Psicologia sociale

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Capitolo 1 : Introduzione alla psicologia sociale
La psicologia sociale studia le emozioni ed i pensieri degli essere umani. I nostri pensieri, i nostri
sentimenti e comportamenti sono, in un modo o nell’altro, influenzati dagli altri. Ciò costituisce
l’argomento principale della psicologia sociale, che possiamo definire come lo studio scientifico dei
modi attraverso cui i pensieri, i sentimenti ed i comportamenti delle persone vengono influenzati
dalla presenza reale o immaginaria degli altri. Agli occhi dello psicologo sociale, tuttavia,
l’influenza sociale supera in ampiezza i tentativi fatti da un singolo individuo di modificare il
comportamento altrui. L’influenza sociale, inoltre, assume numerose forme che sono differenti dal
tentativo deliberato da parte degli altri di cambiare il nostro comportamento. La psicologia sociale
si occupa dello studio delle modalità e delle motivazioni secondo cui i nostri pensieri, sentimenti e
comportamenti vengono modellati dal più generale ambiente sociale, definito in senso lato, e di ciò
che accade quando più fonti di influenzamento entrano in conflitto tra loro. La psicologia sociale si
interessa non alle situazioni sociali in ogni loro significato oggettivo, ma al modo in cui le persone
vengono influenzate dalla loro interpretazione, o costruzione, dell’ambiente sociale. Ne segue che,
se si vuole comprendere come l’ambito sociale influenzi una persona, risulta più importante capire
come essa percepisca o interpreti tale ambiente, piuttosto che comprenderlo oggettivamente. In
ragione dell’importanza che gli psicologi sociali assegnano al modo in cui le persone interpretano il
mondo sociale, le origini di tali interpretazioni godono di un’attenzione particolare. Un altro tratto
caratteristico della psicologia sociale è la sua natura di scienza che sottopone a prova empirica le
proprie ipotesi, intuizioni ed idee sul comportamento sociale umano, piuttosto che affidarsi alla
saggezza popolare, al buon senso o alle opinioni ed alle intuizioni di filosofi, romanzieri, politici
saccenti…. Dovendo però cercare di prevedere negli esperimenti il comportamento di individui
dotati di grande complessità e sofisticatezza, gli psicologi sociali devono affrontare una varietà
inusitata di sfide se vogliono dare una risposta a domande fondamentali quali le cause
dell’aggressività fisica, del pregiudizio e dell’attrazione, o perché certi generi di pubblicità
elettorale funzionino meglio degli altri. La psicologia sociale condivide l’interesse per il
comportamento sociale con diverse altre discipline appartenenti alle scienze sociali, fra cui la
sociologia, l’economia e le scienze politiche. Ciascuna di tali materie si occupa dell’influenza dei
fattori sociali sul comportamento umano. Notevoli sono però le differenze che intercorrono fra la
psicologia sociale e le altre scienze sociali, soprattutto per quanto concerne il livello di analisi. La
psicologia sociale, in quanto branca della psicologia, trova radicamento nell’interesse per gli
individui umani, ponendo in rilievo i processi psicologici che hanno luogo nella loro mente e nel
loro cuore. La differenza del livello di analisi della psicologia sociale rispetto alle altre scienze
sociali rispecchia un’altra divergenza fra le discipline, che concerne più precisamente l’oggetto che
cercano di spiegare. Lo scopo della psicologia sociale è identificare le proprietà universali della
natura umana che, indipendentemente dalle classi o dalle strutture sociali, rendono ciascuno di noi
sensibile all’influenza sociale. Il campo della psicologia sociale racchiude in sé altre discipline che,
come la psicologia sociale, si occupano dello studio degli individui e delle ragioni che sottostanno
alle loro azioni. Di eccezionale importanza fra queste è la psicologia della personalità. Poiché le due
discipline hanno molti elementi in comune, può risultare utile cercare di precisare le differenze
nell’approccio e negli interessi. Gli psicologi della personalità concentrano la loro attenzione
generalmente sulle differenze individuali come spiegazioni del comportamento sociale. Gli
psicologi sociali sono convinti che la spiegazione del comportamento unicamente in termini di
fattori di personalità possa condurre ad una grave e superficiale sottostima del ruolo svolto da una
delle fonti principali del comportamento umano, l’influenza sociale. Lo psicologo sociale riserva
una grande attenzione proprio al fatto che non teniamo in dovuto conto la situazione, in quanto ciò
produce un notevole impatto sul modo in cui gli esseri umani intrattengono relazioni reciproche. In
definitiva, la psicologia sociale, che si basa sulla spiegazione del comportamento sociale, è
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racchiusa fra le sue affini, la sociologia e la psicologia della personalità. Con la prima condivide
l’interesse per le influenze situazionali e sociali sul comportamento, concentrandosi maggiormente
sull’aspetto psicologico che rende le persone sensibili all’influenza sociale. Con la seconda ha in
comune il rilievo dato alla psicologia dell’individuo, ma invece di concentrarsi su cosa renda le
persone differenti tra loro, sottolinea il processo psicologico che, condiviso dalla maggior parte di
esse, le rende sensibili all’influenza sociale. La validità di questo approccio risiede naturalmente
nella misura in cui le influenze sociali effettivamente condizionano in maniera significativa il
comportamento delle persone. Se ciascuno di noi proseguisse più o meno allegramente per la sua
strada, senza subire l’influenza dei pensieri o delle azioni degli altri, allora non avremmo certo
bisogno di una scienza chiamata psicologia sociale per comprendere il comportamento umano. Che
le persone si influenzino fra loro è lampante. Tuttavia, la forza ed il grado di questa influenza non
sempre appaiono così ovvie. Lo psicologo sociale si scontra con un gran numero di ostacoli quando
cerca di comprendere in che modo il nostro comportamento è fortemente influenzato dall’ambiente
sociale: la tendenza generale ad interpretare il comportamento delle persone in termini della
personalità (esempio della cameriera). Questo è un errore fondamentale di attribuzione cioè è la
tendenza a spiegare il nostro comportamento e quello della altre persone unicamente in termini di
tratti della personalità, sottostimando in tal modo la forza dell’influenza sociale. La situazione
sociale produce spesso effetti profondi e sorprendenti sul comportamento umano. Ma cosa si
intende per situazione sociale? Una strategia di definizione potrebbe essere specificare le proprietà
oggettive della situazione, ad esempio quali vantaggi offre alle persone, e quindi studiare i
comportamenti che ne derivano. Varie scuole di pensiero si sono occupate di questo problema tra di
esse le più importanti sono :
1. COMPORTAMENTISMO è una scuola di pensiero che ha dominato la psicologia
statunitense per tutta la prima metà del ‘900. Il comportamentismo, nato dalle osservazioni
svolte sugli animali inferiori, cercava di dimostrare che ogni apprendimento si verifica
attraverso il rinforzo: in altre parole, si associano eventi positivi o negativi dell’ambiente a
comportamenti specifici. Watson e Skinner ipotizzarono che la spiegazione dell’intero
comportamento umano potesse avvenire mediante l’esame delle ricompense e delle
punizioni riservate dall’ambiente al soggetto, e che non vi fosse, quindi, alcun bisogno di
studiare i pensieri ed i sentimenti. La maggior parte degli attuali psicologi sociali è giunta a
credere che l’approccio comportamentista sia troppo semplicistico per fornire una
comprensione completa ed accurata del comportamento sociale. Infatti non si può
comprendere appieno il comportamento sociale se limitiamo le nostre osservazioni alle
proprietà fisiche di una situazione.
2. PSICOLOGIA DELLA GESTALT avanzata inizialmente come una teoria sulle nostre
percezioni del mondo fisico, la psicologia della Gestalt studia il modo soggettivo in cui un
oggetto appare alla mente delle persone, piuttosto che la combinazione degli attributi fisici
oggettivi. Secondo gli psicologi della Gestalt non possiamo comprendere il modo in cui
viene percepito un oggetto unicamente dallo studio di questi elementi costitutivi della
percezione. L’intero è diverso dalla somma delle sue parti. L’approccio della Gestalt venne
formulato in Germania nella prima metà del ‘900, tra i suoi ideatori ricordiamo Lewin.
L’iniziativa più audace di questo studioso fu quella di applicare i principi della Gestalt alla
percezione sociale, al modo in cui le persone percepiscono gli altri ed alle loro motivazioni,
intenzioni e comportamenti. Lewin fu il primo scienziato a comprendere appieno
l’importanza di assumere la prospettiva della persona che si trova in qualsiasi situazione
sociale, per poter vedere come essa costruisce l’ambiente sociale.
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Gli esseri umani sono organismi complessi: in ogni determinato momento i nostri pensieri ed il
nostro comportamento sono sottesi da una moltitudine di motivazioni sovrapposte. Durante tutti
questi anni gli psicologi sociali hanno scoperto che solo due di queste motivazioni godono di
un’importanza fondamentale: il bisogno di essere quanto il più possibile accurati, e quello di
giustificare i nostri pensieri e le nostre azioni per poterci sentire a posto con la coscienza.
L’esperienza di vita insegna che quasi sempre queste motivazioni ci spingono nella stessa direzione.
Uno dei più rivoluzionari teorici della psicologia sociale, Leon Festinger, comprese che quando
queste due motivazioni costringono l’individuo in direzioni opposte possiamo pervenire a
preziosissime intuizioni su come operi la nostra intelligenza ed il nostro animo. La maggior parte
degli psicologi sociali concordano nel rimarcare l’importanza di entrambe queste motivazioni e
nell’affermare che in numerose situazioni esse possono essere applicate secondo livelli differenti di
intensità. Importante è notare come le persone alterino completamente la realtà negando l’esistenza
di ogni possibile informazione che sia per loro negativa. Infatti le persone spesso possono dare una
spiegazione diversa della realtà in modo da uscirne sotto la miglior luce possibile. Questa
interpretazione distorta della realtà che ci fa sentire bene con noi stessi e che va ricordata come
giustificazione del comportamento precedente non potrebbe sorprendere neppure il più distratto
osservatore del comportamento umano. Gli esseri umani hanno raffinato la loro capacità di
pensiero, riflessione e deduzione. Uno dei nostri segni distintivi è la capacità di ragionare, e la
nostra specie ha sviluppato delle potenzialità logiche che sono quasi incredibili. Di fronte alle
incredibili capacità cognitive della nostra specie, non sorprende che gli psicologi sociali, abbiano
esaminato il modo in cui gli esseri umani concepiscono il modo. L’ipotesi di partenza posta dagli
studiosi che cercano di comprendere il comportamento sociale secondo tale prospettiva, è che tutte
le persone tentano di formulare una visione del mondo nel modo più accurato possibile. I ricercatori
vedono gli esseri umani come investigatori dilettanti che fanno del loro meglio per capire e
prevedere il mondo sociale(social cognition). Un’ulteriore complicazione è data dal fatto che spesso
le nostre aspettative sul mondo sociale si frappongono alla nostra percezione accurata di esso, e
addirittura ne modificano la natura(aspettative sul mondo sociale). Il bisogno di mantenere una
visione positiva di noi stessi e l’avere una visione accurata del mondo sono fra i più importanti
costrutti delle nostre motivazioni sociali, ma non sono di certo gli unici ad influenzare il nostro
pensiero ed il nostro comportamento. Istinti biologici come la fame e la sete possono essere fonte
potente di motivazione, soprattutto in condizioni di estrema povertà. Ad un livello più psicologico,
possiamo essere motivati dalla paura o da una promessa di favori o altre ricompense che implicano
lo scambio sociale. Un’altra motivazione significativa è il bisogno di controllo, infatti, quando le
persone avvertono una perdita di controllo, fino a credere di avere scarsa o nessuna influenza sul
verificarsi di fatti positivi o negativi per loro, si hanno numerose conseguenze.
Capitolo 2 : Metodologia: il processo di ricerca
Le credenze personali e la saggezza popolare offrono una spiegazione insufficiente del
comportamento umano. Molte osservazioni personali sono riflessioni astute ed accurate sulla realtà
sociale, mentre altre sono completamente sbagliate. Per mostrare la differenza, le nostre
osservazioni devono essere tradotte in ipotesi che possano venire scientificamente testate. Si può
pensare che la saggezza popolare sia la fonte più fedele della teoria sociale e della sua spiegazione,
piuttosto che l’esperienza personale. Essa si basa sulle osservazioni accumulate nel tempo dalle
persone appartenenti ad una cultura, ed è improbabile che queste credenze vengano influenzate
dalle esperienze o dalle credenze personali di un singolo individuo. Solo mediante l’identificazione
attenta e lo studio delle condizioni esatte che causano uno di questi detti contraddittori è possibile
dire che la saggezza popolare è utile. I risultati degli esperimenti, spesso, potranno sembrare ovvi,
vista la familiarità che si ha con i temi della psicologia sociale cioè il comportamento sociale e
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l’influenza sociale. La psicologia sociale è una scienza empirica che ha sviluppato una serie di
metodi per rispondere alle domande riguardanti il comportamento sociale, suddivisibili in tre tipi:
1. il metodo dell’osservazione il cui scopo è osservare le persone e vedere le loro azioni.
L’osservazioni non è esclusiva delle scienze sociali: essa viene messa in pratica con
successo anche da scrittori, registri e giornalisti interessati ad un particolare problema
sociale o al modo in cui funziona un’istituzione. L’osservazione può avvenire attraverso una
videocamera, messa in una posizione strategica per registrare che cosa fanno le persone in
determinate situazioni. L’osservazione può essere di due tipi: sistematica quando gli
osservatori sono autentici scienziati sociali che si accingono a rispondere alle domande su
un particolare fenomeno sociale da osservare e codificare in accordo con un insieme
predefinito di criteri. Questo metodo varia in base al grado di partecipazione attiva
dell’osservatore alla scena. Un estremo vede l’osservatore non partecipare e non intervenire
in nessun modo: in maniera riservata cerca anzi di mescolarsi il più possibile alla scena;
partecipante in cui l’osservatore interagisce con le persone che sta esaminando, badando
tuttavia di non alterare in alcun modo la situazione con la sua presenza. Altra forma del
metodo dell’osservazione è l’analisi di archivio. Molte cose possono essere apprese sul
comportamento umano dall’analisi dei dati conservati, di archivio di una cultura. Nella
misura in cui queste tracce scritte della cultura sono state salvate e sono pertanto disponibili
al ricercatore, possono essere codificate come specifiche variabili. L’analisi di archivio è
una variante preziosa della ricerca condotta con il metodo dell’osservazione in quanto ci
permette di esaminare i cambiamenti di un comportamento sociale nel tempo ed attraverso
le diverse culture. La ricerca condotta con il metodo dell’osservazione, usando la forma
dell’analisi di archivio, ci dice molto sulle credenze e sui valori della società. Il metodo
osservativo è il più adatto se l’obiettivo del ricercatore è quello di spiegare il comportamento
sociale. In altri casi può presentare diversi inconvenienti. Primo, certi tipi di comportamento
sono difficili da osservare o perché accadono raramente o perché investono la sfera privata
delle persone. Nel caso dell’analisi di archivio, il ricercatore è alla mercè del compilatore
originale del materiale che analizza, i giornalisti inseguono scopi diversi quando scrivono i
loro articoli e possono omettere informazioni di cui i ricercatori hanno bisogno. Un’altra
limitazione del metodo osservativo è che esso è confinato ad un particolare gruppo di
persone, di un particolare contesto, ed ad un particolare tipo di attività. Questo può essere
un problema se l’obiettivo è di generalizzare ciò che si osserva in diverse popolazioni,
contesti ed attività. Infine, gli psicologi sociali generalmente inseguono scopi più ambiziosi
di una semplice descrizione del comportamento sociale. Un obiettivo della psicologia
sociale è di comprendere le relazioni fra le variabili e di essere in grado di prevedere quando
si verificano comportamenti sociali di diverso tipo.
2. il metodo correlazionale richiede la misura sistematica di due o più variabili e la verifica
della loro relazione. Se lo scopo del metodo dell’osservazione è quello di descrivere il
comportamento, quello del metodo correlazionale è di verificare la relazione fra le variabili,
in genere al fine di testare le ipotesi su quando e perché si verifichino certi comportamenti
sociali. Nella ricerca correlazionale, il comportamento e gli atteggiamenti delle persone
possono essere misurati in una infinità di modi. Proprio come nel metodo dell’osservazione,
in alcuni casi i ricercatori osservano il comportamento delle persone. Il metodo
correlazionale usa costantemente i sondaggi di opinioni. Molti comportamenti sociali che
interessano i ricercatori sono difficili, se non impossibili, da osservare. In tal caso i
ricercatori ricorrono ai sondaggi, con i quali essi intervistano le persone sulle loro credenze,
i loro atteggiamenti e comportamenti. L’osservazione di tali relazioni è condotta mediante la
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correlazione fra le diverse variabili. Una correlazione positiva significa che al crescere del
valore di una variabile è associato l’innalzamento del valore dell’altra variabile, una
correlazione negativa significa che al crescere del valore di una variabile decresce quello
dell’altra. È, anche possibile, naturalmente, che due variabili siano completamente non
correlate fra loro, impedendo al ricercatore di prevedere una variabile rispetto all’altra. La
correlazione è espressa da numeri che vanno da -1 a +1. Una correlazione pari ad 1 vuol dire
che due variabili sono perfettamente correlate in una direzione positiva, le correlazioni
perfette sono rare. Un a correlazione pari a -1 significa che due variabili sono perfettamente
correlate in una direzione negative, mentre una correlazione pari a 0 significa che due
variabili sono prive di relazione. Le indagini campionarie hanno molti vantaggi, fra cui la
capacità di operare un campionamento di porzioni rappresentative di popolazione. Le
risposte ad un sondaggio sono utili solo se riflettono quelle della gente in generale. Gli
studiosi fanno attenzione anche a compiere una selezione casuale degli individui dalla
popolazione più in generale; ciò significa che ciascuno, all’interno della popolazione, ha
uguali possibilità di essere selezionato per un’indagine campionaria. Una volta che il
campione è stato selezionato casualmente, possiamo assumere che le risposte sono
ragionevolmente simili a quelle dell’intera popolazione. Non sempre, però, il
campionamento viene fatto con successo. Un altro potenziale problema dei dati provenienti
dai sondaggi è l’accuratezza delle risposte. Gli studiosi che utilizzano i sondaggi devono
stare molto attenti a non influenzare le risposte attraverso il modo di porre le domande. Il
difetto maggiore del metodo correlazionale è che esso ci dice solo che due variabili sono in
relazione, mentre l’obiettivo degli psicologi sociali è quello di identificare i processi
psicologici che spiegano l’influenza sociale a cui le persone sono suscettibili. Per ottenere
questa informazione abbiamo bisogno di inferire la causalità: dobbiamo sapere cioè se A è la
causa di B, non solo che A sta in relazione, o è correlato, con B. Se un ricercatore rinviene
una correlazione fra due variabili, ciò significa che ci sono tre possibili relazioni causali fra
tali variabili. Quando si usa il metodo correlazionale, è sbagliato arrivare alla conclusione
che una variabile è causata dal verificarsi di un’altra: la correlazione non implica la
causalità. Sfortunatamente, uno dei più comuni errori metodologici nelle scienze sociali sta
proprio nello scordarsi questa massima. Il solo modo per determinare le relazioni causali è
attraverso il metodo sperimentale, in cui i ricercatori controllano sistematicamente l’evento,
predisponendolo in maniera tale da farlo vivere ad alcuni soggetti in un determinato modo
ed ad altri in maniera diversa.
3. il metodo sperimentale è quello più usato nelle ricerche di psicologia sociale, perché
permette al ricercatore di fare affermazioni causali. Il metodo sperimentale permette di trarre
conclusioni circa le relazioni causa effetto. Tale metodo richiede un intervento diretto da
parte del ricercatore. La variabile che si pensa essere la causa di un comportamento rilevante
viene controllata dal ricercatore in modo tale che alcuni soggetti dello studio vengono
sottoposti ad un tipo di esperimento, mentre altre persone ad un secondo tipo. Cambiando
accuratamente un solo aspetto della situazione sperimentale, il ricercatore potrà verificare se
esso è la causa del comportamento in questione. Le variabili che prendono parte al metodo
sperimentale sono la variabile indipendente che è sotto il controllo dello sperimentatore ed è
la variabile che viene manipolata, ovvero presentata in diversi modi. La variabile
indipendente è quella che si ritiene esercitare un effetto causale sulla variabile dipendente
che è ciò che lo sperimentatore vuole misurare per vedere se si verifica qualche effetto. In
altre parole, si ipotizza che la variabile dipendente dipenda dalla variabile indipendente. I
numerosi vantaggi del metodo sperimentale non nascondono alcuni inconvenienti. I
vantaggi derivanti dal fatto di avere il controllo sulla situazione, di poter assegnare
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casualmente le persone alle diverse condizioni sperimentali fino all’annullamento degli
effetti delle variabili estranee, possono a volte rendere la situazione artificiale ed
allontanarla dalla realtà. Sorgono pertanto domande fondamentali sulla validità esterna degli
esperimenti in psicologia. Il test finale della validità esterna di un esperimento è la replica,
cioè la sua capacità di essere ripetuto più volte facendo variare i soggetti ed i contesti. Una
possibile critica alla ricerca psicosociale è che spesso essa è condotta in situazioni artificiali,
la cui validità non può essere estesa per generalizzazione alla vita reale. Per risolvere questo
problema, gli psicologi sociali tentano di aumentare la generalizzabilità dei loro risultati
conducendo gli esperimenti nel modo più realistico possibili. Un importante tipo di realismo
riguarda il grado in cui un esperimento riesce a cogliere bene processi psicologici simili a
quelli che si manifestano nella vita quotidiana, a cui si da il nome di realismo psicologico
degli esperimenti stessi; un altro tipo di realismo è quello detto realismo mondano in cui i
risultati di un esperimento riflettono le situazioni di vita reale. Il realismo psicologica
aumenta se le persone si trovano coinvolte in un evento reale. Uno dei modi migliori per
aumentare la validità esterna è quello di condurre esperimenti sul campo.
Ognuno di questi metodi può essere impiegato per verificare una specifica domanda di una
ricerca, risultando più adatto in certi casi e meno in altri. Svolgere una ricerca creativa in
psicologia sociale richiede, quindi, la scelta di un metodo adeguato che possa massimizzare i
punti di forza e minimizzare le debolezze. Il punto iniziale della ricerca è un’idea, o un’ipotesi,
che il ricercatore vuole verificare. Il modo migliore di iniziare è trovare l’origine delle ipotesi.
In psicologia sociale si distinguono due tipi di ricerca, ognuna dagli scopi diversi. L’obiettivo
della ricerca di base è quello di scoprire le ragioni del comportamento umano, per pura curiosità
intellettuale. Nessuno sforzo viene fatto per risolvere uno specifico problema sociale o
psicologico. Lo scopo della ricerca applicata è invece quello di risolvere un determinato
problema e di trovare il modo d alleviare questioni quali il razzismo, la violenza sessuale o la
diffusione dell’AIDS. La differenza fra ricerca di base ed applicata è resa evidente da numerosi
esempi presi da altre scienze. Nella maggior parte delle scienze, tuttavia, la distinzione fra
ricerca di base e ricerca applicata è sfumata.
Capitolo 3 : La cognizione sociale: come pensiamo il mondo
Se vogliamo comprendere il modo in cui pensiamo il mondo sociale, dobbiamo prima analizzare le
procedure, le regole e le strategie che impieghiamo: posti di fronte alla sovrabbondanza di
informazioni, di fatto ci affidiamo ad una varietà di scorciatoie mentali. Noi, nella nostra vita
quotidiana, formuliamo teorie su noi stessi e sul mondo circostante, ed a esse gli psicologi sociali
attribuiscono un ruolo significativo rispetto al modo di comprendere ed interpretare noi stessi, gli
altri ed ogni interazione o contesto sociale in cui ci troviamo. Le nostre teorie sul mondo sociale, o
schemi, influenzano profondamente le informazioni che registriamo, su cui riflettiamo, e che
successivamente ricordiamo. Gli schemi sono strutture cognitive che organizzano le informazioni su
determinati temi o argomenti, come le persone, noi stessi, i ruoli sociali ed i fatti particolari. In
ciascun caso gli schemi racchiudono le nostre conoscenze ed impressioni fondamentali. Dal
momento in cui ci formiamo uno schema, si producono effetti interessanti sul modo in cui
elaboriamo e memorizziamo nuove informazioni. Esso agisce da filtro, rifiutando le informazioni
che sono contraddittorie o incoerenti rispetto al tema prevalente, mentre in alcuni casi l’incoerenza
può essere tale da impedirci di ignorare o dimenticare il nuovo fatto. È più probabile tuttavia che
noteremo e penseremo i comportamenti che più si conciliano con i nostri preconcetti. In tal modo
gli schemi si rafforzano e diventano più difficili da alterare nel tempo. La memoria umana, inoltre, è
ricostruttiva. Noi non ricordiamo con esattezza cosa accade in un determinato contesto, così come
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fa una cinepresa con precisione le immagini ed i suoni. Ci ricordiamo al contrario solo di alcune
delle informazioni presenti, in particolare quelle che il nostro schema ci induce a notare ed a
considerare con maggiore attenzione, ed altre che non sono presenti ma che, senza accorgercene,
abbiamo aggiunto in seguito. Le ricostruzioni che avvengono in memoria tendono ad essere coerenti
con il nostro schema, come è naturale. Tale è l’importanza di provare continuità, di potere collegare
le esperienze nuove ai nostri schemi preesistenti, che le persone che smarriscono questa capacità ne
inventano di nuovi anche in loro assenza. Gli schemi assumono una notevole rilevanza perché
riducono l’ambiguità che a volte incontriamo con informazioni suscettibili di più interpretazioni. Le
persone non sono completamente cieche al vero aspetto delle cose. Spesso ciò che vediamo è
relativamente privo di ambiguità, e non ci occorre alcuno schema per interpretarlo. Nella misura in
cui riteniamo che i nostri schemi siano accurati, è perfettamente ragionevole che poi li impieghiamo
per risolvere le ambiguità. Perfino, l’evocazione di uno schema sbagliato non costituirebbe un grave
errore se potessimo con facilità e prontezza accantonare quelli scorretti o inappropriati. Il vero
problema è che le persone spesso vedono il mondo in maniera tale da far sembrare di avere invocato
lo schema giusto anche quando ciò non è vero. Non di rado mostriamo eccessivo zelo nelle nostre
teorizzazioni, aggrapandoci troppo a lungo a schemi che non sono affatto rappresentazioni accurate
del mondo. A volte l’incontro con qualcuno di un’altra cultura è fonte di meraviglia per il modo in
cui questi osserva o ricorda il nostro paese. La cultura in cui siamo cresciuti è una fonte
fondamentale dei nostri schemi. Le culture presentano differenze cruciali fra gli schemi concepiti
dalle persone riguardo a se stessi e al mondo sociale, producendo alcune conseguenze interessanti.
Gli schemi impartitici dalla nostra cultura influenzano notevolmente ciò che del mondo notiamo e
memorizziamo. Culture diverse possiedono schemi di cose fra loro molto differenti, in funzione di
ciò che è ritenuto importante in quella determinata cultura, e che tali schemi influenzano ciò che le
persone tenderanno a ricordare con più probabilità nelle rispettive culture. Ognuno di noi possiede
una memoria eccezionale relativamente alle aree che sono per noi importanti, e di cui possediamo
schemi ben sviluppati. Il grande valore degli schemi è che ci aiutano a ricordare le cose che
riteniamo importanti. Qualche volta, tuttavia, distorciamo le prove fino a renderle coerenti con essi,
impedendo così di registrare mentalmente qualsiasi informazione che sia autentica contraddizione.
A causa dell’influenza che gli schemi esercitano sul nostro modo di vedere, abbiamo la tendenza a
vedere il mondo in termini assoluti dove il bene è dalla nostra parte ed il male da quella di chi non è
con noi. È interessante osservare che questa visione condizionata può indurre le persone ad ogni
titolo schierate a pensare che tutto il resto del mondo stia dando un’interpretazione scorretta della
realtà. Le persone spesso interpretano il mondo in modo coerente con il proprio senso di autostima.
Vi sono comunque delle situazioni in cui le persone interpretano i fatti in coerenza con i propri
schemi ed aspettative, anche quando non hanno fatto alcun investimento relativo. Ne è prova il tipo
di ricerca nata attorno all’effetto precedenza(primacy), che ha dimostrato la frequente importanza
delle prime impressioni per la loro capacità di influenzare l’interpretazione delle informazione
successive. Sono invece solo delle eccezioni i casi in cui s verificano degli effetti decenza(recency),
allorché le informazioni ricevute per ultime producono l’impatto maggiore. La ragione dell’effetto
primacy è che noi formiamo gli schemi in base alle prime informazioni ricevute, e questi schemi
influenzano quindi la nostra interpretazione di quelle successive. Spesso ci attacchiamo alle nostre
prime impressioni, e ignoriamo, trascuriamo o reinterpretiamo quelle che vi risultano in
contraddizione. Sembra quasi che gli schemi delle persone, una volta formatisi, assumano una loro
vita propria, e influenzino il modo in cui le nuove informazioni vengono considerate,
indipendentemente dall’interesse che le persone possano provare per quanto osservano. Gli schemi
possono assumere vita autonoma che in un altro modo: essi infatti sembrano sopravvivere perfino
quando è andata distrutta ogni prova che li potesse sostenere. Le credenze dei soggetti persistono
anche dopo che è stata confutata la prova inizialmente data per sostenerle (effetto persistenza). Gli
studi precedenti hanno dimostrato che quando incontriamo delle informazioni nuove, o vediamo
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confutate quelle già acquisite, non tendiamo a rivedere i nostri schemi così come ci si potrebbe
aspettare. Non sempre agiamo sui nostri schemi ed in tal modo riusciamo a modificare il grado in
cui li sosteniamo o li contraddiciamo. La ricerca su questo processo, definito profezia che si
autoadempie, ha scoperto che non di rado ci comportiamo in modo da creare inavvertitamente delle
prove che sostengano il nostro schema. Numerosi studi hanno rafforzato l’ipotesi che le profezie
che si autoadempiono non siano il risultato di un tentativo deliberato da parte delle persone di
trovare conferma ai propri schemi, bensì si verifichino in maniera involontaria ed inconscia. Anche
quando le persone cercano di relazionarsi agli altri in maniera imparziale e priva di
condizionamenti, sono le loro aspettative a intromettersi e a modificarne il comportamento, il quale
a sua volta modifica il comportamento della persona con cui stanno interagendo. Ciascuno di noi
possiede ogni genere di schemi relativi alle caratteristiche delle altre persone, e ogni volta che
agiamo sulla scorta di questi in modo da farli avverare, ne consegue una profezia che si
autoadempie. Un risultato sconsolante della ricerca sulla profezia che si autoadempie è che gli
schemi possono opporre resistenza al cambiamento proprio perché rinveniamo una grande quantità
di prove false a loro conferma. Quando compiamo delle scelte utilizziamo delle strategie e delle
scorciatoie mentali che facilitano la decisione, permettendoci di continuare a vivere senza dovere
trasformare ogni decisione in un esteso progetto di ricerca. Non è detto che queste scorciatoie ci
portino sempre alla scelta migliore. Fra le scorciatoie impiegate c’è l’impiego di schemi per
comprendere situazioni nuove. Piuttosto che iniziare l’esame delle possibili opzioni da zero, spesso
applichiamo le nostre conoscenze ed i nostri schemi precedenti. Tuttavia, quando si tratta di generi
particolari di giudizi e di decisioni, non possediamo sempre uno schema preconfezionato per l’uso.
In altri casi ne abbiamo troppi che andrebbero bene, e non sappiamo con certezza quale applicare.
In simili situazioni le persone sovente impiegano la scorciatoia mentale dell’euristica del giudizio.
Nel campo della social cognition l’euristica si riferisce alle regole che gli individui seguono per
formulare giudizi in maniera rapida ed efficiente. Prima di analizzare le euristiche, occorre
premettere che esse non danno la garanzia di compiere inferenze precise sul mondo. Le euristiche
spesso sono inadeguate per il compito da affrontare o vengono impiegate male, conducendo così a
giudizi errati. Gran parte della ricerca svolta sulla social cognition si è effettivamente concentrata su
simili errori di ragionamento. L’euristica della disponibilità si riferisce ai giudizi fondati sulla
facilità con cui riconduciamo esempi ala mente. Numerose sono le situazioni in cui questa ci appare
una buona strategia da usare. Un problema insito in essa è però che qualche volta ciò che con più
facilità viene ricondotto alla memoria non è caratteristico del quadro generale, e ci conduce pertanto
a conclusioni errate. Impieghiamo le euristiche anche per dare giudizi su noi stessi. Non sempre
possediamo degli schemi mentali stabiliti sui nostri stessi tratti e ci capita pertanto formulare giudizi
su noi stessi che si basano sulla facilità con cui riconduciamo alla mente esempi del nostro
comportamento. La facilità con cui riusciamo a pensare ad esempi del nostro comportamento è
capace di influenzare la percezione di noi stessi. La facilità con cui ricostruiamo il passato è
fondamentale per i nostri giudizi su di noi e sugli altri. Le persone spesso si impegnano nel pensiero
controfattuale, ovvero il ragionare su cosa sarebbe potuto succedere se le cose fossero andate
diversamente. La facilità con cui le persone riescono ad annullare mentalmente il passato, pensando
ad esiti alternativi, può produrre un impatto notevole tanto sul modo in cui queste si spiegano il
passato, quanto sulle emozioni ad esso collegate. I pensieri controfattuali che la nostra memoria
riserva influenzano in grande misura le nostre reazioni emotive agli eventi. Più è facile annullare
mentalmente un esito, più è forte la reazione emotiva ad esso. Un’altra scorciatoia mentale
(l’euristica della rappresentatività) viene impiegata quando le persone cercano di categorizzare
qualcosa di nuovo: giudicano quanto esso sia simile al loro concetto di caso tipico. La
categorizzazione delle cose a seconda della rappresentatività appare spesso perfettamente
ragionevole. Si generano diversi problemi dall’eccessiva fiducia nell’euristica della
rappresentatività. Altra scorciatoia mentale è l’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento con
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cui le persone utilizzano un numero o un valore come punto di partenza e quindi precisano la loro
risposta rispetto ad esso. Al pari di tutte le altre scorciatoie mentali l’euristica dell’ancoraggio e
dell’accomodamento è una strategia che funziona in numerose circostanze. Sempre come le altre
euristiche, tuttavia, anche questa ci può creare dei problemi. In particolare, qualche volta le persone
ricorrono a valori completamente arbitrari come punti di partenza ed ad essi si attengono
rigidamente. Diverse ricerche svolte sull’ancoraggio fanno pensare che le persone si attengono
strettamente ai numeri iniziali perfino quando essi sono del tutto arbitrari e non hanno alcune
pertinenza con il giudizio che si sta formulando. Gli esempi di ancoraggio ed accomodamento
dimostrano che quando formuliamo giudizi sul mondo, spesso permettiamo di ancorare le nostre
impressioni alle nostre esperienze ed osservazioni personali, anche quando siamo consapevoli che
esse sono inconsuete, infatti, è difficile evitare di generalizzare partendo da esse. Quando
generalizziamo partendo da un campione di informazioni per arrivare alla sua totalità, siamo nel
pieno di un processo chiamato campionamento tendenzioso. In breve, le nostre stesse esperienze
fungono da ancoraggio per le nostre generalizzazioni, e spesso il nostro accomodamento, partendo
da esse, rimane inadeguato perfino quando sappiamo che le nostre esperienze sono atipiche o
tendenziose. Perfino quando sappiamo che una data informazione è influenzata o atipica, possiamo
incontrare difficoltà ad ignorarla del tutto. Si sono prese in considerazione due tipi generali di
strategie impiegate dal pensatore sociale: gli schemi e le euristiche. Esiste una relazione intima tra
questi due generi di elaborazione cognitiva. Gli schemi sono conoscenze organizzate relative alle
persone o alle situazioni, simili a dei libri riposti in una biblioteca mentale. Quando compiamo dei
giudizi circa il mondo sociale, tuttavia, non ci è sempre chiaro quale sia lo schema più appropriato
da usare. La sua scelta ed il suo funzionamento dipendono dall’euristica di giudizio. L’euristica
della disponibilità si riferisce ai giudizi fondati sulla facilità con cui ricordiamo qualcosa: per usare
la metafora della biblioteca è la facilità con cui raggiungiamo un libro fra i vari scaffali. Le persone
impiegano spesso proficuamente le euristiche ed applicano gli schemi con efficacia senza alcuno
sforzo. Non di rado le persone lascino che siano gli schemi a prendere il sopravvento e compiono
generalizzazioni imprudenti partendo da esperienze atipiche, persino in presenza di informazioni
contraddittorie. Le persone sono pensatori sociali flessibili, capaci di scegliere, almeno fino ad un
certo punto, fra un insieme di strategie mentali. Quando la posta in gioco è alta, le persone usano
strategie più raffinate, compiono giudizi più precisi e notano con probabilità quei fatti che sono in
contrasto con i loro schemi mentali. Il pensiero sociale possiede, però, un’altra importante proprietà
che facilita notevolmente la nostra comprensione del mondo sociale: la capacità di elaborare in
maniera rapida ed inconscia. Una volta appresa una determinata abilità, pensarci troppo
intensamente può renderla perfino difficile da eseguirla. Il nostro modo di pensare può diventare
automatico proprio come le nostre azioni. Quanto più ci siamo addestrati a pensare in un certo
modo, tanto più naturale ed automatico diventa quel genere di pensiero, fino a poterlo fare senza
alcuno sforzo, quasi senza accorgercene. Questa modalità di pensiero inconscia, non intenzionale,
involontaria e priva di sforzi viene definita elaborazione automatica. La difficoltà nel definire
l’elaborazione automatica risiede nel fatto che essa si verifica se che noi possiamo accorgercene,
rendendola così sconosciuta. Tuttavia non è sempre così, infatti, noi di tanto in tanto ci fermiamo a
riflettere su noi stessi e sul mondo sociale, questo è u pensiero consapevole, intenzionale, volontario
e deliberato, che si chiama elaborazione controllata il cui scopo è quello di frenare e riequilibrare
l’elaborazione automatica. A differenza dell’elaborazione automatica, però, il pensiero controllato
richiede impegno e motivazione. Le persone devono compiere lo sforzo di impegnarsi
nell’elaborazione controllata per potere reagire agli stereotipi negativi che in maniera automatica
vengono loro in mente. Esiste una conseguenza importante derivante dalla preoccupazione di non
essere capaci di produrre una sufficiente elaborazione controllata, ovvero nel non essere capaci di
impegnarci nella soppressione del pensiero: il tentativo di evitare qualcosa che vorremmo
dimenticare immediatamente. Un’efficace soppressione del pensiero dipende dall’interazione fra
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due processi: la prima parte (automatica) del processo chiamata monitoraggio cerca le prove che il
pensiero indesiderato stia per intromettersi nella nostra coscienza , quindi entra in gioco la seconda
parte (controllata) del processo il processo operativo che è il tentativo cosciente e deliberato di
distrarre noi stessi facendoci pensare ad altro.
Capitolo 4 : La percezione sociale: come riusciamo comprendere gli altri
La percezione sociale è lo studio del modo in cui creiamo impressioni e formuliamo giudizi
riguardo agli altri. Un’importante fonte di informazioni che utilizziamo è il comportamento non
verbale, come le espressioni del volto, i movimenti del corpo o il tono di voce. Infatti, le
conoscenze che abbiamo delle persone incontrate per la prima volta sono limitate a ciò che
possiamo vedere e sentire. I nostri giudizi sugli altri sono influenzati dai tratti fisici quali la bellezza
o l’aspetto del viso. Notevole attenzione è inoltre rivolta a ciò che gli individui dicono. La dote più
caratteristica della specie umana è il linguaggio che riserva un numero eccezionale di informazioni.
Però, non tutto si riduce a ciò che gli altri dicono, infatti, un’altra fonte di informazione sulle
persone è la comunicazione non verbale che indica un ampio corpo di ricerche svolte su aspetti
diversi della comunicazione senza parole. Gli indizi non verbali assolvono numerose funzioni
comunicative. Gli usi fondamentali del comportamento non verbale sono: esprimere emozioni,
comunicare atteggiamenti, comunicare i propri tratti della personalità. Alcuni indizi non verbali
ripetono o completano il messaggio verbale mentre altri contraddicono le parole pronunciate. Gli
indizi non verbali possono anche sostituirsi al messaggio verbale. Dominatrici del linguaggio non
verbale sono le espressioni del viso. Il primo a studiare le espressioni del volto fu Darwin che intuì
la capacità dei tratti del volto di comunicare stati emotivi. La tesi darwiniana dell’universalità delle
espressioni facciali rimane tuttora valida. Le principali forme di espressione delle emozioni sono
sei: rabbia, felicità, sorpresa, paura, disgusto e tristezza. Gli ultimi studi condotti tentano di
accertare se esistano, oltre alle sei emozioni principali, altri stati emotivi che vengono comunicati
con determinate espressioni facciali facilmente identificabili. Se pure esistono prove per sostenere
l’uniformità di espressione delle sei emozioni principali in tutto il mondo, è pur vero che la cultura
influenza la scelta delle occasioni e delle modalità in cui manifestarle tramite il volto. Le regole di
esibizione sono proprie di ciascuna cultura e regolano quali generi di espressione emotiva vadano
mostrati. Il compito di decodificare correttamente le espressioni facciali è più complesso di quanto
possa apparire: gli individui spesso manifestano delle emozioni miste, esprimendo con diverse parti
della faccia altrettante emozioni. Esistono naturalmente altri canali di comunicazione non verbale.
Indizi particolarmente potenti sono quelli manifestati dal contatto visivo e dallo sguardo. Un’altra
forma di comunicazione non verbale è il modo in cui le persone impiegano lo spazio personale. Un
altro affascinante mezzo comunicativo sono i gesti delle mani e delle braccia. Gesti che dispongono
di definizioni chiare e facilmente comprensibili si chiamano emblemi. È da notare che gli emblemi
non sono universali: ogni cultura ne crea di propri, che necessariamente non vengono compresi
dagli appartenenti ad altre culture. La vita quotidiana si compone di interazioni sociali svolte
utilizzando più canali. Informazioni non verbali utili sono presenti in più canali, semplificando così
il compito dell’osservatore: se non riesce a cogliere il significato comportamentale dello sguardo,
può considerare il tono di voce o un gesto insolito e formulare un giudizio ugualmente preciso. Altri
studi hanno inoltre mostrato che alcuni individui possiedono doti particolari nel decodificare con
precisione gli indizi non verbali, mentre altri denotano una grande carenza. Le donne è stato
dimostrato che sono più brave nel decifrare gli indizi non verbali meglio degli uomini quando il
soggetto dice la verità, perdono tale superiorità non appena questi comincia a mentire. Le donne
sono più gentili degli uomini pur possedendo questa capacità di decodificare gli indizi non verbali
della bugia, le donne tendono ad accantonarla quando si imbattono in un inganno per mostrare
gentilezza verso chi parla. Questa interpretazione si accorda perfettamente con la teoria delle
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differenze sessuali. Altra teoria molto importante che applichiamo quando veniamo in contatto con
altre persone è quella denominata teoria implicita di personalità tale teoria svolge la funzione
classica degli schemi mentali: in veste di economizzatori di risorse cognitive, riusciamo ad
estrapolare più informazioni da un campione limitato perché tale teoria si compone delle nostre idee
su quali generi di tratti di personalità si accordino fra loro. Tale teoria si sviluppa lungo un arco di
tempo ed in base alle nostre esperienze e comprende anche una forte componente culturale. Le
influenze culturali nella formazione delle teorie implicite della personalità vennero dimostrate da
Hoffman, Lau e Johnson che osservarono che culture diverse avevano idee diverse sui tipi di
personalità. La nostra cultura e la nostra lingua, infatti, producono delle teorie implicite della
personalità che sono largamente condivise, e queste teorie possono influenzare il genere di
impressioni che ci creiamo reciprocamente. Alcuni studi recenti hanno dimostrato che le nostre
impressioni possono essere influenzate dall’accessibilità delle categorie di tratti, definita come il
grado di immediatezza con cui i pensieri, le idee ed i tratti si presentano alla nostra mente e pertanto
di probabile impiego quando operiamo giudizi sul mondo sociale. Vi sono due modi in cui i tratti
diventano accessibili: essi possono rendersi cronicamente accessibili a causa di alcune esperienze
precedenti oppure possono rendersi evidenti per ragioni arbitrari cioè le azioni o i pensieri più
casuali in cui eravamo impegnati prima di imbatterci in un evento possono innescare un tratto,
rendendolo più accessibile e pertanto di uso più probabile per la nostra interpretazione di
quell’evento; un’esperienza recente aumenta l’accessibilità di alcuni tratti, rendendo più probabile il
loro impiego per l’interpretazione di un fatto nuovo, anche se esso non ha alcuna relazione con
quello che ha in origine innescato i tratti. Quando osserviamo gli altri, disponiamo di un’ampia
fonte di informazioni su cui fondiamo le nostre impressioni. Su questa base possiamo anche
azzardare delle ipotesi sulla loro personalità. Il passo successivo è impiegare le nostre teorie
implicite della personalità per riempire i vuoti. Il comportamento non verbale, tuttavia, non è
indicatore assolutamente fedele dei reali pensieri o emozioni degli altri. In realtà, anche se il
comportamento non verbale a volte sembra interpretabile con facilità, esso non cancella l’ambiguità
sostanziale su vero significato del comportamento degli altri. Dobbiamo andare oltre le
informazioni che c sono date e inferire da ciò che osserviamo la vera natura delle persone e le
ragioni delle loro azioni. La teoria dell’attribuzione si concentra sul nostro modo di rispondere a
simili domande, studiando le modalità con cui inferiamo le cause del comportamento degli altri. La
paternità della teoria dell’attribuzione viene di norma riconosciuta a Heider. La sua teoria
raffigurava le persone come degli scienziati dilettanti che cercano di comprendere il comportamento
degli altri assemblando varie informazioni finchè non pervengono ad una spiegazione o ad una
causa possibile. Heider si interessava soprattutto a ciò che sembrava ragionevole alle persone ed
alle modalità con cui giungevano alle loro conclusioni. Uno dei contributi fondamentali di Heider è
una semplice dicotomia: quando cerchiamo di decidere perché le persone si comportano in un dato
modo, possiamo compiere un’attribuzione interna o un’attribuzione esterna. La nostra impressione
cambia considerevolmente a seconda del tipo di attribuzione che compiamo. Se essa è interna, ne
dedurremmo un’impressione negativa, mentre se è esterna, non apprendiamo molto a suo riguardo.
Un altro importante contributo di Heider fu l’analisi della preferenza che accordiamo alle
attribuzioni interne rispetto a quelle esterne. Sebbene entrambi i generi di attribuzioni siano sempre
possibili, secondo Heider, la nostra tendenza a ritenere che le cause del comportamento di una
persona risiedano in essa. La nostra percezione si concentra sulle persone, che sono ciò che
osserviamo, mentre trascuriamo la situazione, che è spesso difficile da osservare e da descrivere.
Sulla scoperta fatta da Heider che le attribuzioni interne godono di maggiore importanza nelle
nostre percezioni, si è poi sviluppata la teoria dell’inferenza corrispondente, una delle principali
nello studio delle attribuzioni. La teoria dell’inferenza corrispondente venne elaborata per
descrivere quel processo con cui giungiamo ad un’attribuzione interna, ovvero come inferiamo delle
disposizioni, o caratteristiche della personalità interna, partendo dai corrispondenti comportamenti o
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azioni. Si occupa del modo in cui restringiamo queste possibilità in una conclusione specifica sulle
ragioni del comportamento che osserviamo. Secondo questa teoria, il modo principale per compiere
attribuzioni interne è paragonare i risultati che le persone hanno ottenuto adottando quel
comportamento, con quelli che avrebbero potuto ottenere comportandosi diversamente, per usare i
termini della teoria, paragonare gli effetti delle scelte diverse. Un’attribuzione interna è più
semplice nella misura in cui si danno degli effetti non comuni per queste scelte differenti. Una
determinata serie di azioni può risultare priva di valore informativo anche quando implica pochi
effetti non comuni, dal momento che tutti avrebbero fatto la stessa cosa. Quando osserviamo una
persona esistono due tipi differenti di aspettative che entrano in gioco cioè le aspettative basate sul
bersaglio che si riferiscono al modo in cui ci aspettiamo che si comporti una determinata persona,
basandoci sulle sue azioni precedenti, e le aspettative basate sulla categoria cioè le aspettative sulle
persone che si basano sui loro gruppo di appartenenza. Secondo la teoria dell’inferenza
corrispondente compiere le attribuzioni equivale a comportarsi come un detective. Quando
cerchiamo di dedurre le ragioni per cui qualcuno si è comportato in un determinato modo, i
colpevoli sono quelle cose che la persona può avere tentato di conseguire, ovvero gli effetti delle
sue azioni. Restringiamo quindi il numero di possibilità mediante l’analisi di ciò che quella persona
avrebbe potuto ottenere comportandosi in un modo alternativo. Teniamo anche in conto in che
misura ci aspettavamo che le persone compissero quanto hanno effettivamente fatto, in quanto le
azioni impreviste permettono una diagnosi migliore della loro vera natura rispetto a quelle che ci
attendiamo. Mentre Jones e Davis si erano concentrati sulle informazioni che gli individui usano per
compiere un’attribuzione interna, Kelley rivolse la sua attenzione sulla prima fase del processo della
percezione sociale, vale a dire il modo in cui le persone decidono se fare un’attribuzione interna o
esterna. Un’ulteriore differenza che separa le due teorie è che quella dell’inferenza corrispondente si
applica ad una singola osservazione del comportamento, mentre il modello della covariazione è
valido per più esempi di comportamento che s verificano nel tempo ed in situazioni diverse.
Secondo Kelley, i dati che utilizziamo sono il modo in cui il comportamento di una persona covaria
a seconda della situazione temporale e spaziale, e dei diversi attori e bersagli del comportamento.
Mediante la scoperta della covariazione nel comportamento degli altri, riusciamo a formulare un
giudizio sulle cause del loro comportamento. Kelley si chiese anche quali generi di informazioni
riteniamo pertinenti alla covariazione mentre compiamo un’attribuzione. Esistono tre tipi
fondamentali di informazioni: consenso, specificità, coerenza. Il modello di giudizio della
covariazione ci dice che l’informazione di consenso si riferisce al modo in cui le altre persone si
comportano nei confronti del medesimo stimolo. L’informazione di specificità si rivolge al modo in
cui l’attore risponda ad altri stimoli. L’informazione di coerenza riguarda la frequenza con cu il
comportamento osservato fra lo stesso attore e il medesimo stimolo si verifica nel tempo e in varie
circostanze. La teoria di Kelley vuole che un’attribuzione diventi possibile quando queste tre fonti
di informazioni si combinano in uno o due pattern caratteristici. Le persone compiono con maggiore
probabilità un’attribuzione interna quando il consenso e la specificità dell’atto sono scarsi.
L’attribuzione esterna viene compiuta con maggiore probabilità in presenza di un elevato consenso,
specificità e coerenza. se infine la coerenza è bassa, non possiamo fare una chiara attribuzione
interna o esterna, e pertanto ricorriamo ad un genere particolare di attribuzione mediante cui
ipotizziamo che si stia verificando qualcosa di insolito o di particolare in quelle circostanze. Sia la
teoria dell’inferenza corrispondente, sia il modello della covariazione ipotizzano che le persone
compiano attribuzioni casuali secondo un atteggiamento logico e razionale. Gli individui osservano
gli indizi, quali la specificità di un atto, e quindi ne deducono un’inferenza logica sulle ragioni che
hanno spinto la persona a compiere quell’azione. Un’ulteriore teoria dell’attribuzione è quella della
tassonomia delle attribuzioni di successo e di fallimento sviluppata da Weiner che prende in esame i
tipi di attribuzione interna ed esterna che possiamo compiere in una situazione. I risultati ottenuti
da Weiner mostrano che sono tre le variabili fondamentali nelle attribuzioni sul successo o sul
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fallimento: locus che si riferisce all’elemento più basilare, ovvero alla domanda se la causa del
comportamento osservato sia interna (relativa alla persona) o esterna (relativa alla situazione); la
stabilità che si riferisce al grado con cui la causa del comportamento appare stabile o instabile; la
controllabilità che indica se la causa del comportamento possa essere controllata o meno
dall’individuo. Secondo Weiner la variabile del locus influenza l’autostima dei soggetti riguardo
alla loro performance; la stabilità condiziona la percezione delle prestazioni future; le percezioni di
controllabilità suscitano ciò che si definisce emozioni sociali. Riassumendo la teoria dell’inferenza
corrispondente, il modello della covariazione e la tassonomia delle attribuzioni di successo o
fallimento ritraggono le persone che deducono le cause del comportamento in misura sistematica e
logica alla stregua dei detective di professione. La teoria o schema fondamentale più diffuso sul
comportamento umano è che sono le caratteristiche personali degli individui ad indurli a
comportarsi in un determinato modo e non la situazione in cui si trovano. Seguendo questo modo
di pensare, è più probabile che ci trasformiamo in psicologi della personalità che scorgono il
comportamento come originato dalle disposizioni e dai tratti interni, piuttosto che in psicologi
sociali che si concentrano sull’impatto delle situazioni sociali sul comportamento. Questa tendenza
ad assumere un ruolo di psicologi della personalità è così dilagante che lo psicologo sociale Ross la
definì errore fondamentale di attribuzione. Disponiamo di numerose dimostrazioni empiriche della
tendenza a interpretare il comportamento delle persone come un riflesso delle loro disposizioni e
credenze, invece che come un condizionamento prodotto dalla situazione. L’errore fondamentale di
attribuzione indica che le persone tendono a sottostimare queste influenze all’atto di spiegare il
comportamento degli altri. Quando cerchiamo di spiegare il comportamento di qualcuno, la nostra
attenzione si concentra di norma sulla persona, piuttosto che sulla situazione circostante. Se, però,
non sappiamo quale significato viene attribuito alla situazione, non possiamo giudicarne con
precisione gli effetti sul suo comportamento. La nostra salienza percettiva, ovvero il nostro punto
visivo di osservazione, ci aiuta a spiegare perché l’errore fondamentale di attribuzione sia così
diffuso. Quando cerchiamo di spiegare il comportamento umano, di fatto concentriamo l’attenzione
più sugli individui che sulla situazione circostante, e così sottostimiamo, o addirittura ci
dimentichiamo, l’influenza della situazione. Riassumendo, le persone attraversano due stadi nel
processo di attribuzione. Cominciano con un’attribuzione interna, ipotizzando che il
comportamento di una persona sia dovuto a qualche caratteristica personale. Quindi cercano d
aggiustare quest’attribuzione prendendo in dovuto conto la situazione in cui la persona si trova.
Questo secondo stadio, tuttavia, spesso non presenta un sufficiente accomodamento. Una
conseguenza interessante è che le persone sono distratte o preoccupate mentre spiegano il
comportamento di qualcuno, possono anche non arrivare affatto al secondo stadio, compiendo così
un’attribuzione ancora più interna. Il passo iniziale, infatti, si verifica in maniera rapida e spontanea,
mentre il secondo richiede maggiore sforzo ed attenzione consapevole. Un lato interessante
dell’errore fondamentale di attribuzione è che non si applica alle attribuzioni che compiamo su noi
stessi nella misura in cui è applicabile alle attribuzioni su altre persone. Mentre tendiamo a scorgere
le cause disposizionali del comportamento altrui, ci affidiamo con minore probabilità e sicurezza a
questo genere di cause quando ci spieghiamo il nostro stesso comportamento, compiendo spesso al
contrario delle attribuzioni situazionali. Si crea così un interessante dilemma attribuzionale: la
medesima azione può suscitare attribuzioni situazionali in chi la compie ed attribuzioni
disposizonali in coloro che la osservano. È questa la differenza fra attore e osservatore. Storms
condusse un esperimento che dimostrò il ruolo della salienza percettiva tanto nell’errore
fondamentale di attribuzione quanto nella differenza attore/osservatotore, infatti, notò che gli
osservatori attribuiscono maggiori caratteristiche disposizionali all’attore che stanno osservando,
dimostrando così l’errore fondamentale di attribuzione, mentre gli attori presentano maggiori
attribuzioni situazionali riguardo al medesimo comportamento, che è poi il loro stesso. Al
differenza attore/osservatore si verifica anche per un’altra ragione: gli attori dispongono di maggiori
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informazioni su se stessi rispetto agli osservatori, gli attori conoscono il loro precedente
comportamento, e sanno cosa è accaduto loro quel giorno stesso, rispetto agli osservatori, gli attori
sono molto più consapevoli delle somiglianze quanto delle differenze nei loro comportamenti nel
corso del tempo e a seconda delle situazioni, gli attori possiedono maggiori informazioni di
coerenza e specificità rispetto agli osservatori. Non sorprende, quindi, che le autoattribuzioni
compiute dagli attori riflettano spesso dei fattori situazionali, avendo essi maggiori conoscenza sul
modo in cui varia il loro comportamento a seconda della situazione, rispetto a degli osservatori che
li guardano in contesti delimitati. Una terza differenza tra attore/osservatore risiede nel linguaggio,
infatti, il linguaggio usato dalle persona per analizzare se stessi è più concreto, mentre quello
impiegato per descrivere gli altri è più astratto: nel primo caso ci si affida ai verbi, nel secondo caso
agli aggettivi. Nella conversazione tendiamo a descrivere noi stessi in termini concreti, ponendo in
risalto alcuni determinati comportamenti e lasciando ai nostri ascoltatori il compito di giudicare ed
interpretare le informazioni. Questa differenza concreto/astratto nel linguaggio di attori ed
osservatori appare anche quando gli individui non stanno compiendo delle attribuzioni causali, ma
si limitano a descrivere degli eventi del passato. Il linguaggio che impieghiamo quando pensiamo o
parliamo a noi stessi è diverso da quello con cui parliamo o pensiamo degli altri : tendiamo ad
enfatizzare le disposizioni quando l’oggetto sono gli altri e di meno quando si tratta di noi stessi.
Esistono altre scorciatoie mentali che tendono a farci avere una certa visione del mondo e a farci
stare bene con noi stessi, queste scorciatoie sono attribuzioni che proteggono la nostra autostima e
la nostra credenza che il mondo per noi sia sicuro e protetto. Tali scorciatoie hanno, quindi, un
fondamento motivazionale. Quando, però, la nostra autostima è minacciata si compiono delle
attribuzioni a nostro favore cioè tendiamo a renderci il merito dei nostri successi mediante delle
attribuzioni interne, e a dare la colpa agli altri, alle situazioni, per i nostri fallimenti. Le persone
tentano quanto più è possibile di mantenere la loro autostima inalterata, anche a costo di distorcere
la realtà, inoltre le persone modificano le attribuzioni per ovviare ad altri generi di minacce verso la
loro autostima prendendo delle precauzioni che possono essere: attribuzioni difensive che sono
volte a preservarci da sensazioni di vulnerabilità e mortalità, ottimismo irrealistico riguardo il
futuro. L’ottimismo eccessivo è un modo che le persone hanno di proteggersi dalla spiacevole
sensazione di essere mortali. Concludendo lo scopo per cui compiamo attribuzioni è essere capaci
di comprendere gli altri e prevedere il loro comportamento futuro, esistono, però, molte circostanze
in cui non riusciamo ad essere precisi, specialmente se le paragoniamo la grado di accuratezza che
crediamo di avere. Basta pensare alle prime impressioni, a quelle rapide istantanee attribuzionali
che scattano quando incontriamo qualcuno per la prima volta. L’imprecisione delle prime
impressioni è stata dimostrata da molte ricerche. Non sorprende, infatti, che le impressioni che
abbiamo degli altri diventino più accurate quanto più ci trascorriamo tempo insieme per conoscerle.
Non è certo sconvolgente concludere che quanto più conosciamo una persona, tanto meglio la
conosciamo. Vi sono però due interessanti eccezioni a questa verità: il tasso di precisione per gli
amici intimi non era poi così elevato, le persone non sono così precise credono di essere. In alcuni
casi le nostre impressioni sono errate a causa delle scorciatoie mentali che percorriamo per
formulare dei giudizi sociali. E il primo colpevole è l’ormai familiare errore fondamentale di
attribuzione. Gli individui tendono fin tropo facilmente ad attribuire le azioni degli altri alle loro
personalità, piuttosto che alla situazione. Con questo non si vuol dire che è sempre sbagliato
compiere attribuzioni disposizionali. Anche se le persone sottostimano la forza delle situazioni
sociali, possono tuttavia avere impressioni corrette a causa del fatto che sono le disposizioni degli
attori a farle gravitare attorno a determinate situazioni ed a farle evitare altre. Un’altra ragione per
cui le nostre impressioni sono a volte errate risiede nell’uso che facciamo gli schemi. Le persone
impiegano le teorie implicite della personalità per riempire le lacune di ciò che sanno degli altri, e
usano schemi o teorie per decidere quali siano state le ragioni del loro comportamento. In altre
parole, le nostre impressioni sono precise quanto le nostre teorie. Vi sono almeno tre ragioni che ci
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spingono a credere di avere impressioni abbastanza corrette: la prima perché spesso osserviamo le
persone solo in un numero limitato di situazioni e pertanto non abbiamo la possibilità da accorgerci
che le nostre impressioni sono sbagliate; la seconda perché non riusciamo mai ad accorgerci che le
nostre impressioni sono errate se la facciamo avverare cioè se un’impressione iniziale è imprecisa,
spesso facciamo si che si avveri mediante il nostro modo di trattare quella persona; la terza perché è
che possiamo non accorgerci di essere nel torto se sono in molti, pur sbagliando, a pensare in un
certo modo di una persona. Per poter accrescere la correttezza delle nostre attribuzioni ed
impressioni, dobbiamo sempre ricordarci che esistono l’errore fondamentale di attribuzione e la
profezie che si autoadempiono, e che a questi condizionamenti bisogna reagire.
Capitolo 5 : La comprensione di sé: come arriviamo a capire noi stessi
Il Sé è composto dai nostri pensieri e credenze su noi stessi, il Sé è anche un attivo elaboratore di
informazioni, il conoscente, o l’io. In termini moderni, ci riferiamo all’aspetto conoscitivo del Sé
come al concetto di Sé, o la definizione del Sé, e all’aspetto conoscente del Sé come
consapevolezza, o coscienza. James pose l’accento sull’importanza delle relazioni sociali nella
definizione di sé, osservando che possiamo avere differenti sé che si sviluppano in risposta alle
diverse situazioni sociali. Questi molteplici sé sono tutti noti, ma spetta al conoscente saper
riconoscere quando è opportuno mostrare un sé piuttosto che un altro. Perché il senso di sé possa
svilupparsi è necessario comprendere che siamo individui che conoscono e che esiste qualcosa da
conoscere. Esiste un notevole divario fra riconoscere se stessi in uno specchio e avere una
definizione complessa e poliedrica di sé, caratteristica quest’ultima dell’essere umano adulto. In
molte culture occidentali le persone hanno una visione di sé indipendente che esalta
l’individualismo. Gli occidentali imparano a definire se stessi in chiave di netta separazione dagli
altri, valorizzando l’indipendenza e l’unicità. Molti asiatici e altre culture non occidentali
possiedono una visione di sé interdipendente in cui viene valorizzata l’associazione e
l’interdipendenza fra le persone. L’indipendenza e l’unicità sono disapprovate, mentre viene
accentuata l’interdipendenza fra gli individui. Ciò che in una cultura è giudicato come un
comportamento positivo e normale può essere visto in modo molto diverso da un’altra, a causa delle
differenze fondamentali nella costruzione del concetto di sé che si riscontrano nelle diverse culture.
Anche all’interno delle culture vi sono differenze nel concetto di sé, e queste differenze hanno più
probabilità di acuirsi con l’aumentare del contatto fra le culture. La differenza del senso di sé tra
cultura orientale e cultura occidentale ha una sua realtà, oltre che delle conseguenze interessanti
sulla comunicazione fra le culture. Le differenze del senso di sé sono cruciali a tal punto che è
molto difficile per le persone con un sé indipendente valorizzare che cosa vuol dire avere un sé
interdipendente e viceversa. Nonostante le differenze interculturali, esistono anche degli aspetti
comuni fra le culture rispetto alla natura del concetto di sé. Banaji e Prentice hanno identificato due
aspetti basilari del sé: la conoscenza di sé (che si riferisce al nostro desiderio di formulare un
accurato giudizio dei nostri tratti, atteggiamenti e abilità) e l’accrescimento di sé (che si riferisce al
nostro desiderio di mantenere ed accrescere la stima di sè). Pur non escludendo che l’enfasi
assegnata a questi aspetti differisca da cultura a cultura, molti psicologi concordano nel sostenere
che si tratta di caratteristiche fondamentali della natura, comuni a tutti. Parlando del concetto di sé
come fonte delle nostre informazioni, si introduce la nozione di introspezione che consiste nel
guardarsi dentro ed esaminare le informazioni interne, quelle che solo noi abbiamo circa i nostri
pensieri, sentimenti e motivazioni. Secondo la teoria della consapevolezza di sé, quando ci
focalizziamo su noi stessi valutiamo e confrontiamo il nostro comportamento presente rispetto ai
valori e alle regole interne. In breve, diventiamo letteralmente coscienti di noi stessi, nel senso che
diventiamo oggettivi, osservatori giudicanti di noi stessi. Secondo Duval e Wicklund, vedere se
stessi aiuta a prendere coscienza della disparità fra il comportamento e le regole morali. Se solo
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possiamo cambiare il nostro comportamento per adattarlo ai nostri principi interni, lo facciamo. Se
invece sentiamo di non poterlo fare, allora l’essere in uno stato di consapevolezza di sé risulterà
molto sgradevole, e saremo messi di fronte ad uno spiacevole feedback su noi stessi. In questa
situazione, lo stato di coscienza di sé si arresterà il più velocemente possibile. Focalizzarsi su se
stessi può quindi essere uno stato mentale spiacevole. Questa insoddisfazione circa noi stessi può
essere dolorosa, e divenire il motivo per cui fuggiamo da un autoesame. A volte le persone vanno
oltre ogni limite pur di scappare da se stessi, molte forme di espressione religiosa e di spiritualità
sono anche mezzi efficaci per evitare l’attenzione su di sé; il concentrarsi su di sé non è sempre
qualcosa di negativo. Il centrarsi su di sé può anche essere un modo per tenerci fuori dai guai,
poiché ci ricorda che cosa sia per noi il giusto e lo sbagliato. La coscienza di sé è particolarmente
negativa quando ricorda alle persone le proprie manchevolezze, ed in queste circostanze si cerca
pertanto di evitarla. Altre volte una certa dose di coscienza di sé è salutare, in quanto ci rende più
consci dei nostri valori e delle nostre regole morali. Molti dei nostri processi mentali di base
avvengono al di fuori della coscienza. Questo non vuol dire che siamo pensatori completamente
disorientati: siamo coscienti dei risultati finali dei nostri processi mentali. Spesso però non abbiamo
coscienza dei processi mentali che hanno portato a quel risultato. L’introspezione può, quindi, non
condurci alle vere cause dei nostri sentimenti e comportamenti, ma può spingere a convincerci che
lo possiamo fare. Nisbett e Wilson hanno studiato il fenomeno che consiste nel dire più di quanto
sappiamo, dai risultati ottenuti si evinse che i soggetti avevano fatto affidamento a delle teorie
causali. Le persone possiedono molte teorie su cosa influenzi il loro comportamento ed i loro
sentimenti, e spesso le usano, per aiutarsi a spiegare perché si sentono in un certo modo. Molte di
queste teorie ci vengono dalla cultura in cui siamo cresciuti: il solo problema è che i nostri schemi e
le nostre teorie non sempre sono corretti, e possono portarci a formulare giudizi errati sulle cause
delle nostre azioni. Wilson ha scoperto che l’analisi delle ragioni dei nostri sentimenti non è sempre
la migliore strategia ed in realtà può portare a conseguenze peggiori. Poiché è difficile sapere
esattamente perché ci sentiamo in un certo modo quando facciamo qualcosa, riportiamo alla nostra
attenzione i motivi che ci sembrano più plausibili e che ricordiamo più facilmente. Non per questo
tali ragioni sono necessariamente corrette. Esse possono anzi rivelarsi addirittura peggiori: ci
convinciamo che sono giuste così, in sintonia con esse, cambiamo opinione sul modo in cui ci
sentiamo. Anche se può sembrare un po’ strano affermare che scopriamo come ci sentiamo
osservando ciò che facciamo, la teoria dell’autopercezione di Bem afferma che tutte le osservazioni
sono un’importante fonte di conoscenza di sé. Bem , infatti, sostiene che siamo in grado di inferire i
nostri sentimenti dal comportamento quando sono soddisfatte due condizioni: la prima è che i nostri
sentimenti iniziali devono risultare deboli e poco chiari, la seconda è che le persone pensano alle
ragioni dei loro comportamenti per vedere se essi riflettono veramente come si sentono. Secondo la
teoria dell’autopercezione, comprendere che il nostro comportamento è provocato da un fattore
esterno non significa ipotizzare che esso rifletta le nostre sensazioni interne. In altre parole, dopo
aver osservato il nostro comportamento e la situazione, compiremo un’attribuzione esterna,
piuttosto che interna. Il problema è che quando queste cause esterne sono più che evidenti,
tendiamo ad esagerare ed a sottovalutare il grado in cui anche i fattori interni hanno giocato un loro
ruolo. Definiremo, quindi, motivazione intrinseca ciò che spinge una persona a compiere un’azione
solo per il proprio piacere; mentre definiremo motivazione estrinseca quel fattore esterno che ci
spinge a fare qualcosa. Sostituire motivazioni intrinseche con quelle estrinseche, mediante l’uso di
ricompense, induce gli individui a perdere interesse per l’attività che prima era fonte di piacere.
Questo risultato si chiama effetto di sovragiustificazione: le persone sovragiustificano il loro
comportamento concentrandosi sulle cause esterne, come delle ricompense, e sottostimano il loro
interesse intrinseco per il comportamento. Si può, però, evitare l’effetto sovragiustificazione
capendo che le ricompense diminuiscono l’interesse solo se questo era inizialmente alto, e che è il
tipo di ricompensa a costituire la differenza. Esistono vari tipi di ricompensa tra questi ricordiamo le
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ricompense contingenti al compito, che le persone ottengono solo appunto per aver eseguito un
compito, indipendentemente dalla qualità della loro prestazione; le ricompense contingenti alla
prestazione, le quali dipendono dalla bravura con cui le persone svolgono un compito. L’ultimo tipo
di ricompensa ha meno probabilità di diminuire l’interesse per un compito, anzi, può addirittura
aumentarlo, in quanto comunica il messaggio che si è bravi a svolgerlo.
Spesso usiamo le osservazioni del nostro comportamento per determinare cosa pensiamo e che tipo
di persone siamo. Possiamo credere di sapere come ci sentiamo, ma provare un’emozione non è
così semplice come sembra. Schachter avanzò una teoria delle emozioni secondo cui noi inferiamo
quali siano le nostre emozioni nello stesso modo in cui inferiamo quale genere di persona siamo o
quale interesse proviamo, l’unica differenza è nel genere di comportamento che osserviamo; noi
osserviamo i nostri comportamenti interni, il grado di eccitazione fisiologica che avvertiamo. La
tesi di Schachter è chiamata teoria bifattoriale delle emozioni, in quanto la comprensione dei nostri
stati emotivi richiede due stadi: nel primo dobbiamo provare dell’eccitazione fisiologica, e nel
secondo dobbiamo cercare una spiegazione adeguata, un’etichetta con cui contrassegnarla. Poiché i
nostri stati psichici non si presentano automaticamente etichettati, usiamo le informazioni presenti
nella situazione per arrivare ad un’attribuzione delle ragioni della nostra eccitazione.
Un’affascinante implicazione della teoria di Schachter è che le emozioni delle persone sono in certa
parte arbitrarie, venendo a dipendere da quella che sembra la spiegazione più plausibile della
propria eccitazione. Schachter dimostrò che le emozioni possono essere il risultato di un processo di
percezione di sé mediante cui le persone ricercano la spiegazione più plausibile per l’eccitazione
che avvertono. Spesso non si tratta di quella giusta, ed è così che le persone finiscono per avvertire
un’emozione sbagliata. Numerose situazioni ci presentano più possibili cause della nostra
eccitazione, rendendoci difficile quale responsabilità sia da attribuirsi in percentuale a ciascuna di
esse. Numerosi studi recenti hanno dimostrato il verificarsi dell’attribuzione errata di eccitazione,
mediante cui le persone compiono inferenze sbagliate circa la causa delle sensazioni che provano.
Sebbene un numero molto alto di studi abbiano dato conferma all’ipotesi che le persone compiano
un’attribuzione errata della causa della loro eccitazione, finendo di provare un’emozione sbagliata o
esagerata, è anche divenuto sempre più evidente che le nostre emozioni non sono determinate
soltanto dalle spiegazione che attribuiamo alla nostra eccitazione. Spesso esse derivano da
un’interpretazione della situazione compiuta in assenza di eccitazione alcuna. Il nucleo delle teorie
delle emozioni come valutazioni cognitive è che la nostra emozione verrà a dipendere dal modo in
cui interpretiamo o valutiamo il fatto anche prima che insorga dell’eccitazione. Sono due tipi di
valutazione particolarmente rilevanti: il modo in cui valutiamo se il fatto ha implicazioni per noi
positive o negative, e il modo in cui valutiamo le sue cause. Ogni fatto può essere interpretato in
diversi modi: la nostra reazione emotiva dipenderà così dal fatto di assistere una spinta positiva o
negativa all’evento. Le nostre emozioni dipendono, quindi, dal fatto che valutiamo un evento come
positivo o negativo per noi stessi. Le teorie delle valutazioni cognitive ipotizzano che l’eccitazione
non abbia luogo per prima, essendo esse stesse causa sufficiente delle reazioni emotive. Come per
comprendere il mondo sociale le persone ricorrono a degli schemi, analogamente creano degli
schemi di sé, delle strutture organizzate di conoscenze su noi stessi, che si fondano sulle esperienze
precedenti e ci aiutano a comprendere, spiegare e prevedere il nostro comportamento. Non abbiamo
pertanto neanche una raccolta casuale e disordinata di pensieri su noi stessi: organizziamo al
contrario le nostre conoscenze su noi stessi in schemi coerenti che influenzano il nostro modo di
interpretare i nuovi fatti che ci accadono. Gli schemi di sé aiutano anche a organizzare i nostro
passato influenzando ciò che ne ricordiamo, ovvero i nostri ricordi autobiografici. Non possiamo
ricordare perfettamente ogni cosa che ci è capitata lungo la nostra vita, infatti, in ogni momento si
verificano distorsioni, vere e proprie amnesie. Spesso simili atti di distorsione e revisione dei ricordi
autobiografici non sono casuali.
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Le persone, quindi, apprendono a conoscersi tramite l’introspezione, l’osservazione del loro
comportamento e l’organizzazione di queste informazioni in schemi di sé. Tuttavia un’altra
importante fonte di conoscenza di sé cioè la conoscenza di sé tramite gli occhi degli altri, infatti,
molto di quanto noi apprendiamo è influenzato dalle altre persone. Quanto basiamo il nostro
concetto di sé sul modo in cui appariamo agli altri usiamo quello che è stato chiamato sé allo
specchio. La capacità di guardare noi stessi con gli occhi degli altri è fondamentale per la
costruzione del senso di sé, in quanto ci permette di comprendere che noi interpretiamo il mondo in
maniera diversa dagli altri. Se non potessimo avere accesso alla visione che gli altri hanno di noi,
avremmo un’immagine di noi stessi indistinta, mancando di uno specchio sociale in cui mirarci.
L’interazione sociale è fondamentale per la creazione del senso di sé perché ci aiuta alla creazione
del nostro senso di sé. La teoria del confronto sociale proposta da Festinger ci dice che le persone
nutrono il bisogno di giudicare le proprie opinioni e capacità per poter misurare i loro punti di forza
e di debolezza e avere così un’immagine accurata di se stessi. Secondo Festinger le persone cercano
quanto più possibile di affidarsi a criteri oggettivi, che sono però una forma di feedback
estremamente rara nella vita. Esistono così svariati aspetti importanti di noi stessi al cui riguardo
vorremmo sapere di più e per cui non esistono misurazioni oggettive. Dobbiamo quindi confrontarci
con gli altri in queste stesse aree. La teorie del confronto sociale verte su due importanti questioni
cioè quando procediamo al confronto sociale e con chi scegliamo di farlo. La ricerca ha dimostrato
che le persone in alcuni casi procedono al confronto sociale verso l’alto, ovvero al confronto con
persone più dotate di loro, ma solo per determinare quale si il criterio di eccellenza. In termini di
conoscenza di sé, è più importante confrontarsi con chi è simile. La costruzione di un’immagine
precisa di noi stessi è solo una ragione, sia pure la principale, del confronto sociale. Quando
cerchiamo di misurare la nostra prestazione relativa a un tratto per noi molto importante, ricorriamo
al confronto sociale anche per sostenere il nostro Io. Questo uso del confronto sociale verso il basso
è una strategia di protezione ed innalzamento del sé. La scelta si chi usare per confrontarci dipende
dalla natura dei nostri scopi. Se richiediamo una valutazione precisa delle nostre capacità ed
opinioni, ci confrontiamo con persone simili a noi. Se invece vogliamo delle informazioni su quale
sia l’eccellenza verso cui puntare, ricorriamo al confronto sociale verso l’alto. Se infine il nostro
scopo è sostenere la nostra immagine, impieghiamo il confronto sociale verso l’alto per poterci
sentire meglio. Dopo essere giunti a conoscere noi stessi, la nostra natura sociale ci induce ad
impiegare tutte queste conoscenze per presentarci agli altri. Il nostro concetto di sé possiede
numerosi aspetti; noi stessi abbiamo numerosi sé. Un aspetto fondamentale della nostra esistenza
sociale è proprio la presentazione di sé, mediante cui ci presentiamo per quello che siamo o per
quello che vogliamo gli altri credano che siamo, ricorrendo alle nostre parole, comportamento
verbale e azioni. La presentazione di sé non è comunque un processo semplice e lineare: vi sono
situazioni in cui vogliamo che le persone si formino una determinata impressione di noi. È allora
che procediamo alla gestione delle impressioni, ovvero l’orchestrazione più o meno consapevole di
una prestazione accuratamente congegnata del sé destinata a creare una data impressione che è in
accordo con i nostri scopi od obiettivi in un’interazione sociale. Le persone di ogni cultura sono
indubbiamente dedite alla gestione delle impressioni. È la forma in cui tale attività ha luogo,
tuttavia, a cambiare sensibilmente da cultura a cultura. Tutti noi ricorriamo in qualche misura alla
gestione delle impressioni. Alcune delle diverse tecniche strategiche di presentazione del sé a cui
ricorriamo ogni giorno è l’ingraziamento, ovvero quando lusinghiamo , lodiamo e in generale ci
rendiamo graditi ad un altro, di solito una persona di status superiore. L’ingraziamento è una tecnica
di grande forza, in quanto piace a tutti avere qualcuno che si mostra gentile con noi. Questo
espediente può però produrre i risultati opposti se il suo destinatario capisce cosa stiamo facendo.
Un’altra strategia di presentazione del sé, oggetto privilegiato di ricerca, è l’uso di strategie
autolesive, si tratta di una miscela di attribuzioni al servizio di sé e di gestione delle impressioni.
Sono due i modi di attuare questa tecnica: nella forma più estrema le persone si creano degli
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ostacoli che riducono le possibilità di successo, in modo da potere dare la colpa ad essi, piuttosto
che alle proprie capacità, in caso di effettivo fallimento; nella seconda forma, meno estrema, le
persone non creano degli ostacoli al loro successo, bensì congegnano delle scuse preconfezionate in
caso di fallimento.
Capitolo 6 : La giustificazione di sé e il bisogno di mantenimento del Sé
Gli esseri umani avvertono una forte esigenza di mantenere il concetto di sé ed un’alta
considerazione di se stessi. Alla sensazione di malessere provocata da informazioni che risultino
discrepanti con il concetto di noi stessi come esseri ragionevoli ed intelligenti si è dato il nome di
dissonanza cognitiva. Nella concezione originariamente elaborata da Festinger, la dissonanza
veniva definita come un’incoerenza esistente fra due cognizioni. Non tutte le incoerenze cognitive
producono tuttavia il medesimo sconvolgimento. È stato dimostrato da alcune ricerche che la
dissonanza assume il massimo potere quando compiamo un’azione o apprendiamo qualcosa che
viene a minacciare l’immagine che abbiamo di noi stessi. Ne segue un’incoerenza tra ciò che
pensiamo di essere e il modo in cui ci comportiamo. Più in generale, pertanto, la dissonanza
cognitiva si verifica ogni volta che compiamo un’azione che tende a fornirci una sensazione di
assurdità, stupidità o immoralità riguardo a noi stessi. La dissonanza cognitiva spinge l’individuo a
cercare di attenuare il malessere che essa stessa ha creato. I mezzi che usiamo per ridurre la
dissonanza, non sono semplici, e spesso ci inducono ad interessanti cambiamenti del nostro modo di
pensare il mondo e di comportarci. Molti di questi comportamenti sono tanto potenti quanto
imprevisti. Ogni individuo dispone di tre modi fondamentali per ridurre la dissonanza: cambiare il
comportamento fino a farlo accordare con la cognizione dissonante, cercare di giustificare il proprio
comportamento modificando una delle cognizioni al fine di renderla meno dissonante con il
comportamento, cercare di giustificare il comportamento mediante l’aggiunta di nuove cognizioni
che siano consonanti con il comportamento e che pertanto lo sostengano. Tutti noi pensiamo con
orgoglio che gli esseri umani siano animali razionali: ed in effetti sono capaci di assumere un
comportamento razionale. Il bisogno di preservare la stima di sé produce un pensiero che non
sempre è razionale, ma piuttosto razionalizzante. La teoria della dissonanza prevede che un
argomento insulso a sostegno della propria posizione genera della dissonanza, in quanto provoca dei
dubbi sulla saggezza stessa di quella posizione o sull’intelligenza delle persone che vi si trovino
concordi; cioè la teoria della dissonanza afferma che le persone si comportano in maniera
incoerente rispetto ai loro atteggiamenti e non riescono a trovare una giustificazione esterna. La
dissonanza è analogamente prodotta da un argomento ragionevole a favore dell’altro schieramento,
evocando la possibilità che gli altri possano essere più vicini alla verità di quanto non pensassimo. I
soggetti umani distorcono le informazioni per adattarle alle loro nozioni preconcette. Ogni volta che
prendiamo una decisione importante, cioè una decisione impegnativa, difficile da modificare, che
richiede degli sforzi o che può provocare danni ad un’altra persona, proveremo della dissonanza che
in questo caso verrà chiamata dissonanza post-decisionale. Noi avvertiamo la dissonanza che
proviene da una minaccia alla propria autostima, quindi, il modo più facile di ridurre tale
dissonanza è fare proseliti. Gli individui avvertono dissonanza quando compiono un’azione che
minaccia l’immagine che hanno di se stessi come persone dotate di gentilezza e di senso morale,
soprattutto quando non vi è alcun modo di spiegare questo comportamento sulla scorta delle
circostanze esterne. Vi sono tuttavia altre possibilità: nella maggior parte dei casi possiamo fare
tutto da soli, dentro di noi, semplicemente distorcendo il nostro modo di percepire quanto gradiamo
una certa situazione. Abbiamo detto che prendere una decisione produce dissonanza; al fine di
ridurre la dissonanza, gli individui modificano le loro sensazioni rispetto ad entrambi gli oggetti,
divaricandoli mentalmente fra loro nella dimensione cognitiva per potere così sentire benessere a
causa della scelta operata. Maggiore è l’importanza della scelta maggiore sarà la dissonanza
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prodotta. Le decisioni variano, inoltre, fra loro per il grado di permanenza ovvero per la loro
maggiore o minore irrevocabilità, quanto più permanente ed irrevocabile è la decisione, tanto più
forte sarà il bisogno di ridurre la dissonanza. L’irrevocabilità di una decisione aumenta
costantemente la dissonanza, così come le motivazioni per ridurla, ed è per questa ragione che sono
state sviluppate delle tecniche che creano le motivazioni per ridurre la dissonanza, tali tecniche
vanno sotto il nome di tecniche del colpo basso. Il funzionamento di tali tecniche si spiega con tre
ragioni: se la decisione è reversibile per chi la ha presa, esiste tuttavia una sorta di impegno già
preso, avendo già ad esempio firmato un assegno, l’impegno preso scatena qualcosa di eccitante a
cui poi è difficile rinunciare, sebbene poi le nostre aspettative ad esempio sul prezzo non sono
quelle desiderate inconsciamente ci giustifichiamo facendo dei paragoni. Sovente le nostre questioni
implicano questioni etiche, la risoluzione di simili dilemmi morali offre un’altra area interessante in
cui studiare la dissonanza, in virtù delle implicazioni per l’autostima. Ancor più degno di nota è il
fatto che la riduzione della dissonanza conseguente ad una grave decisione morale può influenzare
le persone a comportarsi in maniera più o meno etica nel futuro. È quasi assiomatico, comunque,
che la maggior parte di noi dedichi numerosi sforzi per ottenere qualcosa che desidera realmente.
Sorge, quindi, l’esigenza di ridurre la dissonanza e giustificare a posteriori il proprio
comportamento, la dissonanza provocata dal bisogno di giustificazione dello sforzo fornisce la
motivazione necessaria per questo genere di distorsione. Quando gli individui non riescono a
rinvenire una giustificazione esterna per il proprio comportamento, cercano di trovarne una interna
ravvicinando tra loro le due cognizioni dell’atteggiamento e del comportamento, tale processo viene
denominato counterattitudinal advocacy e che è quel processo che induce gli individui a dichiarare
pubblicamente un’opinione o un atteggiamento che è in contraddizione con i loro atteggiamenti
intimi. Quando ciò viene portato a termine con una bassa giustificazione esterna, ne segue un
cambiamento dell’atteggiamento intimo del soggetto, che va nella direzione dell’affermazione fatta
pubblicamente. Se vogliamo misurare un cambiamento di atteggiamento come il risultato di
cognizioni dissonanti, dovremmo sapere se questi atteggiamenti esistevano prima che si verificasse
il comportamento che ha causato dissonanza. La teoria della dissonanza cognitiva è in gran parte
una teoria delle motivazioni: in altre parole, le ricerche ci indicano che sono le sensazioni positive e
negative a mettere in moto tutto, a motivare l’individuo a modificare il suo atteggiamento o
comportamento. Ciò che in realtà scatena il cambiamento e la distorsione dell’atteggiamento che
può verificarsi nel processo di riduzione della dissonanza è esattamente il bisogno di preservare il
ritratto di noi stessi. L’ipotesi della teoria delle discrepanze del sé è che gli individui avvertono la
motivazione a preservare un senso di coerenza tra le loro varie credenze e percezioni circa se stessi.
Più in particolare, la teoria prevede che avvertiamo malessere qualora la nostra sensazione di chi
realmente siamo è in discrepanza con i nostri criteri e le concezioni del sé che desideriamo. Tali
criteri trovano migliore riflesso nelle varie credenze che nutriamo sul genere di persona che
aspiriamo ad essere (il nostro sé ideale) ed il tipo di persona che secondo noi dovremmo essere (il
nostro sé imperativo). Paragonare tutti questi tipi di sé ci fornisce un importante strumento di
valutazione del sé, di giudicare in altre parole le nostre capacità, i nostri attributi personali, il nostro
comportamento ed il grado in cui riusciamo a perseguire i nostri obiettivi. Al pari della teoria della
dissonanza, la teoria della discrepanza prevede che a causa di questo calo della nostra autostima
insorgerà un disagio psicologico, oltre alla motivazione a ridurre l’incoerenza associata alle
discrepanze del sé. Ci impegniamo così a ridurre la dissonanza ristabilendo l’armonia tra le nostre
credenze su noi stessi, in particolare tra il nostro sé reale ed i nostri criteri personali. Dedicandoci a
diverse forme di giustificazione del sé accorciamo il divario che a volte esiste fra il nostro sé reale,
testimoniato dalle nostre azioni discrepanti con il se, e chi aspiriamo ad essere. Le discrepanze del
sé non solo producono un disagio emotivo, ma provocano anche dei tentativi netti di minimizzare il
divario tra il sé reale e quello ideale o imperativo. Riassumendo la teoria della discrepanza del sé
offre un’interessante cornice di comprensione dell’eccitazione provocata dalla dissonanza come il
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prodotto delle minacce verso noi stessi, in particolare quando questi sforzi di reintegrare o
preservare un’immagine positiva di noi stessi sono generati da una violazione dei nostri criteri
personali. Il bisogno di proteggere una favorevole immagine di sé è stato studiato da numerosi
psicologi sociali che hanno analizzato come tale bisogno si inserisca nel campo delle relazioni
sociali. Il loro lavoro sulla teoria del completamento del sé sta ad indicare che quando gli individui
avvertono una minaccia ad una spetto importante del loro concetto di sé, o della loro identità,
impiegano una particolare motivazione nel ricercare qualche sorta di riconoscimento sociale della
loro identità. Una volta ottenuto, esso permette agli individui di restituire nel loro intero valore il
proprio concetto di sé, funzionando pertanto come una strategia di riduzione della dissonanza e del
mantenimento del sé. Quando proviamo una minaccia all’identità, avvertiamo una forte
motivazione a reintegrare quell’aspetto del nostro concetto di sé mediante il riconoscimento sociale.
Tendiamo, in altre parole, a cercare dei modi di segnalare agli altri che in realtà possiamo
legittimare pretendere con forza una particolare identità che è stata sfidata. Mediante delle attività
di simbolizzazione del sé diventiamo capaci di ridurre la dissonanza derivante dalla minaccia ai
nostri più preziosi concetti di sé. La ricerca sulla teoria del completamento del sé aggiunge
un’ulteriore dimensione al lavoro esistente sulla dissonanza come processo di mantenimento di un
concetto di sé stabile e positivo. Fornisce delle prove dell’importante ruolo svolto dal mondo
sociale nel sostenere la nostra identità, indicando come gli sforzi di ridurre la dissonanza derivino
da un senso di minaccia al sé che può assumere forme diverse, dal genere dei processi di
giustificazione del sé ai comportamenti di simbolizzazione del sé. Gran parte della ricerca sulla
teoria della dissonanza analizza il modo in cui l’immagine di noi stessi viene minacciata dal nostro
stesso comportamento. Ognuno di noi ha dei tratti e delle capacità che predilige. Qualunque sia la
nostra capacità preferita, è probabile che ogni volta che incontreremo qualcuno che risulti migliore
in essa, ne seguiranno dei problemi riconducibili alla dissonanza. Risiede qui la premessa
fondamentale della teoria del mantenimento del giudizio di sé secondo cui esistono tre importanti
indici della dissonanza nelle relazioni interpersonali: come svolgiamo un compito rispetto ad
un’altra persona, qual è il nostro grado di vicinanza ad essa, e quanto sia pertinente il compito alla
definizione di noi stessi. La teoria del mantenimento del sé ci ha abituato a prevedere che se le
persone non giudicano il compito particolarmente rilevante per loro stesse, desidereranno che i loro
amici abbiano particolarmente successo, per potere così brillare di luce riflessa. Se invece il
compito è rilevante, aiutare gli amici a superarli equivarrebbe a minacciare l’autostima delle
persone. La ricerca svolta sulla teoria del mantenimento del giudizio di sé sta a mostrare come le
minacce al concetto di noi stessi producano affascinanti conseguenze sulle nostre relazioni
interpersonali. Gli individui fanno di tutto pur di preservare una buona immagine di se stessi:
modificare il loro atteggiamento, il loro comportamento o il rapporto con gli altri. In ciascun caso,
essi cercano di restituirsi un senso di integrità allontanando una determinata minaccia al loro
concetto di sé. In alcuni casi queste minacce possono essere così forti e difficili da evitare che
risulterà impossibile utilizzare l’abituale metodo di riduzione della dissonanza. Per evitare la
dissonanza gli individui utilizzano teoria dell’affermazione del sé che ha luogo quando viene
minacciata la nostra autostima; se è possibile, cercheremo di ridurre la dissonanza ricordandoci
qualche aspetto non pertinente del nostro concetto di noi che teniamo in gran conto, per poterci così
sentire a posto con noi nonostante qualche azione insulsa o immorale che abbiamo compiuto.
L’affermazione del sé può anche bloccare il bisogno di ridurre il genere di dissonanza descritto
dalla teoria del giudizio di sé, ovvero quella che si produce quando le persone si sentono minacciate
dalla brillante performance di un’altra persona nel loro stesso campo di specializzazione. In breve,
le persone mostrano grande flessibilità nel mantenere il loro concetto di sé. Se non riescono a fare
fronte direttamente ad una minaccia, possono affermarsi in un altro campo una volta che gli si
presentano indicazioni ed opportunità in tal senso. Le persone avvertono di norma dissonanza ogni
volta che il loro concetto di sé viene minacciato: più precisamente, ogni volta che compiono
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un’azione che denoti un senso di assurdità, stupidità o immoralità. La giustificazione del sé opera al
servizio del mantenimento del sé: riducendo la dissonanza, i soggetti con un’immagine di sé
positiva riescono a reintegrare un senso di sé tanto positivo quanto coerente e stabile. La ricerca che
si è focalizzata sull’autostima ha rivelato che, in alcuni casi, gli individui con un concetto di sé
negativo non seguono i comportamenti di giustificazione di sé che caratterizzano le persone con
autostima relativamente alta. Quando i soggetti con una visione di sé negativa ricevono un feedback
positivo, nella loro mente si scontrano bisogni opposti: quello di sentirsi a posto con se stessi
credendo nel feedback positivo contro quello di preservare un ritratto di se stessi stabile e coerente
ed evitare così l’imbarazzo nell’essere smascherati (bisogno do verifica del sè). Gli esseri umani
provano un potente bisogno di sentirsi a posto con se stessi: in altre parole, il bisogno di
giustificazione di sè è una determinante fondamentale dei nostri atteggiamenti e comportamenti. Le
persone preferiscono restare vicino a chi le giudica in maniera non più positiva del loro concetto di
sé. In un rapporto stretto, la maggior parte di noi preferisce essere conosciuto per ciò che si è ,
piuttosto che essere sopravvalutati. Il comportamento della riduzione della dissonanza è volto a
difendere il sè. Può risultare utile, in quanto protegge il nostro sé da assalti continuo e fornisce un
senso di stabilità e di alta autostima. La tendenza, però, a giustificare il nostro comportamento
passato può indurci a razionalizzazioni dall’effetto disastroso a cui si dà il nome di trappola della
razionalizzazione che non è altro che un labirinto di distorsioni, che ci impediscono di vedere le
cose come realmente sono, in cui ci veniamo a trovare dopo essere stati presi dalla riduzione della
dissonanza.
Capitolo 7 : Gli atteggiamenti ed il loro cambiamento
E’ opinione comune che un atteggiamento si tratti di un giudizio permanente, sia esso positivo o
negativo, riguardo a persone, oggetti ed idee. Gli atteggiamenti si dicono permanenti nel senso che
resistono nel tempo. Una sensazione passeggera di fastidio verso una frase detta da qualcuno non
costituisce un atteggiamento, a differenza invece di un’impressione negativa e permanente a suo
riguardo. Gli atteggiamenti implicano un giudizio, nel senso che consistono in una reazione positiva
o negativa rispetto a qualcosa. Le persone non sono osservatori neutrali, bensì valutano
continuamente ciò che vedono. Gli atteggiamenti sono costituiti da diverse componenti o parti. In
particolare, essi comprendono, una componente emotiva, fatta da ciò che pensiamo e crediamo al
suo riguardo ed una componente comportamentale, che consiste nelle nostre azioni o nel
comportamento osservabile nei riguardi dell’oggetto dell’atteggiamento. Non tutti gli atteggiamenti
hanno origine allo stesso modo. Sebbene tutti includano componenti emotive, cognitive e
comportamentali, ciascuno di essi può essere basato su una componente in misura superiore alle
altre. In alcuni casi i nostri atteggiamenti poggiano soprattutto su fatti pertinenti, in questo caso
diciamo che si tratta di un atteggiamento a base cognitiva. La funzione di un simile atteggiamento è
la valutazione dell’oggetto, ovvero la classificazione degli oggetti a seconda delle ricompense e
degli svantaggi che comportano. In altre parole, lo scopo di questo tipo di atteggiamento è
classificare vantaggi e svantaggi di un oggetto in modo da essere rapidamente in grado di dire se
valga la pena impegnare la nostra attenzione. Un atteggiamento fondato più sulle emozioni e sui
valori che su una valutazione oggettiva dei pro e dei contro di un oggetto viene invece chiamato
atteggiamento a base emotiva. Sono diverse le fonti che originano gli atteggiamenti a base emotiva
e che non si formano da un attento esame dei fatti. In primo luogo, essi possono derivare dai valori
delle persone, ovvero le loro credenze religiose o morali. Questi atteggiamenti non hanno tanto la
funzione di ritrarre fedelmente il mondo, quanto di dare espressione e conferma al proprio sistema
fondamentale dei valori. Altri atteggiamenti a base emotiva possono essere il risultato di una
reazione sensoriale, altri ancora possono formarsi da un condizionamento. Si chiama
condizionamento classico il caso in cui un certo stimolo che provoca una reazione emotiva viene
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avvertito ripetutamente insieme con uno stimolo neutro che non provoca alcuna reazione, finchè
quest’ultimo non assume le proprietà emotive del primo stimolo. Nel condizionamento operante,
invece, si nota un aumento o una diminuzione della frequenza dei comportamenti che abbiamo
deciso di assumere a seconda che siano seguiti da una conferma positiva o da una punizione. Gli
atteggiamenti possono implicare un effetto positivo o negativo mediante il condizionamento
classico o operante. Nonostante l’eterogeneità delle fonti degli atteggiamenti a base emotiva,
possiamo raggrupparle in una sola famiglia tenendo conto del fatto che esse condividono alcune
caratteristiche fondamentali: non derivano da un esame razionale della questione, non sono rette da
logica, spesso sono legate ai valori delle persone, sicchè tentare di modificali implica la minaccia
dei valori stessi. Gli atteggiamenti hanno tre componenti oltre a potersi fondare soprattutto su una
cognizione o su un’emozione, un atteggiamento può anche fondarsi sul comportamento
(atteggiamento a base comportamentale). Le differenze fra gli atteggiamenti riguardano non solo la
loro origine emotiva, cognitiva o comportamentale, ma anche la loro forza. La forza di
un’associazione tra un oggetto ed il nostro giudizio su di esso viene definita accessibilità
dell’atteggiamento. Se un atteggiamento è altamente accessibile, esso ci verrà in mente ogni volta
che ci imbattiamo nel relativo oggetto, mentre se l’atteggiamento ha un relativo grado di
inaccessibilità, è probabile che le possibili emozioni vengano in mente con più lentezza. Una delle
ragioni dell’importanza dell’accessibilità di un atteggiamento è che essa determina il grado di
probabilità con cui le persone si comportano in maniera coerente con il loro atteggiamento.
L’accessibilità influenza, inoltre, la relativa facilità con cui gli individui modificano i loro
atteggiamenti. In generale, maggiore è l’accessibilità di un atteggiamento, maggiore è anche la
difficoltà a cambiare tale atteggiamento. Un modo in cui un atteggiamento acquista accessibilità è
mediante un’esperienza diretta e ripetuta con il relativo oggetto. Quando un atteggiamento è a base
comportamentale, ogni sensazione che possiamo avvertire acquisterà accessibilità. Il dato generale è
che tanto più un atteggiamento è a base comportamentale, tanto più esso è accessibile e resistente al
cambiamento. In alcuni casi anche gli atteggiamenti possono cambiare in risposta ad un’influenza
sociale. Ogni nostro atteggiamento può venire influenzato dalle azioni o dai comportamenti altrui. È
anche per questo che gli atteggiamenti rivestono notevole importanza agli occhi della psicologia
sociale: perfino qualcosa di così intimo e privato come un atteggiamento è un fenomeno dalla
spiccata natura sociale, che viene influenzato dal comportamento immaginato o reale degli altri.
L’ipotesi di tutta la comunicazione pubblicitaria è che il nostro atteggiamento verso i prodotti possa
essere influenzato dal sentire qualcuno che ne esalta le doti. Le persone, quindi, vengono
influenzate dal contenuto del messaggio o dalle caratteristiche più superficiali queste ipotesi furono
verificate tramite il modello della persuasione euristico-sistematico di Chaiken e tramite il modello
della probabilità di elaborazione di Petty e Cacioppo. Entrambe le teorie affermano che, in
determinate situazioni, le persone prestano attenzione ai fatti inerenti una comunicazione e che
verranno persuase quanto più questi fatti possiedono una forza logica. Spesso gli individui
trasformano ciò che ascoltano, ripensando accuratamente ed elaborando il contenuto della
comunicazione; a ciò si da il nome di via centrale della persuasione. In altre condizioni, le persone
non sono invece motivate a fare attenzione ai fatti, e colgono solo le caratteristiche superficiali del
discorso, quali la sua lunghezza o chi invia il messaggio. In questo caso a nulla servirà la logica del
ragionamento, in quanto le persone non stanno prestando sufficiente attenzione a ciò che l’emittente
sta dicendo. Esse verranno persuase nella misura in cui le caratteristiche superficiali del messaggio
lo fanno apparire ragionevole. Petty e Cacioppo chiamano questo tipo di elaborazione via periferica
della persuasione per cui gli individui vengono guidati da aspetti periferici e non dal contenuto del
messaggio. Secondo Petty , Cacioppo e Chaiken, il fattore cruciale è la motivazione e la capacità di
prestare attenzione ai fatti. Nella misura in cui le persone hanno un autentico interesse per
l’argomento e sono pertanto motivate a prestare attenzione ai ragionamenti, è più probabile che
adottino la via centrale. Un fattore fondamentale che motiva le persone a fare attenzione ad una
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comunicazione è la rilevanza personale dell’argomento, più precisamente il grado in cui esso
produce conseguenze importanti per il benessere dell’individuo. Quanto più una questione ha
rilevanza personale, tanto più le persone saranno disposte a prestare attenzione ai ragionamenti
implicati in un discorso e a seguire quindi la via centrale della persuasione. Quando una questione
ha rilevanza personale, gli individui sono disposti a prestare attenzione ai ragionamenti contenuti in
un discorso e verranno persuasi nella misura in cui essi sono ben argomentati, quando una
questione, invece, ha scarsa rilevanza, le persone non sono motivate a prestare attenzione ai
ragionamenti: adottano al contrario una scorciatoia mentale che le porta a seguire regole periferiche.
In aggiunta alla rilevanza personale di una questione, le persone saranno motivate a prestare
attenzione a un discorso a seconda della loro personalità. Chi si diletta a ragionare con precisione
più di altri, si trova ad avere un alto bisogno di cognizione; queste persone formano con più
probabilità i loro ragionamenti più rilevanti, ovvero mediante la via centrale, mentre le persone che
provano un basso bisogno di cognizione si affidano più verosimilmente a indizi periferici. Una
comunicazione persuasiva, quindi, può cambiare gli atteggiamenti delle persone secondo il percorso
centrale o quello periferico. Le persone che fondano i loro atteggiamenti su un’analisi accurata dei
ragionamenti hanno maggiori probabilità di conservarli nel tempo, di comportarsi in coerenza con
essi e di opporre maggiore resistenza alla persuasione contraria, rispetto invece agli individui che
motivano i loro atteggiamenti con indizi periferici. Qualora il nostro obiettivo sia creare un
cambiamento di atteggiamenti permanente, abbiamo bisogno di ragionamenti forti e di indurre le
persone ad esaminarli e soppesarli in modo da seguire la via centrale della persuasione. Un simile
approccio può funzionare, ma presenta un’inconveniente: prima che le persone prendano in
considerazione i nostri ragionamenti, dobbiamo ottenere la loro attenzione, un modo per fare ciò
può essere giocando sulle loro emozioni. Una conseguenza interessante dell’appello emotivo è che
così facendo si può determinare se le persone presteranno attenzione al contenuto di un discorso
(via centrale) o adotteranno scorciatoie mentali (via periferica). Studi hanno dimostrato che il
buonumore riduce la motivazione e la capacità delle persone a fare attenzione al ragionamento
implicato in un messaggio, e favorisce la tendenza ad adottare la via periferica di persuasione, la
tristezza o la neutralità, invece, ci porteranno ad utilizzare con più probabilità la via centrale e ad
analizzare dettagliatamente ogni ragionamento. Per quanto riguarda la paura bisogna fare un
ragionamento separato dal momento che spaventare la gente è proprio una delle tecniche più usate
per indurle a cambiare atteggiamenti, occorre, quindi, chiedersi se le comunicazioni che inducono
paura funzionino realmente. La risposta risiede nel grado in cui la paura influenza la capacità delle
persone di prestare attenzione e di elaborare i ragionamenti di un messaggio. Se si crea una dose
moderata di paura e le persone ritengono che ascoltare il messaggio sarà utile per ridurla, allora
saranno motivate ad analizzarlo con correttezza, modificando il loro atteggiamento mediante la via
centrale, invece, se si crea una dose di paura eccessiva e se le persone si sentono terrorizzate dalla
morte, queste assumeranno un atteggiamento di difesa, negheranno l’importanza della minaccia e
saranno incapaci di pensare in maniera razionale il problema. Le emozioni possono, quindi,
provocare un cambiamento di atteggiamento in quanto ci segnalano le nostre sensazioni rispetto ad
un determinato problema. Secondo il modello della persuasione euristico-sistematico di Chaiken ,
quando le persone adottano la via periferica della persuasione impiegano spesso una forma
euristica. Le nostre emozioni e stati di animo possono fungere da euristica che viene a determinare i
nostri atteggiamenti. Quando cerchiano di decidere quale sia il nostro atteggiamento verso qualcosa,
spesso ci affidiamo all’euristica e, quindi, se ci sentiamo bene il nostro atteggiamento sarà positivo,
mentre se abbiamo sensazioni spiacevoli il nostro atteggiamento sarà negativo. Il più delle volte
questa è una buona regola da seguire, ma il problema è che spesso risulta difficile dire da dove
provengano le nostre sensazioni. Il difetto di questa euristica è proprio che possiamo commettere
degli errori circa le cause del nostro stato d’animo. Finora abbiamo preso in esame il modo in cui le
comunicazioni persuasive e le emozioni influenzano in generale il cambiamento di atteggiamento.
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Una questione che ci resta da considerare è se il successo delle differenti tecniche di cambiamento
dell’atteggiamento dipende dal tipo di atteggiamento che stiamo cercando di modificare, infatti,
ogni atteggiamento ha una creazione diversa: qualcuno si basa maggiormente su delle credenze
relative all’oggetto dell’atteggiamento, mentre altri si fondano soprattutto sulle emozioni e sui
valori. Shavitt scoprì che le persone hanno tipi differenti di atteggiamenti verso differenti generi di
prodotti. Nelle varie culture le persone mostrano delle differenze del concetto di sé probabilmente
esse influenzano i tipi di atteggiamenti assunti dalle persone e di conseguenza anche il modo in cui
questi cambiano. Le culture occidentali tendono a sottolineare il senso di indipendenza e di
individualismo, mentre molte culture asiatiche enfatizzano quello di interdipendenza e
collettivismo. Han e Shavitt ipotizzarono che simili differenze nel concetto di sé potessero riflettere
tipi diversi di atteggiamenti che le persone hanno verso i prodotti: probabilmente le persone della
cultura occidentale fondano i loro atteggiamenti più sulle preoccupazioni per l’individualità ed il
miglioramento di sé, mentre quelle appartenenti alle culture asiatiche sono più preoccupate per la
loro posizione nel proprio gruppo sociale. In tal caso, le pubblicità che enfatizzano il senso di
individualità ed il miglioramento di sé funzionerebbero meglio nella cultura occidentale, mentre
quelle mirate sul senso di appartenenza al proprio gruppo sociale potrebbero avere successo in una
cultura asiatica. In generale, quindi, le pubblicità funzionano meglio se vengono adattate al tipo di
atteggiamento che cercano di cambiare. Al di là delle differenze fra le varie culture, anche
all’interno di una stessa cultura alcuni atteggiamenti sono a base prevalentemente cognitiva, altri a
base prevalentemente emotiva. Un lato curioso della pubblicità è che la maggior parte delle persone
ritiene che funzioni su tutti tranne che su se stessi. Questa credenza è smentita da sostanziose prove
sul funzionamento della pubblicità. Certo la pubblicità non ci induce ad andare tutti in massa in un
negozio a comprare il prodotto pubblicizzato, ma è pur vero che quando il prodotto viene
reclamizzato le vendite salgono. Le pubblicità efficaci funzionano in fretta, portando ad un aumento
delle vendite già nei primi sei mesi dalla loro messa in onda. Per far si che una pubblicità funzioni i
pubblicitari dovrebbero prendere in considerazione il tipo di atteggiamento che cercano di
modificare. Se si tratta di un atteggiamento a base emotiva dovranno contrastare emozioni con altre
emozioni, se, invece, si tratta di un atteggiamento a base cognitiva dovranno domandarsi quale sia
la rilevanza personale della questione cioè se essa produce conseguenze importanti nella vita
quotidiana degli individui, o se invece si tratta di qualcosa che non li coinvolge direttamente. Un
possibile problema che sorge è il fatto di avere un atteggiamento a base cognitiva che non è di
diretta rilevanza personale, e questo causa una minore attenzione delle persone al messaggio
pubblicitario. Il successo si può ottenere tramite la via periferica, ad esempio facendo apparire dei
personaggi famosi come protagonisti. Il problema connesso è che il cambiamento di atteggiamento
che viene provocato da semplici indizi periferici non dura a lungo. È difficile reclamizzare un
prodotto che non coinvolge la sfera emotiva delle persone e che non ha rilevanza diretta per la loro
vita quotidiana . Esiste sempre una soluzione: il trucco è rendere i prodotto di rilevanza personale
cioè le pubblicità che adottano questo genere di trucco funzionano convincendo le persone che i
loro problemi personali possono essere risolti dal prodotto reclamizzato. Altra caratteristica della
pubblicità è quella di usare messaggi subliminali. L’uso di tali messaggi (visivi/sonori) che vengono
definiti come delle parole o immagini che, seppure non percepiti consciamente, possono
influenzare il giudizio, gli atteggiamenti ed i comportamenti delle persone a livello inconscio. Non
esiste alcuna prova che il tipo di messaggi subliminali impiegati nella vita quotidiana produca alcun
effetto sul comportamento delle persone, mentre è dimostrato che ne produce nelle ricerche di
laboratorio controllate. Viene da chiedersi, quindi, se di fronte ai numerosi metodi disponibili per
modificare in maniera intelligente i nostri atteggiamenti, ci si possa sentire al sicuro dalle
comunicazioni persuasive. Esistono in realtà strategie altrettanto intelligenti che ci permettono di
resistere ai bombardamenti dei messaggi persuasivi. Un possibile approccio è indurre le persone a
soppesare gli argomenti a favore o contro il loro atteggiamento prima che esso venga messo in
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discussione da qualcuno, maggiore sarà il tempo dedicato a questa attività preliminare, migliore
sarà la capacità degli individui di respingere gli attacchi che mirano a modificare la loro opinione
mediante degli argomenti logici. Una dimostrazione di ciò venne fatta da McGuire tramite l’uso
dell’inoculazione di un atteggiamento la cui idea base era quella che se si voleva impedire alle
persone di venire influenzate da un discorso persuasivo, occorreva prima inoculare in loro una
piccola dose degli argomenti che avrebbero in seguito ascoltato. Dopo averli soppesati in anticipo, i
soggetti avrebbero dovuto risultare relativamente immuni dagli effetti dea comunicazione, un po’
come se li si fosse vaccinati. Oltre, però, a vaccinare le persone con dosi di argomenti logici,
potremmo anche somministrare loro degli esempi di tipo emotivo in cui potrebbero imbattersi.
Occorre, però, sottolineare che non bisogna esagerare quando si cerca di vaccinare le persone dagli
assalti ai loro atteggiamenti, perché esercitare divieti assoluti, genera il rischio di un effetto
boomerang pari alla forza del divieto, causando un aumento dell’interesse per l’attività proibita e
questo perché secondo la teoria della reattanza le persone non amano sentire minacciata la loro
libertà di fare o pensare una cosa. Il cambiamento di atteggiamento deve la sua importanza alla
relazione tra gli atteggiamenti ed il comportamento reale delle persone. Sono in molti a fare
affidamento sul fatto che le proprie azioni sono coerenti con gli atteggiamenti, eppure la reazione
fra atteggiamenti e comportamento non è così immediata. Gli atteggiamenti fanno realmente
prevedere il comportamento, ma solo in determinate situazioni, un fattore cruciale è sapere se i
comportamento che stiamo cercando di prevedere è spontaneo oppure deliberato e pianificato. Il
grado in cui gli atteggiamenti fanno prevedere i comportamenti spontanei dipende dalla loro
accessibilità cioè la forza con cui un oggetto viene associato al nostro atteggiamento. Quando
l’accessibilità è alta, il nostro atteggiamento ci viene in mente ogni volta che incontriamo
quell’oggetto, mentre se è bassa tale evocazione avviene più lentamente. Ne consegue che
atteggiamenti altamente accessibili avranno maggiori probabilità di far prevedere i comportamenti
spontanei, poiché le persone molto probabilmente, quando vengono chiamate all’azione, sono colte
nell’atto di pensare al loro atteggiamento. In condizioni, invece, nelle quali il nostro comportamento
non è spontaneo ma volontario e pianificato, l’immediata accessibilità di un nostro atteggiamento
riveste minore importanza. Se gli individui hanno a disposizione tempo sufficiente per ponderare
una questione, anche quelli con atteggiamenti non accessibili riusciranno ad evocare le proprie
emozioni. È solo quando dobbiamo decidere come agire sul momento che l’accessibilità diventa
rilevante. La teoria più conosciuta sulla previsione dei comportamenti volontari a partire dagli
atteggiamenti è quella dell’azione ragionata secondo cui in presenza di un tempo sufficiente per
soppesare un comportamento futuro, il modo migliore per prevederlo è considerare l’intenzione di
agire in un certo modo, ovvero delle azioni pianificate e deliberate che non rispondono al concetto
di accessibilità. Oltre, però, al compito di misurare gli atteggiamenti verso un comportamento,
bisogna anche valutare le norme soggettive delle persone, ovvero le loro credenze su come le
persone care giudicheranno un certo comportamento. Al fine di prevedere le intenzioni di qualcuno,
conoscere queste credenze può essere decisivo.
Capitolo 8 : Il conformismo e l’influenza del comportamento
Possiamo definire il conformismo come un cambiamento di comportamento dovuto all’influenza
reale o immaginata degli altri. Le informazioni sono uno dei prodotti fondamentali della nostra
interazione con gli altri. In numerose situazioni quotidiane ci sentiamo insicuri su cosa fare o
pensare. Non abbiamo i dati sufficienti per fare una scelta buona e precisa. Per nostra fortuna
disponiamo di una potente ed utile fonte di conoscenze: il comportamento degli altri. Chiedere alle
altre persone che cosa stiano facendo o vedere che cosa fanno ci aiuta a definire una situazione.
Quando in seguito ci comportiamo come tutti gli altri, scegliamo il conformismo non perché siamo
degli essere smidollati senza fiducia in noi stessi, ma perché il comportamento degli altri è fonte di
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informazioni: esso definisce una situazione ambigua a nostro favore e ci aiuta a scegliere le azioni
appropriate. A ciò si è dato il nome di influenza sociale informazionale. Una caratteristica
fondamentale di tale influenza è che essa può condurre all’accettazione privata, in cui gli individui
arrivano a credere alla definizione della situazione che hanno appreso dagli altri e nella vita
quotidiana si verificano numerose situazioni in cui ci si affida agli altri per definire che cosa stia
accadendo. L’influenza sociale informazionale fa certamente parte della vita quotidiana, essa
tuttavia ci riguarda anche in maniera ancor più drammatica quando le persone hanno una
conversione, ovvero un cambiamento improvviso del significato delle loro esistenze basato su
nuove conoscenze che hanno ricevuto da un gruppo. LeBon fu il primo studioso a documentare
come emozioni e comportamenti possano diffondersi senza alcun controllo apparente in una folla ,
secondo un effetto che egli chiamò contagio. Ogni volta che un individuo si imbatte in una
situazione autenticamente ambigua, è probabile che si affiderà all’interpretazione fornita dagli altri.
Purtroppo, può darsi che in una tale situazione, ambigua e confusa, neppure gli altri siano più
informati o precisi di noi. Se le altre persone sono male informate, finiamo con il ripetere i loro
stessi errori. La nostra dipendenza dagli altri come aiuto per definire una situazione può a volte
causare una valutazione imprecisa. Un esempio estremo di influenza sociale informazionale mal
diretta è la malattia psicogena di massa ovvero l’insorgere di sintomi fisici simili in un gruppo di
persone, privi di una vera causa. L’aspetto più interessante dei casi moderni di malattia psicogena di
massa è il grande ruolo giocato dai mass media nella loro diffusione, con il loro aiuto
l’informazione viene disseminata rapidamente ed efficacemente lungo tutti gli strati della
popolazione. Quando non siamo certi di quale sia la risposta giusta, il comportamento adeguato o
l’idea migliore, diveniamo più sensibili all’influenza degli altri. Quanto più siamo incerti, tanto più
faremo affidamento sugli altri. Quando la situazione è una crisi, di solito non abbiamo il tempo per
fermarci a pensare quale sia la migliore azione da eseguire. Dobbiamo agire e subito. Se ci sentiamo
spaventati ed in preda al panico, insicuri su cosa fare, è naturale che ci mettiamo a guardare come
stiano reagendo gli altri, e fare similmente. Il problema è che anche le persone che imitano possono
essere spaventate e pertanto impossibilitate a comportarsi in maniera razionale. Di norma quanto
più una persona appare esperta o al corrente di una questione, tanto più viene ritenuta guida valida
in una situazione ambigua. Gli esperti, tuttavia, non sono sempre fonti di informazione affidabili.
Fare affidamento sugli altri per definire gli eventi in corso può essere un’idea eccellente, ma anche
un’autentica catastrofe. Una ragione dell’importanza della decisione se adottare o meno il
conformismo è che essa influenza il modo in cui le persone definiscono la realtà. Se decidiamo di
accettare la definizione della situazione fornita dagli altri, giungeremo anche a vedere il mondo
secondo il loro punto di vista; se, invece, decidiamo di rifiutarla, riusciremo ad arrivare ad una
visione completamente diversa. Dobbiamo sempre tenere presente che le reazioni degli altri ad una
determinata situazione siano più legittime delle nostre, dal momento che la nostra decisione di
conformarci influenza non solo il nostro comportamento, ma anche la nostra interpretazione della
realtà. Chiediamoci, quindi, se gli altri hanno più conoscenze di noi, se le loro azioni sembrano
ragionevoli, se sono degli esperti e se imitarli possa sembrarci in contrasto con il buonsenso o con il
nostro codice morale. La consapevolezza dell’operato dell’influenza sociale informazionale nella
vita quotidiana ci permette di capirne meglio la sua maggiore o minore utilità. Esiste, però, un’altra
ragione, oltre al bisogno di informazioni, che ci spinge verso il conformismo solo per il desiderio di
essere graditi ed accettati dagli altri. Ci conformiamo così alle norme sociali del gruppo, che sono
regole implicite che dettano quali siano i comportamenti, i valori e le credenze accettabili. I gruppi
hanno determinate aspettative sui futuri comportamenti dei loro membri, ed i membri vi si
conformano a pieno titolo. Chi non lo fa viene percepito come diverso, difficile e infine deviante. I
membri devianti possono essere presi in giro, puniti e perfino respinti dagli altri membri del gruppo.
Per loro natura gli essere umani sono una specie sociale. Mediante le interazione con gli altri,
riceviamo sostegno emotivo, affetto e amore, e prendiamo parte ad esperienze piacevoli. Gli altri
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hanno una straordinaria importanza per il nostro senso di benessere. La ricerca svolta su individui
che sono stati isolati per lungo tempo indica che la privazione del contatto umano provoca stress ed
angoscia. Di fronte a questo bisogno umano fondamentale di compagnia, non sorprende che spesso
ci conformiamo per essere accettati dagli altri. Il conformismo per ragioni normative si verifica in
situazioni nelle quali facciamo le stesse azioni degli altri non perché li stiamo usando come fonte di
informazione, ma perché non vogliamo destare attenzione, essere presi in giro o rifiutati. Ci
conformiamo per potere continuare a restare nel gruppo e trarre i benefici dell’appartenenza,
secondo il principio dell’influenza sociale normativa. Questo atteggiamento non è sorprendente
qualora si tratti di decisioni minime. Il discorso cambia se si tratta di generi più importanti di
comportamento, come fare del male ad una persona. In questi casi viene da pensare che
opporremmo sicuramente resistenza alle pressioni conformiste. Molte volte, però, le persone pur
sapendo di compiere un’azione sbagliata la perseguono per non doversi sentire degli eccentrici o
degli sciocchi, in altre parole, le persone concordano con il gruppo pur non credendo in ciò che
stanno facendo o addirittura ritenendolo sbagliato perché non vogliono incorrere nella
disapprovazione sociale. Un modo di osservare il potere delle pressioni sociali normative è vedere
cosa succede quando gli individui riescono a resistervi. L’influenza sociale normativa si riscontra a
più livelli nella vita quotidiana, infatti, essa è all’opera ogni volta che osserviamo un look condiviso
da più persone in un determinato gruppo o a livello più estremi quando le ragazze cercano di
conformarsi alle definizioni culturali di bellezza fisica. Le persone non sempre cedono alla
pressione dei loro compagni, nonostante il conformismo sia un dato comune. La possibilità con cui
le persone rispondono all’influenza sociale proveniente dagli altri dipendono da tre variabili: la
forza, ovvero il grado di importanza che il gruppo ha per noi, l’immediatezza, ovvero il grado di
vicinanza nel tempo e nello spazio che il gruppo ha nei nostri confronti durante il tentativo di
influenza, e il numero cioè quante persone si trovano nel gruppo. La teoria dell’impatto sociale
prevede che il conformismo sarà tanto più presente quanto più aumentano la forza e
l’immediatezza. È ovvio che maggiore è l’importanza e la presenza di un gruppo ai nostri occhi,
maggiore è la probabilità che ci conformeremo alle sue pressioni normative. La teoria dell’impatto
sociale spiega il conformismo a ogni genere di influenza sociale. L’influenza sociale normativa è
più forte quando ogni membro del gruppo dice o crede nella stessa cosa. Resistere a una simile
influenza sociale unanime può essere arduo, se non impossibile, a meno che non si trovi un alleato,
un’altra persona che sia in disaccordo con il gruppo e che con il suo comportamento fornisca un
aiuto per andare controcorrente. Le persone non sempre si conformano nel tempo e in diverse
situazioni nella maniera in cui farebbero se fosse solo la loro personalità a influenzare il
comportamento, infatti, anche la situazione condiziona il comportamento, sicchè in alcune
situazioni le persone si conformano, in altre no, indipendentemente dal tipo di persone che sono.
Non sempre l’influenza sociale normativa risulta utile ed adeguata, il modo migliore per evitare di
seguire le norme sociali errate è divenire consapevoli di ciò che stiamo facendo. Fermarsi a
considerare con cura se la norma che sembra essere operante sia realmente la più giusta da
rispettare, ci aiuterà a riconoscere con più probabilità i casi in cui non lo è. Il cambiamento, però,
può essere indotto anche da una minoranza che influenza la maggioranza, questo fenomeno va sotto
il nome di influenza della minoranza. L’influenza della minoranza funziona se la minoranza da
voce a un’opinione coerente ed inflessibile in modo che la maggioranza ne prenda nota ed arrivi
addirittura ad adottarla. Importante è notare che le persone appartenenti alla maggioranza possono
indurre gli altri membri al conformismo mediante l’influenza normativa, mentre le persone
appartenenti alla minoranza raramente hanno la possibilità di influenzare gli altri mediante
l’influenza normativa. Le minoranze esercitano l’influenza sul gruppo tramite l’influenza sociale
informazionale. Raramente ci fermiamo a considerare con attenzione ogni singola interazione
sociale che abbiamo: è molto più semplice seguire la norme sociali in maniera rapida ed automatica.
Quando le persone seguono simili norme automaticamente, diciamo che hanno adottato un
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conformismo insensato cioè stanno seguendo una norma senza pensare a ciò che stanno facendo o al
perché lo stiano facendo, insomma agiscono come se avessero inserito il pilota automatico. Questo
tipo di conformismo ci procura un grande vantaggio, infatti, noi non potremmo andare avanti se
dovessimo fermarci a pensare come rispondere ad ogni specifica situazione sociale. Nella maggior
parte dei casi, le norme sociali che seguiamo automaticamente ci fanno comportare in maniera
adeguata, ma non sempre è così, infatti, molto spesso quando inseriamo il pilota automatico senza
monitorare le nostre azioni finiamo con l’agire in maniera inappropriata. Esiste un altro genere di
conformismo che può produrre conseguenze ben più gravi, se non addirittura tragiche, e si verifica
quando obbediamo agli ordini, dati da una figura autoritaria. (studi di Milgram studenti/scossa
elettrica). Oltre al conformismo esistono altre tecniche grazie alle quali si riesce a far fare alle
persone ciò che si vuole. Le due tecniche principali, utilizzate soprattutto da ci opera nel
commercio, sono: la tecnica della porta in faccia e la tecnica del piede nella porta. La tecnica della
porta in faccia consiste nel fare una prima richiesta intenzionalmente spropositata così da indurre
gli altri ad un ovvio rifiuto e nel farne seguire , poi, una seconda decisamente minore così da indurre
il soggetto ad accondiscendere a questa; tale tecnica ha successo perché essa segue la norma di
reciprocità secondo cui dobbiamo ricambiare le azioni gentili fatte dagli altri, tale norma viene
evocata allorché la persona abbandona la richiesta esagerata per una più moderata, esercitando una
pressione sull’altro che in tal modo ricambia attenuando la propria posizione. Uno svantaggio della
tecnica della porta in faccia è che essa ha un’esistenza breve, perché una volte che le persone hanno
accettato la richiesta minore, hanno soddisfatto il loro obbligo di incontrare a metà strada l’altro, e
pertanto è improbabile che acconsentano ad ulteriori richieste. Se , invece, si vuole un’obbedienza a
lungo termine, è preferibile usare l’approccio definito tecnica del piede nella porta, questa tecnica è
l’esatto opposto della tecnica del piede nella porta, infatti in questo caso si inizierà con una richiesta
decisamente moderata che quasi tutti soddisferanno e poi si continuerà con richieste maggiori.
Questa tecnica differisce da quella della porta in faccia per un’importante ragione: invece di riferirsi
alla norma di reciprocità, essa scatena una sorta di influenza sociale informazionale, in cui le
persone ottengono delle informazioni tramite l’acquiescenza alla prima richiesta.
Capitolo 9 : Processi di gruppo: l’influenza nei gruppi sociali
Si può definire gruppo l’unione di due o tre persone che si trovano in uno stesso posto nello stesso
momento. Secondo questa definizione, non occorre che le persone interagiscano fra loro perché
siano considerate un gruppo: si richiede solo che si trovino rispettivamente in presenza l’uno
dell’altro, questo tipo di gruppo in cui si è circondati da altri con cui tuttavia non si interagisce
viene chiamato gruppo non sociale. Sebbene gli effetti dei gruppi non sociali abbiano un loro
interesse, di norma gli psicologi sociali, quando definiscono i gruppi, intendono qualcosa di più
complicato di un mucchio di persone che si trovano casualmente ad occupare lo stesso spazio. I
gruppi sociali sono definiti come un insieme di due o più persone che interagiscono reciprocamente
e sono interdipendenti, nel senso che sono spinti dai propri bisogni ed obiettivi ad affidarsi l’uno
all’altro ed a influenzare reciprocamente il comportamento. Trovarsi in presenza di altri può
produrre una gamma di interessanti effetti sul nostro comportamento. Molte volte la semplice
presenza degli altri può condizionare le prestazioni degli individui anche se il soggetto non
interagisce con gli altri cioè essi semplicemente si trovano nella stessa stanza cioè costituiscono un
gruppo non sociale, a questo tipo di condizionamento si da il nome di facilitazione sociale. Da
numerosi studi sulla facilitazione sociale si è notato che finchè il compito è relativamente semplice
e facile da apprendere, la prestazione viene migliorata dalla presenza degli altri, mentre se il
compito è relativamente difficile, tanto gli esseri umani quanto gli animali hanno prestazioni
peggiori in presenza di altri. Zajonc offrì un’elegante spiegazione teorica della ragione per cui la
presenza degli altri favorisce una risposta di facile apprendimento, ovvero dominante, ed al
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contrario inibisce una risposta nuova con cui si abbia meno confidenza. Il suo ragionamento
distingue due fasi: nella prima, la presenza degli altri aumenta l’eccitazione psicologica, ovvero il
modo in cui il nostro corpo si carica di energia, mentre nella seconda, in presenza di una simile
eccitazione, risulta più facile fare cose semplici e più difficile compiere un’azione complicata o
impararne una nuova. Tutto dipende dal fatto che un’azione risulti o meno nuova per noi. La
semplice presenza degli altri genera eccitazione e la nostra prestazione viene facilitata se si tratta di
un compito facile o che si è appreso a dovere. Sono state avanzate tre teorie per spiegare il ruolo
dell’eccitazione nella facilitazione sociale: la prima teoria dice che la presenza degli altri ci
costringe ad essere più attenti, la seconda teoria si concentra , invece, sul fatto che gli esseri umani
nutrono spesso preoccupazioni diverse circa la presenza degli altri, una di queste riguarda ciò che
gli altri pensano di noi. La terza teoria è centrata sul grado di distrazione che gli altri possono
rappresentare per noi. La creazione di eccitazione tramite la presenza degli altri ha più di una
ragione, mentre restano identici gli effetti: quando gli individui si trovano in mezzo ad altre
persone, svolgono meglio i compiti facili che hanno appreso a dovere, e peggio quelli complicati o
che richiedono l’apprendimento di cose nuove. Lo sforzo che una persona compie, sia quando è da
sola sia quando è in presenza di altri, risulta facile da riconoscere ed immediatamente riscontrabile.
Spesso, quando ci troviamo a lavorare con altri, tuttavia, siamo così concentrati a collaborare ad un
progetto comune, che i nostri sforzi non possono venire distinti da quelli delle altre persone del
nostro gruppo. Trovarsi con altre persone implica che possiamo mescolarci a quel gruppo e divenire
meno visibili e questo ci fa essere più rilassati. Nessuno può giudicare le nostre prestazioni, e quindi
dovremmo avvertire in misura minore l’apprensione per la valutazione. Latanè , Williams e Harkins
diedero alla riduzione dello sforzo individuale all’interno del gruppo il nome di inerzia sociale. Un
modo per scoprire fino a che punto l’inerzia sociale sia dovuta al rilassamento derivante dalla
sensazione che la propria prestazione non verrà giudicata, consiste nel disporre degli individui in un
gruppo ed al contempo rendere possibile un giudizio sulla prestazione di ognuno. In simili
condizioni dovrebbe riaffiorare l’apprensione per la valutazione, eliminando così l’inerzia sociale.
L’inerzia sociale è più forte negli uomini che nelle donne. Queste ultime, infatti, tendono a
concentrarsi soprattutto sull’elemento collettivo, interessandosi maggiormente al benessere degli
altri membri del gruppo. Gli uomini, d’altro lato, tendono ad essere maggiormente individualisti,
concentrandosi soprattutto sulla propria prestazione e meno sul gruppo. Occorre tuttavia non
esagerare tali differenze, dal momento che si sono trovate prove di pigrizia sociale tanto in entrambi
i sessi, quanto in tutte le culture. Resta il fatto che l’inerzia sociale si avverte più sensibilmente
negli uomini delle culture occidentali. Sembra che il bene del gruppo risulti più importante agli
occhi delle donne e dei membri di culture collettivistiche che a quelli degli uomini e dei membri
delle culture individualistiche. Riassumendo, se vogliamo sapere se la presenza degli altri risulterà
un fattore negativo o positivo per la nostra prestazione, dobbiamo prima conoscere due dati, ovvero
se i nostri sforzi individuali possono essere giudicati e se il compito è semplice o meno. Se la nostra
prestazione può essere valutata, la presenza degli altri provocherà in noi maggiore attenzione ed
eccitazione, conducendoci agli effetti della facilitazione sociale, in cui si ottengono risultati migliori
in compiti semplici e peggiori in quelli complessi. Se, invece, i nostri sforzi non possono essere
giudicati, è più probabile che avvertiremo rilassamento, con tutti gli effetti dell’inerzia sociale, per
cui si ottengono dei risultati peggiori in compiti semplici e migliori in quelli complessi. Rendere
comunque le persone anonime può tuttavia provocare altre conseguenze. Trovarsi in un gruppo può,
comunque, generare anche deindividuazione, definita come la sensazione di esseri anonimi e
caratterizzata da una riduzione del senso di individualità. Queste sensazioni provocano un
allentamento dei limiti normalmente posti a nostro comportamento, fino al produrre un aumento di
azioni impulsive, inconsuete e devianti. Non tutti gli atti impulsivi, tuttavia, sono negativi o
violenti. Perdersi nella folla, in altre parole, può indurci a comportamenti che non avremmo mai
sognato di seguire da soli. Due cause sono fondamentali per la deindividualizzazione in primo
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luogo la presenza degli altri fa sentire meno responsabili delle proprie azioni, in quanto riduce le
probabilità che si possa isolare e punire un individuo. Una seconda causa della
deindividualizzazione è che la presenza degli altri diminuisce la consapevolezza di sé, distraendo
così l’attenzione delle persone dai loro criteri morali. La deindividualizzazione, quindi, ha maggiori
probabilità di verificarsi quando gli individui avvertono di non essere responsabili delle loro azioni,
quando cioè hanno poche possibilità di essere sorpresi, e quando si trovano in uno stato di ridotta
consapevolezza di sé. Nella maggior parte dei casi, però, quando ci troviamo in un gruppo non ci
limitiamo ad osservarci reciprocamente in modo passivo, al contrario socializziamo, ci mischiamo,
fraternizziamo, prendiamo decisioni e discutiamo. In breve, interagiamo. Ciascuno di noi appartiene
contemporaneamente a diversi gruppi, ognuno di essi funziona come un gruppo sociale, in quanto ci
troviamo ad interagire con gli altri membri ed a essere interdipendenti con loro, nel senso che esiste
una reciproca influenza fra noi e loro. La ragione per cui le persone si uniscono a gruppi sociali è
che entrare in relazione con gli altri soddisfa molti bisogni umani così fondamentali da fare pensare
ad un senso innato di appartenenza ad un gruppo sociale. I gruppi diventano un tassello importante
della nostra identità, e ci aiutano a definire chi siamo. Essi stabiliscono, inoltre, le norme sociali,
ovvero le norme implicite o esplicite che definiscono quali siano i comportamenti accettabili. I
gruppi sociali hanno dimensioni variabili che possono andare dalle due persone a non più di venti e
questo si spiega facilmente grazie alla definizione che mette in risalto la caratteristica di tali gruppi
cioè l’interazione esistente tra i vari membri del gruppo. Se i gruppi si allargano esageratamente
diviene impossibile interagire con tutti i membri del gruppo. Un’altra importante caratteristica dei
gruppi sociali è che i membri tendono ad essere simili per età, sesso e credenze. Due sono le ragioni
dell’omogeneità all’interno dei gruppi: la prima è che numerosi gruppi tendono ad attrarre le
persone che sono già simili fra loro prima che si uniscano; la seconda è che i gruppi tendono ad
operare secondo modalità che incoraggiano la somiglianza tra i loro membri. Ogni società ha le sue
norme concernenti i comportamenti accettabili, le norme sociali sono potenti determinanti del
nostro comportamento. La maggior parte dei gruppi possiedono inoltre dei ruoli ben definiti, i ruoli
specificano come si debbano comportare le persone che occupano determinate posizioni nel gruppo.
Al pari delle norme sociali, i ruoli facilitano l’interazione sociale, permettendo agli individui di
sapere cosa debbano aspettarsi l’uno l’altro. I ruoli sociali comportano due importanti prezzi da
pagare: in primo luogo, essi sono capaci di modellare il comportamento delle persone in maniera
potente ed impressionante, il secondo inconveniente proprio dei ruoli sociali è che bisogna pagare
un prezzo per ogni volta che si agisce in maniera incoerente con le attese ad essi associate. In ogni
gruppo è provato che debba esistere un leader. La teoria della grande persona serve per dimostrare
come alcuni tratti fondamentali della personalità fanno di una persona un buon leader, impedendo lo
stesso a chi ne è privo; se questa teoria risultasse vera, dovremmo essere in grado di isolare questi
tratti di personalità; occorre, però, prendere in considerazione anche a situazione sociale.
L’inadeguatezza della teoria della grande persona non implica che i tratti di personalità non abbiano
alcuna pertinenza con una buona leadership. Dobbiamo, invece, considerare tanto la natura del
leader quanto la situazione in cui si trova a guidare gli altri. Secondo questa visione della
leadership, non basta essere una grande persona: bisogna essere anche la persona giusta la momento
giusto nella situazione giusta. Diverse teorie della leadership si sono di recente focalizzate sulle
caratteristiche del leader, i suoi seguaci e la situazione. La più conosciuta fra queste teorie è a teoria
della contingenza elaborata da Fiedler, nella quale si ipotizza che esistano due generi di leader: il
leader orientato al compito, che si interessa soprattutto a che le cose vengano fatte, e il leader
orientato alle relazioni, che si concentra sui sentimenti e le relazioni fra i vari membri del gruppo. Il
punto debole di questa teoria è che nessuno dei due generi di leader si rileva in ogni caso più
efficace dell’altro: dipende dalla natura della situazione, in particolare dalla dose di controllo ed
influenza che un leader esercita sul gruppo. In situazioni di lavoro “ad alto controllo”, il leader
possiede ottime relazioni interpersonali con i suoi subordinati, ha una posizione che viene
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chiaramente percepita come forte, ed il lavoro che deve essere svolto dal gruppo è strutturato e ben
definito. Il contrario si verifica in situazioni di lavoro “a basso controllo”: il leader ha delle relazioni
insufficienti con i suoi subordinati, ed il lavoro non è ben definito. Una delle funzioni principali dei
gruppi è quella di risolvere problemi e prendere decisioni. Molte persone ritengono che due o più
teste siano sempre meglio di una sola. Il singolo individuo può andare soggetto ad ogni genere di
capricci o condizionamenti, mentre più persone possono scambiarsi le idee e raggiungere decisioni
migliori. Il fatto che il gruppo mostri una prestazione migliore dei singoli individui dipende dal tipo
di compito con cui ha a che fare. I compiti divisibili sono quelli che possono essere suddivisi in
diversi sottocompiti e quindi assegnati ai singoli membri di un gruppo. Naturalmente, la qualità
della prestazione di un gruppo verrà a dipendere dall’abilità con cui gli individui vengono assegnati
ai rispettivi sottocompiti. I compiti unitari sono, invece, quelli in cui è impossibile una divisione del
lavoro, in questo caso, la soluzione consiste nell’abilità con cui i risultati di ciascun membro
vengono combinati per produrre lo scopo del gruppo. Ciò dipende da un’ulteriore distinzione
all’interno dei compiti unitari: un compito aggiuntivo è quello in cui tutti i membri del gruppo
svolgono essenzialmente il medesimo lavoro ed in cui il prodotto finale, o prestazione di gruppo, è
la somma dei loro contributi. In un compito aggiuntivo, la prestazione del gruppo viene definita
dalle capacità del membro meno capace del gruppo, “l’anello debole della catena”. Di norma i
gruppi compiono prestazioni peggiori nei compiti congiunti rispetto ai singoli individui, in quanto il
membro più debole abbassa al proprio livello la prestazione del gruppo. Un tipo ancora più comune
è il compito disgiunto in cui la prestazione di gruppo viene definita dall’abilità con cui opera il suo
membro migliore. In generale i gruppi compiono prestazioni migliori se sono in grado di svolgere il
lavoro come compito disgiunto, tuttavia un gruppo all’opera in un compito disgiunto riuscirà ad
avere una buona prestazione solo se il membro più dotato è in grado di convincere gli altri di essere
nel giusto, il che non è sempre così semplice, vista la nostra generale riluttanza ad ammettere di
esserci sbagliati. A questo fenomeno Steiner diede il nome di perdita di processo definita come
qualsiasi aspetto di un’interazione di gruppo che impedisce la corretta soluzione di un problema. La
perdita di processo può verificarsi perché i gruppi non si accaniscono sufficientemente a trovare
quale sia il loro membro con maggiore competenza, perché questi occupa una posizione subordinata
e nessuno lo prende sul serio, o perché questi trova difficoltà a liberarsi dalle pressioni
conformistiche che scoraggiano ogni disaccordo con il gruppo intero. Fra le altre cause della perdita
di processo figurano i problemi comunicativi all’interno del gruppo. Un’altra ragione per cui il
gruppo non compie una prestazione migliore dei singoli individui, è che in qualche caso i suoi
membri non riescono a condividere reciprocamente le loro informazioni uniche, cioè quelle che solo
loro conoscono. Capita spesso che in un gruppo non ci sia un esperto di tutti gli aspetti del
problema. Se il gruppo vuole raggiungere la decisione migliore, deve mettere in comune tutte le
proprie risorse, in modo che ciascun membro possa condividere le sue conoscenze particolari con
gli altri. I gruppi spesso non riescono a soddisfare questa condizione basilare del processo
decisionale corretto. Stasser e colleghi hanno riscontrato che i gruppi tendono ad analizzare le
informazioni condivise da tutti i membri, piuttosto che a concentrarsi su quelle uniche o non
condivise. Janis sviluppò un’importante teoria dei processi decisionali di gruppo a cui diede il nome
di groupthink (pensiero di gruppo), ovvero il genere di pensiero in cui il mantenimento della
coesione e della solidarietà all’interno del gruppo ha maggiore importanza della considerazione
realistica dei fatti. Secondo questa teoria, il groupthink s verifica con più probabilità quando sono
soddisfatte alcune condizioni iniziali, quali il fatto che il gruppo mostra alta coesione, è isolato dalle
opinioni contrarie, ed è guidato da un leader che dirige i lavori e rende noti i suoi desideri. La
condizione di groupthink induce le persone ad implementare un processo decisionale scadente. Il
gruppo non prende in considerazione l’intera gamma di alternative, non congegna piani dettati dalla
contingenza, e non soppesa dovutamente i rischi della scelta preferita. La teoria di Janis postulava
che la coesione del gruppo aumenta il groupthink solo se sono soddisfatte alcune condizioni
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precedenti, quali la presenza di un leader che guida i lavori e la presenza di una situazione di alta
tensione. Sebbene in qualche caso i gruppi prendano decisioni sbagliate, di solito le loro scelte sono
meno rischiose di quelle fatte dal singolo individuo, i gruppi tendono a prendere decisioni che sono
più estreme ma nella medesima direzione delle predisposizioni iniziali dell’individuo e questo fatto
è noto come polarizzazione di gruppo, un’espressione che rende l’idea di come un gruppo renda
più estreme le decisioni iniziali delle persone: verso un rischio o una cautela maggiore se la
tendenza iniziale è nel segno del rischio o della cautela. La polarizzazione del gruppo ha luogo per
due ragioni principali: in accordo con l’interpretazione basata su ragionamenti persuasivi, tutti gli
individui apportano al gruppo una serie di argomentazioni, alcune delle quali gli altri possono non
avere considerato, che vanno a sostegno dei loro suggerimenti iniziali. Le persone collaborano per
risolvere dei problemi, in quelle situazioni in cui i membri del gruppo hanno obiettivi comuni.
Spesso, tuttavia, gli obiettivi sono incompatibili, e li pongono in conflitto reciproco. Non appena
due o più persone interagiscono, si crea la possibilità di un conflitto interpersonale. Secondo Freud,
addirittura, il conflitto è una conseguenza inevitabile della civiltà. Gli scopi ed i bisogni degli
individui spesso si scontrano con quelli degli altri esseri umani. Molti conflitti si risolvono in
maniera pacifica e senza alcun rancore. Nel nostro caso è importante analizzare il conflitto
interpersonale che è la tensione fra due o più individui, o gruppi, che hanno scopi incompatibilie
non il conflitto intrapersonale che è la tensione creata da scopi fra loro incompatibili all’interno di
un individuo. Il conflitto interpersonale può essere diviso in due tipi: conflitto a somma zero dove la
vittoria di una parte implica la sconfitta dell’altra (la ragione del termine somma zero è che se
raffiguriamo la ricompense delle persone in termini numerici, allora la somma di ciò che una parte
vince e l’altra perde è sempre uguale a zero) e conflitto a motivazione mista definito come qualsiasi
conflitto in cui entrambe le parti possono guadagnare qualcosa tramite la cooperazione, ma in cui
una parte può ottenere un guadagno maggiore se compete con l’altra (il termine motivazione mista
discende proprio dal fatto che le persone hanno due scelte possono competere o cooperare). I
conflitti a motivazione mista sono i più comuni nella vita quotidiana, essi sono anche i più
interessanti, in quanto non è così ovvio quale dovrebbe essere la risposta di ciascuna parte. Il
conflitto a motivazione mista contrappone il desiderio delle persone di badare al proprio interesse a
quello di pensare anche al proprio socio. Per aumentare la cooperazione possiamo anche cercare di
comunicare che ci fidiamo e che non sfrutteremo il nostro avversario. Una scelta migliore è la
strategia del dente per dente che comunica la possibilità a cooperare e l’indisponibilità a lasciarsi
sfruttare dall’altro che decide di non cooperare. La strategia del dente per dente ha ugualmente
successo nell’opera d indurre l’altro a reagire con una risposta di cooperazione e di fiducia. Spesso
quando ci troviamo presi in un conflitto siamo tentati di usare le minacce per costringere l’altra
parte a cedere ai nostri desideri. Una famosa serie di studi condotti da Deutsch e Krauss indica
tuttavia che le minacce non sono sempre un modo efficace di ridurre il conflitto. Importante, infatti,
è la comunicazione che risulta utile solo quando le persone imparano ad usarla in modo da stabilire
fiducia; la comunicazione è resa ancora più importante proprio dall’ampiezza dei modi possibili di
risolvere il conflitto. Le persone giungono così ad una decisione soddisfacente tramite il dialogo, la
contrattazione e la negoziazione. Si definisce negoziazione la forma di comunicazione fra le parti
opposte di un conflitto, in cui entrambe fanno delle offerte e delle controfferte, finchè si trova una
soluzione su cui convengono. Un limite al successo della negoziazione è che le persone spesso
pensano di essere in conflitto a somma zero, in cui solo una parte può uscire vincitrice; non
comprendono così che sono possibili soluzioni favorevoli ad entrambe le parti. Quando durante un
conflitto le due parti contrattano le questioni secondo la loro relativa importanza per ciascuna di
esse, si dà il nome di soluzione integrativa. Questo tipo di soluzione, però, anche se apparentemente
semplice non sempre è raggiungibile poiché non sempre gli individui preposti a tale compito
riescono a comprendere quali siano i reali interessi dei propri avversari. Quindi, quando si negozia
con qualcuno è importante ricordarsi che spesso sono possibili delle soluzioni integrative; occorre
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cercare di ottenere la fiducia dell’altro e di comunicare i propri interessi in maniera aperta,
consapevoli del fatto che il modo in cui noi interpretiamo una situazione non coincide
necessariamente con quello seguito dalla nostra controparte. Potremo così scoprire che, di
conseguenza, anche l’avversario comunica più esplicitamente i suoi interessi, aumentando le
possibilità di giungere ad una soluzione favorevole per entrambi. Insko e Schopler hanno scoperto
che gli individui agiscono con maggiore cooperazione rispetto a quanto facciano i gruppi, ciò
accade perché gli esseri umani sono più disposti a credere che un individuo nel suo intimo sia
incline a cooperare, e pertanto degno di fiducia, mentre la maggior parte dei gruppi, non appena ne
hanno l’opportunità, sono pronti a pugnalare alle spalle. I gruppi di persone danno giudizi più
precisi e sono più capaci di arrivare a delle soluzioni integrative rispetto ai singoli negoziatori.
Quando gli individui negoziano in squadre, devono raggiungere un consenso fra loro e con l’altra
parte. Di conseguenza, le squadre tendono a condividere le informazioni fra loro e con gli avversari,
aumentando le possibilità di scoprire soluzioni integrative.
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