Curriculum vitae di Roberto Garaventa, nato a Genova, il 1.3.1951 Ottobre 1974: laurea in Filosofia (110/110 e lode); Dicembre 1976: laurea in Storia (110/110 e lode); Maggio 1976: Abilitazione in Scienze umane (negli istituti magistrali), in Scienze umane e storia (nei licei) e in Materie letterarie (nelle medie inferiori); Ottobre 1976-Febbraio 1978: borsista del Deutscher Akademischer Austauschdienst presso l’Università di Tübingen, Germania; 1978-1984: insegnante d’italiano nei corsi di lingua e cultura italiana organizzati dal Consolato Generale d’Italia di Stoccarda, Germania; 13.1.1985-30.6.2001: ricercatore presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti; 2.11.1987-31.8.1994: in posizione di comando a disposizione del Ministero degli Affari Esteri, come addetto culturale presso l’Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda, Germania; 1991/92-1994 (6 semestri): incarico di insegnamento in Filosofia presso l’Istituto di Filosofia dell’Università di Stoccarda, Germania; 1.7.2001-31.3.2006 professore associato di “Storia della filosofia contemporanea” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Chieti; Dal 1.4.2006 professore ordinario di “Storia della filosofia contemporanea”, prima presso la Facoltà di Scienze sociali, poi presso la Facoltà di Scienze della formazione, attualmente presso il Dipartimento di Scienze filosofiche, pedagogiche ed economico-quantitative dell’Università di Chieti. 1 Novembre 2010-30 Giugno 2012: Direttore del Dipartimento di Filosofia, Scienze umane e Scienze dell’educazione (Università «G. d’Annunzio» di Chieti-Pescara). Coordinatore del Dottorato di ricerca in “Studi umanistici” (Università «G. d’Annunzio» di ChietiPescara). Presidente della “Società Italiana per gli Studi Kierkegaardiani” (SISK) Co-direttore della rivista “Itinerari; Co-direttore della rivista “NotaBene. Quaderni di studi kierkegaardiani”, Membro della “Ernst-Troeltsch-Gesellschaft” …………….. Il mio primo lavoro di un certo peso è stata un’analisi del pensiero di Wilhelm Weischedel, autore che ha cercato di affrontare i problemi di Dio e dell’etica nell’età del nichilismo, sulla scia di Heidegger e Jaspers, da un punto di vista non confessionale: Nichilismo, teologia ed etica. Saggio su Wilhelm Weischedel, Milella, Lecce 1989, pp. 211. Secondo questo pensatore, in una temperie spirituale caratterizzata dal nichilismo e dallo scetticismo, dal relativismo e dal cinismo, il filosofo che voglia continuare a meditare criticamente su teologia ed etica, non può rifarsi a sistemi o metafisiche del passato, ma deve farsi carico fino in fondo delle contraddizioni del suo tempo, per vedere se, da un lato, sia ancora possibile un discorso su Dio che, pur senza perdere il contatto coi dati dell’esperienza umana immediata, non abdichi alla ragione, rimettendosi magari totalmente ad una rivelazione storico-positiva; dall’altro, se si possano ancora razionalmente fondare norme concrete per l’agire del singolo e della società. Successivamente la mia attenzione si è concentrata su due fenomeni dell’esistenza umana che rivelano e contrario la costitutività della domanda di senso dell’uomo (il suicidio, la noia), nonché sul modo diverso di vivere e pensare l’evento della morte nella cultura occidentale degli ultimi due secoli. Ne sono scaturiti tre volumi idealmente affini. Anzitutto Il suicidio nell’età del nichilismo: Goethe, Leopardi, Dostoevskij, Angeli, Milano 1994, pp. 267. In esso ho cercato di mostrare come il suicidio sia stato generalmente considerato, nella storia del pensiero occidentale, o come un peccato contro Dio e un crimine nei confronti dello stato, o come il sintomo di una condizione patologica dell’organismo, della psiche o della società. Esso tuttavia, se pure trae origine da situazioni di conflitto, di sofferenza e di disperazione, e quindi di autonomia decisionale fortemente condizionata, è anzitutto un problema metafisico-religioso, in quanto connesso con gli interrogativi filosofici ultimi: quelli concernenti il senso dell’esistere. Ciò è apparso chiaro in particolare in seguito al radicalizzarsi del problema del senso con l’avvento dell’età del nichilismo. Nel Rinascimento e nell’Illuminismo, infatti, il suicidio era visto ancora, come in genere nell’antichità classica e veterotestamentaria, quale ragionevole e legittima reazione ad una specifica situazione di crisi di senso apparentemente senza vie d’uscita, nel contesto tuttavia di una «visione del mondo» ancora sostanzialmente positiva. Con la morte di Dio il suicidio appare, invece, come la possibile risposta all’esperienza dell’insensatezza del reale, come la conferma di un giudizio negativo sul mondo, come la forma estrema di rifiuto del male dell’esistere. Di qui l’importanza dei tre autori fatti oggetto di analisi in questo libro, nei quali centrale è, al di là delle differenze d’impostazione, la tematizzazione del suicidio per noia, tedio o indifferenza. In secondo luogo La noia. Esperienza del male metafisico o patologia dell’età del nichilismo?, Bulzoni, Roma 1997, pp. 364. In esso ho cercato di mostrare come la noia non sia solo quella tonalità affettiva che ci assale occasionalmente (ad esempio aspettando la coincidenza di un treno o di un aereo in ritardo) e di cui tutti abbiamo già fatto in qualche modo esperienza, ma come esista anche una noia più profonda e radicale, estremamente difficile da rimuovere o eliminare, che può nascere o dal disgusto per la monotonia della vita di tutti i giorni o dal presagimento dell’incompiutezza ed enigmaticità della realtà umana in generale o ancora dalla percezione della (apparente?) mancanza di senso dell’esistenza nella sua globalità. Sensore ontologico-metafisico privilegiato, all’interno della società del benessere, nel rivelare in modo immediato e preriflessivo la negatività inscritta nelle strutture ultime del reale, la noia esistenziale sembra però essere, da un lato, un fenomeno costitutivo dell’esistere (oscillatoriamente pencolante tra attività ed ozio, tra dolore e noia, tra impegno e pigrizia); dall’altro, l’epifenomeno di un’età (quella del nichilismo) caratterizzata non solo da un’ipertrofia della coscienza, ma soprattutto dall’esperienza della morte di Dio o dell’inattingibilità dell’Infinito. L’importanza esistentiva, letteraria e filosofica che, nel corso della storia d’occidente, hanno rivestito stati emotivi ad essa affini (come la melancolia nella Grecia antica e nel Rinascimento europeo, il taedium o fastidium vitae nell’antichità romana, l’acedia nel Medioevo cristiano, lo spleen e l’ipocondria nel Settecento e nell’Ottocento europei, l’oblomovismo nella Russia del XIX secolo), parrebbe tuttavia confortare l’ipotesi che la noia sia solo una manifestazione particolare di quel “male di vivere”, di quel “mal-essere” che, anche se diversamente connotato nelle varie epoche storiche, è un tratto di fondo dell’esistenza umana. Infine Esperienza della morte, senso dell’esistenza. impegno etico. Aspetti e problemi della tanatologia filosofica contemporanea, Troilo, Bomba 1999, pp. 255. In questo testo ho cercato di mostrare, partendo da un’analisi della tragicità del dominio del tempo, come la tanatologia filosofica degli ultimi due secoli presenti delle caratteristiche peculiari rispetto a quella del passato, tanto che si può parlare di una sua «immanentizzazione» o «inversione». Se nel pensiero greco e cristiano – e quindi nella tradizione filosofica occidentale fino a Kant – l’esperienza del morire era soprattutto occasione per un’indagine e una riflessione circa la possibilità di una sopravvivenza del singolo post mortem (resurrezione del corpo e/o immortalità dell’anima), negli ultimi due secoli, con la crisi della metafisica e lo sviluppo delle scienze, la morte ha finito per essere considerata non più tanto come il momento di passaggio ad un’esistenza ultraterrena, quanto come un elemento costitutivo ed essenziale del processo biologico e organico della vita. Per questo la tanatologia filosofica più recente ruota attorno ad una serie di tematiche e problematiche nuove e specifiche: il fenomeno culturale e sociale della rimozione della morte, la proposta di una melethe thanatou come ars vivendi, il rapporto tra potere economico-politico e sviluppo tecnico-scientifico da un lato e possibilità dello sterminio, del genocidio e dell’olocidio burocraticamente amministrati dall’altro, l’importanza della morte dell’altro rispetto alla mia morte per la comprensione dell’abissalità del morire, il suicidio come possibile risposta specificamente umana all’esperienza della problematicità dell’esistere. L’«immanentizzazione» della tanatologia non è però riuscita ad eliminare completamente la speranza utopica in un superamento escatologico della morte, ma la riflessione filosofica contemporanea più attenta – non disposta a rimuovere come «senza senso» le questioni ultime dell’esistenza, ma al contempo lucidamente consapevole dei limiti intrinseci ad ogni sforzo conoscitivo umano -, più che riprendere prospettive metafisiche del passato, si è concentrata soprattutto sull’analisi della «velatezza» enigmatica e misteriosa dell’evento estremo, nonché sull’ambiguità del nulla che in esso si apre. Nel contesto di una riflessione sul religioso come dimensione costitutiva dell’esistenza, nonché sulle trasformazioni cui la fede cristiana è andata incontro nel mondo moderno secolarizzato, ho poi pubblicato un volume su uno dei maggiori rappresentanti della Liberalität in religione: Ernst Troeltsch (Religione e modernità in Ernst Troeltsch, Luciano, Napoli 2004, pp. 341) - sicuramente una delle personalità più poliedriche all’interno del complesso panorama intellettuale di lingua tedesca tra Ottocento e Novecento, la cui opera spazia dalla teologia dogmatica alla filosofia della religione, dalla sociologia alla storia del cristianesimo, dall’etica alla politica, ma ruota soprattutto intorno al conflitto tra “la pretesa di valere astoricamente e incondizionatamente”, che ogni valore etico-religioso avanza, e “la condizionatezza e storicità del suo darsi”, che la ricerca storica evidenza (conflitto che è poi il tema centrale dello storicismo tedesco, di cui Troeltsch è stato uno degli ultimi grandi esponenti). Questo lavoro – che muove dalla convinzione che l’itinerario di pensiero troeltschiano, al di là degli spostamenti di prospettiva che lo contraddistinguono, mostri una sostanziale continuità per quanto concerne sia l’impostazione metafisica di fondo (idealistico-dualistica e teistico-personalistica), sia il rapporto con lo storicismo ottocentesco (rifiuto della logicizzazione hegeliana della storia, attenzione per l’individualità dei fenomeni storici, utilizzo rigoroso del metodo storico, pur nella conservazione dell’idea di sviluppo), sia la tesi, di ascendenza schleiermacheriana, dell’autonomia della religione nei confronti tanto della naturalità psicofisica quanto delle altre dimensioni dello spirito umano, sia la disponibilità a discutere in maniera critica i risultati raggiunti dalle scienze storiche e naturali in epoca moderna - si articola in sei capitoli che affrontano tematiche differenti: il conflitto tra fede e storia, la metafisica dello spirito e l’autonomia della religione nel primo Troeltsch, lo scollamento tra storiografia e dogmatica nella teologia del XIX secolo, il rapporto tra dottrina della fede e pensiero moderno, la concezione troeltschiana dell’uomo e del male e, infine, la situazione delle chiese cristiane di fronte alla crisi religiosa del tempo. Il mio interesse per la dimensione religiosa dell’uomo mi ha inoltre spinto a lavorare sulla filosofia della religione di Hegel. Oltre ai saggi: Religione e filosofia in Hegel (in Filosofi della religione, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 221-247), Le «Lezioni di filosofia della religione» di Hegel come momento di disputa filosofico-teologica e confronto politico-ecclesiale (in Filosofia e storiografia. Studi in onore di Giovanni Papuli. III.1. L’età contemporanea, a cura di M. Castellana, F. Ciraci, D.M. Fazio, D. Ria, D. Ruggieri, Congedo, Galatina 2008, pp. 353-371), La religione nella «Fenomenologia dello spirito» di Hegel (in Quid animo satis? Studi di filosofia e scienze umane in onore del Prof. Luigi Gentile, a cura di U. Galeazzi e D. Bosco, Aracne, Roma 2008, pp. 221-237), La religione della magia nelle «Lezioni di filosofia della religione» di Hegel (in Logica, ontologia ed etica. Studi in onore di Raffaele Ciafardone, a cura di D. Bosco, R. Garaventa, L. Gentile, C. Tuozzolo, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 341-355), La religione cinese in Hegel (in «Itinerari», 2, 2013, pp. 91-116), ho curato (insieme a S. Achella) e introdotto la traduzione italiana dei tre volumi dell’edizione Jaeschke delle Lezioni di filosofia della religione di Hegel (Guida, Napoli 2003-2008-2011). Ho anche dedicato particolare attenzione al tema dell’angoscia (Angoscia, Guida, Napoli 2006) condizione affettiva fondamentale dell’esistenza umana, che assale l’individuo (lasciandolo solo con se stesso) nelle situazioni più diverse: quando deve decidere del proprio futuro, scegliendo liberamente e responsabilmente fra molteplici possibilità, ma anche quando è costretto a fare i conti con i suoi limiti e le sue colpe, con i pericoli e le insidie della vita, con i momenti di solitudine e d’incomunicabilità, con l’(apparente?) assurdità dell’esistere, con la coscienza del proprio destino di caducità e di morte. Questo lavoro scandaglia il ruolo centrale che questa polivalente “parola-chiave” della filosofia ha avuto non solo nei grandi rappresentanti della tradizione esistenzialistica (Kierkegaard, Heidegger, Jaspers, Sartre), ma anche in ambito psicoanalitico (Freud) e teologico (Tillich, Drewermann), nonché nella discussione sull’aggressività umana (Fromm) e sulle potenzialità distruttive della tecnocrazia (Jonas, Anders). Successivamente mi sono soffermato sul rapporto tra angoscia e peccato in Kierkegaard: Angoscia e peccato in Søren Kierkegaard, Aracne, Roma 2007. Questo lavoro analizza, collocandoli nel loro contesto storico-culturale, i principali temi affrontati da Søren Kierkegaard ne Il concetto dell’angoscia (1844): il nesso angoscia-libertà-peccato nel momento della scelta (del salto), nel momento cioè in cui il singolo individuo è chiamato a decidere responsabilmente della sua esistenza; la necessità di riscoprire l’importanza del tema del peccato nelle sue varie figure (peccato d’origine, peccato ereditario, peccato attuale) in una cultura (illuministica prima, romantica poi) in cui esso sembra essere caduto in oblio; la pluralità delle forme di angoscia di cui l’individuo è preda nel corso della sua vita (angoscia del nulla, del male, del bene, della sessualità, del finito); il rapporto tra scelta di vita e preoccupazioni quotidiane in una cristianità neo-pagana; il carattere demoniaco di numerosi aspetti della società moderna; l’importanza della fede come alternativa alla disperazione in cui finisce ineluttabilmente per cadere l’individuo peccatore. In Sofferenza e suicidio. Per una critica del tradizionale approccio cristiano al problema del dolore (Il melangolo, Genova 2008), ho analizzato criticamente il modo in cui il pensiero cristiano tradizionale interpreta l’esperienza del dolore fisico (conseguenza di una colpa commessa = poena peccati e/o occasione per dar prova della fede professata = probatio fidei), attribuendogli una funzione fondamentalmente pedagogico-provvidenziale – una concezione della sofferenza, che segna pesantemente anche l’attuale dibattito sul testamento biologico e il suicidio assistito e che appare per più aspetti estremamente problematica (anche da un punto di vista cristiano). In questo volume ho toccato in particolare i seguenti problemi: l’assenza nella Bibbia di una condanna esplicita di suicidio ed eutanasia; l’influenza decisiva dell’Agostino antidonatista nella tabuizzazione (teologica, legislativa e cultuale) del fenomeno suicidale nella nostra cultura; la differente valutazione che del suicidio hanno dato le diverse epoche della storia dell’occidente (antichità, medioevo, rinascimento, illuminismo, contemporaneità); la presenza, nel dibattito filosofico sul tema, di due concezioni opposte ma complementari del suicidio: atto razionalmente ponderato e liberamente voluto da un lato, risultato conclusivo di uno sviluppo fondamentalmente patologico dall’altro; la svolta impressa dalla sociologia e dalla psicoanalisi (più attente ai fattori condizionanti la personalità del suicida) nell’approccio al gesto autodistruttivo per eccellenza; la decisività dell’orizzonte di senso che sostanzia l’esistenza del singolo individuo, nell’atto di decidere della legittimità o meno del suicidio; la disumanità di quel cristianesimo che, invece di offrire perdono e speranza, condanna e colpevolizza chi, in uno stato di sofferenza senza via d’uscita, è preso dalla tentazione di levar-la-mano-su-di-sé; l’incongruenza dei principali argomenti addotti dal magistero cattolico contro la legittimità dell’eutanasia; la segreta volontà di scagionare il Dio creatore dalla responsabilità di essere all’origine del dolore del mondo, che sottende il tentativo agostiniano e tradizionale di ricondurre la realtà della sofferenza al peccato d’origine, pensato come evento storicamente accaduto. Ho curato il volume Tebe dalle cento porte. Saggi su Arthur Schopenhauer, Aracne, Roma 2010, contenente due miei saggi: Il suicidio secondo Arthur Schopenhauer, pp. 63-73, e Ambiguità ed equivocità del nulla in Arthur Schopenhauer, pp. 99-158, che si soffermano sull’ambiguità del gesto suicidale e sull’equivocità del concetto di nulla in Schopenhauer. Da un lato, egli considera irragionevole il suicidio non perché sia contrario alla legge morale, ai doveri sociali o alla volontà divina, ma perché è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita. Se è vero che solo la noluntas (la rinuncia a volere) consente di raggiungere quella condizione di quiete e tranquillità che i buddisti chiamano “nirvana”, il suicida - che distrugge il suo corpo proprio perché vorrebbe essere felice, ma non ci riesce si lascia sfuggire in modo definitivo questa possibilità. Anzi, a trionfare in lui è in ultima analisi proprio la volontà, che preferisce distruggere il corpo dell’individuo, piuttosto che piegarsi di fronte all’esperienza del dolore. Dall’altro, nel suo capolavoro Schopenhauer sviluppa una me-ontologia in cui ritroviamo tre classiche accezioni del termine “nulla”: il “nulla negativo”, riferito erroneamente, dall’individuo schiavo della voluntas, allo stato di beatitudine e di pace della noluntas; il “nulla qualitativo”, riferito, dall’individuo che ha negato e soppresso la volontà, al mondo della voluntas; e il “nulla religioso”, che designa la condizione impensabile, ineffabile e inesprimibile della negazione della volontà: una condizione mistica di beatitudine e di pace. Ho poi pubblicato i volumi: Religiosità senza dogmi. Ambiguità e prospetticità delle religioni storiche, Orthotes, Napoli 2012, pp. 298. Il libro cerca di rispondere ad alcuni interrogativi di fondo del pensiero metafisico-religioso: Ha senso parlare di una «religiosità» costitutiva dell’uomo? Non è forse vero che ogni singolo individuo è strutturalmente «aperto» a un «orizzonte ultimo di senso» che, nel corso della storia, è stato definito in guise diverse: Divino, Eterno, Trascendenza, Bene? Le religioni storiche con i loro messaggi sotericoredentivi non sono, al pari delle utopie sociali con i loro ideali di giustizia, tentativi storicamente e culturalmente determinati di dar corpo e figura a tale esperienza del Divino, dell’Eterno, della Trascendenza, del Bene? E non è proprio alla luce di tale «orizzonte ultimo di senso» che la realtà naturale e umana, così come la conosciamo, ci appare tragicamente segnata da una negatività radicale, da un «male metafisico» irredimibile per buona volontà umana, di cui i singoli mali fisici, morali, sociali, psico-esistenziali non sono che la concreta manifestazione? Certo è che il riconoscimento della costitutività di una «dimensione religiosa» dello spirito umano potrebbe favorire non solo un confronto più proficuo tra credenti e non-credenti impegnati nella lotta per una società più giusta e più solidale, ma altresì un dialogo autentico tra le religioni universali, di cui è necessario disinnescare le potenzialità aggressive e distruttive connesse alla pretesa «assolutistica», da loro avanzata, di possedere l’unica, vera rivelazione di Dio. Le religioni sono, infatti, fenomeni profondamente ambigui, soprattutto laddove non accettano di riconoscere la prospetticità della loro verità (il fatto, cioè, che la loro rispettiva immagine di Dio è solo una «traccia» o una «cifra» della Trascendenza) e non operano decisamente in controtendenza rispetto alla logica crudele, impietosa ed egoistica del mondo. Indice. I: Ambiguità delle religioni storiche; II: Quale Dio? Quale religione?; III: È veramente possibile un dialogo tra le religioni universali? Consenso etico e apriori religioso; IV: Il prospettivismo religioso: un’alternativa al relativismo della cultura postmoderna e all’assolutismo delle religioni rivelate; V: Dio e il male. La questione della teodicea; VI: La crisi delle teodicee; VII: Tratti religiosi nel pensiero di Giacomo Leopardi; VIII: Felicità e ricerca di senso. Per una riforma radicale della chiesa. Con Hans Küng oltre Joseph Ratzinger, Orthotes, Napoli 2013, pp.111. Scritto dopo le improvvise, ma non del tutto inattese dimissioni di Benedetto XVI e le sue critiche ai personalismi e ai conflitti esistenti all’interno della curia romana, il volume si sofferma sulle proposte ripetutamente avanzate dal noto teologo dissidente svizzero Hans Küng per far uscire la chiesa cattolica dalla grave crisi che sta attraversando, nonché sulla sua lucida messa in discussione della presunta «immutabilità» della tradizione cattolica. Una riforma della chiesa che guardi al messaggio cristiano originario, ma anche ai compiti da affrontare al presente, non può, però, non implicare altresì una valutazione critica della teologia tradizionale. Di qui l’importanza di ricostruire il dibattito innescato da Küng nei confronti sia del suo antico maestro Karl Barth che del suo ex-collega tubinghese Joseph Ratzinger. Indice. I: Immutabilità o storicità della tradizione cattolica? II: Hans Küng a confronto con Joseph Ratzinger; III: Hans Küng a confronto con Karl Barth. Rileggere Kierkegaard, Orthotes, Napoli-Salerno 2014, pp. 186 A poco più di duecento anni dalla nascita di Kierkegaard (5 maggio 1813), questo volume si propone di rileggere alcune delle questioni centrali affrontate dal pensatore danese lungo il suo itinerario di pensiero: il difficile e controverso rapporto con la cristianità borghese di Danimarca; il carattere indiretto della comunicazione religiosa; il tratto paradossale, se non addirittura assurdo della fede; la noia quale lato notturno della vita ironico-estetica; la logica dei due principali tipi di seduttore; l’ambiguità dell’angoscia quale segno distintivo della libertà umana, ma al contempo fattore predisponente al peccato. L’ultima parte è, invece, dedicata alla recezione di Kierkegaard da parte di alcuni grandi interpreti tedeschi del suo pensiero: Christoph Schrempf, Theodor Haecker, Karl Jaspers, Martin Heidegger. Recentemente mi sono dedicato all’approfondimento del pensiero di Karl Jaspers. Ho pubblicato i saggi Il ruolo della filosofia nel mondo contemporaneo: la lezione di Karl Jaspers, in “Itinerari” 3 (2011), pp. 3-27; Gesù di Nazareth secondo Karl Jaspers: personalità paradigmatica e cifra della Trascendenza, in I volti moderni di Gesù. Arte, Filosofia, Storia, a cura di I. Adinolfi e G. Goisis, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 317-342; Ridestare il pensiero filosofico. Die großen Erwecker nella storia della filosofia di Jaspers, in «Studi jaspersiani» 1 (2013), pp. 341-357; «L’uomo è più di quello che egli sa di sé». Prospettive filosofiche nella psicopatologia jaspersiana, in «Studi jaspersiani» 2 (2014), pp. 237-256; Il carattere demoniaco della tecnica in «Origine e fine della storia», in “Studi Jaspersiani”, 3 (2015), pp.139-165; Zur Rolle der Philosophie in der gegenwärtigen Welt aus der Sicht von Karl Jaspers, in “Jahrbuch der österreichischen Karl Jaspers Gesellschaft“, 28 (2015), pp. 79-95. Ho anche curato il volume: Jaspers, n. 68 della collana “Grandangolo”, Corriere della sera - RCS Media Group, Milano 2015. Nel contesto delle mie ricerche ho infine avuto modo di tradurre e curare testi di G.W.F. Hegel (Lezioni di filosofia della religione, Guida, Napoli 2003-2008-2011), S. Kierkegaard (Accanto a una tomba, Il Melangolo, Genova 1999), E. Troeltsch (Fede e storia, Morcelliana, Brescia 1997; Dottrina della fede, Guida, Napoli 2005), H. Gollwitzer (Legno storto - Incedere eretti. Sul senso della vita, Marietti, Genova 1988), W. Weischedel (Etica scettica, Il Melangolo, Genova 1998), K. Jaspers (La fede filosofica a confronto con la rivelazione cristiana, Orthotes, Napoli-Salerno 2014) e H. Küng (Perché sono ancora cristiano, Marietti, Genova, 1988; Poesia e religione, Marietti, Genova, 1989).