaratamente anticrociani.
Cosa insegna quel modello 10? Che la costruzione storiografica è
informata da regole a priori, determinate non dai criteri ordinativi
pertinenti alla comprensione dei materiali indagati, bensì dall’idea che
secondo la propria scelta teorica lo studioso formula in ordine all’in­
terpretazione di quei materiali. Ne consegue che la ricerca non mira
alla conoscenza dei fatti teorici avvenuti nella storia, ma al conseguimento della propria verità disciplinare attraverso la storia: l’atto storiografico viene così subordinato alle finalità teoriche perseguite. Fino
all’estremo paradosso che, al momento in cui la storia consegue la sua
finalità, accertando l’esistenza del proprio oggetto tematico, essendo
questo analizzabile solo in termini epistemici, si dissolve la sua storicità:
la storia si scioglie nella teoria.
Questo, allo stato puro, è il modello storiografico crociano del 1902.
Ed è inutile aggiungere che di esso nei decenni successivi Croce ab­bia
reso ampia autocritica e fatto plurime emendazioni. Intanto perché egli
ha, comunque, mantenuto fino alla fine l’idea della storia dell’este­ti­ca
come momento interno e ancillare della teoria; ma soprattutto perché
la sua cifra della storia dell’estetica, variamente concepita come inerte
strumento o passivo corollario della teoria, mero “quadro concet­tuale”
attraverso cui promuovere il proprio progetto conoscitivo, ha con­ti­
nuato a trascinarsi per inerzia lungo gran parte del Novecento. Fi­no
a Morpugo, come abbiamo visto, e purtroppo anche dopo Morpurgo.
Piuttosto, acquisita l’inversione di rotta intrapresa da Morpurgo,
mette conto sottolineare che essa non si consuma attraverso una banale rottura con Croce, ossia per una contrapposizione meramente
polemica, bensì secondo un’orbita “postcrociana”, attraverso cioè uno
spo­stamento di livello problematico, che accoglie e rielabora in diversa
prospettiva talune vitali esigenze evidenziate dallo stesso Croce. Cro237
ce è anche colui che negli anni Trenta scriveva: «Vorrei che alcuno,
invece d’inventare nuove Estetiche e Filosofie dell’arte, come tuttodì
vediamo, sterilissime e inutilissime, avesse il buon proposito d’imparare
e studiare sul serio l’Estetica, e, perciò, anzitutto, la Storia dell’Estetica» 11. Pochi inviti, come questo, sono stati tanto a lungo disattesi
dagli studiosi. Fino a Morpurgo-Tagliabue, che i testi della tradizione estetologica li ha studiati davvero e li conosceva di prima mano,
rileggendoli “do­po” Croce: basti per tutti la scoperta di Demetrio,
accanto allo Pseudo Longino, o la ri­scoperta di un Burke, insieme al
disertatissimo Hemstherhuis 12.
Questa esigenza di risintonizzare storia e teoria, assolta in estetica
da Morpurgo fin dal 1951, vale la pena di ricordare che dilagò negli
anni successivi in una lunga stagione di revisioni metodologiche che
si protenderà fino agli anni Settanta. Fior di studiosi, quali Paci, Dal
Pra, Preti, Abbagnano, Bobbio, Garin, a metà degli anni Cinquanta,
in con­vegni, dibattiti, numeri speciali di riviste, misero in discussione
il mo­dello corrente di storiografia filosofica, e in particolare le tre categorie mitiche che lo avevano fomentato: “unità”, “precorrimento”,
“superamento”, aprendo nuovi percorsi che si staglieranno in varie
direzioni. Non mi consta invece che questo dibattito abbia trovato eco
diretta nella cittadella estetologica e posso registrare solo un calibrato
intervento, del solito Morpurgo, che commenta un importante convegno tenutosi in Firenze a fine aprile del 1956, stendendo una nota
che poi diventa recensione e infine articolo 13. Qui lo stile, vorrei dire,
storiografico di Morpurgo si distende in piena decantazione. Per lui
lo storico deve essere consapevole della natura speculativa e contemporaneamente pratica del suo operare: consapevole cioè di fare, insieme, storiografia e storia. Non storiografia arbitraria per compiacere a
una transitoria situazione storica o per provocarne una, ma nemmeno
storiografia scrupolosa e proba ma astratta, simile a un esercizio ben
eseguito ma sprovvisto del senso della sua utensilità e non riferito a
un’ef­fettiva coscienza storico-pratica. Si spalanca allora una strategica
flessibilità di campo che riqualifica al massimo grado tutte le valenze
del lavoro estetologico. Da un lato, si riconosce e legittima una storiografia che guarda alle persone, alle esperienze dell’epoca e all’intreccio
fra domanda epocale e tipo di risposta contingente che viene data alla
domanda, quindi al rapporto delle teorie fra di loro e delle teorie con
le realtà da esse rappresentate, alle opere d’arte per esempio, al gusto
e alla sensibilità dei tempi, senza parimenti disgiungere tutto ciò dalla
persistenza di una problematicità della ricerca, che si va continuamente svolgendo e modificando e che va ricostruita ad hoc, volta a volta
attraverso concrete analisi fenomenologiche.
È in questo rinnovato quadro di ricerca che vede la luce nel 1960
L’esthétique contemporaine, sicuramente, dicevo, il volume più cono238
sciuto di Morpurgo e che ha avuto fortuna e traduzioni anche all’estero. Trent’anni dopo l’Autore lo presenterà con la consueta nonchalance:
«come per un dovere di azione responsabile, stendevo una laboriosa
rassegna analitica dell’intera produzione estetica moderna dall’Ottocento a noi» 14. È importante la precisazione di “rassegna analitica”, che fa
aggio su di una virtuale storia dell’estetica contemporanea la cui pensabilità è davvero disperante. Basti riflettere sul fatto che il maggiore
studioso di storia dell’estetica del secondo Novecento, Tatarkiewicz, vi
ha rinunciato, fermando addirit­tura la sua opera alla soglia di Baumgarten, salvo un recupero tematico della contempo­raneità in forma di
idee estetiche 15. Ma il dato saliente è che Morpurgo è stato capace di
darci un quadro d’insieme, che prima mancava e che è rimasto unico nella letteratura interna­zionale: un punto di riferimento obbligato.
Pun­tualmente servito, è chiaro, dal suo impianto conoscitivo, in cui la
flessibilità è oramai trapassata in ferace spregiudicatezza. Ora infatti
osserva che la storia del pensiero estetico ideale sarebbe quella che
arrivasse a connettere i legami delle teorie fra di loro, e delle teorie con
l’esperienza estetica, e quest’ultima con la restante esperienza pratica.
E poi­ché questa visione storica si dimostra un’aspirazione impossibile,
non bisogna mai illudersi di raggiungere un risultato completo e definitivo e si può solo farne una revisione continua. Del resto, sviluppare
volta a volta uno solo di questi tipi di rapporto non significa cadere
nell’astrazione perché ogni aspetto contiene tutti gli altri. E allora Morpurgo fa di necessità virtù, scegliendo di esporre senza nessuna remora
certe teorie soprattutto nei loro legami, altre in modo dialettico, altre al
contrario come inte­ramente relate a situazioni sociali determinate, altre
infine come prodotto di un’esperienza artistica. Un concerto, in­somma,
polivalente, in cui ogni “ragione” possa compiutamente rappresentare
le proprie divaricanti “ragioni”.
Per ponderare un risultato siffatto, nello sfondamento dell’anteriore
quadro disciplinare, a parte fuori d’Italia il già ricordato Tatarkiewicz,
che inizia a pubblicare la sua Storia dell’estetica egualmente nel 1960,
da noi ci fu solo un altro studioso, spregiudicato come Morpurgo,
grande come Morpurgo, anch’egli atipico, anch’egli fuori riga, che pos­
so collocare accanto al “marziano” Morpurgo con l’epiteto di “gioviano”. Si tratta di Rosario Assunto, che muovendo da altre premesse,
uti­liz­zando differenti strumenti e referenti, sempre nel fatale 1960,
pubbli­ca la rivoluzionaria Critica d’arte nel pensiero medievale 16. Sono
i grandi dioscuri della storiografia estetica italiana del secondo Novecento.
Vorrei concludere questo breve ricordo di Morpurgo citando una
sorta di bilancio che egli stesso fece nel 1990, in una nota esemplare
che per certi versi è una dichiarazione finale. «I richiami storici non
239
sono superflui o avventizi a una considerazione speculativa. Una estetica odierna non può configurarsi se non come una metacritica della
coscienza critica, in quanto riflessione sul gusto in diversi settori e in
diversi momenti storici. […] Sottratta alla sua integrazione storica an­
che la più acuta tesi teorica in questo campo rischia spesso esiti ottusi.
Non c’è considerazione speculativa che non sia una ricognizione e una
revisione, e come tale legata a suoi precedenti e complementari. […]
Così soltanto la ricerca estetica può conservare inoltre una sua specifica autonomia, senza perdersi come un affluente in una problematica
teoretica più vasta» 17.
Alla fine, dunque, come all’inizio, attraverso l’odissea marziana di
Guido Morpurgo-Tagliabue.
* Relazione presentata nel Convegno dal titolo Guido Morpurgo-Tagliabue e l’estetica
del Settecento, promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica (Palermo 1-2 novembre
2002) e pubblicato in “Aesthetica Preprint, 67, aprile 2003.
1 Cfr. l’Appendice bibliografica, in G. Morpurgo-Tagliabue, Il Gusto nell’Estetica del
Settecento, “Aesthetica Preprint: Supplementa”, 11 (2002), pp. 243-47.
2
B. Gracián, L’Acutezza e l’Arte dell’Ingegno, Palermo, Aesthetica, 1986; Aa. Vv., Baltasar Gracián: Dal Barocco al Postmoderno, “Aesthetica Preprint”, 18 (1987).
3 G. Morpurgo-Tagliabue, Anatomia del Barocco, Palermo, Aesthetica, 19982.
4 Id., Demetrio: dello stile, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1980.
5 Id., L’esthétique contemporaine, Milano, Marzorati, 1960; Il concetto dello stile, Milano,
Bocca, 1951.
6
Id., Il concetto dello stile, cit., p. 27.
7 Cfr. supra Cesare Brandi esthéticien.
8 G. Morpurgo-Tagliabue, Il concetto dello stile, cit., p. 10.
9
Ibidem.
10 Su questo tema, e più generale sulle questioni della storiografia estetica crociana alle
quali faccio riferimento, rimando ai miei due saggi Una Storia per l’Estetica, “Aesthetica
Preprint”, 19 (1988), qui ristampato col titolo Benedetto Croce e la storia dell’estetica, e
Per eccesso e per difetto: Croce e la storia dell’estetica, “Studi di estetica”, 26, 2002, qui
ristampato.
11 B. Croce, Sul “colore” nella storia dell’estetica (1933), in Id., La critica e la storia delle
arti figurative. Questioni di metodo, Bari, Laterza, 1934, p. 226.
12
G. Morpurgo-Tagliabue, Demetrio: dello stile, cit.; Il Gusto nell’Estetica del Settecento,
cit., pp. 177-97; Leggere Hemsterhuis, “Rivista di storia della filosofia”, 42 (1987), pp. 3-46.
13
Id., Tre categorie storiografiche, “Il Pensiero”, 1 (1956), pp. 319-34.
14 Id., La mia prospettiva estetica, in G. Marchianò (a cura di), Le grandi correnti dell’estetica novecentesca, Milano, Guerini, p. 159.
15
W. Tatarkiewicz, Historia estetyki, voll. i-ii 1960, vol. iii 1967, trad. it. Storia dell’estetica, Torino, Einaudi, 1979-80, 3 voll.; Id., Dzieje sześciu poje˛ć, 1975, trad. it. Storia di
sei Idee, Palermo, Aesthetica, 20138.
16 R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medievale, Milano, Il Saggiatore, 1961; cfr.
il mio Assunto e il Paesaggio dell’estetica, “Aesthetica Preprint”, 44 (1995), qui ristampato
più avanti col titolo Rosario Assunto e il paesaggio dell’estetica.
17
G. Morpurgo-Tagliabue, La mia prospettiva estetica, cit., p. 163.
240
Rosario Assunto e il paesaggio dell’estetica
*
Ricordare Rosario Assunto a un anno dalla sua scomparsa, provare a tracciarne l’identità, pur sommariamente, come in una scheda
segnaletica, è compito tutt’altro che agevole. Il fatto è che tanti, sovrabbondanti, tutti densi e vitali, sono i luoghi che Assunto ha visitato,
esplorato, rischiarato con l’acume dello studioso non meno che con la
passione dell’amatore, e ha consegnato a noi in tanti testi esemplari,
pagine dense sì di spessori cognitivi, ma anche illuminanti perché testimoniali, euristiche, efficaci anche in ragione di una scrittura limpida e
accattivante, a elevatissimo tasso di coinvolgimento. Riportare tutto ciò
a unità, nel breve giro assegnato a questo intervento, rendere la trama
che governa siffatta ramificazione, convogliarla in un punto unico e
trasparente d’intelligibilità è dunque impresa talmente complessa che
non conviene tentare in questa occasione.
E poi Assunto è stato personalità poliedrica, onnivora, estravagante, che ha sistematicamente debordato dalle rotte convenzionali, capace di aggirarsi nei più imprevedibili sentieri del sapere ha tracciato
nuove rotte di navigazione, un primattore che ha evocato personaggi
sconosciuti e li ha rappresentanti con successo, li ha fatti conoscere e
amare sia nei grandi teatri che nelle platee di provincia. Ognuno sa di
Assunto teorico massimo del paesaggio e del giardino, o del profondo
conoscitore dell’estetica medievale, o del sottile narratore delle stagioni
e ragioni dell’estetica del Settecento, dell’antichità come futuro; e però
tutto ciò si coniuga e congiunge in lui con la coltivazione, non meno
intensa e spassionata, di altri campi, con l’esercizio di numerose altre
pratiche culturali, egualmente significative e comunque necessarie da
mettere in conto per stabilizzare e fissare la sua complessiva fisionomia
di studioso.
Non mancherà chi ha apprezzato l’Assunto teorico di poesia, di
un approccio quasi esoterico al linguaggio poetico, il finissimo lettore
ed esegeta di Dante e di Mallarmé, di Rilke...; ma, accanto, anzi intrecciato, c’è l’Assunto polemista, l’intellettuale che quasi all’improvviso, negli anni Settanta, scese direttamente in campo svolgendo una
funzione di contestazione attuale, di critico severo e implacabile delle
spire che andava manifestando l’emergente società consumistica: il
241
corsivista della rubrica giornalistica intitolata, giustappunto, “i veleni
del filosofo”. E quanti, per converso, sanno del primissimo Assunto, militante sull’opposto versante della polemica culturale, autore di
quell’aureo saggio pubblicato nel 1958 col titolo L’integrazione estetica,
dove analizzava le «possibilità liberatrici che la scienza e la tecnica
mettono, oggi, a disposizione dell’uomo», addirittura teorico delle neo
avanguardie e dell’industrial design...? Ecco: sarà lavoro non semplice,
non facile, non breve, comporre un disegno che sia, insieme, unitario
e articolato, del grande Maestro e Amico che oggi ricordiamo.
Talché questo breve intervento, vuole almeno cominciare a soddisfare una prima messa a fuoco, che nasce in verità da una inquietudine. Dal timore cioè che, attratti, legittimamente, doverosamente, da
un qualche tema o taluna problematica, delle tantissime, da Assunto
coltivate in misura così magistrale, abbagliati dai risultati smaglianti lì
conseguiti, rischi di essere smarrito – vuoi di non venire debitamente
apprezzato, o addirittura di passare inavvertito – quello che è stato
il ruolo peculiare, eccezionale, davvero unico che ha svolto Assunto
nella nostra congerie di cultura. Un merito a fronte di cui ogni lode,
che pur sperticata possa sulle prime sembrare, qualunque attributo
di estimazione, ogni plauso sarebbe sicuramente al di sotto del vero.
Intendiamoci, è chiaro a tutti che, per esempio, l’estetica del paesaggio elaborata da Assunto, al di là dei suoi pur incommensurabili
meriti culturali, anzi politico-culturali, costituisce un vertice della ricerca contemporanea: un’opera non serializzabile, a cui è difficile trovare
compagno. Se dovessi pensare a un volume epocale come Il paesaggio
e l’estetica, che magnifichi parimenti la cultura italiana del secondo
Novecento, penserei a un’altro compagno di strada e grande amico
di Assunto, alla Teoria del restauro di Cesare Brandi. Non è quindi in
questione l’apprezzamento, la qualificazione di valore da riconoscere
a questa o quella, o addirittura a pressoché tutte le imprese scientifiche realizzate da Assunto, a cominciare appunto dalla sua estetica del
paesaggio. Quello che è in questione, e merita di essere percepito in
primissima istanza, è l’articolazione di tale valore, ossia le sue condizioni di possibilità. Quelle condizioni basiche che presiedono all’intera
opera di Assunto e l’hanno determinata: la sua cifra identitaria.
Insomma, la domanda che sollevo è se l’opera di Assunto sia rimarchevole per gli importantissimi esiti conoscitivi che ha prodotto (la
reinvenzione speculativa del paesaggio, ma parimenti il giardino, l’estetica medievale, il Neoclassico e la Romantik, gli studi kantiani...) – sia
rimarchevole, voglio dire, solamente per il macroscopico quoziente di
questi importantissimi risultati, o se questa eccezionale messe di risultati sia parimenti, e forse ancor più, eccezionale per ragioni ulteriori,
che si collocano a un più elevato, genetico grado epistemico, e siano
eccezionali allora, più propriamente, tali ragioni, per la loro decisiva
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incidenza metateorica non meno che per le loro enormi ricadute più
latamente storico-culturali. La risposta a questa domanda è ciò che
perseguo col ribaltone, come in questi giorni usa dire, della formula
di “estetica del paesaggio” in quella di “paesaggio dell’estetica”.
È un gioco di parole, invero molto nello stile di Assunto; ma non
lo stiamo facendo per gioco. Bensì per evocare la capitale questione
che l’estetica, lungo l’intera sua tradizione disciplinare, ha subìto senza riuscire a dirimere, e quindi ha sostanzialmente disatteso, con la
conseguenza di aggrovigliare sempre più nodi che hanno rischiato di
condannarla a una impasse perniciosa, che ha messo in pericolo la sua
stessa ragione di esistenza. Laddove Assunto, con lo scioglimento di
quel nodo, è riuscito a rilegittimare nella nostra epoca la riflessione
estetica, attraverso la rideterminazione del suo apparato conoscitivo,
e quindi è riuscito a restituirle la sua nativa, preziosissima, funzione
epistemica e (meta)culturale.
Diciamo in termini estremamente sommari, ai limiti del lecito – e
me ne scuso – che l’estetica non nasce nel mondo moderno unicamente come scienza filosofica, con l’ufficio esclusivo cioè di disciplinare
sistematicamente talune esigenze puramente speculative. Questa rappresentazione è inadeguata per lo stesso Baumgarten, il pioniere che a
metà del Settecento con la celebre opera appunto intitolata Æsthetica
tenne a battesimo sì la nuova scienza filosofica, ma mirando a realizzare un globale progetto umanistico. E del resto non rende ragione
di quel tormentato processo che attraversa tutto il Settecento e tutta
l’Europa, alimentato da intere generazioni di studiosi della più diversa
estrazione e statura, che portò alla scoperta di un luogo teorico soprannumerario, fra pensiero e volere, come riconobbe Kant, diciamo
pure un piano epistemico eccentrico: l’estetico; ma capace di comporre
la dimensione del pensiero con quella delle pratiche culturali, modernamente identificate da Batteux attraverso il nuovo concetto di arte,
e agevolmente convogliarvi le annose problematiche gravitanti intorno
a esse: la bellezza, il piacere, il desiderio... Grazie a ciò, grazie proprio alla sua ambivalenza costitutiva, a un assetto disciplinare capace
di svolgere un ruolo strategico, mediando i due versanti, distinti ed
eterogenei, di filosofia e pratiche artistiche, ruolo indispensabile alle
dinamiche della mappa epistemica determinata dalla Modernità, 1’estetica si è sviluppata enormemente, negli ultimi due secoli, con risultati
di estrema importanza nei processi della cultura moderna, divenendo
già agli inizi dell’Ottocento scienza pilota del pelago umanistico.
Tale impegnativa funzione ha naturalmente comportato assunzione
di grosse responsabilità. E non credo di peccare di pietas disciplinare
se affermo che a esse l’estetica ha complessivamente soddisfatto in
modo ottimale. Ma con una eccezione, che si è sempre più rivelata
gravissima.
243
Il ruolo strategico di mediazione fra pensiero e pratiche artistiche
impone all’estetica un compito duplice e per certi versi paradossale:
da un lato, sussumere le pratiche, e dunque astringere il mondo della
storia in cui le pratiche acquistano esistenza, decantandole come pura
teoresi; e dall’altro, per converso, riqualificare l’universo noetico, dislocandolo sul piano della storia, renderlo capace della rappresentanza
del magmatico processo della formatività. L’estetica è uno strumento
conoscitivo flessibile e potente proprio nella misura in cui la capacità
di rendere l’esperienza delle pratiche teoria pura dell’esperienza estetica si converte nella simmetrica capacità della teoria di attivare tutte
le frequenze di senso emesse dalla storicità delle pratiche. Insomma,
un’orbita unica e adiafora, perennemente ricorsiva, in un circolo virtuoso fra “l’alto”, la suprema assise del pensiero, e “il basso”, il mondo pregnante della vita estetica; in tanto capace di produrre modelli
teorici in quanto modelli capaci di esaurire la mondanità degli oggetti
estetici. Nel momento in cui la modernità ha istituito un sapere così
scandaloso nella forma di estetica l’universo, l’universo epistemico, è
dunque profondamente cambiato: è cambiato l’universo del pensiero, che deve ristrutturare i propri assetti per governare noeticamente
il mondo storico dell’arte; ma è cambiato parimenti l’universo della
storia, a cui spetta una nuova nominazione estetica legittimante la sua
fabbrilità.
Non posso approfondire – e lo si dovrebbe – questo punto cardinale; mi limiterò quindi all’osservazione che la tradizione estetologica,
mentre ha splendidamente sviluppato il primo versante fondativo, ossia
la teoria pura dell’esperienza estetica, ha sostanzialmente disatteso la
costituzione del secondo, cioè la fondazione estetologica del mondo
storico. E lo ha disatteso proprio perché non è riuscita ad attivare la
circolarità “alto/basso”, di cui parlavamo. L’estetologo della tradizione,
di regola il filosofo che teorizza anche di estetica, quando ha avvertito il problema, ha ritenuto di poterlo risolvere operando “dall’alto”,
solo cioè attraverso il gioco delle figure speculative. Che un’operazione siffatta, se autore ne sia Hegel, possa anche produrre grandissimi
risultati, in ordine a numerosi problemi estetologici, non consola che
venga mancato l’obiettivo di fondo: l’insidenza della teoria nel reale, la
capacità di produrre intelligenza estetica del mondo storico. Mancata
l’intersezione di storia e pensiero, la quale – absit ogni riferimento
all’odierna situazione politica italiana – sta “nel centro”, l’obiettivo non
viene conseguito nemmeno rovesciando la prospettiva e tentando una
costruzione “dal basso”, come tante volte ci si è illusi di fare, e ricordo
in ultimo, per tutti, il volume di Hauser Filosofia della storia dell’arte.
Bisogna pur dire che l’estetica aveva individuato, già a metà dell’Ottocento, la via che avrebbe potuto linearmente assolvere a questo mandato, dislocando a tal fine un proprio interno sapere intitolato “storia
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dell’estetica”. Ma fu una grande occasione mancata. Perché quella storia, già a partire dal suo iniziatore Robert Zimmermann, si chiuse nell’asettica registrazione dei meri assunti teorici marcabili disciplinarmente,
come dire nella contemplazione di se stessa, opacizzando e decurtando
il proprio orizzonte conoscitivo. E pervenne, agli inizi del Novecento,
nel suo ultimo grandissimo interprete Benedetto Croce, all’estrema rarefazione metodologica di rispecchiarsi nella propria ineffettualità. La
Teoria ha assorbito, e di necessità vanificato, la Storia.
Dobbiamo dunque riconoscere che, nel suo decorso storico, l’estetica ha accusato una gravissima défaillance: l’incapacità di rispondere
alla domanda sul mondo estetico, che pure essa istituzionalmente è
tenuta a soddisfare. Défaillance che si è trascinata a lungo, con effetti
esiziali di vario ordine e grado. Si è trascinata per 152 anni. Tanto è
il tempo che trascorre fra il 1858, quando Zimmermann pubblicò la
sua Geschichte der Ästhetik, e il 1960, anno in cui il grande studioso
polacco Władysław Tatarkiewicz pubblicò il primo volume della sua
Storia dell’estetica, e il grande studioso siciliano Rosario Assunto pubblicò La critica d’arte nel pensiero medievale.
Curioso destino, quello di Tatarkiewicz e di Assunto. Due studiosi molto diversi: per età (circa trent’anni), per estrazione culturale,
per formazione e vicenda scientifica, che si sono appena fisicamente
incontrati, professandosi del resto reciproca stima, ma che indipendentemente, autonomamente l’uno d’altro, in modi personali, hanno
guadagnato entrambi, contemporaneamente, lo stesso obiettivo epocale: colmare la défaillance dell’estetica.
Su Tatarkiewicz non ho tempo per dire in questa occasione. Basterà il cenno che a lui si deve la sistematica falsificazione dell’impianto
storiografico tradizionale, di aver impugnato le leggi metodologiche
prescritte da Croce e, nei tre volumi della sua Storia dell’estetica prima, ed infine nell’affascinante summa conclusiva la Storia di sei Idee,
di aver riscritto la storia dell’estetica lungo nuovi assi epistemici, tracciando una mappa esaustiva capace di ripensare l’intera cultura occidentale sub specie æstheticæ.
Rimaniamo ad Assunto. E potrò oramai limitarmi a poche citazioni
esemplari. Basta aprire, del resto, La critica d’arte nel pensiero medievale e leggere le prime righe dell’Introduzione: «Questo libro […]
vuole essere un contributo alla storia del giudizio estetico. Giudizio
estetico è unione di un soggetto singolare e di un predicato universale: studiare la storia del giudizio estetico in un determinato periodo
storico significa dunque ricostruire le maniere come la cultura di quel
periodo ne concepiva il soggetto e il predicato». È un’affermazione
resa in maniera così tranquilla, e in apparenza disarmata, che bisogna
leggerla due volte per capire che stiamo assistendo all’annuncio di una
rivoluzione epistemica. Il cui programma, con identico candore, viene
245
così esplicitato: «Si trattava soltanto di ricostruire le concezioni del
soggetto e del predicato del giudizio estetico, e la maniera come esso
veniva impiantato e formulato in relazione alla pittura alla scultura e
all’architettura. [...] cercando volta per volta di cogliere il legame che
unisce strettamente, sebbene in modo segreto, la filosofia esplicata nella
coscienza colta e quella operante all’interno della coscienza comune:
dalla quale l’esplicazione filosofica emerge continuamente per tornare
continuamente a diffondersi in essa. In quanto portavoce di questa
coscienza comune e della sua implicita filosoficità, è stato necessario
ascoltare i trattatisti d’arte, i cronisti, i viaggiatori, gli agiografi, i panegiristi, nonché, con maggiore cautela, alcuni scrittori e poeti; le dichiarazioni di tutti costoro intorno alle opere d’arte, e alla loro bellezza, costituendo altrettanti indici del modo come la coscienza comune
prepara o fa proprie, secondo i casi, in maniera implicita, le concezioni
che la filosofia volta per volta sviluppa o precorre formulandole in termini espliciti». Qui finalmente, come ognuno vede, l’estetica ha trovato
il modo di costituire il proprio piano tematico, ossia la conversione del
mondo storico, quell’orizzonte estetologico che per generazioni aveva
senza fortuna cercato: la sua défaillance è colmata.
Un’ultima citazione, dall’Introduzione di un altro libro capitale
di Assunto: Stagioni e ragioni nell’estetica del Settecento. Sette anni
dopo, il metodo sperimentato ne La critica d’arte si è definitivamente
consolidato e dispiega tutta la sua pregnanza conoscitiva: «I saggi raccolti in questo volume prendono in esame taluni aspetti dell’estetica
settecentesca studiata non solo nella riflessione dei filosofi, ma nei
giudizi della critica militante, nella teoria implicita al fare stesso degli
artisti, degli scrittori, dei poeti, nel gusto diffuso di cui forniscono
testimonianze gli scritti dei viaggiatori, i documenti di costume, i monumenti di quelle arti che impropriamente vengono dette “minori“,
come l’arte dell’arredamento, quella dell’abbigliamento, la coreografia
e il cerimoniale della vita. Da qui la relativa novità metodologica di
una ricerca che della storia dell’estetica accentua l’aspetto, come oggi
usa dire, “interdisciplinare”, e preferisce studiare la storia dei rapporti
tra il gusto e i concetti filosofici, piuttosto che i soli concetti filosofici,
come vorrebbe una tradizione secondo la quale la storia dell’estetica
altro non è se non un capitolo minore della storia della filosofia, e
nella storia della filosofia dovrebbe rimanere sequestrata». Così Assunto, con il suo tipico tono misurato e sornione, prende apertamente
congedo dalla tradizione e ne apre una nuova, un cammino solitario,
a lungo poco capito, finanche esorcizzato e rimosso.
Ecco il nucleo genetico della ricerca di Assunto, ecco l’apice per
cui egli merita di essere ricordato ed onorato come uno dei grandi
Maestri del nostro tempo.
Tatarkiewicz ha fissato lo sguardo sulle lande desertiche e amorfe
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abbozzate dalla tradizione estetologica scoprendovi vita, e le ha restituite alla storia della cultura tracciando la mappa completa dell’universo estetologico. Parallelamente, Assunto si è inoltrato in quei territori,
percorrendo regioni ancora inesplorate, visitandole passo passo con
l’umiltà e l’entusiasmo del pellegrino; ne ha analizzato la composizione
del terreno, ha ricostruito le sedimentazioni geologiche, inventariato le
vegetazioni, studiato il mutare dei venti e il ritmo delle stagioni; ed è
arrivato a disegnarne la carta particolareggiata, una guida preziosa e
indispensabile, precisa, e talora lenticolare come una fotogrammetria.
E questi territori, divenuti grazie a lui giardini, sono stati elevati a
civiltà estetica, ognuna peculiare, ognuna diversa dalle altre, diversa
nello spazio e nel tempo, nella molteplice varietà delle infinite epifanie
con le quali la categoria estetica diviene comprensione del processo
vitale. Civiltà, queste fondate dall’estetica, in cui la vita magnifica la
propria flagranza immaginativa, in quanto fusione di storia e pensiero, suprema affermazione della libera umanità dell’uomo: il paesaggio
dell’estetica. Paesaggio che non è dunque recinto specialistico di qualche studioso, ma comune possesso culturale, aperto a tutti, fruibile da
ognuno, bene collettivo. Un bene di cui tutti dobbiamo rendere grazie
a Rosario Assunto.
Metto punto. Ma non posso, prima di concludere, non confessare
quanto siamo tristi senza la presenza di Assunto. Ci mancano le sue
interminabili affabulazioni, le sue contagiose passioni, i suoi nobili furori; scontiamo la mancanza della sua sensibilità, la sua cultura, il suo
pensiero. E mentre ci chiniamo muti dinanzi all’evento della sua morte, accogliamo il suo prezioso lascito per tesaurizzarlo – il paesaggio
dell’estetica che ci ha donato – e che siamo impegnati a coltivare e a
tramandare.
* Intervento presentato nella Giornata di Studio A Rosario Assunto in memoriam, promossa dal Centro In­ternazionale Studi di Estetica (Palermo, 30 gennaio 1995) nell’anniversario della scomparsa di Rosario Assunto (1915-1994) e pubblicato in “Aesthetica Preprint”,
44, agosto 1995.
Refererenze bibliografiche
R. Assunto: Forma e destino, Milano, Edizioni di Comunità, 1957; L’integrazione estetica, Milano, Edizioni di Comunità, 1959; La critica d’arte nel pensiero medioevale, Milano,
Il Saggiatore, 1961; Stagioni e ragioni nell’estetica del Settecento, Milano, Mursia, 1967;
L’automobile di Mallarmé e altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti, Roma,
Ateneo, 1968; L’estetica di Immanuel Kant, Torino, Loescher, 1971; Il paesaggio e l’estetica,
Palermo, Novecento, 19942; L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo
europeo, Milano, Mursia, 1973; Il parterre e i ghiacciai. Tre saggi di estetica sul paesaggio del
Settecento, Palermo, Novecento, 1984; La parola anteriore come parola ulteriore, Bologna, Il
Mulino, 1984; Ontologia e teleologia del giardino, Milano, Guerini 19942.
C. Brandi, Teoria del restauro (1963), Milano, Einaudi, 2000; A. G. Baumgarten,
Æsthetica, 1750, trad. it. L’Estetica, Palermo, Aesthetica, 2000; Ch. Batteux, Les Beaux-Arts
247
réduits à un même principe, 1746, trad. it. Le Belle Arti ricondotte a unico principio, Palermo,
Aesthetica, 20024; G. W. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, trad. it. Estetica, Milano,
Feltrinelli, 1963; A. Hauser, Philosophie der Kunstgeschichte, München 1958, trad. it. Le teorie
dell’arte, Torino, Einaudi, 1969; R. Zimmermann, Geschichte der Ästhetik als Philosophischer
Wissenschaft, 1858, rist. anasl. Hildesheim-New York 1973; B. Croce, Estetica come scienza
dell’espressione e linguistica generale (1902), Milano, Adelphi, 1990; W. Tatarkiewicz, Historia
estetyki, voll. i-ii 1960, vol. iii 1967, trad. it. Storia dell’estetica, Torino 1979-80, 3 voll.; Id.,
Dzieje sześciu poje˛ć, 1975, trad. it. Storia di sei Idee, Palermo, 20138.
248
Władysław Tatarkiewicz e la storia dell’estetica
*
Vorrei che alcuno, invece d’inventare nuove Estetiche e
Filosofie dell’arte, come tuttodì vediamo, sterilissime e inutilissime, avesse il buon proposito d’imparare e studiare sul
serio l’Estetica, e, perciò, anzitutto, la Storia dell’estetica.
Benedetto Croce
È attraverso la storia che passa la strada per l’estetica.
Władysław Tatarkiewicz
L’opera di Władysław Tatarkiewicz, precipuamente anche se non
esclusivamente dedicata alla storiografia estetica, e cioè la Storia dell’estetica e questa Storia di sei Idee (ma anche altri suoi saggi più circoscritti
e in qualche misura preparatori), occupa un posto decisivo, anzi svolge
un ruolo fondamentale nella storiografia estetica contemporanea. Tanto
da renderne l’Autore il maggiore storico del­l’estetica della seconda metà
del Novecento e colui che ha impresso a questo campo di studi una
fecondissima svolta rivoluzionaria.
Per apprezzare appieno questa funzione capitale, è opportuno fare
un veloce passo all’indietro e richiamarne l’antefatto.
La storia dell’estetica ha acquisito concretezza disciplinare alla me­
tà dell’Ottocento, grazie a Robert Zimmermann che pubblicò a Vienna
nel 1858 la prima, appunto, Geschichte der Ästhetik 1. Un libro così
intitolato, a parte le ovvie difficoltà che travagliano l’impianto di ogni
nuova impresa, era inevitabilmente costretto ad assumere, e tentare di
comporre con qualche plausibilità metodologica, realtà culturali, ragioni storiche, istanze conoscitive plurime e molto eterogenee tra di loro.
Per esempio, già il titolo si poneva problematico. Quale sarà l’oggetto
della storia dell’estetica? Zimmermann ritenne di chiudere subito l’insidiosa domanda col sottotitolo del suo libro: als Philosophischer Wissenschaft. E però, se si fa una storia dell’estetica «come scienza filosofica» questa non dovrebbe potersi intestare ad altri che a Baumgarten,
che non solo introdusse nel lessico filosofico il termine “æsthetica”,
ma fu colui che per primo elaborò in maniera organica una specifica
scienza filosofica così nominata. Invece il riconoscimento di “pa­dre
dell’estetica” Zimmermann (e, nella sua scia, molti altri dopo di lui)
lo attribuì a Kant, giudicato autore della decisiva «riforma» che produsse la prima grande sistematica disciplinare. È da credere che Kant
sarebbe rimasto molto perplesso, e probabilmente divertito, sia nel
sentirsi attribuire la paternità dell’estetica sia nel vedere assegnato a
249
Baumgarten solo il ruolo di «iniziatore»: Zimmermann infatti colloca
Baumgarten appena all’«Einführung» dell’estetica. In verità sappiamo
che Kant stimava moltissimo Baumgarten, ciononostante non aveva
ritenuto di dovere istituire con lui nessuna forma di continuità. L’estetica, per Kant, è «scienza di tutti i principî a priori della sensibilità» e,
giudicando «fallita» la speranza di Baumgarten, «il quale credette di
ridurre a principî razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne
le regole a scienza», egli proponeva addirittura di «abbandonare di
nuovo questa denominazione» 2. La riflessione kantiana sul giudizio
di gusto, sul bello e sul sublime, non appartiene dunque, stricto sensu,
all’estetica, nell’unico significato storicamente legittimo che è lecito
riconoscere a questa parola: ossia quello coniato da Baumgarten; e la
stessa nozione vicaria di “filosofia dell’arte” (fu, per esempio, il titolo
preferito già da Schelling 3) mentre non è riportabile a Kant, deborda
dallo stesso Baumgarten.
Ancora più preoccupante, per fare un ultimo esempio, è una seconda questione. Se l’estetica è una scienza filosofica specifica, o comunque se Zimmermann ritiene debba farsene storia in quanto disciplina filosofica specifica (egli tiene proprio a ribadire: «als be­sonderer
philosophischen Disciplin»), è inevitabile concludere che l’estetica sia
nata solo nella modernità, lungo l’arco che corre da Baumgarten a
Kant, e dunque si possa tracciarne la storia solo a partire dal secondo
Settecento. E però tale tributo alla giovanissima tradizione filosofica
dell’estetica produce schioppettanti paradossi metodologici e vere e
proprie abnormità storiografiche. Come considerare infatti le innumerevoli e frastagliatissime pratiche conoscitive, che pur a vario titolo
(poetica, retorica...) hanno intessuto la cultura occidentale per oltre
due millenni, con fondamentali contributi su temi capitali quali l’arte,
il bello, il pia­cere? A rigore, non c’è protocollo di registrazione, in una
siffatta storia dell’estetica, per autori maiuscoli di sapere estetologico, e
francamente irrinunciabili, che sono fioriti dal mondo antico fino agli
albori del moderno, che so: da Dione a Filostrato, da Vitruvio e Plinio a
Ci­cerone e Seneca, da Pseudo Longino e Orazio a Quintiliano e Dio­nigi
d’Alicarnasso; e, continuando con una pioggia di nomi, su su: Pseudo Dionigi e Alcuino, Bernardo di Chiaravalle e la Scolastica, Witelo,
Dante e Alberti, Leonardo e Michelangelo, Varchi e Fracastoro, Dürer
e Vasari, Shakespeare e Gracián, Poussin e Fréart de Chambray, fino
ad Addison e Burke, Crousaz e Batteux, e naturalmente tanti, ancora
tantissimi altri. C’è di più. Come se non bastasse, paradossalmente si è
costretti a espungere da questa storia, proprio in quanto intitolata all’estetica filosofica, gli stessi filosofi, anche quei massimi la cui riflessione
ha fecondato l’Occidente: non solo voglio dire i Presocratici e Gorgia
(tutta un’area questa loro, in verità, ai tempi di Zimmermann ancora
non dissodata), ma parimenti Platone e Aristotele, Plotino, sant’Agostino e san Tommaso, Cusano e Ficino, Campanella e Bruno, Bacone
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e Cartesio, Leibniz e Hume. Tutti coloro, insomma, che hanno avuto
la ventura di versare al di qua della fatidica data del 1750, anno in cui
Baumgarten pubblicò il primo volume della sua Æsthetica, con cui
esordì l’omonima disciplina.
È davvero sorprendente che un testo scientifico, nato per procurare conoscenza di storia, invece di sforzarsi a raccogliere dati, attrezzarsi con tecniche raffinate per acquisire il maggior quoziente di elementi,
preziosi per sfidare con successo l’opacità del non‑co­nosciuto, o poco
e male conosciuto, per illuminare insomma e dare consistenza conoscitiva al proprio oggetto tematico, decida pregiudizialmente un drastico
ridimensionamento del proprio ambito di pertinenza, depotenziando i
materiali spontaneamente gravitanti nell’orbita della propria tradizione. Questa singolarissima meccanica storiografica arriva infatti fino al
punto di espungere con artificio, dal disegno della propria trama, fatti
concettuali rilevantissimi, già pienamente assicurati in termini sto­rico­
culturali secondo ben collaudati parametri di analisi, semplicemente in
quanto tali fatti non sono più linearmente riformulabili entro la prospettiva storiografica imposta dalla nuova ottica. Il minimo che si deve
concludere è che, in tal guisa, si perpetra un grave depauperamento
conoscitivo, e anzi un autentico sabotaggio masochistico del gradiente
storiografico che si era assunto impegno di disciplinare!
Dinanzi a esiti talmente intenibili Zimmermann fu costretto a escogitare una qualche forma di risarcimento compensativo. Allora ripartì la
vicenda storica dell’estetica facendola insistere su due aree, nettamente
distinte dalla fatidica soglia del 1750 e accostate in mera sequenza materiale, tali sì da contenere il complesso del­la tradizione estetologica
occidentale, ma in quanto aree dotate di diversa consistenza epistemica, meritevoli di diversa considerazione storiografica. Così se la “storia
dell’estetica”, in senso stretto e “specifico”, cioè filosofico e disciplinare,
ha il suo incipit in Baumgarten, tuttavia a essa è opportuno raccordare,
a mo’ di gestazione prescientifica, taluni capitali nuclei di lavoro filosofico che l’hanno preceduta. Zimmermann designa questi nuclei, per
assonanza, «preistoria dell’estetica».
Nondimeno questa soluzione di compromesso non solo solleva evi­
denti perplessità, fin dal nome che la qua­lifica, ma neanche arriva a
sciogliere i nodi intricati dal modello storiografico impiegato. In pratica
Zimmermann perviene unicamente al recupero di Platone, Aristotele e
Plotino, considerati artefici di una primissima problematica prescientifica dell’estetica filosofica; ma dopo di essi, dal iii al xviii secolo, egli
non trova materiali pertinenti al suo modello storiografico, ed è costretto a proclamare una «grosse Lücke», una sorta di plurisecolare, anzi
pluriepocale, fase di latenza epistemica, colmata solo nel Set­tecento
coll’avvento di Baumgarten. Una storia dell’estetica, dunque, come un
incubo: focomelica, frammentaria, costellata da buchi neri.
Ho rivangato queste lontane vicende non certo per imbastire un ana­­
251
cronistico processo a padre Zimmermann (cui io, lontanissimo discendente, guardo invece con molto rispetto, e gratitudine per i meriti che
ha comunque conseguito la sua pionieristica impresa), ma per da­re un
piccolo saggio dei non pochi e non facili problemi che si è trovata ad
affrontare la storia dell’estetica fin dalle sue ori­gini. Problemi attra­ver­
sati dalle tre importanti storie dell’estetica che, dopo Zimmermann, in
un ritmo quasi decennale, comparvero nell’Ottocento: quella di Schasler, quella di Menéndez Pelayo e quel­­­la di Bosanquet 4, e con i qua­li
non mancò di misurarsi, agli inizi del nuovo secolo, Benedetto Croce.
Quando nell’aprile del 1902 apparve l’Estetica di Croce, l’avvenimento suscitò grandissimo interesse. Ma tutta l’attenzione fu calamitata
dalla prima parte del volume, il cui sottotitolo era «Teoria»; pochissimo
al contrario attrasse la seconda parte, il cui sottotitolo era «Storia». La
cosa certo è comprensibile: una teoria estetica così originale e rivoluzionaria, fino alla dissacrazione, quale quella crociana meritava sicuramente
ogni attenzione. Però, in verità, una corrispettiva attenzione avrebbe
meritato anche la seconda parte dell’opera: non meno originale, non
meno dissacratoria. Non tanto perché era pur la prima storia dell’estetica composta in Italia, non solo per i grandissimi meriti storiografici
che poteva vantare (la scoperta dei teorici italiani sei‑set­tecenteschi,
l’elezione di Vico a padre dell’estetica al posto di Baumgarten, la rivalutazione di Schleiermacher, ecc.), ma soprattutto perché essa rendeva
una radicale chiarificazione epistemologica della storia dell’estetica.
Croce prendeva naturalmente le mosse da Zimmermann, di cui
accoglieva l’impianto storiografico: dunque la filosoficità, o meglio la
sistematicità filosofica, dell’estetica, da cui consegue la sua modernità
settecentesca e la sconcertante dissimilazione fra “storia” e “prei­sto­ria”.
Nondimeno innovava completamente, in modo netto e polemico, il
senso e le modalità della costruzione storiografica. Ciò ap­pare del tutto
evidente già ad apertura di discorso, fin nelle prime righe della Storia
che conviene leggere direttamente: «È stato parecchie volte og­getto di
controversia se l’Estetica sia da con­siderare come una scienza antica o
moderna: nata per la prima vol­ta dopo il rinascimento, o esistente già
nel mondo greco‑romano. La questione, com’è facile intendere, non
è una semplice questione di fatto: vi en­tra un elemento valutativo: il
risolverla in un modo o in un altro di­pende dall’idea che ciascuno si è
formato dell’indole della scienza estetica, e che adopera come misura
e termine di paragone. Il nostro punto di vista è che l’Estetica sia la
scienza dell’attività espressiva (rappresentativa, fantastica). Essa quindi,
secondo noi, non sor­ge se non quando viene definita scientificamente
la na­tura della fan­tasia, della rappresentazione, dell’espressione, o come
altro si voglia chiamare quell’atteggiamento dello spirito, ch’è bensì teoretico, ma non intellettuale, produttore di conoscenze ma di co­noscenze
dell’individuale, non dell’universale. Fuori di questo punto di vista noi,
per nostro conto, non sappiamo scorgere se non deviazioni ed errori» 5.
252
Questo passo capitale (che ho riportato nella cruda formulazione
del 1902: nelle edizioni successive Croce ne farà attenuazione), il­lu­mina
benissimo la svolta radicale impressa da Croce alla storia dell’estetica.
Come ognuno vede, la stessa controversia sulla modernità dell’estetica
diventa corollaria alla decisiva affermazione che la costruzione storiografica deve essere determinata da regole a priori, de­finite non dai criteri ordinativi e dalle tecniche organizzative che lo storico giudica più
efficaci per la comprensione dei materiali sto­ri­cizzanti, ben­sì dall’idea
dello storico in ordine all’indole di quei materiali, indole qualificabile
solo alla luce del punto di vista, cioè dell’opzione teorica compiuta
dallo storico. Queste ragioni portano Croce a dissentire dai suoi predecessori. Da Zimmermann e Schasler, non perché hanno fatto sto­ria
aggregando e filtrando i fatti attraverso una propria ottica filosofica,
inevitabilmente deformante, bensì perché le loro ottiche, herbartiana
l’una ed hegeliana l’altra, sono per Croce erronee; per converso, egli
critica Menéndez Pelayo e Bosanquet perché i loro testi sono condotti
da un punto di vista filosoficamente incerto o eclettico.
Siffatta concezione storiografica comporta tuttavia numerose e pericolosissime assunzioni e conseguenze. Segnalo anzitutto che in tal
modo la storiografia estetica mantiene il carattere sì di ricerca, ma di
ricerca che non mira alla conoscenza dei fatti teorici avvenuti nella storia, bensì al conseguimento della, anzi: di una, o meglio: della propria,
verità disciplinare, attraverso la storia. E giacché il conseguimento della
verità disciplinare propriamente si consegue per un atto teorico, l’atto
storiografico viene piegato a compiti di servizio strettamente fun­zionali
alla finalità teorica perseguita.
In seconda istanza vanno rilevate gravi, e addirittura impensabili,
conseguenze nella scrittura storiografica, che diventa altamente spettacolare e consegue un altissimo tasso di drammaticità, in quanto in
mas­sima parte descrizione dura e spietata della infinita serie di errori,
de­viazioni, falsità che, dal punto di vista della teoria dell’espressione,
hanno infestato la cultura occidentale. Croce di essi non può che fare
piazza pulita, tabula rasa, fino a rendere l’orizzonte quel «cimitero»
concettuale su cui ironizzò, all’apparire del libro, Labriola. Ma c’è ben
di più. Si eleva al quadrato, e al cubo, il paradosso in cui era incappato già Zimmermann con l’incauto modello di “storia‑preistoria”, fino a
svuotare la stessa dimensione storiografica. Il primo paradosso deriva
dal fatto che, per Croce, la “preistoria” possiede valenza epistemica:
essa è dunque logica oltre che cronologica. Pertanto è tipologicamente
da considerare preistorica una qualunque dottrina estetica giudicata
erronea, ancorché essa sia stata elaborata mettiamo nell’Ottocento. E
tale paradosso si eleva al cubo se si pone mente al fatto che essendo,
per Croce, il lavoro della tradizione estetologica in grandissima misura
errore o deviazione dal suo autentico nucleo veritativo, appunto quello
di scienza dell’attività espressiva, pressoché tutta l’estetica dell’Occi253
dente deve essere classificata come preistorica. Ne consegue dunque
che la sto­ria dell’estetica è, sostanzialmente, storia della preistoria. E
in realtà solo quella della preistoria può essere, a rigori, la condizione
della storia dell’estetica, perché solo in questa specie le è possibile sus­
sistere in quanto storia. Difatti, al momento in cui la storia consegue
la sua pienezza disciplinare accertando la presenza del proprio oggetto
tematico, essendo questo analizzabile solo in termini epistemici, svapora, diciamo così, la sua storicità: la storia fuoriesce dal tempo e dallo
spazio per insistere in una dimensione puramente noetica. Insomma:
la “Storia” si scioglie nella “Teoria”.
So bene che questa frettolosa passerella, oltre a non rendere con­
gruamente le questioni evocate, ne ha trascurato tantissime altre im­
portanti; ma non è questa la sede adatta alla loro disamina. Non ri­
corderò quindi che lo stesso Croce fece in seguito ripetuta autocritica
della sua Storia, riconoscendone la natura essenzialmente «po­­lemica»,
e come fosse «troppo cruda e recisa nei giudizî»; e nep­pure la sua
am­missione che la storia dell’estetica trattata come «storia di un problema unico» procura «aberrazione prospettica»; ovvero l’introduzione
della nozione di «scienza empirica dell’arte», atta a riconoscere spessore conoscitivo e valore scientifico, anche se non in termini di scienza
filosofica, a importanti realtà stori­co­‑cul­turali e a rendere giustizia a
eminenti studiosi, prima appiattiti nel lattiginoso scenario della preistoria; né, infine, starò a dire che l’idea stessa di una storia dell’estetica,
in quanto “storia generale”, entrò in crisi nel Croce seriore, fautore
di una storia dei problemi par­ticola­ri, il che lo portò nei decenni successivi alla stesura di una serie di sag­gi, sicuramente più equilibrati,
raccolti nel 1942 in un volume intito­lato ap­punto Storia dell’estetica
per saggi. Non dirò tutte queste co­se, an­che perché tutte le importanti
e profonde revisioni condotte da Cro­ce al proprio modello, tali da
rappresentare per cer­ti versi una sorta di vir­tua­le con­trostoria della Storia del 1902, mentre non conquistarono un’influenza, e probabilmente
nemmeno una audience, paragonabili a quel­le precedenti, non furono
comunque tali da rovesciare l’asse pa­­ra­dig­matico anteriormente fissato:
nascita settecentesca, estetica co­­­me scienza filosofica dell’espressione e,
segnatamente, l’idea di una storia dell’estetica come momento interno
e ancillare della teoria.
Questa misura si può verificare in una nota esemplare, stesa da Cro­­­­
ce nel 1951 a bilancio della sua opera, nella quale si legge: «L’Estetica,
della quale discorriamo, sorgeva sopra una storia di que­sta scienza,
che era poi questa scienza stessa, vista nella sua ge­nesi: storia che si
è venuta elaborando e affinando insieme con es­sa» 6. Come si vede,
una fine in nome dell’inizio.
Metteva conto fare questa velocissima escursione lungo la vicenda
disciplinare della storia dell’estetica in quanto il suo impianto primiti254
vo, che abbiamo concisamente evocato, ha continuato ancora ai nostri
giorni ad avere sostanziali manifestazioni di sopravvivenza. Non tanto i
termini di Zimmermann (pioniere semmai, ingiu­stamente dimenticato),
ma quella cifra della storia dell’estetica, di cui è pur merito di Cro­ce
avere dato la formalizzazione più rigo­rosa (e dunque anche al di là
di linee di filiazione diretta con Croce, magari addirittura contro lo
stesso Croce, sovente senza nemme­no la sensibilità e la competenza
storiografica di Croce, e ignorando le emendazioni continue che egli
almeno non mancò di condurre del suo iniziale modello storiografico)
– la storia dell’estetica, voglio dire, variamente concepita come pratica
interna della teo­ria, suo inerte strumento o passivo corollario, come
mero “quadro concettuale” insomma, entro cui, e attraverso cui, decantare il proprio progetto conoscitivo o la propria verità disciplinare,
ha con­tinuato a trascinarsi per inerzia nel Novecento, segnatamente
negli ambienti di più miope ortodossia filosofica, producendo frutti
sempre più angusti e deforma(n)ti.
Non la stiamo prendendo – come si dice – troppo alla lontana,
per­ché queste rapide osservazioni già evidenziano le ragioni della eccezionale rilevanza che riveste Tatarkiewicz per la storiografia estetica
contemporanea. Del modo tradizionale, convenzionale, ottocentesco,
teoreticistico (corrente ancora in certi casi italiani) di fare storia dell’estetica, lo storico polacco costituisce infatti l’antidoto più potente e
salutare. Basta aprire la sua Storia dell’estetica per fare la scoperta di
un orizzonte scientifico completamente nuovo. E la novità non consiste
soltanto nella vastità delle conoscenze raccolte e nella loro capillare
rappresentazione (certo incomparabili con quelle delle storie precedenti) ma nel trovarsi a cospetto di un nuovo mondo, che aprendosi nella
Grecia arcaica finisce col ridisegnare sub specie æstheticæ l’intera cultura occidentale, fino ai giorni che viviamo. Questa novità abbagliante
è conseguenza di un rivoluzionario metodo d’indagine storiografica,
che rovescia e “falsifica” punto per punto, l’impianto tracciato dalla
tradizione, per riscrivere su nuovi assi epistemici la storia dell’estetica.
Vediamone qualche campionatura: «La storia dell’estetica, nella sua
scelta del materiale, non può lasciarsi guidare da criteri esterni, quali
un nome particolare o un particolare ramo di studio. Deve includere
tutte le idee che hanno qualche influenza sui problemi estetici e che
si servono di concetti estetici, anche se esse compaiono sotto nomi
diversi e all’interno di altre discipline. Se si adotta questo sistema,
risulterà evidente che l’indagine estetica ebbe inizio in Europa oltre
duemila anni prima che fosse trovato per essa un termine specifico e
si costituisse un campo di studi autonomo. Già in quei primi tempi
furono posti e risolti certi problemi, e in un modo del tutto simile a
quanto fu fatto più tardi sotto il nome di “estetica”» 7.
In tal guisa vengono derubricate, completamente svuotate di significato, questioni annosissime, che si trascinavano dai tempi di Zimmer255
mann, quali la “modernità‑antichità” dell’estetica, la distinzione “sto­ria­­­preistoria”, l’identificazione del “padre” dell’estetica, lo stesso no­me
di “estetica”, rendendo piena trasparenza e performatività alla ricerca
storiografica. Così l’estetica in senso stretto, la cosiddetta scienza estetica, cioè l’estetica come disciplina filosofica, si rivela essere appena la
fase moderna, o meglio la componente, pur molto rilevante, costituitasi
in epoca moderna di una costellazione multipla ed eterogenea di saperi,
sorti e variamente dislocatisi nel corso della storia secondo differenti
dominanti concettuali e addirittura sotto diverse denominazioni.
Del resto, basta appena accennare che i concetti ottocenteschi di
“padre” o di “nascita” dell’estetica, calcati sull’analogia biologica, non
possiedono forza esplicativa neanche riguardo all’estetica moderna.
Che non è nata in un luogo geografico, ma è stata forgiata da una sinergia alla quale hanno contribuito ambiti storico‑cul­turali attivi tanto
in In­ghilterra quanto in Francia, tanto in Italia quanto in Germania.
E dove non c’è luogo, non c’è data di nascita né geni­tore. Neanche,
a ben vedere, può soddisfare la polarità Baum­gar­ten‑Kant, non potendosi non riconoscere potentemente incidenti, al sorgere dell’estetica mo­derna, trame fitte e intricate di date e personaggi, quali: 1711
(Shaftesbury), 1719 (Du Bos), 1725 (Hutcheson), 1735‑50 (Baumgarten), 1741 (André), 1746 (Batteux), 1751 (Diderot), 1757 (Burke),
1764 (Win­ckel­mann), 1766 (Lessing), ecc. ecc. 8. Ma queste stesse
date e questi stessi personaggi rimangono poco o affatto significativi
senza il raccordo con altre date e altri personaggi, che insistono in ulteriori sequenze spa­zio‑temporali, in una regressione indefinita. Come
si può capire, per esempio, la cru­cialità di certe questioni fondative
dell’estetica moderna, affiorate nel secondo Settecento, segnatamente
nel confronto Winckelmann-Lessing, e decisive per il dispiegarsi della
modernità, senza mettere in gioco la riattivazione di antichi “topoi”
epistemici grazie alla riscoperta di un “minore” del Seicento francese,
Fréart de Chambray 9? Oppure, la piena intelligenza del ruolo decisivo di Batteux (che è me­rito, dopo Kristeller, proprio di Tatarkiewicz
avere definitivamente assicurato 10), come può prescindere dalla messa
a fuoco di un processo problematico (quello della classificazione delle
arti) che si scala, trapassando antecedenti prossimi come un Du Bos
o un Perrault 11, nella not­te dei tempi?
È proprio questa “notte”, il tempo di questa notte, che non è “prei­­
storia” come pretendeva la storiografia tradizionale, non è cioè eruzione
stocastica priva di potenziale noetico, irrelata e tangenziale al baricentro
delle problematiche estetiche, bensì vita organica del pensiero estetologico la quale si storicizza operando effettualmente nella storia, che è
compito precipuo della storia dell’estetica rischiarare e acquisire come
possesso conoscitivo. Talché: «L’interesse dello storico dell’estetica è
volto soprattutto all’origine e allo sviluppo delle idee intorno al bello
e all’arte, al formarsi delle teorie sul bello, sull’arte, sulla creazione e
256
sull’esperienza artistica. Il suo scopo è di stabilire dove, quando, in
quali circostanze, e attraverso qua­­li uomini queste idee e queste teorie
sono sorte» 12.
Ma la «scelta del materiale» (in realtà un’apertura ad angolo giro)
comporta ulteriori e impegnative opzioni metodologiche, che producono
un vero e proprio sfondamento disciplinare e una totale ricostituzione
delle pertinenze di campo, impegnando e abilitando la ricerca storiografica alla radicale ristrutturazione del proprio orizzonte investigativo.
«Se lo storico dell’estetica dovesse de­sumere il suo materiale unicamente
dagli studiosi di estetica, non sarebbe in grado di fornire un quadro
completo di ciò che fu in passato il pensiero sull’arte e sul bello. Egli
dovrà attingere informazioni anche dagli artisti, senza trascurare ciò
che ha trovato espressione, non nelle opere dotte, ma nelle concezioni
dominanti e nella vox populi. Molte idee estetiche non hanno trovato
immediatamente una espressione verbale, ma si sono dapprima realizzate in opere d’arte, sono state espresse non con parole, ma con forme,
colori, suoni. Alcune opere d’arte ci permettono di dedurre certe tesi
estetiche che, pur non essendo state enunciate in modo esplicito, si
rivelano attraverso quelle opere come il loro punto di partenza e il
loro fondamento. Intesa nel senso più ampio, la storia dell’estetica non
contiene soltanto le enunciazioni esplicite degli studiosi della materia,
ma anche quelle implicite nel gusto corrente o nel­le stesse opere d’arte.
Non dovrebbe comprendere soltanto la teoria estetica, ma anche quella
pratica artistica che la rivela. Lo storico può venire a conoscenza di
alcune delle teorie estetiche del passato semplicemente leggendo libri
e manoscritti, ma altre dovrà ricavarle dalle opere d’arte, dalla moda,
dai costumi. [...] Il progresso dell’estetica è stato in buona parte frutto
dell’opera dei filosofi, ma vi hanno contribuito anche gli psicologi e i
sociologi, mentre anche artisti e poeti, conoscitori e critici hanno scoperto delle verità intorno al bello e all’arte. Le loro osservazioni particolari sul­la poesia e sulla musica, sulla pittura e sull’architettura hanno
condotto alla scoperta di verità generali intorno all’arte e al bello» 13.
Questa emersione dalla storia del gradiente teorico postulata da
Tatarkiewicz, questa piena storicizzazione, spinge le proprie antenne
fino a indagare tutte le condizioni formative del fatto teorico, sintonizzando il processo conoscitivo con la globalità dell’esperienza umana.
«Alcune concezioni estetiche sorsero in seguito alla diretta influenza
esercitata dalle condizioni sociali economiche e politiche. Esse dipesero dal regime politico in cui vivevano coloro che le sostenevano e dai
grup­­pi sociali a cui essi appartenevano. [...] Altre concezioni dipesero
solo indirettamente dalle condizioni sociali e politiche, e furono invece
maggiormente influenzate dalle ideologie e dalle teorie filosofiche. [...]
Le concezioni estetiche subirono anche l’influenza dell’arte loro contemporanea. Gli artisti talvolta si basarono sulle idee degli studiosi di
estetica, ma è anche vero l’inverso; se la teoria ha talvolta influito sulla
257
creazione artistica, questa ha a sua volta influito sulla teoria estetica. Lo
storico dell’estetica deve tenere conto di questa interdipendenza; nel
delineare lo sviluppo delle idee estetiche, egli dovrà di volta in volta
fare riferimento alla storia dei sistemi politici, della filosofia, dell’arte» 14.
Come si vede, qui la storia non è più il luogo, anzi il background,
in cui un’astratta “purezza” noetica traccia i propri imperscrutabili
disegni, e di cui la storia dell’estetica è tenuta a narrare a sua misura,
a costo di decurtare e rendere inintelligibili i suoi naturali scenari e
inibire le proprie istanze conoscitive. Parimenti viene delegittimata la
pratica tradizionale che ancorava ad hoc, all’interesse di tale astrattezza, di una qualche verità disciplinare, la scrittura storiografica. Insomma, la storia dell’estetica in quanto indagine spassionata della globalità
dell’esperienza storica che rende possibile la teoria, non è riducibile
a una sorta di comodo sgabello fabbricato a supporto del teorizzare.
La storia è indifferente alla verità disciplinare. Semmai si voglia mantenere l’equivoca nozione di “verità disciplinare”, questa non è correttamente configurabile se non come la cornice (plastica, soggetta a
riformulazione continua...) entro cui agiscono, si confrontano, si combattono, s’intrecciano, s’integrano e si dissolvono, in un gioco aperto
e imprevedibile (tutto da accertare a posteriori, sui fatti: post factum)
denominazioni, concetti, teorie, ossia le verità particolari con le quali
i singoli soggetti “portatori di esteticità” variamente interpretano in
valenza speculativa il loro ruolo epocale. La storia dell’estetica, nel­la
sua autonomia e grazie alla sua autonomia epistemica, naturalmente
non è indifferente anche alle pratiche teoriche; ma nel senso, come
ha ribadito Tatarkiewicz già in un saggio giovanile (1913), che «è attraverso la storia che passa la strada per l’estetica» 15. For­mula che al
meglio va interpretata nel senso che proprio la decantazione epistemica della sto­ria dell’estetica, dunque la restituzione a essa della sua
specifica funzione scientifica, rende possibile l’acquisizione di virtualità
concettuali suscettibili di preziosi investimenti anche in sede teorica.
Prospettiva, per altro, che stimola verso ulteriori e importanti esiti
metateorici. L’autonomia della storia dell’estetica implica infatti una
corrispettiva autonomia dell’estetica stessa, della stessa teoria estetica,
che l’esperienza storica attesta non necessitata da una teoria filosofica
generale, ma libera riflessione rinominante nuclei tematici storicamente
costitutivi quali l’arte, il bello, l’esperienza estetica.
Ecco, da codeste e consimili premesse metodologiche (che non
met­­te conto approfondire in questa occasione) viene quel rinnovato
pa­norama storico dell’estetica che fa della storiografia di Tatar­kie­wicz,
rovesciando tutte le pratiche tradizionali, se mi si consente il bisticcio,
la prima “storia storica” dell’estetica.
È infatti grazie a questa radicale linearizzazione (o come abbiamo
preferito dire: decantazione epistemica) che si dispiega quel nuovo
universo estetologico, che dichiaravamo all’inizio. Invece de­gli sce258
nari aridi e angusti, offerti dalla storiografia tradizionale a partire da
Zim­mermann – al posto dell’universo drammaticamente spettacolare,
sommerso di “cadaveri eccellenti” che diede la Storia di Croce – il
panorama di Tatarkiewicz è insolitamente popolato e se­reno. È un universo, per così dire, di luce radiante, privo di traumi ma anche senza
monotonie, coralmente trasparente, al quale con­­corrono, in spirito democratico ed ecumenico, tutti: ora un insigne filosofo, ora un modesto
cronista, ora un artista di fama, ora un anonimo amatore, ora un dotto
critico, ora un sottile teologo, oppure direttamente un’opera d’arte, ovvero la communis opinio. Co­me uno specchio dal quale nulla rifugge
e tutto riflette in modo nitido, attraverso fonti e fatti, empiricamente,
per sintesi storiche, delle concezioni estetologiche che ogni epoca ha
elaborato. Dunque una storiografia espositiva e positiva, che non precorre i fatti con la propria dottrina e non proietta su di essi le proprie
mire speculative. Ma mira, e pienamente riesce, a realizzare il proprio
compito istituzionale: la comprensione storica.
È il caso di spendere qualche parola conclusiva intorno a questa
Storia di sei Idee. L’Autore la presenta così: «La storia dell’estetica, al
pari della storia di altre discipline, può essere concepita in due modi:
come storia degli uomini che l’hanno formata o come storia delle questioni poste e risolte nel suo ambito. La Storia dell’estetica da me scritta
in passato (1960‑68, 3 voll.) era una storia degli autori, degli scrittori e
degli artisti che nei secoli scorsi si erano pronunciati sul bello e sull’arte,
sulla forma e sulla creatività. Questo libro torna sullo stesso argomento,
ma concependolo in maniera diversa: come storia dei problemi, delle
idee, delle teorie estetiche. [...] Questa nuova opera è tut­tavia sufficientemente vicina alla precedente da poter essere considerata quale suo
completamento e conclusione, quasi al pari di un quarto volume» 16.
La Storia dell’estetica si era posta un limite materiale: l’anno 1700. Il
che dava un’aria di paradosso a una indagine che si era strenuamente
snodata lungo tre densi volumi, abbracciando un arco più che bimillenario per arrestarsi proprio al momento in cui stavano per nascere sia
il termine che la nozione moderna di estetica sistematica. Tatarkiewicz
ne chiariva le ragioni col fatto che «questa da­ta costituisca uno spartiacque nella storia dell’estetica» 17. E aggiungeva: «Se l’autore vorrà
continuare la sua storia dovrà seguire un altro metodo e servirsi di una
diversa cornice» 18.
Rimarchevole della Storia di sei Idee è allora proprio la sua “cornice”, l’incentrare cioè l’indagine nella storia particolare di alcuni
nuclei tematici esemplari, sei idee‑concetti (in polacco poje˛ć significa sia “idea” che “concetto”) fondamentali della storia dell’estetica,
che hanno intessuto l’intera cultura occidentale. Ciò, mentre assicura
un completamento materiale della Storia dell’estetica, ne procura una
globale riscrittura problematica nella quale la feracità della metodica
259
tatar­kiewicziana può manifestarsi in modo magistrale, conseguendo
risultati talmente affinati da sfiorare il virtuosismo. Basti pensare alla
geniale elaborazione di un modello storiografico talmente euristico
da regolare la bimillenaria riflessione sul bello della tradizione occidentale nella formula di «Grande Teoria»; o la riconfigurazione del
senso complessivo della riflessione estetologica nella contemporaneità
attraverso la qualifica di «esperienza estetica».
Parimenti però, introducendo finissime distinzioni (per esempio
fra “definizione” e “teoria”) e sottili soglie paradigmatiche, realizza
un indice di concretezza che innova profondamente l’impianto della
“storia delle idee”. Cioè proprio di quella “storia per problemi” che
aveva registrato forse il tasso più elevato di astrattezza storiografica.
Invece in Tatarkiewicz le “idee” non sono modelli a priori, pure entità
noe­tiche di cui giudicare “dall’alto” con metro veritativo, bensì entità
storiche, quindi intrinsecamente metaboliche, qua­lificate “dal basso”,
all’interno del­le congerie formative delle singole epoche.
Da qui la singolarità di un libro monumentale, ma di lettura piana
e avvincente come quella di un romanzo; una trattazione di estremo rigore scientifico ma nel contempo vivacissima, che è il miglior
approccio introduttivo, o addirittura divulgativo, alle problematiche
estetiche che esista in tutta la letteratura internazionale. Un classico,
nel panorama scientifico di fine Novecento. Da qui il fascino unico
della Storia di sei Idee, non a torto considerata l’opera più bella di
Władysław Tatarkiewicz, che ha finalmente iniziato a fecondare anche
la cultura italiana 19.
* Pubblicato come Postfazione all’edizione italiana di W. Tatarkiewicz, Dzieje sześciu
poje˛ć (1975), trad. it. Storia di sei Idee (1ª ed. 1993), Palermo, Aesthetica, 20138 , pp. 375-87.
1 R. Zimmermann, Geschichte der Ästhetik als philosophischer Wissenschaft (1858), rist.
an. Hildesheim‑New York, 1973.
2 I. Kant, Kritik der reiner Vernunft (1781), trad. it. Critica della Ragion pura, Bari,
Laterza, 1963, pp. 66‑67.
3
F. W. J. Schelling, Philosophie der Kunst (1802‑05), trad. it Filosofia dell’arte, Napoli,
Prismi, 1986.
4
M. Schasler, Kritische Geschichte der Ästhetik (1872); M. Menéndez Pelayo, Historia
de las ideas estéticas en España (1883), 2 voll., Madrid, 19744; B. Bosanquet, A History of
Aesthetic (1892), London, 19668.
5
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. i Teoria. ii Storia,
Milano‑Palermo‑Napoli, 1902, pp. 157‑78; corsivi dell’Autore. Per un approfondimento della Storia crociana rimando ai miei due saggi Una Storia per l’Estetica, “Aesthetica Preprint”,
19 (1988), qui ristampato col titolo Benedetto Croce e la storia dell’estetica, e Per eccesso
e per difetto: Croce e la storia dell’estetica, “Studi di estetica”, 26, 2002, qui ristampato;
nonché a P. D’Angelo, A proposito di Croce storico dell’estetica, “Rivista d’estetica”, xxix
(1990), 33, pp. 105-22.
6 B. Croce, Stato degli studi estetici in Italia (1951), in Id., Indagini su Hegel e schia­
rimenti filosofici, Bari, Laterza, 1952, p. 222.
7 W. Tatarkiewicz, Historia estetyki, i (1960), trad. it. Storia dell’estetica, i: L’estetica
antica, Torino, Einaudi, 1979, p. 9.
260
8
I riferimenti sono a: A. Shaftesbury, Characteristics (1711), trad. it. parz. I Moralisti,
Palermo, Aesthetica, 2003; Y.‑M. André, Essai sur le Beau (1741); J.‑B. Du Bos, Réflexions
critiques sur la poésie et sur la peinture (1719), trad. it. Riflessioni critiche sulla poe­­sia e la
pittura, Palermo, Aesthetica, 2005; F. Hutcheson, An Inquiry into the Origin of Our Ideas of
Beauty and Virtue (1725), trad. it. L’origine della Bellezza, Palermo, Aesthetica, 1988; A. G.
Baumgarten, Meditationes philosophicæ de nonnullis ad poema pertinentibus (1735), trad. it.
Ri­flessioni sulla Poesia, Palermo, Aesthetica, 19993; Id., Æsthetica (1750), trad. it. L’Estetica,
Palermo, Aesthetica, 2000; Ch. Batteux, Les Beaux‑Arts réduits à un même prin­cipe (1746),
trad. it. Le Belle Arti ricondotte a unico principio, Palermo, Aesthetica, 20024; D. Diderot,
Art, Paris (1751), trad. it. Arte, in M. Modica, a cura di, L’estetica dell’Enciclopedia, Roma,
Editori Riuniti, 19962; E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the
Sublime and Beautiful (1757), trad. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, Palermo, Aesthetica,
20028; J. J. Winckelmann, Ge­schichte der Kunst des Altertums (1764), trad. it. Storia dell’Arte
nell’Antichità, Milano, Abscondita, 2007; G. E. Lessing, Laokoon, oder über die Grenzen der
Mahlerey und Poesie (1766), trad. it. Laocoonte, Palermo, Aesthetica, 20022.
9
R. Fréart de Chambray, Idée de la perfection de la Peinture (1662), trad. it. La perfezione della Pittura, Palermo, Aesthetica, 1990.
10
P. O. Kristeller, The Modem System of the Arts, “Journal of the History of Ideas”, xii
(1951), trad. it. Il sistema moderno delle arti, Firenze, Alinea, 2004; W. Tatarkiewicz, Storia
di sei Idee, cit., p. 84: «La ripartizione di Batteux non fu la trovata di un genio. Era stata
preparata da lungo tempo. Numerose furono le suddivisioni simili formulate in precedenza,
che non ebbero la fortuna che incontrò quella di Batteux. Questa però si diffuse e portò a
una trasformazione radicale persino della nozione stessa di arte. E, sebbene non sia stata
la trovata di un genio, fu l’evento più significativo nella storia europea della classificazione
delle arti». È sconcertante registrare in merito, ancora ai nostri giorni, opinioni come questa
di S. Givone, Storia dell’estetica, Roma‑Bari, Laterza, 1988, p. 28: «Il tentativo (un “passo
decisivo” verso la fondazione dell’estetica, avrebbe detto Kristeller) operato da Charles
Bat­teux nelle Belle arti ricondotte a unico principio (1746) per una riflessione sistematica
sulla realtà artistica appare non così importante».
11
J.‑B. Du Bos, cit.; Ch. Perrault, Cabinet des Beaux-Arts (1690), trad. it. Il Gabinetto
delle Belle Arti, “Aesthetica Preprint”, 86 (2009).
12 W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, i: L’estetica antica, cit., p. 12‑13.
13
Ivi, pp. 10‑11.
14
Ivi, pp. 11‑12.
15
Id., Rozwój w sztuce [L’evoluzione in arte], Warszawa 1913, p. 52, cit. in K. Jaworska,
Il presupposto pluralistico dell’opera di Tatarkiewicz, Torino, “Filosofia”, xxxii (1981), pp.
345‑58.
16 Id., Storia di sei Idee, cit., p. 29.
17
Id., Storia dell’estetica, iii: L’estetica moderna, Torino 1980, p. x. Egli non manca di
precisare: «È sicuramente vero che il grande cambiamento non avvenne in un anno preciso
– non si possono dividere i periodi storici con tagli così netti – ma avvenne più o meno
intorno al 1700. Solo dopo questa data si assiste a un venire meno della tradizione e a
un approfondirsi del divario tra l’estetica antica e medievale da un lato e quella moderna
dall’altro, in cui non prevale più una dottrina “classica”. Solo dopo il 1700 incontriamo il
termine “estetica”; solo allora viene fatto il tentativo di trasformare l’estetica in una disciplina
autonoma. Il campo delle “belle arti” si definisce e si consolidano il metodo psicologico e la
concezione soggettivistica dei valori estetici. Questi cambiamenti avvengono durante il xviii
secolo: solo allora l’estetica dell’età moderna diventa effettivamente moderna».
18
Ibidem.
19 Sulla recezione della prima edizione italiana della Storia di sei Idee (1993), cfr.: L.
De Ve­nere, segnalazione in “Il Giornale dell’Arte”, n. 116, novembre 1993; segnalazione e
anteprima in “Il Sole 24 Ore”, 5 dicembre 1993; G. Lombardo, Estetica e storia di sei idee,
in “Gazzetta del Sud”, 9 dicembre 1993; G. Vattimo, Questioni di famiglia, in “L’Espresso”,
11 febbraio 1994; E. Franzini, recensione in “Domus”, n. 759, aprile 1994, pp. 138-39; R.
Salizzoni, Il romanzo di formazione dell’estetica, in “L’Indice”, n. 5, maggio 1994, p. 39;
M. Mazzocut-Mis, recensione in “Arte Estetica”, 1 (1994), p. 60; R. Messori, recensione in
“Con-tratto”, iii (1994), nn. 1-2, pp. 227-30; L. Moscato Esposito, L’estetica in sei idee, in
“Op. cit.”, n. 90, maggio 1994, pp. 5-14; G. Patella, Le sei idee di Tatarkiewicz, in “Informazione filosofica”, n. 20, agosto 1994, pp. 74-75; L. Amoroso, Somiglianze di famiglia e storie
di famiglia nella ricerca di Tatarkiewicz, in “Rivista di estetica”, n. 46, 1994-95, pp. 79-106;
261
R. Campi, recensione in “Il Verri”, nn. 3-4, settembre-dicembre 1995, pp. 249-51; G. Bersa,
recensione in “Filosofia oggi”, xviii (1995), nn. 69-70, pp. 213-16; L. Cozzoli, Tatarkiewicz
e la storia delle idee estetiche, in “Studi di estetica”, xxiii (1995), nn. 11-12, pp. 181-89.
262
Ermanno Migliorini e il cie­lo vuoto dell’estetica
*
Bisogna essere stati giovani studiosi di estetica negli anni ”60 per
capire davvero quanto deve a Ermanno Migliorini l’estetica italiana
del secondo Novecento.
Erano anni nei quali il giovanile entusiasmo di chi aveva eletto que­
sto orizzonte di ricerca per disinteressata vocazione conoscitiva era messo a dura prova, e finanche umiliato. Era messo a dura prova perché
urgevano domande necessarie alle quali non si trovava risposta o una
soddisfacente risposta: che cos’è l’estetica? è un sapere squisitamente,
strettamente filosofico, come recitava la communis opinio? ma se così
come si articola e comunica questo sapere con polarità noetiche eterogenee che tuttavia a evidenza gli pertengono? qual è propriamente il
suo oggetto? l’arte, la bellezza, l’universo della sensorialità, come pareva
oscuramente indicare il suo nome? e perché questo nome elastico e
vago: estetica, e non filosofia dell’arte o filosofia del bello, e via dicendo? ma poi questi nomi sono coniugabili fra loro e a quali condizioni?
e ancora: come si configura l’assetto disciplinare del­l’estetica? possiede
anzi, l’estetica, un assetto disciplinare, uno statuto? esso pertiene alla
modernità o si perde nella notte dei tempi? quale dei tanti statuti di
riferimento è legittimo assumere, secondo quali ragioni? e come possono confrontarsi i diversi statuti riferiti all’estetica? esiste una sorta
di logica metastatutaria, costituzionale, che li comprenda e motivi? è
un orizzonte conoscitivo dotato di legalità intrinseche consegnate a
una autonoma tradizione disciplinare? è in questa tradizione, nelle sue
dinamiche costitutive ed evolutive, che riposano le ragioni profonde
dell’estetica? ma come è disegnabile questa tradizione? con quali interpreti, con quali tematiche, con quali processi?
Ecco un campione delle domande, alquanto ingenue certo, che non
mancava di porsi un principiante, e sono domande scomode in quanto
a esse non c’è risposta, una risposta preconfezionata, che valga una
volta per tutte. È nondimeno segno di vitalità di ogni assetto disciplinare, in quanto fronte aperto di ricerca, in continuo movimento e
sommovimento, la capacità di recepire domande siffatte e poterle soddisfare di continuo, resettandole a ogni svolta generazionale. E però,
in quegli anni, quelle domande, quelle semplici ed eterne domande,
263
non avevano per così dire corso, non trovavano udienza: l’agenda di
lavoro non le contemplava né prevedeva. È facile, oggi, spiegare quella
sorta d’indifferenza diffusa verso le crucialità istituzionali col rilievo
che il senso complessivo dell’orizzonte disciplinare si era opacizzato
e che tale opacizzazione, a sua volta, era un portato inevitabile dello
stesso sviluppo storico dell’estetica, di una specifica evoluzione che le
aveva progressivamente fatto smarrire il filo rosso delle proprie origini e delle motivazioni strategiche che l’avevano determinata. Del
resto abbiamo (ma molto dopo!) ben capito che questo processo di
rimozione aveva intaccato l’autocoscienza disciplinare già agli inizi
del secolo, già ai tempi dell’Estetica di Benedetto Croce. Così, negli
anni ”60 si era verosimilmente determinato il massimo di scollamento
fra una pratica scientifica comprensibilmente orgogliosa della propria
esistenza (e che proprio in quegli anni, non va dimenticato, in Italia
riorganizzava la propria presenza nella vita culturale pianificando con
successo la propria consistenza accademica) e che tuttavia mostrava
l’incresciosa congiuntura di aver vaporizzato le ragioni costitutive del
proprio esistere.
Ma naturalmente c’era dell’altro. Legato a ciò, forse in connessione
o addirittura in conseguenza di ciò, insomma impallidite le proprie
fonti, la cultura estetologica italiana stentava a riconfigurarsi a misura
dei tempi e sintonizzarsi col nuovo, con le diramanti complessità che
andavano in incandescenza proprio in quegli anni. Fu del resto un
processo complesso e travagliato che investì a lungo l’intera comunità
estetologica ridisegnare la propria mappa identitaria, che ora affronta
felicemente e, se non m’inganno, con successo il passaggio di secolo e
millennio. Ma si tratta di fenomeni che, pur se gratificanti e propulsivi,
sarebbero maturati lentamenti nei decenni successivi. Invece in quegli
anni ”60, dicevo, l’amor disciplinaris, messo a dura prova dai limiti
della contingenza, veniva umiliato da ulteriori cause di perplessità e
di disagio. Avvenne, co­me è noto, che le difficoltà che attraversava la
cultura estetologica di ridefinirsi epistemicamente, o come allora si
diceva sbrigativamente di uscire dall’orbita crociana, e affrontare le
questioni che la contemporaneità imponeva, venissero enfatizzate da
talune critiche corrosive che minandone l’identità ne propiziavano la
liquidazione. Il fenomeno, non esclusivo del resto dell’area italiana,
da noi è riferibile a qualche presenza autorevole come quella di Ugo
Spirito, consegnata nel volume Critica dell’estetica, o a interventi sommari, e francamente alquanto sprovveduti, come quello del famigerato
pamphlet di Plebe, roboante fin dal titolo: Processo all’estetica.
Sono anche gli anni nei quali esordisce Ermanno Migliorini: o me­
glio – e la distinzione è significativa – esordisce in estetica. Perché egli
conquistava questo picco dopo anni di lavoro sul campo, anzi dei due
campi, campi distinti, o addirittura opposti secondo la tradizionale
264
di­visione del lavoro intellettuale, uno militante e uno speculativo: la
critica d’arte contemporanea e la filosofia. Nutritosi del fuoco del­l’espe­
rienza viva delle arti, in cui nei suoi anni giovanili aveva profuso impegno e passione, ma successivamente temperatosi col freddo esercizio
di severi studi filosofici, vi arrivava, come abbiamo appena accennato,
nel pieno di una bufera alimentata da polemiche schioppiettanti e,
nell’illusione di qualcuno, terminative.
È davvero singolare, e sulle prime appare addirittura sconcertante
l’esordio estetologico di Migliorini, perché è un esordio marcatamente
“inattuale”. Nel pieno di una bufera violenta e insidiosa che investiva
la stessa legittimità dell’estetica, la sua ragion d’essere nel presente,
egli infatti sembrava porsi in latitanza per rivolgere lo sguardo al passato, rifugiarsi in un passato epistemico normalmente liquidato dagli
studiosi come “preistoria dell’estetica”. Era infatti «il piccolo mondo
degli esthéticiens della prima metà del secolo» l’oggetto degli Studi
sul pensiero estetico del Settecento (1966); ed erano autori disertati o
pochissimo studiati (Crousaz, Du Bos, André, Batteux, Diderot) quelli
che animavano le ponderose pagine del volume; né arrivava a impressionare più di tanto il tema aggregante, la dottrina della bellezza,
ancorché lì si compia il processo decisivo per l’estetica moderna d’identificazione di campo fra arte e bellezza. Il quadro di una consolatoria rivisitazione del passato non sembrava del resto modificato dalle
due prove che seguivano gli Studi (Note a “La regola del gusto”, 1967;
Kant, Prima introduzione alla “Critica del Giudizio”, 1968), e anzi lo
studio che introduceva l’edizione kantiana poteva ben rappresentare
il limite interno dell’impegno scientifico dello studioso, interessato a
quel «pensiero estetico della prima metà del Settecento su cui verosimilmente Kant formò le sue prime idee».
Che Migliorini fosse votato a una ricerca archeologica, o comunque
a una storiografia estetica disimpegnata dalle urgenze del presente,
venne subito clamorosamente smentito da tre libri coevi (Critica, oggetto e logica, 1968; Lode e valore, 1968; Lo scolabottiglie di Du­champ,
1970) nei quali egli affrontava con rigore formalizzante, desueto nella
cultura italiana, e insieme militante spregiudicatezza, nodi scottanti del
dibattito estetologico contemporaneo. E però tanta appariva la distanza
tematica e propositiva di questi ulteriori lavori, che invece di rendere un pendant compensativo producevano una disarmante dissonanza
cognitiva. Cosa infatti poteva coniugare, pastorizzare in una sincronica
officina intellettuale, poniamo, un Crousaz e un Duchamp? Quali, pur
latissime, somiglianze genetiche, potevano ibridare le proposte, ancora
impacciate pur se incoative, sulla bellezza del remoto cultore ginevrino
di primosettecento, con le lucide, dissacranti progettualità (an)e­stetiche
dell’artista odierno?
Il lavoro intenso che Migliorini andò sviluppando negli anni ”70
265
(Conceptual Art, 1972; Studi sul pensiero estetico di F. Hutcheson, 1974;
L’arte e la città, 1975; Gusto, 1976; Miseria della critica, 1979) valse
comunque ben presto a dissipare ogni perplessità. Veniva infatti sempre
più in luce che le due linee di ricerca nelle quali egli si era addentrato –
lo scandaglio dei processi genetici dell’estetica (moderna, settecentesca)
e la congiunta assunzione problematica di eventi e condizioni traumaticamente emblematici delle vicende artistiche contemporanee – non
alimentavano nicchie eterogene, saperi fra loro incommutabili, gia­centi
solo stocasticamente, per libera caduta, in uno stesso bacino co­gnitivo.
Al contrario, si trattava di nuclei dinamici interattivi, che possedevano sì una propria cornice specifica, ma parimenti erano suscettibili di
reciproca illuminazione, e attraverso una mirata operazione di “convergenze parallele” erano atti a procurare una spiegazione unitaria, a
consentire una intelligenza complessiva dell’universo estetologico. Così,
i salienti settecenteschi che con tanta cura e acume Migliorini veniva
disvelando (da Crousaz via via a Batteux, per non dire della sua innovativa riscoperta di Hutcheson), oltre a colmare vuoti e rischiarare opacizzazioni della storiografia corrente, divenivano an­che gradienti davvero
euristici, solo a partire dai quali acquista senso e dunque possibilità di
decantazione teorica la vicenda dell’estetica, altrimenti destinata a una
variegata gamma d’incompresioni che non possono non condannarla
all’estinzione o al suicidio, celebrati appunto dalla tetra formula: “morte
dell’arte” ⇒ “morte dell’estetica”.
È ben nota la stringente catena analitica attraverso la quale Migliorini ha propiziato queste fondamentali acquisizioni, del resto apertamente dichiarate, allo scoccare dell’’“80 in un dittico esemplare: L’estetica fra Seicento e Settecento e L’estetica contemporanea (è il caso
d’informare che entrambi, con lo smagliante saggio sul Gusto, sono
stati rieditati col titolo Tre saggi di estetica, negli “Aesthetica Preprint.
Supplementa”). Ma assumiamo Migliorini in presa diretta, in una citazione illuminante, tratta dalla presentazione all’edizione italiana di
Batteux, da lui magistralmente curata: «il “sistema” fu costituito su
fondamenti empirici: furono trascelte insomma le arti che socialmente
apparivano più rilevanti, anche se ciò […] creava notevoli difficoltà
teoriche (l’architettura, l’eloquenza, difficoltà a cui neppure Kant, ricordiamolo, seppe sfuggire). Però quel sistema delle arti, cui si risalì
da certe esigenze già presenti nel sistema della letteratura, recava con
sé il problema di un sistema ancora più generale: quello del “sistema
dell’estetica”, con i suoi principî disposti per così dire “a cascata”,
ancorato speculativamente a una facoltà dell’animo generativa di una
definizione del bello (della bella natura) e contemporaneamente delle
belle arti, del loro sistema, del valore che costituiva le oggettività, che
vi erano introdotte, delle regole di descrizione del valore, della rete assiologica sottesa alla classe delle stesse opere d’arte. Questo paradigma,
266
mai prima d’ora tracciato con tanta chiarezza e unità, serviva per la costruzione di tutte le estetiche posteriori, servirà persino a che l’estetica
divenga senza dubbio non una disciplina fondata su principî empirici
(come ancora asseriva Kant nella Critica della Ragion pura), ma una
delle par­ti della filosofia. Entro le impalcature teoriche costruite da
Batteux si muoveranno quasi inconsapevolmente, e ignorandone la loro
storicità, il loro essere sorte per certi scopi (come la separazione dalle
scienze, volontaria: non già un’espulsione ma un determinato diniego)
i filosofi – gli estetologi – del futuro, e sino ai nostri giorni, così che
non può essere errore l’affermare che anche il pensiero contemporaneo
vi si trova stabilmente collocato, e quasi prigioniero. Solo la recente
rivolta delle arti (come già vide Kristeller) ha potuto, operativamente,
cominciare a rivelare le sbarre della gabbia, con lo sbattere contro le
pareti della prigione del sistema dell’estetica, per tentare, come diceva
Wittgenstein, di “indicare alla mosca la via d’uscita della trappola”.
Batteux ha messo in opera, e con quale fortuna, una serie di giochi
linguistici che hanno guidato e condizionato la condotta della nostra
cultura. Quando essi siano rivelati, quando la prigione dell’estetica
sia vista dall’esterno, quando le regole del vecchio gioco siano pa­lesi,
ec­co, allora non v’è più nulla da spiegare».
E con Batteux, il non meno amato Kant. E la kantiana rosa, l’argomento cioè della singolarità del giudizio estetico, diventa in Migliorini
la chiave per chiu­dere le illusioni del passato e riarticolare i nuovi
scenari disciplinari del futuro. Leggiamo un secondo passaggio capitale:
«Emanuele Kant scriveva, nella Critica del Giudizio, che “per esempio,
la rosa che io guardo la dichiaro bella per un giudizio di gusto”. Ma
non si può dire, in estetica, che “tutte le rose sono belle, che sarebbe
non un giudizio singolare, quello proprio dell’estetica, ma un giudizio
secondo concetto, insomma un giudizio logico”. E ancora: “Così, non
si può dare alcuna regola, secondo cui ognuno sarebbe obbligato a
riconoscere bella alcuna rosa. Si vuol sottoporre l’oggetto ai propri
occhi, appunto, co­me se il piacere dovesse dipendere dalla sensazione”.
Ecco perché Du­champ poté dichiarare provvisto di valore artistico il
suo scolabottiglie, il suo orinatoio. L’orinatoio era come la rosa di Kant.
Ma Kant, nel suo fondo razionalistico, enunciava anche l’esigenza che
tutti riconoscessero la bellezza della rosa, che essa fosse generalmente
comunicabile. E infatti, anche a proposito delle provocazioni duchampiane, qual­cuno, a New York, si provò persino a cercare giustificazioni,
predicati di bellezza, paragonando, per esempio, l’orinatoio a una Madonna, mentre in tempi più recenti Lévi-Strauss tentò di interpretare
lo scolabottiglie in termini di aggressività, e così via. Ma non era per
questo che lo scolabottiglie poteva entrare dentro quelle mura. Era
perché esso era stato po­sto sotto la mira di un giudizio singolare d’arte, perché mancavano di fatto, nella nostra cultura, così come aveva
267
visto Kant, le regole dell’arte. Per questo, l’unica motivazione che si
può dare, per quanto concerne gli oggetti cosiddetti artistici, è la loro
inclusione nel museo, gratuita intrusione, gioco della cultura, intrusione in una storia dell’arte, coin­volgimento nelle parole della critica,
condanna o assoluzione».
A questa soglia si arresta improvvisamente, drammaticamente, la
vita scientifica di Migliorini. Proprio quando la sua ricerca andava ad
aprire nuovi promettenti scenari d’indagine (Baumgarten: pro positu
cor­poris) e affinava verifiche e riformulazioni (Il problema di un’estetica
scientifica nella filosofia contemporanea; Giudizio, relazione, valore), alla
fine degli anni ”80 un male spietato ne intaccò improvvisamente la
mente sottile, impedendogli di operare per tutta la vita che gli rimase,
spentasi l’anno passato. Ma per quanto impedita a concludere il suo
ciclo, nondimeno la sua opera ha egualmente compiuto una funzione
cruciale: ha dav­vero chiuso il secolo, resettando il dibattito novecentesco e, all’insegna della rosa di Kant, ha aperto le condizioni di un
nuovo mo­do di essere dell’estetica, risanata dalle pericolose mitografie
del passato, rivitalizzata e resa consapevole della sua genuina identità storica, del ruolo culturale svolto, delle sue legittime aspirazioni
teo­riche. E che, come auspicava agli inizi del Novecento lo stesso
Croce, con ferace indicazione largamente disattesa, alimentandosi strategicamente di storia e teoria, come nel Settecento, di­versamente dal
Settecento, potrà colorare «il cie­lo vuoto dell’estetica» per affrontare
i nuovi orizzonti conoscitivi della contemporaneità.
* Intervento presentato nella Giornata di Studio Ermanno Migliorini e la rosa di Kant, promossa dal Centro In­ternazionale Studi di Estetica (Palermo, 28 aprile 2000) nell’anniversario
della scomparsa di Er­manno Migliorini (1924-1999) e pubblicato in “Aesthetica Preprint”,
59, agosto 2000.
268
Notte di luce. Il Settecento e la nascita dell’estetica
*
Pensando al tema del nostro Convegno, al titolo Il secolo dei Lumi
e l’oscuro, mi è apparso subito un motto. Il motto recita: «Lucem post
nubila reddit». È un motto molto intenso, anzi è più di un motto,
perché si tratta di un cartiglio che nomina un’immagine. È icona pienamente rappresentativa del Settecento – proprio i Lumi e il secolo
dei Lumi – perché mostra il sole che illumina il mondo: la luce che
appunto dissolve le tenebre. Dunque icona emblematica: è il poster,
potremmo dire, di ciò che in senso stretto chiamiamo Illuminismo.
Questa icona si trova all’inizio di un libro intitolato Pensieri razionali intorno a Dio, al mondo, all’anima dell’uomo e anche a tutti gli
enti in generale. Titolo lungo, di un’opera più sbrigativamente chiamata Metafisica tedesca, pubblicata nel 1719 da un filosofo cruciale:
Christian Wolff. Si tratta di un libro innovativo e di rottura, in tanti
sensi. Lo è già nella veste linguistica, che non è il latino ma il tedesco.
Come si sa, fino allora, di regola, il mondo della cultura parlava in
latino e ancora per una cinquantina d’anni in Germania continuerà a
scrivere in latino: così farà il giovane Kant, e così del resto continue269
rà a fare lo stesso Wolff nelle sue opere successive. La lingua della
Metafisica tedesca è quindi già spia di una scelta foriera d’importanti
conseguenze: per esempio conquistò un nuovo pubblico al sapere filosofico, meritando a Wolff l’appellativo di «præceptor Germaniæ».
Naturalmente ancora più rilevante è che qui, rompendo con vulgate
filosofiche allora dominanti, come la filosofia antimetafisica di Christian
Thomasius, che esercitava grande influenza anche a Halle, l’Università
dove Wolff insegnava, egli riabilita l’ontologia come scienza generale
delle diverse specie di essere, il mondo, l’anima e Dio, disegnando con
geometrica sistematicità i processi del pensiero e l’intelligibilità del
reale. Questo progetto lieviterà nel corso degli anni in tante altre opere
che riformularono il lessico filosofico e costituirono quell’enciclopedia
del sapere che informerà la ricerca filosofica per almeno due secoli,
fino Kant e fino a Husserl. Sono le ragioni che fanno di Wolff, oltre
che il maggiore filosofo tedesco fra Leibniz e Kant, il più eminente
rappresentante dell’Illuminismo tedesco. Ragioni, che l’icona posta a
incipit della Metafisica tedesca perfettamente interpreta e dona loro
limpida visibilità. Come il sole di questa icona, Wolff si propone di
illuminare lo spirito umano in modo da ottimizzare l’attività intellettuale; lo fa riprendendo il progetto cartesiano delle idee chiare e distinte,
aggiornato dai “pensieri razionali” di Leibniz, e procedendo spinozianamente con rigore matematico. Lamenta nella “Prefazione” come sia
questa una materia in cui «ci sono stati finora molta oscurità e molto
disordine. Sono mancati concetti distinti, dimostrazioni e connessioni
solide della verità». Rivendica di avere colmato questa carenza conseguendo «perspicuità nei primi concetti universali: infatti in tal modo
ci viene accesa una luce che ci illumina in ogni nostra conoscenza», e
garantisce di aver «badato a che tutte le verità fossero connesse l’una
con l’altra e l’intera opera fosse uguale a una catena, in cui sempre un
anello è connesso con un altro, e così ognuno con tutti».
È utile sapere che fu un libro drammaticamente vissuto, potremmo
dire, dal suo autore. Perché la radicalità che esso prospetta comporta
una profonda revisione culturale. L’orizzonte della razionalità postula
l’universo della libertà, ossia praticare libertà intellettuale di fronte a
tutto. Ciò fece scandalo. A mo’ di corollario, nell’Oratio de Sinarum
Philosophia practica, tenuta in forma solenne poco dopo, Wolff professò infatti ammirazione per l’etica confuciana, modello di una morale
fondata non sulla rivelazione ma sulla semplice ragione. L’Università
di Halle, roccaforte del Pietismo, che già avversava le idee di Newton,
esplose dinanzi all’accostamento delle verità cristiane ai “pagani” cinesi. Montò una durissima polemica, Wolff fu accusato di ateismo e lo
scontro da filosofico diventò politico. Finì con intervenire pesantemente lo stesso re di Prussia Federico Guglielmo i: fu espulso dall’Università, i suoi testi rimossi dagli scaffali della biblioteca, e l’8 novembre
del 1723 fu emesso un editto che gli intimava di abbandonare l’intero
270
territorio prussiano entro quarantotto ore a pena di morte. Wolff lasciò Halle e riparò a Marburgo. Con un’attività prodigiosa, pubblicò
tante altre opere impegnative, ora scritte in latino, a cominciare dalla
Logica nel 1728, dove l’icona di luce-ombra annunciata anni prima da
manifesto filosofico si tradusse operativamente in quella smagliante rete
concettuale che contribuì potentemente all’affermazione della nuova
facies illuministica. A riprova, nel 1740 Wolff fu richiamato a Halle
dal re “illuminato” Federico ii il Grande e vi concluse con tutti gli
onori il suo magistero.
Ho ricordato i casi di Wolff per la loro valenza emblematica. Conviene quindi ribadire che il modello ideologico della luce che vince le
tenebre – il topos del “secolo dei lumi” – pervade tutto il Settecento,
almeno fino all’ultimo suo grande interprete: Immanuel Kant. Fino a
tale soglia quell’icona fu lievito vitale, non solo entro i recinti accademici ma nell’intero mondo della cultura. Si pensi al Flauto magico di
Mozart (1791), tutto intriso della simbologia dell’ombra e della luce,
della luce del sole che si nutre alle sorgenti della notte verso il paradiso
della ragione, e che nell’ultima scena fa cantare da Sarastro i memorabili versi: «Die Strahlen der Sonne vertreiben die Nacht, | Zernichten
der Heuchler erschlichene Macht». Il testamento spirituale di Mozart
e, insieme, il testamento del declinante Illuminismo.
Ora, il punto è che il progetto inaugurato da Wolff (e tutto quanto,
ovviamente, a esso è stato coestensivo) non solo ha avuto successo,
diramandosi per innumerevoli rivoli lungo il Settecento, ma ha attraversato le stagioni e le fortune della cultura europea dei secoli successivi,
determinando effetti macroscopici che insistono sul nostro presente.
Per dire sbrigativamente, è in questione la “modernità”, con la quale
ancora ai nostri giorni ci confrontiamo. Questo tema del resto, come
si sa, non a caso è stato centrale nei dibattiti del Novecento (come non
ricordare, per indicare un titolo per tutti, la Dialettica dell’Illuminismo
di Horkheimer e Adorno?), e negli ultimi decenni ha assunto una linea, o deriva, molto critica e problematica, genericamente intitolata
al “postmoderno”. Oggi da più parti e sempre più viene stigmatizzato come l’universo scientistico, di ascendenza illuministica, dispiegato
dalla tecnica, pur procurando beni materiali di cui non sapremmo fare
a meno, come l’aeroplano e il frigorifero, avventure esaltanti come lo
sbarco sulla Luna e la rivoluzione antropologica del “www”, ha però
anche procurato alienazione e incubi, dalla dittatura dell’algoritmo che
pastorizza la nostra epoca fino ai traumi dell’11 settembre. Ecco dunque la cogenza di fare i conti col “secolo dei lumi”, e l’opportunità di
un Convegno come il nostro, anche per indagare la costituzione della
modernità.
Cominciamo col fare una precisazione e introdurre una soglia differenziale. Poniamo attenzione al fatto che Wolff (che continuiamo a
mantenere come indice astratto della vulgata dell’Illuminismo come
271
“secolo dei lumi”) per affermare il suo innovativo progetto filosofico
interpretò il (suo) presente rimodulando profondamente il (suo) passato:
appunto l’Illuminismo come sonda sul futuro; laddove per noi Wolff
rappresenta il (nostro) passato che dobbiamo, a nostra volta, rimodulare strategicamente per qualificare il (nostro) presente. Siamo quindi
tenuti a illuminare con nuova luce, per così dire, i “lumi” di Wolff, se
vogliamo articolare il (nostro) presente per elaborare il (nostro) futuro.
Mirando a capire più intimamente le ragioni che presiedono alla costituzione della modernità, e le sue potenzialità di riscatto, chiediamoci
allora se la formula “lucem post nubila reddit”, e con essa la concezione
standardizzata dell’Illuminismo che nella communis opinio identifica il
Settecento, ne sia davvero la cifra identitaria ed esaustiva.
Proviamo un piccolo esperimento. Lo stesso anno, 1750, in cui
Wolff pubblicò la sua ultima opera, Philosophia moralis, fu pubblicata un’altra opera importante del Settecento, l’Æsthetica di Alexander Gottlieb Baumgarten, con cui portava a compimento un’impresa parimenti innovativa, iniziata nel 1735 con la pubblicazione delle
Meditationes Philosophicæ de nonnullis ad poema pertinentibus. Nello
stesso giro di anni, nella stessa cultura illuministica tedesca, improvvisamente assistiamo come a un giro di boa, anzi a un vero e proprio
rovesciamento di ottica prospettica. Anche qui, ad apertura di testo,
campeggia una definizione famosa, a sua volta rivoluzionaria: scientia
cognitionis sensitivæ, che postula addirittura una nuova disciplina filosofica: l’æsthetica. È sempre la ragione, il lume filosofico, l’arbitro della
conoscenza, solo che ora la facoltà conoscitiva si espande oltre la soglia
cartesiana delle idee chiare e distinte, sulle quali aveva puntato tutto
Wolff. Assumendo un prezioso filo rosso (che rimontava a Platone,
Aristotele e Agostino, ed era stato dipanato da Leibniz), Baumgarten
si rivolge alla fonte primaria del cognitivo: al «fundus animi». Ciò gli
consente di assegnare rango gnoseologico e valorizzare pienamente
l’altra faccia del sapere, l’universo della sensibilità, costituito dalle idee
oscure e confuse. Abbiamo così come la riquadratura del cerchio. Si
determina anzitutto un allargamento dell’orbita della conoscenza, non
più ristretta ai limiti di chiarezza e distinzione, ma che si dispiega integralmente ad angolo giro accogliendo tutti i piani del reale rimossi
e abbandonati all’oblio. Il rigido cerchio cartesiano(-wolffiano) delle
idee chiare e distinte si dilata, in chiave (leibniziana-)baumgarteniana,
incorporando le idee oscure e confuse. Un nuovo ethos agisce. Evocando l’obiezione (§ 6) «che le cose sensibili, le immagini fantastiche,
le favole, le passioni e così via, siano indegne dei filosofi e poste al di
sotto del loro orizzonte», Baumgarten replica che «il filosofo è uomo
fra gli uomini, e non fa bene se ritiene estranea a sé una parte tanto
grande della conoscenza umana». Inoltre, la dilatazione del cognitivo
all’orizzonte del sensibile innesca nuove dinamiche della stessa istanza
conoscitiva. La luce non è più un rigido dispositivo che cade dall’alto,
272
significando inesorabilmente solo quanto viene inciso dal suo raggio,
diventa bensì un arco radiante universale che promana grazie a un
processo endogeno di manifestazione. All’obiezione (§ 7) che «la confusione è madre dell’errore», Baumgarten risponde che in realtà «è
condizione indispensabile per la scoperta della verità, dal momento
che la natura non fa un salto dall’oscurità alla distinzione». Insomma
la conoscenza è un processo organico, scaglionato attraverso gradi progressivi di consapevolezza, sigillati dalla celebre formula: «per auroram
meridies». Come dire: se non ci fosse il buio che a poco a poco si
rischiara, e attraverso l’aurora progressivamente arriva al mezzogiorno,
non avremmo il mezzogiorno, non avremmo cioè conoscenza e dunque
la stessa pienezza della conoscenza intellettuale.
In Baumgarten allora non è più, come in Wolff, la luce protagonista del dissolvimento delle tenebre, e anzi solo di quel quoziente di
tenebre che ha la ventura di essere investito dalla potenza del raggio
luminoso, è invece l’intero universo dell’esperienza umana che consegue
intelligibilità elevandosi progressivamente dalle dimensioni dell’oscuro e confuso a quelle del chiaro e distinto. E sono questi stati – lo
zoccolo dell’ánthropos – che innescano la condizione dinamica della
chiarificazione intellettuale, non limitata alla contemplazione dei picchi
privilegiati isolati dall’azione di alcuni riflettori luminosi ma abilitata
alla trasparenza dell’intero orizzonte. Come per un mirabolante effetto
di Photoshop, l’icona di Wolff riconfigura radicalmente i suoi vettori
formativi. La luce non balena all’improvviso dall’esterno, “post nubila”,
drammaticamente esorcizzando le tenebre, ma affiora e si potenzia lentamente promanando dal suo interno, nel progressivo disoccultamento
del mondo, ossia “per nubila”. E la sua azione non “reddit”, non è
quella cioè di contrarre la visione in un ristretto angolo visivo, espellendo e annichilendo tutto quanto non venga da essa lambito, bensì,
grazie a una sorta di grandangolo aperto per così dire all’infinito, di
attrarre magneticamente e marcare ogni pulviscolo sensoriale e appagare olisticamente l’ideale della conoscenza umana. Così il Settecento,
l’Illuminismo, la stessa formula di “secolo dei lumi” si liberano dagli
stereotipi che l’hanno inaridita nello schema di astratto progresso intellettuale dello spirito umano e guadagnano una gamma sinuosa di
significati e sfumature; la stessa modernità si riqualifica come erede di
uno spirito critico orientato verso un ventaglio di possibilità, un orizzonte variegato e complesso, in cui tanti elementi entrano in gioco, in
fermentazione continua, aperta al conseguimento di plurime armonie.
Abbiamo parlato di lumi ma non ancora di oscuro, verso cui pure
c’invita il titolo del Convegno. Ne proporrei un ritocco: mettere la “L”
di lumi in minuscolo. Non ovviamente per negare che il Settecento
sia il “secolo dei lumi”, ma per non ipostatizzare, grazie a una netta
evidenziazione, la nozione di luce immediatamente riportabile a quella
273
formula. I lumi del Settecento, come abbiamo esemplificato, in realtà
sono alimentati da frequenze variabili che sorgono da fonti multiple,
vanno ricondotti a genesi non omogenee e sviluppano dinamiche differenziali. Per conseguirne un’attendibile rassegna, è il caso piuttosto
di puntare sulla nozione di “oscuro”. Con la precisazione che il Settecento rimane comunque il “secolo dei lumi”, laddove il secolo che
conviene intitolare all’oscuro è semmai l’Ottocento e, in chiave diversa,
il Novecento. Come tanti anni fa ben mostrò Alfred Bäumler in un
libro prezioso, nel “secolo dei lumi” proprio il trionfo illuministico
della razionalità evidenziò, per contrasto, il problema dell’irrazionalità, dell’oscuro, lasciato in eredità ai secoli successivi. Tematizzando
il Settecento, con la metafora di oscuro mi riferisco quindi alle tante
energie che concorrono al conseguimento della luce, ma non hanno il
loro etimo nella luce, non sono appiattibili sulla nozione di luce. Per
altro, se ci vincoliamo al gioco pendolare di luce e tenebre, l’oscillazione si esaurisce sterilmente nel loro scambio dialettico senza evidenziare le energie che l’hanno animata. Insomma, il dittico contrastivo
luce-tenebre, magnificando il ruolo della luce che dissolve le tenebre,
paradossalmente finisce per oscurare invece che illuminare. Ci riduciamo un po’ come quei turisti sprovveduti che sono catapultati da un jet
in un’oasi esotica, che non hanno profuso l’impegno di esplorare per
conquistarla davvero, e vi s’insediano paghi di crogiolarsi all’abbraccio
del sole, ma indifesi dalle insidie dei raggi ultravioletti...
Ho maturato così il titolo di notte di luce. È giusto subito precisare
che non l’ho inventato io, ma è il remake del titolo di un testo che dubito qualcuno dei presenti conosca. Si tratta del titolo di un racconto,
Night of Light, pubblicato cinquant’anni fa, nel 1957, poi sviluppato
in un romanzo breve e infine divenuto cornice di uno dei più noti cicli
di fantascienza, scritto da un maestro statunitense del genere, Philip
José Farmer, e rubricato nella cosiddetta “fantascienza teologica”. Ma
vediamo brevemente di che tratta il racconto e perché ho deciso di
adottarne il titolo. Farmer presenta John Carmody, un personaggio che
ha maturato vocazione religiosa ed è diventato frate, terziario dell’ordine di san Giairo, una sorta di padre Brown che viene coinvolto in
numerose avventure con extraterresti, teologicamente molto intriganti
(si pensi alla domanda: il nostro Dio è anche il loro dio?). In questa
sua prima apparizione Carmody è però ancora un tipaccio, anzi un
delinquente scappato in fretta e furia dalla Terra, dove è ricercato per
gravi atti criminali (fra l’altro ha ucciso la moglie May). Si rifugia dunque nel pianeta Kareen, dove è sicuro di non essere arrestato, perché è
l’unico pianeta della galassia in cui i terrestri non osano avventurarsi.
Ogni sette anni vi avviene una tempesta solare (del Sole di quel sistema solare) con un’eclissi totale: per sette giorni il pianeta rimane
completamente al buio. Ma non si tratta solo di disagio: la tempesta
solare emette radiazioni perniciose che mettono a rischio la sopravvi274
venza degli abitanti, perché liberano le forze distruttive dell’inconscio.
Gli indigeni, appena si accorgono che sta per avere inizio la tempesta
solare, assumono una droga e si addormentano, svegliandosi a tempesta finita. Rimangono svegli in pochi, solo alcuni soggetti deputati.
Deputati a che? Alla rigenerazione teologica del pianeta, che si rinnova
a ogni ciclo della tempesta solare. Il pianeta ha una divinità composta
di un’entità matriarcale, la grande madre nera Boonta, che viene fecondata da due possibili opzioni maschili: una positiva e una negativa. Se
vince l’opzione positiva, nasce un dio buono: Yess; se invece prevale
l’opzione negativa, nasce un dio cattivo: Algul. Finora ha sempre prevalso la linea positiva della divinità, Yess, ma sarebbe terribile, per i
destini del pianeta e della galassia, se prevalesse l’infernale Algul. Nel
pieno di questa drammatica crisi teologico-planetaria capita Carmody,
che protervamente rifiuta di assumere la droga del sonno per scoprire
il mistero della rigenerazione di Kareen. La fecondazione della dea Boonta non è compiuta da un solo individuo ma da un’équipe composta
da sette co-padri virtuali; quindi sono in concorrenza due équipe, una
di “buoni” e una di “cattivi”, entrambe incomplete e che ricercano
il settimo membro. La presenza di Carmody getta scompiglio: dopo
avvenimenti sconvolgenti, alla fine egli diviene uno dei sette “buoni”
(qui comincia la sua conversione al divino) e contribuisce alla rinascita
di un nuovo Yess. Carmody diventa padre di dio!
Esorbita dalla presente occasione commentare un traliccio di temi
pur tanto interessanti, è utile invece trarre ispirazione dal modello
d’interazione fra luce e ombra sperimentato nel racconto di Farmer.
Qui, infatti, non c’è una luce che illumina la notte né una notte che
attraverso l’aurora si rischiara fino a diventare giorno; qui la luce è
azzerata, non agisce nessuna luce, piuttosto la notte è produttiva, in
quanto tale, di eventi straordinari che si compiono grazie all’assenza
di luce, è una notte che, per così dire, si autoillumina sciogliendo i
misteri del reale, è una notte che diventa luce ma rimanendo notte:
appunto una “notte di luce”.
Abbiamo divagato, sperdendoci nei meandri della fantascienza?!
Ascoltate allora questa citazione: «nessuno meglio di Milton sembra
avere compreso il segreto di dare risalto a cose terribili o di porle, se
così posso esprimermi, nella luce più viva, circondandole con una sapiente oscurità». Non è presa da Farmer o da altro autore estravagante,
è invece uno smagliante passo tratto dalla celebre Inchiesta sul bello
e il sublime di Edmund Burke, in pieno Settecento, 1757, anch’essa
manifesto esemplare dell’Illuminismo. Mi pare, dunque, che la “notte
di luce” sia anch’essa una modalità tipica dell’Illuminismo, e quindi
convenga guardare al Settecento coltivando la prospettiva di un “secolo dei lumi” nel cui alveo convivono e si integrano più modelli del
processo di decantazione conoscitiva. Accanto a quello della luce che
vince le tenebre, con le sue numerose varianti (Wolff, Baumgarten,
275
ecc.), concorrono altre strategie, che possiamo appunto genericamente
intitolare all’oscuro, nelle quali è la notte che diventa giorno, mantenendo le caratteristiche della notte.
Intendiamoci bene: non intendo, ammaliato da qualche slogan a
effetto come quello di “antirinascimento”, a mia volta ipotizzare una
sorta di “antilluminismo”, andando a caccia della faccia nascosta della
Luna. Anche per me il Settecento rimane il “secolo dei lumi”: ne è per
così dire la dorsale che lo qualifica. Tuttavia sappiamo bene come la
realtà di ogni cosa dipenda dall’ottica con cui la si guardi. Se non ci
accontentiamo di un flash sommario, ma miriamo a una mappa plastica
e capillare, non limitata al bianco e nero e dalla rappresentazione bidimensionale, dobbiamo ricorrere a strumenti più pervasivi di un generico
obiettivo fotografico, attivare rivelatori sottili come la fotogrammetria
e la risonanza magnetica.
L’opportunità di adottare strumenti analitici raffinati è facilmente
comprovabile con un’altra citazione esemplare. Nominavo Burke, ma
possiamo risalire alla stessa soglia incoativa da cui siamo partiti. Nel
1719, anno in cui Wolff consegnava la sua Metafisica tedesca, un altro
grande autore – proprio un pilastro su cui crescerà tanto Settecento –
iniziava la sua celebre opera con queste parole: «Constatiamo quotidianamente che i versi e i quadri provocano un piacere sensibile; ma ciò
non rende meno difficile spiegare in che cosa consista questo piacere,
che assomiglia spesso all’afflizione e i cui sintomi talvolta sono uguali a
quelli del più vivo dolore. L’arte della poesia e l’arte della pittura non
sono mai tanto apprezzate come quando riescono ad affliggerci. [...]
Più le vicende descritte dalla poesia e dalla pittura, se viste realmente,
scuotono il nostro senso di umanità, più le imitazioni che tali arti ci
presentano hanno il potere di coinvolgerci. Queste vicende, si dice,
sono soggetti appropriati. Un fascino segreto ci attrae dunque verso le
imitazioni fatte dai pittori e dai poeti proprio quando la natura testimonia con un fremito interiore la sua ribellione contro il proprio piacere. Cercherò di chiarire questo paradosso». Come avete riconosciuto,
è l’inizio delle Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura di JeanBaptiste Du Bos. Non si può non convenire che siamo in presenza di
una flagrante dissonanza cognitiva con la scolastica accezione d’Illuminismo che possiamo leggere su Wikipedia. La situazione è davvero
scabrosa, perché sarebbe facilissimo iterare ad libitum testimonianze
consimili. S’impone pertanto una qualche globale riconfigurazione del
Settecento che trovi spiegazione di tanti suoi debordanti motivi fissando un aderente identikit del “secolo dei lumi”.
Non avendo a disposizione un trattato ma solo pochi minuti, per
non naufragare nella miriade di casi e frammenti che precipitano incontro, concedetemi la libertà di attivare filtri ermeneutici che diano
rapido accesso ad alcune brevi riflessioni. Ne scelgo solo uno, compendiario ma perspicuo, perché eminentemente rappresentativo di
276
un evento epistemico che senza dubbio contribuisce a identificare il
Settecento: un evento che chiamo la “nascita dell’estetica”. Nessuno
infatti può dubitare che nel Settecento si sia determinata una svolta
della tradizione estetologica occidentale, e che da lì sia esploso quel
polimorfismo teorico e metodologico che prelude alla disseminazione
contemporanea. E nella misura in cui modernità e postmodernità si
sono declinate, e continuano a declinarsi in tante forme e grande misura, sub specie æstheticæ, non c’è chi non veda l’interesse di focalizzarne
i termini costitutivi posti nel Settecento.
Sennonché, ritagliato il piano tematico che identifica il “secolo dei
lumi” con il secolo della “nascita dell’estetica”, incontriamo subito
serie difficoltà di configurazione. Le sintetizzo con un inquietante riferimento autoriale.
Il maggiore storico dell’estetica del secondo Novecento, Władisław
Tatarkiewicz, nella sua monumentale Storia dell’estetica, dopo aver dedicato il primo volume all’estetica antica e il secondo a quella medievale conclude con un terzo sull’estetica moderna. La cosa non è ovvia
come sembra, perché il terzo volume termina la trattazione nell’anno
1700. A fronte di un fatto così clamoroso, Tatarkiewicz è costretto
a riconoscere che ciò «può sembrare arbitrario», ma se ne giustifica
osservando che «tale data è stata scelta [...] nella convinzione che costituisca uno spartiacque nella storia dell’estetica». Tuttavia il ricorso al
funtore “spartiacque” non scioglie le perplessità per una tanta improvvida interruzione della trattazione, semmai le accresce. Se ne deduce
infatti che l’estetica qualificabile come “moderna” si esaurisca prima
del Settecento, secolo in cui invece solitamente si situa l’avvento della
modernità. Le successive argomentazioni dell’Autore non dirimono
questo paradosso: «Forse questa data non fu altrettanto significativa
per l’arte, la letteratura, la politica o l’economia, ma fu importante per
l’estetica e per tutta la filosofia che usciva dal periodo dei grandi sistemi in direzione dell’Illuminismo». Per altro egli non si nasconde che
assumendo questa data liminare si pongono «problemi concreti», ma
stima che siano sciolti dalla considerazione che «dopo il 1700 incontriamo il termine “estetica” [... e] viene fatto il tentativo di trasformare
l’estetica in una disciplina autonoma [...]: solo allora l’estetica dell’età
moderna diventa effettivamente moderna». Bisogna allora distinguere
una fase dell’estetica “moderna” in senso generico, cioè quella professata nell’età moderna in quanto distinta da quella medievale e da quella antica, che diventa “effettivamente moderna” solo nel Settecento.
Però tale rilevanza si traduce in un’eccedenza che la lascia fuori dalla
trattazione dell’estetica moderna. Queste conclusioni, francamente, non
possono non lasciare insoddisfatti. E non risarcisce la conclusione di
Tatarkiewicz: «Se l’autore vorrà continuare la sua storia dovrà seguire
un altro metodo e servirsi di una diversa cornice». Intanto dobbiamo
277
pigliare atto che con l’avvento del Settecento, quando l’estetica diventa
“effettivamente moderna”, si determina uno spartiacque che fa saltare la continuità disciplinare e mette in crisi la capacità di darne una
lineare e complessiva rappresentazione storiografica. Domandiamoci:
può bastare astringere l’estetica del Settecento unicamente con la vaga
indicazione di “effettivamente moderna” e possiamo rassegnarci alla
sua fattuale rimozione dalla storia dell’estetica?
Elementi che arricchiscono il quadro sono prospettati un lustro dopo
nell’ultima grande opera di Tatarkiewicz: Storia di sei Idee. Qui egli
precisa che la storia dell’estetica «può essere concepita in due modi:
come storia degli uomini che l’hanno formata o come storia delle questioni poste e risolte nel suo ambito». Se la sua opera precedente era
una storia degli autori, questa ultima è «storia dei problemi, delle idee,
delle teorie estetiche». Tatarkiewicz mira a omogeneizzare le due prospettive, precisando che i due testi elaborano lo stesso materiale, con
la differenza che «il precedente terminava con il xvii secolo, mentre
il presente è condotto fino ai nostri giorni». Può così sottolineare la
sintonia delle due trattazioni, fino a concludere: «Questa nuova opera
è tuttavia sufficientemente vicina alla precedente da poter essere considerata quale suo completamento e conclusione, quasi al pari di un
quarto volume». Pigliamo atto di queste assicurazioni, ma siamo in
presenza di una reale iunctura rerum, ossia di un’effettiva saldatura dei
segmenti storiografici? Il dubbio che i conti non tornino è suffragato
dal chiarimento che Tatarkiewicz offre sul criterio di periodizzazione.
Perché ora egli lo riorganizza introducendo una fase terminale prima assente: l’estetica contemporanea. Il nuovo assetto impianta una divisione
«in quattro grandi periodi: l’Antichità, Medioevo, Età moderna ed Età
contemporanea». Naturalmente siamo interessati ad apprendere come
sono dissimilati moderno e contemporaneo. E qui c’è la sorpresa. Scrive:
«Il confine tra Antichità e Medioevo viene posto tra Plotino e Agostino, tra Medioevo ed Età moderna fra Dante e Petrarca, mentre quale
cesura tra moderno e contemporaneo viene considerato il passaggio
tra il xix e il xx secolo». E il xviii secolo, il nostro Settecento? Resta
fuori dallo scenario tracciato da Tatarkiewicz! Eppure abbiamo letto
prima che il 1700 costituiva «uno spartiacque nella storia dell’estetica»,
mentre ora invece egli ritiene che sia solo fra Ottocento e Novecento
«che si è interrotta la continuità di uno sviluppo che, dal xv al xix
secolo, nonostante considerevoli trasformazioni, non può essere messa in
questione». Abbiamo scritto in corsivo “considerevoli trasformazioni”
perché appena con questa generica designazione è registrata l’estetica
“effettivamente moderna”, l’estetica del “secolo dei lumi”...
Non è il caso di esaminare la congruità del trattamento che nella
Storia di sei Idee ha il primitivo “spartiacque”, ora derubricato a mere
“trasformazioni” pur “considerevoli”. Basta concludere che le difficoltà
sperimentate da Tatarkiewicz nel dipanare le ragioni della modernità
278
dell’estetica impongono di dedicare all’estetica del Settecento specifici
e adeguati strumenti storiografici.
Per converso, ecco, a mio modo di vedere, la pregnanza di qualificare il “secolo dei lumi” come quello della “nascita dell’estetica”.
Indice che ho richiamato nella presente occasione perché lo giudico
propizio anche per una lettura spregiudicata e non convenzionale del
“secolo dei lumi”. Insomma, se riconsideriamo il Settecento attraverso l’evento della “nascita dell’estetica”, guadagniamo un paradigma
esemplare entro le cui dinamiche il progetto illuministico di sistematica
chiarificazione concettuale diventa l’insegna luminosa di una singolarissima gravitazione epistemica, alimentata da plurimi etimi culturali ed
eterogenee istanze conoscitive, alla quale contribuisce, e anche metodologicamente si rispecchia, l’intero pensiero europeo del Settecento.
Chiariamo preventivamente che concepire la storia dell’estetica come “storia degli autori” oppure come “storia delle idee” è una scelta
che è tornata utile all’attività di Tatarkiewicz, ma non costituisce una
legge metodologica vincolante della trattazione storiografica. In realtà, una tessitura, diciamo così, “orizzontale” (autori) e una “verticale”
(idee) non stanno necessariamente in opposizione alternativa, possono
invece positivamente convivere, intrecciarsi con effetti incrementali e
convergere produttivamente seguendo la regola degli assi cartesiani. In
generale, anzi, ogni studio condotto per ottiche ravvicinate, diciamo
pure genericamente monografico, fa ricorso a tecniche miste di questo
tipo, grazie alle quali è puntualmente ritagliato e attrezzato l’ambito
della ricerca, e diviene possibile commutarlo in oggetto scientifico, quale appunto la nostra “nascita dell’estetica”. Per soddisfare appieno tali
esigenze sono sufficienti poche procedure di formalizzazione. In primo
luogo, la delimitazione dell’asse specifico di pertinenza; poi, l’individuazione del relativo campo cognitivo; infine, uno strumento terminale
di controllo, atto a verificare la congruenza del risultato conseguito.
Quest’ultima condizione è d’immediata praticabilità. Accogliendo
sommariamente la proposta di Tatarkiewicz di situare fra Settecento e
Ottocento il compimento dell’estetica moderna e il conseguente dispiegarsi di quella contemporanea, il test di controllo consiste nell’accertare,
agli esordi dell’estetica contemporanea, lo statuto disciplinare conseguito dall’estetica in ragione della sua genesi settecentesca. Ai nostri
fini cade perfettamente a piombo la definizione famosa che si legge
nella prima pagina dell’Estetica di Hegel: «Queste lezioni sono dedicate
all’Estetica; il loro oggetto è il vasto regno del bello e, più dappresso,
il loro campo è l’arte, anzi, la bella arte. [...] Il nome di Estetica non è
completamente appropriato, poiché “Estetica” indica più esattamente
la scienza del senso, del sentire, […] tuttavia come semplice nome è
per noi indifferente, e del resto è così entrato nel linguaggio comune
che può essere conservato come nome. Tuttavia il vero e proprio ter279
mine per la nostra scienza è “filosofia dell’arte”, e più specificamente
“filosofia della bella arte”». È una pronuncia davvero preziosa. Attesta
infatti, in modo inequivocabile, la valenza consolidata del termine “estetica”, oramai stabilizzatasi dopo le oscillazioni dei decenni precedenti, e
insieme l’opacizzazione del suo riferimento al mondo della sensibilità,
e per contro l’affermazione netta della curvatura della disciplina nella
polarità di arte+bellezza: “filosofia dell’arte bella”. È questo il nucleo
speculativo distillato dalla “nascita dell’estetica”.
Parimenti non pone incertezze d’identificazione l’asse specifico di
pertinenza. È il gradiente “estetico” (quel picco cognitivo che nel Settecento assumerà appunto il nome di “estetica”), dunque il piano tematico formato dalla tradizione occidentale nel corso di lunghi secoli,
il quale, in assenza del nome o in presenza di altre denominazioni,
all’interno di diversi assetti culturali e attraverso diverse mappe cognitive, è lievitato per gemmazione dalla duplice matrice della riflessione
sull’arte e sulla bellezza. Questa matrice, che annovera vicende complesse, spesso disgiunte e talora intrecciate, fra Sei e Settecento giunge a
pieno sviluppo, grazie all’affermazione di talune congiunture favorevoli
e l’azione euristica di nozioni di grande incidenza conoscitiva (genio,
gusto, sentimento...), e si stabilizza in una perfetta fusione.
Più complessa faccenda è una calibrata focalizzazione del campo
cognitivo impegnato dalla “nascita dell’estetica”. In ogni caso esso ovviamente dovrà delucidare la gravitazione teorica che ha determinato
lo stesso nome di “estetica”, le tensioni magnetiche acquisite dai suoi
elementi nucleari, arte e bellezza, e la convergente corolla di motivi
che hanno attrezzato la sua articolazione sistematica, ossia il “sistema
dell’estetica”.
Accostando questa tavola problematica, un punto è chiarissimo.
Non bisogna andare alla ricerca del “padre” della “nascita dell’estetica”! Può sembrare un bisticcio, si tratta invece di una grossa questione tributaria di un annoso e controverso retroterra, che ha finito
con l’intorbidarla e chiuderla su se stessa. In estrema sintesi, basterà
riferire che, a cose fatte, già a fine Settecento, si delineò un modello
di ricostruzione storiografica dell’evento che stiamo indagando, che ha
fatto aggio sugli studi futuri. Il grande successo che arrise alla neonata disciplina suscitò infatti una vasta letteratura, messa insieme da
tanti, più o meno improvvisati, dossografi, nella quale si adombrò una
primitiva spiegazione. A metà Ottocento Robert Zimmermann, autore
della prima Geschichte der Ästhetik, segnalò come precursore della sua
impresa un saggio dovuto a un certo J. Koller che non aveva potuto
consultare. Lo lesse invece Benedetto Croce, e nella sua scia chi vi
parla, che ne ha promosso la ripubblicazione. Possiamo così leggere
in italiano questo interessantissimo Schizzo di una storia e bibliografia
dell’Estetica datato 1799. Troviamo infatti qui lo schema generale che
adotteranno gli storici futuri. Per limitarci al nostro argomento, è pecu280
liare che Koller indichi come padre dell’estetica Baumgarten, in quanto
inventore del nome e della prima sistematica disciplinare, e attribuisca
il suo perfezionamento scientifico a una sorta di tutor, determinante
più dello stesso genitore, a Kant. Questo codice bipolare divenne il
protocollo disciplinare, variato solo nell’identificazione del secondo
elemento determinata dalle opzioni teoriche degli studiosi. Fino ad
arrivare al Croce dissacratore dell’Estetica, nella quale, modificando il
comune sentire cui pure lui stesso si era fino a poco prima attenuto,
avendo designato a padre Giambattista Vico, retrocesse Baumgarten
al ruolo di padrino: il battista dell’estetica. Non è il caso di soffermarci su queste valutazioni, e semmai ci limitiamo a precisare che Vico
non potrebbe essere comunque il padre dell’estetica, per la semplice
ragione che tanto fu grande pensatore quanto sfortunato. La storia
l’ha ibernato in un’enclave, escludendolo dal suo corso. Dallo stato
di animazione sospesa, a fine Ottocento, lo trasse fuori, e valorizzò in
ragione delle sue esigenze teoriche, appunto Benedetto Croce. Vico, da
un punto di vista squisitamente storiografico, è un autore del Novecento, non del Settecento, perché non ha per nulla inciso nello sviluppo
storico del sapere estetologico. In ogni caso, Vico o non Vico, il modello adombrato da Koller e dai suoi epigoni, trascinatosi sterilmente
talvolta fino al secondo Novecento, frana comunque nell’identificare
un padre perché a evidenza falsificato dalla testimonianza hegeliana
che abbiamo riportato.
Dobbiamo piuttosto tenere per fermo che non tutti, pur se grandissimi, gli autori del dibattito estetologico settecentesco, e segnatamente
primosettecentesco, ai quali si devono l’arricchimento e il raffinamento
del piano tematico, ossia quella maturazione dell’estetica che ne ha
reso possibile la successiva affermazione, che ha contribuito a renderla
“effettivamente moderna”, hanno partecipato alla sua nascita. Meritano
senz’altro memoria e assidua frequentazione tantissimi autori e tante
opere importantissime, perché hanno posto le sue condizioni prenatali
e decantato il suo pool genetico, ma senza attribuire loro ruoli che
non hanno svolto. Si tratta per altro di un’intera foresta fittissima di
alberi di varia elevazione, cespugli multicolori, ferace sottobosco e humus fermentativo. Come dimenticare – pars pro toto – snodi essenziali
come I Moralisti di Shaftesbury, I piaceri dell’Immaginazione di Addison
o l’Inquiry di Hutcheson? Singolarissimo è il caso di Du Bos. Quasi
tutti i temi connettivi della futura estetica disciplinare sono presenti e
lucidamente apparecchiati nelle sue Riflessioni: la logica delle passioni,
le dinamiche dell’artificiale, il genio artistico, il sentimento e il giudizio
estetico...; ma in lui fu assente il punto dirimente: la cornice sistematico-disciplinare e la riconfigurazione del plesso arte-bellezza. Talché,
anche se più di ogni altro ne pose le condizioni, non influì direttamente
sulla “nascita dell’estetica”. Autore cannibalizzato per tutto il secolo (in
primis da Batteux), il suo nome finì con svanire a fine Settecento e fu
281
completamente rimosso dall’estetica contemporanea. E però, se non
padre, rimane il Grande Antenato che, per l’ironia della storia, nei nostri anni abbiamo ripreso a guardare con profondo interesse.
Per converso, l’opera di nessun singolo studioso è sufficiente a soddisfare il salto epistemico costituito dalla “nascita dell’estetica”. Non
lo è quella di Baumgarten, per quanto inventore del nome “estetica” e
della sua proposta filosofica. Nonostante il possesso di questo copyright,
anche un rapido confronto fra la sua Æsthetica e l’Ästhetik hegeliana attesta come egli non sia il depositario finale dell’impresa che pur
da lui prende nome. Appare infatti di tutta evidenza come l’estetica
di Baumgarten a nessun titolo sia qualificabile come filosofia dell’arte
bella, anche se questa nondimeno molto le deve. Le deve anzitutto
già il fatto macroscopico che col nome di estetica venne da lui per la
prima volta prospettato un rivoluzionario sapere filosofico autonomo,
anche se in termini di «scienza della conoscenza sensibile». Le deve
altresì un’originale tematizzazione di quelle nozioni di arte e bellezza,
che diventeranno nucleari della futura configurazione disciplinare, anche se da lui sono diversamente attivate. La bellezza per lui è infatti
il fine stesso dell’estetica: «è la perfezione della conoscenza sensibile,
in quanto tale» (§ 14); mentre l’arte partecipa alla stessa definizione
dell’estetica, iterandola come «teoria delle arti liberali» (§ 1). Qui arte
e bellezza svolgono sì ruoli importanti ma volti ad altre finalità speculative, e soprattutto giacciono su differenti topologie e non sono ibridate
nel nesso vitale che sussumerà la filosofia dell’arte bella.
E tuttavia, mentre bisogna revocare a Baumgarten il nome di padre
dell’estetica, nello stesso tempo non può dubitarsi che alla “nascita
dell’estetica”, egli abbia sicuramente partecipato in una qualche misura determinante. Il che è però paradossale, e anzi contraddittorio.
Allora, se l’applicazione di un criterio porta a conclusioni contraddittorie, e se i dati materiali che entrano in contraddizione sono invece
diversamente certificati, siamo costretti a mettere in dubbio la bontà
del criterio stesso. Sicché conviene ripensare radicalmente un modello
storiografico che conduce a rilasciare designazioni così inattendibili. Il
fatto è che la storiografia estetica si è adagiata con leggerezza su modelli che, come si è accennato, furono improvvisati a fine Settecento,
ricalcando schemi anteriori, risalenti addirittura alla storiografia greca,
che teneva ad attribuire sempre a qualche personalità, storica o mitica,
la titolarità di ogni pratica culturale. Bisogna pertanto esorcizzare la
prassi di far coincidere la figura storiografica del padre con la funzione biologica della generazione. Lo abbiamo visto nel pianeta Kareen,
dove il dio di Farmer nasceva grazie al concorso di sette padri, e lo
constatiamo ai nostri giorni anche sul pianeta Terra, in cui incombe con
prospettive sconvolgenti l’ingegneria genetica. Accogliamo quindi l’idea
che la “nascita dell’estetica” sia un evento non riducibile a spiegazioni
convenzionali, come quelle che mettono capo a un padre e a uno zero
282
ontogenetico. Pensiamo piuttosto a una trama messa in funzione da
un quadrante straordinariamente nutrito e intricato di lemmi e vettori,
animato da una partecipazione collettiva, una sorta di pool genetico,
che improvvisamente, in un breve arco di tempo, è precipitato, grazie
alla fusione di molteplici combinazioni cromosomiche, in una sorta di
big-bang epistemico. E intanto annotiamo un primo nome: Baumgarten.
La definizione hegeliana, oltre ai lemmi di “estetica” e “filosofia”,
evidenzia un’altra entità nucleare: “arte bella”. Ciò rimanda immediatamente a un secondo nome eponimo, a lungo rimosso dalla tradizione
estetologica ma oggi pienamente riaccreditato: Charles Batteux. Infatti
negli stessi anni di Baumgarten, nel 1746, egli pubblicò un volume
“sperimentale” (in questa prima edizione uscì anonimo) parimenti capitale per la nostra inchiesta, Le Belle Arti ricondotte a unico principio,
dove fu fissata per la prima volta la nozione di “arte bella”. Lo scenario di riferimento è completamente diverso da quello di Baumgarten,
non solo perché ora siamo in Francia e non in Germania, ma perché
Batteux, professore di retorica (pur se riuscì a conquistare nel 1750 la
prestigiosa cattedra di Filosofia al Collège Royale), è completamente
estraneo alla parola “estetica”, e non è neanche inventore della stessa
locuzione di “belle arti”.
Tatarkiewicz ha riesumato un piccolo saggio dimenticato di Charles
Perrault, il famigerato protagonista della querelle des Anciens et des
Modernes, dal titolo accattivante di Cabinet des Beaux-Arts. Colpisce
che la designazione fatidica di “belle arti” sia registrabile già a una data
tanto precoce: 1690, ma l’esame del testo ridimensiona completamente
la prima impressione. Perrault la usa infatti come variante di “arti liberali”, o meglio contestando le argomentazioni addotte per distinguere
“arti liberali” e “arti meccaniche”, prospetta con questa designazione
una nuova tipologia di arti. Solo che la proposta non sorge per ragioni
scientifiche e non è sostenuta da motivazioni teoriche, bensì solamente
poiché esse «meritano di essere amate e coltivate da un uomo di corte e che abbiamo trovato rispondenti al gusto e al genio di chi le ha
fatte dipingere nel suo gabinetto [...] ne abbiamo scelte otto perché
c’erano solo otto posti e perché abbiamo creduto di avere il diritto
di metterne di più o meno, secondo la differente capacità degli spazi,
senza attenerci alla critica dei filosofi». Si tratta allora, come si vede,
di uno scritto d’occasione steso per compiacere un cortigiano potente
(Louis Boucherat, cancelliere di Francia) e limitato alle circostanze che
l’hanno ispirato. Fra queste otto “belle arti” ci sono, in effetti, quelle
che eleggerà Batteux (eloquenza, poesia, musica, architettura, pittura,
scultura), ma con l’esclusione della danza e con l’inclusione di ottica
e meccanica. Il testo dunque è degno di ricordo, non perché lanci
un nuovo processo definitorio ma come testimonianza seriore di quel
larghissimo fermento di riorganizzazione del campo delle arti, iniziato
nel Rinascimento e che ancora a fine Seicento rampollava in discussioni
283
che non avevano trovato un nuovo approdo risolutivo. È quella fase
“moderna”, se vogliamo mantenere la classificazione di Tatarkiewicz,
che diventerà “effettivamente moderna” solo dopo il 1700, nel “secolo
dei lumi”. Comunque a partire dal 1691, con l’istituzione del Salon
parigino e lo svilupparsi della pubblicistica e della critica d’arte in
Francia, la locuzione “belle arti” acquistò circolazione e diventò disponibile per nuove investiture.
Non c’è dunque nulla d’impressionante nel fatto che in Francia a
metà Settecento comparisse un libro intitolato alle “belle arti”. Inaudito è invece il trattamento che ne fece Batteux, che per almeno una
generazione meritatamente rese la sua opera, con pochissimi altri testi,
un best seller europeo. Batteux esordisce con spirito squisitamente illuministico constatando che il campo delle arti è divenuto impraticabile,
perché sommerso dalla «moltitudine delle regole» che v’imperversano.
Ed ecco la mossa vincente: semplificarlo formalizzandolo in un sapere
rigoroso, secondo il modello conoscitivo cartesiano delle idee chiare
e distinte e in analogia con le procedure di riduzione quantitativa dei
fenomeni operata dalla fisica newtoniana. Scrive: «Imitiamo i veri fisici,
che accumulano esperienze e poi fondano su queste un sistema che le
riconduce a un principio». Il caotico mondo delle arti è così ricondotto
a un trasparente «sistema delle belle arti», retto dal principio dell’imitazione (mutuato direttamente da Aristotele ma rimodulato nel corso
della trattazione). Da questa fondazione sgranano numerosi corollari
impegnativi. Batteux procede a riplasmare l’orizzonte culturale entro
cui situare il sistema delle belle arti e, a petto della tradizionale classificazione fra “arti liberali” e “arti meccaniche”, rinverdisce la formulazione degli antichi Sofisti fra “arti utili” e “arti piacevoli”. Se la prima
categoria è un inventario aperto e indeterminato delle modalità con
le quali si attrezza l’operosità umana per conseguire scopi pratici, la
seconda è un’area chiusa e molto ristretta abitata solo da sette modalità
di produzione accomunate dalla ricerca solo del piacere. E qui sta il
colpo di scena: le arti piacevoli conseguono il loro fine attraverso la
produzione di bellezza. Per la prima volta nella cultura occidentale, la
pratica artistica impegnata nel nuovo «sistema delle arti», che diventerà
l’arte tout court, è identificata con la bellezza. Va rimarcato che le “arti
piacevoli”, alias “belle arti”, non sono innovative solo per il nome che
portano ma perché godono di condizioni formali privilegiate. Sono
infatti accomunate non da un legame estrinseco e puramente distintivo,
come sempre era stato nelle classificazioni precedenti, ma esclusivo e
funzionale: tutte hanno compito di produrre bellezza che arreca piacere, possiedono un solo principio costitutivo, operano grazie all’azione
congiunta del “genio” e del “gusto”. Siamo quindi in presenza di un’autentica “classe” in senso formale, in cui vigono norme comuni: le “belle
arti” hanno un «legame intimo», una «specie di fraternità che unisce
tutte le arti, tutte figlie della natura», «si propongono lo stesso fine»,
284
«si regolano mediante gli stessi principî» e «non differiscono tra loro
che per il mezzo che impiegano per porre in opera questa imitazione.
I mezzi della pittura, della musica, della danza sono il colore, i suoni,
i gesti, quello della poesia è il discorso». Come efficacemente annotò
Kristeller, fu proprio «il passo decisivo»: una svolta. Annotiamo quindi,
dopo Baumgarten, la seconda emergenza per la “nascita dell’estetica”:
Batteux.
Acquisiti Baumgarten e Batteux, abbiamo trovato la radice della
polarità che cercavamo, ma non siamo ancora arrivati a una vera spiegazione complessiva: da Baumgarten viene il profilo della (filosofia)
estetica e da Batteux il sinolo di arte bella, ma non ancora l’estetica
come filosofia dell’arte bella. Del resto nulla garantiva, e non era forse
neanche probabile, che questa concrezione giungesse a compimento.
Quelle che abbiamo schematicamente descritto sono infatti proposte
scientifiche fra di loro sfasate e divergenti in tutto: per luogo, estrazione scientifica, approccio analitico, finalità culturali. La prima si dispiega “dall’alto”, occupando un quadrante metateorico che riabilita
la sfera della sensibilità e le sue manifestazioni in vista di un umanesimo conoscivo integrale, affidato a una parola di nuovo conio che
destò diffidenza e a lungo, fino a Kant, fu contestata e osteggiata. La
seconda invece muoveva “dal basso” con l’obiettivo più limitato, ma
culturalmente più incisivo, di una pianificazione dell’universo artistico
funzionale ai processi di produzione, analisi e fruizione, con un’insegna
fortunata che per alcuni decenni divenne standard nella cultura europea. Entrambe poi convivono all’interno di un dibattito estetologico
che, a lungo incubato, a metà secolo esplose in Inghilterra, Francia e
Germania. È lo scenario di germinazione collettiva in cui si compie la
“nascita dell’estetica”.
Il punto essenziale è che le prospettive eteronome di Baumgarten e
Batteux, attraverso mediazioni e filtraggi, entrarono in contatto, e l’attivazione delle loro polarità determinò l’asse teorico della nuova disciplina, asse che lievitò progressivamente attraendo e assimilando ulteriori
entità cromosomiche. Naturalmente fu un processo lento e complesso
di riformulazione cumulativa che possiamo metodologicamente esemplificare additando l’intervento di un personaggio mercuriale, attento
conoscitore della letteratura estetologica, acuto interprete delle più vitali
esigenze della sua epoca, spassionato ricercatore delle zone “oscure”
dell’anima: Moses Mendelssohn. Non essendoci più tempo per approfondimenti, basterà fare riferimento al suo aureo saggio dal titolo Sui
principî fondamentali delle belle lettere e delle belle arti, pubblicato nel
1757, che si apre nel nome di Batteux, si sviluppa attraverso una sottilissima rilettura di Baumgarten, per finire col prefigurare il futuro
fronte disciplinare.
Se il decennio 1746-1757 è quello in cui s’impianta l’asse disciplinare dell’estetica, va ribadito che ciò si compie nello sfondo di un nu285
tritissimo dibattito teorico, consegnato a testi che hanno potentemente
contribuito all’incremento del patrimonio genetico di partenza. Qui,
davvero, il “secolo dei lumi” esprime al massimo le sue polivalenze consegnandoci in un brevissimo giro di anni opere miliari come i Pensieri
sull’Imitazione di Winckelmann (1756), l’Inchiesta sul Bello e il Sublime
di Burke (1757), il Laocoonte di Lessing (1766). L’orizzonte dell’estetica
arricchisce così il suo background con tante articolazioni interne che
s’intersecano fino a determinare un’organica circolazione capillare. Dunque tanti altri padri. Ne possiamo già contare sette, come sul pianeta
Kareen. Nel pianeta Estetica, in realtà, l’elenco è più numeroso, perché
non abbiamo menzionato donatori influenti come Hume, Gerard, Diderot, Rousseau…, né potremmo poco più avanti trascurare innesti e
trapianti vitali come quelli di Herder, Kant, Moritz, Schiller, Friedrich
Schlegel... Il fatto è che la “nascita dell’estetica” si rivela un’entità paradigmatica, un polo noetico di attrazione magnetica, che nel secondo
Settecento, attraverso le tante vicende del “secolo dei lumi”, si fissa,
sciogliendo l’estetica “moderna” in estetica “effettivamente moderna” e
divenendo “estetica contemporanea”, ossia disciplina sistematica.
Possiamo osservare come in vitro il movimento di questa evoluzione
attraverso la trasformazione del lessico nei titoli della letteratura specialistica. Nel 1757 Friedrich Georg Meier, pur allievo e primo banditore
delle vedute di Baumgarten, faceva ricorso alla dizione «schöne Künste»,
e parimenti dodici anni dopo, nel 1769, Herder titolerà «Kunst des
Schönen»; ma negli anni ’70 le cose cominciano a cambiare e appare
manifesto che il processo d’integrazione fra “estetica” e “belle arti” si
è innescato. Uno studioso autorevole come Sulzer nel 1771 intitola la
sua mastodontica opera Allgemeine Theorie der schönen Künste, ma non
disdegna poco dopo di compilare la voce “Estetica”, che finalmente
compare nel Supplément (1776) dell’Encyclopédie. È eloquente il sottotitolo, messo tra parentesi, di “Belle Arti” e tranciante la definizione
iniziale: «Termine nuovo, inventato per designare una scienza che ha
preso forma solo da pochi anni: è la filosofia delle belle arti». A questo
punto i giochi sono fatti. Se Kant opporrà ancora resistenza al “termine nuovo”, nello stesso anno della Kritik der Urteilskraft Heydenreich
pubblicherà un System der Ästhetik, e cinque anni dopo anche i Briefe
di Schiller saranno ästhetische. Questa trasformazione la possiamo apprezzare direttamente negli scritti di Eberahrd, che nel 1783 adottava
Theorie der schönen Künste, ma vent’anni dopo, nel 1803, pubblica
un voluminoso trattato intitolato Handbuch der Ästhetik. La variante
di Philosophie der Kunst, che nello stesso periodo preferiva Schelling,
non trovò corso e venne assorbita dalla parola Ästhetik, che conquistò
il frontespizio delle opere di Schleiermacher (1819) e di Solger (1829),
e, come abbiamo visto attestare da Hegel, oramai era «così entrata nel
linguaggio comune» che anch’egli fu costretto ad adottarla nelle sue
Lezioni.
286
Grazie alla nascita settecentesca di cui abbiamo delineato i tratti
essenziali, nell’Ottocento l’estetica, acquisito il rango di sapere disciplinare, come sappiamo crebbe vigorosamente e celebrò i suoi trionfi
fino a conquistare il ruolo pilota del pelago umanistico. Non peccò di
umiltà e nemmeno di gratitudine. Voltò le spalle ai suoi padri eponimi
e ne dimenticò tanti altri, che pure l’avevano cogenerata, alimentata e
fatta crescere: i Burke, i Mendelssohn, i Lessing... Ne pagò lo scotto
cent’anni dopo, in pieno Novecento, quando, opacizzate le proprie
origini, divenne incapace di comprendere e sciogliere problemi nodali
che la sua nascita aveva comportato (identificazione di arte e bellezza,
opposizione di utile e piacevole...) e divenne incapace di dialogare col
presente. Ecco perché, nella stagione di pensiero che viviamo, dopo
il dissolvimento dell’estetica contemporanea, che si è andata sgretolando nel secondo Novecento, a costo di risalire il Nilo, è opportuno
ritornare all’estetica del “secolo dei lumi” e trarre profitto dal suo
straordinario laboratorio di sperimentazioni. È importante che si sia
preso a leggere con ottica nuova l’estetica kantiana, come ha fatto un
Lyotard, e conforta che si sia ripreso a frequentare Du Bos, ma non
possiamo, per esempio, non chiederci: perché perdere l’occasione di
comprendere le torsioni estetologiche dell’oggi – 30 novembre 2007 –
sfruttando gli stupefacenti lumi di un Archibald Alison?
* Relazione presentata al Convegno Il secolo dei Lumi e l’oscuro tenutosi a Milano il 2930 novembre 2007 e pubblicata nell’omonimo volume relativo curato da Piero Giordanetti,
Giambattista Gori, Maddalena Mazzocut-Mis, Milano, Mimesis, 2008, pp. 257-78.
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288
Neoestetica: un achetipo disciplinare
*
È communis opinio che l’Estetica moderna è nata a metà del Settecento nel nome di Alexander Gottlieb Baumgarten, che pubblicò nel
1750 la celebre opera intitolata, appunto, Æsthetica. È nozione forse
meno diffusa, ma nota agli studiosi, che alla definizione del nuovo sapere estetologico un contributo decisivo fu dato da un secondo autore,
Charles Batteux, che pubblicò nel 1746 Les Beaux-Arts réduits à un
même principe. Probabilmente solo alcuni specialisti sono informati che
le condizioni di quella nascita vanno anticipate di una trentina d’anni e
riferite a un terzo personaggio, il Grande Antenato che pose le basi del
sistema dell’Estetica che si sarebbe assestato nel secondo Settecento. Il
suo nome è Jan-Baptiste Du Bos e la sua opera seminale, pubblicata
nel 1719, s’intitola Réflexions critiques sur la poésie et la peinture 1.
L’interrogazione sul presente dell’Estetica – l’Estetica contemporanea o, se si vuole, “postmoderna”, quell’orizzonte disciplinare, affascinante e insieme inquietante come una sorta di nebulosa, entro cui ai
nostri giorni vaghiamo – mi riferisco, come avete capito, grosso modo
all’Estetica dell’ultimo trentennio e alla quale da qualche tempo ho
preso a riferirmi col neologismo di Neoestetica – quell’interrogazione
non può prescindere da questi indicatori. Perché, appunto, non siamo
in presenza di meri fatti, episodi storicamente significativi ma sigillati
entro la loro congerie culturale. Invece siamo in presenza di vettori
strutturali epistemologicamente cogenti, che concorrono a costituire le
condizioni formali che hanno reso possibile qualificare la Modernità
come sapere estetico: sono davvero il big bang dell’Estetica moderna.
Talché, in altra occasione, ho proposto di riconvertire quella fitta rete
di fatti, multiformi ed eterogenei, in un organico polo noetico che ho
intitolato: “nascita dell’Estetica” 2.
Come che sia, la proposta che qui voglio presentare è che la genesi
settecentesca dell’Estetica non è evento cruciale solo per il destino
dell’Estetica moderna. Piuttosto essa è il referente non meno essenziale, anzi strategico, attraverso la stessa crisi dell’Estetica moderna, anche
per maturare una chiave ermeneutica che accrediti e dia trasparenza
all’avvento dell’Estetica post-moderna, quella contemporanea o, come
abbiamo detto, Neoestetica. Vale dunque la pena indagare su quelle
lontane pietre miliari perché rimane profetico il sapido motto di Rosario Assunto: l’antichià come futuro.
289
A partire dal Settecento, nell’arco di pochi decenni, assistiamo infatti a una profonda messa in crisi dei modelli e delle credenze tradizionali, che talvolta risalivano alla notte dei tempi, e si dispiega una
nuova visione del mondo che riorganizza le logiche del reale, proclama
l’affermarsi di una nuova sensibilità, e più in generale pone in questione la cultura occidentale, producendo nuovi processi socioculturali di
emancipazione e sviluppo. È saliente per noi che attraverso le dinamiche del progetto illuministico di sistematica chiarificazione intellettuale,
che ha determinato quella profonda trasformazione epocale che chiamiamo Modernità, sia maturata una svolta della tradizione estetologica
occidentale, la quale ha innescato eventi di grande momento, sia sul
piano scientifico che in quello delle pratiche socioculturali, lievitando
in un ramificato polimorfismo teorico e metodologico alla fine esploso nella disseminazione contemporanea. Dal Settecento è necessario
quindi partire, perché vi fu iniziata quella capitale partita della quale
ai nostri giorni ci tocca giocare le ultime mosse.
Prendiamo un luogo emblematico, per esempio l’inizio delle Riflessioni di Du Bos e leggiamo: «Constatiamo quotidianamente che i versi
e i quadri provocano un piacere sensibile; ma ciò non rende meno
difficile spiegare in che cosa consista questo piacere, che assomiglia
spesso all’afflizione e i cui sintomi talvolta sono uguali a quelli del più
vivo dolore. L’arte della poesia e l’arte della pittura non sono mai tanto
apprezzate come quando riescono ad affliggerci. [...] Più le vicende descritte dalla poesia e dalla pittura, se viste realmente, scuotono il nostro
senso di umanità, più le imitazioni che tali arti ci presentano hanno il
potere di coinvolgerci. [...]. Un fascino segreto ci attrae dunque verso le imitazioni fatte dai pittori e dai poeti proprio quando la natura
testimonia con un fremito interiore la sua ribellione contro il proprio
piacere» 3. Ecco il paradosso da spiegare: siamo naturalmente turbati
da alcune esperienze ma – come aveva notato già Aristotele – siamo
attratti dalla loro imitazione artistica, ma inoltre, nello stesso tempo,
avvertiamo anche la contraddittorietà del piacere da essa procurato,
contro cui si ribella la stessa natura. All’improvviso vettori salienti della
dimensione antropologica, piacere e dolore, reale e artificiale, vengono
demarcati e sintonizzati secondo nuove sconcertanti dinamiche: piacere
che nasce dal dolore, mondo artificiale che fa aggio sul quello reale!
Come si sa, Du Bos fu un grande protagonista di quella Querelle
des anciens et des modernes, che ha infiammato fra la fine del Seicento
e il primo Settecento prima la Francia e dopo l’intera Europa, propiziando l’avvento della Modernità. Egli prende atto della crisi della cultura del suo tempo e del fatto che la concezione classicistica dell’arte,
che identificava il valore con la norma, è tramontata. Cerca allora il
fondamento del fare e giudicare arte nella natura umana, rifondando
il valore per via empirica, accertato sulla base delle sue dinamiche
290
emozionali. Siamo in presenza di un’autentica rottura epistemica, che
con grande spregiudicatezza mette fuori gioco le credenze del passato
e le stesse opinioni della sua epoca, cioè i precetti e i pregiudizi sia
degli “antichi” che dei “moderni”. Du Bos assume un atteggiamento innovativo, che scavalca i dibattiti della Querelle, traccia le linee
evolutive dell’Estetica moderna e si proietta addirittura nell’orizzonte
contemporaneo 4. Egli di fatto conduce per la prima volta, come tiene
a precisare, «con metodo filosofico (en philosophe)» ma da «semplice
cittadino (simple citoyen)» 5, una globale esplorazione dell’esperienza estetica, a partire da un’indagine empirica sull’origine del piacere
artistico che rinuncia a ogni pretesa metafisica di spiegare la natura
umana.
Vediamo più da vicino. Il “piacere naturale”, in quanto frutto del
“bisogno”, per Du Bos ha una funzione puramente biologica. Omologhi ai bisogni del corpo ci sono quelli dell’anima, obbligata a stare
in attività occupando la mente. La quiete, la stasi psichica non è uno
stato positivo ma negativo; la vita dell’anima è la sua attività, l’inazione
produce un male oscuro, oltremodo doloroso: la “noia”. Si badi che
la parola “noia”, in francese “ennui”, come l’originale latino “noxia”,
significava a quei tempi non un generico disagio piuttosto “afflizione
profonda”, “tedio esistenziale”, “alienazione”.
L’analisi empirica porta Du Bos a una drammatica descrizione della
condizione umana, condannata a un’oscillazione pendolare fra due polarità negative, entrambe fondate sul dolore, segno della morte. Dolore
letale è infatti la noia, l’assenza delle passioni che sono la vita stessa
dell’anima; ma tentando di fuggire dalla noia, o ci si aliena nel lavoro
materiale, o ci si derealizza nel mondo rarefatto dell’attività mentale.
Niente quindi supera l’attrazione di abbandonarsi alle passioni, attrazione così intensa da far apparire inconsistente ogni altro modo di
vincere la noia. Però, sfuggiti dall’orrore della noia lasciandoci trascinare dal fiume tumultuoso delle passioni, veniamo travolti e incombe
il naufragio: rimaniamo prigionieri di una trappola senza uscita.
E però Du Bos trova la strada per uscire da questa trappola, osservando una particolare «emozione naturale» provata dagli esseri umani,
ossia quella procurata «meccanicamente» dall’osservazione delle sofferenze dei nostri simili. Compiendo un salto associativo, egli allarga il
piano dell’analisi, e dall’esperienza diretta delle passioni passa a trattare delle passioni in noi suscitate dall’osservazione di eventi tragici:
passa cioè dalle passioni che travolgono la nostra vita, e di cui siamo
attori, alle passioni provocate dalla vista delle sofferenze altrui, di cui
siamo spettatori.
La sottile strategia argomentativa di Du Bos costruisce per spinte
e controspinte il piano fenomenologico delle passioni, articolandone
una logica stringente. Così dapprima, introdotte accanto alle passioni provate direttamente quelle derivate dall’osservazione degli even291
ti tragici, registra come anche queste sono troppo violente, e pur se
tengono occupata l’anima scacciando la noia, affliggono a lungo col
ricordo sgradevole dell’esperienza provata. Ma, intanto, è stato acquisito il rilievo che, accanto alle passioni «dirette», l’uomo può rivolgersi
anche a passioni «riflesse», frutto della vista di passioni reali provate da altri esseri umani, e quindi indirette, un po’ meno dolorose in
quanto «indebolite». E le numerose esemplificazioni che Du Bos ne
dà, dall’acrobata ai gladiatori antichi, e a consimili pratiche moderne,
accredita l’universalità di questo fenomeno nel tempo e nello spazio.
Dopo di che egli ricompatta il piano fenomenologico ritornando alle
passioni reali, quelle direttamente provate, per esempio il gioco d’azzardo, ribadendo che le passioni, sia quelle dirette che quelle riflesse,
ci attraggono fatalmente perché ci danno piacere, ma esso si tramuta
comunque in dolore. Il problema allora diventa di capire in che modo
il dolore può essere eliminato, o almeno ridotto e contenuto. Sarà la
funzione dell’arte.
Si tratta di un astuto diversivo offerto all’anima: tenerla sì occupata evitando la noia, ma senza ricorrere alle passioni reali, che danno piacere ma procurano dolore. Per raggiungere questo scopo basta
attivare passioni meno intense di quelle ordinarie, di origine diversa,
«attenuate» perché non naturali ma «artificiali», capaci quindi di liberarci dalla noia senza procurare spiacevoli conseguenze. Non cerchiamo dunque l’ebbrezza del tavolo da gioco, o, potremmo dire oggi, il
massacro sonoro di una discoteca, sarà sufficiente sostituire gli oggetti
che alimentano le passioni con i loro fantasmi: le arti mimetiche. Una
sorta di “inganno” quindi, che tuttavia è capace di dare sollievo alla
drammatica condizione umana e diventare anzi una specie di terapia
attraverso l’arte.
La “logica delle passioni” perviene così a uno sbocco pienamente
positivo. Oltre le passioni che provengono dalla vista di eventi dolorosi
che accadono agli esseri umani, che distraggono dalla noia ma sono
anch’esse penose, Du Bos scopre l’esistenza di un altro tipo di passioni, le passioni “artificiali”, offerte dall’imitazione artistica. Non si tratta
più dell’imitazione aristotelica, che era istinto di natura, strumento di
conoscenza e fonte generale di piacere procurato da ogni imitazione,
perché il piacere dell’imitazione diventa ora una possibilità che si attiva
solo in presenza di argomenti di particolare intensità drammatica. La
cosa più importante è però che Du Bos fonda empiricamente e non
teoreticamente la dimensione dell’arte. L’arte infatti non ha necessità
intrinseca, non possiede una propria ontologia, ma ha un mero valore
strumentale, non essendo altro che la fortuita scoperta di una terapia
delle passioni con cui gli esseri umani, attraverso oggetti artificiali,
appunto le opere d’arte, creano passioni artificiali. Si pone così un
grado di emozione totalmente controllabile, quello delle “passioni artificiali”, che affianca la condizione delle semplici “passioni riflesse”,
292
e si colloca autonomamente fra il polo del dolore-noia e quello del
piacere-passione.
Riepilogando, in conclusione: all’essere umano è dapprima indicata
la strada delle passioni, il “divertimento”, ossia l’emozione “naturale”
come fuga dalla “noia”, ma anch’essa si rivela fonte di dolore; è allora indicata, in seconda istanza, la possibilità di una passione “riflessa”, cioè la vista delle passioni provate dagli altri esseri umani, meno
dolorose perché più “deboli”; per giungere infine all’esperienza delle
passioni “artificiali” procurate dall’arte, che dissociano piacere e dolore
e quindi depurano le passioni dalla loro negatività.
Così l’antica osservazione aristotelica sul potere dell’arte imitativa
di riscattare in immagine l’orrore del mondo offre lo spunto per un
inaudito re-design dell’ánthropos. Entra in crisi l’ideologia occidentale
della sovranità dell’io, classicisticamente magnificato come dominatore
del mondo e si apre il lungo calvario del suo depotenziamento fino
alla decostruzione. Comincia quel trend antiumanistico che per tanti rivoli – si pensi per tutti alla rivoluzionaria teoria del sublime di
Edmund Burke 6 – dilagherà nel Settecento e, malgrado Kant e Idealismo, alla fine dell’Ottocento e nel Novecento troverà, nella psichiatria
di Krafft-Ebing e nella psicoanalisi di Freud, il nome emblematico di
“masochismo”. Vale a dire il bandolo di quei modelli di fruizione che
sono diventati anche nostri, e ben conosciamo noi, spettatori di un
Quentin Tarantino.
Insomma, la passione, l’emozione, l’egoità, con una sola parola:
aisthesis, il sentire, è il luogo dell’esperienza estetica, potremo dire: il
monogramma dell’esteticità. È importante sapere che questa condizione, così essenziale per la nostra vita, e non solo per quella estetica, è in
realtà il travagliato approdo di un itinerario conoscitivo lanciato quasi
tre secoli fa proprio da Du Bos. Ciò che fra poco chiamerò Neoestetica
trova qui una sua spiccata condizione di possibilità. Ma prima di toccare questo traguardo c’è qualche altro importante nucleo concettuale che
conviene saggiare. E la radice la possiamo trovare ancora in Du Bos.
Accanto alla dimensione dell’esperire, Du Bos è riferimento non
meno decisivo per il destino di altri piani tematici del sapere estetologico, che ne hanno potentemente alimentato la criticità e continuano a
insistere anche nella contemporaneità. Ne ispezioneremo velocemente
solo due: quello del produrre e quello del giudicare.
Qual è, per dirla con la formula di Heidegger, l’origine dell’opera
d’arte, la fonte della produzione artistica? La tradizione estetologica
era stata vaga nella risposta, limitandosi in definitiva alla constatazione
dell’eccellenza di alcune opere e dell’eccezionalità di alcuni individui
che le avevano prodotte. Intorno alla figura dell’artista fin dall’antichità è semmai fiorita una mitografia, che ha alimentato quella nutrita
aneddotica che gli studiosi hanno battezzato col nome di “leggenda
293
dell’artista”. All’opposto, Du Bos fu il primo ad assumere il problema
in termini scientifici ancorandolo a precise basi analitiche. È in questione, come avete capito, l’antica nozione di “genio”, che trova in lui
un ripensamento radicale, decisivo per i futuri dibattiti dell’Estetica.
In verità Du Bos comincia col presentare il “genio” in termini tradizionali, come talento generico, una disposizione naturale che opera
in tutti i campi della produttività umana, e dunque una sorta di virtualità biologica equamente (diremmo oggi: statisticamente) distribuita fra tutti gli esseri umani, con differenze meramente quantitative.
Nondimeno ne valorizza una funzione essenziale. Infatti per lui questo
talento potenziale, concretandosi in modo diverso nei singoli individui,
svolge una sorta di funzione concertante, nella misura in cui, attraverso
la diversificazione dei ruoli, rende possibile quella collaborazione fra
gli uomini che produce il benessere della società, e tramite le singole
nazioni il benessere dell’intera umanità. Il “genio” è quindi una provvidenziale variabile antropologica socialmente finalizzata.
Se non che, approfondendo le modalità che ne caratterizzano l’azione, Du Bos coglie sorprendenti differenze intrinseche alla natura del
“genio”, differenze che non sono più quantitative ma che diventano
squisitamente qualitative. Si apre in tal modo la strada per una nuova
qualificazione del genio: quella di “genio artistico”. Du Bos, infatti, è il
primo studioso che ha collegato “genio” e “artista”, individuando nel
genio la condizione essenziale dell’arte. E ne ha tracciato un identikit
smagliante e puntuale, che ha avuto un’enorme influenza nella cultura
estetica, e appare ancor oggi per tanti versi istruttivo. Elenchiamone i
tratti salienti: (1) il genio è una facoltà unica, sui generis, senza la quale
non c’è arte ma artigianato; (2) genio si nasce e non si diventa: è una
qualità originaria che non si acquisisce con lo studio e l’applicazione;
(3) accanto al genio artistico in arte c’è posto anche per il talento, ma
esso produce solo artisti mediocri; (4) l’artista senza genio può infatti essere abile e preciso, ma non sarà mai grande, perché gli manca
la capacità di commuovere gli spettatori; (5) il genio è incompatibile
con le regole, come lo è l’intelletto col cuore; (6) il genio è creativo:
inventa e rinnova continuamente forma e contenuto delle sue opere;
(7) per converso, al di fuori della sua sfera specifica, il genio fallisce e
si pone addirittura sotto la mediocrità; (8) il genio è refrattario all’insegnamento, è autodidatta e impara a riconoscere la sua strada senza
l’aiuto di nessuno; (9) il genio eccelle in una ristretta sfera d’attività,
addirittura in un determinato genere artistico, come capacità di estrema
concentrazione in un’unica direzione; (10) il genio, pur se è spontaneità
naturale, non è né sregolatezza né arbitrio e trova in se stesso le regole
del proprio operare; (11) il genio è quindi totalmente libero da ogni
regola esterna.
È appena il caso di osservare che nella scia di questa serrata dottrina dubosiana del genio è fin troppo facile ritrovare paradigmi che
294
solitamente vengono accreditati a epoche successive, dal Romanticismo
e dal Decadentismo alle Avanguardie storiche, ed è possibile vedere
come in vitro, proprio criptato in nuce, lo schema della società dello
spettacolo e il protocollo della rockstar.
Parimenti di grande momento è il terzo quadrante della piattaforma dubosiana che mette conto menzionare: la valutazione dell’opera
d’arte, cioè il giudizio estetico, che riposa su un’altra celebre nozione
lanciata da Du Bos, quella di “sentimento”.
Conviene subito precisare che Du Bos pone due assi linguistici e
concettuali nettamente distinti: “passione-emozione” e “sentimentoimpressione”. Il primo asse, come abbiamo visto, si colloca sul piano
dell’esperienza vitale, attraverso la quale si soddisfa il bisogno puramente biologico dell’azione, vincendo la noia attraverso il suo “divertimento”, dunque il movimento della passione-emozione (“naturale” o
“riflessa” o “artificiale”) che procura piacere. Il secondo asse, quello
del sentimento-impressione, pur nutrito della stessa emozione vitale, si
colloca su un diverso piano: è una funzione del giudizio estetico che
valuta l’esperienza emotiva, quindi si riferisce all’emozione ma non è
emozione. È l’esercizio della pura polarità di piacere e dispiacere, di
attrazione o repulsione, che si ricava dall’osservazione immediata dell’opera d’arte e si colloca sul piano del valore. L’organo di tale giudizio,
il sentimento, costituisce appunto il valore dell’opera d’arte.
Du Bos distingue nettamente due forme di valutazione. Entrambe
sono forme di possesso dell’opera, ma non discendono dalla stessa
modalità di giudicare. In altre parole, il giudizio è un arco funzionale
entro cui si collocano due atti distinti, che impegnano differenti competenze. Prima del giudicare nel significato di “analizzare”, cioè conseguire una conoscenza attraverso l’attività intellettuale, che procura
l’acquisizione problematica della struttura dell’opera d’arte, si colloca
quel giudicare immediato, che grazie al sentimento certifica infallibilmente il coinvolgimento e la commozione prodotta dall’opera d’arte
sul fruitore, ossia il suo piacere estetico. Ciò che fonda la valutazione
artistica e ne legittima il valore estetico è l’azione di una sorta di “sesto senso”, il sentimento appunto, organo inappellabile del giudizio e
indipendente dalla ragione, che giudica «secondo l’impressione che il
poema o il quadro suscitano in lui», precedendo quindi tutti i ragionamenti che su tale acquisizione potrà fare l’analisi critica, il cui compito è solo quello di «stabilire le cause per cui un’opera piace o non
piace», quindi «non spetta al ragionamento decidere sull’argomento.
Esso deve sottomettersi al giudizio pronunciato dal sentimento, che è
giudice competente» 7.
Pur erede della nozione di “gusto”, quella di “sentimento” assume
in Du Bos natura e funzione completamente diverse. Nel suo ambito di cultura il gusto era collegato alla ragione, di cui era una sorta
295
d’immediata anticipazione, ed era considerato un’abilità che si acquisisce con l’esercizio e raffina attraverso l’esperienza. Invece in Du Bos
il sentimento genera un giudizio immediato e definitivo: la ragione
non serve, come non servono le dissertazioni dei critici (la «gente del
mestiere»). Non si decide sul valore di un’opera «per principî», che
variano secondo i tempi e i luoghi e non sono un vero criterio oggettivo: la ragione è sempre soggetta a errore, mentre il sentimento non
sbaglia mai, e non può essere smentito da nessuna argomentazione,
perché è sempre “vero”, per il fatto stesso di essere “sentito”. Si può
discutere sulle cause per le quali un’opera piace, o non piace, ma non
sul fatto che piace, o non piace. Dunque la ragione deve essere esclusa
dal giudizio artistico.
Se solo il sentimento è capace di cogliere, in un’impressione immediata e totalizzante, il valore dell’opera del genio, grazie a una sorta
d’istinto primario infallibile indipendente dalla ragione, tuttavia l’esercizio di questa facoltà non è un atto puramente soggettivo, cioè individuale, ma una funzione intersoggettiva, cioè sociale e culturale. Infatti
l’infallibilità del giudizio del sentimento presuppone una forma indiretta d’oggettività come valore condiviso, non riferibile all’individuo,
ma all’intera collettività dei fruitori. Il singolo fruitore è tutt’altro che
infallibile: è soggetto a errore per educazione, sensibilità, pregiudizi.
Il giudizio del sentimento fonda invece un valore cumulativo, che si
forma lentamente e si consolida attraverso i secoli: diventa infallibile
in quanto legittimato dal «pubblico», il vero garante della funzione
giudicante.
La nozione dubosiana di “pubblico” è una nozione complessa e
dinamica. La si mette correttamente a fuoco se la si colloca al centro
di due estremi negativi: il critico («gente del mestiere») e l’ignorante
(«volgo»). Infatti, messa fuori gioco la gente del mestiere, Du Bos non
privilegia il soggetto culturalmente sprovveduto, anch’egli incapace di
valutare le opere d’arte. Tra il critico e il volgo egli situa il “pubblico”,
identificato nelle «persone che leggono, che conoscono gli spettacoli,
che vedono e che sentono parlare di quadri o che hanno acquisito in
qualche modo quel criterio per giudicare chiamato gusto di comparazione» �8, ossia l’élite che coltiva il mondo dell’arte. Per altro Du Bos
evita il pericolo di elevare la classe egemone a modello di umanità
giudicante relativizzando il concetto: non esiste il pubblico in astratto, esso è una variabile relativa ai tempi, ai luoghi e alle opere, che
realizza in modo statistico e fattuale l’universalità del giudizio estetico.
È difficile, in presenza di queste avvincenti analisi dubosiane, per
quanto sommariamente ricordate, non convenire che esse hanno potentemente alimentato lo sviluppo storico della nostra disciplina, e,
nello stesso tempo, mantengano ai nostri occhi quella frizzante “aria
di famiglia” che respiriamo nei nostri laboratori. Emozione e artificio,
296
talento e genio artistico, sentimento e giudizio estetico: è indubbio che
siano i cardini su cui ha poggiato la teoria estetica e che la qualificano
ancora oggi.
Talché è inevitabile domandarsi perché la piattaforma concettuale di
Du Bos non è diventata il paradigma ufficiale dell’Estetica. Perché Du
Bos, per il tutto il Settecento, nella lunga fase di edificazione dell’Estetica moderna sempre saccheggiato pur se non sempre citato, non è ricordato come padre dell’Estetica moderna, al posto di altri nomi, vuoi
Baumgarten o Vico, Batteux o Kant? La domanda è tanto più stringente nella misura in cui ai nostri giorni abbiamo proclamato, se vogliamo
adottare un famigerato slogan a effetto, l’adieu à l’esthétique, ossia,
per meglio dire, abbiamo celebrato il divorzio dall’Estetica moderna,
e faticosamente cerchiamo di ridefinire la nostra identità estetologica. A visitare gli inquietanti scenari dubosiani, nei quali campeggiano
nozioni mercuriali come noia ed emozione, piacere e passione, gusto
e sentimento, funzione del pubblico e democraticità della fruizione,
non possiamo non avvertire le affinità profonde che ci legano a questo
misconosciuto Antenato, ed entrare in sintonia con lui più di quanto
non siamo più in grado di fare con i nostri diretti genitori. Come è
possibile ciò? Allora andiamo direttamente al cuore del problema e
chiediamoci: perché Du Bos è stato rimosso dalla storia dell’Estetica 9?
A metà dell’Ottocento il primo storico dell’estetica, Robert Zimmermann, formalizzò questa rimozione, che adottarono gli studiosi
successivi. Zimmermann, pur riconoscendo a Du Bos di essere autore
di «fini osservazioni», stigmatizzava che esse «non costituiscono un
insieme sistematico» �10. In che senso la monumentale opera dubosiana
non costituisce un “insieme sistematico”, cioè una filosofia dell’arte?
Eppure, come abbiamo visto, quasi tutti i temi connettivi dell’estetica
disciplinare sono presenti e lucidamente apparecchiati nelle Riflessioni:
la logica delle passioni, le dinamiche dell’artificiale, il genio artistico,
il sentimento e il giudizio estetico…
Lasciamo sospesa la domanda, per fare una parentesi e ricordare
che un consolidato modello storiografico, costituito nella prima metà
del Novecento col contributo di studiosi del calibro di Cassirer, Bäumler e Tatarkiewicz, ha individuato due polarità concettuali che hanno
presieduto alla costituzione del piano tematico dell’Estetica: la teoria
del bello e la dottrina dell’arte, come dire: Platone e Aristotele. Solo
all’avvento della Modernità, a metà del Settecento, questi due nuclei
furono saldati in un’unica formazione teorica, la teoria del bello artistico, che divenne l’insegna e il fondamento dell’Estetica moderna. Ciò
è perfettamente trasparente se leggiamo il celebre inizio dell’Estetica
di Hegel: «Signori, queste lezioni sono dedicate all’Estetica; il loro oggetto è il vasto regno del bello e, più dappresso, il loro campo è l’arte,
anzi, la bella arte. […] La nostra scienza è “filosofia dell’arte”, e più
specificamente “filosofia della bella arte”» �11.
297
Non basta quindi commentare che Du Bos non appare sistematico
perché non elaborò una filosofia dell’arte. Bisogna precisare: perché
non elaborò una filosofia dell’arte nell’accezione che qualifica l’Estetica moderna. In altre parole, in lui fu assente il punto dirimente: la
cornice sistematico-disciplinare nella quale fu riconfigurato il plesso
arte-bellezza. Ossia quella cifra identitaria che abbiamo appena verificato in Hegel.
Paradossalmente, lo studioso settecentesco che forse più di ogni altro è tributario di Du Bos è Charles Batteux, che da lui massicciamente
ha attinto e ne ha condotto una sorta di prima sistematizzazione, ma
incentrandola sulla nota fondamentale lasciata da lui cadere: la nozione
di bellezza. Così il “sistema delle belle arti” di Batteux è l’anello strategico di congiunzione fra l’Estetica, diciamo asistematica o premoderna,
di Du Bos e l’estetica sistematica che ha al suo terminale Hegel. Una
trentina d’anni dopo le Riflessioni di Du Bos, Batteux con Le Belle Arti
pose infatti per la prima volta la condizione con cui nasce il concetto
di arte della Modernità, che nei decenni successivi, grazie soprattutto
alla mediazione fra Baumgarten e Batteux procurata dal dimenticato Mendelssohn 12, darà origine alla filosofia dell’arte, cioè al sistema
dell’Estetica moderna come “filosofia dell’arte bella”.
Ora, già lo sbilanciamento dubosiano sul versante dell’emozione
aveva liberato materie che la cultura occidentale fin dai tempi di Platone aveva tenuto a freno – quel coacervo incandescente liquidato
con la bolla di “sensualismo” – ma la sua scabrosità disciplinare era
accentuata dall’assenza di quel gradiente che è stato il sale dell’estetica
moderna: la nozione di bellezza. In Du Bos, infatti, il bello perde ogni
attributo, sia metafisico che conoscitivo, per diventare, come è oggi per
noi, una mera designazione, che attesta solo il raggiungimento dell’efficacia dell’opera d’arte e l’indice del suo apprezzamento. Ecco cosa
mise progressivamente fuori gioco Du Bos: la mancanza di una sistematica dell’arte per l’assenza del suo elemento costitutivo, il concetto
di arte bella. La sentenza inevitabile maturò già ai tempi di Kant, alla
fine del Settecento, decretando la sua pressoché completa rimozione
dalla storia dell’Estetica.
Se mi sono soffermato sul “caso Du Bos” è perché, nell’impossibilità di approfondire tutto un grappolo di questioni importanti, esso può
funzionare come un test case, una spia eloquente del nostro presente.
Non è infatti né sorprendente né senza significato il rinnovato e intenso interesse attuale per le Riflessioni di Du Bos e riscoprirlo come
fondamentale archetipo disciplinare.
Non è sorprendente, perché ciò è divenuto possibile grazie al dissolvimento dell’Estetica moderna. Così gli studiosi, liberi da inibizioni
e condizionamenti, hanno preso a guardare senza pregiudizio l’intera
storia dell’Estetica, riconoscendo le ragioni specifiche di ogni sua stagione teorica. E la riflessione estetologica, aforistica e non più siste298
matica, sgravatasi dalla rovinosa ipoteca della nozione di bellezza, ha
ritrovato stimolanti ragioni di confronto col passato.
E non è senza significato ritrovare Du Bos, e sentire naturale entrare
in sintonia con questo fantomatico Antenato, cui ci lega una sorprendente “aria di famiglia”: Du Bos è divenuto una fonte capitale nuovamente fruibile. E appare intrigante la rosa di temi che la sua enciclopedia ha liberato: noia, emozione, piacere “puro” (e masochistico), e
ancora pathos, clima, natura, un’estetica “democratica”, “popolare”, del
“successo del pubblico”: sembra un autore dei nostri giorni. E non è
inverosimile che possa diventarlo, se leggiamo Du Bos come se stesse
dopo Batteux e Kant, e dopo Hegel e l’Estetica moderna.
Abbiamo corso troppo. Pur in dirittura d’arrivo, fermiamoci a riflettere che se è necessario, per capire il presente, trovarne la genesi
nel passato, quando vogliamo giudicare il presente, fissarlo per decifrarlo come fosse già il passato, esso si opacizza e tende a dileguarsi,
perché inevitabilmente aspira al futuro, l’altrove del presente, il suo
virtuale esito metamorfico che lo qualifica, ma che a noi è sconosciuto. Per esempio, quando comincia il presente? Quando è lecito cioè
segmentare la vaga nozione di contemporaneo e declinarla al passato,
e dare autonomia alla congerie che ci appartiene, in modo di essere in
grado di diversamente nominarla come ulteriore e originale stagione
della conoscenza? È possibile fissare con nettezza, come una sorta di
zero ontogenetico, il punto di crisi dell’Estetica moderna e contemporanea, e illuminare le cause della frattura del paradigma disciplinare
che ha determinato gli odierni modelli di riflessione estetologica?
Già in affanno nel primo Novecento, subito dopo la seconda Guerra Mondiale l’Estetica cominciò a manifestare evidenti segni di collasso. Tanti critici, spesso non disinteressati, la posero sotto processo e la
condannarono senza appello: alcuni bandirono la sua inattualità, altri
celebrarono la sua morte. In ogni caso fu diffuso il sospetto che fosse
entrato in crisi il suo impianto epistemico, che si fossero esaurite quelle
ragioni socioculturali e metateoriche, ben rappresentate da un Batteux
e da un Baumgarten, che ne determinarono la nascita settecentesca
come puntello indispensabile per la costruzione della Modernità, e le
assicurarono un successo prodigioso, fino a elevarla nell’Ottocento a
disciplina pilota dell’oceano umanistico. Nel secondo Novecento lo
scenario dell’Estetica era completamente mutato: il presente sfuggiva
dalle sue collaudate griglie analitiche e non sembrava più legittimarla:
la metteva in tilt. Era la constatazione della sua fine?
Ce lo chiedemmo nel settembre del 1979 in un affollatissimo convegno internazionale che si tenne a Cracovia col titolo appunto di Crisi
dell’Estetica 13? La conclusione che chi vi parla trasse da quel meeting
fu che davvero di crisi bisognasse parlare per l’Estetica, ma che tale
crisi andasse proiettata al passato. Insomma, era una crisi davvero leta299
le, perché crisi di sistema, ma pur tuttavia del sistema dell’Estetica moderna, ossia della lunga stagione di quell’Estetica sistematica maturata
nell’arco Batteux-Kant, all’insegna dei concetti guida di “arte bella” e
“piacere disinteressato”. Quell’Estetica si era esaurita, ma al suo posto,
come la Fenice dalle sue ceneri, stava nascendo una nuova formazione
disciplinare che, pur in fieri, faceva sperare che sarebbe stata capace di
superare la crisi (del sistema) dell’Estetica (moderna) e, emancipandosi
dal passato, immaginare nuove configurazioni epistemiche.
È quello che negli ultimi trent’anni è andata facendo l’Estetica del
Terzo Millennio, la Neoestetica, come mi piace chiamarla. È un’Estetica che ha studiato in modo rigoroso le proprie origini, con spregiudicatezza ha riletto autori noti e riscoperto autori dimenticati, ha
illuminato le trame del passato rinverdendole e rimotivandole, e dai
tesori della sua tradizione ha preso ispirazione per intraprendere nuove
imprese conoscitive. E mentre non manca di riconoscere all’Estetica
moderna il grandissimo merito storico di avere felicemente riorganizzato la tradizione antica nelle forme della Modernità, parimenti non
viene meno al proprio dovere disciplinare di contribuire all’interpretazione della congerie odierna, che in mancanza di un nome adeguato,
che solo gli storici futuri potranno stabilire, genericamente chiamiamo
Postmoderno.
Confesso, giunto alla fine della mia relazione, che di questa Neoestetica avrei voluto più distesamente parlarvi, se poi non avessi stimato
che fosse preferibile, all’ombra di Du Bos, accontentarsi d’indicarne
l’intreccio metodologico, segnalarne un prezioso ascendente e convalidarne la piena legittimità. Vogliate perdonarmi di questa limitazione
e confido mi concediate una seconda chance in futuro.
* Originariamente presentato come relazione introduttiva al Congreso Europeo de Estética Sociedades in crisis. Europa y el concepto de estética promosso dal Ministerio de Cultura
(Madrid 10-12 novembre 2010) col titolo Neoestéticas: estrategias de la crisis e pubblicato in
edizione trilingue negli Atti relativi (http://www.calameo.com/read/000075335c134761b142d);
successivamente rielaborato e pubblicato col presente titolo nella “Rivista di estetica”, 47
(2/2011), pp. 197-209.
1
A. G. Baumgarten, Æsthetica (1750), trad. it. L’Estetica, Palermo, Aesthetica, 2000;
Ch. Batteux, Les Beaux‑Arts réduits à un même principe (1746), trad. it. Le Belle Arti ricondotte a unico principio, Palermo, Aesthetica, 20024; J.‑B. Du Bos, Réflexions critiques sur la
poésie et sur la peinture (1719), trad. it. Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura, Palermo,
Aesthetica, 2005.
2
Cfr. L. Russo, Notte di luce. Il Settecento e la nascita dell’estetica, in P. Giordanetti, G.
Gori, M. Mazzocut-Mis (a cura di), Il secolo dei lumi e l’oscuro, Milano, 2008, pp. 257-78,
qui ristampato.
3 J.‑B. Du Bos, Riflessioni, cit., p. 37.
4 Per una valutazione complessiva del pensiero estetico di Du Bos cfr. L. Russo (a cura
di), Jean-Baptiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, “Aesthetica Preprint: Supplementa”, 15
(2005), con testi di E. Franzini, G. Lombardo, G. Pucci, S. Tedesco, A. Gatti, E. Fubini,
300
C. Vicentini, C. Serra, M. Mazzocut-Mis, F. Fanizza, F. Bollino, G. Sertoli, L. Lattanzi, P.
D’Angelo, G. Matteucci, R. Diodato, A. Pinotti, L. Russo. Una versione digitale del volume
è liberamente acquisibile dal sito web del Centro Internazionale Studi di Estetica: www.
unipa.it/~estetica/ > menù > download.
5 J.‑B. Du Bos, Riflessioni, cit., pp. 37-38.
6
Cfr. E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime
and Beautiful (1757), trad. it. Inchiesta sul Bello e il Sublime, Palermo, Aesthetica, 201210.
7
J.‑B. Du Bos, Riflessioni, cit., p. 295.
8
Ivi, p. 298.
9
Sul “caso Du Bos” e la sua rimozione dalla storia dell’estetica, mi permetto di rimandare alla lettura che ne ho dato col titolo Il caso Du Bos e il paradigma dell’estetica nel
volume collettivo sopra citato.
10
R. Zimmermann, Geschichte der Ästhetik als Philosophicher Wissenschaft (1858), rist.
an. Hildesheim-New York, 1973, p. 112.
11
G. W. F. Hegel, Vorlesung uber die Ästhetik (1836-38), trad. it. Estetica, Milano,
Feltrinelli, 1963 p. 5.
12 Cfr. M. Mendelssohn, Betrachtungen über die Quellen und die Verbindungender schönen Kunste und Wissenschaften (1757), trad. it. Sui principî fondamentali delle belle lettere
e delle belle arti, in Id., Scritti di Estetica, Palermo, Aesthetica, 2004.
13
Cfr. M. Gołaszewska (a cura di), Crisis of Aesthetics?, Cracow, Uniwersytet Jagiellonski, 1979.
301
Indice dei nomi
Abbagnano, N., 31, 33, 47, 96, 153, 208,
219, 221, 238.
Abbate, M., 74, 154.
Addison, J., 250, 281, 288.
Adorno, Th. W., 11, 14, 28, 31, 33, 271,
287.
Agazzi, E., 70, 71, 74, 143, 154.
Agostino d’Ippona, san, 250, 272, 278.
Alcuino di York, 250.
Alessio, F., 47, 221.
Alfieri, V. E., 47, 96, 154, 226, 228.
Aliotta, A., 49, 68, 154.
Alison, A., 287, 288.
Almansi, G., 95.
Altman, R., 32.
Ambrosini, L., 90.
Amoroso, L., 228, 261.
Anceschi, L., 48, 154, 224, 227-229.
Andaloro, M., 219.
André, Y.-M., 165, 256, 261, 265.
Antiseri, D., 47.
Antoni, C., 47, 74, 96, 154, 221, 222,
228.
Antonio, 190, 192.
Argan, G. C., 196, 209, 213, 215, 216,
219.
Aristofane, 83.
Aristotele, 35, 42, 77, 83, 118, 126, 132134, 141, 145, 146, 170, 193, 235,
250, 251, 272, 284, 290, 297.
Arnheim, R., 197, 218.
Arréat, L., 68.
Ascoli, G. I., 71.
Asimov, I., 23.
Assunto, R., 42, 48, 154, 180, 184, 214,
227, 229, 239, 240-247, 289.
Attisani, A., 68, 70, 97, 154.
Banfi, A., 31, 33, 47, 96, 146, 147, 154,
217, 221.
Barbera, S., 48.
Barilli, R., 42, 48, 154, 215, 218, 219.
Barone, F., 47, 145, 154.
Barthes, R., 197.
Basch, V., 69.
Batllori, M., 95, 233.
Batteux, Ch., 22, 26, 32, 42, 48, 68, 80,
86, 95, 129, 130, 135, 136, 144-146,
155, 165, 166, 170, 174, 193, 210,
211, 212, 243, 247, 250, 256, 261,
265-267, 281-285, 288, 289, 297300.
Baumgarten, A. G., 22, 26, 32, 48, 54,
56, 59, 63, 64, 68, 69, 73, 75, 86, 93,
95, 98, 99, 103, 129-137, 144, 147,
150, 153-155, 159, 161, 164, 166,
167, 184, 211, 212, 237, 239, 243,
247, 249, 250, 251-256, 261, 268,
272, 273, 275, 281-289, 297-300.
Bäumler, A., 274, 287, 297.
Bausola, A., 47, 155.
Bayer, R., 146, 155.
Bellezza, V. A., 47, 155.
Benjamin, W., 14, 32.
Benn, G., 68.
Bergson, H., 88, 174, 184, 218.
Bernardo di Chiaravalle, san, 250.
Bernheim, E., 114.
Bersa, G., 262.
Bertana, E., 68.
Bettinelli, S., 48, 155, 157.
Bianchi, R., 68, 156.
Bianco, F., 47.
Blake, W., 163.
Blanco, M., 95.
Bloom, H., 31, 33, 95, 155
Bobbio, N., 47, 96, 155, 221, 238.
Bodei, R., 95.
Bacone, F., 154, 193, 195, 216.
Bagni, P., 48, 98, 154.
303
Bollino, F., 42, 48, 95, 145, 155, 301.
Bonghi, R., 71.
Bontadini, G., 47, 221.
Borromeo Arese, C., viceré, 182.
Borsari, S., 153, 155.
Bosanquet, B., 49, 53, 63, 70, 75, 80,
110, 113, 135, 137, 145, 148, 155,
252, 253, 260.
Boucherat, L., 283.
Brandi, C., 10, 14, 187-219, 236, 240,
242, 247.
Braun, L., 47.
Brooks, C., 218.
Brown, M., 95, 274.
Brunetière, F., 48, 155.
Brunner, J., 14.
Bruno, A., 74, 141, 155.
Bruno, G., 250.
Bülffinger, G. B., 133, 145.
Burke, E., 30, 32, 33, 48, 68, 80, 86, 95,
145, 153, 155, 169, 174, 211, 238,
250, 256, 261, 275, 276, 286, 287,
293, 301.
Butcher, J., 69.
Cagiano de Azevedo, M., 213.
Calogero, G., 47, 221.
Campanella, T., 250.
Campi, R., 262.
Cantoni, R., 47, 221.
Capanna, F., 47, 156.
Capizzi, A., 95.
Caracciolo, A., 72, 74, 156.
Caramella, S., 68, 156.
Caravaggio, Michelangelo Merisi detto,
29.
Carbonara, G., 216.
Carchia, G., 156.
Carducci, G., 71.
Carmine, 187, 188, 190, 191, 193,194198, 200-219, 240.
Carsetti, A., 47.
Cartesio, R. Descartes detto, 136, 251.
Casertano, G., 95.
Casini, P., 47.
Cassirer, E., 136, 143, 146, 147, 156,
218, 297.
Castellano, G., 68, 156.
Castelli, E., 47, 221, 233.
Cataudella, Q., 226, 228.
Cesareo, G. A., 49, 68, 156.
Cesca, G., 68, 167.
Chabod, F., 156.
Châtelet, Fr., 48, 156.
Cicerone, M. T., 83, 250.
Cione, E., 68, 156.
Colaiacomo, P., 95.
Coleridge, S. T., 48, 156.
Combarieu, J., 48, 156.
Cometa, M., 42, 48, 156.
Condillac, E. B., 87, 141, 145, 170.
Conti, A., 68.
Contini, G., 48, 99, 156, 208, 213, 214,
218, 219.
Cordaro, M., 216.
Cordiè, C., 68, 156, 161, 166.
Corniani, G., 74.
Corsano, A., 47, 96, 157, 187.
Corsi, M., 70, 71, 74, 75, 142, 157.
Costa, G., 29, 33, 95.
Cotroneo, G., 95.
Cozzoli, L., 262.
Croce, B., 9, 10, 14, 31, 33, 35-171,
173-185, 187-195, 200-204, 206,
209, 213-216, 218, 219, 221, 226228, 235-238, 240, 245, 248, 249,
252-255, 259, 260, 264, 268, 280,
281, 288.
Crousaz, J.-P. de, 250, 265, 266.
Cusano, N., 250.
D’Ancona, A., 75.
D’Angelo, P., 215, 217, 218.
D’Angelo, P., 42, 48, 95, 98, 102, 160,
162, 185, 215, 217, 218, 228, 260,
301.
Dal Pra, M., 47, 96, 160, 221, 238.
Dante Alighieri, 56, 145, 157, 241, 250,
278.
Dauriac, L., 68.
De Corte, M., 47, 187.
De Matteis, P., 182.
De Mauro, T., 145, 160.
De Paz, A., 95.
De Roberto, F., 68.
De Ruggiero, G., 97, 160.
De Sanctis, F., 55, 69, 71, 73, 87, 95,
100, 111, 116, 142, 157, 174, 178,
183.
De Venere, L., 261.
Del Noce, A., 47, 187.
Del Torre, M. A., 47, 73, 96, 160.
Della Volpe, G., 164, 198, 218.
Demetrio, 234, 238, 240.
Dempf, A., 47, 187.
Derossi, P., 47.
Descartes, R. vedi Cartesio.
Dessoir, M., 48, 160, 212.
304
Destro, A., 95.
Deutinger, M., 86.
Dewey, J., 214, 218.
Di Vona, P., 95.
Diderot, D., 42, 48, 101, 160, 165, 166,
167, 256, 261, 265, 286.
Dilthey, W., 115, 142, 160.
Diodato, R., 301.
Dione di Siracusa, 250.
Dionigi d’Alicarnasso, 216.
Dorfles, G., 42, 47, 48, 160.
Droysen, J. G., 111, 141, 160.
Du Bos, J.-B., 69, 165, 256, 261, 265,
276, 281, 287-301.
Duccio di Buoninsegna, 213.
Dufrenne, M., 39, 147, 160, 227, 231.
Dürer, A., 250.
Fracastoro, G., 250.
Franchini, R., 47, 74, 95, 96, 161, 222.
Franci, G., 95.
Franzini, E., 42, 48, 161, 261, 300.
Fréart de Chambray, R., 250, 256, 261.
Freud, S., 32, 42, 168, 293.
Frondizi, R., 47, 221.
Fubini, E., 42, 48, 162, 227, 229, 300.
Gadamer, H. G., 147, 162.
Gallo, N., 58, 71, 161, 162.
Galluppi, P., 87.
Garbari, R., 74, 162.
Garin, E., 47, 48, 74, 75, 96, 98, 139,
148, 162, 179, 184, 221, 222, 228,
238.
Garoglio, D., 68.
Garroni, E., 13, 14, 42, 46, 48, 102,
145-147, 162, 183, 185, 208, 209,
214, 216-219, 227-229.
Gatti, A., 300.
Geldsetzer, L., 47.
Gentile, G., 46, 47, 49, 54, 60-63, 6568, 70, 73-77, 89, 92, 98, 100, 101,
112, 113, 116-118, 123-125, 141,
142, 146, 157, 161-163, 165, 168,
184, 22.
Gentile, M., 228.
Geymonat, L., 47, 221.
Gigante, M., 95.
Giganti, M. A., 47, 163
Gilbert, E., 120-124, 143, 163, 179, 184.
Gioberti, V., 74, 87, 113, 118, 141, 157,
162.
Giordanetti, P., 287, 300.
Giulio, 190, 192.
Givone, S., 33, 42, 48, 95, 163, 261.
Gobbi, U., 142, 158.
Goethe, J. W., 102.
Gorgia di Lentini, 250.
Gori, G., 287, 300.
Gouhier, H., 47, 221.
Gracián, B., 48, 62, 74, 80, 95, 153,
157, 161, 163, 167, 233, 240, 250.
Grassi, E., 95.
Gravina, G. V., 157.
Grazzini, A. F., 73, 162.
Griffero, T., 42, 48, 167.
Groos, C., 87.
Grosse, E., 87.
Guala, A., 77.
Gueroult, M., 47, 187.
Guerrisi, M., 215.
Gusdorf, G., 47, 221.
Eberhard, J. A., 130, 131, 160, 288.
Eckhardt, L., 86.
Eco, U., 42, 48, 160, 226, 228.
Eftimio, 188, 191, 192, 194, 200, 213,
217.
Egido, A., 95.
Eisler, R., 68.
Eliante, 190, 202, 213.
Ellenberger, H. F., 74, 161.
Enea, 190, 192.
Ernesto (ritratto di), 190, 194, 200.
Facchi, P., 47, 221.
Faggi, A., 68, 69, 156, 161.
Fanizza, F., 42, 48, 95, 146, 148, 161,
167.
Farinelli, A., 68, 75, 77, 90, 92, 98, 133.
Farmer, Ph. J., 274, 275, 282, 287.
Faucci, D., 47, 161.
Fazio Allmayer, V., 47, 161.
Fechner, G. T., 87.
Federico Guglielmo i, 270.
Federico ii, il Grande, 271.
Ficino, M., 250.
Fiedler, K., 27, 33, 69, 87, 174, 184,
195, 196, 217.
Filiasi Carcano, P., 47.
Filippi, I., 71, 161.
Filostrato, L. F., 250.
Fink, G., 95.
Fischer, K., 30, 33.
Flora, F., 215.
Folkierski, W., 145, 161.
Formaggio, D., 11, 14, 39, 42, 46, 48,
146, 160, 161, 227-229.
Fortunati, V., 95.
305
Guyau, M., 87.
Guzzo, A., 47, 96, 163, 221.
Hanslick, E., 87, 174, 184.
Hartmann, E. von, 50, 56, 66, 72, 77,
87, 99, 111, 113, 163.
Hartmann, N., 47, 163.
Hauser, A., 244, 248.
Hegel, G. W. Fr., 9, 12, 15, 16, 20, 22,
23, 26, 30, 33, 42, 50, 53, 55, 66,
68, 70, 72, 86, 93, 97, 110, 111,
118, 131, 136, 140, 144, 159, 162,
163, 174, 184, 193, 194, 210, 217,
227, 228, 233, 244, 248, 253, 260,
279, 281-283, 286, 288, 297, 298,
299, 301.
Heidegger, M., 10, 13, 195, 216-218,
293.
Hennequin, É., 48, 163.
Herder, J. G., 131, 163, 286, 288.
Hertz, N., 33.
Heydenreich, K. H., 131, 163, 286, 288.
Hidalgo-Serna, E., 95.
Hildebrand, A., 159.
Hogarth, W., 68, 86, 95.
Hogrebe, W., 147, 163.
Hölderlin, Fr., 48, 163.
Home, E., 86.
Horkheimer, M., 271, 287.
Hugo, V., 31, 33.
Hume, D., 251, 286.
Husserl, E., 47, 195, 215-217, 221, 270.
Hutcheson, Fr., 22, 48, 163, 165, 229,
256, 261, 266, 281, 288.
Ingarden, R., 217.
Insolera, I., 47, 221.
Jànosi, B., 70, 163.
Jochmann, C. G., 42, 160.
Joyce, J., 216.
Kant, I., 22, 26, 30-32, 42, 54, 56, 64,
68, 69, 72, 77, 86, 93, 95, 99, 103,
118, 131, 132, 134, 136, 137, 141,
144, 147, 150, 154, 162-164, 167,
171, 174, 195-197, 204, 215, 217219, 227, 229, 243, 247, 249, 250,
256, 260, 265-271, 281, 285-288,
293, 297, 298-300.
Klages, L. 42, 166.
Knight, W., 164.
Knight. D., 70.
Koller, J., 133, 145, 164, 280, 281, 288.
Krafft-Ebing, R. von, 293.
Krause, C. C. F., 86.
Kristeller, P. O., 145, 164, 256, 261,
267, 285, 288.
Kuhn, H., 103, 120-122, 124, 143, 163,
175, 179, 184.
Kuhn, Th. S., 164, 184.
Labriola, A., 60, 71-73, 76, 77, 80, 84,
90, 92, 93, 101, 102, 111, 116, 140,
158, 164, 174, 184, 253.
Lalo, Ch., 49, 68.
Langer, Susanne K., 218.
Lattanzi, L., 301.
Laugier, M.-A., 48, 164.
Laurenti, R., 95.
Lefebvre, H., 149, 164.
Leibniz, G. W., 59, 86, 99, 121, 133,
141, 147, 251, 270, 272.
Lenin, Vladimir Il’ič Ul’janov detto, 10.
Leonardo da Vinci, 42, 161, 250.
Leone De Castris, A., 74, 164
Leone, 200.
Leone, E., 68.
Leopardi, G., 32.
Lessing, G. E., 69, 101, 145, 199, 210,
211, 256, 261, 286-288.
Lévi-Strauss, Cl., 267.
Lipps, T., 87.
Locke, J., 141.
Loewe, H., 71.
Lombardi, F., 47, 96, 164, 221, 228.
Lombardo Radice, G., 49, 68.
Lombardo, G., 32, 48, 95, 164, 261,
300.
Lombroso, C., 87.
Longhi, R., 214.
Longino, vedi Pseudo Longino.
Loria, A., 116, 157.
Lotze, H., 72.
Lugarini, L., 47, 221.
Lukács, G., 147, 164, 193.
Luporini, C., 47, 187.
Lyotard, J.-F., 11, 14, 18, 287, 288.
Macaulay, T. B., 71.
Mallarmé, S., 167, 170, 241, 247.
Malusa, L., 47, 141, 165.
Mantegazza, P., 72, 165.
Marchianò, G., 240.
Marcialis, M. T., 42, 48, 165.
Marotta, G., 182.
Marramao, G., 74, 165.
Martano, G., 153.
306
Marx, K., 73, 74, 91, 111, 116, 117, 142,
154, 157, 159, 165, 168, 223.
Masaccio, Tommaso di ser Giovanni di
Mone Cassai detto, 10.
Masini, F., 14.
Massolo, A., 47, 96, 165, 221, 228.
Mastroianni, G., 74, 165.
Masullo, A., 95.
Mathieu, V., 47, 96, 165, 221.
Matteucci, G., 263.
Mattioli, E., 29, 33, 42, 48, 95, 165.
Mautino, A., 74, 165.
Mazzocut-Mis, M., 33, 261, 287, 300, 301.
Meier, G. Fr., 69, 129, 130, 165, 286,
288.
Melandri, E., 95.
Mele, E., 68.
Mendelssohn, M., 131, 146, 165, 285,
287, 288, 298, 301.
Menéndez Pelayo, M., 49, 53, 70, 110,
135, 145, 147, 165, 252, 253, 260.
Menzione, A., 68, 165.
Messori, R., 261.
Michelangelo Buonarroti, 29, 250.
Migliorini, E., 42, 48, 95, 146, 165, 218,
227, 229, 263-268.
Milton, J., 275.
Modica, M., 42, 48, 95, 145, 166, 228,
261.
Mommsen, Th., 126.
Mondolfo, R., 47, 96, 166, 221.
Montale, E., 208, 219.
Montani, P., 218.
Montemartini, G., 124, 142.
Morandi, G., 215, 216.
Morawski, S., 147, 166.
Moretti, G., 42, 48, 166.
Morpurgo-Tagliabue, G., 42, 47, 48,
95, 96, 166, 180, 184, 214-217, 222,
224, 227, 228, 231-240.
Moscato Esposito, L., 261.
Mossini, L., 74, 166.
Most, G. W., 95.
Mozart, W. A., 271, 287.
Mukarovsky, J., 218.
Müller, E., 113, 132, 144, 166.
Muratori, L. A., 74.
Muret, M., 68.
Murri, R., 68.
Novalis, G. Fr. Ph. Fr. von Hardenberg
detto, 74.
Oersted, H. Ch., 86.
Ogden, Ch. K., 68.
Oggioni, E., 47, 221.
Olgiati, F., 47, 166.
Olivetti, M. M., 47.
Orazio Flacco, Q., 22, 250.
Orsi, G. G., 74.
Paci, E., 47, 96, 166, 221, 238.
Pagallo, G. F., 74, 166.
Pantaleoni, M., 124, 142.
Parente, A., 70, 96, 166.
Pareto, V., 142, 157.
Pareyson, L., 42, 47, 48, 96, 167, 218,
221, 224, 225, 227, 228, 229.
Parini, G., 74.
Patella, G., 261.
Peirce, Ch. S., 218.
Pelegrín, B., 95, 233.
Perniola, M., 14, 42, 48, 95, 167.
Perrault, Ch., 256, 261, 283.
Petraroia, P., 219.
Philippot, P., 217, 218.
Pica, V., 68.
Picasso, P., 213.
Pilo, M., 68, 72, 167.
Pimpinella, P., 48.
Pinci, E., 213.
Pinotti, A., 301.
Piovani, P., 47, 95, 96, 167, 221, 222,
228.
Piselli, F., 47, 48, 99, 167.
Platone, 15, 85, 126, 132, 134, 141, 193,
250, 251, 272, 297, 298.
Plebe, A., 224, 225, 227, 228, 264.
Plinio Secondo, G., detto il Vecchio,
250.
Plotino, 134, 250, 251, 278.
Ponti, G., 214.
Poppe, Th., 68.
Poussin, N., 250.
Preti, G., 47, 96, 167, 221, 222, 228,
238.
Proust, M., 216.
Pseudo Dionigi, detto l’Areopagita, 250.
Pseudo Longino, 29, 32, 33, 48, 95,
132, 153, 155, 164, 165, 167, 234,
238, 250.
Pucci, G., 300.
Puglisi, F., 95.
Negri, A., 47, 95, 96, 166, 222, 228.
Neri, F., 68, 69, 156, 166.
Nicolini, F., 99, 166.
Nietzsche, Fr., 31, 32, 35, 42, 170.
307
Quintiliano, M. F., 83, 250.
Racca, V., 142.
Radetti, G., 47, 96, 167.
Raffaello Sanzio, 190.
Raggiunti, R., 216.
Raggiunti, R., 47, 96, 167.
Raimondi, E., 95.
Ranke, L. von, 111, 133.
Ransom, J. C., 218.
Ravera, M., 42, 48, 167.
Rigobello, A., 95.
Rilke, R. M., 241.
Riverso, E., 95.
Rizzo Celona, F., 47, 74, 100, 141, 167.
Rolla, A., 68, 120-122, 168.
Rosenkranz, K., 30, 33, 48, 168.
Rosmini, A., 74, 87, 112, 113, 118, 141,
157, 162, 168, 174, 177, 183.
Rossi, L., 42, 168.
Rossi, Pa., 42, 168.
Rossi, Pi., 47, 74, 96, 168, 221.
Rostagni, A., 146, 168.
Rubiu, V., 213, 214, 216, 217, 219.
Runcini, R., 95.
Ruskin, J., 56, 87, 99.
Russo, L., 42, 48, 95, 168, 213-215, 217219, 228, 300, 301.
Sainati, V., 74, 168.
Saint Girons, B., 234.
Saintsbury, G., 70, 168.
Saitta, G., 47, 221.
Salizzoni, R., 261.
Sandron, R., 94, 183, 288.
Santangelo, G. S., 95.
Santayana, G., 49, 68.
Santinello, G., 47, 168.
Santucci, A., 95.
Sartre, J.-P., 195, 214, 215, 216.
Sasso, G., 47, 96, 140, 141, 143, 168,
179, 184.
Scaramuzza, G., 42, 48, 169.
Schasler, M., 50, 53, 71, 75, 87, 110,
113, 169, 252, 253, 260.
Schelling, Fr. W. J., 22, 26, 33, 48, 93,
131, 137, 147, 169, 171, 250, 260,
286, 288.
Schiller, J. Ch., 131, 169, 171, 286, 288.
Schlegel, Fr. von, 20, 30, 33, 286.
Schleiermacher, Fr. D. E., 48, 50, 66,
67, 69, 77, 79, 86, 93-95, 102, 103,
111, 131, 159, 160, 162, 169, 184,
252, 286, 288.
Schopenhauer, A., 31, 69, 72, 86.
Scolari, E., 42, 48, 169.
Segond, J. L. P., 68.
Segre, U., 74, 169.
Semerari, G., 47, 221.
Seneca, L. A., 250.
Serra, A., 48.
Serra, C., 301.
Serra, R., 90.
Sertoli, G., 32, 33, 48, 95, 169, 234,
301.
Sforza Pallavicino, P., 74.
Sgroi, C., 74, 169.
Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, iii
Conte di, 181, 182, 185, 256, 261,
281, 288.
Shakespeare, W., 56, 250.
Siebeck, E., 56, 71.
Solger, K. W. F., 30, 33, 50, 131, 169,
286, 288.
Spaventa, B., 68, 71, 72, 110, 111, 142,
161.
Spencer, H., 48, 87, 169.
Spingarn, J. E., 49, 68.
Spirito, U., 46, 47, 96, 169, 221, 224,
228, 264.
Stammler, R., 142, 157.
Stefanini, L., 224.
Sully, G., 56, 87.
Sulzer, J. G., 131, 133, 144, 169, 286,
288.
Taine, H., 56, 87.
Tarantino, Q., 293.
Tari, A., 54, 55, 58, 68, 71, 87, 157, 158,
169.
Tasso, T., 29.
Tatarkiewicz, W., 39, 137, 145, 146, 170,
181, 182, 185, 239, 240, 245, 246,
248, 249-262, 277, 278, 279, 283,
284, 288, 297.
Tedesco, S., 48, 300.
Tessitore, F., 47, 95, 142, 170, 222, 228.
Thomasius, Ch., 270.
Todorov, T., 146, 170.
Tommaso d’Aquino, san, 160, 250.
Torrigiani, I., 42, 48, 95, 146, 170.
Trahndorff, K. F. E., 86.
Trione, A., 170.
Trivero, C., 142, 157, 170.
Valesio, P., 95.
Valjavec, F., 147, 170.
Valletta, G., 182.
308
Valori, P., 47, 221.
Varchi, B., 250.
Vasa, A., 47, 221, 222.
Vasari, G., 145, 250.
Vasoli, C., 95.
Vattimo, G., 42, 47, 48, 170, 261.
Venturi, L., 48, 145, 170, 214.
Vera, A., 142, 170.
Vercellone, F., 42, 48, 167.
Verra, V., 47, 221.
Viano, C. A., 47, 96, 168, 221.
Vicentini, C., 42, 48, 170, 227, 229, 301.
Vico, G., 63, 64, 68, 69, 75, 77, 79, 86,
94, 95, 99, 103, 111, 127, 137, 142,
145, 147, 157, 158, 160, 174, 175,
182, 183, 226, 237, 252, 281, 297.
Villari, P., 90, 170.
Vitiello, V., 47, 170.
Vitruvio Pollione, M., 250.
Vivas, E., 218.
Voltaire, Fr.-M. Arouet detto, 101.
Vorluni, G., 68.
Vossler, K., 29, 65, 68, 76, 77, 92, 94,
98, 101, 157, 170.
Wackenroder, W. H., 48, 171.
Wagner De Reyna, A., 47, 221.
Walter, J., 135, 145, 171.
Weisse, C., 30, 33, 86.
Wellek, R., 48, 171.
Will, G. A., 130, 144, 163.
Willio, vedi Will.
Winckelmann, J. J., 184, 210, 211, 256,
261, 286, 288.
Witelo, 250.
Wolff, Ch., 59, 269-273, 275, 276, 287.
Wölfflin, H., 196.
Wolfius, Ch., vedi Wolff.
Zabala, H., 13, 14.
Zaccaria, F. A., 144.
Zecchi, S., 42, 48, 171, 217.
Zeising, A., 86.
Zevi, B., 214.
Zimmermann, R., 49, 50, 52, 53, 56, 66,
69, 71, 75, 77, 87, 88, 99, 110, 113,
132-136, 144-147, 150, 171, 245,
248, 249-260, 280, 288, 297, 301.
Zumbini, B., 75, 100.
309
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Supplementa
1 Breitinger e l’estetica dell’Illuminismo tedesco, di S. Tedesco
2 Il corpo dello stile: Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper, Riegl,
Wölfflin, di A. Pinotti
3 Georges Bataille e l’estetica del male, di M. B. Ponti
4 L’altro sapere: Bello, Arte, Immagine in Leon Battista Alberti, di E. Di Stefano
5 Tre saggi di estetica, di E. Migliorini
6 L’estetica di Baumgarten, di S. Tedesco
7 Le forme dell’apparire: Estetica, ermeneutica ed umanesimo nel pensiero di Ernesto
Grassi, di R. Messori
8 Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, di R. Lo Bianco
9 La nuova estetica italiana, a cura di L. Russo
10 Husserl e l’immagine, di C. Calì
11 Il Gusto nell’estetica del Settecento, di G. Morpurgo-Tagliabue
12 Arte e Idea: Francisco de Hollanda e l’estetica del Cinquecento, di E. Di Stefano
13 Pœta quasi creator: Estetica e poesia in Mathias Casimir Sarbiewski, di A. Li Vigni
14 Rudolf Arnheim: Arte e percezione visiva, a cura di L. Pizzo Russo
15 Jean-Bapiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura di L. Russo
16 Il metodo e la storia, di S. Tedesco
17 Implexe, fare, vedere: L’estetica nei Cahiers di Paul Valéry, di E. Crescimanno
18 Arte ed estetica in Nelson Goodman, di L. Marchetti
19 Attraverso l’immagine: In ricordo di Cesare Brandi, a cura di L. Russo
20 Prima dell’età dell’arte: Hans Belting e l’immagine medievale, di L. Vargiu
21 Esperienza estetica: A partire da John Dewey, a cura di L. Russo
22 La maledizione della parola, di F. Mauthner
23 Premio Nuova Estetica, a cura di L. Russo
24 Poesia vivente: Una lettura di Hölderlin, di M. Portera
25 Dopo l’Estetica, a cura di L. Russo
26 Premio Nuova Estetica, a cura di L. Russo
27 La regola del Capriccio: Alle origini di una idea estetica, di F. P. Campione
28 Premio Nuova Estetica, a cura di L. Russo
29 Sull’Emozione, a cura di L. Russo e Salvatore Tedesco
30 Verso la Neoestetica. Un pellegrinaggio disciplinare, di L. Russo
©
Aesthetica Preprint
Supplementa
Collana editoriale del Centro Internazionale Studi di Estetica
Direttore responsabile Luigi Russo
Comitato Scientifico: Leonardo Amoroso, Maria Andaloro, Hans-Dieter Bahr,
Fernando Bollino, Francesco Casetti, Paolo D’Angelo, Fabrizio Desideri, Giuseppe Di Giacomo, Gillo Dorfles, Maurizio Ferraris, Elio Franzini, Enrico Fubini, Tonino Griffero, Stephen Halliwell, José Jiménez, Jerrold Levinson, Giovanni
Lombardo, Winfried Menninghaus, Pietro Montani, Mario Perniola, Lucia Pizzo
Russo, Giuseppe Pucci, Roberto Salizzoni, Baldine Saint Girons, Giuseppe Sertoli, Richard Shusterman, Victor Stoichita, Massimo Venturi Ferriolo, Claudio
Vicentini
Comitato di Redazione: Francesco Paolo Campione, Elisabetta Di Stefano, Salvatore Tedesco
Segretario di Redazione Emanuele Crescimanno
Aesthetica Preprint si avvale della procedura di peer review
Presso l’Università degli Studi di Palermo
Viale delle Scienze, Edificio 12, i-90128 Palermo
Fono +39 91 23895417
E-Mail <[email protected]> – Web Address <http://unipa.it/~estetica>
Progetto Grafico di Ino Chisesi & Associati, Milano
Stampato in Palermo dalla Tipografia del Vespro
Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3
Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868
Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana
issn 0393-8522
Toward the Neoaesthetics: A Disciplinary Pilgrimage
The present volume is intended as a testimony. A testimony of
the aliveness of aesthetics through the journey of one of its ardent
devotees: Luigi Russo ([email protected]).
The author has collected a variety of essays, written over a period of thirty years, in order to document the reasons that have
inspired his research and the fil rouge that has informed it. This
span of time covers the period from the “crisis of aesthetics”
(which raged in the 1960s-1980s) to the present, when the discipline has acquired the new polymorphic and unsettling shape
that Russo has termed Neoaesthetics.
During this long scientific journey, undertaken by the author with
pilgrim-like dedication, one insight has operated as the keystone
of the gradual epistemic conversion Russo has undergone. Such
keystone is the awareness that, in order to understand aesthetics
in its most profound sense (i.e., the disciplinary logic that led to
the emergence of this form of knowledge in Western culture and
to its development in all its numerous phases through so many
cognitive shifts), it is necessary to draw from its double, that is,
from the parallel and specular knowledge supplied by the history
of aesthetics, which is essential and heuristic in order to configure
the aesthetologic universe. Focusing on the history of aesthetics,
analyzing dispassionately the historical traditions of the discipline,
and acknowledging their specificity, does not mean adoring its
ashes, but rather stirring its fire in order to activate the possibility
of new cognitive quests.
This is the insight that has fostered the commitment devoted by
Russo to the International Centre for the Study of Aesthetics,
which he has founded and directed. For decades, the Centre has
represented the ideal place for aesthetologic experimentation tout
court, which has culminated in the numerous volumes (206, to
this day) that have been published in the series “Aesthetica” and
in the related series “Aesthetica Preprint” and “Aesthetica Preprint Supplementa”.
Centro Internazionale Studi di Estetica, Viale delle Scienze, I-90128 Palermo