Anarchia e fine dell`umano: una lettura di Martin Heidegger

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Anarchia e fine dell’umano:
una lettura di Martin Heidegger
Alberto Martinengo
La scelta di accostare il nome di Martin Heidegger al tema
dell’anarchia può apparire in molti sensi provocatoria: una provocazione perfino poco innocente nelle premesse filosofico-politiche da cui parte, così come nelle intenzioni che sembra avere
di mira. A ben vedere, tuttavia, il dibattito sulla ricezione politica del pensiero heideggeriano sembra aver preso ormai da
tempo le distanze dai toni accesi di alcuni decenni fa, che hanno animato la nota controversia attorno al «nazismo di Heidegger» (su cui cfr. ovviamente Farìas 1988, oltre che, tra gli altri,
Altwegg 1988 e Fédier 1993). Questo spostamento del problema è avvenuto soprattutto per mano di coloro che si sono sforzati di rinunciare a una lettura della questione che fosse la pura
trascrizione filosofica delle sue vicende biografiche, a partire da
quelle culminate nella Rektoratsrede del 1933. Ed è un tentativo che si pone l’obiettivo fondamentale di non espungere niente dall’edificio teorico heideggeriano, neanche gli aspetti più ingombranti; ma, al tempo stesso, prova a declinare tale costruzione in un senso molto diverso dalla vulgata secondo cui Heidegger sarebbe il nostalgico della grecità preclassica: una nostalgia di cui il sangue e la terra della Germania degli anni ’30
sarebbero gli ingredienti principali.
Come è noto, la denominazione di «heideggeriani di sinistra» – non a caso un’altra categoria politica, o che si pretende
tale – nasce anche in questo contesto. E in alcuni autori significativi, tra coloro che vi fanno riferimento, è il risultato di un
approccio preliminare ben preciso, che restituisce immediatamente il senso dell’operazione. Per ridurre la questione a una
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formula, seppure imprecisa, si tratta della scelta di leggere il
pensiero di Heidegger – e in particolare l’ipotesi della fine della
metafisica – a partire da una serie di categorie molto differenziate, che tuttavia hanno nell’idea di progresso e di emancipazione i propri assi portanti.
Ora, su questo terreno, che pure necessiterebbe di ben altre
cautele storiografiche, uno degli autori che si sono spinti più
avanti in un’interpretazione politica e «progressivo-emancipativa» di Heidegger è sicuramente Reiner Schürmann. E proprio
il riferimento a Schürmann è quasi imprescindibile per evidenziare il contributo della tradizione heideggeriana al dibattito
sulla nozione di anarchia.
1. La fine dell’uomo e il primato del politico
All’interno del modello teorico di Schürmann, la questione
dell’anarchia emerge in un contesto ben preciso, che è utile
chiarire fin da subito. Si tratta della lettura heideggeriana della
metafisica come «storia dell’essere», alla quale Schürmann sostanzialmente aderisce, ma con una serie di sviluppi autonomi
di cui il versante etico-politico è in effetti il principale. Il riferimento fondamentale, in questo caso, è a Dai principi all’anarchia, il suo libro del 1982 su Heidegger che già nel titolo contiene il senso della proposta teorica di Schürmann: la metafisica
è la storia del succedersi di «epoche», ciascuna delle quali è determinata dal riferimento a principi che ne reggono la struttura;
ma alle spalle di tale vicenda si staglia uno sfondo a-principiale
– anarchico, appunto – rispetto al quale ogni epoca rappresenta
soltanto uno stadio provvisorio e passeggero. Naturalmente, a
questo livello la tesi è del tutto riconducibile – nei concetti, se
non anche nei termini – a Heidegger e, attraverso di lui, ai suoi
stessi autori di riferimento: sono infatti heideggeriani, tanto la
centralità della nozione di epoca (almeno a partire da una certa
fase del suo pensiero), quanto l’insistenza sull’opposizione tra
l’epoca e il suo opposto simmetrico, che in Heidegger prende
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per esempio la forma del binomio Er-eignis/Ent-eignis. Ma a
partire da quest’orizzonte comune, il percorso di Schürmann si
declina con esiti piuttosto diversi, che rappresentano anche l’elemento di maggiore originalità del suo contributo.
In questo caso, il riferimento è soprattutto alla discussione
sull’anti-umanismo che, come è noto, incrocia alcuni precedenti teorici importanti del dibattito novecentesco. Da una parte,
vi è ovviamente l’equazione heideggeriana tra metafisica e antropocentrismo: vero asse portante del discorso di Schürmann,
che trova la sua esemplificazione più significativa nell’idea che
«l’inizio della metafisica nel pensiero di Platone [sia] nello stesso tempo l’inizio dell’‘umanismo’», ovvero in quel fenomeno in
base a cui «l’uomo, in aspetti di volta in volta differenti, e tuttavia ogni volta consapevolmente, si colloca nel bel mezzo dell’ente, senza essere già per questo l’ente privilegiato» (Heidegger 1987: 190). Dall’altra risulta fondamentale la scelta, da parte di Schürmann, di articolare il «disinteresse metodico per il
concetto di uomo» (Schürmann 1995: 97), che sembra caratterizzare una parte importante della riflessione contemporanea,
in una diagnosi epocale molto più ampia: diagnosi che muove
da Karl Marx e dall’altro referente ottocentesco del problema,
ovvero Friedrich Nietzsche, per giungere fino ai loro sviluppi
novecenteschi, in particolare nell’ambito delle scienze umane.
Solo questa contestualizzazione filosofica del discorso consente
infatti di cogliere la portata di un tema – il declino di una determinata idea di umano – che altrimenti finirebbe per apparire
semplicemente occasionale. E, per usare una metafora spaziale,
in Schürmann si tratta di una contestualizzazione indietro, in
avanti e di lato, nel senso di coinvolgere non soltanto i precedenti teorici più significativi, ma anche gli epigoni e soprattutto
le contaminazioni interdisciplinari del problema.
Il senso della diagnosi epocale di Schürmann è insomma
quello di costruire una vera e propria sintomatologia dei fenomeni attraverso i quali, nelle diverse discipline che vi fanno riferimento, la storia smette di essere pensata in funzione dell’uomo
e, al tempo stesso, tale rottura permette di ridefinire complessi-
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vamente e forse di mettere in mora i due termini dell’implicazione. Da questo punto di vista, il rinvio a Marx e Nietzsche, accanto a Heidegger, sembra assumere lo stesso significato che, in
altri autori, ha la triade dei maestri del sospetto, dove nel caso di
Schürmann al nome di Sigmund Freud si sostituisce appunto –
sotto altri presupposti – quello di Heidegger. Un’analisi di grande interesse, portata avanti anche in chiave testuale, che si raccoglie attorno alla tesi secondo cui «il referente abbandonato in
ciascuno di questi tre casi […] è l’uomo in quanto punto di riferimento, ‘centro’, di ciò che si può conoscere quanto agli enti»
(Schürmann 1995: 98). E il corollario di tale tesi sta nella convinzione che l’esperienza di pensiero di questi tre autori anticipi
«una costellazione della presenza dove un tale centro cognitivo
viene a mancare completamente» (Schürmann 1995: 98).
Il punto di partenza di Schürmann è insomma chiaro e va
considerato nella sua duplicità. Da una parte, si tratta in effetti
di affermare che la storia è una successione di aperture epocali
nel senso che si è visto, intese cioè come edifici concettuali che
«sospendono» (da qui il riferimento all’epechein) il divenire.
Dall’altra, questo presupposto si sovrappone all’idea che la cosiddetta «fine della metafisica» coincida con il venir meno dell’illusione antropocentrica della storia. La sovrapposizione è
sottile, ma risulta dirimente. Per Schürmann si tratta infatti di
dire che la scoperta della struttura epocale e anti-umanista della
storia ha a sua volta una storia, nel senso di collocarsi in un momento preciso dell’evoluzione concettuale del pensiero occidentale: la fine di una determinata epoca della storia – quella
che chiamiamo «metafisica» – non rappresenta soltanto un
cambio di paradigma radicale, ma anche il momento in cui la
stessa natura paradigmatica della storia si mostra con chiarezza.
Ora, è evidente che in queste tesi si addensa una serie di snodi che meriterebbero di essere discussi a lungo, a partire proprio dalla sintomatologia della fine dell’umano, che Schürmann
usa come punto di partenza del suo discorso e di cui bisognerebbe misurare fino in fondo la plausibilità. È tuttavia chiaro
che si tratta di una valutazione che va ben oltre Schürmann
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stesso, che almeno in questo si limita a formalizzare in termini
diversi un dibattito ben noto. L’elemento più significativo del
suo modello è semmai un altro e va anche al di là della poderosa
ricostruzione della metafisica in chiave epocale, in cui si sarebbe
cimentato in Des hégémonies brisées. Si tratta appunto del ruolo
cruciale del politico, all’interno di un discorso così articolato.
Se infatti la metafisica non può essere pensata semplicemente come una storia di concetti più o meno adeguati a descrivere
la realtà, qual è il punto di vista privilegiato a partire dal quale
studiare la nascita e il deperimento dei principi che la determinano? In luogo delle rappresentazioni dell’umano alle quali ci
ha abituato la tradizione filosofica occidentale, esiste insomma
qualcosa che consente di decodificarne lo sviluppo? Ovviamente, sotto i presupposti della metafisica antropocentrica, la domanda sarebbe banale, perché il principio fondante di un’epoca gioca contemporaneamente un ruolo ontologico ed epistemologico. «Allorché si descrive l’epoca moderna parlando di
un trionfo della soggettività – spiega ancora Schürmann in Dai
principi all’anarchia – ciò significa che, a partire da Descartes
ma, più profondamente, a partire da Platone, la filosofia ha indagato sistematicamente sull’uomo ‘in primo luogo’ e, quanto a
tutto il resto, vi ha indagato in rapporto a lui. L’uomo è l’origine teoretica dalla quale gli oggetti ricevono il loro statuto di oggettività» (Schürmann 1995: 108). Pertanto, produrre una genealogia (più o meno esplicita) della metafisica è un compito
relativamente semplice, perché è sufficiente «situare» una determinata rappresentazione dell’umano all’interno della storia
epocale; e quest’operazione genera per ciò stesso un’incremento di leggibilità di tali strutture, come mostra – l’esempio è il
più ovvio, tra i molti che si potrebbero fare – il pensiero di
Nietzsche. Ma se la posta in gioco è più radicale e va a toccare
lo sfondo sul quale la successione epocale si staglia, l’umano
non può più essere considerato come l’invariante trans-storica
che sotto il profilo epistemologico consente di riarticolare l’intero discorso.
La questione del politico emerge in questo contesto e Dai
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principi all’anarchia la formalizza nel senso di ipotizzare che
rappresenti «quel dominio, dominium, che con maggiore evidenza contrassegna la sfera del comando del principio epocale»
(Schürmann 1995: 81). Si tratta di un’ipotesi decisiva per il modello teorico di Schürmann. Occorre dunque articolarla in modo più esplicito, per coglierla in tutta la sua portata. Come abbiamo cominciato a vedere, la forza della prospettiva di Schürmann sta nell’insistenza con cui la struttura epocale della storia
è modulata, in una forma che assolutizza il ruolo dell’arché, in
quanto origine e principio di determinazione totale di ciò che
compone una data epoca. Schürmann spiega infatti a più riprese che «un’epoca non è un’era, ma l’auto-instaurazione di un’era» (Schürmann 1995: 121). Quest’affermazione, apparentemente tautologica, va presa invece alla lettera, nei due sensi
soggettivo e oggettivo del genitivo all’interno dell’espressione
«auto-instaurazione di un’era». L’epoca è una frazione della
storia che genera se stessa e – per così dire – è generata soltanto
da se stessa: tutto ciò che si pensa, si fa e si dice dentro quel determinato contesto risulta interamente governato dal principio
fondante dell’epoca stessa, e non da altro.
È proprio l’insistenza sul governo dell’arché a risultare dirimente per chiarire il problema. La metafisica non nasce soltanto come istituzione di uno specifico regime di senso, ma anche
– e soprattutto – come formalizzazione delle condizioni di possibilità di tale istituzione. Anche in questo caso, la differenza è
solo apparentemente trascurabile: prima ancora dell’identificazione di un’arché, la metafisica richiede infatti che siano garantite le condizioni in virtù delle quali tale principio può operare
in concreto, agendo come ciò che governa, innerva e determina
i diversi campi dell’esistente. Per definire con precisione il funzionamento della metafisica, si deve insomma dare la possibilità
che l’arché «comandi» sopra gli enti: l’equazione «arché = comando» è, per così dire, il meta-principio di ogni altro principio metafisico.
Quella che può apparire un’ovvietà, per Schürmann diventa
in realtà lo snodo fondamentale per argomentare non tanto la
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rilevanza filosofica del problema del principio – il che è appunto pacifico – quanto piuttosto la centralità della dimensione
normativa che ogni principio porta con sé. Il primato del politico sta tutto qui: dato il modo in cui l’arché fonda e governa un
determinato contesto di senso, esistono ambiti in cui «un simile
ordine si lascia leggere con maggiore chiarezza», perché lì le
tracce della normatività del principio sono più evidenti che altrove. Che si tratti di una tesi alle cui spalle si trova una serie di
precedenti importanti è appena il caso di rilevarlo. Ma il modo
in cui Schürmann ci arriva è particolarmente interessante, perché è come se a essere in gioco fosse la necessità lessicale delle
metafore del politico, per un discorso che voglia spiegare il funzionamento dei principi epocali: un funzionamento che si dà
soprattutto nel senso della «iniziale imposizione di un principio» e del «suo successivo potere di disposizione» nei confronti
di tutto ciò che esiste (Schürmann 1995: 81). Se insomma la
metafisica è un codice che governa gli enti, per Schürmann è
chiaro che «un simile codice è collegato con il potere». Il politico diventa allora, nella prospettiva di Schürmann, l’elemento
che definisce la struttura formale di una determinata economia
storica: è il modo stesso in cui «parole, azioni e cose si congiungono in un insieme sempre provvisorio», che costituisce il contesto storico-condiviso in cui gli uomini si trovano a convivere
(Schürmann 1995: 168). Nel politico, insomma «la forza di un
principio raccoglie in un ordine transitorio tutto ciò che è fenomenicamente presente» (Schürmann 1995: 87).
Ovviamente, in quest’affermazione si sentono gli echi della
tesi heideggeriana sull’«azione che fonda uno Stato» come uno
dei gesti attraverso i quali si articola un’esperienza autentica
della verità, accanto all’opera d’arte e alla «vicinanza di ciò che
non è semplicemente un ente, ma il più essente degli enti»
(Heidegger 1997: 46). Ma in tutto ciò non è ancora chiaro a
quale livello si ponga il discorso di Schürmann: se, in altri termini, la lettura epocale si presenti come una sorta di topografia
della storia del pensiero occidentale, la cui legittimità e i cui limiti andrebbero tuttavia chiariti; oppure se, al contrario, si tratti
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della premessa per un percorso d’altra natura, in cui il rimando
alle categorie del politico non sia semplicemente un riferimento
spiegabile in termini di opportunità euristica. Resta insomma
da capire se il ruolo del politico si limiti davvero a essere il punto di partenza per un percorso di decostruzione della storia della metafisica, in nome di quella metaforica comune della normatività a cui facevamo riferimento; o se, invece, il politico non
sia anche – in un senso che rimane tuttavia da determinare – il
punto d’arrivo di quella stessa decostruzione. La risposta giusta
è ovviamente quest’ultima: pensare la metafisica a partire dall’idea di «governo dell’arché» implica, viceversa, la necessità di
chiarire il modo in cui il tema del politico si pone dentro la metafisica e fuori di essa.
Partire dal politico per pensare la fine della metafisica e, al
tempo stesso, ripartire dalla fine della metafisica per pensare il
politico: in Dai principi all’anarchia, l’obiettivo teorico di
Schürmann sta tutto in questo doppio ruolo per il quale, da
una parte, le categorie del politico aiutano a mettere a fuoco il
funzionamento della storia epocale; e, dall’altra, lungo il confine della metafisica è la stessa nozione del politico ad assumere
un nuovo significato. Ed è un nucleo in cui, sempre più esplicitamente, la questione del politico vale come pars pro toto di un
discorso più generale: quello dei rapporti tra la filosofia prima e
le filosofie seconde.
2. «Dislocazioni anarchiche»
Intesa in una chiave così formale, l’attenzione al dominio del
politico porta insomma con sé una conseguenza immediata, che
consente a Schürmann di non arrestarsi al livello di una (banale)
sintomatologia della fine della metafisica. Per dirla ancora con le
sue parole, si tratta dell’obiettivo di «mostrare ciò che accade
del vecchio problema dell’unità tra pensare e agire, una volta
che ‘pensare’ non significhi più assicurarsi un fondamento razionale sopra il quale disporre l’insieme di ciò che è conoscibile e,
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d’altra parte, ‘agire’ non significhi più conformare le proprie iniziative quotidiane, tanto pubbliche che private, al fondamento
così stabilito» (Schürmann 1995: 23). In altri termini, per Schürmann «si tratta di sollevare la questione tradizionale del rapporto tra teoria e pratica, così come essa risulta però in base all’ipotesi di Heidegger secondo cui la razionalità metafisica produce
la propria stessa fine» (Schürmann 1995: 23).
Si apre in questo modo tutto un altro versante del discorso,
in base al quale Schürmann individua nella dipendenza tra filosofia prima e filosofie seconde la forma concreta in cui si
esercita il governo metafisico dell’arché. In tale relazione è infatti all’opera l’idea che il principio – ovvero il primum captum,
dentro un dato ordine del mondo – innervi di sé il reale attraverso livelli di mediazione successivi: livelli che la metafisica
asseconda con precisione, secondo la tipica metafora architettonica dell’edificio del sapere. Ora, se le cose stanno così, è
evidente che la prima incrinatura dell’edificio metafisico va a
toccare proprio la natura e i modi di questa dipendenza: ciò
che la fine della metafisica «interrompe» – Schürmann lo mette in chiaro fin dalle prime pagine di Dai principi all’anarchia –
è insomma il gioco delle «derivazioni tra filosofia prima e filosofia pratica» (Schürmann 1995: 23). E questa messa fuori gioco genera un effetto ben preciso: libera la sfera della praxis dal
suo fondamento.
Lo si potrebbe dire con una formula apparentemente autoreferenziale, ma che in realtà coglie con esattezza il problema.
Per Schürmann è chiaro che l’ipotesi della fine della metafisica
non descrive soltanto il declino del governo dei principi (in primis, il principio che pone l’uomo al centro dell’edificio metafisico) ma, al tempo stesso, la fine del principio del governo. Il
che conduce a una serie di conseguenze teoriche che possono
essere raccolte sotto il titolo di «dislocazioni anarchiche»,
espressione con cui Dai principi all’anarchia intende la necessità
di tratteggiare con precisione le modificazioni, gli spostamenti
semantici, le distorsioni che la costellazione concettuale dell’arché subisce in questo passaggio.
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Si tratta, da una parte, della più ovvia variazione sul tema
della Verwindung heideggeriana, di cui la distorsione è non a
caso uno dei sensi principali (cfr. per es. Vattimo 1985: 179189). Ma dall’altra c’è, in Schürmann, un’attenzione quasi archeologica per i modi e le forme in cui la decostruzione del
principio del governo avviene in concreto. Sono le pagine suggestive che Dai principi all’anarchia dedica alla decostruzione dei
modelli sostanzialisti dell’agire, dalla Fisica di Aristotele in poi,
e agli spostamenti semantici che la nozione di origine subisce
nelle lingue della filosofia occidentale (capp. V-VIII). Un percorso affascinante, appunto, che però va pensato in funzione di
un obiettivo specifico: quello che Schürmann sintetizza nella
nozione di «a priori pratico».
Chiarire che cosa Dai principi all’anarchia intenda con questa
formula è piuttosto semplice, almeno in termini generali. Se la
fine del governo metafisico dei principi rappresenta la liberazione della sfera della praxis dalla theoria, la tesi di Schürmann
è che tale processo capovolga interamente l’ordine delle precedenze tra i due termini, finendo per trasformare la praxis nella
condizione stessa della theoria. Ecco l’altro significato fondamentale della priorità del pratico, nel senso lato che abbiamo
visto e che include anche l’intero dominio del politico. Se, in
primo luogo, il politico è la lente d’ingrandimento che consente
di leggere la struttura profonda della metafisica, come governo
dei principi, in secondo luogo la delegittimazione di tale governo appare a Schürmann un passaggio nel quale è la stessa scansione praxis/theoria a perdere il suo senso. Con termini che non
sono di Schürmann, ma che rendono a sufficienza l’idea, nel
primo caso il primato del politico (o, per metonimia, del pratico) è di tipo epistemologico; nel secondo caso, la sua priorità è
per così dire di tipo strutturale.
Inizia così un lungo percorso, all’interno della riflessione di
Schürmann, che ovviamente non possiamo ricostruire in dettaglio e che ha tra i suoi riferimenti fondamentali non soltanto
Heidegger, ma anche la tradizione della mistica renana, a partire da Meister Eckhart. A questo livello, in realtà, le cose si com-
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plicano parecchio, soprattutto per via delle implicazioni che il
rimando alla mistica ha avuto nella storia della ricezione di Heidegger: un richiamo che spesso si è esercitato nel senso di pensare la fine della metafisica del soggetto come la possibilità di
riportare alla luce strati dell’esperienza più originari, precedenti alla caduta nel dominio della soggettività. Per lo più, associare il tema della fine della metafisica a quello rappresentato dalla
tradizione mistica ha insomma avuto il significato di accentuare
la connotazione auratica del pensiero del tardo Heidegger; il
che ha condotto a esiti che certamente non hanno contribuito a
scioglierne le oscurità.
In realtà, l’intenzione di Schürmann è molto differente e si
chiarisce in un percorso articolato, evidente già nel suo commentario ai sermoni tedeschi di Eckhart, Maestro Eckhart, o la
gioia errante, pubblicato nel 1972. Qui l’obiettivo è misurare la
distanza del modello eckhartiano dalla metafisica tomista dell’analogia entis: una tesi piuttosto classica, nella storia delle interpretazioni della mistica renana, che però nel caso di Schürmann muove soprattutto dall’identificazione di quella che, con
un anacronismo voluto, si definirebbe l’«ontologia» di Meister
Eckhart, ovvero la specifica comprensione dell’essere che i sermoni tedeschi implicitamente disegnano. Schürmann parla in
questa chiave di un’ontologia che non è minimamente riconducibile a un modello sostanzialista: e questo allontanamento avviene – al pari di ciò che accade in Heidegger – nel senso di accentuare di contro la sua portata «evenemenziale», la sua caratterizzazione in termini di evento.
I dettagli della questione sarebbero di grande interesse filologico e – nella lettura che ne dà Schürmann – convergono tutti
sul problema dell’unità tra il fondo dell’anima e il fondo di
Dio, ovvero sul punto d’arrivo dell’ascesi mistica: è proprio
questo traguardo, infatti, a non poter essere pensato attraverso
l’idea di un’identità tra sostanze, se non incorrendo in una serie
di contraddizioni che renderebbero insostenibile l’intero modello di Eckhart. Quando parla dell’unità tra il fondo dell’anima e il fondo di Dio – questa è la tesi di Schürmann – Meister
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Eckhart sembra accentuare piuttosto la sua dimensione processuale: prima che di un’identità tra i due termini, si dovrebbe
parlare di una loro identificazione, ovvero di una dinamica che
porta a sovrapporsi due determinazioni altrimenti irriducibili.
All’apice del distacco mistico, Dio e l’anima sono sì una cosa
sola. Ma tale unità non rimanda in nessun caso a una qualche
identità di sostanze: è effettivamente un’unità di altra natura,
che può essere compresa solo come un evento.
Ma la discussione filologica, che pure resta aperta, è soltanto
un aspetto del discorso di Schürmann. L’altro elemento decisivo è, per così dire, di ordine metodologico. Se nei sermoni tedeschi di Eckhart si può parlare di una comprensione dell’essere irriducibile al modello tomista, essa risulta infatti inscindibile
dal contesto retorico nel quale si colloca: e tale contesto ne fa
appunto il risultato di un percorso ascetico, di un cammino di
apprendimento delle condizioni alle quali l’unità evenemenziale tra l’anima e Dio si realizza. In altri termini, in Eckhart una
determinata comprensione dell’essere non sembra essere la trascrizione di uno stato di cose già dato, ma il risultato di una serie di condizioni extra-teoriche che la rendono possibile. E se
l’ascesi è la via attraverso la quale si manifesta una nozione di
identità di tipo non metafisico, ciò significa che la rottura di
Meister Eckhart con l’analogia entis è sottoposta a un unico,
ma decisivo presupposto: quello che descrive i vincoli praticoesistenziali secondo i quali tale modello si realizza.
Ora, nel discorso di Schürmann è fondamentale notare che il
modello di Eckhart – con le conseguenze di cui stiamo dicendo
– non rappresenta affatto un unicum nella storia del pensiero
occidentale e che il primato di una determinata disposizione
dell’esistenza rispetto all’indagine filosofica trova altri esempi
concreti. Esempi dei quali si potrebbero ricostruire i dettagli,
dal thaumazein di Socrate in poi, ma di cui in effetti a Schürmann interessa evidenziare la presenza in Heidegger. L’evoluzione interna al lessico heideggeriano fa sì che questa ricostruzione non sia così immediata; è però chiaro che il nocciolo del
problema sta tutto nel tema dell’autenticità, ossia – secondo le
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parole di Schürmann – nell’idea che «una trasformazione pratica dell’esistenza [abbia] una priorità sistematica nei confronti
della sua analisi ‘filosofica’» (Schürmann 1995: 463). È il cuore
dell’«accusa» di Heidegger alle ontologie di stampo metafisico,
che per converso fa perno sulla tesi secondo cui «il recupero
della questione dell’essere non potrà riuscire che a condizione
di essere preceduto da quella che [Heidegger] chiama una modificazione esistenziale» (Schürmann 1995: 462). E non è un
caso che in tal senso il riferimento più ovvio in Essere e tempo
sia proprio, fin dall’esergo, al thaumazein, all’imbarazzo prefilosofico nei confronti del problema dell’essere.
Sotto questo profilo, l’analitica esistenziale e gran parte del
percorso successivo di Heidegger appaiono a Schürmann come
una serie di ridefinizioni dei confini reciproci tra la dimensione
prefilosofica dell’esistenza e le sue conseguenze filosofiche. Sono rimodulazioni che prendono nomi via via differenti: e se in
Essere e tempo le cose stanno come abbiamo visto, nel tardo
Heidegger la questione si ripropone attraverso la nozione di abbandono. È l’obiettivo di Identità e differenza e degli altri testi
heideggeriani degli stessi anni, in cui il tema della Gelassenheit
si incrocia con la riflessione sull’anti-umanismo, in termini
spesso complessi, ma il cui senso è chiaro. Ciò che Heidegger
intende descrivere per questa via è infatti il rapporto di coimplicazione reciproca tra l’abbandono – inteso come capacità di
allentare la «presa» sulle cose, che caratterizza per esempio
l’«età della tecnica» – e l’apertura a una dimensione ontologica
più originaria – quella che nel lessico di Heidegger si esprime
nella coappartenenza tra Er-eignis ed Ent-eignis.
Proviamo a chiarire meglio quest’aspetto, che è cruciale per
definire il rapporto tra il prefilosofico e il filosofico, che qui ci
interessa. Posto che in Heidegger il modello dell’Ereignis funzioni come fulcro per la sua critica della metafisica fondazionalista, l’obiettivo teorico della fase avanzata della sua riflessione
sta nel tentativo di riempire di contenuti tale nozione – di darne, in qualche modo, una definizione. E in questo quadro la
formalizzazione meno scontata è quella che connota l’evento
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come l’origine tramite la quale si squaderna una determinata
epoca della storia della metafisica: attraverso l’evento – qui sono ancora i tecnicismi del linguaggio heideggeriano a parlare –
gli enti si dispongono in un contesto di significati che chiamiamo mondo; ovvero sono «lasciati essere», nel senso letterale del
termine Gelassenheit, a partire da un principio che tuttavia non
li fonda. Nello Heidegger riletto da Schürmann il riferimento,
che per altra via potrebbe apparire oscuro, alla Gelassenheit come lasciar essere è dunque funzionale a enfatizzare la natura
«infondata» dell’essere: ovvero il fatto che alle spalle della storia epocale non vi sia un principio di determinazione delle epoche, ma un processo di mera «presentificazione», proprio nel
senso della «venuta alla presenza».
Ora, non si capirebbe il senso di questa ripresa dell’ultimo
Heidegger, anche nei suoi connotati meno facilmente dominabili, se non si rilevasse un dato che per Schürmann è fondamentale: un dato che è anche il vero nodo in cui sta o cade il
tentativo di far parlare Heidegger in chiave etico-politica. Si
tratta del rilievo per cui in Heidegger questo lessico del lasciar
essere, inteso come determinazione fondamentale dell’evento,
si riverbera a più riprese sul piano storico-concreto. E lo fa in
un senso che anziché abolire l’umano – come sarebbe in una
lettura troppo semplicistica dell’anti-umanismo – lo risemantizza. L’umano non si riduce insomma a un residuo metafisico del
quale liberarsi, al pari degli altri: ciò che si tratta di fare, semmai, è ricollocarlo (dislocarlo, come si diceva), su un piano differente, quello che si apre nel momento in cui si inizia a pensare all’essere come evento e come storia epocale.
Prima che in qualunque altro senso, questa dislocazione avviene in effetti dal punto di vista lessicale. E, fuori da ogni altra
premessa, si realizza attraverso il trasferimento dello stesso apparato nozionale del lasciar essere al livello dell’umano. Quando in Identità e differenza Heidegger parla di «un salto» attraverso il quale si esperisce l’identità tra uomo ed essere, nella
forma del loro «coappartenere» (cfr. Heidegger 2009: 48-49) si
riferisce esattamente a quest’insieme di problemi: in primo
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luogo, al fatto che la fine della metafisica sia una rottura paradigmatica rispetto all’epoca che la precede; e, in secondo luogo,
all’idea che tale rottura si svolga contemporaneamente sui due
piani dell’essere e dell’umano. La fine della metafisica impone
insomma all’uomo di realizzare «un salto, che si stacca dall’essere in quanto fondamento dell’ente», di lasciar andare il fondamento (Heidegger 2009: 48). Ecco il senso di questo sconfinamento del lessico dell’evento sul terreno dell’umano. Una sovrapposizione di cui Schürmann parla in termini non equivoci:
«Tramite il nostro abbandono e solo in base ad esso, noi siamo
‘fatti partecipi’ (eingelassen) di quell’altro abbandono – identico
e differente al tempo stesso dal nostro – che è l’evento del venire alla presenza» (Schürmann 1995: 461). All’uomo è richiesta
la capacità di rideterminare il proprio rapporto con il mondo,
in primis quello che si svolge all’insegna dei dispositivi tecnici di
dominio dell’oggettività; e questa rideterminazione diventa la
via d’accesso per rivoluzionare le categorie attraverso le quali la
filosofia pensa abitualmente i propri temi. Il che, da una parte,
traccia una linea di continuità potente con l’analitica esistenziale di Essere e tempo, in virtù della quale la centralità del problema dell’autenticità non è abbandonata, ma semplicemente rimodulata. E, dall’altra, sottopone il discorso sulla fine della metafisica al vincolo di ordine extrateorico di cui dicevamo. Alla
base della comprensione evenemenziale dell’essere è dunque all’opera una sorta di imperativo pratico – quello di cui Identità e
differenza parla nei termini di un «salto», o di un «abbandono»
del regime dei principi – che è «necessario a comprendere l’altro abbandono, quello non umano, grazie al quale il venire alla
presenza offre le sue economie» (Schürmann 1995: 461). Tutta
la centralità del tema dell’autenticità, in Essere e tempo, si comprende pienamente solo alla luce di questa dislocazione dei rapporti reciproci tra praxis e theoria, che Schürmann recupera da
Meister Eckhart: come in Eckhart il distacco dell’anima dal
commercio intramondano è la premessa per dichiarare l’insufficienza dell’analogia entis, così in Heidegger l’autenticità, la Gelassenheit e l’anti-umanismo compongono una triade solidale
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Poteri fluttuanti
nell’identificare le condizioni (pratiche) alle quali la Verwindung
della metafisica occidentale si può realizzare.
Non si troverà in Schürmann, e tanto meno in Heidegger,
una formalizzazione della praxis «post-metafisica» più concreta
di questa, né sarebbe forse immaginabile. Ciò che resta imprescindibile è semmai l’idea che il governo dei principi sia anzitutto una questione di praxis, che la metafisica sia – prima di
ogni altra cosa – un comportamento, un atteggiamento pratico,
che infine «senza una praxis anarchica, il deperimento dei principi [sia] destinato a restare ‘solo teoria’» (Schürmann 1995:
473). La convinzione di Schürmann è insomma che la metafisica sia il risultato di un agire che opera in nome di una convinzione precisa: quella secondo cui i principi sono dati una volta
per tutte, come strutture naturali del mondo. Di contro, l’agire
anarchico è un’attitudine in grado di dissolvere tali strutture
naturali, a mostrarne (e a denunciarne) la transitorietà, la definitiva infondatezza.
Quest’attitudine è, per Schürmann, immediatamente politica, nel senso che si è visto: un agire politico nel quale non c’è
più spazio per il soggetto come individualità particolare. Ma
ciò che resta a valle di questa scelta è una vicenda tutta nuova:
quella della risemantizzazione dell’umano dopo l’umano, inteso
come una variabile all’interno delle fluttuazioni anarchiche della storia.
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