Capitolo 20
L’inflazione e le politiche
anti-inflazionistiche
Politica economica - Introduzione ai modelli fondamentali – R. Cellini
Copyright © 2004 – The McGraw-Hill Companies srl
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L’inflazione misura il tasso percentuale di aumento dell’indice
generale dei prezzi.
L’inflazione può essere un obiettivo di Politica Economica
poiché comporta costi ed inefficienza nell’aggregato
dell’economia.
L’inflazione porta ad una redistribuzione delle risorse poiché non
tutti i beni sono soggetti ad aumenti di prezzo ed eventualmente
non della stessa entità.
Tale redistribuzione può interessare sia diversi settori sia
diverse classi sociali.
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I costi dell’inflazione vengono solitamente suddivisi in costi da
inflazione prevista e costi da inflazione non prevista.
Nel primo caso, gli operatori incorporano nei propri
comportamenti l’aumento di prezzo che immaginano avrà luogo.
Quindi gli effetti negativi saranno limitati poiché previsti.
Nel secondo caso, gli operatori si troveranno al di fuori della
condizione ottimale a causa dell’incertezza che rende i segnali
di prezzi meno chiari.
L’inflazione ha anche ripercussioni nelle relazioni inter-nazionali
di un sistema economico.
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Le politiche di controllo dell’inflazione
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All’inizio del XX secolo capeggiava la teoria quantitativa della
moneta (Fisher, Pigou e la scuola di Cambridge).
Il punto di partenza è l’equazione degli scambi Mv=Py
Il membro di destra è il valore nominale della produzione, il
membro di sinistra rappresenta il valore nominale degli acquisti
come prodotto tra la moneta e la sua velocità di circolazione. Il
valore degli acquisti coincide con il valore delle vendite ed
entrambi sono pari al valore degli scambi.
Pigou reinterpreta l’equazione degli scambi in chiave
comportamentale, M=(Py)/v. La velocità di circolazione della
moneta è usualmente considerata come costante.
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L’equazione degli scambi può anche essere letta in termini dinamici,
˙ + v˙ = P˙ + y˙ dove v in termini dinamici è uguale a zero. Quindi avremo
M
che
˙ " y˙
P˙ = M
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Il tasso d’inflazione è pari alla differenza tra il tasso di crescita della
moneta ed il tasso di crescita della produzione reale.
˙=M
˙ , e quindi, il tasso
P
Quando il reddito reale
è
costante
risulta
che
!
di inflazione è uguale al tasso percentuale di espansione della moneta.
Nel caso in cui la produzione reale vari nel tempo, l’aumento di M può
essere compatibile con l’assenza di inflazione se avviene allo stesso
˙ = y˙ .
tasso in cui aumenta la produzione !
reale M
In conclusione, l’aumento dell’indice generale dei prezzi è da attribuire
al fatto che M cresce più velocemente della crescita della produzione
reale.
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La scuola Keynesiana: l’inflazione da domanda
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I keynesiani ritengono che l’inflazione sia originata dall’eccesso
di domanda. Essi operano in un contesto di prezzi fissi
giustificato dai periodi di deflazione dopo la Grande crisi.
L’inflazione ha luogo a causa di un eccesso di domanda
aggregata dovuto ad un shock che aumenta la domanda o che
riduce l’offerta.
In entrambi i casi, in assenza di aggiustamento dei prezzi, si
avrebbe eccesso di domanda e quindi un aumento dei prezzi.
Tali spostamenti possono essere dovuti, dal lato della domanda,
alla componente autonoma o all’aumento dell’offerta di moneta.
L’inflazione può anche avere cause monetarie (shock positivo di
domanda non finanziata con emissione di moneta).
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L’inflazione secondo il monetarismo
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Il contributo della scuola di Cambridge venne ripreso negli anni
cinquanta dalla scuola del monetarismo (Friedman e la Chicago
School of Economics).
Essi argomentano che l’aumento dell’offerta di moneta è l’unica
vera causa di inflazione e la quantità di moneta in circolazione è
il fattore principale di spiegazione degli andamenti economici.
I monetaristi contestano l’idea che l’inflazione sia causata da un
eccesso di domanda in assenza di espansione monetaria. La
loro tesi si basa sul fenomeno dell’ spiazzamento (crowding-out)
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Ipotizziamo un aumento di G finanziata in deficit senza aumento
di offerta di moneta. Avremo un aumento del tasso d’interesse
di equilibrio ed una diminuzione della domanda di investimento
delle imprese. Quindi l’aumento di una componente della
domanda ha causato la diminuzione di un’altra componente.
Se la politica fiscale espansiva è accompagnata da un aumento
dell’offerta di moneta, quest’ultimo contrasterà l’innalzamento
del tasso d’interesse non dando luogo al fenomeno dello
spiazzamento.
In tale caso, la domanda aggregata aumenta e si avranno spinte
inflazionistiche la cui vera causa è l’aumento dell’offerta di
moneta e non di spesa pubblica.
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La scuola della spinta da costi
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Si parte da tre ipotesi fondamentali:
– I mercati dei beni non sono concorrenziali ed il prezzo viene
fissato dalle imprese
– Nel fissare tale prezzo le imprese utilizzano regole non
massimizzanti quali la teoria della razionalità limitata.
– Utilizzano il criterio del mark-up o del costo pieno che si
ottiene considerando il costo medio della produzione
maggiorandolo di un margine di profitto P=(1+m)Cme=gCme.
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Quindi l’aumento dei prezzi può avere due cause: un aumento
dei margini di profitto delle imprese ed un aumento dei costi
medi di produzione.
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L’aumento del costo medio di produzione dipende dal costo dei
fattori produttivi e dalla tecnologia utilizzata. Consideriamo in
dettaglio il costo delle materie prime ed il costo del lavoro.
Vediamo prima come, a parità di ogni altra variabile, un
aumento del costo delle materie prime si ripercuote sui prezzi.
L’aumento del costo delle materie prime può trarre origine
dall’aumento del costo di tali beni sui mercati internazionali o
dall’apprezzamento della moneta utilizzata nell’acquisto delle
materie prime (dollaro).
Qualunque sia la causa dell’aumento del costo delle materie
prime, l’acquisto di tali beni comporterà inflazione importata.
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Consideriamo ora il caso in cui il costo di tutti i fattori tranne il
lavoro sia costante. Il costo del lavoro per produrre un’unità
aggiuntiva di prodotto (CLUP) è pari a CLUP=WL/Y. Esso può
anche essere scritto come CLUP=W/(Y/L), cioè come rapporto
tra salario nominale e produttività media del lavoro.
Se indichiamo con π=Y/L, possiamo scrivere CLUP=W/π. Quindi
la fissazione del prezzo seguirà la regola,
#W
&
P = g% + altri(
$"
'
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In termini di tassi percentuali di variazione avremo,
!
P˙ = g˙ + W˙ " #˙
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Se ipotizziamo che non varino i margini di profitto delle imprese
avremo che non vi sarà inflazione se i salari nominali
cresceranno allo stesso tasso della produttività media del
lavoro.
Tale risultato rappresenta una regola aurea della politica
economica del lavoro.
– Se i margini di profitto delle imprese non variano e se il
salario nominale cresce allo stesso tasso di produttività
media del lavoro, allora la quota di reddito che va al fattore
lavoro rimane inalterata.
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Dimostrazione della regola aurea
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La quota distributiva del lavoro è pari al monte salari rapportato
al valore del PIL: SL=(WL)/(PY). Tale relazione può anche
essere scritta come SL=(W/P)/(Y/L)=W/(Pπ).
Consideriamo la variazione percentuale, S˙ L = W˙ " P˙ " #˙ se i
salari nominali crescono come la produttività media del lavoro
sappiamo che, a margini di profitto costanti, non vi sarà
inflazione. In tale caso, la regola di concessione di aumenti
!
salariali proporzionalmente all’incremento
di produttività media
del lavoro, oltre a non generare inflazione da costi, mantiene
invariata la quota distributiva di reddito ai lavoratori.
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Si può affermare che gli aumenti salariali possono combattere
l’inflazione posto che non crescano più della produttività media
del lavoro. Se i salari crescono meno della produttività media si
può avere una riduzione della loro quota distributiva.
Se salari nominali e produttività non variano nel tempo, un
aumento dei prezzi causerà una minore quota distributiva per il
lavoro.
L’inflazione è strettamente legata alle dinamiche di conflitto
sociale.
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Inflazione strutturale ed il morbo di Baumol
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Diversa produttività legata ai diversi settori dell’economia.
La dinamica dei salari nominali tra i diversi settori risulta abbastanza
uniforme anche per effetto delle organizzazioni sindacali.
Aumenti salariali che sarebbero giustificati in un settore, quando sono
applicati ad altri settori sono causa di inflazione (strutturale).
Baumol mette in luce come vi siano settori in cui la dinamica della
produttività non è cresciuta e non crescerà nel tempo.
Tuttavia i compensi per chi lavora in tali settori sono cresciuti come
quelli di altri settori comportando un aumento dei costi medi di
produzione.
La soluzione dovrebbe essere un aumento di prezzo reale per i beni
prodotti dai settori a dinamica di produttività assente con l’implicazione
che la domanda per questi beni diverrebbe via via nulla.
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La politica dei redditi
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Rappresenta un tentativo di influenzare la dinamica di prezzi e
salari tramite accordo fra parti sociali accompagnandolo con
specifici impegni da parte del Governo relativamente agli
strumenti di politica economica.
La lotta all’inflazione dovrebbe concretizzarsi nell’impegno da
parte dei lavoratori ad accettare di moderati aumenti salariali
contro l’impegno da parte degli imprenditori di rinunciare ad
innalzare il proprio margine di profitto, ad investire in produttività
e di esprimere un’adeguata domanda di lavoro.
A seconda del ruolo svolto dall’Autorità di politica economica
nelle politiche dei redditi si possono distinguere tre tipi di
politiche
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Politiche dirigiste nel caso in cui il policy-maker intervenga in
maniera autoritaria imponendo tetti o pavimenti ai prezzi fissati
dagli operatori.
Politiche istituzionali in cui il policy-maker partecipi ad incontri
con rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori e le azioni
del Governo siano parte integrante dell’accordo raggiunto fra le
parti sociali.
Politiche di mercato in cui il policy-maker rimanga esterno alle
trattative tra rappresentati dei lavoratori ed imprenditori.
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I vantaggi dell’inflazione
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Redistribuzione tra chi si trova in posizione creditoria e debitoria. Dato
che solitamente le famiglie sono in posizione creditoria e le imprese in
posizione debitoria, l’inflazione produce una redistribuzione in favore
delle imprese.
Anche il settore pubblico si trova solitamente in posizione debitoria.
L’inflazione rende meno gravoso l’onere del debito pubblico.
La deflazione ha effetti opposti rendendo più gravosa la posizione di chi
ha contratto un debito poiché il valore reale della somma da restituire
cresce al diminuire del livello generale dei prezzi.
Tale fenomeno si è verificato in caso di domanda aggregata troppo
bassa e quindi raramente è dovuta a cause monetarie.
Il maggiore onere della deflazione sta nel fallimento delle imprese che
comporta disoccupazione e ulteriore contrazione della domanda
(Argentina anni ‘90-2001).
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